Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbaiare

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I ragazzi della via Pal

208088
Molnar, Ferencz 1 occorrenze
  • 1929
  • Edizioni Sapientia
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Poi continuò a correre e ad abbaiare furiosamente. II biondo Nemeciech lo seguì di corsa. Ettore si fermò sotto una catasta abbaiando con furore. La catasta era una di quelle sulle quali era costruita una fortezza. Sulla cima del cubo c'era un bastione di legna in pezzi e sopra un'asticciuola sventolava uno stendardino rosso e verde. II cane saltellò intorno alla fortezza e continuava ad abbaiare. — Cosa c'è? — chiese il biondino al cane, perchè bisogna sapere che il biondino era molto amico del cane nero, forse perchè, all'infuori di lui, Ettore era l'unico soldato semplice dell'esercito. Nemeciech guardò su verso la fortezza. Non vide nulla, ma sentì che qualcosa si muoveva tra il legname. Si mise allora ad arrampicarsi aiutandosi con le sporgenze delle travi. Si trovava a metà percorso quando sentì distintamente che qualcuno frugava tra la legna spaccata. Il suo cuore si mise a battere forte. Avrebbe forse voluto tornare indietro ma quando, guardando giù, vide Ettore si fece coraggio. — Nemeciech, non aver paura, disse a sè stesso. E continuò ad arrampicarsi con cautela. Ad ogni gradino prendeva coraggio e ripeteva: — Nemeciech, non aver paura! Nemeciech, non aver paura! E giunse in cima alla catasta. Lì si disse un ultimo: «Non aver paura, Nemeciech!», ma quando volle scavalcare il muro basso del bastione, la sua gamba che già si era alzata rimase sospesa per lo spavento. — Gesù! E precipitosamente si lasciò cadere lungo le sporgenze fino a terra. II suo cuore batteva a galoppo. Guardò in su, verso la fortezza: accanto alla bandiera, col piede destro posato sul bastione della fortezza, stava ritto Franco Ats, il terribile Franco Ats, il nemico di tutti loro, il capo dei ragazzi dell'Orto Botanico. II vento agitava la sua larga camicia rossa. Sorrideva beffardo. E si rivolse al ragazzino per dirgli con tranquillità: - Nemeciech, non aver paura! Ma Nemeciech aveva invece tanta paura che gia s'era messo a correre. E il cane nero gli correva dietro; e s'infilarono insieme tra cubi di legname, dirigendosi verso il campo; ma sulle ali del vento li raggiunse il grido beffardo di Franco Ats: - Nemeciech, non aver paura! Quando, dal campo, Nemeciech si volse, in cima alla fortezza non v'era più la camicia rossa di Franco Ats. Ma anche la bandiera era scomparsa dal bastione, la bandiera rosso e verde che era stata cucita dalla sorella di Ciele. Il nemico era scomparso tra le cataste di legna. Uscito forse dalla parte di via Maria, verso la segheria, o fors'anche appiattato in qualche angolo con i suoi amici, i fratelli Pastor. E all'idea che anche i Pastor potessero essere presenti, un brivido freddo percorse la schiena di Nemeciech. Egli sapeva cosa significasse incontrare i Pastor. Ma Franco Ats l'aveva visto da vicino, ora per la prima volta. S'era spaventato molto, ma a dir la verità il giovane gli piaceva. Era un bel ragazzo bruno, largo di spalle e la camicia rossa gli stava a meraviglia. C'era qualcosa di garibaldino in quella camicia rossa. I ragazzi dell'Orto Botanico indossavano tutti la camicia rossa per imitare Franco Ats. Sullo steccato del campo si bussò con quattro colpi regolari. Nemeciech trasse un sospiro di liberazione: i quattro colpi erano il segnuale convenuto dei ragazzi della via Pal. Corse alla porticina sprangata e l'aprì. Entrarono Boka, Ciele e Ghereb. Nemeciech moriva dalla voglia di raccontar loro la tremenda notizia, ma non dimenticò di essere un soldato semplice e di fare il suo dovere verso i tenenti e i capitani. S'irrigidì sull'attenti e salutò militarmente. — Salve! — dissero i nuovi venuti. — Che c'è di nuovo? Nemeciech sospirò affannosamente ed avrebbe voluto raccontar tutto d'un fiato. — Terribile! — disse. — Cosa? — Orrendo! — Parla! — Non vorrete credermi! — Che cos'è accaduto? — C'è stato qui Franco Ats! Ora toccò agli altri d'essere ansiosi e atterriti. — Non è vero! — esclamò Ghereb. Nemeciech pose la mano sul petto e disse: — Vero quant'è vero Iddio! — Non giurare! — intimò Boka, e, per dare maggiore efficacia alle sue parole: — Attenti!!! — ordinò. Nemeciech battè i tacchi uno contro l'altro. — Racconta minutamente quello che hai veduto! — Stavo passeggiando tra le viuzze quando il cane si