Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbaiavano

Numero di risultati: 7 in 1 pagine

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Gambalesta

216223
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1947
  • Società Editrice Tirrena
  • Livorno
  • paraletteratura-ragazzi
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Cani abbaiavano dalle case rustiche, dai pagliai; e silenzio di nuovo. Di faccia, illuminato dalla luna, con la gran cappa di neve, Mongibello ; e a Cuddu sembrava più piccolo di quanto lo vedeva dalla spianata davanti a casa sua, perché qui le colline impedivano di scorgerlo intero. Ora avevano lasciato lo stradone; montavano per un sentiero, tra gli olivi. Cuddu scorse di lassù un gran biancore... Era Catania, illuminata dalla luna, coi campanili, con le cupole delle chiese che si rizzavano tra i tetti... E, dietro, una cosa ch'egli non sapeva che cosa fosse, un immenso specchio pareva, steso laggiù, e dove la luna si rifletteva con una lunga striscia luminosa. - Che cosa è? - domandò. Il mare. Non hai mai visto il mare? - No. Il sentiero diveniva di mano in mano più ripido, quasi incassato tra due sponde, con gli olivi che si protendevano dai ciglioni, fitti; con casette basse mezze nascoste tra gli alberi, da dove partivano abbai di cani, mentre la Squadra passava; altri cani rispondevano in lontananza, attorno, paurosamente. Cuddu tornava a pensare a sua madre. A quell'ora ella dormiva. Avrebbe dormito anche lui, se fosse rimasto a casa. E sarebbe stato meglio! Gli sembrava quasi impossibile che si trovasse così lontano, con quella gente, in luoghi sconosciuti, e da dove non avrebbe saputo ritrovare la strada per tornare addietro, se avesse voluto. Ma, a poco a poco, la curiosità di vedere come facevano la guerra lo riprendeva, e insieme la paura di trovarsi in mezzo alle fucilate, di cui, più che altro, paventava il rumore. Se dovevano ammazzarsi, si sarebbero ammazzati loro, quelli della Squadra e i soldati napoletani, dei quali essi parlavano. Egli si sarebbe nascosto dietro un albero, dietro un muro, si sarebbe buttato per terra o sarebbe scappato lontano - sante gambe, aiutatemi! - Per correre ci avrebbe pensato lui! Intanto il cielo si era coperto di nuvole. S'intravedeva dietro di esse la luna che andava lesta lesta, quasi avesse paura anche lei di incappare nelle fucilate. Cuddu era impressionato della cautela con che la Squadra procedeva. Si fermavano, riprendevano a camminare, tornavano a fermarsi, origliando a ogni svoltata di sentiero. Che cosa stava per accadere? Non potevano, secondo lui, far la guerra di notte, al buio. Tutt'a a un tratto si udì un vocione: - Chi va là? - Amici! - rispose don Carlo il capitano. - Chi vive! - Viva Verdi! - Sta bene; fatevi avanti. Cuddu, a quel - chi va là -, si era aggrappato alla giacca di uno della Squadra che gli stava vicino. Il cuore gli batteva forte. E continuò a battergli forte quando si trovò tra un centinaio di persone, tutte armate - un'altra Squadra più numerosa - che festeggiavano con abbracci e strette di mano i nuovi arrivati. - E questo carusu? - domandò uno con barbone e cappellaccio a larghe tese. Sembrava il comandante. - Lo abbiamo raccolto per la strada - rispose don Carlo. - Bravo! - fece colui. - A Palermo i carusi hanno operato miracoli. Albeggiava. Cuddu, vedendosi squadrato da capo ai piedi da quell'omaccione che teneva impugnato per la canna un fucilone grosso il doppio degli altri e con bocca che si allargava slabbrando, avea avuto paura che non lo cacciassero via. Poi aveva ripreso coraggio, e, sedendosi per terra accanto al suo paesano che gli dava a portare lo schioppo, domandò: - È ora di far la guerra? E si stupì che quegli gli rispondesse con una risata. Due giorni dopo, Cuddu si era trovato, come egli diceva, a veder fare la guerra.

Pagina 106

Contessa Lara (Evelina Cattermole)

