Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbaiare

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C'ERA UNA VOLTA ... :FIABE

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

E sentendola abbaiare, tutte le pulci saltavano addosso a lei. La Regina non si stimò castigata abbastanza e insistette: - Testa-di-rospo, questa notte vengo a dormire con te. - Maestà, in un giaciglio! - Per una volta, potrò provare. Si acconciò alla meglio, e finse di dormire. - In quel canile ci doveva essere un mistero; voleva scoprirlo. Verso mezzanotte, sentì un romore come di un crollo di muro. Aprì gli occhi, e rimase abbagliata. Avea davanti una fila di stanze, così ricche e così splendide, che quelle del palazzo reale, in confronto, sarebbero parse vere stalle; e Testa-di-rospo che dormiva, in fondo, sopra un letto lavorato d'oro e di pietre preziose, con cortinaggi di seta e lenzuola bianche più della spuma. E non aveva più quella schifosa Testa di rospo; ma era così bella, che, al paragone, la Gigliolina, bella e bianca come un giglio, sarebbe parsa proprio una megera. Accecata dal furore, la Regina pensò: - Ora entro, e mentre dorme, la strozzo colle mie mani. Ma il muro si richiuse a un tratto, e lei vi batté la faccia e si ammaccò il naso. Senza aspettare che facesse giorno, tornò su in camera. Sentiva nelle carni un brucìo, un gonfiore!... Stende una mano, e si scorge che, da capo a piedi, era piena di zecche. Si sveglia il Re: è pieno di zecche anche lui. Si svegliano i ministri, le dame di Corte, insomma tutte le persone del palazzo reale; son tutti, da capo a piedi, pieni di zecche; e, dal prurito e dal dolore, non possono reggere: - Accidempoli alla Regina, che volle dormire nel canile! Il Re corse di nuovo da Testa-di-rospo. - Figliuola mia, dàcci aiuto! - Mamma cagna, dategli aiuto! Mamma cagna, Bau, bau! No, no! Non ne vuol sapere. - Figliuola mia, dàcci aiuto! Che aiuto poteva dargli? Mamma cagna rispondeva sempre: - Bau, bau! No, no! Intanto tornava il Reuccio per sposare Testa-di-rospo. Tutti erano occupati a tagliar le zecche, colle forbici, perché strappare non si potevano; facevano più male. E più ne tagliavano e più ne rimaneva da tagliare: - Accidempoli alla Regina, che volle dormire nel canile! Allora il Re montò in furore. Afferrò la Regina pel collo, e disse: - Trista femmina, che cosa hai tu fatto, da attirarci addosso tanti guai? La Regina non ne poteva più e confessò ogni cosa: che avea detto come le Fate non potrebbero farne una pari; che avea comprato quella bambina a peso di oro; che avea fatto fare il vestito incantato per bruciare viva Testa-di-rospo. - Ora son proprio pentita, e domando perdono alla Fata! Disse appena così, che alla Reginotta cadde giù quella schifosa Testa di rospo, e la Gigliolina si trovò vestita come una figliuola di contadini, qual era. La Reginotta splendeva come il sole, sicché, per guardarla, bisognava mettersi una mano agli occhi. Le zecche erano sparite, e non se ne vedeva neppure il segno. Il Reuccio di Portogallo e la Reginotta si sposarono; e se ne stettero e se la godettero e a noialtri nulla dettero.

LE ULTIME FIABE

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Gli tolse di mano la cagnetta che cominciò ad abbaiare, a saltare dalla contentezza, a dimenare allegramente la coda; mentre la guardia balbettava: - Ordine di Sua Maestà! Dovevo obbedire! - Direte a Sua Maestà che avete eseguito il suo comando. E, per conferma, le porterete un fazzoletto intriso di sangue: "Maestà, è sangue della cagnetta". - Sarà fatto, Reuccio! E, appena pronunciate queste parole, la rigidezza del braccio sparì. Il Reuccio andò a trovare un vecchio contadino. - Mi conoscete? - Siete il nostro Reuccio; che Dio vi faccia felice! - Vi affido in custodia questa cagnetta. Tra un mese verrò a riprenderla. Pel vostro incomodo, ecco qua. E gli mise in mano un gruzzolo di monete di oro. Tornando al palazzo reale, il Reuccio pensava: - Quella cagnetta è vittima di qualche maleficio. Bisogna salvarla. Questo che è accaduto non è naturale. Davanti al portone trovò una bambina scalza, cenciosa, con un mazzolino di violette in mano. Piangeva perché il portinaio non aveva voluto farla entrare. Voleva presentare quel mazzolino alla Reginotta. - Ma qui non c'è la Reginotta! - C'è! C'è! - Qui c'è il Reuccio: eccolo. - Grazie disse il Reuccio, prendendo il mazzolino delle violette. - Lo darò io alla Reginotta. - E le regalò una moneta d'oro. - Voglio due soldi, non questa qui. E il Reuccio, per contentarla, dovette darle due soldi. Portò in camera sua le violette e le mise in un vasetto di argento coi gambi a bagno nell'acqua. Ogni mattina alla stessa ora, il Reuccio trovava al portone la bambina scalza e cenciosa, con un mazzolino di violette in mano. - Sono per la Reginotta. - Grazie! - e le regalava due soldi. Quei mazzolini profumavano straordinariamente le stanze del Reuccio, e si mantenevano freschi, come colti allora allora. Egli domandò alla bambina: - Chi ti ha detto di portare questi fiori alla Reginotta? Non lo sai che qui non c'è Reginotta? - C'è! C'è! - rispondeva la bambina. Neppure questo era naturale. Si decise anche lui di andare a consultare il Gran Mago. Aveva dimenticato di portargli dei regali. Il Gran Mago pareva addormentato. Il Reuccio espose il motivo del suo viaggio. - Da quest'orecchio non ci sento. - E si voltò dall'altra parte. Il Reuccio tornò ad esporre il motivo per cui era venuto. - Da quest'orecchio non ci sento. - E si voltò dall'altra parte. Il Reuccio capì. Si tolse dal dito un grosso diamante e lo infilò nel mignolo della mano destra del Gran Mago. - Scusate, Reuccio! Ero mezzo addormentato. Il Reuccio, tornando al palazzo reale, non poteva stare nei panni. Dunque non si era ingannato! Quella cagnetta zoppa era la sua Reginetta! Per togliere il maleficio buttatole addosso dalla moglie di re Corvo, occorrevano dieci stille del sangue di lui. La moglie di re Corvo voleva far sposare la Reginotta con suo figlio, il reuccio Corvino, nero come il carbone e che si nutriva di carogne. Per vendicarsi del rifiuto, la moglie di re Corvo, una potentissima Strega, aveva trasformato in cagnetta la bella figliola del Re di Portogallo, e più non se n'era saputo nova da parecchi anni. - È bella? - aveva domandato al Gran Mago il Reuccio. - Quanto il sole e la luna. - È buona? - Più del pane. Non domandate se è ricca, Reuccio? - Di questo non m'importa. Il Reuccio doveva sfidare re Corvo e tentare, almeno, di ferirlo per avere le dieci gocce di sangue occorrenti a disfare il maleficio. La sfida era pericolosa; ma il Reuccio l'affrontava con gran risolutezza. Da una settimana egli si esercitava al bersaglio con l'arco. Il Re e la Regina erano contenti di non sentirgli neppur nominare la cagnetta zoppa e di vederlo distratto in quel modo. Ma la mattina che il Reuccio, armato di tutto punto, con arco e frecce, si presentò ad annunziare che andava a combattere contro re Corvo, il Re e la Regina allibirono. - Non andate, Reuccio! re Corvo è potente! - Se non ritorno, vuol dire che son morto! Non gli poterono cavar altro di bocca. Quel giorno re Corvo aleggiava, quasi per minaccia, sopra la casa rustica del contadino che aveva in consegna la cagnetta. Crà! Crà! Crà! - La cagnetta, impaurita, si era rincantucciata vicino al focolare e abbaiava sommessamente. - Crà! Crà! Crà! - Re Corvo si librava su le ali e pareva inchiodato nell'aria, tanto stava fermo, molto in alto, sopra la casetta del vecchio contadino. Arriva il Reuccio, incocca l'arco e lascia scappare la prima freccia. - Crà! Crà! Crà! - Re Corvo non si mosse. La freccia era passata, senza ferirlo, tra le penne di un'ala. Il Reuccio tornò ad incoccare l'arco e, presa la mira, lasciò scappare il secondo colpo! Re Corvo non si mosse. - Crà! Crà! Crà! - Quasi dicesse: - Sei giovane! Mi fai compassione! - La freccia era passata, senza ferirlo, tra le penne della coda. Il Reuccio incoccò per la terza volta l'arco. E anche questa volta la freccia passò, inoffensiva, tra le penne dell'altra ala di re Corvo. Allora questi cominciò a gracchiare rabbiosamente e fare dei giri vorticosi; poi si slanciò contro il Reuccio, battendo il becco: - Crà! Crà! Crà! - aprendo e chiudendo gli artigli. Il Reuccio, imperterrito, fu più lesto di lui. Prese la mira, e la freccia andò a piantarsi, diritta, nel centro del cuore del re Corvo che cadde pesantemente a terra: - Crà! Crà! Crà! - Il sangue colava a stille dalla ferita da cui il Reuccio aveva strappato la freccia. Egli lo raccolse in una boccettina di oro. Senza pensare di finire re Corvo, che agitava convulsamente le ali e le zampe, corse a prendere in braccio la cagnetta, e baciandola e accarezzandola la portò dal Gran Mago. Il Re e la Regina, intanto, erano in angoscia per la sorte toccata al Reuccio; non sapevano spiegarsi come mai egli fosse andato a combattere contro re Corvo: e non c'era stato verso di stornarnelo! In questo frattempo, chi arriva a palazzo reale? Il Re e la Regina del Portogallo! Con gran seguito di carrozze, di carri, di cavalieri. - Dov'è la Reginotta mia figlia? - Dov'è la Reginotta? Piangevano e sembravano ammattiti, perché nessuno sapeva niente della Reginotta loro figlia. - Dov'è la Reginotta mia figlia? - Dov'è la Reginotta? Chi può dire quel che accadde al presentarsi del Reuccio che conduceva per mano una giovane con capelli sciolti su le spalle, più biondi dell'oro, bella quanto il sole e la luna, e che sorrideva, commovente di bontà? Il maleficio della cagnetta zoppa era stato disfatto con dieci stille di sangue di re Corvo. E tutti furono lieti e contenti. E si fecero nozze con suoni e con canti. C'è chi arriva e chi va via ... Dite la vostra che ho detto la mia.

Il Marchese di Roccaverdina

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

I quattro canini, saltati tutt'insieme giù dai seggioloni, e stiratisi e sbadigliato, circondavano il marchese, mostrando di riconoscerlo col dimenare festosamente le code e saltellargli attorno e abbaiare. La baronessa li guardava sorridendo dalla commozione. «Non fai loro neppure una carezza!», esclamò. Gli passava davvero ben altro per la testa in quel momento che accarezzare quelle decrepite bestie mezze spelate e con gli occhi pieni di cispa! La zia baronessa aveva ragione. Perché egli non voleva? Perché si ostinava a vivere solo? E rientrando in casa, gli parve di rientrare in una spelonca. Mamma Grazia, che non aveva ancora acceso i lumi, venne ad aprirgli portando con una mano la sporca lumiera di terracotta stagnata, col lucignolo a olio, che essa adoprava in cucina. Dalla zia baronessa tutto era un gran vecchiume; ma vi si scorgeva la sorveglianza d'una intelligente e pulita padrona. Qua si sentiva il tanfo della trascuratezza, del disordine e dell'abbandono. Dal giorno che quella - non la nominava più neppure col pensiero - era andata via, egli non aveva più badato a niente, lasciando che mamma Grazia facesse quel po' che poteva, non osando di rimbrottarla, di sgridarla, per via dell'età e del rispetto che le portava come nutrice e come vecchia persona di casa. Altra donna di servizio non voleva, anche per non fare dispiacere alla povera vecchia; servitori non gli piaceva di averne attorno, perché li stimava indiscreti e ciarlieri. Era vita questa? La solitudine ora gliene faceva sentire tutto il fastidio e la nausea. Vita bestiale! Egli, marchese di Roccaverdina, godeva forse delle ricchezze ereditate? I suoi massai, i suoi fittaiuoli godevano meglio di lui. Da più di dieci anni si era ridotto un selvaggio, schivando il commercio delle persone, arrozzendosi, chiuso in quella spelonca d'onde usciva soltanto per fare quattro passi su la spianata del Castello, o per vivere in campagna, tra contadini che lo temevano e non gli volevano bene perché li trattava peggio di schiavi, senza trovar mai una buona parola per essi. Ah, la zia baronessa aveva ragione! Perché non voleva? Le altre volte la zia gli aveva parlato su le generali. Ora aveva precisato, pur non nominando colei che era stata la segreta aspirazione dei suoi sedici anni, quando timido ed esitante si era contentato di manifestare il sentimento che gli tremava in fondo al cuore soltanto con gli sguardi o con fanciullesche intimità di scherzi e di atti forse meno espressivi degli scherzi; quando gli era bastato di scorgere o d'indovinare, dal pudibondo contegno, che ella si era accorta e che acconsentiva con maggiore serietà di propositi, non mai smentita dopo. Ed egli l'aveva dimenticata! Ed egli l'aveva offesa anteponendole quella donna poi divenuta sua tortura e suo castigo. Perché ora non voleva? Non lo sapeva neppur lui! Era seduto a tavola. Mamma Grazia, portato il vassoio dell'insalata, vedendo che il marchese mangiava con aria cupa, evitando di guardarla e di rivolgerle la parola, si era fermata a osservarlo, incrociando le mani sotto il grembiale di traliccio. Due grigi cernecchi dei pochi capelli mal pettinati le si sparpagliavano su la fronte piena di grinze, cascandole sugli occhi, da uno dei quali, con gli orli delle palpebre rossi, non ci vedeva per un disgraziato accidente di molti anni addietro, quando, divezzato il marchese, era rimasta come serva dai Roccaverdina. «A che pensi, figlio mio?», ella disse teneramente. E all'inattesa domanda il marchese faceva una rapida mossa di tutti i muscoli della faccia, quasi volesse, con essa, trafugare nel più oscuro posto del cervello i pensieri che lo tormentavano e nasconderli anche a se stesso. Ella, che aveva notato, altre due o tre volte, una mossa simile e in identiche circostanze, ne fu addolorata. «A me puoi dirlo», soggiunse accostandosi alla tavola. «Sono la tua mamma Grazia!» «Non trovo certe antiche scritture; pensavo appunto dove cercarle», rispose il marchese. «Giù, nel mezzanino ce n'è una catasta.» «Dici bene.» «Ce n'è tante altre anche in un baule. Io so qual è la chiave.» «Me la darai domani.» «Farò prendere aria a quelle stanze. Saranno piene di topi. Non vi è entrato nessuno da anni.» «Sì, mamma Grazia.» Non convinta della risposta, dopo alcuni momenti di silenzio, ella riprendeva: «Che ti cuoce, figlio mio? Dimmelo. Pregherò il Signore e la Vergine Santissima del Rosario. Ho fatto dire una messa alle anime sante del Purgatorio perché ti diano la pace dell'animo ... Senti: se è per quella ... richiamala pure ... Le farò da serva, come prima!». Il marchese alzò la testa e le spalancò gli occhi in viso, impaurito dalla chiaroveggente penetrazione di quella rozza e semplice creatura. «Oh, mamma Grazia! ... È venuta qui? Che ti ha detto? Non voglio più vederla, non m'importa più niente di essa! ... Ti ha forse suggerito di dirmi così?» «No, figlio mio! ... Non irritarti; ho parlato da vecchia stolida!» Si era irritato, invece, per la vergogna di sentirsi quasi alla mercé degli altri. Non sapeva, non poteva più dissimulare dunque? Allo sgomento che gli intorbidava lo sguardo, mamma Grazia, intimidita, replicò: «Non irritarti! Ho parlato da vecchia stolida!». E andò via strascicando le ciabatte.