mise ad abbaiare. Lo seguo. E nella cittadella centrale sento dei rumori. Mi arrampico e in cima v'era Franco Ats in camicia rossa. — In cima? Sulla cittadella? — In cima, sì! — disse il biondino e stava di nuovo per giurare. Aveva già la mano sul petto, ma la ritrasse davanti allo sguardo severo di Boka. Aggiunse: — Ha anche portato via la bandiera! Ciele sussulto: — La bandiera? — Sì. Corsero tutti verso il luogo della sciagura. Nemeciech modestamente veniva ultimo, in parte perchè era soldato semplice, in parte perchè non era ben sicuro che in qualche angolo non fosse nascosto Franco Ats. Si fermarono davanti alla fortezza: nemmeno l'asta c'era più. Tutti erano molto agitati: il solo Boka conservava il suo sangue freddo. — Dì a tua sorella — ordinò rivolto a Ciele — che per domani prepari un'altra bandiera. — Sta bene; — rispose Ciele — ma non ha più stoffa verde. Rossa ne ha ancora, ma verde è finita. Boka rispose imperturbabile: — Stoffa bianca, ne ha? — Ne ha. — Faccia allora una bandiera rossa e bianca. D'ora in poi i nostri colori saranno rosso e bianco. Si rassegnarono a questa modifica. Ghereb chiamò Nemeciech: — Fante! — Presente! — Per domani siano corretti i nostri statuti. I nostri colori non sono più rosso e verde, ma sono bianco e rosso. — Sta bene, signor tenente! E Ghereb accordò benignamente al biondino irrigidito: — Ri..poso!!! — E il biondino allora riposò. I ragazzi s'arrampicarono sulla fortezza e constatarono che l'asta della bandiera era stata spaccata da Franco Ats: non rimaneva più che il pezzettino che l'inchiodava. Dal campo giunsero richiami: — Ahò, oò! Ahò, oò! Questa era la parola d'ordine: anche gli altri erano dunque arrivati e stavano cercando di loro. Da molte parti s'intese il richiamo: — Ahò, oò! Ahò, oò! Ciele fece un cenno a Nemeciech: — Fante! — Presente! — Rispondete agli altri! — Sì, signor tenente! E facendosi portavoce con le mani davanti alla bocca per ingrossare la sua vocina di bimbo, gridò: — Ahò, oò! Dopo di che scesero strisciando e s'avviarono verso lo spiazzo. Nel mezzo del prato c'erano gli altri aggruppati: Cionacos, Vais, Colnai ed alcuni altri. Quando s'accorsero di Boka tutti si misero sull'attenti perchè Boka era il capitano. — Salute a tutti — disse Boka. Colnai si fece avanti. — Porto a conoscenza del signor capitano — disse — che quando siamo entrati, la porticina non era chiusa. Secondo il regolamento la porticina deve essere sprangata dall'interno. Boka si volse severo verso il suo seguito. E tutti gli occhi fissarono Nemeciech. E Nemeciech aveva già la mano ancora sul petto e voleva proprio giurare che non era stato lui a lasciarla aperta, quando il capitano domandò: — Chi è entrato per ultimo? Si fece un gran silenzio. Nessuno era entrato per ultimo. E allora il viso di Nemeciech si rasserenò. Una voce disse: — Per ultimo è entrato il signor capitano. — Io? — chiese Boka. — Signorsì! Boka riflettè un poco. — Hai ragione — disse serio — Ho dimenticato di chiudere la porticina. Signor tenente, scrivete il mio nome sul libro delle punizioni! Si era volto a Ghereb e Ghereb tolse di tasca un taccuino nero sul quale scrisse: «Giovanni Boka» e per sapere di cosa si trattava aggiunse: «porticina». Questo piacque ai ragazzi. Boka era un giovane giusto. Questa autocondanna era un esempio di virilità quale non si trova nemmeno nella lezione di latino, benchè la lezione di latino sia sempre piena di caratteri romani. Ma Boka era anche un uomo e neanche Boka era esente dalle debolezze umane. Aveva fatto segnare il suo nome, è vero, ma poi s'era rivolto a Colnai che aveva denunziato la porticina aperta e disse: — E tu non ciarlare troppo! Signor tenente, iscrivete Colnai sul libro delle punizioni per essere stato delatore! Il signor tenente tornò a cavar di tasca il terribile taccuino e scrisse il nome di Colnai. Nemeciech che era in fondo balò in segreto di gioia per non essere questa volta iscritto sul libro delle punizioni, perchè bisogna sapere che in quel libro non c'era altro nome che quello di Nemeciech. Tutti sempre e per qualunque motivo iscrivevano il suo nome. E il tribunale militare che teneva udienza ogni sabato condannava sempre lui. Non poteva essere che così, essendo egli l'unico soldato semplice dell'esercito. A questo punto s'iniziò la grande discussione. In pochi minuti tutti furono al corrente della grande novità, che Franco Ats, capitano delle camicie rosse, aveva avuto l'audacia di spingersi fin nel cuore del