Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbaiava

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Senso

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Boito, Camillo 1 occorrenze

Gioacchino, trasformato, cavò di tasca il collare e s'avvicinò alla bestia, la quale, sentendo l'odore della roba sua, sbalzò ai piedi del giovinotto, e ballandogli intorno abbaiava di gioia. Gioacchino affibbiò al cane il collare, poi con un ginocchio a terra, si pose ad accarezzare il suo pelo nero, vellutato, morbido; e il cane s'avvoltolava, e con la pancia all'aria dimenava le zampe. Irene rideva a crepapelle. A un tratto Gioacchino s'alzò dignitosamente, e cercando di dare alla sua fisonomia squallida, a' suoi occhietti piccoli e spenti una espressione terribile, disse con la sua voce stridula: - Signora, vi lascio al tenente di fanteria marina ed al suo battaglione; vi lascio al padrone di questa bestia. So tutto, tutto - e s'avviò risoluto all'uscio. L'ilarità di Irene non ebbe più freno; si sganasciava, e, battendo le mani, gridava al cane: - Acchiappa, Budda, acchiappa il ladro, acchiappalo - e incitava il cane col gesto. Budda, ringhiando, corse giù per le scale dietro a Gioacchino; ma questi era stato più lesto e aveva chiuso la porta. La vecchia infame gettò dalla finestra sul cappello del giovine, mentre usciva, una buccia di limone. * * * Il nostro cassiere tornò alla sua vita di prima, regolare e monotona; non s'attentò più di seguire nelle vie le belle brune; si rimise a' risparmii, e comperò un paio di stivaloni nuovi, per proteggere anche le ginocchia.

C'ERA UNA VOLTA ... :FIABE

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Ma come andarono per prendere Testa-di-rospo e farla ammazzare, sulla soglia del canile trovarono mamma cagna, che abbaiava e ringhiava mostrando i denti. E Testa-di-rospo non voleva uscir fuori. - Perché non vieni fuori? - Perché mi farete ammazzare. - E chi ti ha detto questo? - Me l'ha detto mamma cagna. La Regina, maliziosa, voleva indurla colle buone: - Non è vero, sciocchina. Vieni su, vieni a vedere che bella sorellina ti è nata. - Sorellina non me n'è nata, A peso d'oro fu comprata. Mamma cagna, mamma cagna, Siete voi la vera mamma. - Che significa? - domandò il Re. - O che gli date retta? Testa-di-rospo parla da bestia. Ma il Re disse: - Chi tocca Testa-di-rospo l'ha da fare con me. Mostro o non mostro, è una creatura di Dio. Lei è la vera Reginotta, perché nata la prima. La Regina, arrabbiata per lo smacco, che pensò? Pensò di ricorrere ad una Strega: - Fammi due vestiti compagni, tutti oro e diamanti; ma uno dev'essere incantato: deve bruciare addosso a chi se lo mette. - Fra un anno li avrete. In questo mentre la Regina fingeva di voler bene egualmente alle due figliuole; anzi, se comprava un balocco, un ninnolo per la Gigliolina, ne comprava uno più bello per Testa-di-rospo. La Gigliolina, vedendo il regalo più bello, si metteva a strillare: - Quello lì lo voglio io! E Testa-di-rospo glielo dava. Passato l'anno, la Regina tornò alla Strega. - Maestà, i vestiti sono pronti; ma badate di non scambiarli. Per non sbagliare in questo incantato ci ho messo un diamante di più. - Ho capito. Chiamò le due figliuole e disse: - Ecco due bei vestiti; provateveli subito, per vedere se vanno bene. Questo è il tuo, Testa-di-rospo. Ma la Gigliolina, contati i diamanti e visto che in quello di Testa-di-rospo ce n'era uno di più, comincia a strillare: - Quello lì lo voglio io! La Regina non permise che lo toccasse. Intanto la Gigliolina continuava a strillare, e pestare coi piedi: - Quello lì lo voglio io! Quello lì lo voglio io! Accorse il Re e disse: - Non ti persuadi che quello è un po' più grande? Provalo, e vedrai. E stava per infilarglielo. - No, Maestà - disse Testa-di-rospo. Vestito bello, fatto da poco, Vestito nuovo fatto di fuoco, Mamma cagna, mamma cagna, Siete voi la vera mamma. - Che significa? - domandò il Re. - O che gli date retta. Testa-di-rospo parla da bestia. Ma il Re disse: - Chi fa danno a Testa-di-rospo, fa il proprio danno. Lei è la vera Reginotta, perché nata la prima. La Regina, arrabbiata per quest'altro smacco, non sapeva più che inventare. E la sua rabbia si accrebbe quando vide arrivare a Corte il Reuccio del Portogallo, che andava cercando una Principessa reale per moglie. La Regina disse al Re: - Almeno facciamogli vedere tutte e due le figliuole; così sceglierà. Il Re, per contentarla, rispose: - Sia pure. Il Reuccio voleva visitare le Principesse negli appartamenti ov'esse abitavano; e la Regina lo condusse prima nel magnifico appartamento della Gigliolina. La Gigliolina, vestita cogli abiti più sfarzosi, sfolgorava come una stella. Il Reuccio disse: - É mai possibile che l'altra Principessa sia bella quanto questa? Andiamo a vederla. Ma dove andiamo? - Nel canile. L'altra abita nel canile. Il Reuccio, stupito, scese giù insieme col Re e con la Regina, e trovò Testa-di-rospo nel canile: - Reuccio, entrate voi solo; c'è posto soltanto per uno. Il Reuccio entrò, e Testa-di-rospo chiuse lo sportello. Mamma cagna si accovacciò lì dietro, ringhiando. Aspetta un'ora, aspetta due, il Reuccio non compariva. La Regina, sopra tutti, era impaziente pel ritardo: - Chi sa che brutto scherzo Testa-di-rospo stava per farle! Il brutto scherzo fu che il Reuccio, uscito dal canile, disse al Re: - Maestà, vi chieggo la mano di Testa-di-rospo. La Regina non rinveniva dallo sbalordimento: - Ma che cosa avete fatto tante ore lì dentro? - Ho visitato tutto il palazzo. Di fronte al palazzo di Testa-di-rospo, il palazzo reale sembrerebbe una stalla. Il Re e la Regina si guardarono, meravigliati. - Reuccio, dite davvero? - Dico davvero. La Regina dovette inghiottire quest'altra pillola amara, e che pensò? Pensò di accertarsi coi suoi occhi di quello che il Reuccio aveva detto: - Testa-di-rospo, vorrei vedere il tuo palazzo. - Maestà, quel canile lo chiamate palazzo? - Testa-di-rospo, una notte vorrei dormire con te. - Chiedetene il permesso a mamma cagna: è lei la padrona. La Regina andò a trovare mamma cagna: - Mamma cagna, vorrei visitare il vostro palazzo. - Bau! Bau! - Che cosa dice? - Dice di sì. - Mamma cagna, una notte vorrei dormire con Testa-di-rospo. - Bau! Bau! - Che cosa dice? - Dice di sì. La Regina, per entrare nel canile, dovette quasi piegarsi in due. - Ed è questo il tuo gran palazzo? - Questo: non ve lo dicevo? La Regina, indispettita, uscì fuori brontolando contro il Reuccio, che le avea dato ad intendere tante sciocchezze; e appena fuori, cominciò a sentire per tutto il corpo un brulichio e un brucìo insoffribile. Era, da capo a piedi, ripiena di pulci; e, siccome montava a corsa le scale e scoteva le vesti, ne seminava per terra cataste che annerivano il pavimento. Così per le stanze del palazzo; ma più scoteva e più gliene brulicavano addosso e se la rodevano viva viva. In un momento, Re, ministri, dame di Corte, gente di palazzo, tutti si videro assaliti da quelle bestiole affamate, che davano morsi da portar via la pelle; e tutti urlavano: - Accidempoli alla Regina che volle entrare nel canile! Il Re corse subito da Testa-di-rospo: - Figliuola mia, dàcci aiuto! - Mamma cagna, dategli aiuto! Mamma cagna si mise a girellare per le stanze: - Bau, bau! Bau, bau! E sentendola abbaiare, tutte le pulci saltavano addosso a lei. La Regina non si stimò castigata abbastanza e insistette: - Testa-di-rospo, questa notte vengo a dormire con te. - Maestà, in un giaciglio! - Per una volta, potrò provare. Si acconciò alla meglio, e finse di dormire. - In quel canile ci doveva essere un mistero; voleva scoprirlo. Verso mezzanotte, sentì un romore come di un crollo di muro. Aprì gli occhi, e rimase abbagliata. Avea davanti una fila di stanze, così ricche e così splendide, che quelle del palazzo reale, in confronto, sarebbero parse vere stalle; e Testa-di-rospo che dormiva, in fondo, sopra un letto lavorato d'oro e di pietre preziose, con cortinaggi di seta e lenzuola bianche più della spuma. E non aveva più quella schifosa Testa di rospo; ma era così bella, che, al paragone, la Gigliolina, bella e bianca come un giglio, sarebbe parsa proprio una megera. Accecata dal furore, la Regina pensò: - Ora entro, e mentre dorme, la strozzo colle mie mani. Ma il muro si richiuse a un tratto, e lei vi batté la faccia e si ammaccò il naso. Senza aspettare che facesse giorno, tornò su in camera. Sentiva nelle carni un brucìo, un gonfiore!... Stende una mano, e si scorge che, da capo a piedi, era piena di zecche. Si sveglia il Re: è pieno di zecche anche lui. Si svegliano i ministri, le dame di Corte, insomma tutte le persone del palazzo reale; son tutti, da capo a piedi, pieni di zecche; e, dal prurito e dal dolore, non possono reggere: - Accidempoli alla Regina, che volle dormire nel canile! Il Re corse di nuovo da Testa-di-rospo. - Figliuola mia, dàcci aiuto! - Mamma cagna, dategli aiuto! Mamma cagna, Bau, bau! No, no! Non ne vuol sapere. - Figliuola mia, dàcci aiuto! Che aiuto poteva dargli? Mamma cagna rispondeva sempre: - Bau, bau! No, no! Intanto tornava il Reuccio per sposare Testa-di-rospo. Tutti erano occupati a tagliar le zecche, colle forbici, perché strappare non si potevano; facevano più male. E più ne tagliavano e più ne rimaneva da tagliare: - Accidempoli alla Regina, che volle dormire nel canile! Allora il Re montò in furore. Afferrò la Regina pel collo, e disse: - Trista femmina, che cosa hai tu fatto, da attirarci addosso tanti guai? La Regina non ne poteva più e confessò ogni cosa: che avea detto come le Fate non potrebbero farne una pari; che avea comprato quella bambina a peso di oro; che avea fatto fare il vestito incantato per bruciare viva Testa-di-rospo. - Ora son proprio pentita, e domando perdono alla Fata! Disse appena così, che alla Reginotta cadde giù quella schifosa Testa di rospo, e la Gigliolina si trovò vestita come una figliuola di contadini, qual era. La Reginotta splendeva come il sole, sicché, per guardarla, bisognava mettersi una mano agli occhi. Le zecche erano sparite, e non se ne vedeva neppure il segno. Il Reuccio di Portogallo e la Reginotta si sposarono; e se ne stettero e se la godettero e a noialtri nulla dettero.

IL RACCONTAFIABE - Seguito al "C'era una volta …"