Racconti 1

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Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Il cinguettio dei passeri sul tetto e fra gli alberi, lo schiamazzo delle galline e dei tacchini nella corte, l'allegro abbaiare dei cani echeggiavano per la volta come un coro di festa, un'irrisione in quel punto. Il barone aveva posate le pistole sul tavolino, macchinalmente, barcollando, e si passava le mani sulla fronte bagnata d'un sudore ghiaccio. Gli pareva di ammattire; provava un dolore di morte; il cuore gli si schiantava! - Ma aveva proprio veduto, coi suoi occhi? - Sí, eccellenza, con questi occhi! - Coi tuoi occhi? - Giuseppe con una mano sul petto spingeva le pupille in alto: - Giurava al cospetto di Dio! - Era orribile! - Il barone si torceva le dita, passava la lingua sulle labbra inaridite ad un tratto e guardava per terra di qua e di là, senza sapere quello che si facesse. Non avea piú forza di parlare; e interrogava insistente, collo sguardo, il servitore che esitava: - Sí, sí, ogni volta che il signor barone era andato in Palermo o era rimasto a dormire in villa al tempo della vendemmia e del raccolto delle ulíve. Non si era risolto a parlare per paura di non esser creduto ... Ah, lo aveva ben detto lui che la barone ssa era troppo giovane pel signor barone! - Il barone piangeva come un fanciullo, colle gomita appoggiate a un mobile, colla testa fra le mani: - Era orribile! Era orribile! Imbecille! Doveva prevederlo! La colpa era tutta sua, imbecillone! Ah, certo il diavolo gli avea suggerito di rimaritarsi! - Il sangue gli montava a fiotti alla testa e gli sconvolgeva il cervello. Terribili progetti di vendetta gli si abbozzavano nella mente, uno sopra l'altro, alla rinfusa, gli davano il capogiro; e dimenticava il vecchio Giuseppe che singhiozzava in un canto. - Grazie! - gli disse, facendo uno sforzo per ricomporsi e asciugandosi gli occhi. - Voscenza deve perdonarmi! Avevo rimorso a star zitto. Ed ora ... che farà voscenza? Non si danni l'anima, non si danni l'anima ! Lo mandi lontano ... - Mio figlio! ... Mio figlio! - mormorava il barone, cacciandosi le mani fra i capelli. Il barone Russo-Scaro era sui quarantanove anni quando avea sposato Cecilia di Pietranera appena di ventidue. - Tu commetti una grande sciocchezza - gli disse suo zio l'abbate di San Benedetto. - Cecilia è la bontà in persona - avea risposto il barone. - Sarà sempre una matrigna ... - Giorgio ha quindici anni. Per ora è in collegio: poi verrà l'università; poi daremo moglie anche a lui ... - Ma tu non sei piú un giovane ... - Sono ben conservato! - Nel viaggio di nozze erano stati scambiati per padre e figlia; ma il barone avea dimenticato subito quella cattiva impressione. Cosí il primo anno del loro matrimonio era passato tranquillamente. La baronessa amava vivere ritirata. Era seria, quasi triste; e il marito non sapeva che cosa inventare per distrarla. Innamorato, voleva farsi perdonare la sua età col mezzo d'altri compensi: e le profondeva regali. - Ancora? - esclamava la Cecilia ad ogni nuova sorpresa del marito. - Non era mai abbastanza! - E la baciava sulla fronte. Un desiderio lo tormentava: - Se avesse avuto un figliuolo da lei! Oh, allora soltanto gli sarebbe parsa proprio sua! Ma il figliuolo non veniva. - Meglio! - esclamava lei quando il barone toccava malinconicamente questo tasto. - Non avevano Giorgio? - Sí, sí, ma è tutt'altro! - rispondeva quello sospirando. Infatti la loro casa non era allegra: vi mancava un raggio di sole. Lei passava le giornate divorando romanzi e libri di viaggi. Non amava il marito, ma non provava ripugnanza di trovarsi sua moglie. I suoi parenti avevano voluto cosí e lei aveva ubbidito, senza che questo le costasse nulla. Certe volte sentiva svegliarsi dal fondo del cuore un sentimento indefinito, qualcosa che lei stessa non arrivava a capire, un bisogno, un'irrequietezza, una smania; ma confondeva il malessere dello spirito col malessere fisico, e consultava il dottore. Il dottore ci perdeva il latino: - Nervi! - Le sue ricette non approdavano a nulla. - Sai? Giorgio torna in famiglia - annunziò una sera il barone. Cecilia non mostrò né piacere, né dispiacere, ma una leggiera sorpresa: - Ah! - Il barone avea creduto che il ritorno di Giorgio non le fosse gradito e per iscusarlo s'era affrettato ad aggiungere: - È un po' ammalato. I medici consigliano qualche mese d'aria nativa. - Gli farà bene, certamente -. Lei continuava a leggere, distratta. Il barone si sentiva sulle spine; quell'indifferenza lui la prendeva in mala parte. - Quando? - domandò la baronessa dopo qualche minuto di silenzio. - Presto. - Bisognerà preparargli le stanze ... - Andremo in villa. L'aprile e il maggio li passeremo là. Ti dispiace? - Anzi! - Il barone si era sentito togliere un gran peso dal petto. La villa del Gelso Nero era deliziosamente situata in mezzo a quel giardino di aranci, malgrado che non fosse molto bella con quel casamento a due piani. Dietro la siepe di nespoli del Giappone, di pomi e di peri che circondava la spianata, gli agrumi affacciavano le loro cime luccicanti, di un verde bronzino. L'aria era tutta imbalsamata del profumo della loro zagara. Nei primi giorni la baronessa e il figliastro si eran trattati con un po' d'impaccio. Giorgio non sapeva adattarsi a chiamare mamma una matrigna cosí giovane; a lei non riusciva di chiamarlo semplicemente Giorgio, e gli dava del "baronello". Facevano lunghe passeggiate, a piedi o a cavallo, insieme al barone. Qualche volta andavano anche soli, quando il barone s'intratteneva a dare un'occhiata ai lavori dei calabresi che sterravano la vasca. Cosí in meno di due settimane l'impaccio fra matrigna e figliastro era stato vinto. Già si davano del tu, e il barone n'era lietissimo. Giorgio, gracile, bianco, pareva un fanciullo addirittura, con quei capelli d'un biondo cinericcio e quella straordinaria dolcezza dello sguardo. Però la sua voce, armoniosa, femminile, turbava la baronessa. Sentendolo parlare lei lo guardava fisso. Tanta gentile freschezza le ridestava, tumultuosamente, le sue prime sensazioni di ragazza. Fremiti deliziosi le correvano per tutta la persona; il cuore le si gonfiava. Quando passavano la mattina nell'uliveto, sul prato smaltato di fiori e dorato dal sole, o in giardino - lui sdraiato bocconi fra l'erbe, all'ombra di un magnifico albero di arancio; lei seduta al suo fianco sul cuscino che Giorgio portava apposta - intanto che questi leggeva ad alta voce, con una monotonia d'inflessioni efficacissima, la Cecilia stava ad ascoltarlo lavorando all'uncinetto. Di tanto in tanto quei suoi begli occhi neri lampeggiavano fra l'ombra dei rami; poi restavano assorti in un punto lon tano. - Sai che in collegio t'odiavo? - le disse Giorgio una volta sbucciando un'arancia. - Davvero? E perché? - Mi ero figurato che fossi brutta. Invece ... - Sono meno brutta che non ti immaginavi? - Sei bella! - Glielo aveva detto sinceramente, con un'ammirazione di fanciullo, continuando a sbucciare. La baronessa s'era alzata, e preso il libro messo a cavalcioni di un ramo, lo sfogliava inoltrandosi lentamente pel viale. Giorgio andò a raggiungerla per offrirle l'arancia. - No, grazie. - Metà almeno! ... - No, non ne aveva voglia. - Almeno uno spicchio! - No -. E sorrideva, guardandolo negli occhi, stranamente intenerita. Giorgio le si era piantato dinanzi, porgendole lo spicchio presso la bocca, insistendo - Metà -. Cedeva, per compiacerlo. Giorgio mangiava l'altra metà: - Come era dolce! - E assaporava. - Via, lasciami leggere - disse la baronessa impallidita. Ma quel ragazzo non s'avvedeva di nulla. Trovata in casa non un'intrusa ma una sorella, anzi qualche cosa di piú, un'amica, si sentiva felice. - Beata giovinezza! - esclamava Cecilia nel suo interno. Però non si mostrava sempre del medesimo umore con lui. Certe volte mutava da un momento all'altro, dalla dolcezza a un tono brusco. - Ha i nervi - diceva Giorgio a suo padre. - Ti senti forse male? - le domandava il barone. - No; perché dovea sentirsi male? - Giorgio mi ha detto: "Cecilia ha i nervi" -. La baronessa abbassava la testa e aggrottava le sopracciglia. Il barone interpretava quell'atto a modo suo: ci vedeva lo stesso dolore che tormentava lui, il desiderio smanioso di quel frutto della loro unione che tardava tanto a venire! - La presenza di Giorgio doveva essere una continua irritazione di quel sentimento, un'offesa, involontaria, alle legittime esigenze di quel cuore! Lo capiva, pur troppo! Ma chi ne avea colpa? ... Ora che suo figlio s'era rimesso in salute, poteva ritornare in collegio. Intanto, c'era ancora da sperare! - Ma quando partecipò la sua risoluzione alla baronessa, questa si oppose: - Quel ragazzo era ancora sofferente. Perché tanta fretta di mandarlo via? Voleva far sospettare che lei, la matrigna, cercasse di tenerlo lontano? Le vacanze erano prossime. In ottobre Giorgio sarebbe stato rimesso del tutto ... - E lui che credeva di farle piacere! Com'era lieto di scoprire che si era ingannato! In città la vita della Cecilia e di Giorgio scorreva piú monotona. La lettura, il pianoforte potevano svagarli per qualche ora. Le giornate parevano eterne! La sera, durante la solita passeggiata pel viale alberato, fuori il dazio, mentre il barone giocava a' tarocchi nel casino di convegno, Giorgio diceva delle barzellette, osava delle confidenze come ad un camerata. Una sera le raccontava la storia di un suo amoruccio a dieci anni, una vera fanciullaggine. - E poi? - Poi? ... Nulla - aveva risposto Giorgio. Lei gli si era aggravata sul braccio camminando a passi lenti, muta, cogli occhi fissi nel cielo stellato. Poi aveva lasciato il braccio per ficcare le mani nelle maniche della mantiglia con un gesto di freddolosa, e avea avuto il capriccio di andar quasi di corsa; poi si era fermata a un tratto: - Voleva tornare a casa. La serata era troppo fresca ... Sentiva dei brividi ... - Faceva caldo invece! ... - E in casa si era svestita in fretta ed era andata a sedersi sul terrazzino, colla testa appoggiata al ferro della ringhiera, cogli occhi socchiusi, dondolando la seggiola. - Ninna, ooh! Ninna ooh! - cantava Giorgio, ridendo, agevolando colla mano quel dondolamento. - Ninna, ooh! - Al lume di luna che cadeva a sbieco dalla cornice della casa, i capelli di lei e la mano appoggiata sulla sbarra della ringhiera risaltavano luminosi; il resto della figura si velava nell'ombra: e in quell'ombra il bianco dei suoi denti brillava fra le labbra semiaperte a un sorriso. - Ninna, ooh! - Giorgio, stai fermo! stai fermo! - E tentava fiaccamente di trattenergli la mano. Ma Giorgio non smetteva, da ragazzo imbizzito. All'ultimo, improvvisamente, le soffiava sul viso e scappava. Cecilia s'era rizzata d'un colpo, come se quel soffio l'avesse frustata. Si mordeva le labbra, si passava le mani sui capelli, col petto che le si sollevava. Giorgio, battendo le mani, rideva in fondo alla stanza, nel buio. Il barone era andato a Palermo; ed essi avevan seguitato a fare il chiasso per gli appartamenti, rincorrendosi, nascondendosi dietro agli usci, proprio come due ragazzi, appena si sentivano stanchi di leggere o seccati di suonare. Due volte erano anche andati al Gelso Nero in carrozza, per poche ore, il tempo di fare una giratina pel giardino degli agrumi e di perdersi sotto gli archi a sesto acuto dell'uliveto o sotto il pergolato che attraversava la vigna. Tornando, sul tardi, la Cecilia si rannicchiava in fondo alla carrozza, muta, guardando fissamente Giorgio con certi sguardi divoratori, quando lui non poteva vederla: e di tratto in tratto aveva certe scossettine nervose che le facevano strizzar gli occhi e scuoter la testa. Giorgio, rincantucciato nel lato opposto, non pensava a nulla; e se si voltava verso la matrigna e incontrava la punta acuta degli sguardi di lei, sorrideva a fior di labbra con puerile compiacenza, senza sottintesi. Allora sorrideva anche lei, tristamente, e stendeva la mano ad accarezzargli la bionda capigliatura che gli si arruffava sulla fronte d'avorio, con una carezza da mamma; e il suo polso batteva piú celere e la sua mano, piccola e bianca, tremava. In uno di questi ritorni Giorgio, destandosi dalla sua indolenza, le avea detto: - Domenica avrò diciassette anni; divento quasi un uomo -. La Cecilia lo aveva guardato come se queste parole significassero chi sa che cosa: - Diciassette anni! E la settimana dopo erano andati di nuovo al Gelso Nero, questa volta a cavallo. Era una giornata d'estate, col cielo leggermente nuvoloso, piena di tepori. Ma verso sera, quando essi già si apparecchiavano a ritornare, aveva cominciato a venir giú un'acquerugiola fina fina che sembrava un gran velo di tulle steso contro il sole al tramonto. - Pioggia d'estate! - disse Giorgio osservando il tempo dalla finestra. La baronessa guardava il cielo e la campagna, muta, colla fronte corrugata, colle labbra strette, gustando quel sordo e carezzevole rumore della pioggia sul fogliame che luccicava, agitato lievemente dal vento. Lontano, lontano, brontolavano i tuoni: il temporale s'avvicinava, preceduto da lampi. I cavalli, insellati, nitrivano e scalpitavano sotto la tettoia della stalla. Ma la pioggia avea continuato a venir giú piú fitta. Il sole era già sparito dietro montagne di nuvoli nerastri. - O dove vuole andare, voscenza? - disse massaro Turi. - Pioverà certamente tutta la nottata -. La baronessa aveva guardato Giorgio e si erano messi a ridere: - Che bella sorpresa! - Anche la massaia era comparsa sull'uscio della stanza col suo grembialone bianco di traliccio: - Doveva accendere i lumi? Preparare i letti? Cuocere un po' di verdura, un filu d'amareddi, per la cena? C'era delle uova fresche; il pecoraio, piú tardi, avrebbe portato la ricotta ... - Oh, bene! Oh, bravo! Giorgio ruzzava come un bimbo, intanto che la baronessa, addossata alla finestra, mordevasi lievemente la punta dell'indice, cogli sguardi sprofondati nella oscurità a traverso la nera campagna. I canali scrosciavano sull'acciottolato davanti la casa. Le fiammate dei contadini vi gettavano larghe striscie di luce rossiccia dagli usci aperti del pianterreno, e su quelle passavano di tratto in tratto strane ombre allungate. La voce di Giorgio, sceso un momento giú dagli uomini, scoppiava argentina fra le risate, a riprese. Un cane abbaiava. Poi Giorgio era tornato su ridendo: - Che grullo quel boaro! Lo canzonavano tutti. Aveva paura delle Nonne che gli spastoiavano le vacche per farlo arrabbiare! Una notte gli avevano anche impiastricciato quattro ciocche della sua zazzera; se lui le avesse tagliate, sarebbe morto sul corpo. Che grullo! - E la biancheria da letto? Ah! Gli toccava a dormire sulle materasse belli e vestiti! - Allora s'eran messi a rovistare pei cassettoni. Finalmente, in fondo a un armadio, avean trovato due paia di lenzuola rimaste in campagna per caso. E rifacevano i letti, chiassosamente. Giorgio strappava il lenzuolo rimboccato; la Cecilia fingeva d'arrabbiarsi: - Com'era strambo! - E tornavano a rimboccare, ridendo, irrefrenabilmente, abbandonandosi a traverso il letto, l'una di qua, l'altro di là, tenendosi i fianchi, non ne potendo piú. E cosí daccapo nell'altra camera attorno il letto di lui. La cena era parsa deliziosissima. - Ghiotti quegli amareddi! - Squisito quel pane dei contadini! - Seduti di faccia, coi gomiti sulla tavola e il viso fra le mani, colle ginocchia che si toccavano, perduti in mille discorsi inconcludenti, indugiavano ad andare a letto. Giorgio un po' sonnacchioso, lei cogli occhi foschi, luccicanti, colle labbra umide e piú accese del solito. Parlavano a voce bassa, ad intervalli. Giorgio si alzò il primo, snodandosi la cravatta, sbottonando la camicia che scoprí il suo collo tornito, piú bianco della spuma, un collo di vergine. Cecilia lo accompagnò fino all'uscio della camera e rimase sí, addossata allo spigolo, mentre lui appostava sbadatamente una sedia a piè del letto. - Buona notte! - Buona notte! - La pioggia veniva giú forte ma uguale, con uno scroscio sordo sordo. Tutta la villa dormiva. La baronessa cominciò a spogliarsi, lasciando cadere i capelli snodati sulle spalle ignude. Si passava sulla fronte le mani fredde, madide come quelle d'una ammalata. Tutt'a un tratto, cosí come trovavasi, barcollante come una persona ebbra, aveva fatto uno, due passi verso l'uscio ... e l'avea aperto, risoluta. Era stata lei! Al povero ragazzo non era mai passato pel capo che ciò potesse accadere. Ah, tutto gli avea preparati! E avean continuato, insaziabili, come due esseri senza coscienza, come due bruti belli e giovani che tracannavano la coppa della vita, per esaurirla. Nulla era venuto a turbarli: né cura del presente, né pensiero dell'avvenire. Una figura, fantasma, non s'era mai rizzato in mezzo a loro! Ogni sentimento era stato soffocato da quel delirio di sensi scoppiato pari a un fulmine in mezzo alla loro serenità gioconda. Lei lo avea fatto tremare sotto la violenza del suo fascino; lui l'avea scossa tutta colla sua carne di fanciullo piú bianca della spuma, fresca, vellutata, colla soavità del suo sorriso, coll'azzurro profondo del suo sguardo; complici: la libera solitudine, la cieca confidenza di chi non poteva neppur sospettare e il ciel o e la terra e ogni cosa, in quell'autunno siciliano che ha tutte le seduzioni della primavera con qualche cosa di piú intimo e di piú seducente! Il pretore, il brigadiere dei carabinieri e due amici erano stati introdotti dal barone in punta di piedi, allo scuro. Il barone avea acceso un fiammifero; la sua mano, che lo teneva in alto per rischiarare il gran letto nuziale a traverso le cortine, tremava convulsa. - Per carità, signor barone! Siamo ancora a tempo, sia generoso! - Il pretore lo scongiurava, stringendogli fortemente le braccia. - È molto se invoco soltanto la legge! - avea risposto il barone. Da quella mattina in poi le imposte del palazzo Russo-Scaro non sono state piú aperte, chiuse per un lutto eterno. La villa del Gelso Nero è rimasta anch'essa deserta. Quando lo zio del barone, il vecchio abbate di San Benedetto, passa per caso davanti quel palazzo che gli rammenta la catastrofe dell'ultimo rampollo della sua famiglia, abbassa la testa, accasciato: - Se vedete una grande rovina - suol ripetere colla sua profonda amarezza di cenobita - dite pure, senza timore d'ingannarvi, che una donna è passata per lí! Milano, 15@ 15 febbraio 1879@. 1879.