campo nemico, di arrampicarsi sulla cittadella centrale e di portar via la bandiera. L'indignazione era generale. Tutti stavano intorno a Nemeciech che ripeteva sempre nuovi particolari. — E ti ha detto qualche cosa? — Certamente! — affermò Nemeciech. — Che cosa? — Mi ha gridato... — Che cosa? — Mi ha gridato: «Non hai paura, Ne- meciech?» E qui il biondino inghiottì saliva, perchè sentiva che non era precisamente la verità. Anzi era proprio il contrario della verità. Sarebbe stato come se egli si fosse dimostrato molto coraggioso tanto che Franco Ats, meravigliato, gli avrebbe domandato: «Come mai non hai paura, Nemeciech»? — E tu non avevi paura? — Io no! Mi sono fermato ai piedi della fortezza; e lui si lasciò cadere dall'altro lato e sparì. Se la svignò. Ghereb l'interruppe gridando: — Questo non è vero! Franco Ats non se la svigna davanti a nessuno, mai! Boka fissò Ghereb: — Ma guarda come lo difendi! — Ho parlato — disse con maggior pacatezza Ghereb — ho parlato perchè non mi sembra verosimile che Franco Ats si sia spaventato di Nemeciech. A queste parole risero tutti perchè in verità non era verosimile. Nemeciech rimaneva sconcertato in mezzo al gruppo e scrollava le spalle. Allora Boka prese il comando delle operazioni: — Ragazzi, qui bisogna fare qualche cosa. Era, stato fissato che oggi avrernmo eletto un presidente. Eleggiamo il presidente e che sia un presidente con pieni poteri: bisognerà seguire ciecamente i suoi ordini. Può darsi che dall'incidente di oggi scoppi una guerra ed allora occorre qualcuno che prepari le cose come in una vera guerra. Soldato, fatevi avanti! Attenti!!! Preparate tanti pezzettini di carta quanti siamo noi; ciascuno scriverà sul pezzettino che gli sarà dato il nome di colui ch'egli desidera sia presidente. Le schede verranno buttate in un berretto e chi avrà riportato maggior numero di voti sarà il presidente! — Evviva! — gridarono tutti ad una voce e Cionacos emise un fischio di allegria, un fischio che pareva quello di una locomotiva. Dai vari taccuini furono strappate delle pagine e Vais mise a disposizione la sua matita; ma poi nacque una discussione per sapere quale berretto avrebbe avuto l'onore di servire da urna. Colnai e Barabas che trovavano sempre di che litigare stavano già in procinto di prendersi a pugni. Colnai sosteneva che il berretto di Barabas non poteva servire perchè troppo unto. D'altra parte Chende affermava che il berretto di Colnai era ancora più unto. Vollero far subito la prova del grado di untume: con un temperino si misero a grattare la striscia di pelle nell'interno del berretto, ma arrivarono in ritardo. Ciele aveva già offerto alla comunità il suo elegante berrettino nero, ed in materia di berretti, inutile discutere, nessuno poteva superare Ciele. Ma Nemeciech, con grande sorpresa di tutti, invece di distribuire i foglietti, approfittò dell'attenzione che per un istante s'era rivolta a lui, e stringendo i foglietti nella manina sporca, si fece avanti. Dritto sull'attenti, coi tacchi accostati, disse con voce tremante: — Perdoni, signor capitano! Veramente non è giusto che io sia il solo soldato semplice... Da quando s'è fondata la società tutti sono divenuti ufficiali e io soltanto sono rimasto senza grado e tutti mi comandano e io devo fare tutto e io... Qui il biondino si commosse molto e sul suo visino sottile colarono grosse lagrime. Con una piccola smorfia di disgusto Ciele osservò: — Bisogna esciuderlo! Piange! Una voce dal fondo esclamò: — Singhiozza! Tutti si misero a ridere. E questo esasperò definitivamente Nemeciech. II cuore del poverino era troppo addolorato e le lagrime ora si misero a scorrere liberamente. Singhiozzava e in mezzo al suo gran pianto diceva: — Anche nel... libro delle punizioni... anche lì non ci sono scritto che io... Sempre iI mio nome... Io sono... il cane... Boka disse calmo: — Se non smetti subito di strillare sarai espulso. Noi non possiamo giocare con i mocciosi... La parola «moccioso» fece il suo effetto. Nemeciech, il povero piccolo Nemeciech si spaventò molto e pian piano smise di piangere. II capitano gli mise la mano sulla spalla: — Se vi comportate bene e vi distinguete, nel maggio potrete diventare anche voi ufficiale. Per ora rimarrete soldato semplice. Tutti approvarono, perchè se anche Nemeciech fosse divenuto ufficiale, allora tutt'il giuoco avrebbe perduto di sapore. Non ci sarebbe stato più nessuno a cui comandare. La voce acuta di Ghereb intimò: Fante, temperate