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Credeva di parlare e abbaiava. La gente fuggiva al solo vederla comparire. Torna a casa e infila l'uscio. Il marito spaventato, comincia a tirarle addosso forme, gambali, tutto quel che gli capita sotto mano; poi, afferra un bastone, e giù colpi da orbo. - Sono io, marito mio! Sono io, marito mio! Credeva di parlare e abbaiava. Colui, che la vedeva in forma di lupa con tanto di bocca spalancata, aveva paura d'esser morsicato; e perciò dava botte che rompevano le ossa. La donna, vista la mala parata, scappò a gambe levate. Per le vie, la gente le correva appresso con pali, forconi, spiedi e armi d'ogni sorta. - Dàgli! Dàgli alla lupa! Dàgli! Tornarono addietro soltanto quando la perdettero di vista. S'era rifugiata in una tana. E la bambina? Messasi a camminare sempre diritto davanti a sé, giunse all'aperta campagna. Incontrò una vecchietta. - Bambina, perché piangi? Dove vai? - La matrigna mi ha scacciata di casa a pugni e a pedate. Vo dove mi portano i piedi; lasciatemi andare! - Se t'incontrano i lupi, ti sbranano. - La mia matrigna è assai peggio dei lupi; lasciatemi andare. - Dormi con me questa notte; domani all'alba andrai via. La buona vecchietta la fece entrare in casa, le diè da mangiare e da bere, e la mise a letto. La mattina, prima che partisse, le regalò un anellino: - Tienlo sempre in dito; sarà la tua Fortuna. Quando ti trovi in qualche pericolo, di': "Anellino, aiutami tu!". Ti aiuterà. La vecchia era una Fata, e l'anellino era fatato. Poco dopo sopraggiunse la matrigna. La Fata le buttò addosso il catino d'acqua e la cambiò in lupa. Cammina, cammina, cammina, la povera bambina si smarrì in mezzo a un bosco. Cominciava a farsi buio, e non si vedeva faccia di cristiano. Dattorno, si sentivano intanto gli urli delle bestie feroci. - Ora mi mangiano viva! La poverina piangeva, col viso tra le mani, seduta per terra. Tutt'a un tratto, ecco un calpestìo tra le macchie lì accosto, e un fiuto forte forte: - Uh! Uh! Uh! Oh, che buon odore! Uh! Uh! Uh! Oh, che buon Odore di carne umana!. Nel buio s'intravvedeva una forma di persona che andava fiutando forte forte tra le erbe e le macchie: - Oh, che buon odore! Uh! Uh! La poverina, le si accapponava la pelle. Si rannicchiò, dicendo sottovoce: - Anellino, aiutami tu! E trattenne il fiato. Quella forma nera nera le si aggirava dattorno fiutando: - La sento e non la trovo! Uh! Uh! Frugava rabbiosamente tra le macchie e le erbe, e tornava a fiutare. Una volta la bambina si sentì quel fiato grosso proprio su la faccia, e le si gelò il sangue per la paura. - Anellino, aiutami tu! · - La sento e non la trovo! É andata via; ha lasciato qui l'odore soltanto. E il calpestìo si allontanò tra le macchie e gli alberi folti. Fatto giorno, la bambina si rimise in cammino. - Ho fame, anellino; aiutami tu! Guarda davanti a sé e scorge su l'erba una fetta di pane e un po' di cacio. Mangia, beve a una fonte e seguita a camminare. Cammina, cammina, cammina, escì finalmente fuori dal bosco e si sentì allargare il cuore. La campagna era tutta verde; fiori di qua, fiori di là al due lati della strada, e in fondo una villa in cima a una collinetta, che pareva un giardino. Fatti pochi passi, vede sopra un albero un grand'uccello con le piume di mille colori. - Uccello, è questa la strada che mena lassù? - Sì, è questa. Là finisce ogni dolore, Chi ci campa non ci muore. - Che vuol dire? - Va' e vedrai. Più avanti incontra una scimmia che saltava da un albero all'altro. Un po' impaurita, domandò: - É questa la strada che mena lassù? - Sì, è questa. Là finisce ogni dolore, Chi ci campa non ci muore. - Che vuol dire? - Va' e vedrai. Davanti il cancello della villa, trovò una bella signora vestita di seta e d'oro con collane, braccialetti, anelli d'oro e di diamanti: un bagliore. - Ben venuta, bambina! T'aspettavo. - Mi conoscete? - Ti conosco, E nel baciarla, la tastava tutta. - Che carni fresche! Che bel boccone! Vieni, vieni: questa è casa tua. E si leccava le labbra con la lingua. La bambina entrò in sospetto: - Perché dice: Che bel boccone? Anellino, aiutami tu! E che si vide dinanzi? Invece della bella signora una brutta megera, con naso ricurvo che toccava il mento e per capelli tanti serpenti che si agitavano aggrovigliandosi, battendole sulle spalle, avvolgendosele attorno al collo. Serpenti per braccialetti, serpentelli alle dita a mo' d'anelli: e non più la veste di seta e ricami d'oro, ma di strane pelli di bestie selvagge. Intanto ella si trovava già dentro, e colei aveva subito chiuso l'uscio a chiavistello. Era una Mammadraga, che si nutriva di bambini. Figuriamoci che cuore fece la poverina a quella vista! - Anellino, aiutami tu! - Uh! Uh! Che buon odore! La Mammadraga la fiutava tutta, ma non poteva toccarla per via dell'anellino e dalla rabbia si mordeva le labbra. - Che ci hai addosso? Fammi vedere. Perché nascondi le mani? La bambina, tremante, le mostrò le mani. - Oh, che brutto anello! É di rame. Te ne darò uno d'oro. - Questo mi piace e mi basta. La Mammadraga le voltò le spalle e la lasciò sola. Di fuori, il palazzo della Mammadraga era bellissimo; dentro però una spelonca, con le pareti e le vòlte tutte affumicate, e un puzzo di carne bruciacchiata che ammorbava. E su per le seggiole gatti neri che facevano le fusa, e per terra rospi che saltellavano; e sui massi sporgenti, gufi appollaiati con gli occhioni luccicanti e il becco insanguinato. - Anellino, aiutami tu! La bambina, rabbrividita, si mise a girare per tutte quelle grotte affumicate, sperando di trovare una buca donde scappare. In fondo c'era un uscio, dietro cui si sentivano voci allegre di bambini che facevano chiasso. Picchiò e l'uscio s'aperse da sé. Ogni notte la Mammadraga andava a rubar bambini per farsi la provvista, e li teneva chiusi lì a fine d'ingrassarli e averli più saporiti quando doveva mangiarseli. I bambini che non sapevano nulla, facevano il chiasso. Ogni giorno ne arrivava uno, due, talvolta tre e ne mancava sempre uno. Appena videro la bambina, le furono attorno: - Come ti chiami? - Caterina. - Facciamo il chiasso! Fa' il chiasso con noi! - Ah, poveretti! La Mammadraga ci mangerà! I bambini si misero a strillare e si attaccarono ai panni di lei. - Quando viene qui la Mammadraga, teniamoci forte per le mani. L'anellino ci aiuterà. Infatti, a mezzogiorno, entrò la Mammadraga per scegliere il bambino da divorarsi a pranzo. - Bambino, vieni con me; ti porto dalla tua mamma. - Anellino, aiutaci tu! E, presi per mano, si strinsero tutti attorno a Caterina. La Mammadraga dalla rabbia si mordeva le labbra, si storceva le dita. - Scellerata, sei tu! Vuoi farmi morire di fame! Ma non poteva toccarla, per via dell'anellino. E andò via, con la spuma alla bocca, minacciando. L'anellino faceva miracoli. - Anellino, abbiamo fame, aiutaci tu! E avevano subito da mangiare. - Anellino, vogliamo dei balocchi! Aiutaci tu! E avevano subito dei balocchi. - Anellino, vogliamo dei dolci! Aiutaci tu! E avevano dolci d'ogni sorta. Ora che erano avvisati, appena entrava la Mammadraga, si prendevano per la mano e si afferravano ai panni della bambina. - Scellerata, sei tu! Vuoi farmi morire di fame! E la Mammadraga andava via, con la spuma alla bocca, minacciando. Scappare però non potevano. Una mattina, la Mammadraga tornò alla sua spelonca, seguita da una lupa e la mise di guardia all'uscio della grotta dov'erano chiusi i bambini. Era la matrigna di Caterina. La lupa la riconobbe, e disse alla Mammadraga: - Volete l'anellino? Lasciate fare a me! - Caterina, che ignorava quella trasformazione, veniva spesso davanti l'uscio a pregarla: - Lupa, lupetta, lasciaci scappare! - Che mi dài? - Una bella tana e pecore e polli per pasto. - Me li procuro da me. - Lupa, lupetta, lasciaci scappare! - Che mi dà!? - Quel che tu vuoi. - Quell'anellino. - Questo no. - Allora restate tutti a morire lì. Così passarono molti mesi. Una notte la bambina si mise a chiamare: - Vecchina mia, dove tu sei? - Eccomi. - La lupa vuole quest'anellino per lasciarci scappare. - Dalle quest'altro. Le spiegò come doveva fare e disparve. La mattina: - Lupa, lupetta, lasciaci scappare! - Che mi dà!? - Quel che tu vuoi. - Quell'anellino. Gli altri bambini s'erano già presi per la mano e si tenevano attaccati forte ai panni della compagna. - Tieni qui - disse Caterina. La lupa stese la zampa e la bambina le infilò l'altro anellino in un dito. E che accadde? Caterina diventò lupa lei, e tutti gli altri bambini tanti lupacchiotti, l'uno con la coda dell'altro fra i denti; il primo teneva fra i denti la coda di Caterina. La lupa invece ridivenne donna, e la bambina, lupa com'era, riconobbe in lei la matrigna. - Scellerata, che m'hai fatto! Ora la Mammadraga mi mangerà! E andò a rannicchiarsi nell'angolo più oscuro della grotta. Venne la Mammadraga: - Lupa, e questi lupacchiotti? - Sono miei figli; li ho partoriti stanotte. - E i bambini? - Se li è divorati quella lì. La Mammadraga si slanciò addosso alla donna e ne fece quattro bocconi. Intanto lupa e lupacchiotti stavano per scappar via. Si udì un urlo: - É carne avvelenata! Muoio! Muoio! Si voltarono e videro la Mammadraga che si rotolava per terra e dava gli ultimi tratti. - Anellino, aiutaci tu! Ridiventati bambini, si presero allegramente per le mani e fecero un ballo attorno la Mammadraga morta, saltando e cantando: - Qua finisce ogni dolore! Chi ci campa non ci muore. Chi c'è morto, torni in vita. Mammadraga l'è finita! Andarono a guardare nella grotta accanto, dov'erano ammonticchiate tutte le ossa dei bambini che la Mammadraga s'era spolpati e videro un brulichio di ossa che si ricercavano, si riunivano, si vestivano di carne, ridiventavano bambini vivi. Chi c'è morto torna in vita, Mammadraga l'è finita! - Andate via, io debbo restar qui - disse Caterina. - Quest'anellino vi condurrà fino a casa. Anellino aiutaci tu! E vi aiuterà. Si vide uscire dalla spelonca una fila di bambini presi per mano: pareva una processione che non finiva più. I primi erano lontani un miglio, e gli ultimi appena a pochi passi dalla spelonca. E, andavano via cantando: - Mammadraga l'è finita! Mammadraga l'è finita! Partiti loro, la bambina stette ad aspettare. La Fata le aveva detto quel che sarebbe avvenuto. A un tratto, gran rumore, quasi la spelonca crollasse. Invece la spelonca diventava un palazzo così magnifico, che lo stesso palazzo del Re era niente al paragone. Venne l'uccello dalle piume di mille colori. - Padrona, comandate. Ora la padrona siete voi. Venne la scimmia, saltellando, facendo mosse buffe: - Padrona, comandate. Ora la padrona siete voi. E Caterina veniva servita come una Reginotta. Passarono parecchi anni. Ella si era già fatta una bella ragazza; ma, sola sola, in quel palazzo cominciava ad annoiarsi. La Fata le aveva detto: - Devi attendere il Reuccio di Francia. Se non vien lui, non puoi uscire di qui. E attendeva, stando alla finestra, guardando lontano tutti i giorni, se mai il Reuccio arrivasse. Una mattina, ecco un uomo laggiù che prendeva la strada della collina: - Sarà il Reuccio. Indossò i più begli abiti, si ornò delle gioie più brillanti, e gli andò incontro in cima alla scala. Invece era un povero vecchio. Saliva gli scalini a stento, appoggiato a un bastone. - Chi siete? Dove andate? - Vo pel mondo in cerca della mia figliuola. L'ho perduta da tant'anni! Lei finse di non riconoscere suo padre, ma dalla contentezza, aveva le lagrime agli occhi. - Mangiate, bevete, e riposatevi. La vostra figliuola non è lontana di qui. - Come lo, sapete, signora mia? - Lo so. Il giorno dopo, il vecchio si apprestava a partire. - Non vo' chiudere quest'occhi, prima di ritrovare la mia figliuola. - É qui vicina. L'ho mandata a chiamare. Mangiate intanto, bevete; vi servo a tavola io stessa. Poteva mai immaginare che la sua figliuola avesse quel palazzo e fosse così straricca? Finalmente, una sera, ecco squilli di trombe e scalpitio di cavalli. Il Reuccio di Francia arrivava col séguito. Si trovava a caccia in quei dintorni, e visto il palazzo in cima alla collina, aveva pensato di chiedere ospitalità per quella notte. Il Reuccio era di malumore. Una zingara gli aveva predetto: - Sposerete la figlia d'un calzolaio! - Ti si secchi la lingua! E, per distrarsi del brutto presagio, andava a caccia tutti i giorni. Vedendo quella bella giovane, rimase sbalordito. - Principessa, vi saluto. - Non sono Principessa, Reuccio. - Che cosa siete? - Quel che vuole il Reuccio. - La mia Reginotta, qua la mano. - Di là c'è mio padre; chiedete il suo consenso. Trovatosi a faccia a faccia con quel misero vecchio, il Reuccio si credette burlato. Pure, per curiosità, gli domandò: - Siete voi il padre di Caterina? - Sono io. - Io sono il Reuccio di Francia e voglio sposarla. - Reuccio, non sta bene farsi beffa d'un povero vecchio! Mia figlia è perduta e non so dove sia. La cerco invano da tant'anni. - Che commedia è questa! - esclamò il Reuccio, sdegnato. Entrò Caterina: - Dite, buon vecchio: dopo tant'anni come riconoscereste la figliuola? - Ha tre nèi sotto la nuca. - Come questi qui? E si chinò per farglieli vedere. - Ah! Figliuola mia! Figliuola mia! Si gettarono, piangendo, l'uno tra le braccia dell'altra. Il Reuccio, tutto contento, disse al vecchio: - Ora manca soltanto il vostro consenso. - E sposereste la figliuola d'un calzolaio? Il Reuccio stupì! La zingara aveva predetto il vero. La giovane però era così bella che non c'era Reginotta al mondo da starle a paro. Il calzolaio diventò Principe, e sua figlia Reginotta. Dormi, figlia Regina! Dormi, il Reuccio arriva! Ed era arrivato davvero! Fiaba detta, fiaba scritta, A chi va storta, a chi va diritta.

LE ULTIME FIABE

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

La cagnetta si dibatteva per nuotare, non ostante la zampa ancora fasciata; abbaiava, guaiva, ma le ondate la ributtavano indietro dalla sponda. I suoi guaiti divenivano più flebili, i suoi movimenti diminuivano di sforzo quand'ecco, da un viale, spunta il Reuccio. Dare un gran grido e buttarsi vestito, nella vasca, fu tutt'uno. Sollevò in alto la cagnetta estenuata, e la posò su l'erba, in pieno sole. Tre quarti d'ora dopo, essa era tornata vispa come prima. Il Re diventò giallo dal dispetto apprendendo che il Reuccio aveva salvato la cagnetta; e corse dalla Regina: - Maestà! Abbiamo nuovamente la zoppetta in casa! Il Gran Mago non si è ingannato! - Ma dunque credete davvero che il Reuccio vorrà sposarla? - Tutto è possibile, Maestà! La follia umana non ha confini! - E allora io farei ... così e così! Il consiglio parve eccellente, e il Re, chiamata una delle guardie del palazzo reale, le ordinò: - Pena la testa, porterai con te, in fondo al bosco, questa cagnetta, l'ammazzerai e la seppellirai sotto un albero. Nessuno dovrà saperne mai niente. - L'ammazzerò e la seppellirò sotto un albero. Nessuno ne saprà mai niente! Il Reuccio era andato a fare una passeggiata pei campi, quando sentì una voce fievole, lamentosa che chiamava insistentemente: - Reuccio! Reucciol Si era fermato per capire da qual punto provenisse quella desolata invocazione di soccorso, che, ora, soggiungeva: - Reuccio, mi ammazzano! Reuccio, mi ammazzano! Egli si affrettò verso quel punto: ed entrato nel bosco già sentiva più vicino il grido: - Reuccio, mi ammazzano! ... Stroncava rami, saltava siepi, atterrito dall'idea di non giungere in tempo a salvare la persona in pericolo. Tutto ad un tratto, nel centro di una piccola radura, si trovò davanti alla guardia reale che teneva afferrata pel collo la cagnetta e impugnava con l'altra mano la spada sguainata. La faccia della guardia era sconvolta. Il braccio che impugnava la spada le si era irrigidito in alto: non poteva colpire. - Ferma! - gridò il Reuccio. Non occorreva. Gli tolse di mano la cagnetta che cominciò ad abbaiare, a saltare dalla contentezza, a dimenare allegramente la coda; mentre la guardia balbettava: - Ordine di Sua Maestà! Dovevo obbedire! - Direte a Sua Maestà che avete eseguito il suo comando. E, per conferma, le porterete un fazzoletto intriso di sangue: "Maestà, è sangue della cagnetta". - Sarà fatto, Reuccio! E, appena pronunciate queste parole, la rigidezza del braccio sparì. Il Reuccio andò a trovare un vecchio contadino. - Mi conoscete? - Siete il nostro Reuccio; che Dio vi faccia felice! - Vi affido in custodia questa cagnetta. Tra un mese verrò a riprenderla. Pel vostro incomodo, ecco qua. E gli mise in mano un gruzzolo di monete di oro. Tornando al palazzo reale, il Reuccio pensava: - Quella cagnetta è vittima di qualche maleficio. Bisogna salvarla. Questo che è accaduto non è naturale. Davanti al portone trovò una bambina scalza, cenciosa, con un mazzolino di violette in mano. Piangeva perché il portinaio non aveva voluto farla entrare. Voleva presentare quel mazzolino alla Reginotta. - Ma qui non c'è la Reginotta! - C'è! C'è! - Qui c'è il Reuccio: eccolo. - Grazie disse il Reuccio, prendendo il mazzolino delle violette. - Lo darò io alla Reginotta. - E le regalò una moneta d'oro. - Voglio due soldi, non questa qui. E il Reuccio, per contentarla, dovette darle due soldi. Portò in camera sua le violette e le mise in un vasetto di argento coi gambi a bagno nell'acqua. Ogni mattina alla stessa ora, il Reuccio trovava al portone la bambina scalza e cenciosa, con un mazzolino di violette in mano. - Sono per la Reginotta. - Grazie! - e le regalava due soldi. Quei mazzolini profumavano straordinariamente le stanze del Reuccio, e si mantenevano freschi, come colti allora allora. Egli domandò alla bambina: - Chi ti ha detto di portare questi fiori alla Reginotta? Non lo sai che qui non c'è Reginotta? - C'è! C'è! - rispondeva la bambina. Neppure questo era naturale. Si decise anche lui di andare a consultare il Gran Mago. Aveva dimenticato di portargli dei regali. Il Gran Mago pareva addormentato. Il Reuccio espose il motivo del suo viaggio. - Da quest'orecchio non ci sento. - E si voltò dall'altra parte. Il Reuccio tornò ad esporre il motivo per cui era venuto. - Da quest'orecchio non ci sento. - E si voltò dall'altra parte. Il Reuccio capì. Si tolse dal dito un grosso diamante e lo infilò nel mignolo della mano destra del Gran Mago. - Scusate, Reuccio! Ero mezzo addormentato. Il Reuccio, tornando al palazzo reale, non poteva stare nei panni. Dunque non si era ingannato! Quella cagnetta zoppa era la sua Reginetta! Per togliere il maleficio buttatole addosso dalla moglie di re Corvo, occorrevano dieci stille del sangue di lui. La moglie di re Corvo voleva far sposare la Reginotta con suo figlio, il reuccio Corvino, nero come il carbone e che si nutriva di carogne. Per vendicarsi del rifiuto, la moglie di re Corvo, una potentissima Strega, aveva trasformato in cagnetta la bella figliola del Re di Portogallo, e più non se n'era saputo nova da parecchi anni. - È bella? - aveva domandato al Gran Mago il Reuccio. - Quanto il sole e la luna. - È buona? - Più del pane. Non domandate se è ricca, Reuccio? - Di questo non m'importa. Il Reuccio doveva sfidare re Corvo e tentare, almeno, di ferirlo per avere le dieci gocce di sangue occorrenti a disfare il maleficio. La sfida era pericolosa; ma il Reuccio l'affrontava con gran risolutezza. Da una settimana egli si esercitava al bersaglio con l'arco. Il Re e la Regina erano contenti di non sentirgli neppur nominare la cagnetta zoppa e di vederlo distratto in quel modo. Ma la mattina che il Reuccio, armato di tutto punto, con arco e frecce, si presentò ad annunziare che andava a combattere contro re Corvo, il Re e la Regina allibirono. - Non andate, Reuccio! re Corvo è potente! - Se non ritorno, vuol dire che son morto! Non gli poterono cavar altro di bocca. Quel giorno re Corvo aleggiava, quasi per minaccia, sopra la casa rustica del contadino che aveva in consegna la cagnetta. Crà! Crà! Crà! - La cagnetta, impaurita, si era rincantucciata vicino al focolare e abbaiava sommessamente. - Crà! Crà! Crà! - Re Corvo si librava su le ali e pareva inchiodato nell'aria, tanto stava fermo, molto in alto, sopra la casetta del vecchio contadino. Arriva il Reuccio, incocca l'arco e lascia scappare la prima freccia. - Crà! Crà! Crà! - Re Corvo non si mosse. La freccia era passata, senza ferirlo, tra le penne di un'ala. Il Reuccio tornò ad incoccare l'arco e, presa la mira, lasciò scappare il secondo colpo! Re Corvo non si mosse. - Crà! Crà! Crà! - Quasi dicesse: - Sei giovane! Mi fai compassione! - La freccia era passata, senza ferirlo, tra le penne della coda. Il Reuccio incoccò per la terza volta l'arco. E anche questa volta la freccia passò, inoffensiva, tra le penne dell'altra ala di re Corvo. Allora questi cominciò a gracchiare rabbiosamente e fare dei giri vorticosi; poi si slanciò contro il Reuccio, battendo il becco: - Crà! Crà! Crà! - aprendo e chiudendo gli artigli. Il Reuccio, imperterrito, fu più lesto di lui. Prese la mira, e la freccia andò a piantarsi, diritta, nel centro del cuore del re Corvo che cadde pesantemente a terra: - Crà! Crà! Crà! - Il sangue colava a stille dalla ferita da cui il Reuccio aveva strappato la freccia. Egli lo raccolse in una boccettina di oro. Senza pensare di finire re Corvo, che agitava convulsamente le ali e le zampe, corse a prendere in braccio la cagnetta, e baciandola e accarezzandola la portò dal Gran Mago. Il Re e la Regina, intanto, erano in angoscia per la sorte toccata al Reuccio; non sapevano spiegarsi come mai egli fosse andato a combattere contro re Corvo: e non c'era stato verso di stornarnelo! In questo frattempo, chi arriva a palazzo reale? Il Re e la Regina del Portogallo! Con gran seguito di carrozze, di carri, di cavalieri. - Dov'è la Reginotta mia figlia? - Dov'è la Reginotta? Piangevano e sembravano ammattiti, perché nessuno sapeva niente della Reginotta loro figlia. - Dov'è la Reginotta mia figlia? - Dov'è la Reginotta? Chi può dire quel che accadde al presentarsi del Reuccio che conduceva per mano una giovane con capelli sciolti su le spalle, più biondi dell'oro, bella quanto il sole e la luna, e che sorrideva, commovente di bontà? Il maleficio della cagnetta zoppa era stato disfatto con dieci stille di sangue di re Corvo. E tutti furono lieti e contenti. E si fecero nozze con suoni e con canti. C'è chi arriva e chi va via ... Dite la vostra che ho detto la mia.