La campagna aveva sussurri, gemiti, mormorii, rumori vaghi, canti interrotti di galli, trilli sommessi d'insetti, agitar d'ali impercettibili, rosicchii continuati, affacendamenti misteriosi, abbaiare di cani, tintinni di campane di bestiami lontani; e poi quell'intiera, indefinibile, fremebonda corrente di vita da cui son legati assieme tutti gli esseri, per cui si sente il pensiero umano e nell'insetto e nella fronda e nella roccia immobile e tranquilla. Oh, c'era davvero piú di quanto occorresse! Le nostre mani, ricercatesi di accordo, si erano avviticchiate avidamente e si premevano forte. Procedevamo commossi cogli sguardi slanciati per l'immensa campagna, senza sentir bisogno di dirci una breve parola, fermandoci di quando in quando per scambiarci un bacio interminabile ch'ella era la prima ad interrompere, esclamando sottovoce: - Mio Dio! - Pareva che quella felicità la facesse soffrire. Io intanto avevo stizza di non soffrire a quel modo. Non ero evidentemente neppur felice a quel modo! Sopraffatta da un impeto di passione selvaggia, stordita, concentrata in sé, fremente per tutta la persona con spasimo lieve, ella lasciavasi in pieno abbandono delle mille sensazioni onde era dominata ed oppressa, anzi procurava di raddoppiarne l'effetto: e ciò che io chiamava soffrire ne era proprio il colmo, il loro estremo valore. Quel pieno abbandono, quel dimenticare me stesso a me, invece, non riusciva. Provavo un piacere dimezzato. Vedevo insistentemente la mia immagine sorridere ed agitarsi nel suo piccolo cuore: ma la vedevo preciso come un'immagine riflessa sul nero della camera oscura. Attraverso quell'immagine, che pur sembrava solida e vivente, ne passava sovente un'altra che non potevo discerner bene, la quale la avvolgeva, le si sovrapponeva formando una strana confusione, e infine le spariva dietro come se vi si chiudess e dentro e l'animasse e le desse il moto Appunto per questo ora non ripetevo piú la sciocca domanda della mattina. Le ombre cadevano fitte dal cielo: la terra dormiva. Gli alberi, le macchie, le erbe avevano già preso una figura molto diversa da quella del giorno. A dieci passi di distanza, l'aspetto delle cose assumeva sembianze fantastiche: la mente ne era un po' turbata, e l'occhio vedeva quel che non era, l'orecchio sentiva rumori strani e fuori natura. Un altro momentino, e le fate, gli spiriti, sarebbero venuti a volteggiarci sul capo, a turbarci, a impaurarci colle loro apparizioni improvvise. Provava anch'ella quest'effetto, e mi si stringeva al braccio con forza e girava attorno diffidente la testina e si fermava ad ascoltare. Ci eravamo dilungati troppo benché si fosse andati lentamente. Chi voleva accorgersi delle ore volate via? Andavamo incontro ad un gruppo di alberi che disegnavansi sull'orizzonte con forme immani e grottesche. Si sarebbe detto che dei mostri giganteschi, fermati ad attenderci lí sul passaggio, agitassero le teste orrende e digrignassero i denti. - Torniamo addietro: ho paura! - sussurrommi all'orecchio, appendendomisi al collo come una bimba. Questo bacio fu il piú lungo. Traversammo i campi da un'altra parte e prendemmo per far piú presto una scorciatoia. La fittaiuola, addormentata, ci attendeva a piè della scala. La mandai a letto ringraziandola e seguii la Fasma ch'era già nel salotto. Il sorriso con cui mi accolse fu qualcosa di sublime. Mi sentii come preso da un delirio veemente, e le corsi incontro e la levai di peso tra le braccia. Ella die' un piccolo grido e nascose il volto sulla mia spalla Credetti che qualcosa di eterno per la mia vita si fosse deciso in quel punto! E tutto tremante varcai, la prima volta, con essa in collo, la soglia oscura della sua stanza. La mattina dopo mi domandavo: - Ho sognato? Non trovavo il verso di persuadermi che quanto era accaduto fosse proprio una realtà. Certe volte non c'è cosa che paia piú impossibile del vero. Giú mi attendeva un ragazzo con una lettera da Firenze. Un urgentissimo affare di famiglia mi richiamava colà; potevo esser di ritorno la sera. Guardai l'orologio; mancava ancora tre quarti di ora pel passaggio del treno: giusto quanto occorreva ad arrivare in tempo alla stazione. Rifeci, stizzito, le scale onde avvertire la Fasma. Trovai il suo uscio serrato col paletto di dentro. La chiamai a nome; non rispose. Stetti ad origliare commosso. Mi era parso d'aver sentito singhiozzare. Possibile? E ritenni il fiato Non mi ingannavo. Veniva dalla sua stanza un suono di pianto represso, di grida soffocate, di singhiozzi interrotti. - Ahimè! - pensai, - questi passaggi repentini come debbono farle del male! - E picchiai, ripicchiai, tornai a chiamare piú volte. Nessuna risposta! Quel pianto, quelle grida smorzate a forza, continuavano sempre. Che fare? Il tempo stringeva. - Fasma! Fasma! - le urlai dietro l'uscio; - debbo andare a Firenze; sarò qui col treno di sera. Per carità, stia tranquilla! Mi risponda. Stia tranquilla. A rivederci! - Non avevo piú il coraggio di darle del "tu"! Nessuna risposta! - A rivederci! - replicai E rimanevo dietro l'uscio. Però dopo alcuni minuti mi parve sentire, o sentii davvero, una parola di addio. Corsero alcuni istanti di angoscioso silenzio. Il pianto a poco a poco cessò, cigolò finalmente il paletto e la Fasma apparve accanto all'uscio. Sorrideva, ma in viso le si vedevano chiare le tracce del suo dolore. - Che è stato? - le chiesi tremante. - Nulla! - diss'ella - È passato. Addio. - Tornerò presto; non posso far a meno di andare. - Addio! - ripetette con una monotonia di accento che mi trafisse l'anima. Evidentemente ella pativa a star lí. Mi decisi a partire. - Per carità, stia tranquilla! - replicai stringendole affettuosamente la mano. - Addio! - diss'ella per la terza volta e collo stessissimo tono. Affrettai di una corsa il mio ritorno. Eran le sette di sera. - La signora dov'è? - chiesi alla fittaiuola. - È già attorno da un pezzo - rispose quella donna con aria inquieta. Entrai nella mia stanza e non so perché gli occhi mi corsero subito al tavolo; c'era un foglio spiegato. Sentii stringermi il cuore da un tristo presagio! Non osavo accostarmi. Che poteva aver scritto? Finalmente presi convulso quel foglio e corsi subito alla finestra. Era una sua letterina. "Caro signore" diceva "non pensi male di me! Mi compatisca invece, mi compianga. Prima di buttarmi la pietra del suo disprezzo, ella dovrebbe conoscere tutta la storia del mio cuore e della mia vita, un'infelicissima storia. Non gliela posso dire; è troppo lunga; e poi, a qual pro? Non pensi male di me! Mi dimentichi: è meglio! Non osa domandarle altro la sua gratissima Fasma" Pensar male di te! Dimenticarti, divina creatura! Oh, potessi rivederla! Villa Santa Margherita, agosto 1874@ 1874

SCURPIDDU

662776
Capuana, Luigi 1 occorrenze

Scurpiddu fece una spallucciata: - Se non sa neppure abbaiare! Abbaio meglio io: Bau! Bau! Bau! ..Non è forse vero? Sbirro avea risposto dalla terrazza con voce roca e ringhiosa. Senza dubbio Scurpiddu abbaiava meglio. - Va' a dormire e non fare il buffone! La luna sorgeva lentamente dietro il dorso scuro delle colline. - Guardate, Soldato , come è grande la luna! Vi piacerebbe un pane tondo così? - Va' a dormire! Il Soldato rientrò nella stalla, per andare a buttarsi sul pagliericcio, là in fondo. Non poteva prender sonno senza sentire il rosichìo delle mule che masticavano la biada e la paglia, e lo scalpito irrequieto di esse su l'acciottolato del pavimento. Ancora non era freddo, la porta della stalla restava aperta tutta la nottata; e Scurpiddu sentì il Soldato picchiare con la mano su la groppa di una mula per farla tirare più in là, dar la voce a un'altra, accarezzare la groppa d'una terza. Scurpiddu stette un momentino fermo; in piedi. Il cuore gli batteva forte. Era risoluto; quella notte voleva fare la scoperta a cui pensava da tanto tempo: vedere il giubbone di albagio dello zi' Girolamo, col cappuccio ritto, messo a sedere sul fondo del corbello arrovesciato, e con tra le maniche incrociate il bastone di bovaro ... Se non si scorgevano le gambe dello zi' Girolamo, voleva dire ch'egli era andato attorno con le Nonne . Ma bisognava aspettare fino alla mezzanotte. Avrebbe sentito suonare i cento tocchi dal campanile di Santa Maria in Mineo. Di notte, sembrava che l'orologio fosse dietro la collina di rimpetto. Non voleva andare a coricarsi. Se chiudeva gli occhi addio! Fino all'alba non lo avrebbero svegliato neppur le cannonate. Che fare intanto? Girò dietro il pollaio, tra i fichi d'India per affacciarsi sul burrone della Caldaietta dove cascava l'acqua del beveratoio che formava ruscello. Si distinguevano i sassi, i cespugli e le viottoline laggiù, ora che la luna piena era un po' alta. L'acqua cascava a piombo, nella conca della Caldaietta, e si riversava dall'orlo tra i massi in fondo alla vallata, luccicando qua e là come uno specchio. - Guarda! Due conigli che si rincorrono! E grossi! Scurpiddu tese le braccia, come per prendere la mira col fucile. Non li avrebbe sbagliati! Si udiva, a intervalli, un grido di uccello da uno spacco della roccia di rimpetto, grido stridulo rimbalzante, che sembrava quasi una risata. Scurpiddu cominciava ad aver paura di trovarsi là, solo solo, a quell'ora, con quel silenzio interrotto soltanto dal grido del fagiano che aveva il nido in uno spacco della roccia, e dall'abbaio che veniva in quel momento dal fondo della vallata e che somigliava poco a un abbaio di cane. Fece alcuni passi più in là, si sdraiò bocconi per evitare un capogiro, e sporse la testa nel vuoto. La valle si sprofondava scura scura sotto le rocce che scendevano quasi a perpendicolo dalla parte opposta. Tra il nero delle macchie e degli alberi, biancheggiavano qua e là massi piccoli e grossi, staccàtisi dall'alto, rotolàtisi per la china e arrestàtisi a mezza costa. Quel grido, che aveva dell'abbaio e del guaìto, riprendeva di tratto in tratto, ora qua, ora là, come se l'animale che lo emetteva errasse tra le siepi, tra le erbe alte e i sassi ... Scurpiddu aguzzava gli occhi per indovinare che mai fossero quelle due macchie bianche che si muovevano lentamente tra gli oleastri, sotto gli olmi, e già si arrampicavano per la ripida viottola, dietro le piante di nocciuoli. Pareva sfuggissero il lume della luna, si acquattassero, uscissero d'agguato, tornassero ad appostarsi ... Trasalì! Nel silenzio cominciarono a ondulare, lenti, malinconici, paurosi, i cento colpi alternati dell'orologio di Santa Maria. Tin! Ton! Tin! Ton! Mezzanotte! Si rizzò in piedi, e rifece il breve tratto dietro il pollaio, tra i fichi d'India. Doveva passare davanti a la stalla delle mule, o continuare tra i fichi d'India, diritto, e spuntare su l'agghiaccio, voltando il cantone del fienile? No; qui faceva troppo rumore con le scarpe, calpestando le erbe secche e smuovendo le scheggie di roccia sparse per terra. Il cuore tornava a balzargli così rapido, che Scurpiddu dovette fermarsi. Brividi lo scotevano dalla testa ai piedi, brividi di terrore. Ma la curiosità, più forte di ogni altro sentimento, lo spingeva avanti. Trattenendo il respiro, facendo due, tre passi, e fermandosi a spiare con gli occhi spauriti e le sopracciglia increspate, Scurpiddu era arrivato vicino alla stalla quando fu arrestato dal rumore ottuso dei passi d'una bestia - giumenta o mula? - che usciva alla chetichella da la stalla. Il Soldato forse aveva legato male la cavezza all'anello di ferro della mangiatoia, e l'animale, vistosi sciolto, andava a farsi una rivoltolata fra la polvere, là davanti ... Affacciò la testa dallo spigolo della cantonata ... - Ah, mamma mia! La giumenta resisteva puntando i piedi, mentre un uomo la tirava pel capestro e un altro le dava sui fianchi con la bocca del fucile. Li riconobbe; erano gli amici ! - Madonna Santissima! ... ... Rubano la giumenta! Scurpiddu si sentì strozzare il grido in gola. - La portano via! - balbettava sottovoce. - Portano via la giumenta! ... Soldato , portano via la giumenta! E quando capì che la giumenta non poteva resistere più e che uno degli amici tentava di cavalcarla per farla camminare più spedita, si sentì sciogliere la lingua, e cominciò a strillare, nascosto dietro lo spigolo, facendosi piccino, piccino: - Soldato , la giumenta! Soldato , rubano la giumenta! Ladri! ... Ladri! Soldato ! Con la foga dello strillare aveva preso coraggio. Udiva la voce impermalita del Soldato che rispondeva dalla stalla; dall'agghiaccio lo zi' Girolamo gridava: - Ooh! Ooh! - per mostrare che era sveglio anche lui. Allora Scurpiddu si sentì diventare un altro, e corse dietro agli amici , gridando: - Lasciàtela! Lasciàtela! Soldato ! Zi' Girolamo! Si udirono, e parve venissero dalla masseria, due colpi di fucile che rimbombarono nel silenzio, poi altri due, uno appresso all'altro ... Tutta la masseria era in rumore. Chi gridava di qua, chi domandava di là: - Che è stato? ... Ladri! Ladri! Soldato ! Massaio! - E strilli di donne. Il Soldato , che era uscito dalla stalla e ancora non si raccapezzava, udì tra gli ulivi lo scalpito di un quadrupede e poi, a cavallo della giumenta, vide Scurpiddu che agitava le gambe percuotendo i fianchi coi tacchi per farla andare di galoppo. - Eccola ... Sono scappati ... Ecco la giumenta! - gridava Scurpiddu , Dalla gioia, gli brillavano gli occhi su la faccia rossa, avvampata. - E se ti ammazzavano? - esclamò il Soldato aiutandolo a scendere di cavallo. Massaio Turi accorreva, vestito a metà, con lo schioppo in pugno, seguìto dalla massaia che voleva trattenerlo: - Lasciate andare, santo cristiano! E piangeva. Facevano crocchio gli uomini sbucati dal fienile dove dormivano insieme in quel tempo di aratura; parlavano tutti a una volta. E il Soldato , che voleva raccontar lui il fatto non riusciva a farsi ascoltare. Si udiva soltanto: - Col pericolo di farsi ammazzare! Ed era l'esclamazione ammirativa con cui egli s'interrompeva o ripigliava da capo. Gli pareva impossibile che Scurpiddu , quell'animuccia del Purgatorio, avesse potuto avere tanto coraggio e tanta audacia. Scurpiddu se ne stava zitto. Temeva che gli domandassero: - E tu che facevi là fuori, a mezzanotte?