220305
Storie d'amore e di dolore 1 occorrenze
  • 1893
  • Casa editrice Galli
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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I cani abbaiavano di gioia, saltellando in torno ai padroni davanti alla porta dove avean fatto la guardia; il fuoco s'era mantenuto vivo; scintillava, anzi, più che mai nell' ampio camino che allargava il suo manto di pietra; la legna scoppiettava, susurrando una cantilena piana piana, in armonia col gorgoglìo del paiuolo. E la povera famiglia, prima d'andare a letto, mangiava le castagne bollenti, beveva qualche buon bicchiere di vino invecchiato da molti anni in cantina, facea festa in modo casalingo e patriarcale, al Salvatore del mondo. Ah, Signore, come erano mai lontani quei tempi! Cinque anni passati in vicende tanto varie, tra gente così diversa; cinque anni che, per esempio, alla Giulietta saranno volati come giorni, a lei, invece, sembravano secoli!... In tanto, era proprio sul punto di tornare un'altra volta il Natale. Là su, ne' suoi posti, l'avrebbero festeggiato secondo il solito, religiosamente, semplicemente. Ma essa, Leda, come lo avrebbe fatto? Sola? O pure in compagnia di persone indifferenti, che non soltanto ella non amava, ma a cui nè anche voleva un po' bene?... Con dolcezza insistente, la zampogna che avea cessato di sonare mentre la giovane s'abbandonava alle sue memorie e tornava addietro con esse, riprese il suo monotono ritornello; ma in lontananza, come se andasse affievolendosi, e finisse a dileguare fondendosi in nulla entro i rumori innumerevoli della città enorme. Leda corse alla finestra e la spalancò, per udire ancora quel suono fuggevole. La zampogna era ormai troppo lontana o taceva; solo un brusio di voci, un frastuono di ruote in movimento salì al salotto e parve riempirlo. Allora, ella richiuse i vetri e si asciugò gli occhi, sorridendo. Aveva un progetto. Voleva rivedere il suo villaggio, il Natale di là su, e innanzi tutto, oh! innanzi tutto, la sua vecchia mamma, dalla faccia chi sa come rugata, ma forse sempre rosea, certo sempre tanto buona! Voleva starsene a casa, magari per poche ore, per un'ora sola! Poi... sarebbe tornata... si sa. Senza perdere un minuto, premette un campanello elettrico. Comparve un servo. - Chiamatemi l'Adele! — ordinò la giovane donna. Di lì a poco si presentò la cameriera. In tanto, Leda aveva scritto su due fogli diversi una lunga lista di commissioni. - In questi luoghi andrai tu... subito - disse ella all'Adele, porgendole uno dei due fogli. Dalla modista aspetterai la consegna della roba. Queste altre facende le sbrigherà Ranieri... subito. E diede l'altra carta. - Ma così, la signora resta sola in casa? - si permise di osservare la donna. - Non importa... Ad ogni modo c'è sempre il cuoco — fu la risposta. Mentre l'Adele se ne andava, la padrona la richiamò: - Ascolta qui... Se... per caso, tornando, tu non mi trovassi, non stare in pena. Forse parto per qualche giorno... - La signora non fa il Natale a Roma? — chiese ancora la cameriera. Leda, senza badare, riprese: - Se in questo tempo venisse il signor barone, gli dirai che sto bene, ma che mi annoiavo... Gli spiegherò al mio ritorno... Hai capito? - Sissignora — mormorò l'Adele con un impercettibile sorriso. Quando Leda si fu assicurata d'esser ormai libera nell'appartamento, corse nella sua camera da letto, e aperto un baule chiuso a chiave, che figurava un cofano da corredo del quattrocento, ne tolse un involto ripostovi in fondo, che ogni tanto tirava fuori quando era triste. Da un pezzo, però, non lo aveva guardato. Erano i panni co' quali ella era venuta a Roma: poveri panni rimasti quasi nuovi, ma sgualciti per il molto tempo ch'eran rimasti piegati. L'oggetto che primo le venne in mano fu il fazzoletto a rosoni sur un fondo giallo che, da fanciulla, ella soleva portare in testa; corse allo specchio, e lì se lo annodò sui capelli; poi scoppiò in una risata. Ora che non era più avezza a vedersi a quel modo, le sembrava. d'esser buffa. Aveva spiegata la sottana; la scosse, e se l'infilò presto; era larga e sgraziata. E indossò il corpetto; troppo corto di vita, troppo corto di maniche. Ah; c'era anche il grembiule! Quello poi era quasi intatto: rossigno e bianco, di cotonina a quadrelli. Dio, come aveva freddo! Così leggiera codesta lanetta, massime per lei abituata adesso alle pellicce! Fortuna che c'era lo scialle! E se lo avvolse al busto. Non rideva più; s'era fatto d'un pallor di cera, come sul punto di venir meno. E quando quel costume contadinesco, ormai completo, le fu addosso, ella si fermò in piedi, con le braccia penzoloni e la faccia avanti a osservarsi dinanzi allo specchio, che la rifletteva tutta; sembrava cercar di riconoscere sè stessa. A un tratto mise un grido soffocato, rauco, quasi bestiale, si coperse il viso con tutte e due le mani e scoppiò in un pianto dirotto... Nessuno la vide attraversare la casa; e, certo, chi l'avesse scorta per istrada non poteva ravvisarla. Presto, quanto le forze glielo concedevano, camminò fino alla stazione: dove per più di un'ora aspettò la partenza del treno. Come Dio volle potè finalmente entrare in un carrozzone di terza classe, tra villani, balie, soldati in congedo, ed altri ordinari compagni di via. Aveva il biglietto fino a Castelnuovo. Di lì al Borgo la portava la diligenza del procaccia; da Borgo in su avrebbe chiesto qualche calesse, o una bestia da cavalcare: un mezzo qualunque per andare a casa. Tutte quelle ore di viaggio l'avevano affranta. Era stata muta tra le vicine loquaci; seria tra le risate e i motti scurili degli uomini. Ma venne il momento di scendere, di sgranchirsi le gambe, di respirare un' aria non infetta dalle spuntature dei sigari. — Menico! — diss'ella accostandosi al procaccia del suo paese, il quale stava fermo col legno sgangherato innanzi alla porta d'uscita della piccola stazione. L'uomo, cui quella voce non giungeva nuova, guardò la femmina. - Dove andate? — le domandò. - Al Borgo, anzi, a Montaguzzo. O non mi riconoscete?... Giovannina... Il procaccia si lasciò sfuggire una bestemmia a mo' d'interiezione. Poi continuò: - Ah, perdio, perdio! Ma sapete che vi siete fatta bella? E civile, non canzono! Leda si fece di bragia in viso. - Salite — la invitò l'uomo — piglierete meno freddo. Oggi c'è un ventaccio! Fatta accomodar la ragazza accanto sè, Menico, lungo il cammino, le andava rivolgendo diverse domande: - Si sta bene, eh, a Roma? Ella fece con la testa un cenno che il bravo uomo credette affermativo. - Ah, lo credo! — riprese, convinto — e mi figuro che non siete tornata per restare a Montaguzzo. - Non, so... — rispose lei. L' uomo badava a guardarla. - Ma, proprio, a Roma vi siete fatta un'altra! Più bianca, che so? meglio di prima, insomma. Ella ebbe un leggiero sospiro, inarcò le ciglia e tacque; rispondendo poi soltanto a monosillabi a tutte le chiacchiere di costui. Scesa dalla diligenza, si mise a cercare per tutto il Borgo un veicolo qualsiasi che la portasse su dai suoi. Nulla. La vigilia del Natale ciascuno se ne stava a casa propria e non se ne volea muovere per nessuna ragione. — Prestatemi un asino, un cavallo; vado io sola — pregava la ragazza. Ma non potè ottenerlo. Chi riconduceva poi la bestia al Borgo? Allora, ella si determinò a far la strada a piedi, senz'altra compagnia che il desiderio di arrivar presto. E si mise coraggiosamente a salire verso Montaguzzo. La campagna, anche con l'andar degli anni, conserva quasi intatto quell'aspetto che le si è conosciuto da molto tempo; costì le viuzze rimangono le medesime; le stesse siepi, gli stessi pezzi di muricciuolo, i medesimi avvallamenti di terreno; di rado c'è qualche casa colonica fabbricata di fresco: una casa che nulla cambia, però, all'insieme del paesaggio. A Leda pareva d'essere scesa al Borgo, come era solita fare da fanciulla, a comprarvi qualcosa che non si trovava nel suo casolare. Lo stesso orizzonte di cime nevose, le stesse casupole, gli stessi alberi, sto per dire gli stessi sassi del cammino, le venivano innanzi agli occhi. Ogni poco si fermava per guardare: là era Casalfranco, là Roccapicco, là Torrarsa; e si fermò tante volte, che fece notte. Quando si vide intorno il buio, cominciò a correre; tale quale nella sua infanzia, quando avea fatto tardi e temeva d' essere sgridata dal babbo. A momenti le mancava il fiato: le gambe non la reggevano più: un sudore freddo le inumidiva le tempie, ghiacciato vieppiù dalla tramontana. Quando aperse il vecchio cancello di legno, tutto tarlato e vacillante sui cardini, che metteva nella viottola, in linea retta, a pochi passi della sua casa, la ragazza era sfinita di forze. Un cane, fiutando qualche estraneo, le si precipitò incontro, abbaiando a squarciagola. Ella non poteva vederlo. — Fido! Fido! cominciò a chiamare con accento amico. Non era Fido; ma un compagno di lui, che appena ebbe riconosciuta l'antica padrona, mutò tono e prese a fare un baccano infernale per manifestare la sua contentezza. Venne gente su l'uscio. - Chi è? — chiesero diverse voci esili e robuste in coro. - Sono io! — rispose la nuova arrivata. - Chi? Ma la madre che non l'aspettava, la madre che non ci vedeva, le corse addosso e se la prese tra le braccia, stringendola quanto quelle povere braccia vecchie potevano stringere. - Tu, Nina mia, tu? — badava a ripeterle. Leda le aveva chinato il viso su la spalla, e non le diceva nulla: piangeva. Fu una sera felice. Sotto la cappa ospitale del camino di antica pietra, dove eran volate via insieme alle faville tante belle favole, la famiglia si raccolse anco una volta in giro, aspettando che sonasse la campana della chiesa. Le zampogne faceano echeggiare le loro note ingenue, le loro cantilene selvatiche in lontananza, come prima, come sempre; e nel paiuolo bollivan le castagne. Soltanto, invece delle novelle di fate, Leda udì dal suo fratello maggiore il racconto della vita dei soldati d'Africa: vita penosa ed eroica; poi dalla Giulietta l'idillio di un suo amore virginale per un garzone di fattoria al quale ella era fidanzata. Così si fece l'ora di recarsi alla messa; e come prima, come sempre, uscirono tutti in processione; il padre, innanzi agli altri, ormai lento nel camminare, con la lanterna in mano. L'aria era fredda; ma sul terreno, sonoro perchè ghiacciato, dove battevano le grosse scarpe ferrate, non si vedeva traccia di neve; qua e là, anzi, restavan su' rami de' frutti Contessa Lara 24 e degli arbuscelli parecchie foglie ancor verdi o appena ingiallite: la stagione era stata mite. Come al solito, Leda aveva accosto la sua sorellina, non più attaccata alla sottana, ma al braccio; la madre, più curva, seguitava a pregare ad alta voce Gesù Bambino; gli uomini parlavano famigliarmente. Quando la famiglia si fu aggruppata in chiesa, Leda s'inginocchiò presso un confessionale, nell'ombra, vergognosa di farsi fissare in viso dagli estranei curiosi di rivederla; e lì, mezzo seduta per terra, mezzo in ginocchio, stette per quanto durarono le tre messe di rito. A momenti pregava; la più parte del tempo fantasticò. E le parve così naturale di trovarsi lì tra i suoi, nella chiesetta del suo villaggio nativo appollaiato su' monti, mentre alla voce del parroco si univano le note dell'organo che ripeteva la vecchia aria di teatro, chi sa come giunta là su, e le note delle zampogne festive, selvatiche, insistenti; le parve così benefico quel tepore, accresciuto sul proprio corpo dalla lana del suo umile scialletto, di popolana; così sereno il sorriso che le volgeva ogni poco sua madre, ch'ella si domandò con pietosa incredulità se era lei, lei veramente, la quale per anni e anni avea vissuto lontano da quel centro di purità e di pace, tra gente ignota, senza affetto, senza fede, senza stima. Era stato un sogno brutto e cattivo?... Forse. Ah, Vergine Santa, Gesù Bambino, misericordia!.. Quando tornarono giù, verso casa, la Giulietta, tutta serrata al suo braccio, le domandò piano: - Di', rimarrai sempre con noi? La sorella maggiore chinò la testa, e rispose più piano ancora: - Credo di sì. FINE.