Racconti 1

662661
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Un cane abbaiava. Poi Giorgio era tornato su ridendo: - Che grullo quel boaro! Lo canzonavano tutti. Aveva paura delle Nonne che gli spastoiavano le vacche per farlo arrabbiare! Una notte gli avevano anche impiastricciato quattro ciocche della sua zazzera; se lui le avesse tagliate, sarebbe morto sul corpo. Che grullo! - E la biancheria da letto? Ah! Gli toccava a dormire sulle materasse belli e vestiti! - Allora s'eran messi a rovistare pei cassettoni. Finalmente, in fondo a un armadio, avean trovato due paia di lenzuola rimaste in campagna per caso. E rifacevano i letti, chiassosamente. Giorgio strappava il lenzuolo rimboccato; la Cecilia fingeva d'arrabbiarsi: - Com'era strambo! - E tornavano a rimboccare, ridendo, irrefrenabilmente, abbandonandosi a traverso il letto, l'una di qua, l'altro di là, tenendosi i fianchi, non ne potendo piú. E cosí daccapo nell'altra camera attorno il letto di lui. La cena era parsa deliziosissima. - Ghiotti quegli amareddi! - Squisito quel pane dei contadini! - Seduti di faccia, coi gomiti sulla tavola e il viso fra le mani, colle ginocchia che si toccavano, perduti in mille discorsi inconcludenti, indugiavano ad andare a letto. Giorgio un po' sonnacchioso, lei cogli occhi foschi, luccicanti, colle labbra umide e piú accese del solito. Parlavano a voce bassa, ad intervalli. Giorgio si alzò il primo, snodandosi la cravatta, sbottonando la camicia che scoprí il suo collo tornito, piú bianco della spuma, un collo di vergine. Cecilia lo accompagnò fino all'uscio della camera e rimase sí, addossata allo spigolo, mentre lui appostava sbadatamente una sedia a piè del letto. - Buona notte! - Buona notte! - La pioggia veniva giú forte ma uguale, con uno scroscio sordo sordo. Tutta la villa dormiva. La baronessa cominciò a spogliarsi, lasciando cadere i capelli snodati sulle spalle ignude. Si passava sulla fronte le mani fredde, madide come quelle d'una ammalata. Tutt'a un tratto, cosí come trovavasi, barcollante come una persona ebbra, aveva fatto uno, due passi verso l'uscio ... e l'avea aperto, risoluta. Era stata lei! Al povero ragazzo non era mai passato pel capo che ciò potesse accadere. Ah, tutto gli avea preparati! E avean continuato, insaziabili, come due esseri senza coscienza, come due bruti belli e giovani che tracannavano la coppa della vita, per esaurirla. Nulla era venuto a turbarli: né cura del presente, né pensiero dell'avvenire. Una figura, fantasma, non s'era mai rizzato in mezzo a loro! Ogni sentimento era stato soffocato da quel delirio di sensi scoppiato pari a un fulmine in mezzo alla loro serenità gioconda. Lei lo avea fatto tremare sotto la violenza del suo fascino; lui l'avea scossa tutta colla sua carne di fanciullo piú bianca della spuma, fresca, vellutata, colla soavità del suo sorriso, coll'azzurro profondo del suo sguardo; complici: la libera solitudine, la cieca confidenza di chi non poteva neppur sospettare e il ciel o e la terra e ogni cosa, in quell'autunno siciliano che ha tutte le seduzioni della primavera con qualche cosa di piú intimo e di piú seducente! Il pretore, il brigadiere dei carabinieri e due amici erano stati introdotti dal barone in punta di piedi, allo scuro. Il barone avea acceso un fiammifero; la sua mano, che lo teneva in alto per rischiarare il gran letto nuziale a traverso le cortine, tremava convulsa. - Per carità, signor barone! Siamo ancora a tempo, sia generoso! - Il pretore lo scongiurava, stringendogli fortemente le braccia. - È molto se invoco soltanto la legge! - avea risposto il barone. Da quella mattina in poi le imposte del palazzo Russo-Scaro non sono state piú aperte, chiuse per un lutto eterno. La villa del Gelso Nero è rimasta anch'essa deserta. Quando lo zio del barone, il vecchio abbate di San Benedetto, passa per caso davanti quel palazzo che gli rammenta la catastrofe dell'ultimo rampollo della sua famiglia, abbassa la testa, accasciato: - Se vedete una grande rovina - suol ripetere colla sua profonda amarezza di cenobita - dite pure, senza timore d'ingannarvi, che una donna è passata per lí! Milano, 15@ 15 febbraio 1879@. 1879.

Racconti 2

662688
Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1894
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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- Il cane salterellava, faceva le viste di volergli mordere la mano, per carezza, ringhiando eccitato e allegro; e abbaiava, a riprese, se qualcuno gli toccava la coda, o tentava di accarezzarlo il padrone. - Che ne fai di questo cane? - gli domandò il canonico. - È di mio padre. - Me lo prendo io. - Neppure per chiasso. Gli costa mezza salma di fave. - Gliene darò una intera. - Niente, signor canonico. Gli vuol bene piú che a me che gli son figlio. - Su: venga a prendersi le fave. Va' a dirglielo -. Ma, un'ora dopo, Corda-al-piede arrivò, trafelato pel cammino fatto, strepitando: - Voglio il mio cane! - Bestia, che te ne fai? - Voglio il mio cane! - Non rispondeva altro. E siccome 'Nzulu e il massaro cercavano d'inframmettersi, cominciò a sbraitare e a dir loro delle parolacce. 'Nzulu lo tirò da parte, vicino al pollaio: - Come? Dite di no al signor canonico? Non lo sapete dunque ch'egli può giovarvi in tutte le circostanze? ... - Voglio il mio cane! - Quel giorno il canonico tornò di malumore al paese; e per una settimana discorse di quel cane con 'Nzulu e con gli altri che venivano a fargli visita, al solito, pel levriere, o pel furetto, o per qualche carica di polvere da caccia, di quella che si trovava soltanto presso di lui ed era inutile cercarla altrove ... Cottone, un altro cacciatore di mestiere, lo conosceva meglio di tutti il cane di Corda-al-piede: - Animale coi fiocchi! Cacciava da sé, e portava i conigli al padrone senza che nessuno l'avesse addestrato. Ma quello zotico non si degnava nemmeno di prestarlo -. Mezzo paese si mise in moto, per far cosa grata al signor canonico. E 'Nzulu andava e veniva, aumentando ogni volta il prezzo che quegli era pronto a pagare. Corda-al-piede piú si vedeva pregato, e piú diventava duro. Il canonico, quando gli riferivano le risposte, si mordeva le mani. Non gli era mai accaduto un caso simile; gli pareva impossibile che quel pezzo di villanzone resistesse alle offerte e alle minacce. Giacché egli, alla fine, era ricorso alle minacce per intimorirlo. Corda-al-piede rispond eva: - Nel mondo, due sono potenti: chi ha molto e chi non ha niente. Che può farmi il canonico? - Questi, tornando a dire la messa in campagna, aveva delle distrazioni. Vedeva sempre, là, in fondo al viale, presso la carciofaia, il cane di Corda-al-piede, che non c'era piú, e non s'era piú visto perché il padrone lo teneva in casa incatenato. - Né io, né lui! - decise il canonico. E trovò chi, con la scusa di dire una parolina a Corda-al-piede, andò a buttargli in casa una polpetta di stricnina pel cane. Ma un sabato sera, il canonico Salamanca, andando a Bardella per la messa della domenica, vide proprio la morte con gli occhi, come diceva 'Nzulu Strano, raccontando il fatto. Corda-al-piede, che attendeva allo svolto della strada, presso il vallone della Lamia, gli puntò il fucile in faccia, esitante: - Per la Madonna! ... Dovrei farvi fare una fiammata e andarmene in galera! - Il canonico, colto alla sprovvista, fermò la mula, pallido come un cadavere, balbettando: - Contro un sacerdote? - Ringraziate la chierica di Cristo, che non siete degno d'avere in testa! - E Corda-al-piede, abbassato il fucile, aveva tirato, per spavalderia su le macchie di rovi del ciglione, avanti che 'Nzulu spiccasse un salto per tentare di disarmarlo. Ahimè! I bei tempi delle grandi giornate di caccia erano già lontani; gli anni e, piú, la podagra, avevano ridotto il canonico a camminare come un invalido, reggendosi su la canna d'india, allorché s'avviava per andare a celebrare la messa, o a recitare l'uffizio. Le sue fermate da donna Totò, grassa e fresca a dispetto dell'età, erano diventate piú lunghe pei malanni e per l'abitudine. Il nuovo vescovo, rigido quanto il predecessore, nell'occasione della visita diocesana, fece al canonico un'altra lavata di capo. - Scandalo! Dovrò levarle la messa? - Che scandalo vuol ella che io dia, monsignore mio? - aveva risposto il canonico con voce di rimpianto. - Non vede come sono ridotto? - E il vescovo s'era stretto nelle spalle brontolando, e lo aveva lasciato in pace. Per ciò ogni mattina si vedeva il canonico Salamanca che, appoggiandosi alla canna d'India, trascinava per la salita le gambe indolenzite, fino alla porta di donna Totò. Ella lo attendeva al terrazzino, sapendo l'ora, e accorreva per aiutarlo con una mano a montare i pochi scalini, levargli il mantello e prendere il nicchio per riporli sul letto, e porgergli la pipa già preparata sul tavolino con accanto la scatola di latta dei fiammiferi di legno. Pareva che, senza quella pipata preventiva, il canonico non potesse né dir messa, né cantare al coro; pareva che, senza lo stimolo di quella tazza di buon caffè e il conforto dei crostini, non avesse potuto piú avere la forza di arrivare a casa. In verità, le sue visite erano oramai la cosa piú innocente di questo mondo. Il canonico si divertiva coi merli e con le gazze che donna Totò ammaestrava per proprio svago e chiamava figliuoli. A uno dei merli, al piú vecchio, ella aveva messo nome Canonico. Non cantava piú; stava appollaiato tristamente sulla stecca della gabbia, quasi seccato di vivere, e si cibava soltanto di zuppa di biscottini, di quelli che il canonico amava intingere nel caffè. Egli lo guardava, mandando fuori grandi boccate di fumo, quasi fosse stato il suo ritratto. - Invalido anche lui, quel povero Canonico, dentro la gabbia! - E gli fischiava, quasi dovessero intendersela bene fra loro, uno piú invalido dell'altro. Canonico rizzava la testa spiumata, scoteva le ali e la coda, mandava fuori un flebile chioccolio, e rimaneva lí, appollaiato su la stecca, immobile, aspettando di morire. Le due gazze intanto accorrevano a beccare familiarmente la punta delle scarpe del canonico, che si compiaceva d'incitarle. Vivaci, striminzite per le ali tagliate assai corte e il codione senza penne, esse gli s'arrampicavano su per le gambe, sporcandogli la zimarra, impertinenti, crocidanti, ciangottando parole con la lingua mozzata a posta per addestrarle a parlare. - Figlio! Figlio! - suggeriva donna Totò, contenta e superba delle sue bestioline. - Chi è? Chi è? - E le gazze ripetevano, roche e stridule: - Figlio! Figlio! Chi è? - Il canonico, continuando a fumare, diceva alla signora: - Prendetemi la cassettina -. Si occupava, là e a casa, fabbricando chioccolii per la caccia delle quaglie; e in quella cassetta, come nell'altra che aveva a casa, stavano riposti pelli di capretto conce, cannellini di stinchi di tacchino, minuzzoli di candele di cera fattisi dare dai sagrestani, matasse di refe grosso, forbici, aghi, un ditale e il legnetto intagliato a vite, con cui dare le pieghe a mantice ai sacchettini dei chioccoli. Ritagliava la pelle sul modello di cartone e ne cuciva gli orli combaciati attentamente; poi, foggiata con le dita una pallottolina di cera, la cacciava in fondo al sacchetto allestito; serviva per dare appoggio al chioccolo sul polpastrello del pollice, quando dovevano suonarlo. Indi, infilatovi il legnetto, avvolgeva la pelle con uno spago tra i pani della vite, perché prendesse le pieghe e servisse da mantice. E che ammattimento quei cannellini di osso, forati in mezzo, da adattare alla bocca del sacchet to con un tappo di cera, pel suono! E quei peduncoli di spago da appiccare in calce al chioccolo, per poterlo tener fermo! ... Lavoro di pazienza, insomma, che svagava molto il canonico. Gli rammentava i bei giorni d'estate tra i seminati della Piana, ai tempi ch'egli e 'Nzulu davano la caccia alle quaglie con reti e fucile! Quacquarà! Quacquarà! E le quaglie accorrevano al richiamo, incappando fra le vaste reti stese sui seminati che si piegavano, cascando fulminate da colpi infallibili: Tum! Tum! Gli pareva di sentirseli ancora dentro gli orecchi. Tum! Tum! Da donna Totò egli lavorava tranquillamente. A casa, sua sorella donna Agnese, a vedergli sciupare quelle buone pelli di capretto che costavano tanti quattrini, brontolava da mattina a sera: - Che ne fate dei chioccoli, ora che non potete piú andare a caccia? Pazzo, pazzo da legare! -E, se lo trovava a frugare pei cassettoni in cerca d'un mozzicone di candela, o d'una matassa di refe, lo sgridava peggio di un bambino: - Non sconvolgete ogni cosa! Non vi bastano ancora cento e piú chioccoli? - Egli stava zitto, e intascava i mozziconi di candele, se ne trovava. Quando non ne trovava, ricorreva fin alle candele benedette della Candelora, che donna Agnese teneva appese al capezzale e dovevano servire in punto di morte. - Scomunicato! E siete sacerdote! Anche le candele benedette! - Donna Agnese non se ne dava pace. Per questo, a ogni accesso di podagra che inchiodava il canonico su la poltrona, e lo faceva trambasciare, non lo compativa, indispettita: - È castigo di Dio! Dovreste intenderlo -. Faceva meraviglia come egli non perdesse la pazienza. - A che siamo co' chioccoli? - gli domandava 'Nzulu, che ora veniva piú di rado. - Quattrocento! - Dovreste darmene un paio; è la stagione delle quaglie. - Serviranno per me, quando sarò morto. - Come mai, signor canonico? - Gli ho destinati ai ragazzi poveri, per testamento; dovranno accompagnare la mia bara, suonandomi dietro: Quacquarà! Quacquarà! - E rideva. Con tal pretesto, non regalava un chioccolo neppure a 'Nzulu Strano. - Non vi si riconosce piú, signor canonico! - Non si riconosceva egli stesso, su quella poltrona maledetta, dove non trovava requie da un mese, né giorno né notte. 'Nzulu gli recava le notizie di donna Totò. Il vecchio merlo Canonico, morto di sfinimento; una delle gazze, la migliore, annegata in un catino d'acqua; donna Totò poverina, n'avea pianto quasi come per una figliuola! E non si sentiva bene neppur lei. Voleva il dottore ... Da lí a qualche giorno, le cattive notizie incalzarono: donna Totò stava male assai. Il canonico dondolava la testa: - Ah, se accade una disgrazia, 'Nzulu! ... - Dove sarebbe andato per la sua fumatina prima della messa? E, dopo, pel caffè coi crostini e i biscotti? Una mattina che si sentí in gambe, cominciò lentamente a vestirsi. 'Nzulu allora, atteggiando a compunzione il viso allampanato e giallastro, credette opportuno dirgli: - Restate in casa, signor canonico ... Fate la volontà di Dio! ... Siamo tutti destinati a morire! Due lagrime rigarono la faccia smunta del canonico; pure volle finire di vestirsi, e scese le scale reggendosi al braccio di 'Nzulu. - Almeno celebrerò la santa messa in suffragio dell'anima sua! - Presero però un'altra strada, per non passare davanti quella porta dove donna Totò gli veniva incontro per aiutarlo a salire i quattro scalini. In sagrestia, rivolti gli occhi al gran crocifisso di carta pesta che sormontava gli scaffali: - Signor Iddio! - esclamò lamentosamente il canonico: - O che non vi bastava Maria Maddalena in paradiso? - E lasciò infilarsi il camice dal sagrestano. Roma, settembre 1891@. 1891.

tra le erbe dei prati attorno e che un cane abbaiava, a intervalli, lontano. Ricordo che, a giorno alto, tornai a Firenze e che dovetti mettermi a letto con la febbre ... Volli leggere i giornali ... E vidi con stupore che nessuno di essi parlava dell'assassinio della bella signora russa in via Enrico Poggi. Tre giorni dopo, non interamente guarito, mi levai da letto, e mi feci condurre colà da un fiacchere, senza dare indicazione precisa ... La via era silenziosa, come al solito; tutti i portoncini chiusi; tutte le persiane delle finestre o chiuse o socchiuse ... Ne ssun indizio che in quella via, in quella nota casa fosse avvenuta qualche cosa di straordinario. Sapevo che gli assassini sentono una irresistibile attrazione verso i luoghi dov'essi hanno commesso un delitto, e pensavo: "È vero! È vero!" giacché un vivo impulso mi dominava, un'imperativo suggerimento mi diceva: "Scendi dal legno! ... Domanda a qualcuno ... Saprai!" E il terrore che mi invadeva non era quello di ottenere la certezza del mio delitto, ma l'opposto. Suonai replicatamente al portoncino. Nessuno venne ad aprirmi. Una donna che usciva dalla casa accanto si fermò a guardarmi esitante, poi mi disse: "Sa? Non c'è nessuno". "Abitava qui ... una signora ... " "È partita, da un pezzo. L'appartamento è sfitto". "Da un pezzo?" domandai stupito. "Eh! Da tre settimane, almeno". Mi sentii dare un tuffo al sangue ... E da quell'istante ho questo cerchio, qui, attorno alla fronte, e questi chiodi confitti nelle tempie ... Com'era possibile! Non l'avevo uccisa giorni addietro? Partita da tre settimane! ... O dunque? In che modo io sono vissuto questi ultimi due mesi? In che modo tutto quel che vi ho narrato si è andato formando nella mia mente con la suprema evidenza della realtà? Io la ho vista ... le ho parlato, ho udito la sua voce. È certo che ella abitava colà, in quel villino di via Enrico Poggi. È certo che io sono stato piú volte in quel salottino azzurro ... Visitai la casa, col pretesto di prenderla in a ffitto ... Non c'erano piú i mobili, niente; le nude pareti ... E c'era tuttavia il suo profumo, il profumo acutissimo di quelle sue sigarette ... Se non fossi stato colà altre volte, avrei potuto riconoscerlo? Il guasto è qui, nel mio cervello ... Dottore, liberatemi da questo cerchio alla fronte! ... Strappatemi questi chiodi dalle tempie! ... Non voglio impazzire! ... È orribile! ... Se non è morta, se ha potuto sopravvivere al colpo dello spillone conficcatole nel seno ... è lei, la maga, che continua a tormentarmi! ... Non crollate la testa ... È lei! ... Che male le ho fatto? L'amavo! ... Oh! Immensamente! ...