ARABELLA

663052
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Dalla campagna non veniva che il rotolar sordo dei carri che battono la strada grossa, qualche abbaiare lontano di cani, due o tre volte il fischio del vapore della vicina stazione di Rogoredo. La notte era serena e scura, con un cielo gremito di stelle; per tutto un silenzio raccolto, entro il quale bisbigliava lo zampillo d'una bocca d'acqua che dava a bere ai prati. Arabella stava per chiudere la lettera, quando risonò improvvisamente un grido, che fece trasalire il cuore già gonfio e commosso. Pareva la voce della mamma. No, era ancora il piangere dolente di Bertino. Sente uno sbattere d'usci e gente che corre. Poi subito la voce di papà Botta che chiama: "Arabella!" Salta in piedi: "Che c'è?" "Vieni, io corro a cercare il dottore." E sente di nuovo il passo di papà Botta scendere la scala e correre attraverso i campi. "Che cosa c'è mamma?" Corse, entrò nella stanza della mamma e la trovò col bambino in braccio che si dibatteva in feroci convulsioni. La voce del piccino, dopo quel gran grido, usciva soffocata come un rantolo dalla gola e le manine annaspavano con violenza nell'aria, come se si sforzassero di togliere un laccio, lì alla gola. La povera mamma si era accorta da poco tempo che il suo Bertino moriva. Mezza svestita, coi capelli in disordine, bianca come la neve, non sapeva dir altro che: "Gesù, Gesù!" Arabella prese lei il bambino in braccio, spalancò la finestra e ve lo portò in maniera che la respirazione fu subito meno affannosa. Cercò coi diti di schiudere la piccola bocca inchiavata dalla convulsione; ma non poté. Finalmente venne il dottore, che giudicò un caso gravissimo di angina difterica. Bertino, un grassottello roseo, coi riccioli biondi, era il coccolo di tutti alle Cascine, e papà e mamma gli volevano bene anche per quest'ambizione. Ora papà pareva la morte in piedi, e la mamma, dopo aver brancolato un pezzo per la stanza senza conchiudere nulla, finì col cadere svenuta in mezzo alle donne. Il dottore non poté contare che sull'aiuto intelligente di Arabella, che tenne fermo il bimbo, mentre gli bruciavano in gola, soffocando nelle sue braccia i guizzi tremendi del povero angelo, resa forte del coraggio che la donna attinge alla pietà, fatta avveduta e intelligente da quella buona maestra, la natura, che mette nel cuore della donna ciò che la scienza non fa che confondere nei libri. Finita la crudele operazione, la sorella sedette accanto al lettuccio, dette delle ordinazioni, mandò via la gente, comandò che il bimbo fosse suo, notò i consigli del dottore e non si mosse più per ventiquattro ore da quel suo posto, finché durò la tremenda agonia, finché il piccino non ebbe dato l'ultimo respiro. Era la prima volta ch'essa vedeva soffrire a quel modo un'innocente creatura ed era il primo morto a cui chiudeva gli occhi; e le parve, attraverso i patimenti, di veder al di là, nel vasto mistero delle cose. Nella lunga veglia, nel faticoso sforzo dell'animo non sapeva a volte distinguere tra sé e la povera mamma, che andava e veniva come un fantasma. Era un patimento solo che stringeva due cuori; se non che la giovinezza e la baldanza delle forze facevano sentire alla figlia anche una superiorità morale, che la piegava a un senso di protezione verso la povera donna. Senza volerlo si sentì l'anima della casa. Si meravigliò di non aver conosciuto prima quel grande amore che la legava al fratellino, e contemplandolo spirato, provò lo strazio di chi si sente portar via il cuore. Qualche cosa d'irrigidito scioglievasi in lei. Non mai aveva abbracciato con tanta effusione d'affetto e di lagrime la sua povera mamma, che le ricordò nel suo sfasciamento la Madonna addolorata ai piedi della croce. E anche questa stessa pia tradizione di dolori sacri e adorati prese nel suo cuore un significato novissimo di verità, di umanità, di grandiosa comprensione, come se l'umanità saltasse fuori dalle venerate immaginette simboliche della via crucis. Nel dolore immenso conobbe l'amore, si sentì madre anche lei in qualche maniera dei piccini e dei grandi, e quando, dopo un sonno profondo di alcune ore, si risvegliò nella sua stanza e ritornò col pensiero alle cose di qua, le parve di aver fatto un lunghissimo viaggio. Rileggendo la lettera che aveva preparato per il suo patrigno, la trovò fredda e artificiale, e soffrì di non sentirla più come prima. Forse vi sono al mondo per una donna due sorta di vocazioni, di cui essa non aveva finora conosciuta che la più semplice. Nascose la lettera e rimandò la risoluzione del delicato problema a un altro momento. Continuamente ora avevano bisogno di lei. La mamma non faceva che piangere sul cadaverino e in quanto a papà Paolino metteva paura a vederlo. Lungo, scarno, col viso giallo, l'occhio itterico, i capelli irti come setole faceva e rifaceva quelle maledette scale, rispondendo a caso alle domande dei famigliari, alle consolazioni del curato, dimentico degli altri grossi dispiaceri, che per riguardo a questo si rassegnavano a tirarsi indietro. Arabella per mettere una nota di consolazione volle che il funerale del piccino fosse bello e gaio, come si usa in campagna cogli angioletti. Fece sonare a festa e mandò a raccogliere quanti fiori trovò. Preparò essa stessa la bara con molto verde e ordinò alle donne di condurre i bambini, di cui non c'è mai penuria, a ciascuno dei quali mise in mano un ramoscello di mirto. Tutti sentirono la seduzione di quei conforti, e quando il corteo si mosse sotto il sole d'una bella giornata di settembre e cominciò a sfilare lungo il canale pel viale dei salici che mena alla chiesa, tutti avevan gli occhi sopra la monachella, a cui dovevano l'edificazione commovente di quello spettacolo. Il funerale, al ponte, s'incontrò in una carrozza, che si tirò in disparte. Un vecchio signore e un elegante giovinotto saltarono dal legno e stettero col cappello in mano a veder sfilare la processione. Arabella, che veniva in coda alle bambine, credette di riconoscere il cavallo e il legno del signor Tognino e immaginò chi poteva essere il giovane robusto che era con lui. Il cuore, che aveva interamente dimenticato, balzò come al tocco d'uno spillo. Un profondo turbamento scosse il sangue. Il volto pallidissimo, stanco e sbattuto dalle lagrime, si accese improvvisamente d'una fiamma, che parve a chi la guardava dar fuoco ai sottili capelli biondi. Fu, quella la prima volta che Lorenzo Maccagno vide la figlia di Cesarino Pianelli.

Il cappello del prete

663103
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

La paura che gli aveva fatto quel maledetto cane col suo improvviso abbaiare era rimasta come un senso di acuta trafittura tra le costole a sinistra. Dopo tre quarti d'ora di buon viaggio giunse in vista della stazione. Traversando un passaggio della strada ferrata, chiese al cantoniere se c'era molto tempo alla corsa per Napoli. - Un'ora e mezzo, cacciatore - disse l'uomo, che stava aggiustando uno scarpino di ragazzo seduto su un tronco presso il casello, da dove usciva la voce di una donna e il pianto d'un bimbo. Un gran silenzio ed una gran pace regnava intorno a quella casupola, tuffata nel chiaror roseo del tramonto, in mezzo alla grande solitudine. - Come sono felici questi pitocchi! - pensò l'ultimo dei Santafusca. La schietta confidenza con cui Giorgio della Falda ed il casellante gli avevano parlato, credendolo uno dei loro, lo aveva avvicinato a un mondo che di solito egli guardava troppo dall'alto; voglio dire, al mondo dei bisogni semplici e degli affetti semplici della natura. Solo in questo terreno vergine cresce l'erba della felicità. - Come sono felici questi pitocchi! - tornò a pensare, mettendosi a sedere sopra il parapetto di un ponticello, che traversava un torrentaccio, lontano cento passi dalla stazione. Aveva un'ora e mezzo da far passare, e poiché il luogo era quasi disabitato, e nessuno lo conosceva, pensò se non era il momento di nascondere il maledetto cappello in qualche cespuglio, in modo da farne scomparire la traccia e l'ombra per sempre. Tirato da questo pensiero, si lasciò condurre da un sentieruolo verso alcuni boschetti bassi di nocciuoli, che andavano a finire in una deserta sodaglia, di un aspetto squallido e vulcanico. Pareva proprio il regno della morte. Non una casa, non un'anima viva per quanto girasse l'occhio intorno. - Come sono felici questi pitocchi! - tornò a ripetere per la terza volta e quasi per una forza meccanica della glottide, mentre l'occhio ed il pensiero andavano in cerca di una buca per seppellire ciò che sopravviveva di prete Cirillo. Dopo aver gironzolato un pezzo, si pose a sedere sopra un mucchio di pomici, da cui uscivano poche ginestre e per la prima volta sentí una grande stanchezza alle gambe. Era stata una grande giornata, e un gran viaggio: ma la vittoria era sua. E dire che questa visione gli era venuta in un sogno! Aveva dunque ragione prete Cirillo di credere ai sogni. Se non fosse stato ridicolo d'ammettere certe ubbíe, c'era quasi da pensare che il suo prete gli avesse in sogno suggerito il pensiero di andare alla Falda. Non gli aveva promesso un giorno prete Cirillo di salvargli l'anima e il corpo? Le anime dei morti non conservano rancore, e se prete Cirillo poteva dal mondo di là tirare un'anima di questo mondo al porto della salute, perché non l'avrebbe fatto? Anche lui, il prete, non era senza peccati e aveva bisogno forse di molto perdonare. Che cosa sappiamo, in nome di Dio, delle cose di questo e dell'altro mondo? In tutto ciò che era accaduto intorno a lui non era egli quasi trascinato per necessità a credere alla forza di una pietosa provvidenza, che conduce le cose con una precisione meravigliosa? Il sole dalla linea bassa dell'orizzonte proiettava le ombre degli arbusti sul terreno arsiccio. Un gran cielo biancastro, troppo pieno di luce, ricopriva il vasto piano per cui si raggirava il nostro cacciatore in cerca di una buca. Ma non si trovavano buche già fatte, e quella sodaglia era troppo aperta, perché un uomo potesse scavarne una senza dare sospetto a qualcheduno. C'era anche troppo cielo di sopra. Visto un fossatello in cui stagnava ancora della vecchia acqua piovana, si abbassò con tutta la persona, trasse il carniere davanti, girò l'occhio intorno... Ma non osò buttar via il carniere. L'ombra sua ingrandita dal sole cadente era un troppo noioso testimonio. Quando si alzò, gli parve d'essere divenuto grande come un gigante, e temette quasi di dar la testa nella vólta del cielo... Allora pensò che era piú sicuro andare a casa, rinchiudersi nella sua stanza, tagliuzzare e distruggere a poco a poco questa noiosa reliquia. Si rimise in cammino, tornò sulla strada, fino al casello, raggiunse la piccola stazione, e quando arrivò il treno, saltò in un vagone di terza classe, contento di viaggiare coi buoni figli del popolo, tra cui trovò chi gli parlò a lungo di cani, di beccacce e di allodole. Nella dimestichezza col popolo, egli perdeva di vista il barone, e sentiva nascere la compiacenza di essere un cacciatore come se ne danno tanti, reo soltanto d'aver ucciso della selvaggina; un buon uomo innocente insomma, che in un bicchier di vino e in una buona pipa mette tutto il problema dell'umana felicità. Arrivò a Napoli ch'era già buio, e ripiegò verso i sobborghi coll'idea di giungere al mare in qualche sito deserto. Piú volte si arrestò preso dalla tentazione di lasciar cadere carniere e cappello in uno di quei tanti canali di scolo che escono dalle case del popolo; ma anche qui pensò che poteva essere ripescato dai ragazzi, che guazzano nelle fogne come le rane nel pantano. Siccome "u prevete" aveva già creato a sé una piccola leggenda, bisognava evitare qualunque segno che potesse guidare la curiosità della gente sulle traccie del delitto. Anche il cappello aveva oramai la sua piccola leggenda. "U prevete" l'aveva pagato al cappellaio con un terno, che uscí tutto; ne aveva parlato tutta la città; tutti i gìornali vi avevano ricamati sopra i loro commenti: l'oste del "Vesuvio" l'aveva portato alla Falda in un sacco, poi l'aveva dato a un cacciatore... Alla Falda l'aneddoto del cappello doveva ora divertire i buoni avventori dell'osteria del "Vesuvio". Occorreva dunque la massima prudenza per non richiamare l'attenzione di nessuno su questo cencio mortuario che aveva in sé tanta forza di vita. Per Dio, pareva che lo spirito del prete vi si dibattesse dentro con impeti e convulsioni di uccellaccio agonizzante. Non l'avrebbe seppellito, nemmeno nella sabbia del mare, dove vanno i ragazzi a cercare nicchi e coralli. Non si poteva pensare nemmeno a bruciarlo. Come si fa un falò in mezzo alla via? Per il diavolo! era stato meno difficile sbarazzarsi del prete... "U barone" sentiva che la materia è dura, indistruttibile, mentre un uomo si spegne come a soffiare sopra una candela. Gli tornarono in mente molti aforismi del celebre dottor Panterre su questo argomento, mentre camminava nel buio, gesticolando come un forsennato, tra le ultime case dei pescatori lungo la marina. La difficoltà dell'impresa, la stanchezza del viaggio, il tedio che gli dava quel cappellaccio co' suoi impeti e col continuo battere sui fianchi in un rumore di noce fessa, tutto ciò misto alla paura delle ombre finí coll'irritare un uomo che nel buio, nel deserto, nella quiete profonda della notte sentiva troppo sé stesso. E si sarebbe forse buttato in mezzo alla via affranto e nauseato, se, uscendo da un vicoletto, non si fosse trovato davanti tutto il mare, con una immensa spiaggia aperta e deserta, colla sua bell'onda grossa e sbuffante, che veniva faticosamente sul lido e qui si scioglieva fremendo sulla ghiaia in un lieto bisbiglio di spume. A sinistra Napoli splendeva di mille lumi; nella notte mandava un ampio bagliore al cielo. La notte era chiusa, senza vento, senza stelle, e pareva fatta per un delitto. Dieci o dodici passi avanti c'era un piccolo promontorio di neri scogli e di ciottoli che si protendevano nell'acqua. "U barone" fu guidato da una mano invisibile (alla quale cominciava a credere fin troppo) verso gli scogli, e vi trovò una barcaccia da pesca coi remi dentro, legata a un masso con una catena e riparata dai flutti. Non c'era intorno anima viva. Entrò nella barca, la sciolse, prese i remi, e pigliato il momento che l'onda torna indietro, con quattro colpi si trovò al largo, avvolto nelle fitte tenebre, solo, tra un mare nero e un cielo nero, dimenticato da tutti, diviso dalla morte da sole quattro assicelle tarlate. Egli aveva data una grande battaglia alla natura, che inutilmente l'aveva fatto inseguire dai suoi fantasmi. Finalmente l'uomo forte e prudente l'aveva vinta! Socchiudendo gli occhi, come se avesse paura di vedere un capo di morto, cacciò le mani nel carniere, sentí il suo cappello, lo trasse fuori, buttò il carniere nel fondo della barca, con una cinghia legò il cappello stretto stretto al fucile, e ridendo gelidamente nel buio, tuffò il fucile nell'acqua, fino alla bocca, compiacendosi di tenerlo un momento nel pugno per assaporare piú lentamente il suo trionfo... poi aprí la mano. Il fucile e il cappello, precipitando senza rumore, si perdettero negli oscuri abissi del mare. - Ecco fatto, prete! - disse a voce alta "u barone" ridestando un piccolo suono nascosto tra gli scogli. Pareva che il prete rispondesse: amen. Un'ora dopo sotto un torrente di poggia "u barone" rientrava in città. Andò a casa difilato, si spogliò degli abiti da cacciatore, si cacciò nel letto e si addormentò di un sonno greve e senza pensieri. Ne aveva bisogno. La giornata era stata lunga e piena di scosse. Si sentiva le ossa fracassate, l'anima affranta: e dormí profondamente sulla sua vittoria. La mattina seguente, mentre sua eccellenza dormiva ancora profondamente sulla sua vittoria, i ragazzi strilloni correvano per le vie di Napoli a gridare coi foglietti in mano: - "U cappiello du prevete". - Grande scoperta, il cappello del prete. - "U cappiello du prevete Cirillo". - A un soldo il cappello del prete. La gente, specialmente il popolino, comperava i foglietti, e innanzi agli acquaioli e ai caffeucci si formavano dei crocchi. Uno leggeva e gli altri ascoltavano, e tutti ripetevano poi la storia del cappello arrivato a Filippino dentro una scatola, con quella naturale immaginazione della gente fantastica, che quando trova un bel caso vero, cerca di consolarsi in qualche maniera del dispiacere di non averlo inventato.

