Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbaiavano

Numero di risultati: 2 in 1 pagine

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Gambalesta

216223
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1947
  • Società Editrice Tirrena
  • Livorno
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Cani abbaiavano dalle case rustiche, dai pagliai; e silenzio di nuovo. Di faccia, illuminato dalla luna, con la gran cappa di neve, Mongibello ; e a Cuddu sembrava più piccolo di quanto lo vedeva dalla spianata davanti a casa sua, perché qui le colline impedivano di scorgerlo intero. Ora avevano lasciato lo stradone; montavano per un sentiero, tra gli olivi. Cuddu scorse di lassù un gran biancore... Era Catania, illuminata dalla luna, coi campanili, con le cupole delle chiese che si rizzavano tra i tetti... E, dietro, una cosa ch'egli non sapeva che cosa fosse, un immenso specchio pareva, steso laggiù, e dove la luna si rifletteva con una lunga striscia luminosa. - Che cosa è? - domandò. Il mare. Non hai mai visto il mare? - No. Il sentiero diveniva di mano in mano più ripido, quasi incassato tra due sponde, con gli olivi che si protendevano dai ciglioni, fitti; con casette basse mezze nascoste tra gli alberi, da dove partivano abbai di cani, mentre la Squadra passava; altri cani rispondevano in lontananza, attorno, paurosamente. Cuddu tornava a pensare a sua madre. A quell'ora ella dormiva. Avrebbe dormito anche lui, se fosse rimasto a casa. E sarebbe stato meglio! Gli sembrava quasi impossibile che si trovasse così lontano, con quella gente, in luoghi sconosciuti, e da dove non avrebbe saputo ritrovare la strada per tornare addietro, se avesse voluto. Ma, a poco a poco, la curiosità di vedere come facevano la guerra lo riprendeva, e insieme la paura di trovarsi in mezzo alle fucilate, di cui, più che altro, paventava il rumore. Se dovevano ammazzarsi, si sarebbero ammazzati loro, quelli della Squadra e i soldati napoletani, dei quali essi parlavano. Egli si sarebbe nascosto dietro un albero, dietro un muro, si sarebbe buttato per terra o sarebbe scappato lontano - sante gambe, aiutatemi! - Per correre ci avrebbe pensato lui! Intanto il cielo si era coperto di nuvole. S'intravedeva dietro di esse la luna che andava lesta lesta, quasi avesse paura anche lei di incappare nelle fucilate. Cuddu era impressionato della cautela con che la Squadra procedeva. Si fermavano, riprendevano a camminare, tornavano a fermarsi, origliando a ogni svoltata di sentiero. Che cosa stava per accadere? Non potevano, secondo lui, far la guerra di notte, al buio. Tutt'a a un tratto si udì un vocione: - Chi va là? - Amici! - rispose don Carlo il capitano. - Chi vive! - Viva Verdi! - Sta bene; fatevi avanti. Cuddu, a quel - chi va là -, si era aggrappato alla giacca di uno della Squadra che gli stava vicino. Il cuore gli batteva forte. E continuò a battergli forte quando si trovò tra un centinaio di persone, tutte armate - un'altra Squadra più numerosa - che festeggiavano con abbracci e strette di mano i nuovi arrivati. - E questo carusu? - domandò uno con barbone e cappellaccio a larghe tese. Sembrava il comandante. - Lo abbiamo raccolto per la strada - rispose don Carlo. - Bravo! - fece colui. - A Palermo i carusi hanno operato miracoli. Albeggiava. Cuddu, vedendosi squadrato da capo ai piedi da quell'omaccione che teneva impugnato per la canna un fucilone grosso il doppio degli altri e con bocca che si allargava slabbrando, avea avuto paura che non lo cacciassero via. Poi aveva ripreso coraggio, e, sedendosi per terra accanto al suo paesano che gli dava a portare lo schioppo, domandò: - È ora di far la guerra? E si stupì che quegli gli rispondesse con una risata. Due giorni dopo, Cuddu si era trovato, come egli diceva, a veder fare la guerra.