questa matita! Gli venue consegnata la matita di Veis che, nella tasca, per la vicinanza delle biglie aveva rotta la punta. Il soldato semplice prese in consegna la matita, rimanendo sull'attenti; poi con gli occhi ancora lagrimosi, col viso umido, obbediente, incominciò a temperare ansando un poco, come si fa dopo un gran pianto, e tutto il suo dolore, tutta la sua amarezza si concentravano nel temperare la matita Faber numero 2. — E'... temperata, signor tenente! La restituì e trasse un profondo sospiro. E con questa sospiro rinunciò per il momento alla promozione. I foglietti furono distribuiti. Ognuno si ritirò in disparte, perchè l'affare era di somma importanza. Poi il soldato semplice raccolse i foglietti che mise tutti nel berretto di Ciele. Ma quando il berretto di Ciele fu portato in giro per la raccolta delle schede, Barabas diede un colpo di gomito a Colnai mormorando: — E' unto anche quello! Colnai guardò nel berretto; e tutt'e due sentirono che non avevano più da vergognarsi. Se anche il berretta di Ciele era unto, allora voleva dire veramente che il mondo era sottosopra. Raccolti i foglietti, Boka cominciò lo spoglio e passava le schede lette a Ghereb che gli stava vicino. Lesse: Giovanni Boka, Giovanni Boka, Giovanni Boka. Poi una volta lesse: Desiderio Ghereb. I ragazzi si scambiarono un'occhiata: sapevano che questa era la scheda di Boka il quale aveva votato per Ghereb per cortesia. Seguivano altri Giovanni Boka, poi da capo un Desiderio Ghereb, ed infine un ultimo Desiderio Ghereb. In totale Boka aveva ottenuto undici voti e Ghereb tre. Ghereb sorrise sconcertato; gli accadeva per la prima volta di esser posto apertamente di fronte a Boka. E i tre voti gli facevano piacere. A Boka invece due di quei tre voti contrari gli facevano dispiacere e riflettè per un attimo chi potessero mai essere i due che non lo volevano presidente, ma poi disse: — Dunque voi: mi avete eletto a vostro presidente. Grida di evviva e nuovo fischio di Cionacos. Gli occhi di Nemeciech erano ancora umidi ma anch'egli gridava «evviva» con entusiasmo perchè voleva un gran bene a Boka. Il presidente accennò a voler parlare. Si fece silenzio. — Amici, — disse — vi ringrazio. Cominciamo subito a lavorare. Credo che tutti siamo d'accordo nel ritenere che le camicie rosse vogliono usurparci il campo e le cataste di legna. E' di ieri la prepotenza dei Pastor che si presero le biglie dei ragazzi. E' di oggi l'intrusione di Franco Ats che portò via la nostra bandiera. Prima o poi le camicie rosse saranno qui per cacciarci. Ma noi difenderemo questa terra. Cionacos l'interruppe urlando: — Evviva il nostro campo! Si guardarono attorno; fissarono lo spiazzo libero e le cataste di legna illuminate dal dolce sole di un pomeriggio di primavera. Si vedeva nel loro sguardo l'amore che portavano alla loro terra e come avrebbero lottato, se fosse stato necessario, per essa. Era una specie di amor di patria. Gridavano: «Evviva il campo» come avrebbero gridato: «Evviva la patria!» E i loro occhi brillavano e il cuore di tutti traboccava di entusiasmo! Boka continuò: — Prima che essi vengano qui, andremo noi da loro, all'Orto Botanico! In un altro momento un progetto così audace avrebbe sconcertato i ragazzi. Ma in quell'ora di entusiasmo, tutti esclamarono ad una voce: — Ci andremo! E poiché tutti gridavano: «Ci andremo!», anche Nemeciech gridò: «Ci andremo!». In ogni modo egli sarebbe venuto per ultimo portando i cappotti dei signori ufficiali. In mezzo alle voci dei ragazzi c'era una voce rauca e profonda, che anch'essa aveva gridato: «Ci andremo!» Si volsero tutti. Era lo slovacco. Era lì, con la pipa tra i denti, e rideva. Ettore gli era vicino. I ragazzi risero. Lo slovacco anche: gettò il suo cappello per aria ed urlò: — Andiamo! Con questo le faccende ufficiali erano terminate. Si passava al gioco quotidiano: il tennis. Uno disse con dignità: — Fante, andate nel magazzeno e portateci le palle e le racchette . E Nemeciech corse al magazzino. Il magazzino era sotto una catasta di legname. Scivolò sotto e ricomparve con le palle e le racchette. Accanto alla catasta c'era lo slovacco ed accanto allo slovacco Chende e Colnai. 4 Chende aveva in mano il cappello dello slovacco: Colnai vi fece la prova dell'untume. Il cappello dello slovacco era senza dubbio il più unto di tutti. Boka si accostò a Ghereb: — Hai avuto tre voti anche tu! — gli disse. — Sì — rispose fiero Ghereb e lo fissò orgogliosamente negli occhi.