Mitchell, Margaret

220845
Via col vento 1 occorrenze
  • 1939
  • A. Mondadori
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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Il suo arrivo provocava sempre un tumulto di cani che abbaiavano e di bambini negri che urlavano correndogli incontro, litigando fra loro per il privilegio di tenere il suo cavallo, e poi si torcevano e ridevano ai suoi insulti scherzosi. I bambini bianchi volevano sedere sulle sue ginocchia per fare il cavalluccio, mentre egli denunciava ai loro genitori l'infamia degli uomini politici inglesi; le figlie dei suoi amici gli confidavano i segreti amorosi e i giovinotti del vicinato, che avevano paura di confessare ai loro padri i debiti d'onore, trovavano in lui un amico pronto ad aiutarli. - Avevi questo debito da un mese, ragazzaccio! - gridava. - Ma, in nome di Dio, perché non mi hai chiesto il denaro prima? Il suo modo ruvido di parlare era troppo noto per offendere; il giovanotto si limitava a sorridere imbarazzato rispondendo: - Non volevo disturbarvi, signore, e mio padre... - Tuo padre è un buon uomo, ma un po' tirato; prendi questi e non ne parliamo piú. Le mogli dei piantatori furono le ultime a capitolare. Ma la signora Wilkes (una gran signora che ha il dono di saper tacere, come la definiva Geraldo) disse una sera a suo marito, dopo aver visto Geraldo scomparire in fondo al viale - parla in modo volgare, ma è un signore; e allora la posizione di O'Hara fu assicurata. Egli non sapeva che gli c'erano voluti quasi dieci anni per arrivare, perché non si era mai accorto che da principio i suoi vicini lo guardavano storto. Nella sua mente non vi era mai stato alcun dubbio in proposito, dal momento in cui aveva messo piede a Tara. Quando ebbe compiuto quarantatré anni - cosí atticciato di corpo e florido di volto che sembrava un gentiluomo sportivo - gli venne in mente che Tara, per quanto fosse piacevole, e gli abitanti della Contea, per quanto avessero il cuore e la casa aperti per lui, non erano abbastanza. Gli ci voleva una moglie. Tara aveva bisogno di una padrona. Il grasso cuoco, un negro agricoltore elevato a quel grado per necessità di cose, non era mai puntuale nel preparare i pasti; e la cameriera, che prima lavorava essa pure nei campi, lasciava che la polvere si accumulasse sui mobili e non aveva mai tovaglie pulite, sicché l'arrivo di ospiti era sempre occasione di subbuglio e di confusione. Pork, l'unico negro abituato a servire in casa, aveva l'incarico di sorvegliare gli altri servitori, ma anche lui era diventato negligente e trascurato dopo tanti anni di vita rilassata. Come servitore teneva in ordine la camera da letto di Geraldo, e come cameriere serviva a tavola con dignità e con stile; ma oltre a questo, lasciava che le cose seguissero il loro corso. Con l'infallibile istinto africano, i negri avevano tutti scoperto che Geraldo era un cane che abbaiava ma non mordeva, e ne approfittavano vergognosamente. Si sentivano sempre alte minaccie di vendere gli schiavi o di frustarli a sangue, ma nessuno schiavo era mai stato venduto fra quelli di Tara e una sola frustata vi era stata; somministrata soltanto perché il cavallo preferito di Geraldo non era stato strigliato dopo una lunga giornata di caccia. Gli occhi azzurri di Geraldo osservavano come erano ben tenute le case dei suoi vicini e con che facilità le donne dai capelli ravviati e dagli abiti fruscianti, dirigevano la servitú. Egli ignorava l'attività di queste donne dall'alba a mezzanotte, fra la sorveglianza della cucina, del bucato, del rammendo e l'allevamento dei bimbi. Vedeva soltanto i risultati esteriori e questi l'impressionavano. L'urgente necessità di una moglie gli apparve chiaramente una mattina mentre si stava vestendo per recarsi in città ad assistere a un'udienza al Tribunale. Pork tirò fuori la miglior camicia a pieghettine di Geraldo cosí malamente rammendata che ormai solo il domestico avrebbe potuto metterla. - Mister Geraldo - aveva detto mentre ripiegava con riconoscenza la camicia e Geraldo strepitava - quello che tu avere bisogno è moglie; una moglie che avere buon numero di negri per la casa. Gerardo rimproverò Pork per la sua impertinenza, benché fosse convinto che aveva ragione. Aveva bisogno di una moglie e aveva bisogno di bambini; e se non provvedeva subito, poi sarebbe troppo tardi. Ma non voleva sposare la prima venuta, come aveva fatto il signor Calvert, che aveva impalmato la governante inglese dei suoi bambini orfani di madre. Sua moglie doveva essere una signora, una vera signora dignitosa ed elegante come la signora Wilkes, e capace di governare Tara come la signora Wilkes governava la sua proprietà. Ma nelle famiglie del Contea vi erano due difficoltà. La prima era la scarsità di fanciulle in età da marito. La seconda, piú seria, era che Geraldo era un «uomo nuovo», malgrado i suoi dieci anni di residenza, e uno straniero. Non si sapeva nulla della sua famiglia. Pur essendo meno inespugnabile dell'aristocrazia della Costa, la società della Georgia settentrionale non avrebbe mai ammesso che una delle sue figliuole sposasse un uomo del quale si ignorava chi fosse il nonno. Geraldo sapeva che, malgrado la simpatia sincera degli uomini della Contea coi quali cacciava, beveva e parlava di politica, non avrebbe potuto sposare la figlia di nessuno di loro. E non voleva che si potessero far delle chiacchiere attorno alle tavole, a cena, sul fatto che questo o quell'altro padre avesse con rammarico rifiutato a Geraldo O'Hara il permesso di far la corte alla sua figliuola. Non per questo Geraldo si sentiva inferiore ai suoi vicini; d'altronde nulla e nessuno avrebbe mai potuto far sí che egli si sentisse inferiore a chiunque. Soltanto, riconosceva che era una strana costumanza della Contea, quella che faceva maritare le ragazze solo con persone appartenenti a famiglie che vivevano nel sud da oltre vent'anni, e che durante tutto quel tempo erano stati possessori di schiavi e si erano dedicati unicamente ai vizi eleganti. - Prepara il bagaglio. Andiamo a Savannah - disse a Pork. - E se ti sento emettere una sola imprecazione, ti vendo immediatamente, perché sono espressioni che io stesso uso ben raramente. Giacomo e Andrea avrebbero potuto certamente dargli dei consigli intorno a questa faccenda del matrimonio; e forse tra i loro vecchi amici poteva esservi qualche fanciulla che avesse i requisiti voluti e che lo trovasse accettabile come marito. I fratelli ascoltarono pazientemente la sua storia ma non gli diedero eccessivo incoraggiamento. Non avevano parenti a Savannah a cui rivolgersi, perché entrambi erano già sposati quando erano venuti in America! E le figlie dei loro vecchi amici erano maritate da un pezzo e avevano già dei bambini. - Sei un uomo ricco ma non di grande famiglia - osservò Giacomo. - Sono diventato ricco e la grande famiglia me la farò. Ma non voglio sposare la prima venuta. - Hai delle vedute alte - replicò Andrea seccamente. Ma fecero del loro meglio per aiutare Geraldo. Erano ormai anziani e si erano creati a Savannah un cerchio di amicizie. Per un mese condussero Gerardo di casa in casa, facendogli frequentare balli, cene, picnic. - Ce n'è una che mi piace - disse finalmente Geraldo - una ragazza che quando io sbarcai in America non era ancora nata. - E chi sarebbe? - Miss Elena Robillard - e la risposta cercò di avere un tono indifferente, perché gli occhi neri e lievemente obliquati in basso di Elena lo avevano colpito piú di quanto volesse dire, e il suo modo di fare, ingannevolmente incurante, cosí strano in una fanciulla quindicenne, lo aveva affascinato. Inoltre vi era in Elena una continua espressione di disperazione che gli andava al cuore e lo rendeva piú gentile con lei che non fosse mai stato con nessun altro. - Ma potresti esser suo padre! - Sono nel fiore della vita! - ribatté Geraldo, punto. Giacomo prese la parola, con calma. - Ascoltami, Jerry: non vi è ragazza in Savannah con la quale tu possa aver minori probabilità. Suo padre è un Robillard; e questi francesi sono orgogliosi come Lucifero. E sua madre - Dio l'abbia in gloria - era una gran signora. - Non me n'importa - si ostinò Geraldo. - Del resto, sua madre è morta e il vecchio Robillard mi vuol bene. - Come uomo, sí; ma come genero, no. - E poi la ragazza non ti accetterebbe - intervenne Andrea. - Da un anno fa l'amore con quel ragazzaccio di suo cugino, Filippo Robillard, benché la sua famiglia la tormenti giorno e notte perché lo lasci. - È partito il mese scorso per la Luisiana. - Come lo sai? - Lo so. - E Geraldo non volle svelare che quest'informazione gli veniva da Pork né che Filippo era andato in Occidente per espresso desiderio della sua famiglia. - E non credo che ne sia tanto innamorata da non poterlo dimenticare. Quindici anni son troppo pochi, perché l'amore sia profondo. - Preferiranno quel rompicollo di cugino a te. Giacomo e Andrea furono quindi stupiti come tutti gli altri quando si sparse la notizia che la figlia di Pierre Robillard avrebbe sposato il piccolo irlandese. I commenti furono infiniti e tutta la città chiacchierò sul conto di Filippo Robillard che era andato in Occidente; ma le chiacchiere rimasero lettera morta. E fu sempre per tutti un mistero perché la piú bella delle figlie di Robillard accettasse di sposare quel rumoroso ometto dal viso rosso, che le arrivava appena alle spalle. Neanche Geraldo comprese mai perfettamente com'era andata la cosa. Sapeva soltanto che era accaduto un miracolo. E fu l'unica volta in vita sua che si sentí umile umile, quando Elena, pallidissima ma calma, posò leggermente una mano sul suo braccio dicendogli: - Vi sposerò, Mr. O'Hara. I Robillard, sbalorditi, conobbero la risposta; ma solo Elena e la sua Mammy seppero tutta la tristezza di quella notte in cui la fanciulla singhiozzò fino all'alba come una bambina col cuore spezzato, alzandosi al mattino con una ferma decisione. Con un doloroso presentimento, la bambinaia aveva portato alla sua padroncina un pacchetto proveniente da Nuova Orléans, con l'indirizzo scritto da una mano ignota; nel pacchetto era una miniatura di Elena, che ella lasciò cadere a terra con un grido, quattro lettere scritte da lei a Filippo Robillard e poche parole di un sacerdote di Nuova Orléans che le annunciava la morte di suo cugino in una rissa d'osteria. - Lo hanno cacciato via, il babbo, Paolina e Eulalia. Lo hanno cacciato via. Li odio. Non voglio piú vederli. Voglio andar via. Voglio andare tanto lontano da non vedere mai piú né loro né questa città né chiunque mi ricordi... lui. E al sorger del giorno, la nutrice, che aveva anch'essa pianto china sul capo bruno della sua padrona, aveva esclamato: - Ma non puoi far questo, tesoro! - Lo farò. È un brav'uomo. Lo farò, o andrò a chiudermi in un convento a Charleston. Fu la minaccia del convento che finalmente strappò il consenso a Pierre Robillard, che non rinveniva dallo stupore e dal dolore. Era un fedele presbiteriano, benché la sua famiglia fosse cattolica; e l'idea che sua figlia diventasse monaca gli era anche piú penosa del pensiero che fosse moglie di Geraldo O' Hara. Dopo tutto, contro costui non si poteva dir nulla, se non che non aveva famiglia. Cosí Elena, non piú Robillard, volse le spalle a Savannah per non rivederla mai piú e partí per Tara con un marito di mezz'età, la sua nutrice e venti «negri di casa». Dopo un anno nacque la prima bambina a cui diedero il nome di Caterina Rossella, come la mamma di Geraldo. Geraldo fu deluso, perché desiderava un maschio, ma ciò nondimeno fu abbastanza soddisfatto della sua bambina bruna da offrire, in segno di gioia, il rum a tutti i suoi schiavi, ubbriacandosi anche lui, felice e rumoroso. Nessuno può dire se Elena rimpianse mai la sua decisione di sposare Geraldo; meno di tutti suo marito, il quale non stava nella pelle ogni volta che la guardava. Ella aveva scacciato dalla sua mente Savannah e i suoi ricordi, da quando aveva lasciato quella graziosa città marittima; e dal momento in cui era giunta nella Contea, la Georgia era diventata il suo paese. Lasciando per sempre la dimora di suo padre, ella aveva abbandonato una casa le cui linee erano dolci e morbide come quelle di un corpo di donna, come quelle di una nave a vele spiegate; una casa intonacata di un pallido rosa, costruita nello stile coloniale francese, elegantemente sollevata sul suolo da palafitte a colonne, e a cui si saliva mediante scale a spirale, con ringhiere di ferro battuto che sembravano un merletto: una casa ricca e graziosa, ma lontana. Ella aveva abbandonato non solo la bella abitudine, ma anche tutta la civiltà che era dietro quell'edificio; e si trovava in un mondo cosí strano e diverso come se fosse addirittura in un altro continente. La Georgia settentrionale era una regione aspra, abitata da gente aspra anch'essa. Dall'altipiano che si ergeva al disotto delle cime delle Montagne Azzurre, ella vedeva ovunque distese ondulate rossicce, con vasti spazi su cui affiorava il granito sottostante ed enormi pini che torreggiavano cupamente dovunque. Tutto sembrava selvaggio e inospitale ai suoi occhi abituati alla costa e alla tranquilla bellezza delle isole drappeggiate nel muschio grigio e verde, con le larghe strisce di rena ardente sotto il sole semitropicale, le lunghe distese di terra sabbiosa ornata di palmizi. Questa era una regione che conosceva tanto il freddo dell'inverno quanto il calore dell'estate; e nel popolo erano un vigore e un'energia che la sorprendevano. Era gente buona, gentile, generosa, ma risoluta, virile, facile all'ira. Gli abitanti della Costa che ella aveva abbandonato si vantavano di occuparsi di