Demetrio Pianelli

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De Marchi, Emilio 3 occorrenze

Il macellaio, un giovinotto tarchiato e forte come un toro, prese in braccio Giovedí, che seguitava ad abbaiare contro l'uscio, con una mano gli strinse il muso per farlo tacere e se lo portò via. La povera bestia si dibatteva nelle strette come un'anguilla. Il Berretta stava facendomi vedere la mano con cui aveva aiutato a distaccare il morto, che teneva aperta in aria, lontana dal corpo, come se non fosse piú sua, quando sopraggiunse il signor Demetrio. Era la prima volta che vedevo questo bravo signore, che non somigliava per nulla a suo fratello, non tanto per esser egli piú vecchio, quanto per la espressione, per il colorito del viso e per il modo di vestire. Mentre Cesarino era ciò che dicesi a Milano una cartina , di pelle fina e bianca, sempre elegante, pulito e aristocratico, questo signor Demetrio aveva all'incontro l'aria di un vecchio fabbro vestito coi panni della festa. La pelle era cotta dal sole, rugosa: la fronte bassa coperta dai capelli, che uscivano quasi a foggia di un tettuccio, di un colore rossiccio e duri come lesine, com'erano i baffi duri e rasati, che coprivano un poco il labbro. Nelle orecchie arricciate come frasche di cavoli, qua e là rosicchiate dal gelo, portava anellini d'oro secondo il costume dei contadini della Bassa Lombardia, che credono con ciò di evitare il mal d'occhi. Scarso di parole, dalle poche sillabe che ci scambiammo a' piedi della scala, mi accorsi che stentava a metter fuori certe consonanti. "Dov'è?" chiese con gli occhi gonfi, perduti nel vuoto. "Importa che in casa non sappiano nulla, se si può. Povera gente!" gli dissi. Facemmo i quattro passi che conducevano alla scuderia. Lungo il muro, tra le ruote di una carrozza c'era una stuoia stesa sul selciato, dalla quale uscivano due scarpette lucide da ballo. Non osammo varcare la soglia. Col capo basso e col cuore pieno dei mille pensieri, che ispira sempre la vista d'un cadavere, si stava lí come impauriti, quando un rumoroso battere di pantofolette chiamò la mia attenzione e mi fece guardare in su. Arabella, coi capelli sciolti, uscita sul terrazzino verso corte, batteva nell'aria le scarpette da ballo della mamma, canticchiando nella chiara allegria di una fresca mattina di marzo. E rientrò canticchiando. "Che cosa si può fare per ingannare la famiglia?" chiesi commosso al signor Demetrio. Egli guardò a destra, a sinistra, in terra, nei cantucci della corte, come se cercasse quel che si doveva fare. Siccome Cesarino aveva detto che non sarebbe tornato per tutto il giorno, cosí c'era tempo di preparare una pietosa bugia. Poi si sarebbe fatto credere a' suoi che un male improvviso, una congestione, un gran freddo, l'avevano portato via. Il signor Demetrio a questa mia idea disse di sí col capo. Di suo soggiunse: "Si potrebbero mandare alle Cascine." Entrarono i portantini dell'Ospedale che i casigliani avevano fatto venire, posero il morto nella barella, calarono le tendine e, preceduti dalle guardie, con dietro una processione di gente, presero la via Torino verso l'Ospedale. Il giorno dopo, un'ora prima di sera, una carrozza funebre fatta come una scatola, tirata da un cavallo nero, usciva dalla porta dell'Ospedale Maggiore, quella che dà sul Naviglio, e, disceso il ponte, si avviava lentamente per la strada deserta di San Barnaba verso il bastione, e verso il vecchio cimitero di Porta Vittoria, detto il Foppone . Piovigginava. Dietro la carrozza, che lagrimava nero, coperto, quasi sepolto da un grande ombrello, cinque o sei passi lontano, come se avesse vergogna di farsi vedere, veniva Demetrio. Non un prete davanti; non un amico intorno. S'era fatto di tutto per portar via il suicida in segretezza, nell'ora che gli amici vanno a pranzo. I giornali, tranne uno, avevan taciuto la cosa e non era stato nemmeno impossibile di far credere a Beatrice e ad Arabella che la morte fosse conseguenza di una sincope, di una congestione. Cesarino andava soggetto a forti mali di capo: gli strapazzi del carnevale, il correre, l'affannarsi, l'agonia di un vecchio amico ... Insomma un po' per uno, coll'eloquenza che in queste circostanze la carità spontaneamente suggerisce, si diede alla povera donna la tremenda notizia, vestita alla meglio di una santa bugia; e fatta venire una carrozza, Demetrio, colle belle e colle buone riuscí a condurre la vedova e i ragazzi, piú storditi che persuasi, alle Cascine Boazze, in casa di un parente. Egli tornò subito a Milano. Ora cogli occhi fissi al cerchio della ruota che girava innanzi a lui, dopo due giorni di corsa, di affanno, di stordimento, cominciava a riordinare un poco la matassa arruffata de' suoi pensieri. Era un sogno doloroso da cui non poteva svegliarsi. Colle tristezze nuove si mescolavano le reminiscenze vecchie della sua vita passata, i dissidî domestici, i lunghi guai che lo avevano diviso da suo fratello. Demetrio era nato dalla prima moglie di Vincenzo Pianelli, un buon affittaiuolo per il tempo suo, finché durò la fortuna, ma un uomo assolutamente incapace di resistere ai tempi difficili che vennero poi. Finché visse la mamma di Demetrio, tanto tanto il buon senso naturale di questa donna e il suo grande spirito di economia avevano aiutato a tenere insieme la barca; ma quando, morta lei, pà Vincenzo fece la sciocchezza di sposare un'altra donna, piú giovane di lui una ventina d'anni, addio buon senso, addio economia! La sposina, colla testa piena di farfalle, aveva sposato il vecchio Vincenzo colla speranza di fare un gran partito e portò in casa il lusso, la voglia di spendere, il gusto dei cappellini, dei vestiti di seta, mentre la prima moglie, povera donna, s'era sempre contentata di vestire di lana e di cotone e non aveva messe le scarpe di pezza che due o tre volte in tutta la sua vita. Vincenzo, che aveva allora in affitto un grosso fondo su quel di San Donato, si accorse subito che la barca cominciava a far acqua da tutte le parti; ma era tanto innamorato della sua Angiolina, che non sapeva dir di no, le andava dietro ogni passo, come un cagnolino, e si istupidiva a poco a poco in estasi a contemplarla, quasi che la vecchia Teresa, che ora dormiva in un cantuccio del camposanto e che aveva lavorato tanti anni per lui, non fosse mai esistita. Dopo nove mesi di quel nuovo matrimonio, nacque Cesarino, e il figlio della povera Teresa cadde, come si dice, dallo scanno. Cesarino divenne l'idolo di pà Vincenzo. Per lui ci volle una balia fatta venire apposta da Varallo Pombia, che son cosí belle e famose, e cosí furono risparmiate le fresche bellezze della mammina. Padrino al battesimo fu il cavaliere Menorini, ragioniere e amministratore dei Luoghi Pii, che aveva sempre mostrato per l'Angiolina una speciale tenerezza. Per Cesarino furono tutte le carezze, tutte le speranze. Demetrio, che aveva già dieci o dodici anni, abbandonato all'educazione dei bifolchi e dei famigli, crebbe come si può crescere tra le vacche e i cavalli. Fu un miracolo se imparò a leggere e a scrivere. Man mano che Cesarino diventava grande, crescevano ancora le differenze. A sentire il pà, egli solo aveva ereditato tutto il talento di casa Pianelli; egli doveva fare il dottore o l'avvocato. Appena ebbe raggiunta l'età, fu collocato a Milano, nel collegio Calchi-Taeggi; mentre Demetrio, dopo essere stato qualche anno a Lodi presso un ragioniere a imparare quattro conti, fu presto richiamato a casa a sopraintendere alla stalla delle vacche e alla "casera" del formaggio. Solamente nelle vacanze Cesarino passava qualche dí a casa. Tutto lindo e ripicchiato nella sua divisa di panno nero coi bottoni d'argento e coi ricami d'oro, coi ricciolini pettinati e scompartiti sulla fronte, s'imbatteva in Demetrio che usciva dallo stallone, colle gambe nude fino al ginocchio, i piedi in grossi zoccoli di legno, con in mano una forcona, col corpo sordido e pregno di quel grasso odore che stilla dai letti marci. Era un miracolo se questi due fratelli, incontrandosi, si dicevano un "ciao" a mezza bocca. Stavano a guardarsi un istante, sorpresi, quasi meravigliati l'uno dell'altro, e si voltavano le spalle. Per fortuna alla cascina Cesarino si fermava poco, perché il resto delle vacanze andava a passarlo colla mammina sul lago di Como. La bella Angiolina dopo otto anni di matrimonio, presa dalla malaria, curata male, morí in preda a una terribile febbre d'infezione. Pà Vincenzo rimase indietro piú stupido e piú rovinato di prima. Cominciarono i sequestri: l'Ospedale diede la disdetta d'affitto, e da padroni i Pianelli divennero servitori. Quando sarebbe toccato anche a Cesarino di dare una mano a salvare la casa che barcollava, sempre per consiglio del cavalier Menorini, fu collocato in un battaglione d'istruzione, da dove uscí col grado di caporale maggiore. Poi scoppiò la guerra del '66 e addio casa! Il peso dei debiti, dei protesti, dei sequestri, del padre vecchio, malato, rimbambito, cadde di nuovo sulle spalle del povero bifolco, che non per nulla era nato prima. Mentre la casa si sfasciava da tutte le parti, era bello (bello, per modo di dire) vedere il vecchio pà Vincenzo seduto fuori dell'uscio, al sole, colla bocca aperta, con una berretta di maglia a righe rosse in capo, col fiocchino ritto come si dipinge la fiamma dello spirito santo, le mani sulle ginocchia, gli occhi perduti nell'aria e nel verde pacifico dei prati, in mezzo a un milione di mosche che se lo mangiavano vivo. Demetrio vendette il canterano di maggiolino della sua mamma e coi quattro stracci si ridusse a Milano, dove un suo zio prete, don Giosuè Pianelli, canonico in Duomo, gli procurò un posto provvisorio di scrivano nella cancelleria della Curia arcivescovile. C'era appena di non morir di fame, anche dopo aver venduto tutto ciò che s'era potuto sottrarre alle mani del fisco. A Milano il vecchio Pianelli trovò, se non altro, meno mosche. Tirarono innanzi tre anni, campando colla misericordia di Dio, su qualche ultimo boccone della dote di mamma Teresa, finché non piacque al Dio delle misericordie di chiamare pà Vincenzo in paradiso a trovare la sua bella Angiolina. Quando si trattò di farlo portar via, Demetrio, non sapendo a che santo ricorrere, andò a trovare lo zio prete, un brontolone sempre in collera, che gli prestò cinquantasette lire dietro regolare ricevuta. Demetrio non aveva voluto ascoltare il consiglio di don Giosuè e mandare il vecchio all'Ospedale: cosí gli toccarono in corpo anche le spese del funerale. Eran cose passate da un pezzo: ma queste memorie ripassavano ora davanti agli occhi di Demetrio, come se la ruota della carrozza, girando, ne svolgesse il filo. Né i guai finiron lí. Cesarino, che si trovava in quel tempo a Palermo, scrisse subito a Demetrio per chiedergli i conti ed i residui della sua parte patrimoniale. E a lui di rimando il fratello rispose che il padre era stato sepolto con le cinquantasette lire prestate dallo zio prete; che di roba non c'era piú l'ombra; che le spese di malattia le aveva pagate lui; che era ridicolo parlar di conti e di residui. Cesarino tornò a scrivere che sua madre Angiolina aveva portato cinquemila lire di dote e che, se egli era stato tanto buono e rassegnato finora a non domandare i conti, ora, sul punto di lasciare il servizio militare per farsi una carriera, non poteva piú trascurare i suoi diritti. Demetrio tornò a rispondere al signor sergente- furiere ch'egli non sapeva nulla di dote; che se anche c'erano state le cinquemila lire, il fallimento se l'era mangiate. Venisse e vedesse che cosa era rimasto di casa Pianelli. Il contrasto si fece ancora piú vivo, allorché Cesarino, lasciato il servizio, venne a Milano in cerca d'un impiego. La sua grande aria di superiorità, resa ancor piú altera e imponente da un certo piglio soldatesco, cominciò ad irritare fin dal principio il fratello bifolco, che aveva sul libro vecchio della memoria tutti gli arretrati delle passate mortificazioni. Poiché non c'era piú né babbo né mamma, disse al sor sergente piú d'una verità che gli stava da un pezzo in gola, senza troppo condirla. Cesarino, già fin d'allora molto lord Cosmetico rispose con un risolino ironico di schifo e con un proverbio del paese, che tradotto in lingua povera veniva quasi a dire: da una zucca non può nascere che una zucca. A questa ingiuria, che andava a colpire la santa memoria di sua madre, Demetrio chiuse l'uscio sul muso all'ex-sergente, e da quel dí — cioè da dieci o dodici anni in qua — non si eran parlati, non si eran guardati piú in viso. Demetrio sollevò un momento gli occhi alla cassa e si sforzò di perdonare sinceramente a quel poverino. La morte paga tutti i debiti: cioè non tutti ... pur troppo ... Pur troppo eran passati gli anni, durante i quali Demetrio, lasciato l'impiego provvisorio della Curia, era entrato col grado di terzo bollatore all'ufficio del Bollo straordinario, collo stipendio di mille e trecento lire: poi, per speciale protezione del cavalier Balzalotti, era stato assunto al grado di commesso gerente in uno dei tanti uffici del registro con cento lire di aumento. Cesarino, sempre coll'aiuto e colle raccomandazioni del vecchio cavalier Menorini, col suo bel congedo in regola e colle sue medaglie commemorative, non stentò a trovare un impiego. Entrò dapprima nel personale viaggiante delle Poste sui battelli a vapore del lago di Como; poi ottenne un posto di ufficiale a Melegnano, dove fece conoscenza coi Chiesa, e dopo qualche anno venne traslocato a una Sezione dei vaglia a Milano, con lo stipendio di duemilacinquecento lire. Cosí egli dimostrò a suo fratello bifolco che un uomo di spirito non ha bisogno della carità di nessuno. Con duemilacinquecento lire, un bell'uomo, di talento, elegante, un regio impiegato, educato in un collegio, poteva aspirare a un bel matrimonio ... Non passò molto che una bella domenica Milano poté contemplare sul Corso lord Cosmetico che dava il braccio alla sposa vestita in gran lusso d'un abito di seta color tortorella e in testa un cappellino bianco a piume che si poteva vedere da Monza. Beatrice Chiesa doveva portare nel grembiale quarantamila lire di dote, oltre alle prerogative di una solida salute e di una bellezza senza risparmio. Ma al momento di sborsare i soldi il sor Isidoro non mise fuori che tre o quattromila lire, riservandosi con un'obbligazione di pagare gl'interessi sul resto. Di queste tre o quattromila lire la maggior parte era in corredo di biancheria, il vecchio fondo delle guardarobe di casa Chiesa, cioè piú distintamente ottantaquattro camicie da donna di tela nostrale fabbricata in casa fin dai tempi dei bisnonni (roba che adesso non si fabbrica piú cosí buona); centoventi paia di calze di filo, tutta roba anche questa nata e preparata in casa; venticinque tovaglie grandi, quasi nuove, per trenta persone, che avevano servito qualche volta ai grandi pranzi di casa Chiesa, e piú di duecento tovagliolini di tela eguale, ben grandi da imbacuccare un uomo; quattro dozzine di lenzuola di tela nostrale del 1840 e una grande quantità di foderette e di asciugamani. I coniugi Pianelli menarono subito una vita in grande. Non si nasce lord Cosmetico senza avere il gusto delle belle cose e non si sposa una bella donna senza il desiderio di comparire e di farla comparire. Già il primo anno si cominciò a spendere senza giudizio, dando fondo a quel migliaio di lire che il babbo aveva anticipato sulla dote. In casa Pianelli non si conoscevano le famose grettezze di mamma Teresa, che metteva in disparte i gusci e i mezzi solfanelli! A desinare erano sempre due piatti con frutta e dolci: a colazione si beveva fior di vin di Marsala: la sera si passava al Caffè Biffi, in Galleria, o ai giardini pubblici, o a teatro. D'autunno o era un viaggio sui laghi o un mese di campagna a Erba o a Besana Brianza ... E per questa strada il povero Cesarino aveva finito coll'andare in carrozza. "Eccola qui la carrozza!" mormorò Demetrio, alzando di nuovo gli occhi sul carro funebre, che, passata la chiesetta di San Barnaba, infilava l'altra via quasi deserta della Pace. Ma di tutto questo che colpa avevano quei poveri figliuoli? È vero ch'egli avrebbe potuto stringersi nelle spalle, lavarsene le mani e fingere di non conoscere nessuno; ma son cose che si dicono. C'era di mezzo il nome della famiglia, c'erano di mezzo gli innocenti e non è religione solamente il sentire la messa la festa e il confessarsi a Pasqua. E, come se questi pensieri gli cadessero addosso insieme all'acqua che veniva dal cielo, Demetrio andava rannicchiandosi sotto l'ombrello, mentre la carrozza, passata la Rotonda dei Cronici, entrava nel terreno molle e fangoso del bastione. Sí, una grande responsabilità gli cadeva sul capo! Era proprio necessario ch'egli accettasse questa dolorosa eredità senza qualche beneficio d'inventario? Come poteva colle sue millequattrocento lire all'anno pensare alla vedova e a tre figliuoli? La lettera di Cesarino, che egli andava rotolando in fondo alla tasca del suo paltò, parlava di un grosso debito di mille lire verso il signor Martini ... Grazie! Eppure se c'era un debito sacro era questo, nel quale era compromesso l'onore di tutta la famiglia e la memoria di un povero padre. Nella sua lettera arida, scritta sul tamburo della disperazione, Cesarino parlava di diritti a pensione, e della dote di sua moglie; ma alla Posta non riconoscevano questi diritti, e in quanto alla dote di Beatrice, chi conosceva il signor Isidoro Chiesa, sapeva che il buon uomo non aveva di grande che la blatera e la presunzione ... Ecco come uno va fuori dei fastidi e vi lascia dentro chi resta. Come se di impicci e di strozzamenti non ne avesse avuti abbastanza in tutta la sua vita! Come se, per non averne piú, egli non avesse giurato di morir solo e vivere intanto nel suo guscio, in una soffitta sopra le tegole, lontano dagli uomini e dalle donne. La carrozza funebre svoltò un'altra volta e uscí da Porta Vittoria. Dopo le ultime case del sobborgo, laggiú, presso il vecchio forte militare, la strada si fece piú molle e fangosa. Da lontano, dietro gli alberi umidi e grondanti di pioggia, venivano sopra gli umidi sbuffi d'un vento gelato i tocchi d'una campana, forse da Calvairate. Il luogo non è mai bello per sé con quelle siepi mozze, con quella lunga cinta di camposanto che si accompagna alla strada, con quell'acqua morta che inverdisce nei fossi. C'era di piú l'ora bigia e triste e la giornataccia che andava oscurandosi nella nebbia della bassa pianura. Di tristezza traboccò anche il cuore di Demetrio, che, dopo due giorni di scosse e di irritazione, nel punto che tiravano Cesarino dal carro, sentí al disotto dei vecchi rancori irrugginiti agitarsi un sentimento molle e fraterno di carità e di compassione. Povero figliuolo, povero martire ... , cosí giovane ... , andava ripetendo una voce in fondo al cuore, al disotto di quel gran mucchio di reminiscenze dolorose e cattive che pesavano sulla coscienza come un sacco di chiodi pungenti. Due lagrime dure spuntarono nell'angolo degli occhi, stagnarono nella pupilla e gonfiarono la testa di vapori. I becchini, toltasi la bianca cassa di larice sulle spalle, si avviarono attraverso ai cumuli di terra per un campo melmoso sotto la pioggerella. Demetrio li seguí. Stette a vedere la cassa scomparire nella buca, sentí la terra molle cadere sul legno. Data una robusta scossa ai pensieri che gli tiravano il capo sul petto, disse con un sospiro: Amen . Ritornò in città ch'era già buio, senza mai accorgersi che dietro di lui, col muso basso, camminava un cane. Traversò strade, stradette, piazze e vicoletti col suo passo pesante di bifolco, crollando di tanto in tanto la testa come un cavallo stanco di portare il basto. Giunse in San Clemente, e, nell'androne buio della porta, sentí una voce che lo chiamava per nome. "Che cosa c'è ancora?" esclamò con un fare di uomo seccato. "Sono dell'Ospedale. Ho portato i vestiti e le scarpe del defunto. Se il signore volesse favorire la sua buona grazia ... " Demetrio masticò tre o quattro parole senza senso, si tirò verso la porta, e, al lume del lampione a gas, guardò nel borsellino. " L'hoo propi miss in la cassa come on bombon " continuò la voce dell'uomo che parlava nel buio. Bisognò dare una lira anche a costui.