SCURPIDDU

662776
Capuana, Luigi 2 occorrenze

Senza dubbio Scurpiddu abbaiava meglio. - Va' a dormire e non fare il buffone! La luna sorgeva lentamente dietro il dorso scuro delle colline. - Guardate, Soldato , come è grande la luna! Vi piacerebbe un pane tondo così? - Va' a dormire! Il Soldato rientrò nella stalla, per andare a buttarsi sul pagliericcio, là in fondo. Non poteva prender sonno senza sentire il rosichìo delle mule che masticavano la biada e la paglia, e lo scalpito irrequieto di esse su l'acciottolato del pavimento. Ancora non era freddo, la porta della stalla restava aperta tutta la nottata; e Scurpiddu sentì il Soldato picchiare con la mano su la groppa di una mula per farla tirare più in là, dar la voce a un'altra, accarezzare la groppa d'una terza. Scurpiddu stette un momentino fermo; in piedi. Il cuore gli batteva forte. Era risoluto; quella notte voleva fare la scoperta a cui pensava da tanto tempo: vedere il giubbone di albagio dello zi' Girolamo, col cappuccio ritto, messo a sedere sul fondo del corbello arrovesciato, e con tra le maniche incrociate il bastone di bovaro ... Se non si scorgevano le gambe dello zi' Girolamo, voleva dire ch'egli era andato attorno con le Nonne . Ma bisognava aspettare fino alla mezzanotte. Avrebbe sentito suonare i cento tocchi dal campanile di Santa Maria in Mineo. Di notte, sembrava che l'orologio fosse dietro la collina di rimpetto. Non voleva andare a coricarsi. Se chiudeva gli occhi addio! Fino all'alba non lo avrebbero svegliato neppur le cannonate. Che fare intanto? Girò dietro il pollaio, tra i fichi d'India per affacciarsi sul burrone della Caldaietta dove cascava l'acqua del beveratoio che formava ruscello. Si distinguevano i sassi, i cespugli e le viottoline laggiù, ora che la luna piena era un po' alta. L'acqua cascava a piombo, nella conca della Caldaietta, e si riversava dall'orlo tra i massi in fondo alla vallata, luccicando qua e là come uno specchio. - Guarda! Due conigli che si rincorrono! E grossi! Scurpiddu tese le braccia, come per prendere la mira col fucile. Non li avrebbe sbagliati! Si udiva, a intervalli, un grido di uccello da uno spacco della roccia di rimpetto, grido stridulo rimbalzante, che sembrava quasi una risata. Scurpiddu cominciava ad aver paura di trovarsi là, solo solo, a quell'ora, con quel silenzio interrotto soltanto dal grido del fagiano che aveva il nido in uno spacco della roccia, e dall'abbaio che veniva in quel momento dal fondo della vallata e che somigliava poco a un abbaio di cane. Fece alcuni passi più in là, si sdraiò bocconi per evitare un capogiro, e sporse la testa nel vuoto. La valle si sprofondava scura scura sotto le rocce che scendevano quasi a perpendicolo dalla parte opposta. Tra il nero delle macchie e degli alberi, biancheggiavano qua e là massi piccoli e grossi, staccàtisi dall'alto, rotolàtisi per la china e arrestàtisi a mezza costa. Quel grido, che aveva dell'abbaio e del guaìto, riprendeva di tratto in tratto, ora qua, ora là, come se l'animale che lo emetteva errasse tra le siepi, tra le erbe alte e i sassi ... Scurpiddu aguzzava gli occhi per indovinare che mai fossero quelle due macchie bianche che si muovevano lentamente tra gli oleastri, sotto gli olmi, e già si arrampicavano per la ripida viottola, dietro le piante di nocciuoli. Pareva sfuggissero il lume della luna, si acquattassero, uscissero d'agguato, tornassero ad appostarsi ... Trasalì! Nel silenzio cominciarono a ondulare, lenti, malinconici, paurosi, i cento colpi alternati dell'orologio di Santa Maria. Tin! Ton! Tin! Ton! Mezzanotte! Si rizzò in piedi, e rifece il breve tratto dietro il pollaio, tra i fichi d'India. Doveva passare davanti a la stalla delle mule, o continuare tra i fichi d'India, diritto, e spuntare su l'agghiaccio, voltando il cantone del fienile? No; qui faceva troppo rumore con le scarpe, calpestando le erbe secche e smuovendo le scheggie di roccia sparse per terra. Il cuore tornava a balzargli così rapido, che Scurpiddu dovette fermarsi. Brividi lo scotevano dalla testa ai piedi, brividi di terrore. Ma la curiosità, più forte di ogni altro sentimento, lo spingeva avanti. Trattenendo il respiro, facendo due, tre passi, e fermandosi a spiare con gli occhi spauriti e le sopracciglia increspate, Scurpiddu era arrivato vicino alla stalla quando fu arrestato dal rumore ottuso dei passi d'una bestia - giumenta o mula? - che usciva alla chetichella da la stalla. Il Soldato forse aveva legato male la cavezza all'anello di ferro della mangiatoia, e l'animale, vistosi sciolto, andava a farsi una rivoltolata fra la polvere, là davanti ... Affacciò la testa dallo spigolo della cantonata ... - Ah, mamma mia! La giumenta resisteva puntando i piedi, mentre un uomo la tirava pel capestro e un altro le dava sui fianchi con la bocca del fucile. Li riconobbe; erano gli amici ! - Madonna Santissima! ... ... Rubano la giumenta! Scurpiddu si sentì strozzare il grido in gola. - La portano via! - balbettava sottovoce. - Portano via la giumenta! ... Soldato , portano via la giumenta! E quando capì che la giumenta non poteva resistere più e che uno degli amici tentava di cavalcarla per farla camminare più spedita, si sentì sciogliere la lingua, e cominciò a strillare, nascosto dietro lo spigolo, facendosi piccino, piccino: - Soldato , la giumenta! Soldato , rubano la giumenta! Ladri! ... Ladri! Soldato ! Con la foga dello strillare aveva preso coraggio. Udiva la voce impermalita del Soldato che rispondeva dalla stalla; dall'agghiaccio lo zi' Girolamo gridava: - Ooh! Ooh! - per mostrare che era sveglio anche lui. Allora Scurpiddu si sentì diventare un altro, e corse dietro agli amici , gridando: - Lasciàtela! Lasciàtela! Soldato ! Zi' Girolamo! Si udirono, e parve venissero dalla masseria, due colpi di fucile che rimbombarono nel silenzio, poi altri due, uno appresso all'altro ... Tutta la masseria era in rumore. Chi gridava di qua, chi domandava di là: - Che è stato? ... Ladri! Ladri! Soldato ! Massaio! - E strilli di donne. Il Soldato , che era uscito dalla stalla e ancora non si raccapezzava, udì tra gli ulivi lo scalpito di un quadrupede e poi, a cavallo della giumenta, vide Scurpiddu che agitava le gambe percuotendo i fianchi coi tacchi per farla andare di galoppo. - Eccola ... Sono scappati ... Ecco la giumenta! - gridava Scurpiddu , Dalla gioia, gli brillavano gli occhi su la faccia rossa, avvampata. - E se ti ammazzavano? - esclamò il Soldato aiutandolo a scendere di cavallo. Massaio Turi accorreva, vestito a metà, con lo schioppo in pugno, seguìto dalla massaia che voleva trattenerlo: - Lasciate andare, santo cristiano! E piangeva. Facevano crocchio gli uomini sbucati dal fienile dove dormivano insieme in quel tempo di aratura; parlavano tutti a una volta. E il Soldato , che voleva raccontar lui il fatto non riusciva a farsi ascoltare. Si udiva soltanto: - Col pericolo di farsi ammazzare! Ed era l'esclamazione ammirativa con cui egli s'interrompeva o ripigliava da capo. Gli pareva impossibile che Scurpiddu , quell'animuccia del Purgatorio, avesse potuto avere tanto coraggio e tanta audacia. Scurpiddu se ne stava zitto. Temeva che gli domandassero: - E tu che facevi là fuori, a mezzanotte?

O abbaiava come un cagnolo, o nitriva come un cavallo, o tubava come un piccione, o chiocciava come una gallina che fa l'uovo, e scappava per eseguire l'ordine ricevuto. Certe sere, nel frantoio, mentre gli uomini si preparavano per la cena, egli andava a nascondersi in un serbatoio di ulive, e si metteva a miagolare. Da prima tutti credevano che miagolasse proprio un gatto; ma poi guardavano attorno, e non scorgendo il ragazzo, esclamavano. - È Scurpiddu ! E il Soldato andava a snidarlo, a furia di scapaccioni, per chiasso. Altre volte si udivano fuori gli abbai di due-tre cani. Qualcuno degli uomini si affacciava dal portone per vedere chi arrivava a quell'ora, e non vedendo cani e nessuno, richiudeva il portone ridendo: - È quel boia di Scurpiddu ! E Scurpiddu compariva poco dopo, lieto della burla fatta. Un giorno, tornando a casa coi tacchini, aveva portato sotto un braccio tre lunghi steli di cipolle fioriti. - Che ne vuoi fare? - gli aveva domandato la massaia. - Niente. Mi servono. E quella sera, mentre gli uomini mangiavano la minestra, egli era sgusciato fuori zitto zitto. Si udiva un muggito lungo, lamentoso, dalla parte dell'agghiaccio dei buoi. - Che sarà? - esclamò il massaio. - Va vedere. Il Soldato uscì fuori, s'inoltrò sulla strada che menava all'agghiaccio, e da lontano chiamò: - Zi' Girolamo! - Ohi! - quegli rispose. - Che vuol dire questo muggito? - Che ne so io? Viene di costì. Infatti il muggito lungo, lamentoso, partiva dai fichi d'India dietro il frantoio, dal lato opposto dell'agghiaccio. Il Soldato si accostò con cautela ai fichi d'India, e al lume di luna scorse Scurpiddu che soffiava dentro uno stelo di cipolla come in una tromba e ne traeva quel suono che imitava così bene il muggito d'un bove, da ingannare. - Ah, sei tu! E se Scurpiddu non scappava, avrebbe ricevuto quattro bei scappellotti. Il Soldato tornò maravigliato, alla masseria: - È quel discolo di Scurpiddu ! La cosa parve così strana, che il massaio volle vedergliela ripetere là, davanti a tutti. E accadde che lo zi' Girolamo, intricato anche lui, si mosse dal suo corbello e cominciò a chiamare: - Ohi! Ohi! Che è stato? Il Soldato , riconosciuta la voce, si affacciò su la soglia e gli gridò: - Venite! C'è un bove smarrito. E lo zi' Girolamo era tornato indietro scornato, minacciando Scurpiddu con la mano, dopo che si accorse della burla. Le sere di pioggia, nel novembre, attorno al fuoco acceso per asciugarsi i vestiti, gli uomini lo invitavano: - Scurpiddu , fa' la rissa del cane col gatto. Non se lo faceva dire due volte. E non imitava soltanto i ringhi, gli abbai, i miagolamenti e gli sbuffi dei due animali, ma le loro mosse, e così abilmente che pareva di vederli. - Bravo, Scurpiddu ! E battevano le mani. - Soltanto la lettura stenti ad apprendere! - gli rimproverava il Soldato . Infatti faceva fatica, quantunque ci mettesse molta buona volontà. Ma forse la colpa era un po' del maestro che non ne sapeva molto neppur lui, e non era destro nell'insegnare quel pochino che sapeva. E poi Scurpiddu , era ragazzo, si distraeva facilmente. Quando aveva sillabato un quarto d'ora da solo, cominciava a sbadigliare. Certe sillabe non c'era verso gli entrassero nel cervello, o vi entravano a rovescio. E più egli stava attento, per non sbagliare quando arrivava a quel punto, e peggio sbagliava. Nella masseria c'era il Soldato che gli gridava subito: - Bestia! Ma lassù, su la collina dell'Arcura o sotto gli ulivi del Piano del Galluzzo, egli rimaneva sempre incerto se avesse sbagliato o no; chiudeva subito il sillabario, e si metteva a sonare con lo zùfolo la ninna-nanna del Natale, dolce e malinconica melodia. E durava a suonare per ore ed ore, interrompendosi soltanto per dar la voce a qualche tacchino che si allontanava troppo dagli altri. - Dove vai, Notaraccio ! E con una sassata lo faceva tornare addietro. - Sciò, Fra Giuseppe ! Sciò! E brandendo la canna, lo rincorreva. Aveva trovato altri nomi per le sue bestiole: Massaio, Soldato, zi' Girolamo, za' Tegonia, Don Pietro, Correntina, Scanza-fatica . A un tacchino giovane avea appiccato fin il proprio nomignolo di Scurpiddu , ed era il tacchino che gli dava più da fare, sempre avanti a tutti, sempre sbandato e sempre in rissa con gli altri. Da principio, quando alla masseria ignoravano quel battesimo, sentendolo esclamare: - Scurpiddu infamaccio! - non capivano perchè si sgridasse da sè. - L'hai con te stesso, Scurpiddu ? - gli domandava il Soldato . Si distraeva pure con fare la guerra, come egli diceva, ai tacchini. Il prepotente era Scurpiddu che l'aveva con Notaio e Soldato , chi sa perchè. Stirava le ali fino a terra, apriva a ventaglio la coda e pettoruto, col bernoccolo e i bargiglioni gonfi, rossi e violacei, si scagliava addosso all'avversario. Allora Scurpiddu li incitava con la voce e coi gesti, li aizzava, gridando: - Guerra! Guerra! Spesso erano quattro a una volta che entravano in lizza. Scurpiddu faceva far largo agli altri e batteva le mani, saltava di qua e di là: - Guerra! Guerra! E pareva che i combattenti lo capissero. Si accanivano, inferocivano. Notaio afferrava col becco il bernoccolo di Scurpiddu e glielo tirava, glielo tirava, quasi volesse strapparglielo. Scurpiddu tramortiva un po', ma riprendeva subito la lotta; e quando aveva afferrato il bernoccolo di Notaio non voleva rilasciarlo più, fino a che l'avversario non si dava per vinto. Mommo interveniva; picchiava con la canna addosso ai combattenti, dava pugni e calci per dividerli, se no si ammazzavano; e poi si metteva a suonare una marcia strana, inventata da lui, e che, secondo la sua intenzione, celebrava la vittoria. - Peccato, - egli pensava, - che lassù non ci era nessuno a godere quello spettacolo! C'erano soltanto le tàccole che passavano a stormi, gracchiando, e i falchetti che squittivano, librandosi su le ali prima di piombare come un sasso su qualche animaletto, scoperto dall'alto tra l'erba. La vallata sembrava presa da torpore sotto la vampa del sole. Si udiva, lontano, il campanaccio dei buoi dello zi' Girolamo, ma non si vedeva anima viva per le colline attorno. Laggiù laggiù, un branco di capre si arrampicava tra le rocce, brucando. E Scurpiddu tornava a cavar fuori dalla tasca il sillabario e ricominciava a compitare. Spesso si fermava, meravigliato che quei segni potessero parlare. Come facevano per dire: Pa-ne, Pon-te, Can-na? Eppure dicevano così! Ora ci prendeva gusto a quella specie di giuoco, svoltava pagina, si arrestava davanti alle difficoltà, si ingegnava di vincerle, e guardava all'ultimo le pagine con righe tutte unite che gli parevano un imbroglio inestricabile e che il Soldato però leggeva facilmente. Un giorno o l'altro le avrebbe lette anche lui. E tentava. E se riusciva a compitar bene qualche parola, la segnava per domandare poi al Soldato : - È vero che qui dice così? - Bravo, Scurpiddu ! Ora che il massaio gli aveva regalato una tàccola piccina, appena coperta di piume, Scurpiddu aveva un altro motivo di distrazione. La portava con sè nella sacca a tracolla e la imbeccava e l'addestrava a venirgli dietro come un cagnolino. - Paola ! Paola ! E la tàccola gli salterellava appresso, gracchiando. La metteva sul dorso di Notaio o di Don Pietro ed essi dovevano portarla attorno mentre pascolavano. Paola spesso saltava giù, annoiata di star ferma. Ma egli la prendeva per le ali e la rimetteva al posto. - Qui devi stare in carrozza. La tàccola aveva finito con avvezzarsi, e stava, signora in carrozza, passando da un tacchino all'altro, ora che aveva messo le ali. Scurpiddu l'addestrava anche a volargli addosso ad ogni richiamo. Paola faceva due o tre giri in alto e poi andava a posarglisi su la spalla o sul braccio. Scurpiddu l'accarezzava, le lisciava le penne lucide e nere, le dava a imbeccare un grillo, un baco, e tornava alla masseria con Paola appollaiata su la testa, sonando allegramente con lo zùfolo la ninna-nanna di Natale, interrompendosi per chiamare: - Paola ! Paola ! - lieto che Paola gli rispondesse con un gracchio quasi per dirgli: Sono qui. - E sùbito gli tirava col becco i capelli che gli scappavano fuori del berretto su la fronte. La sera, egli la metteva a dormire in un paniere appeso al muro del suo bugigattolo; le avea formato con un po' di fieno una specie di nido. E mentre egli si ficcava sotto la coperta di lana, le diceva: - Paola , buona notte! Paola rispondeva con un roco chioccolio e s'addormentava.