ogni cosa, anche dei loro duelli e delle loro proprietà, con aria noncurante; ma questi Georgiani erano invece dotati di violenza. Sulla Costa la vita era molle; qui era giovanile, nuova, piena di vivacità. Tutte le persone che Elena aveva conosciuto a Savannah erano dello stesso stampo: avevano tutti quanti gli stessi punti di vista, e le stesse tradizioni; qui vi era invece una grande varietà. I colonizzatori della Georgia settentrionale venivano da molti luoghi diversi: da altre parti della Georgia stessa, dalla Carolina, dalla Virginia, e anche dall'Europa e dal Nord. Alcuni, come Geraldo, erano individui recatisi colà a cercar fortuna. Altri, come Elena, erano membri di vecchie famiglie che trovavano la vita insopportabile nel loro paese e avevano cercato rifugio altrove. Altri ancora si erano trapiantati senza alcuna ragione se non che il sangue irrequieto dei loro padri nomadi scorreva ancora nelle loro vene. Questa gente, arrivata da luoghi diversi e con diverse origini, dava alla vita della Contea una mancanza di formalismo che per Elena era assolutamente nuova ed alla quale non riuscí mai ad abituarsi completamente. Sapeva per istinto che cosa avrebbe fatto uno della Costa in certe date circostanze; non riuscí mai a prevedere che cosa avrebbe fatto, nelle stesse circostanze, un Georgiano del nord. Ciò che dava vita al commercio della regione era l'ondata di prosperità che allora volgeva verso il Sud. Tutto il mondo chiedeva cotone, e il nuovo terreno della Contea, fertile e non sfruttato, ne produceva in abbondanza. Il cotone era la pulsazione del cuore del paese; la semina e il raccolto erano la sistole e diastole della vermiglia terra. Dai solchi sinuosi veniva la ricchezza e anche l'arroganza; arroganza fondata sui verdi cespugli e sugli ettari di un bianco fioccoso. Se il cotone poteva farli ricchi in una generazione, quanto piú ricchi sarebbero nella prossima! La certezza dell'indomani dava entusiasmo e gioia di vivere; e la gente della Contea godeva la vita con un fervore che Elena non riuscí mai a comprendere. Avevano abbastanza denaro e abbastanza schiavi per avere anche il tempo di divertirsi; e si divertivano volentieri. Sembrava che non fossero mai tanto occupati da dover mancare a una partita di pesca, a una caccia o a una corsa di cavalli: ed era raro che passasse una settimana senza la sua riunione a base di porchette arrostite e il suo ballo. Elena non avrebbe mai potuto o voluto diventare simile a loro - aveva lasciato a Savannah troppo di se stessa - ma li rispettava e, col tempo ammirò la franchezza e la rettitudine di quel popolo che aveva poche reticenze ed apprezzava un uomo per quel che valeva. Divenne la signora piú amata della Contea. Era una vigile ed economa padrona di casa, una buona madre e una moglie devota. L'altruismo che avrebbe dedicato alla Chiesa fu invece consacrato al servizio dei suoi figliuoli, della sua casa e dell'uomo che l'aveva allontanata da Savannah e dai suoi ricordi e non le aveva mai rivolto alcuna domanda. Quando Rossella ebbe un anno - piú sana e vigorosa di qualsiasi altra bambina, secondo Mammy - nacque la seconda bambina di Elena, Susanna Eleonora, sempre chiamata Súsele, e, alla debita distanza, venne Carolene, iscritta nella Bibbia familiare come Carolina Irene. Seguirono poi tre maschietti, ognuno dei quali morí prima di avere imparato a camminare; tre bambini che ora dormivano sotto i cedri contorti, nel cimitero a cento metri dalla casa, sotto tre pietre ciascuna delle quali portava l'iscrizione «Geraldo O' Hara, Jr.» Dal giorno in cui Elena giunse a Tara, il luogo fu trasformato. Benché avesse solo quindici anni, ella era nondimeno pronta per tutte le responsabilità di una padrona di piantagione. Anche allora, prima del matrimonio, le ragazze dovevano essere soprattutto belle, gentili, decorative; ma dopo sposate, bisognava che fossero in grado di dirigere un'azienda domestica che contava oltre cento persone, fra bianchi e negri; e venivano educate in vista di questo. Elena aveva ricevuto quella preparazione per il matrimonio che veniva data a tutte le fanciulle di buona nascita; inoltre aveva con sé Mammy, la quale, con la sua energia, era capace di galvanizzare il negro piú inetto. In breve ella portò nel governo della casa di Geraldo ordine e dignità e diede a Tara una bellezza che non aveva mai avuta prima. La casa era stata costruita senza alcun piano architettonico prestabilito, aggiungendo delle camere quando occorrevano; ma con l'attenzione e la cura di Elena, acquistò un fascino speciale che derivava appunto dalla sua mancanza di disegno. Il viale di cedri che conduceva dalla strada principale alla casa - quel viale di cedri senza il quale nessuna casa di piantatore georgiano sarebbe stata completa - spandeva un'ombra cupa e fresca che per contrasto dava maggior vivezza e splendore al verde degli altri alberi. Il convolvolo che si arrampicava sulle verande appariva di un verde chiaro sul bianco delle mura; e insieme ad esso il rosa dei cespugli di ibisco accanto alla porta e le magnolie dai candidi fiori che si ergevano sulla spianata, nascondevano alquanto le linee goffe dell'edificio. In primavera e in estate il trifoglio e l'erba medica del prato diventavano color smeraldo, di uno smeraldo cosí seducente che rappresentava una tentazione irresistibile per i branchi di tacchini e di oche bianche che avrebbero, in realtà, dovuto abitare solo le regioni dietro alla casa. I volatili tentavano sempre delle clandestine avanzate sulla spianata, attratti dal verde dell'erba e dalla seducente promessa dei cespugli di gelsomini del Capo e delle aiuole di zinnie. Contro le loro ruberie era stata installata sotto al porticato una piccola sentinella nera. Il bambino seduto sui gradini, armato di un grande straccio bianco, faceva parte del quadro di Tara; ma era molto infelice perché gli era proibito di inseguire i gallinacei e doveva limitarsi a gridare e ad agitare lo straccio per spaventarli. Elena addestrava a questo còmpito dozzine di bambini negri: era il primo ufficio con una responsabilità che gli schiavi maschi avessero a Tara. Dopo i dieci anni venivano mandati dal vecchio Daddy, il ciabattino della piantagione per imparare il suo mestiere, o da Amos, il carpentiere, o da Filippo, il vaccaro, o da Cuffee, il guardiano delle mule. Se non mostravano attitudine per alcuno di questi mestieri, diventavano coltivatori e, nell'opinione dei negri, avevano perso il diritto a qualsiasi posizione sociale. La vita di Elena non era facile né felice; ma ella non si era aspettata che fosse facile, e quanto alla felicità, quello era il destino della donna. Il mondo era degli uomini ed ella lo accettava cosí. L'uomo era lodato per l'ordine della sua proprietà e la donna lodava la sua abilità. L'uomo rugghiava come un toro se una scheggia gli si ficcava in un dito e la donna soffocava i gemiti, quando metteva al mondo un figlio, per timore di disturbarlo. Gli uomini erano sgarbati e spesso ubriachi. Le donne ignoravano le cattive parole e mettevano gli ubriachi a letto senza parlare. Gli uomini erano rudi e brontoloni, le donne erano sempre buone, gentili e disposte a perdonare. Era stata educata nella tradizione delle grandi dame e le era stato insegnato a sopportare i propri dolori conservando il suo sorriso; ed ella intendeva che anche le sue tre figlie fossero, come lei delle vere signore. Con le figlie piú giovani era riuscita, perché Súsele desiderava tanto di essere piacente che prestava orecchio attento agli insegnamenti di sua madre, e Carolene era timida e facile da guidare. Ma, per Rossella, figlia di Geraldo, la via della signorilità fu dura. Con grande indignazione di Mammy, ella preferiva compagni di gioco che non fossero le sue ubbidienti sorelline o le bene educate fanciulle Wilkes, ma i bambini negri della piantagione e i maschietti del vicinato, ed era capace di arrampicarsi su un albero e di lanciar sassi. Mammy era molto turbata che la figlia di Elena avesse simili inclinazioni, e spesso la scongiurava di «condursi come una signora», ma Elena considerava la faccenda con una tolleranza piú lungimirante. Ella sapeva che i compagni d'infanzia sarebbero piú tardi diventati dei corteggiatori; e il primo dovere di una ragazza era sposarsi. Diceva quindi fra sé che la bimba era semplicemente piena di vita e che vi era tempo per insegnarle le arti e i modi che attraggono gli uomini. A tal fine Elena e Mammy riunirono i loro sforzi, e col passare degli anni, Rossella divenne una buona allieva, ma solo in questa materia, ché per tutto il resto imparava assai poco. Malgrado una successione di istitutrici e due anni trascorsi nella Accademia Femminile di Fayetteville, la sua educazione era incompleta; ma nessuna fanciulla della Contea parlava piú graziosamente di lei. Ella sapeva sorridere con garbo, camminare facendo ondeggiare i cerchi della sua gonna in modo attraente, sapeva guardare un uomo in faccia e poi abbassare gli occhi e battere le palpebre rapidamente in modo che sembrasse il tremito di una dolce emozione; e, soprattutto, aveva imparato a nascondere agli uomini un'intelligenza acuta sotto un viso dolce e semplice come quello di un bambino. Elena con la sua voce ammonitrice e Mammy con le sue costanti censure cercavano d'inculcare in lei le qualità che l'avrebbero resa veramente desiderabile come moglie. - Devi essere piú dolce, cara, piú remissiva - diceva Elena. - Non devi interrompere gli uomini che ti parlano, anche se credi di saperne piú di loro sull'argomento. Gli uomini non amano le ragazze troppo perspicaci. - Ragazze superbe che darsi arie e dire «voglio questo, voglio quello» di solito non trovare marito - profetizzava cupamente Mammy. - Le ragazze dovere abbassare occhi e dire «bene signore» e poi «Sí signore» e «avete ragione signore.» Le insegnarono dunque tutto ciò che una gentildonna doveva sapere, ma ella imparò soltanto la vernice della gentilezza. Non apprese mai la grazia interiore da cui questa gentilezza doveva sgorgare, e non vedeva neppure la ragione di apprenderla. Le apparenze bastavano, perché le apparenze della signorilità le acquistavano dei corteggiatori; ed ella non desiderava di piú. Geraldo proclamava che sua figlia era la piú bella di cinque Contee, e con un certo fondo di verità; infatti ella ebbe proposte di matrimonio da quasi tutti i giovani del vicinato ed anche da luoghi lontani, come Atlanta e Savannah. A sedici anni, grazie a Mammy e ad Elena, appariva gentile, simpatica e briosa, mentre in realtà era volontaria, vana e caparbia. Aveva ereditato la facile eccitabilità del padre irlandese e nulla della natura altruista e indulgente di sua madre, se non d'apparenza. Elena non si rese mai completamente conto che era soltanto una vernice, perché Rossella le mostrava soltanto il suo volto migliore, nascondendo le sue scappate, piegando il suo temperamento e apparendo in presenza di Elena piú dolce che poteva, perché sua madre, con un solo sguardo di rimprovero, riusciva a mortificarla fino alle lagrime. Ma Mammy non aveva illusioni sul suo conto ed era continuamente sul «chi vive» per le screpolature della vernice. Gli occhi di Mammy erano piú acuti di quelli di Elena, e Rossella non ricordava di essere mai riuscita ad ingannarla per molto tempo. Non che questi due mentori affettuosi deplorassero la vivacità, il fascino e la disinvoltura della giovinetta. Di tali qualità le donne meridionali andavano fiere. Erano invece preoccupate dalla natura impetuosa e dalla cocciutaggine di Geraldo che risorgevano in lei; e talvolta temevano che questi difetti non si sarebbero potuti nascondere prima che ella facesse un buon matrimonio. Ma Rossella intendeva sposarsi - e sposare Ashley - e perciò voleva apparire modesta, docile, e leggera, se queste erano le qualità che attraevano gli uomini. Non sapeva perché gli uomini fossero cosí; sapeva soltanto che questi metodi funzionavano. La cosa non l'interessò mai tanto da farle cercare la ragione di questo, poiché ella ignorava il lavorio interiore di ogni essere umano, e perfino il suo. Sapeva soltanto che se ella diceva o faceva «cosí - e cosà» gli uomini invariabilmente rispondevano col complimento «cosí - e cosà». Era come una formula matematica e non piú difficile di questa, perché la matematica era l'unica materia che era sembrata facile a Rossella quando andava a scuola. Se conosceva poco il raziocinio maschile, conosceva ancor meno quello femminile, perché le donne l'interessavano poco. Non aveva mai avuto un'amica e non ne aveva mai sentito la mancanza. Per lei tutte le donne, comprese le sue due sorelle, erano nemiche naturali che inseguivano la stessa preda: l'uomo. Tutte le donne, eccetto sua madre. Elena O'Hara era diversa, e Rossella la considerava come qualche cosa di sacro, fuori da tutto il resto del genere umano. Da bambina confondeva sua madre con la Vergine Maria, ed ora che era grande non vedeva ragione di mutare la sua opinione. Per lei Elena rappresentava la completa sicurezza che solo il cielo o una madre possono dare. Ella sapeva che sua madre era la personificazione della giustizia, della verità, della tenerezza affettuosa e della profonda saggezza: una gran dama. Rossella desiderava molto di essere come sua madre. La sola difficoltà era che essendo giuste e sincere, tenere e altruiste, si lasciavano sfuggire la maggior parte delle gioie della vita e senza dubbio si allontanavano molti corteggiatori. La vita era troppo breve per rinunciare a tante cose piacevoli. Un giorno, quando avesse sposato Ashley e fosse vecchia, un giorno, quando ne avrebbe il tempo, cercherebbe di essere come Elena. Ma fino allora...