Giovedí, interpretando secondo il proprio cuore le parole brontolate dallo zio, si pose ad abbaiare. Era l'unico mezzo datogli dalla natura per commuovere l'animo della gente. "Crepa!" disse Demetrio. " Beb! " abbaiò di nuovo il cagnetto, ponendo le zampe sporche sui pochi calzoni dello zio e mostrando in una doppia fila tutti i suoi denti bianchissimi. "Scoppia in mezzo, cane del diavolo!" brontolò di nuovo Demetrio, schiaffeggiandogli il muso col fazzoletto di cotone turchino, che adoperò per ripulirsi le ginocchia. In quel momento l'uscio si aprí e comparve madama, in una grande vestaglia bianca di flanella. Demetrio si agitò, si alzò un poco, tornò a sedere, chinò gli occhi sul tappeto e balbettò un "riverisco" quasi inintelligibile. Anche Beatrice si sentiva confusa e imbarazzata di trovarsi a tu per tu con quel famoso cognato, che Cesarino aveva sempre dipinto come un orsacchiotto, un intollerante bigotto, molto abile nel far scomparire le mila lire. Nei pochi giorni ch'era stata alle Cascine, aveva ricevuto una visita del papà, il sor Isidoro di Melegnano, che la mise in guardia e le comandò di non fidarsi troppo dei raggiri di suo cognato. Si può pensare se con questi precedenti ella potesse fargli una grande accoglienza. Demetrio, dal canto suo, persuaso per esperienza che la bellissima donna era una testa d'oca, che aveva aiutato a spingere Cesarino sull'orlo del precipizio, impacciato per indole e per abitudine a trattare colle donne, non sapendo da che parte cominciare, passò due o tre volte il fazzoletto sugli occhi e sotto il naso e finalmente domandò: "Come sta Paolino?" "Sta bene e mi ha detto di salutarvi." "Sta bene anche la Carolina?" "Sí, sta bene anche lei." "Mi avete fatto chiamare?" "Son tornata ieri e non ho nessuno a Milano, in questo momento. Non è nemmeno venuta la Cherubina, stamattina. Volevo far avvisare l'Elisa sarta che siamo tornate e ordinare i vestiti di lutto. Nella confusione non ho avuto tempo di pensare a nulla, e ho dovuto farmi prestare qualche fazzoletto nero dalla Carolina." "I vestiti di lutto li avete già ordinati?" "Non ancora, sicuro. Non potrei mettere il piede fuori dell'uscio." "Scu ... scusate" riprese con un tremito nervoso Demetrio, "e questi vestiti sono proprio ne ... ne ... nec ... essari?" Beatrice lo guardò con aria stupefatta, come se avesse domandato se è proprio necessaria l'aria per vivere. "Dico questo perché è una spesa ... e se si potesse risparmiare qualche spesa." "Come, risparmiare? che cosa direbbe la gente?" "Certo fu una disgrazia, e voi avete il dovere di piangere quel povero uomo; ma di spese ce ne son già troppe ... ." "Prendete un caffè, Demetrio?" interruppe Beatrice. "Grazie, non ne piglio mai!" rispose bruscamente il cognato, che, continuando il discorso di prima, soggiunse: "Mi sono spaventato, cara voi." "Di che cosa?" "Dello stato delle cose. Non c'è piú stipendio, non c'è diritto a pensione, e ci saranno a quest'ora quasi seimila lire di debiti." "Non è possibile ... " disse freddamente e con un leggiero sorriso ironico Beatrice, per fargli capire che non era disposta a lasciarsi abbindolare. Demetrio, a questa risposta cosí fredda e categorica, alzò gli occhi e li fissò un istante in viso alla sua cara cognata, contraendo le labbra a un tremito nervoso, che pareva un sorriso sardonico. "Non è possibile" tornò a dire Beatrice nella sua matronale tranquillità. "Voi non siete obbligata forse a sa ... sapere e siete da compatire. Ma qui c'è un fascio di conti ... Cesarino aveva le idee troppo grandi." "Bel capitale! Bisognava vivere con decoro, si sa." "Lasciamo il decoro, per carità!" "Si sa, un regio impiegato ... Non tutti possono rassegnarsi a vivere di pane di segale o di polenta ... ." "No, no ... che segale e che polenta! Adesso è morto e noi dobbiamo pregare per l'anima sua, ma vi confesso che sono spaventato. Ci sono tre semestri dell'affitto che bisogna pagare per la Pasqua, o il padrone mette il sequestro. C'è un vecchio conto dell'orefice Boffi, che mi ha portato lui stesso all'ufficio ... Aspettate; perché non diciate che invento tutto per il gusto d'inventare, ho portato con me tutte le pezze giustificative. Quando hanno saputo che Cesarino era morto e che io, suo fratello, m'incarico un poco delle faccende, i creditori si son mossi tutti come le mosche, se la pigliano con me, pretendono che io abbia a pagare ... Io? con che cosa pagare? e che c'entro io?" Demetrio, tratto il suo fascio di cartacce, sciolse lo spago che le legava insieme, e cominciò a spiegarle sulle ginocchia. "Arabella!" chiamò la voce chiara e argentina di Beatrice. "Che cosa vuoi, mamma?" dimandò la bambina, che stava fuori in sentinella. "Portami il caffè." Demetrio frugò un pezzo nella tasca di sotto e trasse l'astuccio degli occhiali. Ne uscí un paio con grosso cerchio d'osso ch'egli appoggiò alla punta del suo naso color patata, assicurando le grosse spranghette tra l'orecchio e il ciuffo rossiccio dei capelli. Inarcò le sopracciglia, e contraendo la pelle della bocca, come se provasse della nausea, cominciò a leggere sopra una pagina: "Ecco, Angelo Boffi, orefice e bigiottiere. Per braccialetto d'oro con zaffiro, lire 150 ... ." "È un braccialetto che Cesarino ha voluto regalarmi fin dal Natale dell'anno passato." "Fu pagato?" "Io credo di sí." "Il signor Boffi dice di no ... ." Beatrice cominciò a guardarsi intorno, come se cercasse un testimonio. Non vide che gli occhi amorosi di Giovedí, che la contemplavano con soave tenerezza. Vedere il povero cane e sentirsi tutta rimescolare fu un punto solo. Ruppe in un singhiozzo, stese le braccia alla bestia, che le saltò in grembo, e si rannicchiò a piangere anche lui. "Dove sei stato fin adesso? o povero Jeudi, o Jeudi ... dov'è il tuo padrone?" Giovedí rispondeva alla sua maniera, mugolando. Demetrio chinò il capo, lasciò cadere la mano sul ginocchio e aspettò che la padrona e il cane finissero di piangere. Cogli occhi fissi nel vuoto, il pover'uomo pensava al numero dei gradini che Beatrice doveva fare per discendere dal suo trono di cartapesta fino alla triste realtà, che la circondava da tutte le parti. "Non fu pagato questo, come non furono pagati gli altri" riprese a dire con un tono uguale e freddo, dopo un istante. "C'è qui un altro conto del signor Cena parrucchiere per ... per ... saponi e profumerie ... lire 56 ... Diavolo, questo non è nemmeno pane di segale." Beatrice arrossí, si rizzò sulla sua persona, e tornò a guardare il cognato orangoutan, con una espressione di sarcasmo e di paura. Demetrio, sempre a capo basso, col coraggio inesorabile e pietoso del chirurgo che opera sulla carne viva, scorrendo uno dopo l'altro quei benedetti conti, seguitò: "C'è un conto anche dal pizzicagnolo, circa duecento lire; c'è quello della sarta Schincardi, un'ottantina di lire anche qui. C'è persino un vecchio conto del pasticciere Dragoni, che risale nientemeno che al battesimo di Naldo e che non fu mai pagato. Anche questa non è polenta ... Conto del calzolaio Bianchi in lire ... cin ... cin ... quecento settantasei ... Una bagattella!.. Conto non quietanzato De Paoli per tap ... tappezzeria ... dice tappezzerie? duecento quarantacinque e settantanove c ... entesimi." Man mano che leggeva, la fronte del bifolco si rimpiccioliva nella contrazione delle ciglia in un gruppetto di grinze, sulle quali veniva a cadere a foggia di tettuccio il piovente duro e diritto dei capelli. Arabella entrò col vassoio del caffè e col bricco in mano. Con la prontezza della sua intelligenza essa aveva già capito che in quel suo zio ruvido e bifolco c'era l'angelo custode travestito da ortolano. La scomparsa improvvisa del papà, la fuga precipitosa, il modo misterioso in cui aveva sentito parlare alle Cascine, le poche frasi udite all'entrare in sala, avevano già detto alla povera tosetta che una grande disgrazia stava sulla sua casa e che forse lo zio Demetrio meritava di essere ascoltato. Dalla cucina veniva un gran chiasso di voci e un gran picchiamento. "Che fanno quei matti?" chiese Beatrice. "Dicono che hanno fame e picchiano sulla cassa della legna. Il lattivendolo non è venuto, e nemmeno il fornaio." "Hai mandato Ferruccio?" "Ma non c'è ... " rispose Arabella con una leggera impazienza, in cui si sentiva il tremito del pianto. "Bene; di' loro che stiano quieti che adesso vengo subito." "Settimo: Conto non quietanzato del farmacista ... ." "Scusate, Demetrio," interruppe questa volta con un atto d'impazienza Beatrice "io non so nulla di questi conti che dite voi ... ." "Non volete dire con ciò che me li invento io ... ." "Non sono in grado di dire se questi conti siano o non siano stati pagati. Lasciateli qui che li farò vedere a mio padre ... ." "Non cerco di meglio ... Ma non vorrei che questi poveri figliuoli andassero di mezzo. Pensiamoci, per carità. Tiriamo i remi in barca ... Che cosa può fare il signor Chiesa per voi e per la vostra famiglia?" "C'è ancora tutta la mia dote. Son quarantamila lire, non un quattrino. Vostro fratello non ha sposato una contessa, ma nemmeno la figlia della serva." "Può il signor Isidoro mantenere oggi le sue promesse?" "Adesso subito forse no, perché è in causa coll'Ospedale, ma fra sei mesi, fra un anno?" "Da quanti anni dura questa causa, lo sapete? quante volte fu già perduta? quante migliaia di lire furono sprecate in questa benedetta questione?" "Mio padre è un uomo di buona fede e trovò sempre degli avvocati di poca coscienza." "Lo so, non facciamoci illusioni ... ." "Che cosa volete dire? che debbo forse mandare i miei figliuoli a fare il ciabattino?" Beatrice aveva letto un romanzo, Lo Sparviero e la Colomba , in cui una giovine bella e ricca ereditiera lottava contro le insidie d'un gesuita che agognava alla sua eredità. Ebbene, le pareva il caso suo. "Per fortuna" pensava "so quel che vali! ma non ci riuscirai ... " E si sforzava, nella sua semplicità di spirito di reagire e di tirarsi su impettita con tutta la persona, come faceva nel suo palchetto quando il marito la conduceva al teatro Dal Verme. Demetrio sentí una gran tentazione di buttarle in viso i conti e di andarsene. Ma gli venne in mente il povero Cesarino disteso sotto una stuoia; gli venne in mente l'obbligo morale che egli si era assunto verso il Martini per salvare l'onore al nome dei Pianelli; gli risonò nell'orecchio la voce aspra del padrone di casa; sentiva nello stesso tempo il chiasso che facevano quei ragazzi di là, picchiando nella cassa della legna ... Pensò che il sor Isidoro era un pazzo, fallito dieci volte per la sua cocciutaggine nel far cause a tutto il mondo, e che sua cognata era una testa d'oca. Per tutte queste ragioni, dopo aver trangugiato molto fiele in silenzio, mentre Beatrice finiva di sorseggiare il suo caffè, rilegato collo spago il fascio dei conti, li collocò sul tavolino, e disse con un tono di voce in cui si sentiva lo sforzo di dominarsi: "Se io volevo dare qualche consiglio, prego mia cognata a credere che non lo facevo per mio interesse. Chiamato in un momento triste, io pensavo che fosse mio dovere di coscienza di mettervi al fatto dello stato delle cose: non vi ho detto tutto ... perché è inutile che sappiate tutto. Amen! Io vorrei vedere qui vostro padre in luogo mio a pagare questi conti; ma forse il signor Chiesa dirà che i vostri figliuoli portano il nome Pianelli e che non tocca a lui di salvarli dalla miseria e dalla fame ... ." "Che cosa dite?" esclamò Beatrice irritata. "Lasciatemi finire e poi vi toglierò l'incomodo per sempre. È inutile farsi delle illusioni. Voi non avete piú un soldo della vostra dote, non avrete un soldo di pensione e con sei o sette mila lire di debiti dovrete provvedere a voi e ai vostri figliuoli." Beatrice tornò a sorridere ironicamente. Il vecchio bifolco credeva forse che ella si lasciasse infinocchiare da queste declamazioni. Sbagliava di grosso. "Io ero venuto per dire che bisognava pensare seriamente, subito, radicalmente, ai casi nostri, o tanto vale prendere i ragazzi e mandarli a suonare l'organetto." "E che cosa bisognerebbe fare? sentiamo" provò a dire Beatrice con aria quasi di sfida. E intanto si paragonava nella sua mente alla gatta che difende i suoi piccini dalle unghie d'un brutto cagnaccio. "Punto primo, si cominci a vendere tutto quello che non è necessario." "Vendere!" esclamò Beatrice, spalancando tanto d'occhi. "Sí, vendere, o restituire quello che non si può pagare ... ." "Ah sí?" disse con un sorrisetto ironico la povera donna. "Punto secondo, bisogna restringersi nelle spese, lasciare le apparenze, non curarsi tanto della gente e rivoltare le maniche, come si dice ... " "Ah sí?" tornò a dire Beatrice, pallida, movendosi da una poltrona all'altra. "Non è il caso di mandare questi figliuoli a fare il ciabattino; ma certo saremmo tutti matti, se pensassimo di farne fuori degli avvocati. Via via, qui c'è della roba, voi avete portato della roba ... ." "Ah chiedo scusa!" interruppe questa volta Beatrice con un impeto straordinario di energia, "della roba mia la padrona sono io ... ." Demetrio, che nel calore e nello zelo del suo cuore s'era abbandonato quasi all'illusione d'essere arrivato a tempo a far del bene, a questa brusca interruzione, al modo obliquo con cui lo guardava la donna, capí di essere stato prevenuto. Perdette l'equilibrio, si scoraggiò, masticò ancora un fiume di cose amare, raccolse i suoi nervi, spianò le sue rughe irritate e con una voce che cercava d'essere fredda per non essere velenosa, soggiunse: "Scusate, questi debiti io non posso pagarli ... ." "Lo so, non è la prima volta che non potete pagare i vostri debiti ... ." Questa era la frase che il signor Isidoro aveva messa in bocca a sua figlia nel caso preveduto che Demetrio si fosse fatto avanti coi soliti raggiri, e alludeva alla famosa dote di mamma Angiolina. Demetrio ricevette il colpo in pieno petto, chiuse gli occhi, impallidí sotto la scorza dura e nera del suo viso color patata, mosse una mano quasi volesse col gesto aiutare la parola a venire fuori; ma un groppo di pianto stizzoso e furibondo lo strozzava alla gola ... Col dito secco segnò tre volte il fascio dei conti che lasciava sul tavolino, si rannicchiò nelle spalle, sempre con la bocca impiombata dall'ira e dal dolore, e uscí dalla saletta senza dir nulla. Un grimaldello non avrebbe potuto aprire quella sua bocca impiombata di dolore e di sdegno. Uscí, traversò la cucina, smarrito, mal pratico dell'appartamento, passò in mezzo ai due bimbi seminudi che picchiavano e strillavano di fame, e finalmente trovò l'uscio dell'anticamera. Fu un miracolo se si ricordò di prendere il cappello e il bastone. Fu pure un miracolo se non cadde dalla scala. Il Berretta lo chiamò di nuovo: "Ehi! ehi!" dal fondo dello stanzino. Ma egli non sentí o non volle sentire. Uscí; prese la strada a man destra verso il centro, non pensando nulla e non ripetendo nel fondo piú oscuro del suo pensiero che una parola sola: "Asino!" In questa parola, che rappresenta un animale sciocco e paziente, concentrava tutta l'ira, il dispetto, il dolore, la vergogna dell’offesa ricevuta, e la vergogna della sua incapacità morale. Per via Torino, San Giorgio, Zecca Vecchia, uscí al Bocchetto e andò in ufficio. Lavorò meccanicamente, come al solito, senza sbagliare, senza parlare; se non che, di tanto in tanto, come al girare di un quadrante, scoccava in lui quell'unica parola in cui era andata concentrandosi tutta la sua dialettica: "Asino!"