Demetrio Pianelli

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Giovedí non aveva nulla da vendere, quasi nemmeno la coda, ed era da compatire se abbaiava per fame. Gli buttò dunque un boccone di pane fresco, che il cane lasciò cadere in terra e non toccò come se fosse veleno. Invece non cessò dal guardare, co' suoi due occhi di bestia affettuosa e intelligente, ora lo zio, ora l'uscio, col corpo in preda ad una viva inquietudine. Subito dopo Demetrio sentí un passetto sulla scala, quindi l'uscio si aprí e comparve Arabella. "Sei tu?" esclamò lo zio, lasciando cadere la forchetta nel ramino. La povera tosetta , vestita d'un modesto abito bigio, col velo in testa e un fazzolettino di lutto al collo, pallida in mezzo a tanto nero, venne avanti colle mani raccolte sul libretto da messa e fece un cenno del capo, come se volesse dire: "Sono io". Ma la voce non uscí. Essa tremava di vergogna e di soggezione. "Che cosa vuoi? chi ti ha accompagnata?" "Ferruccio." "Siedi." "Zio!" soggiunse la fanciulla, aprendo i suoi larghi occhi di velluto, "è proprio in collera con noi?" "Sono in collera con nessuno, ma sto a casa mia" si affrettò a dire lo zio senza tante cerimonie. "Non ci abbandoni per carità, zio, per carità! ... " La voce di Arabella s'intenerí e rasentò il pianto, contro il quale ella faceva di tutto per resistere. Lo zio rispose con una ruvida alzata di spalle e brontolò: "Non sono ... ." "Se abbiamo sbagliato, zio," continuò quella voce piena di lagrime "ci perdoni per questa volta. La mamma non fa che piangere." "È lei che ti manda qui?" gridò lo zio con una esagerata ruvidezza. "No, non sa che sono venuta. Ho detto che andavo a messa con Ferruccio, che aspetta qui sulla scala. È venuto anche Giovedí." " Beb!" soggiunse il cane a sentire il suo nome, guardando ora la ragazza, ora lo zio. "Povera mamma, ha quasi la febbre. Va compatita se non è pratica. È il nonno che le ha detto di far cosí, ma adesso si accorge anche lei che aveva ragione ... ." "Chi aveva ragione?" chiese con un sogghignetto sarcastico Demetrio, mostrando i denti. "Lei, zio ... ." "Ah! lo so bene. Grazie tante." "Non abbiamo piú nulla da mangiare. I bottegai non ci dànno piú nulla. Ieri e ieri l'altro ho provveduto alla meglio, facendo vendere da Ferruccio la medaglia de' miei esami, ma non si può andare avanti cosí, zio, non si può. I ragazzi fanno compassione." La voce di Arabella andò morendo in un singhiozzo, contro il quale ebbe ancora la forza di reagire, forse per la paura che il pianto non le lasciasse il tempo di dire tutto quello che era venuta per dire. "Per amore del nostro povero papà, zio, non ci tolga la sua benevolenza ... ." Il cane venne anche lui a posare le due zampe sulle ginocchia di Demetrio. Capiva anche lui che la fanciulla cercava di intenerire lo zio: la voce piagnucolosa della bimba faceva tremare la povera bestia. Demetrio si contrasse nella sua scontrosità come una foglia secca. I nervi del viso guizzarono sotto la dura corteccia. Non era piú il credenzone, l'allocco d'una volta, e non per nulla il cavalier Balzalotti avevagli insegnata l'arte di stare al mondo. Le donne quali piú quali meno, sono tutte commedianti, specialmente certe donne ... "Già, sono io che vi faccio patire la fame!" brontolò agitandosi sulla sedia. "Si dirà anche questa. Io sono il ladro, il pedante, il tiranno, e se vi dò un buon parere è per fare il mio interesse, si sa. Io ho le olle in cantina piene di marenghi ... Vieni avanti, mangia!" Demetrio aveva versato, colla mano convulsa, il latte nella scodella, che spinse colla mano fino all'orlo del tavolo, mettendo vicino un pane. "E lei?" balbettò la fanciulla. "Mangia, non far smorfie. Già ... gli altri hanno grandi chiacchiere, ma, quando si tratta di tirar fuori un quattrino, stanno a Melegnano, gli altri. Ed io sono il ladro, il tradi ... ditore ... Mangia dunque, non farmi scappar la santa pazienza." Arabella si avvicinò al tavolo e cominciò a mangiare, come se lo facesse soltanto per obbedienza e per non irritare di piú lo zio. Ma alle prime cucchiaiate di latte caldo le sue guancie si fecero rosee e gli occhi brillarono di una gioia intensa nel fissare il fondo della scodella. Demetrio cercava di tirarsi in mente tutte le raccomandazioni fattegli dal suo superiore; ma in quel momento non poteva vedere che tre poveri fanciulli quasi morti di fame. Si è o non si è cristiani, e, per quante fossero le colpe di quella donna, si deve lasciar morire su una strada tre poveri innocenti? Arabella lasciava cadere nella scodellina anche le sue lagrime e se le mangiava poi col pane. Demetrio, fatte due o tre giravolte per la stanzetta, seguitò come se parlasse a sé stesso: "Perché non dovrei aver volontà di aiutarvi? Ah! dunque, io ho men cuore del vostro cane ... L'ho provata anch'io la miseria e so che sapore ha: ma contro la miseria non c'è che un rimedio: volontà di lavorare e risparmio, risparmio e volontà di lavorare. Tu hai nominato tuo padre ... Se sapeste tutto ... Se fosse qui lui a vedere ... ." "Ah, zio, zio!.." proruppe la bambina, portandosi a un tratto il fazzoletto agli occhi, e lasciando traboccare quel gran fiume di pianto che aveva trattenuto fin qui. "Cosa?" "So tutto ... ." "Cosa sai?" "Mi dica che non è vero." "Che cosa ti hanno detto? ... " "Che il povero papà s'è ammazzato ... ." "Chi?" Demetrio strinse i due pugni in aria, con un rapido movimento d'ira, come se volesse scagliarsi contro l'assassino che aveva parlato. Gli occhi cominciarono a veder male, e il cuore ... sentí che il cuore andava in pezzi sotto i colpi di quei singhiozzoni, che minacciavano di soffocare la povera tosetta . Colla gola stretta, strozzata da un'adirata passione, si appoggiò colle mani alla sponda della sedia, dove stava la fanciulla e aspettò che finisse di piangere. Ma vedendo che non poteva smettere, alzò lentamente una mano, che pareva inchiodata sul legno della sedia, e la posò dolcemente sulla testa di Arabella. Questa sentí tutto il significato di quella tenera carezza e il cuore volle scoppiare. Nemmeno lo zio seppe trovare una parola da dire in quel momento, tanto il dolore gli stringeva lo stomaco. Gli occhi si riempirono di lagrime dure e cristalline, che egli tolse, passandovi sopra con forza il grosso fazzoletto di cotone. Arabella, quando poté parlare, raccontò che, stando una sera sul pianerottolo a prender acqua alla pompa, sentí sulla scala di sopra Ferruccio, che indicando l'uscione del solaio, raccontava a un altro ragazzo che il sor Cesarino si era impiccato lassú. Aveva creduto di morir di spavento; ma capí subito che la mamma non ne sapeva nulla e che la gente cercava di nascondere la verità. Non era morta ancora, perché la Madonna Addolorata l'aiutava ... , ma non ne poteva piú. "No, zio Demetrio, non ne posso piú" esclamò aggrappandosi colle braccia al collo dello zio, accostando la sua faccia pallida e lagrimosa a quella accigliata e ruvida dell'uomo. "Non ne posso piú ... e il cuore mi si spezzerà davvero se non ci aiuta. Lei mi dirà tutto, com'è stato ... Ah Signore! il mio povero papà! mi dica che non è vero ... Che cosa abbiamo fatto di male noi al Signore? O Madonna, Madonna!" Arabella pronunciò il nome della Madonna con due gridi pieni di una disperata protesta, e subito dopo Demetrio se la sentí venir meno nelle sue braccia, come se morisse lí lí. "Arabella, povera figliuola mia" uscí a dire una voce, che Demetrio stentò a riconoscere per sua, tanto veniva dal profondo dell'animo. E, come se veramente si snodasse in lui uno spirito nuovo, forte, operativo, fece sedere la fanciulla, ne asciugò il viso grondante, l'appoggiò alla tavola, corse a un armadio a prendere dell'aceto, ne bagnò la fronte e i polsi, la rincorò con paroline d'amore sussurrate all'orecchio, volle infine che prendesse un granello di zucchero tuffato nel rhum; e, quando vide che il sangue rifluiva alle guancie, corse di là, finí di vestirsi, prese alcuni denari, il cappello, il bastone, una cesta di vimini, e rincorata di nuovo la tosetta : "Andiamo," disse "ne parleremo con comodo. Non dir nulla per ora. Fu una disgrazia per tutti ... L'aria ti farà bene ... Vuoi appoggiarti? Asciuga gli occhi." E uscirono. Giovedí correva innanzi, ma ad ogni svolto di scala si voltava indietro a guardare lo zio e la nipote, e gridava: beb! Sulla porta trovarono Ferruccio, al quale Demetrio consegnò la cesta e i denari e diede alcuni ordini per la spesa. Per strade secondarie si avviarono finalmente verso il Carrobio. Demetrio però si guardava sempre intorno con sospetto, per paura d'imbattersi per caso nel cavalier Balzalotti, che gli aveva dato quei tali consigli.

Piccolo mondo antico

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

, esclamò alle sue spalle il professor Beniamino, mentre Friend, saltato dal seggiolone, gli abbaiava disperatamente alle gambe: "Si tratta del testamento di Suo marito!" Stavolta la marchesa non poté a meno di fermarsi. Tuttavia non si voltò. "Questo testamento non Le può piacere", soggiunse rapidamente il Gilardoni, "ma io non ho l'intenzione di pubblicarlo. Mi ascolti, La supplico, marchesa!" Ella si voltò. La faccia impenetrabile tradiva una certa emozione nelle narici. Neppure le spalle eran del tutto tranquille. "Che storie mi conta?", rispose. "Le pare una bella convenienza di venire a nominarmi, così senza riguardi, il povero Franco? Cosa c'entra Lei negli affari della mia famiglia?" "Perdoni", replicò il professore frugandosi in tasca. "Se non c'entro io, ci potrebbero entrare altri con meno riguardi di me. Abbia la bontà di vedere i documenti. Queste ..." "Si tenga i suoi scartafacci", interruppe la marchesa vedendogli levar di tasca delle carte. "Queste sono le copie fatte da me ..." "Le dico che se le tenga, che se le porti via!" La marchesa suonò un campanello e si avviò da capo per uscire. Il professore, tutto fremente, udendo venir un domestico, vedendo lei aprir l'uscio, gittò le sue carte sopra una seggiola, disse sottovoce in fretta e furia: "Le lascio qui, non le veda nessuno, io sono al Sole, ritornerò domani, le guardi, ci pensi bene!", e prima che arrivasse il domestico, scappò per la parte ond'era venuto, tolse il ferraiuolo, infilò le scale. La marchesa rimandò il domestico, stette un poco in ascolto, poi ritornò sui suoi passi, prese le carte, andò a chiudersi nella sua stanza e, inforcati gli occhiali, incominciò a leggere presso la finestra. La faccia era oscura e le mani tremavano. Il professore stava per andare a letto nella sua camera gelata del Sole, quando due poliziotti vennero a recargli l'ordine di recarsi immediatamente all'ufficio di Polizia. Egli sentì bene un certo rimescolamento interno ma non si smarrì e partì con essi. Alla Polizia, un piccolo Commissario insolente gli domandò perché fosse venuto a Lodi e avutone risposta che c'era venuto per affari privati, fece un atto d'incredulità sprezzante. Che affari privati pretendeva avere a Lodi il signor Gilardoni? Con chi? Il professore nominò la marchesa. "Ma se nessuna Maironi sta a Lodi!", esclamò il Commissario, e perché l'altro protestava, lo interruppe subito: "Basta, basta , basta!". La Polizia sapeva di certo che il signor Gilardoni, quantunque I. R. pensionato, non era un leale austriaco, che aveva degli amici a Lugano e ch'era venuto a Lodi con un fine politico. "Lei ne sa più di me!", esclamò il Gilardoni soffocando a stento la collera. "Faccia silenzio!", gl'intimò il Commissario. "Del resto Ella non deve credere che l' I. R. Governo abbia paura di Lei. È libero di andare. Solamente deve lasciar Lodi entro due ore!" Qui Franco avrebbe capito subito di dove veniva il colpo; il filosofo non capì. "Son venuto", diss'egli, "a Lodi per un affare urgente che non ho finito, per un interesse privato gravissimo. Come posso partire dentro due ore?" "Con una vettura. Se, trascorse due ore, Ella è ancora in Lodi, La faccio arrestare." "La mia salute", replicò la vittima, "non mi permette di viaggiare di notte in dicembre." "Ebbene, La farò arrestare subito." Il povero filosofo prese in silenzio il suo cappello e uscì. Un'ora dopo egli partiva per Milano in un calessino chiuso, con i piedi nella paglia, con una coperta sulle gambe, con una gran sciarpa al collo, pensando che aveva pur fatto una bella spedizione e inghiottendo saliva ogni momento per sentir se gli doleva la gola. Notte infame davvero; ma non la passò sulle rose neppur la signora Marchesa.

