Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbaiava

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Il ritorno del figlio. La bambina rubata.

245358
Grazia Deledda 2 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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Lo stesso cane aveva una diversa disposizione verso di me: abbaiava, e il ragazzo doveva tenerlo fermo per impedirgli di entrare nella casa. Io non avevo più paura di nulla, di nessuno: mi sentivo la forza di lottare anche coi cani arrabbiati. Misi il foglietto con l'indirizzo nel portafoglio e anche questa volta lasciai intravedere il denaro che avevo là dentro. Vidi il ragazzetto che si volgeva agli uomini come per dire: "vedete che non sono stato bugiardo,,, e subito mi pentii del mio atto. I mietitori erano tutti dei poveri diavoli, tristi, bruciati dal sole e dalla fatica: mi pareva di averli insultati col far loro vedere il mio denaro e la mia speranza. Se ci fosse stata un'osteria lì accanto, li avrei invitati a bere: non potevo domandare del vino a quell'uomo che non cessava di tenermi d'occhio, con la sua roncola in mano: però mi venne una delle solite idee: salutai, e nell'andarmene feci segno al ragazzetto che mi venisse incontro nella strada. Ci arrivò lui prima di me. E io gli diedi una moneta, accennandogli di comprare del vino e distribuirlo a mio nome ai mietitori. Avevo fatto qualche centinaio di passi quando due di essi mi raggiunsero e mi si misero uno per fianco cercando subito di farmi intendere qualche cosa: mi proponevano, a quanto ho potuto capire, di farli lavorare nel mio terreno. Erano tutti e due scalzi, coi piedi enormi di vagabondi, coi capelli rossicci e il petto nudo che pareva scorticato. Al tramonto le loro ombre si allungavano come due pali davanti a me ai fianchi della mia ombra tozza; e le loro falci scintillavano. Mi destarono dapprima un senso di diffidenza: mi sembrava, guardando le nostre tre ombre sul bianco della strada, di essere Cristo fra i due ladroni. Ma gli occhi dei due uomini erano buoni, dolci, e mi rassicuravano. Si arrivò al paese che era già sera. Il mio treno partiva alle dieci e io mi fermai per mangiare qualche cosa in una piccola trattoria popolare vicina alla stazione, ove di solito cenavano i ferrovieri, gli operai, i carrettieri e i facchini. Anche i miei due compagni entrarono poco dopo di me e presero posto a una tavola accanto alla mia. Ma ordinarono solo del vino. Avevano con loro del pane e pomidoro; ed uno di essi mi accennò scherzosamente se volevo partecipare al loro pasto. II locale costruito in legno, cucina e sala da mangiare assieme, era rischiarato da lumi ad acetilene che spandevano un odore soffocante e una luce cruda velata dal fumo dei fornelli. Uomini in camiciotto azzurro, soldati e ferrovieri entravano ed uscivano. Non si vedeva una donna, tranne quelle che stavano nella cucina. Io ordinai uova e frutta e del vino bianco che subito mi diede una leggera ubriachezza. Alcuni soldati vennero a sedersi alla mia tavola; erano giovani allegri e si urtavano ridendo e, offrendosi il vino con tale insistenza che se lo versavano addosso. Mi venivano in mente i miei compagni d'Istituto, i giuochi e gli spintoni con loro. Una grave tenerezza mi vinceva: quel movimento, quelle luci attorno, mi davano un piacevole capogiro; pensavo di prendere il treno, ma di non fermarmi presso la zia: potevo proseguire in cerca di Fiora: consultai l'orario: quando sollevai gli occhi non vidi più i due mietitori. Il locale era pieno di gente; il padrone con tre bottiglie e tre piatti per mano non faceva a tempo a servire tutti. Suonai più volte perchè mi portasse il conto: egli sembrava più sordo di me. Stanco di aspettare, mi alzo e vado in fondo, verso la cucina: urto contro qualcuno; finalmente riesco a farmi capire: ma quando cerco i denari per pagare mi accorgo che non ho più il portafoglio.