Pagina 106

Cosima

243854
Grazia Deledda 1 occorrenze
  • 1947
  • Arnoldo Mondadori Editore
  • Milano
  • verismo
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Era un uomo rude, il portalettere, anche lui rosso di pelo e di pelle; e quando passava, con le sue grosse scarpe, battendo alle porte dei cittadini e gridando forte: «posta, posta», tutti gli echi intorno si risvegliavano, persino i cani abbaiavano, l'aria prendeva un colore di inquietudine. Per Cosima rappresentava un personaggio quasi mitologico, apportatore di bene e di male, e quando ne sentiva la voce di lontano tremava come se il destino fosse in cammino verso di lei. Era stato lui, in fatti, a portarle le lettere di gloria e di amore, di umiliazione e di speranza, e il vaglia, e i giornali col suo nome scritto come su lapidi che le parevano eterne. Adesso ella aspettava notizie da un mondo misterioso, lontano, quasi di là dai confini del mondo reale: lettere dell'esploratore, che a quel suo mondo nuovo voleva mettere il nome di lei. Ma il portalettere passava con la borsa, che faceva un rumorino speciale, sulla cinghia di cuoio, come quello dei carnieri dei cacciatori, e picchiava con violenza il battente della porta del negoziante di scorze, traendo dalla borsa un pacco di lettere e di giornali. E a lei nulla: e la voce aspra dell'uomo della sorte che si andava affievolendo le pareva si burlasse crudelmente di lei. Cosí passò la bella stagione: ella non si curava piú neppure di Antonino. Di nessuno si curava, tranne che delle sue scritture, illuminate dalla luce di quel sogno che era il piú bello dei romanzi che ella avrebbe mai potuto scrivere. In ottobre ci fu, come al solito, la vendemmia. No, non come al solito, poiché la madre, d'accordo con Andrea, aveva fatto costruire una piccola casa di pietra nella vigna, sotto un pino che vigilava solitario la grande distesa quasi tutta selvaggia come una landa, e dichiarò che la voleva abitare per qualche settimana. Solo la vigna rallegrava coi suoi quadrati verdi e gialli, con qualche filare di grandi fichi bassi, la dolce triste solitudine del luogo: i monti lontani innalzavano una muraglia azzurra intorno all'orizzonte. Un colono del Continente coltivava, fin dal tempo in cui era vivo il padre di Cosima, la vigna da lui piantata, e un grande orto che godeva di un rivolo d'acqua raccolto in una vasca ampia come un laghetto, circondata di giunchi, canne e salici selvaggi. Il luogo era bello: una specie di oasi nella desolazione della pianura incolta e pietrosa, saettata, nell'estate, da un sole implacabile. Ed ecco, adesso, la casetta di pietra lo rendeva piú pittoresco ed ospitale: erano appena due stanze, addossate ad un'altra, piccola, che fino a quel tempo era stata l'abitazione del solitario colono, il quale non si moveva mai dal posto, rifornito ogni tanto di pane e altri viveri da Andrea, che di ritorno portava a casa i prodotti dell'orto. Erano per lo piú patate, legumi, verze, zucche e insalate, e qualche volta anche poponi e cocomeri. E nella stagione l'uva, quasi tutta da vino, quel vino leggero ma saporoso che aveva aiutato Cosima a comprar francobolli e spedir manoscritti. Fu dunque mandato un carro di mobili, come si usava per andare al Monte: e Cosima si offrí ad accompagnare la madre, mentre le sorelle, che non volevano neanche sentir parlare di un luogo sperduto come quello, sarebbero rimaste a casa sotto la sorveglianza della serva fedele. Il servo che accompagnava il carro sarebbe rimasto nella vigna, e anche Andrea vi avrebbe passato la notte, per maggior sicurezza delle donne. Ma il luogo era tranquillo; non si era mai sentito parlare di vicende spiacevoli: l'aperta e nuda pianura non permetteva neppure il passaggio di malviventi, tanto che il colono non aveva un'arma, un cane. Ad ogni modo una pattuglia di carabinieri a cavallo adibita alla sicurezza stradale, percorreva ogni giorno lo stradone comunale che attraversava quella specie di altipiano selvaggio. Cosima e la madre s'incamminarono, a piedi, lungo lo stradone, dopo aver oltrepassato le ultime case del paese. La giornata era limpida, tiepida; un acquazzone aveva rinfrescato i campi, e gli stessi cespugli e le erbe già inariditi della distesa intorno alla vigna avevano ripreso il verde: le ginestre fiorivano ancora, ancora qualche sambuco nano, dove il terreno era umido, apriva le sue ombrelle d'argento filigranato. Il pino, sopra la casetta che ancora odorava di calce, vibrava tutto di canti d'uccelli: ce n'erano di ogni specie, sopra tutto di passeracei, poiché era l'unico rifugio del luogo, e il loro chiassoso concerto strideva anche di voci di