L'idioma gentile

208910
De Amicis, Edmondo 1 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Treves Editori
  • Milano
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Se nel dir la cosa più semplice, come, per esempio, che siamo andati a cercare un tale a casa, che abbiamo salito quattro branche di scale, e dopo aver picchiato all'uscio, sentito abbaiare un cagnolino, e una voce domandar: - chi è? - mentre scorreva il paletto - se dubitiamo un momento fra branche e rami, fra picchiato e battuto, fra uscio e porta, sentito e udito, abbaiare e latrare, domandare e chiedere, paletto e chiavistello, è facile che facciamo un brutto garbuglio d'un periodo che dovrebbe correr liscio come l'olio. Fissati dunque in mente le parole proprie che in tutti quei casi dubbi, frequentissimi, sono da usarsi, in modo che sian sempre le prime a venirti sulle labbra, e avrai fatto con questo un gran passo innanzi sulla via del parlar facile e corretto ad un tempo. Un altro consiglio. Ti accadrà spesso di sentir strapazzare la lingua italiana, e di ridere dentro di te delle parole sbagliate, delle frasi barbare e dei costrutti sgrammaticati del cattivo parlatore. È bene che in questi casi tu t'eserciti alla critica; ma se vuoi che ti giovi, non dev' essere puramente negativa: non basta che tu noti gli errori, bisogna che tu cerchi e fissi nel tuo pensiero le parole, le frasi, i costrutti corretti corrispondenti a quelli erronei, che hai osservati; perché, bada bene, noi burliamo assai spesso gli altri di errori che sfuggono usualmente a noi pure, e la prima cagione del nostro persistere nel parlar male è appunto la consuetudine del criticare senza correggere; per la qual cosa non ricaviamo nessun frutto degli errori altrui, che dovrebbero farci aprir gli occhi sui nostri. Ancora un'avvertenza. Il parlar bene richiede un esercizio vivo e rapido delle facoltà intellettuali. Vedi che l'uomo acceso da una passione, appunto perché ha le facoltà eccitate, parla quasi sempre meglio che ad animo riposato e a mente tranquilla. Conviene perciò, quando hai qualche cosa da dire che ti prema di dir bene, quando hai da fare un racconto, per esempio, o una descrizione o un ragionamento anche breve,che tu ti ci metta di buona voglia e con vivo impegno. Come per fare uno sforzo fisico dài prima quasi una scossa alla volontà e tendi i muscoli e i nervi, così, nell'atto di parlare, tu devi cacciar l'indolenza e dar alla mente un abbrivo risoluto. Ma non ti mettere alla corsa; va' adagio per ora; avvèzzati a parlare pensando, a frenarti. A correre senza inciampare imparerai a poco a poco; devi prima esercitarti a camminar bene. E bada sempre, nel parlare, al viso di chi t'ascolta, che è un critico muto utilissimo, perché d'ogni parola stonata, d'ogni oscurità, d'ogni lungaggine ci vedi il riflesso, sia pure in barlume, in un'espressione di stupore, o canzonatoria, o interrogativa, o annoiata, o impaziente; anche se gli ascoltatori sian gente che, facendo lo stesso discorso, cadrebbe negli stessi errori tuoi, o assai peggio; poiché la facoltà critica è in tutti di gran lunga più acuta e più attiva quando s'esercita sugli altri che quando lavora sul suo. In questo studio del parlare potrai avvantaggiarti molto e presto se in casa tua c' è la buona consuetudine di parlare italiano. Se non c'è, tu devi fare il possibile, rispettosamente, per farcela entrare. Ma.... Quello che dovrei dirti dopo questo ma lo troverai nella lettera seguente; della quale ho ritrovato la minuta sotto un monte di vecchi manoscritti.

Pagina 39

Il libro della terza classe elementare

210066
Deledda, Grazia 3 occorrenze
  • 1930
  • La Libreria dello Stato
  • Roma
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Quando i nostri amici entrarono nello stazzo, un grosso cane bianco cominciò ad abbaiare: veramente sembrava che ruggisse tanto era potente la sua voce: i ragazzi, a dir la verità, rallentarono il passo. Ma allorchè si accorsero che il mastino era legato si fecero più coraggiosi. Venne incontro un giovane e bel pastore, che conosceva il signor Goffredo per avergli fornito molte volte formaggio fresco e profumato. - Martino, c'è tuo padre? - Salute, signori: mio padre arriverà fra poco con la seconda greggia. Vengano, vengano avanti. Nella sua semplicità il pastore appariva molto gentile: di una gentilezza schietta che vale molto più di quella raffinata che si usa in certi salotti. Non era davvero un salotto lo stanzone del casolare, dove Martino ricevette con un grande sentimento di ospitalità la nostra comitiva: invece che profumi vi era un odore forte di uomini, invece che mobili d'oro, v'erano quattro lettucci bassi di tavole, una madia e panche. - Vi posso offrire un po' di latte fresco? - disse Martino e portò buone ciotole di latte appena munto che i ragazzi bevvero ingordamente. Perchè questo latte si chiama fresco, mentre invece è ancora caldo? - domandò Cherubino. La domanda era veramente imbarazzante, giacchè il latte era davvero tiepido e odoroso. Come odorose furono le grandi fette di pane casareccio che il pastore offrì lieto come se offrisse un'ostia. Intanto il gregge era stato inoltrato nell'ovile e i mandriani, nell'attessa dell'altro gregge, guidato dal padre di Martino, del quale già si udiva di lontano lo scampanìo del montone di guida, si erano fatti allo stanzone e guardavano. Erano forti uomini, non molto alti, dagli occhi neri sotto certi cappellucci, che avevano conosciuto mille soli e mille pioggie e con le gambe difese da pelli di capra. I ragazzi, dopo aver mangiato e bevuto - ci dispiace notarlo, ma per i nostri eroi mangiare e bere erano occupazioni di prim'ordine - girarono chi qua chi là per il casolare e l'ovile. Tutto era semplice, quasi rudimentale, dagli attrezzi agli utensili: il che significava che i pastori supplivano con la loro pazienza, la loro tenacia, ad ogni macchina moderna. Il signor Goffredo disse a Martino: - Eppure ci sono tanti attrezzi meccanici che vi risparmierebbero fatica e tempo. - Lo so - rispose Martino - ma costano molti soldi. E poi questi della mia famiglia - aggiunse sorridendo con furberia - sono molto antichi e non capiscono le novità, perchè dicono che sono figlie del demonio. - Male, malissimo: quelle novità sono invece figlie del buon ingegno dell'uomo. E poi sapete bene che con la Carta del Lavoro voi potete avere molte facilitazioni per quegli arnesi: naturalmente dovete dar segno, per avere tali aiuti dallo Stato, di essere buoni italiani, il che vuol dire oltre che patrioti e uomini buoni. - Lo so. Noi siamo uomini buoni.