Pagina 52

Il romanzo della bambola

222186
Contessa Lara 1 occorrenze
  • 1896
  • Ulrico Hoepli editore libraio
  • Milano
  • paraletteratura - romanzi
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A quest'ultimo verso anche i cani, in tutto il teatro, abbaiavano; le donne piangevano; gli uomini gridavano: - Dàlli a quella sgrinfia! - Ammazzala, quella poco di buono! - Mandala al diavolo, quella birbona! Ti giuro che, delle volte, mi venivano i lucciconi anche a me. Acqua passata, dirai... Eh, lo so purtroppo: che ci si fa? Bisogna rassegnarsi a' decreti della Provvidenza. Di lì a qualche tempo il padrone fallì, e dovette vendere, è il caso di dirlo, baracca e burattini, tutti i paladini di Francia, tutte le belle donne d'Asia e d'Europa: totale, quattro lire e cinquanta centesimi: la sola corona di Carlo Magno valeva di più. Girammo ancor qualche mese per la Ciociaria, per i castelli romani: ma cosa vuoi? Il nostro padrone non c'era più a farci parlare con quella sua bella voce di basso profondo: quest'altro, il nuovo padrone, aveva una vocetta di ragno che faceva compassione. Non si poteva andare avanti, via! E una sera, per dispetto, m'hanno buttato qui, in mezzo agli stracci. Pazienza! - E fece un altro sospiro, più forte del primo. La Giulia, che da principio aveva avuto paura di trovarsi così sola con un facinoroso di quella fatta, a poco a poco, dopo averne udita la storia, cominciava a riconciliarsi con lui. Era, in fine, suo prossimo, un fantoccio come lei, e come lei aveva sofferto tanto! Ora i patimenti hanno almeno questo di buono: che ci fanno amare tutti coloro i quali sono caduti nella nostra stessa miseria. La Giulia, dunque, andava quasi dimenticando il suo proprio stato per commiserar quello del povero Orlando, e lo guardava con una gentilezza commossa, con una pietà quasi fraterna, che non si sarebbe immaginata davvero di dover mai provare per un burattino. Quand'egli tacque, e non accennò più a parlare, la bambola ebbe quasi rimorso di non avergli ancóra rivolta la parola: le pareva d'averlo ingiustamente mortificato. E, per rimediare in qualche modo alla mala fatta, gli disse con una vocina sottile, sottile, così sottile che uno di noi non avrebbe potuto udirla, vera vocina da bambola: - Io mi chiamo Giulia. Un'altra risata fu la risposta del burattino. La bambola Io guardò tristemente: perchè si faceva beffe di lei? - Giulia? - rispose Orlando - ma ti par egli un nome, cotesto? Ti chiamassi almeno Logistilla, come la sorella d'Alcina, o Marfisa, come la sorella del mio amico Ruggiero, quello che sposò la valorosa Bradamante, o Olimpia o Ginevra - ma Giulia!... Non ho mai sentito dire che un cavaliere errante avesse, in famiglia, nessuna donna che portasse un nome simile. Ma già, per fortuna, il nome non vuol dir nulla, come nè pure la nascita: l'uomo va giudicato dalle azioni. - Meno male! - pensò la Giulia, a cui quest'ultima osservazione avea ridato un po' di coraggio. - E tu che vita hai fatta? - le domandò Orlando.