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Forse là dentro si chiacchierava, forse un cane nell'aia abbaiava. Io non sentivo nulla. Tutto era buio nel resto della casa e la porticina dell'aia era chiusa. Rimasi alcuni momenti immobile attaccato al muro sotto la finestra: sentivo iI cuore battermi, ma null'altro. Poi mi prese il pazzo desiderio di afferrare quel lembo di luce, come una bandiera da una vetta: mi slanciai, una, due volte; d'un tratto la luce si spense, e mi parve di averla spenta io. Tornai indietro, nella vigna; e anche laggiù non trovai più la luminosità di prima. Tutto era diverso, tutto scuro. Camminai fino a trovarmi davanti alla casa colonica. Dalla parte della facciata le piccole finestre dell'unico piano sopra il terreno, e i due grandi portoni, tutto era chiuso: l'odore del fieno, del letame, delle bestie, si mescolava al profumo della notte. Toccai tutti e due i portoni, sempre più meravigliato che nessuno apparisse: mi sembrava di sognare, di essere morto e che fosse la mia anima a errare in cerca di un rifugio. E mi dispongo ad allontanarmi, quando nel prato a fianco della casa vedo un quadrato di luce, come una finestra aperta sull'erba un'ombra vi si disegna: è la testa di lei! Oramai la riconosco così bene, anche nella sua ombra. Di volo sono là: e vedo una piccola finestra illuminata, e la figura di lei che vi si affaccia immobile, più scura della sua ombra. Dapprima non parve badare a me. Mai come in quel momento avevo sentito lo spasimo di non poter gridare. Mi misi sul quadrato di luce sull'erba, in modo ch'ella potesse vedermi: ella restava immobile. Allora mi slanciai fin sotto la sua finestra, con l'intenzione di andare a sbattermi, a sfracellarmi contro il muro; ma io non avevo toccato questo, ch'ella, d'un botto, certamente spaventata, chiuse la finestra. Di nuovo tutto fu buio. Ma io non potevo andarmene così. Mi buttai a terra, trassi il taccuino, trassi i fiammiferi: scrissi alcune righe pazze, dove confessavo il mio delitto, il mio pentimento, il mio desiderio di perdono; e sotto il mio nome. Staccai il foglietto e l'avvolsi intorno a un sassolino che lanciai alla finestra. Il vetro si ruppe; parve ingoiarlo. Io aspettai ancora, ma nessuno apparve. Allora me ne tornai al paese e di là in casa della zia, alla quale feci conoscere la mia volontà ma anche la difficoltà di coltivare il terreno. Occorrevano dei denari: dove trovarne se lei non ne aveva? Lei non ne aveva, nè era donna capace di procurarsene. Invano io la lusingavo. "È un bel posto, con aria buona, con acqua buona. Venite a vederlo: vi piacerà. Verrete a stare con me: là potrete allevare tutte le bestie che vorrete. Saremo come in paradiso. Fabbricheremo una casetta e sarà piena di sole, di aria. Vendete questa casa, per procurarci i soldi.,, Ella si mise a ridere, lei che non rideva mai. E il suo riso mi ricordò quello di Fiora, quando le avevo proposto di sposarla. Mi venne desiderio di ammazzare la zia. D'altronde riconoscevo ch'era un'idea ingiusta, la mia, a pretendere che ella vendesse la sua vecchia casa alla quale era attaccata come un'anima al suo corpo. Può essere brutto e vecchio quanto volete, questo corpo; la sua anima non lo abbandona volentieri! Questa ragione non mi impediva di serbare astio alla zia e alla sua casa. Eppure questa parve cominciare ad esercitare un triste fascino anche su di me. Nei tempi dopo il ritorno dal "Platano,, , non uscivo mai: tutto al più continuavo ad andare a fare qualche spesa, per conto della zia, in una drogheria all'angolo della strada, dove questa s'incrocia con un'altra più larga tutta bianca di sole e di polvere con gli sfondi perduti uno nell'azzurro dei monti l'altro nell'azzurro del mare. Rientravo a casa stordito da quell'attimo di luce, di calore; e mi sembrava di rientrare in una grotta, tanto la nostra abitazione era diaccia e ombrosa. Solo nel cortiletto cadeva il sole, a picco, ma spariva presto, lasciandovi un tepore chiuso, fermo: i muri rivestiti di verde odoravano di musco, e a questo profumo un po' triste e voluttuoso si mischiava l'odore bestiale dei conigli. Io me ne stavo là, seduto su una cassa rovesciata, e pensavo continuamente alla mia avventura. A volte chiudevo gli occhi e mi pareva di essere ancora nella vigna in fiore: un misterioso senso di attesa mi si risvegliava nel cuore e lagrime di tenerezza mi bagnavano gli occhi. No, tutto non poteva essere finito così. Allora riaprivo gli occhi e prendevo il taccuino per scrivere ancora a Fiora; ma non potevo: non potevo più neppure scrivere il suo nome. Mi pareva di essere diventato muto anche dentro di me: non potevo esprimere la mia angoscia, la mia stessa impotenza. Eppure aspettavo sempre; non sapevo che cosa, ma aspettavo. E io che avevo commesso il delitto avevo l'impressione di subire un'ingiustizia, perchè mi si negava il diritto, il modo di ripararlo, o almeno d'espiarlo con un castigo qualsiasi. Solo per amore di Fiora ed anche per quel senso di attesa che mi faceva sperare mio malgrado, non andavo a denunziarmi. Ma a giorni si ridestava in me una sensualità feroce: mi pareva di aver diritto alla donna ch'era stata mia, che doveva essere ancora solamente mia. Era come se fossi stato io il violentato e pretendevo una riparazione. Ma tutte queste tempeste si sbattevano entro di me, inutilmente, come in un vulcano chiuso: fuori dovevo sembrare un po' idiota, e nessuno si curava di me, neppure la zia, che pensava solo al mio benessere materiale come a quello delle sue bestie. Eppure bastava che una foglia, un fiore, una piuma calda di sole cadessero dal muro, davanti a me, per commuovermi: li prendevo fra le dita, li esaminavo, ne sentivo l'odore, il colore: le bestie, no, non le toccavo e non le amavo; ma quelle piccole cose mute e vagabonde mi piacevano; si rassomigliavano a me: e odoravo a lungo i fiori, fino ad appassirli, e li baciavo pensando a Fiora. Una cosa sola mi aiutava a vivere, fra tanta desolata solitudine: il sonno. Dormivo a lungo: e mi abbandonavo al sonno come ad un vizio, non perchè mi portasse l'oblio, ma perchè mi gettava in una esistenza fantastica che si univa in qualche modo alla mia avventura. Nell'addormentarmi mi pareva di essere ancora davanti ai portoni chiusi della casa colonica: li toccavo uno dopo l'altro, poi andavo a mettermi sotto la finestra di Fiora. Inciampavo e mi svegliavo di soprassalto. Ma poi mi riaddormentavo e sognavo. Invariabilmente, i sogni mescolavano la mia vita nell'Istituto con la mia avventura. Mi ritrovavo nel giardino della villa coi compagni: andavo in cerca dell'istitutore e lo trovavo con Fiora: ma questa mi sorrideva, di sopra la spalla di lui, e bastava tanto per farmi svegliare tutto in sudore e singhiozzante. Quell'angoscia notturna era la mia salvezza; poichè mi costringeva a piangere e nel pianto si scioglieva il mio dolore.

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