Da qualche tempo essa si preparava alla prima Comunione e il suo cuore era pieno di visioni: quando fu svegliata bruscamente da un forte abbaiare. Alzò un poco la testa, in preda ad uno strano spavento; portò la mano al cuore, dove sentiva uno schiacciamento come un chiodo premuto, girò gli occhi intorno. I vetri cominciavano ad imbianchire nella luce mattutina. Le campane di San Sisto sonavano l'Avemaria. Lasciò cadere ancora la testa, stanca del bel sonno della fanciullezza, e si addormentò un'altra volta. Il cane, colle quattro gambe tese rigidamente sugli scalini e col corpo quasi indurito dall'emozione seguitò un pezzo a urlare nell'ombra contro l'uscione aperto del solaio. Ficcava gli occhi nel buio della soffitta, ma non osava fare un passo né avanti, né indietro, come se, tranne la voce, la povera bestia fosse istecchita nelle sue costole.

Giacomo l'idealista

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De Marchi, Emilio 3 occorrenze

Blitz, che dormiva nella stalla, si risvegliò spaventato e cominciò ad abbaiare dietro l'uscio. In quel furioso esercizio del battere si sarebbe detto che il vecchio fornaciaio cercasse uno sfogo alle sue forze compresse, alla sua collera, alla sua sovraeccitazione; ma i figli, che sapevano come di solito andavano a finire queste frenesie (Mauro aveva avuto in sua vita qualche attacco epilettico), senza por tempo in mezzo, scesero in fretta le scale, coi lumi in mano, e furono intorno al disgraziato, che già colla bava alla bocca si rotolava nella polvere in preda a spaventevoli convulsioni. La povera Santina, che dormiva su brutti pensieri, saltò dal letto e si fece incontro sulla scala, pallida e come estenuata nella sua cuffia, invocando i nomi di Gesú, di Giuseppe e di Maria. Accorse anche Angiolino a piedi nudi, e tutti insieme sollevarono il corpo pesante del pà, che si dibatteva con stanchezza, Giacomo e Battista sorreggendolo per le spalle e per le braccia, la Lisa e Angiolino per le gambe, e, portatolo a gran fatica su per la stretta della piccola scala, lo distesero sul letto. Caduto l'accesso epilettico, il viso da infiammato e gonfio divenne subitamente bianco, floscio; la bocca si irrigidí in un sorriso che restò fisso in una smorfia sardonica e beffarda; il corpo divenne duro come un tronco. Gli occhi gonfiati dalla congestione fecero capire che un gran male scombussolava la vita; ma per quanti sforzi egli cercasse di fare, le labbra non poterono mandar fuori che dei suoni rotti. Era l'apoplessia. Mauro rimase sei o sette giorni in quello stato, spegnendosi a poco a poco senza parole, senza gemiti . Il dottor Brandati, chiamato in fretta, tentò tutti i mezzi e fece capire che soltanto un miracolo può risuscitare un morto. Per Giacomo e per i suoi fu una settimana di ansiosa e tormentosa agonia, durante la quale nessuno osò pensare ad altre cose che non fosse l'assistenza al malato. Quando Giacomo si accostava al letto, gli occhi del morente si facevano piú teneri ed espressivi, come se cercassero di penetrare e di parlare all'anima. Il figlio cercava di farsi interprete dei pensieri del padre e, seguendo i suggerimenti di quegli sguardi carezzevoli, andava dicendo: - Sí, pà, voi avete sempre lavorato con onestà, con giustizia, con timor di Dio, e Dio ve ne renderà merito. - Oppure: - Abbiate pazienza, perdonate a chi vi ha fatto del male. Il vostro nome è nelle nostre mani. Voi ci lasciate grandi e robusti, e non ci manca la buona volontà . Il vecchio moribondo si lasciava consolare da queste parole, che gli venivano dal suo Giacomo. Gli occhi pieni di pianto pareva rispondere: - Tu sei stato la mia consolazione, tu sarai la mia gloria. Tu devi stampare in qualche libro la storia dei tradimenti di cui fu vittima tuo padre. Il signor curato, che conosceva da trent'anni la coscienza del galantuomo, somministrò gli ultimi sacramenti e benedisse l'agonia. Mauro Lanzavecchia cadde in letargo e morí tranquillo, la vigilia stessa del giorno in cui la Gazzetta del Commercio stampava il suo fallimento.