Pagina 95

Cosima

243854
Grazia Deledda 1 occorrenze
  • 1947
  • Arnoldo Mondadori Editore
  • Milano
  • verismo
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Era un uomo rude, il portalettere, anche lui rosso di pelo e di pelle; e quando passava, con le sue grosse scarpe, battendo alle porte dei cittadini e gridando forte: «posta, posta», tutti gli echi intorno si risvegliavano, persino i cani abbaiavano, l'aria prendeva un colore di inquietudine. Per Cosima rappresentava un personaggio quasi mitologico, apportatore di bene e di male, e quando ne sentiva la voce di lontano tremava come se il destino fosse in cammino verso di lei. Era stato lui, in fatti, a portarle le lettere di gloria e di amore, di umiliazione e di speranza, e il vaglia, e i giornali col suo nome scritto come su lapidi che le parevano eterne. Adesso ella aspettava notizie da un mondo misterioso, lontano, quasi di là dai confini del mondo reale: lettere dell'esploratore, che a quel suo mondo nuovo voleva mettere il nome di lei. Ma il portalettere passava con la borsa, che faceva un rumorino speciale, sulla cinghia di cuoio, come quello dei carnieri dei cacciatori, e picchiava con violenza il battente della porta del negoziante di scorze, traendo dalla borsa un pacco di lettere e di giornali. E a lei nulla: e la voce aspra dell'uomo della sorte che si andava affievolendo le pareva si burlasse crudelmente di lei. Cosí passò la bella stagione: ella non si curava piú neppure di Antonino. Di nessuno si curava, tranne che delle sue scritture, illuminate dalla luce di quel sogno che era il piú bello dei romanzi che ella avrebbe mai potuto scrivere. In ottobre ci fu, come al solito, la vendemmia. No, non come al solito, poiché la madre, d'accordo con Andrea, aveva fatto costruire una piccola casa di pietra nella vigna, sotto un pino che vigilava solitario la grande distesa quasi tutta selvaggia come una landa, e dichiarò che la voleva abitare per qualche settimana. Solo la vigna rallegrava coi suoi quadrati verdi e gialli, con qualche filare di grandi fichi bassi, la dolce triste solitudine del luogo: i monti lontani innalzavano una muraglia azzurra intorno all'orizzonte. Un colono del Continente coltivava, fin dal tempo in cui era vivo il padre di Cosima, la vigna da lui piantata, e un grande orto che godeva di un rivolo d'acqua raccolto in una vasca ampia come un laghetto, circondata di giunchi, canne e salici selvaggi. Il luogo era bello: una specie di oasi nella desolazione della pianura incolta e pietrosa, saettata, nell'estate, da un sole implacabile. Ed ecco, adesso, la casetta di pietra lo rendeva piú pittoresco ed ospitale: erano appena due stanze, addossate ad un'altra, piccola, che fino a quel tempo era stata l'abitazione del solitario colono, il quale non si moveva mai dal posto, rifornito ogni tanto di pane e altri viveri da Andrea, che di ritorno portava a casa i prodotti dell'orto. Erano per lo piú patate, legumi, verze, zucche e insalate, e qualche volta anche poponi e cocomeri. E nella stagione l'uva, quasi tutta da vino, quel vino leggero ma saporoso che aveva aiutato Cosima a comprar francobolli e spedir manoscritti. Fu dunque mandato un carro di mobili, come si usava per andare al Monte: e Cosima si offrí ad accompagnare la madre, mentre le sorelle, che non volevano neanche sentir parlare di un luogo sperduto come quello, sarebbero rimaste a casa sotto la sorveglianza della serva fedele. Il servo che accompagnava il carro sarebbe rimasto nella vigna, e anche Andrea vi avrebbe passato la notte, per maggior sicurezza delle donne. Ma il luogo era tranquillo; non si era mai sentito parlare di vicende spiacevoli: l'aperta e nuda pianura non permetteva neppure il passaggio di malviventi, tanto che il colono non aveva un'arma, un cane. Ad ogni modo una pattuglia di carabinieri a cavallo adibita alla sicurezza stradale, percorreva ogni giorno lo stradone comunale che attraversava quella specie di altipiano selvaggio. Cosima e la madre s'incamminarono, a piedi, lungo lo stradone, dopo aver oltrepassato le ultime case del paese. La giornata era limpida, tiepida; un acquazzone aveva rinfrescato i campi, e gli stessi cespugli e le erbe già inariditi della distesa intorno alla vigna avevano ripreso il verde: le ginestre fiorivano ancora, ancora qualche sambuco nano, dove il terreno era umido, apriva le sue ombrelle d'argento filigranato. Il pino, sopra la casetta che ancora odorava di calce, vibrava tutto di canti d'uccelli: ce n'erano di ogni specie, sopra tutto di passeracei, poiché era l'unico rifugio del luogo, e il loro chiassoso concerto strideva anche di voci di battaglia; tutti però d'accordo nello scavare i fichi nella vigna e a piluccare l'uva, nonostante gli spauracchi drizzati qua e là dall'ingegnoso colono. Del resto anche lui aveva l'aspetto di uno spaventapasseri, alto, scarno, dinoccolato, con gli enormi piedi scalzi nodosi, i calzoni logori di fustagno rimboccati sulle caviglie rosse, e altrettanto le maniche sulle braccia che, se egli stringeva i grossi pugni, sembravano clave. Tutto il suo aspetto era, piú che di contadino, di vecchio marinaio, di «lupo di mare», per il viso arso, di terracotta, i capelli irsuti di colore del sale, e come scarmigliati dal vento; ma specialmente per gli occhi piccoli, stretti, dei quali si vedeva quasi solo la pupilla verdognola. Quando arrivarono le padrone egli aiutava il servo a scaricare la roba dal carro, e non rispondeva alle domande e agli scherzi dell'altro: pareva sordo, anzi anche muto, perché salutò solo con un cenno del capo, e non aprí la lunga bocca rientrante, quasi invisibile. In cambio parlava molto il servo, un giovìnotto bruno tutto occhi e denti, che ogni tanto si aggiustava la cintura e rideva per nulla: la sua presenza metteva allegria, e quasi egli piaceva alla signorina: lo trovava per lo meno della sua razza, uno schietto contadino, figlio della stessa terra, mentre il colono - già per il nome stesso, che gli era stato consacrato dal vecchio padrone - rappresentava uno straniero, un lavoratore di terre lontane, d'origine ignota se non quasi misteriosa. Infatti nessuno aveva mai saputo la sua provenienza, anche perché nessuno, dopo il tempo in cui, finita la sorveglianza della polizia, era stato assunto in servizio dal signor Antonio e confinato lí nella vigna solitaria, nessuno se ne era piú curato: neppure Andrea, che come il corvo ad Elia, gli portava il pane. E infatti l'uomo si chiamava Elia. Dopo che ebbero messo a posto, nelle due stanzette, i Tettucci, due tavolini, alcune sedie, un attaccapanni e qualche arnese di cucina, i due uomini se ne andarono a lavorare, a togliere i pampini superflui alle viti, perché l'uva finisse di maturare; il giovine servo si mise a cantare, e la sua voce sonora ma monodica si sperdeva come nella vastità di una chiesa deserta. Allora Cosima, come già aveva fatto sul Monte, cominciò a riordinare e abbellire quella che, per far sorridere la madre, chiamava la villa. La madre non sorrideva: come sempre era taciturna e chiusa in una tutta sua segreta preoccupazione: ma gli occhi le si erano un po' illuminati, e il da fare che si diede, per preparare un po' di cibo nel camino della prima stanzetta, adibita a cucina, sala da pranzo e da ricevere, la distrasse. Si sarebbe potuto usufruire, per gli usí più comuni, della cameretta del colono, dove c'era un vecchio e grande camino che tirava molto bene; ma la padrona intendeva rispettare gli antichi privilegi del dipendente, che con la sua sola opera si era costruito quel rifugio da quando aveva assunto servizio nella vigna, e vi teneva i suoi stracci e il suo giaciglio. Cosima d'altronde ci sentiva odore di selvatico e non le sarebbe piaciuto neppure di guardare dentro se il vecchio non avesse attirato la sua curiosa attenzione, interessata, di osservatrice di tipi fuori del comune, con la nebulosità del suo passato e la sagoma della sua figura. Egli avrebbe forse potuto, ad esplorarlo, a farlo diventare docile e confidente, raccontarle qualche cosa d'interessante, con un colore diverso dal locale, qualche cosa da mettersi sulla carta e trasformarlo in materia d'arte. Appena dunque l'abitazione fu in ordine, ella andò nella vigna, dove i due uomini lavoravano, e diede ascolto ai discorsi del servo paesano, poiché l'altro conservava il suo assoluto e impassibile mutismo. «Speriamo» diceva il giovinotto «che la vostra mutria si cambi in buon umore fra una settimana, quando verranno le ragazze a vendemmiare. Verranno due mie cugine: ma quelle dovete contentarvi di guardarle da lontano e di non toccarle neppure con una canna: le altre, che la padrona sceglierà di suo gusto, ve le lascio liberamente, vecchio cinghiale.» Il vecchio cinghiale pareva non lo sentisse neppure: solo, all'accenno di una donna, una vedova già anziana, che un tempo si diceva avesse avuto relazioni con l'esiliato, i suoi occhi si allargarono un poco, ed egli scosse il mazzo di foglie di viti che teneva in mano: ma non apri bocca, non si volse a guardare Cosima che era arrivata in mezzo al filare e lo osservava silenziosa. Né piú fruttuosi furono gli altri approcci durante quella prima giornata, sebbene ai due uomini fosse servito un pasto certo per loro insolito, preparato dalla padrona, e anche lei tentasse di attaccare discorso col vecchio taciturno. Egli rispondeva sí e no alle domande di lei, riguardanti l'orto e la vigna, nel vederla si alzava e si piegava con segni di un rispetto quasi esagerato: null'altro. «È un idiota» disse il servo, quando l'altro non poteva sentirlo. «Ma è anche malizioso, e la sa lunga.» E raccontò della vedova, che un tempo veniva a trovarlo nella vigna, e accennò al lontano passato di lui. Pare che avesse tentato di derubare un suo ricchissimo parente, nelle cui terre lavorava: sebbene il parente avesse rimesso la querela, Elia era stato condannato. Poi la voce cambiava; il parente diventava un banchiere, o addirittura una banca, che era stata, svaligiata da un gruppo di ladri, dopo narcotizzato il custode, e fra i manigoldi era Elia. Disse la padrona : «Se fosse stato cosí, il mio povero marito non l'avrebbe assunto al suo servizio.» «Oh, il signor Antonio era buono: era un santo, di quelli che non ne nascono piú» disse il servo. Nel pomeriggio arrivò, a cavallo, Andrea. Fra le altre cose portava un giornale e una lettera per Cosima. Una lettera! Ella la prese, come faceva sempre, trepidando: le pareva, ogni volta, di afferrare un uccello a volo, l'uccello favoloso della fortuna e della felicità. Ma questa era una semplice lettera d'invito a mandare i suoi libri a un giornaletto, che prometteva di parlarne ai suoi lettori. Ed ella la lasciò andare, come appunto si lascia andare un uccellino che non serve a niente. Ad ogni modo la giornata fini bene: il tramonto arrossava la vigna, la vasca e i salici scintillavano; le distese della pianura avevano la calma e melanconica poesia della steppa, come Cosima l'aveva intraveduta in qualche racconto russo: ma il punto centrale del paesaggio, il piú bello, era il pino solitario entro il quale vibravano le fiamme del sole che pareva vi si annidasse come un grande uccello di porpora. E Cosima se ne andò per un sentiero della brughiera, dove avrebbe potuto camminare finché voleva, poiché non c'era pericolo di sperdersi, e dalla vigna potevano sorvegliarla con un solo sguardo. Le erbe sembravano colore di rosa, ogni seme, ogni fiorellino, ogni bacca, aveva come un occhio d'oro che rispondeva al suo sguardo: e i monti lontani, color d'acquamarina, svaporavano nel cielo arancione e verde e rosso che a poco a poco trascolorava e cambiava tinta. Una coccinella sali, da un cespuglio, sulla veste di Cosima, come su un cespuglio piú alto: andò su, su, tranquilla, fino al braccio di lei, fino alla sua mano. Era un essere meraviglioso e quasi terribile: sul piccolo dorso piatto, d'un rosso scuro di lacca, era disegnato in nero un viso umano perfetto, con gli occhi, il naso, la bocca, tutti un po' obliqui come nelle maschere giapponesi: parve a Cosima che quegli occhi la guardassero, con la stessa meraviglia misteriosa con cui lei li guardava. Arrivata all'estremità del dito medio, sull'unghia rosea di tramonto, la coccinella aprí due piccole ali iridate e volò via. Cosima avrebbe voluto imitarla, ma i suoi piedi erano legati alla terra, ed ella avrebbe dovuto camminare fino all'estremità del mondo per potersi slanciare cosí. Quando il sole spari, uno stupore quasi infantile parve incantare ogni cosa: il cielo si fece trasparente come l'acqua, e la stella che apparve sull'orizzonte vi tremolò come appunto riflessa dal mare. Mai Cosima, neppure sul limite dei boschi e delle roccie del Monte, davanti ai sontuosi tramonti visti dall'alto, aveva provato una malia simile a questa che l'avvolgeva in mezzo alla terra incolta, guardata solo da Dio. Invece di sentirsi piccola, e poiché era impotente a volare, le parve di essere alta, alta fino a toccare con la fronte la stella della sera; eppure in quel momento dimenticava tutte le sue ambizioni, i suoi vani sogni, la sua attesa di avvenimenti straordinari. La vita era bella cosí, anche fra gli umili steli nati da sé, fra le cose create da Dio per la gioia del cuore che è vicino a lui come il cuore del bambino a quello della madre: ed ella ne ebbe quasi la prima rivelazione, e si senti uno scalino ancora piú in alto, nella scala di Giacobbe che doveva essere la sua vita. Cosí, per nulla: solo perché vedeva la stella della sera brillare sopra i monti non meno e non piú meravigliosa della coccinella, e le erbe selvatiche odoravano al suo passaggio. Decise di non aspettare piú nulla che le arrivasse dall'esterno, dal mondo agitato degli uomini; ma tutto da se stessa, dal mistero della sua vita interiore. Cosí, ebbe fine l'attesa delle notizie dell'esploratore: e anche lui, del resto, non scrisse piú.