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Lampo abbaiava furiosamente e i cani dello stabilimento pareva che gli rispondessero. Velleda correva ansiosa dalla camera di Maria alla terrazza e il suo pensiero volava a Roberto. Oh.' come lo invocava in quel momento; come sentiva il bisogno di averlo accanto a sé, a difesa della casa! A un tratto vide Costanza, che rompendo la consegna, scendeva le scale e le ingiunse di tornare dalla bimba. Sotto la chiara luce lunare, la signora scorse una lancia del " Selino " accostarsi alla banchina e vide dalla Casa de' Viaggiatori uscire un gruppo scuro, che correva in direzione della villa. Ma intanto che tutti quei soccorsi si avvicinavano, e Velleda ne affrettava col desiderio l'arrivo, più colpi di fucile erano sparati nel cortile dello stabilimento. I marinari del "Selino, che erano giunti al cancello della villa, retrocessero di corsa, i due guardiani che erano sul terrazzo della villa traversarono la sala; gridando a Velleda : Era una finta per allontanarci; il pericolo è là. Il pericolo! - ripeteva la signora atterrita. Dunque attentavano alla proprietà di Roberto, al frutto paziente del suo lavoro? Il Varvaro anch'egli s'era unito ai guardiani e correva verso il luogo più minacciato. Velleda non sapeva più che cosa fare e le fucilate che continuavano a turbare l'alto silenzio della notte, le ferivano dolorosamente gli orecchi. Ella scese incontro al Lo Carmine e ai due tedeschi e non seppe dire altro che : Maria! Lo stabilimento! Anche il sottodirettore degli scavi e i suoi due compagni erano armati di fucile e nella cintura portavano il revolver. revolver.Signori, - ella disse ai due giovani architetti tedeschi, conducendoli sulla porta della camera di Maria, restino qui, non si muovano, non lascino uscir nessuno, veglino per me. Io devo correr là. Non si muovano! Ella aveva preso in mano il revolver e trascinava seco il Lo Carmine verso il cancello, quando s'imbattè in Saverio e nel cuoco che portavano sopra un asse un uomo con la gola aperta e sanguinante. Velleda si fermò un momento, lo fissò con raccapriccio e poi esclamò: Alessio, il capo degli scioperanti di quest' inverno! Proprio lui! - rispose Saverio. - Ma Lampo gli ha levato la voglia di ricominciare. Lo rinchiudo in camera mia e dopo frugheremo la casa. Lampo seguiva il ferito mandando latrati feroci annunzianti che non era soddisfatto dell'opera sua. La fucilata era cessata allo stabilimento e il Lo Carmine, che vedeva con dispiacere Velleda dirigersi verso quel punto più minacciato, la trattenne quando stava per varcare il cancello. Resti qui, - le disse. - Se Maria si destasse, non avrebbe forse bisogno della sua parola rassicurante? Pensi che questa bimba è quello che di più caro ha il signor Roberto. Là vi è il Varvaro, vi sono tanti uomini. A quel nome, invocato da un amico, Velleda non seppe resistere e dopo aver chiuso a chiave il cancello, disse : Frughiamo il giardino, Ella aveva preso nella sinistra la lanterna abbandonata da Severio e col revolver nella destra, coraggiosa e cauta, si avanzava sotto le piante di arancio e sulla sua testina piovevano i petali bianchi. A un tratto si fermò, In una pozza di sangue giaceva Etna, con la testa squarciata da una palla, gli occhi spalancati e vitrei e intorno, mescolati al sangue, i soliti fiori profumati. Povera bestia! - esclamò, - mi voleva tanto bene ed è andata incontro alla morte per ubbidirmi. Più là vi erano altre tracce di sangue; il sangue di Alessio e sempre fiori, ovunque fiori nivei. Una corda abbandonata era attaccata con un arpione alla sommità del muro del giardino. Velleda l'accennò al suo compagno, il quale la staccò. Camminavano in silenzio esplorando. In un altro punto era stata tagliata un'alta pianta di fico d'India, in terra trovarono un altra corda avvoltolata. Velleda e Lo Carmine andavano sempre avanti, senza scambiare una parola. Quando ebbero esplorato tutta la parte anteriore del giardino, passarono in quella a tergo della casa. Velleda alzò la lanterna e mandò un grido. Attaccata al davanzale della finestra di Costanza, attigua alla camera di Maria, stava una scala di corda, e in terra, sulle aiuole di margherite e di pelargoni si vedevano tracce di pedate e piante calpestate. Velleda impallidì. Ormai il complotto era palese. Volevano rubare Maria per esigere poi da Roberto una somma prima di restituirla. Sventato il colpo avevano tentato di penetrare nello stabilimento, per rifarsi, rubando i denari che vi erano sempre. Quando la signora ebbe la percezione esatta del pericolo corso dalla bambina, impallidì e rimase irrigidita senza poter fare un passo. Se i malandrini avessero avuto tempo di mandare ad effetto il rapimento, che sarebbe avvenuto di Maria? Come avrebbe lei, Velleda, sostenuto la vista di Roberto? Oh! si sentiva impazzire a pensarvi. Pochi momenti più che si fosse indugiata nella meditazione della lettera di Roberto, e il colpo era fatto. Posò la lanterna; strappò la scala con un atto repentino e poi invasa dal terrore di un nuovo pericolo, corse in casa, salì in fretta le scale e penetrata in camera di viaria s'inginocchiò accanto al letto di lei e pianse, pianse lungamente. Costanza, inginocchiata pure e con aspetto truce pareva pregasse. Così Franco vide Velleda giungendo, così la vide il Varvaro, che andava a dirle quello che era accaduto. Ella fece loro cenno di non fiatare per non turbare il sonno della bambina, e senza accorgersi dei due tedeschi che facevano sempre la guardia, come sentinelle, andò in sala e lasciandosi cadere sopra una poltrona; disse al Varvaro: Ora mi racconti tutto! L' attacco allo stabilimento non era preparato, disse il direttore, - ma appena i malandrini hanno udito il suo appello, hanno veduto che io mi dirigevo qui con i guardiani e che i marinari del " Selino " venivano pure alla villa, hanno dato la scalata al muro di cinta e senza esser visti dal solo guardiano che era rimasto là, si son diretti alla segreteria, ove sanno che vi sono danari. I cani hanno dato l'allarme, il guardiano ha incominciato a tirare schioppettate e s'è attaccato alla campana. Allora io, destato all' improvviso, - continuò Franco, ho preso il revolver e, spalancata la finestra, ho mirato su quello dei malandrini che stava dietro a tutti e gli ho messo due palle nella schiena. Gli altri - erano sette - hanno rivolto i fucili verso la mia finestra facendo un fuoco di fila. Io sono andato a quella accanto e di dietro la persiana ho continuato a tirare. I marinari del " Selino " allora sono entrati nel cortile insieme col signor Varvaro ed i guardiani ed hanno fatto fuoco. Due altri malandrini sono caduti, i quattro rimasti illesi, mettendo mano ai coltelli hanno attaccato i difensori per aprirsi un varco e fuggire. Due vi sono riusciti; due sono stati presi e legati. Velleda con gli occhi pieni di lagrime che le scendevano sul dolce visino coperto da un pallore mortale, narrò quello che era accaduto alla villa e come avesse acquistato la convinzione che il colpo era diretto contro Maria. Era una imprudenza di restar qui quasi sola, disse Franco, - da stasera in poi mi permetterà di occupare la camera di mio fratello, e Saverio ed io faremo una ispezione nel giardino prima di coricarci. Il Varvaro approvò quella risoluzione, ma Velleda che non dimenticava mai Roberto, rispose: Farò avvertire i carabinieri, grazie; essi veglieranno nella villa. Franco non rispose, e non insistè perché sapeva che era inutile. Intanto erano giunti i doganieri, i quali trovandosi in perlustrazione verso il porto di Palo, avevano udito la fucilata, e quando l'alba rosea già illuminava le imponenti rovine, la villa e lo stabilimento, nessuno pensava ancora a cercare il riposo, e Velleda, con gli occhi sempre pieni di lagrime vegliava onde sparisse dal giardino ogni traccia dell'assalto notturno e Maria potesse ignorare il pericolo che aveva corso. Alessio, il ferito, era vegliato da un guardiano, il cadavere di Etna era stato sotterrato nella sabbia, i due tedeschi e il Lo Carmine erano tornati alla Casa dei Viaggiatori, e quando Maria aprì gli occhi sorrise vedendo Velleda da un lato del suo letto e dall' altro Franco. Oh! zio che sorpresa! - disse e cinse con un braccio il collo del duca, mentre con l'altro attirava a sé Velleda. gàra sui capelli. Sì, amore, - le rispose, - la mattinata è tanto bella! Anzi faremo il primo bagno di mare. I carabinieri dovevano giungere presto e Velleda era impaziente di allontanare la bambina dalla villa. Non voleva che sentisse parlare di quell' eccidio, come non avrebbe voluto che quella notizia giungesse a Roma a Roberto. Ma come fare? Ella affidò Maria alla balia; che aveva ancora gli occhi rossi, e fatto cenno a Franco di seguirla nella sala, gli disse: I giornali di Roma avranno probabilmente stasera la notizia del fatto, suo fratello la leggerà; non sarebbe meglio avvertirlo con un lungo telegramma? Non so, - rispose Franco. - Forse è più prudente di avvertire le autorità di tener celato l'acccaduto. Certe cose non si nascondono; sono troppi i testimoni e a quest' ora una cinquantina di persone sanno tutto. Io non posso celar nulla al signor Roberto; egli ha diritto di saper quello che avviene in bene e in male e io non meriterei più la sua stima se tacessi. Telegrafi allora; ma gli dica che il pericolo è scongiurato, - rispose Franco il quale non pensava ad altro che ai suoi interessi che sarebbero rimasti abbandonati se Roberto fosse partito.

Le Fate d'Oro

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Subito sentirono dei ru- mori forti: un cane abbaiava, alcuni galli cantavano, e le finestre e le porte s'apri- vano con fracasso. I ragazzi tremavano e salivano sempre, senza badare alla stan- chezza. Sentirono delle voci, poi un colpo violento e la scala si fermò. - Questa scala è fatata, - urlarono Allegrone e tutti i ragazzi. Tutto era cambiato. Dal di fuori ve- niva il rumore e il vocìo di una grande città, e dentro al palazzo le porte si apri- vano, le portiere erano sollevate e la gente andava e veniva. I ragazzi si rimpiattarono in un cantuccio del cortile. Pareva che nessuno facesse attenzione a loro. A un tratto si spalancò una porta e comparvero il Re e la Regina. - Avete girato? - domandò il Re ai ragazzi spaventati. - Sì, Sire, - rispose il Caporione. - Ma ora lasciateci partire. - Non vi lascierò partire finchè non avrò fatto di voi i ragazzi più felici del mondo, perchè siete i nostri benefattori. Avete girato al disopra di noi e ci avete salvati. Dieci anni addietro questa città era piena di vita; poi fu incantata, ed ognuno fu rinchiuso in casa propria. Soltanto que- sto cortile rimase aperto, perchè qualcuno entrasse e girasse sopra di noi. Venne un branco d'orsi, curiosarono e riuscirono. Che felicità che abbiate salita la scala! E come siete venuti? - I ragazzi gli narrarono che erano giunti con un bastimento comandato da un am- miraglio, il maestro e quattro sapienti. Il Re, felice, ordinò al suo seguito di andare a bordo e condurre al palazzo tutti i com- pagni dei bambini. Il seguito ritornò, dicendo che in porto non c'erano se non le navi del Re; quella dei ragazzi non c'era. Il Re era furente, perché credeva che i ragazzi l'avessero in- gannato. I ragazzi, dal canto loro, erano atterriti. Il Rene ebbe pietà e domandò che cosa avevano. Il Caporione gli raccontò l'avventura per filo e per segno. Il Re, rammentandosi la gratitudine che doveva loro, promise di mandare un incrociatore a catturare il ba- stimento; ma intanto ordinò al suo seguito di rinchiudere gli aristocratici nelle sale più belle del palazzo. Quando l'ammiraglio e i suoi infelici compagni furono lasciati a bordo, non po- tevano più resistere imbavagliati a quel modo, e appena non sentirono più le voci degli aristocratici, l'ammiraglio vide la punta di un succhiello e udì una voce che diceva: « Non abbiate paura, la vostra ciurma è qui che viene a liberarvi. » Di lì a poco comparve la cuoca; tagliò i sacchi dei prigionieri e li spinse a par- tire subito. Il maestro di scuola non credeva ben fatto di abbandonare i suoi scolari; ma l'am- miraglio e i quattro sapienti appoggiarono l'idea della cuoca. Fu sbarcato il maestro, e la nave partì. L'incrociatore mandato incontro alla nave di Bengodi la oltrepassò la notte senza neppur vederla, e la mattina l'ammiraglio guardando con un cannocchiale l'orizzonte, esclamò: - Ora siamo salvi; ma quale scopo daremo al nostro viaggiò? - I sapienti proposero di fare un viag- gio di scoperta scientifica, e l'ammiraglio accettò. Ma nessuno sapeva quale scoperta fare. I filosofi pensavano; l'ammiraglio, se- duto a poppa, coi trampoli celesti e rossi nell'acqua, pensava; la cuoca, mentre fa- ceva il pranzo e puliva la coperta, pen- sava. Dopo diverse ore l'ammiraglio, rivol- gendosi, vide i sapienti col capo nel sacco. Gli dissero che pensavano meglio al buio. Passarono i giorni, e i sapienti col capo nel sacco, pensavano sempre; l'am- miraglio aveva sempre i trampoli nell'ac- qua, e la cuoca cucinava e pensava. Quando il bastimento non aveva il vento in poppa, essa moveva il timone a destra e a sini- stra, e così modificava il corso della nave. - Se sapessi quanti anni ha il minore di quegli aristocratici, - disse un giorno l'ammiraglio —potrei stabilire quanto dob- biamo ancora navigare prima che siano grandi. Allora andremo a prenderli per condurli a Bengodi. - La cuoca si rammentava che il minore di quei ragazzi aveva dieci anni, e l'am- miraglio fissò che dovevano navigare sette anni precisi. E così fecero. I sapienti col capo nel sacco si lambiccavano il cervello per fare una scoperta utile. Il giorno dopo gli aristocratici erano stati rinchiusi nelle stanze più belle del palazzo reale, la Regina aveva mandato loro un messo per dire che l'idea di mettere il capo nel sacco era molto divertente, e che sarebbe loro molto tenuta se volevano mandarle il modello dei sacchi. Il messag- giero aveva cesoie, carta e spilli, e i ra- dazzi tagliarono un sacco coi fori per gli occhi, il naso, la bocca e gli orecchi, e mandarono il modello alla Regina, la quale ne fece due per le sue serve, e li mise loro in capo, ridendo come una matta. Il Re vide quelle serve in anticamera e fu spaventato. Subito adunò il consiglio dei ministri. - Siamo minacciati da un gran pe- ricolo, - disse quando tutte le porte furono chiuse. - Vorreste vivere con la testa nel sacco? Per me, credo sia meglio star fermi per sempre. Il bastimento che non potem- mo catturare ritornerà carico di sacchi, e fra poco ogni testa sarà messa in un sacco. Già si vedono i segni dell'avvicinarsi di quel giorno nefasto. Benchè quei pericolosi individui che inventarono quel supplizio siano rinchiusi, due serve del mio palazzo hanno già la testa nel sacco. - Un grido d'orrore accolse le parole del Re. Fu stabilito, dopo lunga discussione, che una sentinella fosse posta in vedetta sulla torre più alta della città, per scoprire l'avvicinarsi del bastimento; nuove guardie furono collocate alle porte degli aristocra- tici, e fu ordinato che la città fosse visi- tata per vedere se si scoprissero nuovi casi d'insaccamento. Gli aristocratici incominciarono ad es- sere molto malcontenti. Benché non man- casse loro nè da bere nè da mangiare, ed avessero ogni specie di balocchi, pure erano stanchi di sentirsi prigionieri. - Vi domando che affare è questo? - disse Codino. - Io non intendo star più qui. Andiamocene. - Ma come faremo ad andarcene? - chiesero gli altri. - Vedremo se si può uscire. Qualun- que cosa è preferibile a questa prigionìa. - Dopo lunghe discussioni, stabilirono di fuggire. Le finestre non erano molto alte da terra, ma sempre troppo alte per fare un salto; e nelle stanze non vi era nulla di solido che potesse far le veci di una corda. I lenzuoli, i cortinaggi, tutto era di tela finissimo, e di tulle. Finalmente Alle- grone fece una proposta. Le stanze erano grandi e pavimentate con assi di legno pre- zioso, che ne occupavano tutta la lunghezza. Dovevano levare una di quelle assi, appog- giarne una estremità alla finestra e l'altra giù in terra. Così avrebbero potuto scivolare lungo l'asse e fuggire. Subito ogni aristocratico si diede a la- vorare, e chi col coltello, chi con un pez- zetto di ferro, tolsero i chiodi d'argento che fermavano l'asse al pavimento. - Questa è una pazzia, - disse Ca- porione - vedrai che cadremo tutti. - Non c'è pericolo, - disse Allegrone - e suggerì di ungere l'asse con l'olio del lume; quindi l'appoggiarono alla finestra. A uno per volta i ragazzi scivolarono per terra e andarono a rotolare sull'erba, ad una certa distanza. L'ultimo a scendere fu; Allegrone, che tirò a sè l'asse perchè le guardie non sapessero come fare ad inse- guirli. Era quasi buio e i ragazzi non sape- vano dove passar la notte. Essi giunsero ad un fabbricato le cui porte erano chiuse, ma non serrate a chiave, e vi entrarono. Quell'edifizio era una libreria che veniva chiusa presto la sera e aperta tardi la mat- tina. Gli aristocratici si misero comoda- mente a sedere e accesero i moccoletti che ognuno aveva in tasca. Allora discussero. Allegrone disse che il bastimento, un giorno o l'altro, sarebbe tornato a prenderli, per- chè l'ammiraglio non avrebbe avuto il co- raggio di presentarsi senza di essi ai loro rispettivi genitori. La quistione più urgente era quella di sapere come vivere mentre aspettavano la nave. Per dormire potevano star sicuri dov'erano, ma per mangiare bi- sognava guadagnarselo. Dopo lunghe discussioni, dopo una vo- tazione contrastata, fu stabilito che i ra- gazzi avrebbero fatto i portalettere per gua- dagnarsi il pane. - Ma le lettere da portare dove sono? - chiesero alcuni fra i più grandi. - Vedremo domattina, - disse Allegrone - c'è tempo prima che aprano le botteghe. - La mattina si diedero a cercare, a fru- gare, e trovarono nella libreria molte let- tere lasciate lì prima che la città fosse con- dannata all'immobilità. Ogni ragazzo ne prese alcune e andò in giro a portarle per le case. Gli abitanti le leggevano con pia- cere, perchè molte contenevano notizie im- portanti per essi; perciò davano la mancia a chi gliele portava. E ogni giorno alcuni abitanti ricevevano lettere, e ogni giorno i ragazzi avevano alcune monete. Quando il Re fu informato della fuga dei ragazzi, sapendo che non avevano da vivere, esclamò: - Tanto meglio! morranno tutti di fame e noi saremo liberati da quegli ari- stocratici! - Ma la vedetta rimaneva sempre sulla torre della città, poichà nessuno sapeva quando sarebbe giunta la nave cogli altri insaccatori. Un giorno che Caporione distribuiva le lettere, incontrò un vecchio, che rico- nobbe per il maestro di scuola. Da prima ebbe voglia di fuggire, ma quando il vec- chio lo chiamò, si abbracciarono piangendo, e la pace fu fatta. Quella notte il maestro dormì nella libreria, e le sere successive pure; il maestro sceglieva i manoscritti e i libri istruttivi, e faceva lezione agli ari- stocratici, i quali in poco tempo acquista- rono utili cognizioni. Essi salivano spesso sull'alta torre per vedere se giungeva il bastimento, avendo inteso dire che si scor- geva una nave con le vele rosse e azzurre. Ma passavano gli anni senza che vedes- sero una bandiera. Un giorno lessero sulle cantonate un bando del Re, che ordinava ai cittadini di chiudere porte e finestre e ritirarsi nelle case, perchè la città era minacciata da un nuovo incantesimo. Gli aristocratici ne era- no disperati. Come dovevano fare a vivere senza il rifugio della libreria e senza poter portare le lettere? Andarono dal Re a proporgli di salire novamente la scala finchà la città non fosse tornata alla vita. - Sapete a che cosa v'impegnate? - osservò il Rè - e se le forze non vi ba- stassero? - Risposero che lo sapevano ed erano sicuri delle loro forze. Anzi, era più facile che resistessero alla fatica di salire, perché erano assai più grandi e assai più forti della prima volta. Il Re li riconobbe e Allegrone dovette raccontargli la vita che avevano fatto dopo la fuga. Il Re si mostrò contentissimo e ac- cettò l'offerta di salire la scala. Sali, sali, la scala girava sempre. Fi- nalmente si fermò, e la città fu libera per altri dieci anni. Gli aristocratici vennero colmati di onori e di regali, in segno di gratitudine, dal Re e dal popolo e furono alloggiati sontuosamente nel palazzo, insieme col mae- stro di scuola. La libreria fu aperta ogni sera al pubblico, affinchè potesse leggere ed istruirsi. Dopo un anno giunse in porto la nave con l'ammiraglio. I sapienti si tolsero il sacco di testa; erano diventati vecchi e magri, e abbracciarono gli sco- lari che erano diventati grandi e forti. In capo a pochi giorni la nave salpò per il paese di Bengodi. I ragazzi furono accolti con gioia in quel regno, e ovunque si sparse la notizia del servizio che avevano reso al Re della città incantata.