Pagina 122

Con uno scampanìo, un abbaiare, un susseguirsi di fischi arrivò il secondo gregge, guidato da Paolo Francesco, padre di Martino. Il gregge, contenuto compatto dai cani e da quattro mandriani, sembrava un tratto di mare burrascoso che si avanzasse. Cominciò la mungitura e i ragazzi guardarono contenti di assistere a quello spettacolo così primitivo, ma nello stesso tempo eterno. Anche Cherubino, che si era arrampicato sull'unico salice che s'ondulava nella grande pianura, scese, si scorticò le mani, ma volle vedere. Infatti era bello vedere. Era una visione antica, con lo sfondo rosato del tramonto. Le pecore, nell'atto in cui venivano munte, avevano gli occhi dolci: i caproni si cozzavano fra loro con certe cornate potenti e rimbombanti, alle quali (questa è una malignità di Anselmuccio) nemmeno la durissima testa di Cherubino avrebbe potuto resistere.

Pagina 124

Pagina 36

Tutti per una

214911
Lavatelli, Anna 3 occorrenze
  • 1997
  • Piemme Junior
  • Casale Monferrato (AL)
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Aveva sentito abbaiare un cane, al di là del muro di cinta, e gli era parsa proprio la voce del suo Argo. Andò fino ai cancelli e sbirciò fuori, nella speranza di vederselo apparire davanti. Quanto gli avrebbe fatto bene, adesso, starsene un po' con lui, godere del suo smisurato affetto canino! Non ci sono che i cani - a volte - che sanno amarti così come sei, anche se non sei proprio niente di speciale. Solo perché sei tu.