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Il romanzo della bambola

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Contessa Lara 1 occorrenze
  • 1896
  • Ulrico Hoepli editore libraio
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A quest'ultimo verso anche i cani, in tutto il teatro, abbaiavano; le donne piangevano; gli uomini gridavano: - Dàlli a quella sgrinfia! - Ammazzala, quella poco di buono! - Mandala al diavolo, quella birbona! Ti giuro che, delle volte, mi venivano i lucciconi anche a me. Acqua passata, dirai... Eh, lo so purtroppo: che ci si fa? Bisogna rassegnarsi a' decreti della Provvidenza. Di lì a qualche tempo il padrone fallì, e dovette vendere, è il caso di dirlo, baracca e burattini, tutti i paladini di Francia, tutte le belle donne d'Asia e d'Europa: totale, quattro lire e cinquanta centesimi: la sola corona di Carlo Magno valeva di più. Girammo ancor qualche mese per la Ciociaria, per i castelli romani: ma cosa vuoi? Il nostro padrone non c'era più a farci parlare con quella sua bella voce di basso profondo: quest'altro, il nuovo padrone, aveva una vocetta di ragno che faceva compassione. Non si poteva andare avanti, via! E una sera, per dispetto, m'hanno buttato qui, in mezzo agli stracci. Pazienza! - E fece un altro sospiro, più forte del primo. La Giulia, che da principio aveva avuto paura di trovarsi così sola con un facinoroso di quella fatta, a poco a poco, dopo averne udita la storia, cominciava a riconciliarsi con lui. Era, in fine, suo prossimo, un fantoccio come lei, e come lei aveva sofferto tanto! Ora i patimenti hanno almeno questo di buono: che ci fanno amare tutti coloro i quali sono caduti nella nostra stessa miseria. La Giulia, dunque, andava quasi dimenticando il suo proprio stato per commiserar quello del povero Orlando, e lo guardava con una gentilezza commossa, con una pietà quasi fraterna, che non si sarebbe immaginata davvero di dover mai provare per un burattino. Quand'egli tacque, e non accennò più a parlare, la bambola ebbe quasi rimorso di non avergli ancóra rivolta la parola: le pareva d'averlo ingiustamente mortificato. E, per rimediare in qualche modo alla mala fatta, gli disse con una vocina sottile, sottile, così sottile che uno di noi non avrebbe potuto udirla, vera vocina da bambola: - Io mi chiamo Giulia. Un'altra risata fu la risposta del burattino. La bambola Io guardò tristemente: perchè si faceva beffe di lei? - Giulia? - rispose Orlando - ma ti par egli un nome, cotesto? Ti chiamassi almeno Logistilla, come la sorella d'Alcina, o Marfisa, come la sorella del mio amico Ruggiero, quello che sposò la valorosa Bradamante, o Olimpia o Ginevra - ma Giulia!... Non ho mai sentito dire che un cavaliere errante avesse, in famiglia, nessuna donna che portasse un nome simile. Ma già, per fortuna, il nome non vuol dir nulla, come nè pure la nascita: l'uomo va giudicato dalle azioni. - Meno male! - pensò la Giulia, a cui quest'ultima osservazione avea ridato un po' di coraggio. - E tu che vita hai fatta? - le domandò Orlando.