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Il sistema periodico

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Levi, Primo 1 occorrenze

Era in sostanza un apparecchio radioricevente, costruito in modo da svelare minime differenze di frequenza: ed infatti, usciva brutalmente di sintonia, ed abbaiava come un cane da pagliaio, solo che l' operatore si muovesse sulla sedia, o spostasse una mano, o addirittura se soltanto entrava qualcuno nella camera. In certe ore del giorno, inoltre, rivelava tutto un intricato universo di misteriosi messaggi, ticchettii in Morse, sibili modulati, e voci umane deformate e smozzicate, che pronunciavano frasi in lingue incomprensibili, o altre in italiano, ma erano frasi insensate, in codice. Era la babele radiofonica della guerra, messaggi di morte trasmessi da navi od aerei, da chissà chi a chissà chi, al di là dei monti e del mare. Al di là dei monti e del mare, mi spiegò l' Assistente, esisteva un sapiente di nome Onsager, del quale lui non sapeva nulla salvo che aveva elaborato una equazione che pretendeva di descrivere il comportamento delle molecole polari in tutte le condizioni, purché si trovassero allo stato liquido. L' equazione funzionava bene per le soluzioni diluite; non risultava che nessuno si fosse curato di verificarla per soluzioni concentrate, per liquidi polari puri, e per miscele di questi ultimi. Era questo il lavoro che mi proponeva, e che io accettai con indiscriminato entusiasmo: preparare una serie di liquidi complessi, e controllare se obbedivano alla equazione di Onsager. Come primo passo, avrei dovuto fare quello che lui non sapeva fare: a quel tempo non era facile trovare prodotti puri per analisi, ed io avrei dovuto dedicarmi per qualche settimana a purificare benzene, clorobenzene, clorofenoli, amminofenoli, toluidine ed altro. Bastarono poche ore di contatto perché la figura dell' Assistente si definisse. Aveva trent' anni, era sposato da poco, veniva da Trieste ma era di origine greca, conosceva quattro lingue, amava la musica, Huxley, Ibsen, Conrad, ed il Thomas Mann a me caro. Amava anche la fisica, ma aveva in sospetto ogni attività che fosse tesa ad uno scopo: perciò era nobilmente pigro, e detestava il fascismo naturaliter. Il suo rapporto con la fisica mi rese perplesso. Non esitò a trafiggere il mio ultimo ippogrifo, confermando con parole esplicite quel messaggio sulle "futilità marginali" che avevamo letto nei suoi occhi in laboratorio. Non soltanto quelle nostre umili esercitazioni, ma l' intera fisica era marginale, per natura, per vocazione, in quanto si prefiggeva di dare norma all' universo delle apparenze, mentre la verità, la realtà, l' intima essenza delle cose e dell' uomo stanno altrove, celate dietro un velo, o sette veli (non ricordo con esattezza). Lui era un fisico, e più precisamente un astrofisico, diligente e volonteroso, ma privo di illusioni: il Vero era oltre, inaccessibile ai nostri telescopi, accessibile agli iniziati; era quella una lunga strada che lui stava percorrendo con fatica, meraviglia e gioia profonda. La fisica era prosa: elegante ginnastica della mente, specchio del Creato, chiave al dominio dell' uomo sul pianeta; ma qual è la statura del Creato, dell' uomo e del pianeta? La sua strada era lunga, e lui l' aveva appena iniziata, ma io ero suo discepolo: volevo seguirlo? Era una richiesta terribile. Essere discepolo dell' Assistente era per me un godimento di ogni minuto, un legame mai sperimentato prima, privo d' ombre, reso più intenso dalla certezza che quel rapporto era mutuo: io ebreo, emarginato e reso scettico dagli ultimi rivolgimenti, nemico della violenza ma non ancora risucchiato dalla necessità dell' opposta violenza, dovevo essere per lui l' interlocutore ideale, un foglio bianco su cui qualunque messaggio poteva essere inciso. Non inforcai il nuovo gigantesco ippogrifo che l' Assistente mi offriva. In quei mesi i tedeschi distruggevano Belgrado, spezzavano la resistenza greca, invadevano Creta dall' aria: era quello il Vero, quella la Realtà. Non c' erano scappatoie, o non per me. Meglio rimanere sulla Terra, giocare coi dipoli in mancanza di meglio, purificare il benzene e prepararsi per un futuro sconosciuto, ma imminente e certamente tragico. Purificare il benzene, poi, nelle condizioni in cui la guerra ed i bombardamenti avevano ridotto l' Istituto, non era un' impresa da poco: l' Assistente mi precisò che avevo mano del tutto libera, potevo rovistare dappertutto dalle cantine al solaio, impossessarmi di qualsiasi strumento o prodotto, ma non acquistare nulla: neppure lui lo poteva, era un regime di autarchia assoluta. Trovai nello scantinato un bottiglione di benzene tecnico, al 95 per cento di purezza: meglio che niente, ma i manuali prescrivevano di rettificarlo e poi di sottoporlo ad una ultima distillazione in presenza di sodio, per liberarlo dalle ultime tracce di umidità. Rettificare significa distillare frazionatamente, scartando le frazioni che bollono più basso o più alto del prescritto e raccogliendo il "cuore", che dovrebbe bollire a temperatura costante: trovai nell' inesauribile cantina la vetreria necessaria, ivi compresa una di quelle colonnine di Vigreux, graziose come una trina, opera della sovrumana pazienza ed abilità dei soffiatori di vetro, ma (sia detto fra noi) di efficienza discutibile; il bagnomaria me lo fabbricai con un pentolino d' alluminio. Distillare è bello. Prima di tutto, perché è un mestiere lento, filosofico e silenzioso, che ti occupa ma ti lascia tempo di pensare ad altro, un po' come l' andare in bicicletta. Poi, perché comporta una metamorfosi: da liquido a vapore (invisibile), e da questo nuovamente a liquido; ma in questo doppio cammino, all' in su ed all' in giù, si raggiunge la purezza, condizione ambigua ed affascinante, che parte dalla chimica ed arriva molto lontano. E finalmente, quando ti accingi a distillare, acquisti la consapevolezza di ripetere un rito ormai consacrato dai secoli, quasi un atto religioso, in cui da una materia imperfetta ottieni l' essenza, l' "usìa", lo spirito, ed in primo luogo l' alcool, che rallegra l' animo e riscalda il cuore. Impiegai due buoni giorni per ottenere una frazione di purezza soddisfacente: per questa operazione, dato che dovevo lavorare con fiamma libera, mi ero volontariamente relegato in una cameretta al 1o piano, deserta e vuota, e lontana da ogni presenza umana. Ora si trattava di distillare una seconda volta in presenza di sodio. Il sodio è un metallo degenere: è anzi un metallo solo nel significato chimico della parola, non certo in quello del linguaggio quotidiano. Non è né rigido né elastico, è anzi molle come la cera; non è lucente, o meglio, lo è solo se conservato con attenzioni maniache, poiché altrimenti reagisce in pochi istanti con l' aria ricoprendosi di una brutta cotenna ruvida: con anche maggiore rapidità reagisce con l' acqua, sulla quale galleggia (un metallo che galleggia!) danzando freneticamente e svolgendo idrogeno. Frugai invano il ventre dell' Istituto: trovai dozzine di ampolle etichettate, come Astolfo sulla Luna, centinaia di composti astrusi, altri vaghi sedimenti anonimi apparentemente non toccati da generazioni, ma sodio niente. Trovai invece una boccetta di potassio: il potassio è gemello del sodio, perciò me ne impadronii e ritornai al mio eremitaggio. Misi nel palloncino del benzene un grumo di potassio "della grossezza di mezzo pisello" (così il manuale) e distillai diligentemente il tutto: verso la fine della operazione spensi doverosamente la fiamma, smontai l' apparecchio, lasciai che il poco liquido rimasto nel pallone si raffreddasse un poco, e poi, con un lungo ferro acuminato, infilzai il "mezzo pisello" di potassio e lo estrassi. Il potassio, come ho detto, è gemello del sodio, ma reagisce con l' aria e con l' acqua con anche maggiore energia: è noto a tutti (ed era noto anche a me) che a contatto con l' acqua non solo svolge idrogeno, ma anche si infiamma. Perciò trattai il mio mezzo pisello come una santa reliquia; lo posai su di un pezzo di carta da filtro asciutta, ne feci un involtino, discesi nel cortile dell' Istituto, scavai una minuscola tomba e vi seppellii il piccolo cadavere indemoniato. Ricalcai bene la terra sopra e risalii al mio lavoro. Presi il pallone ormai vuoto, lo posi sotto il rubinetto ed aprii l' acqua. Si udì un rapido tonfo, dal collo del pallone uscì una vampa diretta verso la finestra che era vicina al lavandino, e le tende di questa presero fuoco. Mentre armeggiavo alla ricerca di qualche mezzo anche primitivo di estinzione, incominciarono ad abbrustolire i pannelli degli scuri, ed il locale era ormai pieno di fumo. Riuscii ad accostare una sedia ed a strappare le tende: le buttai a terra e le calpestai rabbiosamente, mentre già il fumo mi aveva mezzo accecato e il sangue mi batteva con violenza nelle tempie. A cose finite, quando tutti i brandelli incandescenti furono spenti, rimasi in piedi per qualche minuto, atono e come istupidito, con le ginocchia sciolte, a contemplare le tracce del disastro senza vederle. Appena ebbi ripreso un po' di fiato, scesi al piano di sotto e raccontai l' episodio all' Assistente. Se è vero che non c' è maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria, è altrettanto vero che rievocare un' angoscia ad animo tranquillo, seduti quieti alla scrivania, è fonte di soddisfazione profonda. L' Assistente ascoltò la mia relazione con attenzione educata ma con un' aria curiosa: chi mi aveva costretto a imbarcarmi in quella navigazione, e a distillare il benzene con tutte quelle cure? In fondo mi stava bene: sono queste le cose che accadono ai profani, a coloro che si attardano a giocare davanti alle porte del tempio invece di penetrarvi. Ma non disse nulla; assunse per l' occasione (malvolentieri come sempre) la distanza gerarchica, e mi fece notare che un pallone vuoto non s' incendia: vuoto non doveva essere stato. Doveva aver contenuto, se non altro, il vapore del benzene, oltre naturalmente all' aria penetrata dal collo. Ma non s' è mai visto che il vapore di benzene, a freddo, prenda fuoco da sé: solo il potassio poteva aver acceso la miscela, ed il potassio io l' avevo tolto. Tutto? Tutto, risposi io: ma mi venne un dubbio, risalii sul luogo dell' incidente, e trovai ancora a terra i cocci del pallone; su uno di essi, guardando bene, si scorgeva, appena visibile, una macchiolina bianca. La saggiai con la fenolftaleina: era basica, era idrossido di potassio. Il colpevole era trovato: aderente al vetro del pallone doveva essere rimasto un frammento minuscolo di potassio, quanto era bastato per reagire con l' acqua che io avevo introdotta ed incendiare i vapori di benzene. L' Assistente mi guardava con occhio divertito e vagamente ironico: meglio non fare che fare, meglio meditare che agire, meglio la sua astrofisica, soglia dell' Inconoscibile, che la mia chimica impastata di puzze, scoppi e piccoli misteri futili. Io pensavo ad un' altra morale, più terrena e concreta, e credo che ogni chimico militante la potrà confermare: che occorre diffidare del quasi-uguale (il sodio è quasi uguale al potassio: ma col sodio non sarebbe successo nulla), del praticamente identico, del pressapoco, dell' oppure, di tutti i surrogati e di tutti i rappezzi. Le differenze possono essere piccole, ma portare a conseguenze radicalmente diverse, come gli aghi degli scambi; il mestiere del chimico consiste in buona parte nel guardarsi da queste differenze, nel conoscerle da vicino, nel prevederne gli effetti. Non solo il mestiere del chimico.

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Vizio di forma

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Levi, Primo 1 occorrenze

Poteva essere un bene o un male: dalla voce, non doveva essere un cane molto grosso, però abbaiava con sdegno e con tenacia, fin quando gli mancava il fiato, e allora lo si sentiva aspirare l' aria con un corto rantolo convulso. In breve fu a pochi metri sotto di noi, e fu chiaro che non abbaiava per capriccio, ma per dovere: non intendeva lasciarci entrare nel suo territorio. Clotilde gli chiese scusa per l' invasione, e gli spiegò che avevamo perso la strada e non volevamo altro che andarcene; perciò, lui faceva bene ad abbaiare, era il suo mestiere, ma se ci avesse insegnato la strada che portava a casa sua avrebbe fatto meglio, e non avrebbe perso tempo lui e neanche noi. Parlava con voce così tranquilla e persuasiva che il cane si quietò subito: lo intravvedevamo sotto di noi come una vaga chiazza bianca e nera. Scendemmo di pochi passi, e sentimmo sotto i piedi la durezza elastica della terra battuta. Il cane si incamminò a mezza costa verso destra, uggiolava ogni tanto, e si fermava a vedere se lo seguivamo. Dopo un quarto d' ora arrivammo così alla casa del cane, accolti da un tremulo coro di belati caprini: di lì, nonostante l' oscurità, trovammo facilmente un viottolo ben segnato che scendeva al paese.