battaglia; tutti però d'accordo nello scavare i fichi nella vigna e a piluccare l'uva, nonostante gli spauracchi drizzati qua e là dall'ingegnoso colono. Del resto anche lui aveva l'aspetto di uno spaventapasseri, alto, scarno, dinoccolato, con gli enormi piedi scalzi nodosi, i calzoni logori di fustagno rimboccati sulle caviglie rosse, e altrettanto le maniche sulle braccia che, se egli stringeva i grossi pugni, sembravano clave. Tutto il suo aspetto era, piú che di contadino, di vecchio marinaio, di «lupo di mare», per il viso arso, di terracotta, i capelli irsuti di colore del sale, e come scarmigliati dal vento; ma specialmente per gli occhi piccoli, stretti, dei quali si vedeva quasi solo la pupilla verdognola. Quando arrivarono le padrone egli aiutava il servo a scaricare la roba dal carro, e non rispondeva alle domande e agli scherzi dell'altro: pareva sordo, anzi anche muto, perché salutò solo con un cenno del capo, e non aprí la lunga bocca rientrante, quasi invisibile. In cambio parlava molto il servo, un giovìnotto bruno tutto occhi e denti, che ogni tanto si aggiustava la cintura e rideva per nulla: la sua presenza metteva allegria, e quasi egli piaceva alla signorina: lo trovava per lo meno della sua razza, uno schietto contadino, figlio della stessa terra, mentre il colono - già per il nome stesso, che gli era stato consacrato dal vecchio padrone - rappresentava uno straniero, un lavoratore di terre lontane, d'origine ignota se non quasi misteriosa. Infatti nessuno aveva mai saputo la sua provenienza, anche perché nessuno, dopo il tempo in cui, finita la sorveglianza della polizia, era stato assunto in servizio dal signor Antonio e confinato lí nella vigna solitaria, nessuno se ne era piú curato: neppure Andrea, che come il corvo ad Elia, gli portava il pane. E infatti l'uomo si chiamava Elia. Dopo che ebbero messo a posto, nelle due stanzette, i Tettucci, due tavolini, alcune sedie, un attaccapanni e qualche arnese di cucina, i due uomini se ne andarono a lavorare, a togliere i pampini superflui alle viti, perché l'uva finisse di maturare; il giovine servo si mise a cantare, e la sua voce sonora ma monodica si sperdeva come nella vastità di una chiesa deserta. Allora Cosima, come già aveva fatto sul Monte, cominciò a riordinare e abbellire quella che, per far sorridere la madre, chiamava la villa. La madre non sorrideva: come sempre era taciturna e chiusa in una tutta sua segreta preoccupazione: ma gli occhi le si erano un po' illuminati, e il da fare che si diede, per preparare un po' di cibo nel camino della prima stanzetta, adibita a cucina, sala da pranzo e da ricevere, la distrasse. Si sarebbe potuto usufruire, per gli usí più comuni, della cameretta del colono, dove c'era un vecchio e grande camino che tirava molto bene; ma la padrona intendeva rispettare gli antichi privilegi del dipendente, che con la sua sola opera si era costruito quel rifugio da quando aveva assunto servizio nella vigna, e vi teneva i suoi stracci e il suo giaciglio. Cosima d'altronde ci sentiva odore di selvatico e non le sarebbe piaciuto neppure di guardare dentro se il vecchio non avesse attirato la sua curiosa attenzione, interessata, di osservatrice di tipi fuori del comune, con la nebulosità del suo passato e la sagoma della sua figura. Egli avrebbe forse potuto, ad esplorarlo, a farlo diventare docile e confidente, raccontarle qualche cosa d'interessante, con un colore diverso dal locale, qualche cosa da mettersi sulla carta e trasformarlo in materia d'arte. Appena dunque l'abitazione fu in ordine, ella andò nella vigna, dove i due uomini lavoravano, e diede ascolto ai discorsi del servo paesano, poiché l'altro conservava il suo assoluto e impassibile mutismo. «Speriamo» diceva il giovinotto «che la vostra mutria si cambi in buon umore fra una settimana, quando verranno le ragazze a vendemmiare. Verranno due mie cugine: ma quelle dovete contentarvi di guardarle da lontano e di non toccarle neppure con una canna: le altre, che la padrona sceglierà di suo gusto, ve le lascio liberamente, vecchio cinghiale.» Il vecchio cinghiale pareva non lo sentisse neppure: solo, all'accenno di una donna, una vedova già anziana, che un tempo si diceva avesse avuto relazioni con l'esiliato, i suoi occhi si allargarono un poco, ed egli scosse il mazzo di foglie di viti che teneva in mano: ma non apri bocca, non si volse a guardare Cosima che era arrivata in mezzo al filare e lo osservava silenziosa. Né piú fruttuosi furono gli altri approcci durante quella prima giornata, sebbene ai due uomini fosse servito un pasto certo per loro insolito, preparato dalla padrona, e anche lei