Gli era parso di sentire il suo Argo abbaiare disperatamente lungo i muri di recinzione della villa, e ognuno di quei latrati lamentosi gli doleva dentro con uno spasimo da pugnalata. Doveva essere solo uno scherzo dell'immaginazione - si ripeteva - perché il suo cane adesso se ne stava al riparo dai colpi di sventura, nella casa del giornalaio, magari davanti ad una buona scodella di zuppa calda. Ma questo pensiero, che gli occhi della mente vedevano come un film, non bastava a placare il suo animo sconvolto e abbattuto dal rapido succedersi di troppe emozioni. Andò dritto al letto che gli era stato assegnato, ripiegandosi su di sé come una lumaca nel suo guscio. - A nome di tutti noi... - continuò il maresciallo Fizzotti, ciondolandogli dietro - vorrei darti il benvenuto a Villa Felice. - "Villa Infelice" - scappò detto al professore, in un moto di fastidio. Poi scrollò le spalle e cominciò a disfare metodicamente la valigia. - Ah, ah... "Villa Infelice"! Questa è buona, buona davvero - fece il maresciallo rivolgendosi agli altri due che erano in camera. - Ha dello spirito, il nostro professore! - Macché, macché! - s'irritò l'omone grasso e grosso, che stava proprio nel letto a fianco, appoggiato a una montagna di cuscini. - Questo signore ha detto la verità, ecco tutto. È inutile che cerchi di farci ridere, Carlo. Qui non c'è proprio niente da ridere. - L'Ernesto ha ragione - borbottò dal fondo un vecchio calvo, tentennando debolmente il capo. - Ci sono delle cose con le quali è meglio non scherzare. Lo diceva sempre il mio collega, quando in ospedale ci proponevano di fare le gare di velocità con le autoambulanze. - Tacque un momento impensierito, rimirando le monete che aveva sparpagliate sul letto. Poi biascicò, con voce desolata: - Ecco, ho di nuovo perso il conto. - E il cervello... - ridacchiò il maresciallo tra sé. Poi, a voce più alta: - E bravo, Attilio. Conta, conta, che ti passa. Il vecchio sembrò non aver udito la provocazione, o forse tutto faceva parte di un gioco tra i due. Difatti riprese a gingillarsi con le sue monete. Le rimise tutte dentro un sacchetto di cuoio e cominciò ad estrarle, contandole a una a una, assorto e concentrato nel suo lavoro. Un silenzio profondo calò nella camera. Anche fuori, il cane non guaiva più. Si udiva solo il gemito lieve degli scaffali dove il professore andava sistemando in bell'ordine decine e decine di volumi. - Ehi, ma quanti libri! - Il maresciallo Fizzotti voleva fare conversazione a tutti i costi. - Certo che devi proprio essere un pozzo di scienza, tu. Io invece son sempre stato una zucca dura - si batté la testa col pugno chiuso, ridacchiando. - A proposito, la sai l'ultima sui carabinieri? - E piantala! Non vedi che gli dài fastidio? È il suo primo giorno qui dentro, lascialo in pace. Anzi, lasciaci in pace tutti, una buona volta! - gridò rosso in viso l'omone di prima. - Scusa, Ernesto - sussultò il maresciallo, afflosciandosi. - Non parlo più. Il professor Zambelli girò la testa verso l'omone, forse per ringraziarlo, forse per dirgli di lasciar correre, ma questi aveva chiuso gli occhi e sembrava riposarsi, appoggiato alla pila di cuscini. Allora afferrò la valigia ormai vuota, la mise sotto il letto, prese un libro e si dispose a leggere. Proprio in quel momento la porta si aprì ed entrò un vecchio sporco e malvestito, che sapeva di funghi e di muschio come una creatura dei boschi. - 'Sera Melchiorre! - salutò dal fondo l'Attilio, che aveva finito il conto delle monete. L'uomo rispose alzando una mano grande, piena di pieghe e di segni come la mappa di un tesoro, ma non fece parola. Se ne andò dritto dritto al letto, vi saltò dentro, si tirò il cappello sugli occhi e non si mosse più. Pareva che si fosse addormentato sul colpo. Il professore l'aveva seguito con lo sguardo, tra il sorpreso e l'irritato, per la scia di cattivo odore che l'uomo aveva lasciato dietro di sé e che ancora aleggiava nell'aria. «Ma dove sono finito» si disperò. «Che cosa ci faccio io, qui?» Di colpo, la vita gli apparve vuota di significato. Vitali, invece, le cose a cui aveva rinunciato per sempre: la sua casa, il suo cane. In altri tempi, quando il vigore degli anni e gli affetti della famiglia lo riempivano di certezze, avrebbe sorriso all'idea di potersi legare tanto a un animale. Quelle erano smanie da gente insulsa, ecco cosa avrebbe pensato allora. Ma adesso aveva soltanto voglia di piangere. «Senectus semper molesta...»ricordò amaramente il professore. «I latini avevano ragione: non v'è nulla di buono, nel diventar vecchi.» Chiuse il libro che aveva in mano, chiuse gli occhi e cercò di chiudere anche il cervello per non pensarci più.

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Continuava ad abbaiare, poveretto. Sembrava disperato. - È il mio Argo! - esclamò il professore, senza sapere se gioire o preoccuparsi. Domande senza risposta si affollavano trepide nella sua mente. Perché Argo non era rimasto con il giornalaio cui l'aveva affidato? Era fuggito per venire a cercarlo? Qualcuno l'aveva trattato male? O era stato addirittura cacciato via, abbandonato per strada? - Ah, è tuo - fece Melchiorre, dopo un lungo silenzio. - Argo... è il nome di un cane fedele. - Tornerà? - disse il professore. Ma non era propriamente una domanda. Era un pensiero detto ad alta voce. - Tornerà. Gli animali mi conoscono bene, professore, e io conosco bene loro. Il tuo cane aveva lo sguardo di quelli che tornano. Il professore guardò davanti a sé, oltre il muro di cinta del parco, e fece un sospiro profondo. - Pensi che sono un po' matto? Pensalo pure, non m'importa. A Villa Felice è un vantaggio: i matti hanno molta più libertà.

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le straordinarie avventure di Caterina