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I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Il maharatto e Tremal-Naik scattarono in piedi, trattenendo Punthy che abbaiava furiosamente. - Cosa succede? - chiese il maharatto, strappandosi dalla cintola il coltellaccio. - Kammamuri! ... Kammamuri! ... , - gridò una voce. - Chi chiama? - chiese Tremal-Naik. - Grande Brahma! ... Manciadi! - esclamò il maharatto. Infatti il bengalese, con rapidità grandissima attraversava la jungla, sfondando la fitta cortina di bambù ed agitando come un pazzo la carabina. Pareva in preda ad un vivo terrore. - Kammamuri! ... Kammamuri! - ripeté egli con voce strozzata. - Corri, Manciadi, corri! - gridò il maharatto. Che sia inseguito? Attenta, Darma! La tigre si raccolse su se stessa cogli artigli aperti, e aprì la bocca mostrando una doppia fila di denti aguzzi. Il bengalese, che correva molto rapidamente, in pochi minuti giunse alla capanna. Il miserabile aveva la faccia insanguinata per una ferita che s'era fatta sulla fronte per meglio colorire il tradimento ed aveva la tunica pure macchiata. - Padrone! ... Kammamuri! - esclamò egli, piangendo disperatamente. - Cosa ti è accaduto? - chiese Tremal-Naik con angoscia. - Hanno ferito a morte Aghur! ... Povero me ... non ne ho colpa, padrone ... ci sono balzati addosso ... Aghur! povero Aghur! - L'hanno ferito! - esclamò Tremal-Naik con furore. - Chi? Chi? - I nemici ... gl'indiani dai lacci ... - Maledizione! ... Parla, narra, di' su, voglio saper tutto! - Eravamo seduti in un bosco di giacchieri, disse il miserabile, continuando a singhiozzare. - Ci sono balzati addosso prima che potessimo prendere le armi ed Aghur è caduto. Io ho avuto paura e sono fuggito. - Quanti erano? - Dieci, dodici, non ricordo bene quanti. Sono fuggito per miracolo. - È morto Aghur? - No, padrone, non può esser morto. L'hanno pugnalato, poi sono scomparsi. Fuggendo, udii il ferito gridare, ma non ebbi il coraggio di ritornare presso di lui. - Sei un vigliacco, Manciadi! - Padrone, se fossi ritornato mi avrebbero ucciso, - singhiozzò il bengalese. - Quando la finiranno adunque? - gridò Tremal-Naik. - Kammamuri, forse Aghur non è morto; bisogna andarlo a trovare e portarlo qui. - E se mi assaltano? - chiese Kammamuri, terrorizzato. - Prenderai con te Darma e Punthy. Con questi animali puoi tenere testa a cento uomini. - Ma chi mi guiderà? - Manciadi. - E tu vuoi rimanere nella capanna solo? - Basto io solo per difendermi. Va' e non perdere tempo, se vuoi salvare il povero Aghur. Manciadi, guida quest'uomo al bosco. - Padrone ho paura. - Guida quest'uomo al bosco; se esiti, ti faccio sbranare dalla tigre. Tremal-Naik aveva pronunciato quelle parole con tale tono, da far comprendere a Manciadi che non era uno scherzo. Affettando il massimo terrore, si unì al maharatto che si era armato della carabina e d'un paio di pistole. - Padrone, - disse Kammamuri, - se fra due o tre ore non ritorniamo, vorrà dire che siamo stati assassinati. Il canotto è arenato sulla riva; penserai a metterti in salvo. - Mai! - esclamò Tremal-Naik. - Ti vendicherò a Raimangal; taci e parti. Il maharatto e Manciadi, preceduti dal cane e dalla tigre, si slanciarono di corsa in mezzo alla jungla. Il sole era di già scomparso sotto l'orizzonte, ma la luna sorgeva, spandendo una luce azzurrognola, d'una infinita dolcezza, sufficiente per guidare i due indiani attraverso la massa dei bambù. - Camminiamo con precauzione e in silenzio, disse Kammamuri a Manciadi. - Non bisogna attirare l'attenzione dei nemici, che forse si tengono nascosti a poca distanza da noi. - Hai paura, Kammamuri? - chiese il bengalese, che non tremava più. - Credo di sì. Per fortuna, con noi abbiamo Darma, una valorosa bestia che non teme cinquanta uomini armati. - Ti avverto, Kammamuri, che io non entrerò nel bosco. - Mi aspetterai dove meglio ti piacerà, e se vuoi ti lascierò Punthy, un bravo cane che sa strozzare una mezza dozzina di persone. Avanti e silenzio. Manciadi, che aveva già tracciato il suo piano, condusse il maharatto sul sentiero che aveva percorso al mattino e lo seguì per tre quarti d'ora. S'arrestò sul margine del bosco di giacchieri. - È qui? - chiese Kammamuri, guardando con ansietà sotto gli alberi. - Sì, qui, - rispose Manciadi, con fare misterioso. - Segui questo sentieruzzo che s'addentra nel bosco e giungerai allo stagno, sulle cui rive è caduto Aghur. Io qui t'aspetto, nascosto in quella fitta macchia. - Vuoi il cane? - Amo meglio esser solo. Gl'indiani non mi scopriranno, ne sono certo. - Fra mezz'ora io sono di ritorno. Darma, sta' attenta e pronta a piombare sul primo uomo che si presenta dinanzi a noi, e tu, Punthy, preparati pure a strozzare qualcuno. La tigre fece udire un basso ruggito e si mise dinanzi al maharatto colle corte orecchie alzate ed il cane gli si mise dietro mostrando i denti. - Benone, - disse Kammamuri, quando vide il bengalese nascosto nella macchia. - Nessuno ardirà avvicinarsi senza il permesso di queste care bestie. Entrarono nel bosco sotto il quale regnava una profonda oscurità ed un silenzio funebre e s'avanzarono sul sentiero, senza produrre rumore di sorta. Kammamuri più volte si fermò sperando di udire qualche lamento o qualche chiamata che segnalasse la presenza di Aghur, ma nulla giungeva al suo orecchio. - È strano, - mormorava, tergendosi il sudore che colavagli in gran copia dalla fronte. - Se fosse ancora vivo, si udirebbe qualche lamento, ma qui regna un silenzio perfetto. Che sia morto? Aveva percorso da trecento a quattrocento passi, quando udì qualcuno che zuffolava un'arietta malinconica. Era la medesima arietta che Manciadi aveva zuffolato prima d'assassinare Aghur. La tigre si mise a brontolare volgendo la testa all'indietro e il cane diè segni d'inquietudine, ringhiando. - Attenti, piccini, - disse Kammamuri, che sentivasi gelare il sangue. - State vicini a me e lasciate che quell'uomo zuffoli a suo piacimento. Credo che per Aghur sia finita. Una nube oscurò la luna e le tenebre divennero più fitte sotto il bosco. Kammamuri si arrestò, indeciso se dovesse avanzare o tornare indietro, poi tirò innanzi colle pistole montate. - Kammamuri! - gridò una voce. - Kammamuri! - ripeté una seconda voce. - Kammamuri!- riprese una terza. La tigre si mise a ruggire sferzandosi i fianchi colla coda e saltando come se fosse su di un braciere. Cercò due o tre volte di slanciarsi a destra del sentiero, ma il maharatto, con un fischio, la richiamava al posto. - Calma, piccina, calma, - diss'egli. - Lasciate che chiamino. Non sono spiriti, ma uomini che si divertono a spaventarmi. Se ritorno alla capanna, posso ringraziare Visnù d'avermi protetto. Allungò il passo con una pistola puntata a destra del sentiero e l'altra a sinistra e poco dopo giungeva in vista dello stagno. Un fascio di luce lunare piombò in quel luogo, illuminandolo come in pieno giorno. Kammamuri, con indicibile spavento, scorse a terra un corpo umano su cui si agitava un gruppo di marabù. Punthy si slanciò verso quel cadavere urlando lamentosamente e mettendo in fuga i voraci volatili. - Aghur! - esclamò Kammamuri, singhiozzando. Corse come un pazzo allo stagno e si gettò sul corpo dell'infelice suo compagno. Aveva ancora il laccio attorno al collo ed il corpo era stato straziato dai marabù. - Aghur! Mio povero Aghur! - ripeté Kammamuri, abbracciando il cadavere. - Ah! miserabili! D'un tratto emise un urlo terribile e i suoi occhi si fissarono su di una pietra, contro la quale era appoggiata la testa di Aghur. Ai pallidi raggi della luna, aveva letto, fremendo, le seguenti parole scritte a lettere di sangue: "Kammamuri, Manciadi mi ha assass ... ". Il maharatto balzò in piedi. Comprese tutto il tradimento del bengalese e il pericolo che correva il padrone. - Darma! Punthy! - gridò egli con voce strozzata.- Alla capanna! ... Alla capanna! ... Si uccide il padrone. E si slanciò attraverso la foresta preceduto dalla tigre e seguito dal cane, che abbaiava con furore! Nel mentre Kammamuri correva come un daino sotto le cupe volte di verzura, il bengalese non perdeva il suo tempo. Rimasto solo, erasi subito slanciato fuori della macchia correndo precipitosamente verso la capanna, risoluto a strangolare la seconda vittima. Sapeva di avere un vantaggio di un buon quarto d'ora sul maharatto, nondimeno divorava la via colla velocità di una palla di cannone, paventando di venire colto sul fatto dalla tigre e dal cane, dai quali animali aveva tutto da temere. Attraversò la jungla impiegando meno di mezz'ora e si fermò sul margine della piantagione, dopo di avere preparato un secondo laccio. - Il padrone deve tenersi in guardia, - mormorò egli. - Se mi vede tornare, crederà che io abbia abbandonato Kammamuri e mi spaccherà la testa con una palla di carabina. Quell'uomo non ischerza. Aprì adagio adagio i bambù e guardò verso il nord. A quattrocento passi di distanza scorse la capanna ed accanto ad essa Tremal-Naik in piedi, colla carabina in mano. - Ah! - esclamò il miserabile. - Ucciderlo non sarà tanto facile, ma Manciadi è più furbo di un cacciatore di serpenti. Ripigliò la corsa verso l'est, trottando furiosamente per sei o sette minuti, poi si slanciò nella pianura. La capanna stava alla sua destra e Tremal-Naik gli mostrava un fianco. Con un po' d'astuzia poteva avvicinarsi e cogliere la vittima alle spalle. La sua risoluzione fu prontamente presa. Si mise a strisciare fra le erbe come un serpente, allungandosi quanto poteva onde non venire scorto da Tremal-Naik e procurando di non far rumore. Però, il venticello che sfiorava la piantagione, curvando dolcemente le alte cime dei bambù, produceva un leggiero stropiccio, sufficiente per coprire lo strisciare di un uomo. Così avanzando e soffermandosi per tendere gli orecchi e guardare Tremal-Naik che pareva non s'accorgesse di nulla, riuscì a guadagnare la capanna. Con uno scatto da tigre si rizzò. Un sorriso atroce sfiorava le sue labbra. - È mio, - mormorò con un filo di voce. - Kâlì mi protegge. Camminò in punta dei piedi lungo le pareti della capanna e si fermò a dieci passi da Tremal-Naik. Diede un ultimo sguardo alla jungla e non scorse nessuno. Un secondo sorriso, più crudele del primo, apparve sulle labbra ed i suoi occhi scintillarono come quelli di un gatto. Un secondo ancora e la vittima sarebbe caduta per non più rialzarsi. Fece fischiare rapidamente il laccio attorno a sé e lo slanciò facendo un balzo avanti. Tremal-Naik piombò al suolo come un albero sradicato dal vento, ma, per un caso fortuito, una mano era rimasta presa nel laccio. - Kammamuri! - gridò il disgraziato, afferrando coll'altra mano la corda e tirando a sé con disperata energia. - Muori! muori! - urlò l'assassino, trascinandolo sul suolo. Tremal-Naik mandò un secondo grido. - Kammamuri! aiuto! - Eccomi - tuonò una voce. Manciadi digrignò i denti con furore. Sul limite della piantagione era improvvisamente apparso il maharatto: dinanzi, correva, con balzi giganteschi la tigre, fiancheggiata da Punthy. Un lampo squarciò la notte seguìto da una fragorosa detonazione. Manciadi fece un salto di dieci passi e s'avventò all'impazzata verso la riva vicina. Un secondo sparo rimbombò e Manciadi piombò nel fiume, scomparendo fra i gorghi.

Il cane abbaiava colla testa volta al fiume, segno evidente che colà succedeva qualche cosa. Contemporaneamente la tigre apparve sulla soglia della capanna, facendo udire un sordo miagolio. - Kammamuri! - chiamò Aghur, preparando le armi. Il maharatto, che dormiva con un sol occhio, lo raggiunse. - Cosa succede? - chiese egli. - I nostri animali hanno udito qualche cosa e sono inquieti. - Hai udito qualche rumore? - Assolutamente nulla. - Tieni il cane ed ascoltiamo. Aghur s'affrettò a ubbidire. D'improvviso verso il fiume s'udi a gridare: - Aiuto! Aiuto! ... Il cane si mise ad abbaiare furiosamente. - Aiuto! ... - ripeté la medesima voce. - Kammamuri! - esclamò Aghur. - Qualcuno si annega. - Certamente. - Non possiamo lasciarlo annegare. - Non sappiamo chi sia. - Non importa: alla riva! - Prepariamo le armi e stiamo attenti. Non si sa mai cosa può accadere. Tu, Darma, rimani qui e sbrana senza pietà quanti si presentano. La tigre certamente lo comprese, poiché si raccolse su se stessa, cogli occhi fiammeggianti, pronta a scagliarsi sul primo venuto. I due indiani si slanciarono verso la riva, preceduti da Punthy che continuava ad abbaiare furiosamente, e guardarono sul fiume che pareva nero come se fosse d'inchiostro. - Vedi nulla? - chiese Kammamuri ad Aghur, che si era curvato sulla corrente. - Sì, mi pare di scorgere laggiù qualche cosa che va alla deriva. - Un uomo forse? - Si direbbe più il tronco di un albero. - Olà! - gridò Kammamuri. - Chi chiama? - Salvatemi! - rispose una fioca voce. - È un naufrago, disse il maharatto. - Potete giungere alla riva? - chiese Aghur. Un gemito fu la risposta che ottenne. Non vi era da esitare, quel naufrago si trovava agli estremi e poteva da un momento all'altro annegarsi. I due indiani balzarono nel canotto e si diressero rapidamente verso di lui. Ben presto s'avvidero che l'oggetto nero che andava alla riva era il tronco di un albero, a cui era aggrappato un uomo. In pochi istanti lo raggiunsero allungando le mani al naufrago, che le afferrò colla forza della disperazione. - Salvatemi! ... - balbettò egli ancora una volta, lasciandosi deporre nel fondo del battello. I due indiani si curvarono su di lui osservandolo con curiosità. Era un uomo della loro razza, bengalese al tipo, di statura inferiore alla media, di colorito assai oscuro, estremamente magro ma coi muscoli assai pronunciati, indizio sicuro d'una forza non comune. Aveva la faccia qua e là contusa e la gialla tunica, strettamente chiusa al corpo, macchiata di sangue. - Sei ferito? - gli domandò Kammamuri. Quell'uomo lo fissò attentamente con due occhi che avevano strani riflessi. - Credo, - mormorò dipoi. - Hai la veste insanguinata. Lasciami vedere - Non è nulla, - diss'egli, mettendosi le mani sul petto, come se avesse paura di metterlo allo scoperto. - Ho battuto la testa su quel tronco d'albero e mi sanguinò il naso. - Da dove vieni? - Da Calcutta. - Ti chiami? - Manciadi. - Ma come ti trovi qui? Il bengalese tremò in tutte le membra, battendo i denti. - Chi abita questi luoghi? - chiese egli, con terrore. - Tremal-Naik, il cacciatore di serpenti, - rispose Kammamuri. Manciadi tornò a tremare. - Feroce uomo, - balbettò. Aghur ed il maharatto si guardarono l'un l'altro con sorpresa. - Tu sei pazzo, - disse Aghur. - Pazzo! ... Non sai tu che i suoi uomini mi diedero la caccia, come se fossi una tigre? - I suoi uomini ti diedero la caccia! Ma siamo noi i suoi compagni. Il bengalese si raddrizzò, guardandoli con ispavento. - Voi! ... Voi! ... - ripeté. - Sono perduto! S'aggrappò all'orlo del canotto colla evidente intenzione di lanciarsi nel fiume, ma Kammamuri l'afferrò a mezzo corpo obbligandolo a sedersi. - Spiegami la causa di questo spavento, - gli disse con accento minaccioso. - Noi non facciamo male ad alcuno, ma ti avverto che se tu non parli chiaro ti spacco il cranio col calcio della mia carabina. - Volete assassinarmi! - piagnucolò Manciadi. - Sì, se non ti spieghi. Cosa sei venuto a far qui? - Sono un povero indiano e campo la vita cacciando. Un capitano dei sipai mi promise cento rupie per una pelle di tigre, e qui venni sperando di soddisfarlo. - Tira avanti. - Ieri sera approdai alla riva opposta del Mangal, e mi appiattai nella jungla, due ore dopo mi si slanciarono addosso alcuni uomini e mi sentii stringere il collo da un laccio ... - Ah! - esclamarono i due indiani. - Un laccio, hai detto? - Sì - confermò il bengalese. - Gii hai veduti quegli uomini? - chiese Aghur. - Sì, come vedo voi. - Cosa avevano sul petto? - Mi pare d'aver visto un tatuaggio. - Erano quelli di Raimangal, - disse Kammamuri. - Continua. - Impugnai il mio coltello, - proseguì Manciadi, che fremeva ancora per lo spavento, - e tagliai la corda. Corsi a lungo inseguito dappresso e giunto al fiume mi vi gettai dentro a capofitto. - Sappiamo il resto, - disse il maharatto. - Tu adunque sei cacciatore. - Sì, e valente. - Vuoi venire con noi? - Un lampo strano brillò negli occhi del bengalese. - Non domando di meglio, - s'affrettò a dire. - Sono solo al mondo. - Sta bene, noi ti adottiamo. Domani mattina ti presenterò al padrone. I due indiani rituffarono i remi nel fiume e ricondussero il canotto nel piccolo seno. Appena sbarcarono, Punthy si slanciò contro il bengalese, abbaiando rabbiosamente e mostrandogli i denti. - Zitto, Punthy, - disse Kammamuri, trattenendolo.- È uno dei nostri. Il cane, anziché obbedire, si mise a ringhiare minacciosamente. - Questa bestia mi pare che non sia troppo cortese, - disse Manciadi, sforzandosi a sorridere. - Non aver paura, ti diventerà amico, - disse il maharatto. Legato il canotto, raggiunsero la capanna dinanzi alla quale vegliava la tigre. Cosa strana, anche questa si mise a brontolare in modo tutt'altro che amichevole, guardando di traverso il nuovo arrivato. - Oh! - esclamò egli spaventato. - Una tigre! - È addomesticata. Fermati qui che vado dal padrone. - Dal padrone! È qui forse? - chiese il bengalese attonito. - Sicuro. - Ancora vivo! ... - To'! - esclamò il maharatto sorpreso. - Perché tale domanda? Il bengalese trasalì e parve confuso. - Come sai tu che è ferito, per farmi tale domanda? - replicò Kammamuri. - Non m'hai detto tu che era stato ferito? - Io! ... - Mi sembra. - Non mi rammento. - Eppure non posso averlo udito dire che da te o dal tuo compagno. - Così deve essere. Kammamuri ed Aghur rientrarono nella capanna. Tremal-Naik dormiva profondamente e sognava, poiché delle parole tronche uscivano dalle sue labbra. - Non vale la pena di svegliarlo, - borbottò Kammamuri, volgendosi ad Aghur. - Lo presenteremo domani, disse quest'ultimo. - Cosa ti sembra di quel Manciadi? - Ha l'aspetto d'un buon uomo e ho tutte le ragioni per credere che ci aiuterà validamente. - Lo credo anch'io. - Lo faremo vegliare lui fino a domani. Aghur prese una terrina di cangi, densa decozione di riso, e la recò a Manciadi il quale si mise a mangiare con una voracità da lupo. Raccomandatogli di fare buona guardia e di dare l'allerta se scorgesse qualche pericolo, s'affrettò a rientrare, chiudendo, per precauzione, la porta. Era appena scomparso che Manciadi s'alzò con una sveltezza sorprendente. I suoi occhi s'erano d'un subito accesi e sulle sue labbra errava un satanico sorriso. - Ah! Ah! - esclamò egli, sogghignando. S'accostò alla capanna e vi appoggiò l'orecchio, ascoltando con profondo raccoglimento. Stette così un lungo quarto d'ora, poi partì colla rapidità di una freccia arrestandosi mezzo miglio più lontano. Accostò le dita alle labbra ed emise un acuto fischio. Tosto al sud un punto rossastro si alzò fendendo le tenebre e scoppiò spandendo una luce vivida che subito si spense con una sorda detonazione. Altre due volte il fischio risuonò, poi nella jungla tutto tornò silenzio e mistero.

IL GIORNALINO DI GIANBURRASCA

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Bertelli, Luigi - Vamba 1 occorrenze
  • 1912
  • MARZOCCO Sessantunesima edizione
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Ma sapendo quanto sia difficile di far entrar la ragione in quelle zucche, per non compromettermi ho sciolto alla svelta tutte le bestie feroci e, montato sul ciuco, gli ho dato un par di legnate, e via a precipizio su per la strada maestra, con Bianchino dietro, che abbaiava a più non posso. Dopo aver girato un pezzo, finalmente sono arrivato alla villa. La zia Bettina è corsa sulla porta, e vedendomi sul ciuco ha esclamato: - Ah, che hai fatto!... - Poi, vedendo Bianchino tutto tinto di rosso, ha dato un balzo indietro impaurita, come se fosse stato un leone davvero; ma l'ha riconosciuto subito e allora gli si è buttata addosso, tremando come una foglia e gemendo: - Uh, Bianchino mio, Bianchino caro! Come ti hanno ridotto, povero amor mio?... Ah! È stato di certo questo manigoldo!... - E si è rialzata tutta inviperita. Ma io ho fatto più presto di lei, e buttatomi giù dal ciuco, son corso in questa stanza e mi ci son chiuso. - Starai lì in prigione finché non viene a ripigliarti tuo padre! - ha detto la zia Bettina: e ha chiuso la porta di fuori, a chiave. Dopo poco ho sentito la contadina che è venuta a far rapporto di tutto quel che ho fatto sull'aia, s'intende esagerando ogni cosa. Ha detto che il maiale sputa sangue, che Pietrino è in uno stato da far pietà, ecc. Basti dire che mi si tiene responsabile anche di quel che non è successo, e infatti è la decima volta che quell'uggiosa ripete: - Ma ci pensa, lei, sora padrona, se il mi' Pierino cascava giù dall'albero?... - Lasciamola dire, bisogna compatire le persone ignoranti, perché loro non ci hanno colpa. Tra pochi minuti arriverà il babbo e speriamo che egli saprà distinguere quel che è la verità...