tentasse di attaccare discorso col vecchio taciturno. Egli rispondeva sí e no alle domande di lei, riguardanti l'orto e la vigna, nel vederla si alzava e si piegava con segni di un rispetto quasi esagerato: null'altro. «È un idiota» disse il servo, quando l'altro non poteva sentirlo. «Ma è anche malizioso, e la sa lunga.» E raccontò della vedova, che un tempo veniva a trovarlo nella vigna, e accennò al lontano passato di lui. Pare che avesse tentato di derubare un suo ricchissimo parente, nelle cui terre lavorava: sebbene il parente avesse rimesso la querela, Elia era stato condannato. Poi la voce cambiava; il parente diventava un banchiere, o addirittura una banca, che era stata, svaligiata da un gruppo di ladri, dopo narcotizzato il custode, e fra i manigoldi era Elia. Disse la padrona : «Se fosse stato cosí, il mio povero marito non l'avrebbe assunto al suo servizio.» «Oh, il signor Antonio era buono: era un santo, di quelli che non ne nascono piú» disse il servo. Nel pomeriggio arrivò, a cavallo, Andrea. Fra le altre cose portava un giornale e una lettera per Cosima. Una lettera! Ella la prese, come faceva sempre, trepidando: le pareva, ogni volta, di afferrare un uccello a volo, l'uccello favoloso della fortuna e della felicità. Ma questa era una semplice lettera d'invito a mandare i suoi libri a un giornaletto, che prometteva di parlarne ai suoi lettori. Ed ella la lasciò andare, come appunto si lascia andare un uccellino che non serve a niente. Ad ogni modo la giornata fini bene: il tramonto arrossava la vigna, la vasca e i salici scintillavano; le distese della pianura avevano la calma e melanconica poesia della steppa, come Cosima l'aveva intraveduta in qualche racconto russo: ma il punto centrale del paesaggio, il piú bello, era il pino solitario entro il quale vibravano le fiamme del sole che pareva vi si annidasse come un grande uccello di porpora. E Cosima se ne andò per un sentiero della brughiera, dove avrebbe potuto camminare finché voleva, poiché non c'era pericolo di sperdersi, e dalla vigna potevano sorvegliarla con un solo sguardo. Le erbe sembravano colore di rosa, ogni seme, ogni fiorellino, ogni bacca, aveva come un occhio d'oro che rispondeva al suo sguardo: e i monti lontani, color d'acquamarina, svaporavano nel cielo arancione e verde e rosso che a poco a poco trascolorava e cambiava tinta. Una coccinella sali, da un cespuglio, sulla veste di Cosima, come su un cespuglio piú alto: andò su, su, tranquilla, fino al braccio di lei, fino alla sua mano. Era un essere meraviglioso e quasi terribile: sul piccolo dorso piatto, d'un rosso scuro di lacca, era disegnato in nero un viso umano perfetto, con gli occhi, il naso, la bocca, tutti un po' obliqui come nelle maschere giapponesi: parve a Cosima che quegli occhi la guardassero, con la stessa meraviglia misteriosa con cui lei li guardava. Arrivata all'estremità del dito medio, sull'unghia rosea di tramonto, la coccinella aprí due piccole ali iridate e volò via. Cosima avrebbe voluto imitarla, ma i suoi piedi erano legati alla terra, ed ella avrebbe dovuto camminare fino all'estremità del mondo per potersi slanciare cosí. Quando il sole spari, uno stupore quasi infantile parve incantare ogni cosa: il cielo si fece trasparente come l'acqua, e la stella che apparve sull'orizzonte vi tremolò come appunto riflessa dal mare. Mai Cosima, neppure sul limite dei boschi e delle roccie del Monte, davanti ai sontuosi tramonti visti dall'alto, aveva provato una malia simile a questa che l'avvolgeva in mezzo alla terra incolta, guardata solo da Dio. Invece di sentirsi piccola, e poiché era impotente a volare, le parve di essere alta, alta fino a toccare con la fronte la stella della sera; eppure in quel momento dimenticava tutte le sue ambizioni, i suoi vani sogni, la sua attesa di avvenimenti straordinari. La vita era bella cosí, anche fra gli umili steli nati da sé, fra le cose create da Dio per la gioia del cuore che è vicino a lui come il cuore del bambino a quello della madre: ed ella ne ebbe quasi la prima rivelazione, e si senti uno scalino ancora piú in alto, nella scala di Giacobbe che doveva essere la sua vita. Cosí, per nulla: solo perché vedeva la stella della sera brillare sopra i monti non meno e non piú meravigliosa della coccinella, e le erbe selvatiche odoravano al suo passaggio. Decise di non aspettare piú nulla che le arrivasse dall'esterno, dal mondo agitato degli uomini; ma tutto da se stessa, dal mistero della sua vita interiore. Cosí, ebbe fine l'attesa delle notizie dell'esploratore: e anche lui, del resto, non scrisse piú.

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