215763
Elsa Morante 1 occorrenze
  • 2007
  • Einaudi
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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. — E smettila di abbaiare! — continuò Massimo. — È il mio stomaco che abbaia, io non ne ho colpa, — rispose il povero Piuma. Per consolarsi, tutti e due ripensarono al pranzo che avevano fatto due giorni prima. Avevano mangiato spaghetti e prosciutto, e insalata! Poi si fermarono vicino al mulino a vento, che stava alla fine del ponte. Passarono quattro oche grasse, un frate col suo sacco e tutti annusavano l'aria che odorava di pane fresco, di brodo e di prezzemolo. A questo punto Massimo disperato fece: — Aaaaah! — e Piuma: Uuuuuh! — e di nuovo stettero zitti, finché Piuma tirò a Massimo la manica della giacca. — Ehi, vuoi star fermo? — borbottò Massimo. — Non vedi che sto pensando? Il buon Piuma aspettò che l'amico finisse di pensare, con la faccia piena di speranza. E infatti, dopo tre minuti, Massimo gli strappò il berretto con entusiasmo e strillò: — Pensato! Pensato! Saremo ricchi, oggi! Saremo milionari. Ehi, Pic! Un ornino che passava di là si avvicinò. Era vestito da « gangster », col ciuffo e un tatuaggio sul naso. Era tanto piccolo, che arrivava appena al gomito di Piuma, ma il suo aspetto era spaventoso: — Che cosa desideri? — domandò. — Ti va di guadagnare otto soldi? — E perché no? — Allora mi dovrai fare da compare. — Bene. — Si tratta di questo. Io e il mio amico daremo uno spettacolo di pugilato, qui sulla piazza. Si radunerà una gran folla, e tutti saranno sicuri che vinco io, che sono un peso massimo. E invece vincerà Piuma. Tu devi strillare: — Forza, Piuma! — e devi cercare di scommettere cento lire con qualche ricco signore presente. Poi tu mi darai le cento lire, e io ti darò gli otto soldi. — Eh, che razza di spilorcio senza coscienza! Otto soldi a me? Non ti vergogni? — Dodici soldi! Nemmeno un centesimo di piú! E tu, Piuma, perché piangi? — Io non so fare il pugilato! — balbettò Piuma. — Eh, stupido! Non capisci che io mi lascerò buttar giú con un soffio? Non farai nessuna fatica! E sai che cosa significa questo per te? — No. — Significa la gloria! — La gloria? — Certo. Sarai campione, ragazzo mio, — e Massimo batté la spalla di Piuma, che faceva un sorriso felice. Poi chiamò Anchise, che passava sul ponte, per nominarlo arbitro: — Avrai sei soldi di paga, — gli disse. E incominciò a gridare. — Avanti, avanti, signori ! Grande partita di pugilato fra un peso massimo e un peso piuma! Non si paga niente! Non si paga niente! In pochi secondi, un'intera popolazione si era raccolta intorno a loro: bambini, oche, eccellenze e milionari. Fra gli altri, si fermò un signore che lasciava capire di essere un milionario, giacché portava l'abito a coda e il cilindro; e Pic gli corse vicino. Quel signore, insieme a tutti gli altri, guardava con aria di compassione il povero Piuma, come per dire: « Ecco uno che fra poco sarà una frittata ». Uno, due, tre! La partita cominciò. Il povero Piuma ballava senza capir niente, e finalmente, con aria modesta, si decise a buttar via qualche pugno. Ma tutti ridevano e gridavano: — Arrenditi, ornino. — Bene, grasso! — Bravo il grasso! — e facevano il tifo per Massimo. Il signore distinto e milionario diceva con tono di conoscitore: — Boh! Boh! Boh! Allora Pic cominciò a brontolare: — Sarà, ma quel piumino li dev'essere un furbo che si conserva il colpo per dopo. Secondo me vince lui. — Eh! Eh! — rise il milionario. — Si vede bene, ragazzo mio, che tu di pugilato non ne capisci niente! — Ah, sí? E io le dico che quell'omino vince! — Son disposto a scommettere cinquanta lire. — Anche cento. — Vada per cento. Proprio in quel minuto, si vide Piuma sferrare un sinistro, e Massimo traballò e cadde a terra. Anchise contò solennemente fino a dieci, ma l'infelice Massimo rimase fermo come un morto. Piuma era vincitore! Allora tutti gridarono: — Bene Piuma! Evviva Piuma! — Si vedevano tutto intorno sventolare i fazzoletti; Piuma fu sollevato in trionfo, e le ali del mulino cominciarono a girare in fretta. Piuma si accorse perfino che sulla fronte gli stava crescendo una stella. Era la gloria, amici! La Gloria! Intanto il milionario, a malincuore, prese cento lire dalla sua borsa d'oro e le porse a Pic. L'infelice Massimo non dava ancora segno di vita; Piuma provò a dargli un piccolo calcio, ma il suo buon amico non si mosse. Allora Piuma cominciò a pensare : « Che sia morto per davvero? Che sia morto d'appetito? » E si provò a fischiare sottovoce l'Inno dei sette vincitori, che era il loro fischio di famiglia. Niente. Il buon Piuma tremò dalla paura, e, chinandosi sul suo ottimo e unico amico, chiamò singhiozzando: — Massimo! Massimo! — Ehi, stupido! — rispose Massimo a bassa voce. — Non capisci che faccio per sembrare « K. O. » sul serio? — e aperse mezzo occhio. Proprio con quel mezzo occhio aperto vide una cosa terribile. Ascoltate! Vide il perfido Pic, il « gangster », che se ne scappava, e stava già dietro il mulino, con un foglio da cento in mano. Allora il disgraziato si alzò d'improvviso e, dando calci e pugni a tutti quanti, corse dietro a Pic, e Piuma gli correva dietro, e tutti gli altri, quantunque

C'era una volta...

218865
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1910
  • R. Bemporad e figli
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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— E sentendola abbaiare, tutte le pulci saltavano addosso a lei. La Regina non si stimò gastigata abbastanza, e insistette: — Testa-di-rospo, questa notte vengo a dormire con te. — Maestà, in un giaciglio! — Per una volta, potrò provare. - Si acconciò alla meglio, e finse di dormire. — In quel canile ci doveva essere un mistero; voleva scoprirlo. — Verso mezzanotte, sentì un romore come di un crollo di muro. Aprì gli occhi, e rimase abbagliata.

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