Pagina 95

Dramm intimi

250029
Giovanni Verga 1 occorrenze
  • 1884
  • Casa Editrice A. Sommaruga e C.
  • Roma
  • Verismo
  • UNICT
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Il Canonico allibì, colla coroncina tuttora in mano, e le donne si fecero la croce, tendendo le orecchie, mentre i cani nel cortile abbaiavano furiosamente. Quasi subito rimbombò un'altra schioppettata di risposta nel vallone sotto la Rocca. — Gesù e Maria, che sarà mai? — esclamò la fante sull'uscio della cucina. — Zitti tutti? — esclamò il Canonico, pallido come il berretto da notte. — Lasciatemi sentire. E si mise dietro l' imposta della finestra. I cani si erano chetati, e fuori si udiva il vento nel vallone. A un tratto riprese l'abbaiare più forte di prima, e in mezzo, a brevi intervalli, si udì bussare al portone con un sasso. — Non aprite, non aprite a nessuno! — gridava il Canonico, correndo a prendere la carabina al capezzale del letto, sotto il crocifisso. Le mani gli tremavano. Poi, in mezzo al baccano, si udì gridare dietro il portone: — Aprite, signor Canonico; son io Surfareddu ! — E come finalmente il fattore dal pianterreno escì a chetare i cani e a tirare lo spranghe del portone, entrò il camparo, Surfareddu, scuro in viso e con lo schioppo ancora caldo in mano. — Che c' è, Grippino? Cos' successo? — chiese il Canonico spaventato. — C' è, vossignoria, che mentre voi dormite e riposate, io arrischio la pelle per guardarvi la roba — rispose Surfareddu. E raccontò cos' era successo, in piedi, sull'uscio, dandolandosi alla sua maniera. Non poteva pigliar sonno, dal gran caldo, e s'era messo un momento sull'uscio della capanna, di là, sul poggetto, quando aveva udito rumore nel vallone, dove era il frutteto, un rumore come le suo orecchie sole lo conoscevano, e la Bellina, una cagnaccia spelata e macilenta che gli stava allo calcagna. Bacchiavano nel frutteto arance e altre frutta; un fruscìo che non fa il vento; e poi ad intervalli silenzio, mentre empivano i sacchi. Allora aveva preso lo schioppo d'accanto all'uscio della capanna, quel vecchio schioppo a pietra con la canna lunga e i pezzi d'ottone che aveva in mano. Quando si dice il destino! Perchè quella eral' ultima notte che doveva stare a Santa Margherita. S'era licenziato a Pasqua dal Canonico, d'amore e di accordo, e il 1° settembre doveva andare dal padrone nuovo, in quel di Vizzini. Giusto il giorno avanti s'era fatta la consegna di ogni cosa col Canonico. Ed era l'ultimo di agosto: una notte buia e senza stelle. Bellina andava avanti, col naso al vento, zitta, come l'aveva insegnata lui. Egli camminava adagio adagio, levando i piedi alti nel fieno perchè non si udisse il fruscìo. E la cagna si voltava ad ogni dieci passi per vedere se la seguiva. Quando furono al vallone, disse piano a Bellina: — Dietro ! — E si mise al riparo di un noce grosso. Poi diede la voce — Ehi!... Una voce, Dio liberi! — diceva il Canonico — che faceva accapponar la pelle quando si udiva da Surfareddu, un uomo che nella sua professione di camparo aveva fatto più di un omicidio. — Allora — rispose Surfareddu — allora mi spararono ad- dosso a bruciapelo — panf! — Per fortuna che risposi al lampo della fucilata. Erano in tre, e udii gridare. Andate a vedere nel frutteto, che il mio uomo dev'esserci rimasto. — Ah! cos'hai fatto, scellerato ! — esclamava il Canonico, mentre le donne strillavano fra di loro. — Ora verranno il giudice e gli sbirri, e mi lasci nell' imbroglio! — Questo è il ringraziamento che mi fate, vossignoria? — rispose brusco Surfareddu. — Se aspettavano a rubarvi sinchè io me ne fossi andato dal vostro servizio, era meglio anche per me, che non ci avrei avuto quest'altro che dire con la giustizia. — Ora vattene ai Grilli, e di' al fattore che ti mando io. Domani poi ci avrai il tuo bisogno. Ma che nessuno ti veda, per l'amor di Dio, ora ch'è tempo di fichidindia, e la gente è tutta per quelle balze. Chissà quanto mi costerà questa faccenda; che sarebbe stato meglio tu avessi chiuso gli occhi. — Ah no , signor Canonico ! Finchè sto al vostro servizio, sfregi di questa fatta non no soffre Surfareddu! Loro lo sapevano che fino al 31 agosto il custode del vostro podere era io. Tanto peggio per loro! La mia polvere non la butto via, no! E se ne andò con lo schioppo in spalla e la Bellina dietro, ch'era ancor buio. Nella casina di Santa Margherita non si chiuse più occhio quella notte, pel timore dei ladri e il pensiero di quell'uomo steso a terra lì nel frutteto. A giorno chiaro, quando cominciarono a vedersi dei viandanti sulla viottola dirimpetto, nella Rocca, il Canonico, armato sino ai denti e con tutti i contadini dietro, si arrischiò ad andare a vedere quel ch'era stato. Le donne strillavano: — Non andate, vossignoria! Ma appena fuori del cortile si trovarono fra i piedi Luigino, che era sgattajolato fra la gente. — Portate via questo ragazzo — gridò lo zio canonico. — No ! voglio andare a vedere anche io! — strillava costui. E dopo, finchè visse, gli rimase impresso in mente lo spettacolo che aveva avuto sotto gli occhi così piccolo. Era nel frutteto, fatti pochi passi, sotto un vecchio ulivo malato, steso per terra, e col naso color fuligine dei moribondi. S'era trascinato carponi su di un mucchio di sacchi vuoti ed era rimasto lì tutta la notte. I suoi compagni nel fuggire s'erano portati via i sacchi pieni. Lì presso c'era un tratto di terra smossa colle unghie e tutta nera di sangue. — Ah ! signor canonico — biascicò il moribondo — Per quattro ulive m' hanno ammazzato! Il canonico diede l'assoluzione. Poscia, verso mezzogiorno, arrivò il Giudice con la forza, e voleva prendersela col Canonico, e legarlo come un mascalzone. Per fortuna che c' erano tutti i contadini e il fattore con la famiglia testimoni. Nondimeno il Giudice si sfogò contro quel servo di Dio che era una specie di barone antico per le prepotenze, e teneva al suo servizio degli uomini come Surfareddu per campari, e faceva ammazzar la gente per quattro ulive. Voleva consegnato l'assassino morto o vivo, e il Canonico giurava e spergiurava che non ne capiva nulla. Tanto che un altro po' il Giudice lo dichiarava complice e mandante, e lo faceva legare ugualmente dagli sbirri. Così gridavano e andavano e venivano sotto gli aranci del frutteto, mentre il medico e il cancelliere facevano il loro ufficio dinanzi al morto steso sui sacchi vuoti. Poi misero la tavola all'ombra del frutteto, pel caldo che faceva, e le donne indussero il signor Giudice a prendere un boccone perchè cominciava a farsi tardi. La fantesca si sbracciò: maccheroni, intingoli d'ogni sorta, e le signore stesse si misero in quattro perchè la tavola non sfigurasse in quell'occasione. Il signor Giudice se ne leccò le dita. Dopo, il cancelliere rimosse un po' la tovaglia da una punta, e stese in fretta dieci righe di verbale, con la firma dei testimoni e ogni cosa, mentre il Giudice pigliava il caffè fatto apposta con la macchina, e i contadini guardavano da lontano, mezzo nascosti fra gli aranci. Infine il Canonico andò a prendere con le sue mani una bottiglia di moscadello vecchio che avrebbe risuscitato un morto. Quell'altro intanto l'avevano sotterrato alla meglio sotto il vecchio ulivo malato. Nell'andarsene il Giudice gradì un fascio di fiori dalle signore, che fecero mettere nelle bisacce della mula del cancelliere due bei panieri di frutta scelte; e il Canonico li accompagnò sino al limite del podere. Il giorno dopo venne un messo del Mandamento a dire che il signor Giudice avea persa nel frutteto la chiavetta dell'orologio, e che la cercassero bene che doveva esserci di certo. — Datemi due giorni di tempo, che la troveremo — fece rispondere il Canonico. E scrisse subito ad un amico di Caltagirone perchè gli comprasse una chiavetta d'orologio. Una bolla chiave d'oro che gli costò due onze, e la mandò al signor Giudice dicendo: - È questa la chiavetta che ha smarrito il signor Giudice ? - È questa, sissignore — rispose lui: e il processo andò liscio por la sua strada, tantochè sopravvenne il 60, e Surfareddu tornò a fare il camparo dopo l' indulto di Garibaldi, sin che si fece ammazzare a sassate in una rissa con dei campaci per certa quistione di pascolo. E il Canonico, quando tornava a parlare di tutti i casi di quella notte che gli aveva dato tanto da fare, diceva a proposito del Giudice d' allora: — Fu un galantuomo ! Perchè invece di perdere la sola chiavetta, avrebbe potuto farmi cercare anche l' orologio e la catena. Nel frutteto, sotto l'albero vecchio dove è sepolto il ladro delle ulive, vengono cavoli grossi come teste di bambini.