Dopo quasi un'ora di non interrotto viaggio in cui poté piú di una volta abbandonarsi e dimenticare sé stessa nella successione rapida e luminosa di immagini lontane, che uscivano dal fondo scosso della memoria, cominciò a scorgere, nel bianco della strada, un gruppo di case, un villaggio, o un grosso cascinale da cui sentiva venire un abbaiare ingiurioso di cani, che si chiamavano nella notte. Stette un momento e si chiese se doveva aspettare e unirsi al carro che brontolava dietro di lei. Ma vinse quest'ultima incertezza con un senso crudele di disprezzo verso di sé. Se anche i cani uscivano a sbranarla, tanto meglio. Si affrettò a raggiungere le case, che dormivano tutte chiuse in una quiete che aveva un non so che di pensoso e di accigliato. Attraversò un grosso borgo passando prima davanti ai tarlati portoni dei cascinali, dietro i quali sentiva l'urlare e il raspare della bestia, poi davanti alle botteguccie chiuse e alla chiesa che dominava col vasto profilo nel vuoto d'una gran piazza deserta, non incontrando anima viva, cercando inutilmente coll'occhio una fessura, da dove uscisse un filo di luce. Dormivano tutti: i vecchi che hanno il sonno scarso, i giovani che portano a letto il corpo inquieto, i ragazzi che giocano anche in sogno; dormivano anche le povere mamme, che hanno i figli al camposanto; essa sola andava come un'anima in pena per le strade deserte a cercare qualche cosa che nemmeno il Signore le poteva dare. Non avrebbe domandato a Giacomo che una parola. Era persuaso della sua innocenza? bastava un suo sí, che fosse la convinzione in lui che in tutta questa disgrazia il suo amore, non solo non gli era mai venuto meno, ma non era stato toccato. Capiva che non poteva essere piú sua, ma l'essere abbandonata da lui non era nulla, se egli diceva di credere alla sua innocenza. Il suo amore gliel'aveva dato tutto e nessuno glielo poteva togliere. Questo pensiero le avrebbe infusa la forza di vivere in qualche maniera, lavorando, mendicando: nessuno, nemmeno il Signore, le poteva togliere l'orgoglio di essere stata amata da Giacomo. Ma se lui la cacciava via, se non la voleva vedere, oh allora, chi poteva assicurare della sua testa? E come se si spaventasse all'insorgere intempestivo di questa nera previsione, si fermò sui due piedi, strinse la testa nelle mani per aiutarsi con un atto vivace a non disperare, invocò tre volte il nome di Gesú, che aveva tanto patito anche Lui su questa terra; e per chiedere un aiuto a una sensazione esterna, che la sorreggesse in quel momento di vertigine, si voltò a cercare il suo carro. Ma la strada era vuota, immersa nella tristezza d'una nuvola che passava sulla luna. Forse il carro s'era fermato al borgo. Allora, per non lasciarsi prendere dallo scoraggiamento, corse con affannosa precipitazione fino allo svolto della strada, che cominciava a discendere e a penetrare in certe boscaglie tenebrose piene di una neve piú bianca, che copriva un terreno piú tormentato e mosso. Sentendo passar nelle ossa un brivido di freddo, si strinse lo scialle indosso, si coprí di nuovo la testa per schermirsi dalle minute goccioline d'acqua, che stillavano dai rami sotto le scosse del vento: e fatto il segno della croce, trasse la corona e incominciò a intonare il rosario con una voce sostenuta ch'essa ascoltava. La preghiera lunga ed uguale, che nel suo sonoro meccanismo par fatta apposta per condurre gli spiriti piú inerti verso una lontana e indeterminata speranza, dopo aver rimesso in movimento la sua volontà, segnando quasi la battuta dei passi, la sottrasse per qualche tempo alla sofferenza de' suoi pensieri; non cosí bene però che gli sgominati fantasmi, sospinti da una parte, non rientrassero a poco a poco da un'altra, insinuandosi tra le avemarie, intralciandone la seguenza, interrompendone la benefica energia, finché a poco a poco la parola le moriva sulle labbra, i passi si facevan piú piccoli e pigri, l'infelice, continuando a muoversi collo spirito, dimorava coi piedi nel mezzo della via, rivolta e intenta a cercare dietro di sé qualche cosa di cui aveva piú il desiderio che la memoria. Una volta la scosse da quest'attonita immobilità il vociare grosso d'un carrettiere, che svegliatosi all'improvviso arrestarsi della bestia, gridava con anima assonnata a quest'ombra, che gli impediva di passare. Celestina trasalí con un guizzo acuto di spasimo in tutti i muscoli, balzò in disparte, si rimbacuccò nello scialle e riprese a correre sull'orlo della strada. Camminò un'altra mezz'ora, concentrando gli sforzi mentali nel richiamare la memoria di un sito, il cui nome ora le sfuggiva, dove sapeva che si passa l'Adda. Nel disordine sparpagliato delle immagini, la risonanza confusa del nome d'Imbersago, dov'è il passo del fiume, serviva come di nucleo e di centro a' suoi pensieri dispersi, in mezzo ai quali passavano delle fosforescenze febbrili. Lasciò indietro altri casolari isolati, sparsi nella campagna dai quali non usciva un filo di luce. Sentí muggire dal fondo delle stalle: incontrò altri carri schierati che seguivano il passo affaticato delle bestie e mettevano dei cupi rumori nell'aria intirizzita e chiusa. Scivolò, passò via non avvertita dagli uomini, che dormivan sulle robe, sempre sostenuta dall'orgasmo febbrile, che la faceva sognare a occhi aperti, aprendole davanti delle prospettive luminose, in cui nereggiavano i camini e i tetti bassi delle Fornaci. In questa mèta, che essa fabbricava a sé stessa, la fantasia inferma andava collocando le figure del suo pensiero, in costruzioni false ed illogiche. - Che avrebbe detto donna Gesumina, quando entrando la mattina nella stanza della guardaroba, non l'avesse piú ritrovata seduta davanti al solito telaio? forse avrebbe fatto bene a lasciare una parola scritta in un biglietto: le due signore l'avevano sempre trattata bene; ma Giacomo avrebbe scritto meglio di lei per giustificare la sua fuga. Non c'era che Giacomo che poteva disporre di lei: essa era sempre stata sua fin dal giorno che lo zio Mauro l'aveva condotta alle Fornaci sulla timonella, dopo la morte della povera mamma Mariannina. Aveva allora poco piú di cinque anni. Lo zio Mauro, che durante il viaggio se l'era tenuta sul ginocchio, nel calarla dalla timonella, l'aveva collocata in braccio a Giacomo, che la portò subito in vignetta a vedere i conigli. Fu ancora lo zio Mauro, che per una sua idea cominciò fin d'allora a chiamarla "Frulin", un nome senza senso, che pareva averli tutti al suo orecchio, quando ricordava i bei giorni passati. La zia Santina volle subito indossarle una sottanina di lana d'un color rosso vivo,che spiccasse bene in mezzo all'erba, quando andava a correre nel prato, perché non v'era buco in cui "Frulin" non si cacciasse, tanto era piccina e inquieta. E quando Giacomo sonava la chitarra nella stanza del torchio dell'uva? Lui sonava, zufolando sull'aria: Tant che l'era piscinin; e lei ballava, girando in una grande tinozza, che mandava il forte profumo del mosto. Nei sensi le parlava ancora questo acuto profumo d'uva calda. Un'onda spumante le pareva di veder scorrere qua e là in macchie purpuree sul candore della neve. E quando Giacomo se la recava sulle spalle nella gerla in mezzo alle colorite pannocchie del granoturco? Camminò su questi pensieri, senza poter distinguere sempre tra le impressioni reali e le immagini, che apparivano alla memoria, or più or meno confuse, fin che giunse all'incontro di piú strade. Qui si fermò, non sapendo per quale andare avanti, e novamente l'assalirono, come se fossero ivi appiattati ad aspettarla, i terrori della sua vita di ragazza oltraggiata, reietta, ingannata, figlia di nessuno, che nessuno voleva piú. Al chiaror della luna, che ricomparve un momento con improvvisa nitidezza, vide, sulla neve pesta, l'ombra della sua persona rimpicciolita, della sua testa nuda, che perdeva le treccie, dello scialle che, scivolando dalle spalle e mal trattenuto in vita, andava strascicando nel molliccio. Si vide, e cominciò a singhiozzare dolorosamente ed a cercare intorno a sé un'anima, che volesse aver compassione del suo stato. A sostenerla nel tristo momento venne un primo colorirsi del cielo dietro i monti, quasi un sospiro dell'alba in mezzo ad una nuvolaglia spessa, che si ammontonava sulle creste. Di là scendevano soffi piú densi, di un vento umido, pieno di ghiacciuoli, che le avviluppavano il capo, le stiravanoi capelli, le facevano desiderare qualche rifugio. Le strade del crocicchio partivano lunghe e larghe per direzioni diverse nel vasto piano di neve solcato dalle ruote, calpestato dai cavalli e dagli uomini: ma non un'anima viva nel deserto! Solamente uncapanno di paglia presso una pianta, un trenta passi fuori della strada, usciva dalla neve e pareva invitarla a prendere un po' di riposo. Vi si avviò, avendo creduto d'intendere voci di ragazze, che la chiamassero; ma, fatti alcuni passi nella neve molle, cominciò a sprofondare fino al ginocchio; e allora tornò indietro; poi, per quanto cercasse intorno, non vide né il capanno, né la strada. Si fece il segno della croce e, richiamate con uno sforzo acuto della volontà le energie dello spirito, avviò un secondo rosario colla intonazione alta, con cui soleva precedere la processione della chiesa al camposanto, durante la novena dei morti. La preghiera traboccava dalle labbra per un impulso meccanico della voce; ma il pensiero andava a ritroso, risaliva a tempi lontani, s'immedesimava con cose passate e morte, rivivendo, con lucida illusione i momenti trascorsi, indimenticabili, di una vita umile e dolce, piena di affetti, di tenerezze, di gioie nascoste, di pudibondi sogni, che non aveva mai osato esprimere asé stessa, quando il piú santo dei desideri le pareva cosí bello che non osava carezzarlo senza qualche rimorso. Si sparpagliavano come foglie trasportate dal vento le immagini, che illustravano la storia segreta del suo amore per Giacomo, dal dí che se l'era veduto venir davanti vestito da pretino (allora essa non sapeva ancora che cosa fosse amore) fino all'altro dí, cosí diverso, al tempo della guerra, quando, dopo aver provato tutti gli spaventi della morte, seppe che era tornato sano e salvo. Essa era in vignetta a coglier dei piselli per la minestra, quando il Manetta, che amava le grosse celie, le disse: - Cerestina , c'è il Garibaldi: non senti pim pum pam? - Essa rispose: - Che mi fa a me il vostro Garibaldi? - Ma non aveva ancora finito di parlare, che dietro il verde dei fagiuoli vide muoversi qualche cosa di rosso, come sarebbe stato un grembiale che sventolasse all'aria, e invece era lui, che, appiattandosi, cercava di avvicinarsi senza farsi scorgere: era lui, colla camicia rossa del garibaldino, arrivato improvvisamente; era lui annerito dal sole, lacero come un povero ladro; che, senza pensarci, se la prese tra le braccia: e anche lei, senza pensarci, gli aveva buttato le braccia al collo, mentre il Manetta cantava l'inno di Garibaldi e batteva le mani, piangendo come un ragazzo. Era cosí viva e presente questa scena che la poverina, come se l'allegria la portasse in aria, affrettava il passo, volando sulla neve, ridendo ancora giulivamente, mentre vedeva verdeggiare la strada e, in mezzo al verde, vedeva uscire il suo garibaldino. Cercava buttargli le braccia al collo senza poter raggiungerlo mai; e correva innanzi, sorretta dalla calda ebbrezza della febbre crescente, che non le lasciava sentire i brividi dell'aria mattutina. Una volta fu repentinamente arrestata e svegliata da un fischio acutissimo e dal passare rumoroso di un treno, che scivolò, lanciando una fiammata di scintille. Si fermò, girò gli occhi intontita, si raccapezzò, sentí la sua febbre, la sua pesante stanchezza; ma si consolò nel vedere già chiaro il cielo e nel trovarsi in mezzo alle note alture, poco lontana dalle sue montagne. Piovigginava da una mezz'ora, e non se n'era accorta. Sentendosi lo scialle e i vestiti inzuppati e freddi come ghiacciuoli, li scosse, si rimbacuccò, ringraziò il Signore d'averla accompagnata e (poteva dire d'aver camminato in sogno) si volse a cercar qualcuno, che le insegnasse la strada piú corta per andare al traghetto del fiume. Al rintocco d'un'avemaria, che venne da una chiesuola pocolontana, di cui scorse il campanile disegnarsi tra due cipressi, si avviò a quella parte, si mise a sedere sul gradino della chiesa, e stette ad aspettare che qualcuno aprisse la porta. Cosí accovacciata, colla testa sui ginocchi, si assopí un istante, rotta dalla fatica. Le furiose scosse della febbre la svegliarono: temette di morir intirizzita sulla strada, e colla forza nervosa ed esaltata, che dà il delirio, si mosse, si volse a tre contadine, che andavano al mercato a vender uova, e chiese loro la strada per il passo dell'Adda. Le fu indicata una stradetta, che scendeva al fiume, senza bisogno di girar tutta la carrozzabile; ed ecco dopo cinque minuti poté scorgere dall'alto della riva l'acqua incassata d'un color nero inchiostro, e al di là, nell'ombra grigia del crepuscolo, nel biancore della neve, la macchia del Santuario, il palazzo del Ronchetto e i neri camini delle Fornaci. Non sentí piú a quella vista né stanchezza, né brividi, né titubanze: di là c'era il suo Giacomo.

UNA SERENATA AI MORTI

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Faldella, Giovanni 1 occorrenze

Si suonò la Perseveranza, scottish; e poi il Cane di guardia, marcia in cui ad ogni tanto i sonatori si fermavano ad abbaiare: Bau! Bau! Ciò elettrizzò l'osteria; e Gregorio entusiasmato ordinò per suo conto sette litri. Nell'emozione di versare egli stesso il vino, lasciò cadere per terra una bottiglia, che venne prosciugata dal pavimento. Ma gli altri sei litri se li bevettero i congregati, senza perderne una goccia. Oltre l'intiero quaderno del maestro Caronti, si suonò e si cantò la Biondina in gondoletta ? Cò sto caldo, cò sto caldo, insima ai monti ? La fioraia di Firenze, cavallo di parata del bel Rolando ? Smuova i fieuj d'Gianduja ? e i Bougianen an dio di Brofferio. Il bel Rolando uscì a dire: - C'è una bella luna... Dovremmo andare a fare delle serenate. Rosina vieni abbasso È un'ora che son qui, Già la luna sen va a spasso E succede chiaro il dì. - Indispettito il padre di Rosina… ? continuò con voce da tiranno il dottore... - Ma io ho sete ? conchiuse Ambrogione: ? Ghita porta dei peperoni, del formaggio e mezza brenta di vino... Ho sete, ho fame... Spazzacamino... Quasi tutti assaggiarono il formaggio pro forma, e solo per rendersi più abili a bere. Alcuni non poterono mandar giù un boccone. Solo Protaso e Gregorio ne fecero un buon striscio. - Cantiamo... La serva va in cantina.. E il prete... - Auff... Andiamo a fare la serenata... Non si resiste più qua dentro ? esclamò il bel Rolando. Rosina vieni abbasso È un'ora che son qui... - Andiamo! - concesse Ambrogione - ma si portino con noi i viveri. Uscì nel cortile; sollevò una carrettella di sotto la travata, vi aggiogò il carbonaio e il fabbroferraio. Vi caricò la spinetta, un canestro di bottiglie, un altro di vivande, una mezza tinozza di vino... Allons! marchons - Partons pour la gloire et pour la Syrie. Il denso silenzio campagnuolo era rotto da quel carriaggio di briaconi notturni. Tutti si guardavano le pance illuminate dal chiarore della luna. Arrivati sul sagrato, videro la piazza colma, bianca, di quell'uniforme luce lunare, a cui faceva da nera sponda l'ombra dei tetti e dei balconi. Ambrogione si fermò a pensare, inorecchito come presentisse dell'acqua, e poi disse: - Io non ho paura, so nuotare. In un baleno si spogliò; e tenendo in bocca il fagotto degli abiti, traversò la piazza a nuoto asciutto. Il seguito col carro gli corse dietro come a Faraone nel Mar Rosso. Infatti il grido del dottore fu: - Viva Mosè in Egitto! Raggiuntolo dall'altra parte, il bel Rolando si permise di dirgli: - Signor Ambrogione, sarà meglio andare a casa... - Vai tu, piccirillo!... Va' a pigliare la poppa... Con qualche fatica il gigante cotto riuscì a rivestirsi, dopo aver provato invano a mettersi uno stivale in testa. Trasse in disparte il bel Rolando, gli pose in mano una chiave, e gli sussurrò: - Va' tu con mia moglie. Al giovinotto la voglia di profittarne fu cacciata dalla certezza che l'indomani sarebbe stato pugnalato. Balbettò: - No... no... grazie! - ...Come? Grazie!... Il bel Rolando si sentì livido da una guardata velenosa nel collo... - Ho sete! - ricominciò Ambrogione... E faceva stappare delle bottiglie... Era il tocco dopo la mezzanotte; al rumore dei tappi che saltavano via, si unirono i ventiquattro rintocchi dei morti. Passò per la testa di Ambrogione più chiara una torbida idea. Il medico disse: - Adunque facciamola questa serenata. Allora tutti si volsero verso il balcone della stanza, dove dormiva la figliuola del Sindaco. Il medico salì sul carretto a martellare la spinetta... Ambrogione allargava e rinchiudeva poderosamente il mantice della fisarmonica, l'organista inviperiva sul violino, il bel Rolando faceva vibrare mestamente la chitarra. Tutti cantavano il coro della Mascherata dei quaranta pagliacci, che si adattava da per tutto: E la bella Borghezzese Sarà sempre il mio sospir. - Adesso andiamo in barca - sentenziò Ambrogione, come un lucido dirizzone l'avesse preso; e avviò i due bipedi aggiogati al carretto sulla strada che conduce al torrente Borghera. Quando si trovarono un po' dilungati dalla piazza, si accorsero che il dottore ed i suoi partitanti si erano squagliati. - Vigliacchi! - borbottò Ambrogione... - Ma, tanto d'avanzato!... Berremo tutto noi. - È vero! - approvò l'organista, tremolando fra la paura e il freddo. Quando giunsero in riva alla Borghera, Ambrogione sventrò come un bombardone un interminabile euhpp! per svegliare il barcaiuolo nella chiatta. Impaziente, assaltò egli stesso una barca e snodò la fune che la legava ad un piantone. Quindi invitò i suoi seguaci ad accompagnarlo in barca. Vedendo che il barcaiuolo, svegliatosi, si era messo al governo del timone, molti si affidarono di accettare l'invito. Ma l'organista rifiutossi. Ambrogione lo scosse e ordinò ai bipedi del carretto: - Bipedi, gettatelo nell'acqua. L'organista s'inginocchiò sul ghiareto. Pareva una scena di sacrifizio umano. Dove l'onda era crespa, la luna faceva succedere un movimento di carta dorata, e inargentata; e dove l'acqua spaziava liscia, si appozzavano splendori. Qua e là guizzavano larghi nereggiamenti, come schizzi immani di seppia. Nevicavano i fili d'erba sulla riva; la ghiaia imbruniva nei contorni morbidi dell'ombra, e mandava qua e là scintillamenti ossei. Ambrogione si mise a ridere, e si contentò che l'organista rimanesse a terra, purché suonasse il violino in ginocchione. La brigata in barca si versò da bere; e poi cominciò a cantare e a suonare. Dalla sponda l'organista la accompagnava raspando il violino, genuflesso come un condannato a morte. La musica sull'acqua faceva un effetto magico; diventava più fina, più trasparente, più godibile... Pareva trasmessa per mezzo del telefono da un paradiso incarcerato nel centro della terra. La ripercussione delle onde sonore sulle onde liquide era un incanto... Le fantasie logore dei poeti avrebbero ridetto che i venti, i quali passeggiano sui fiumi, sostavano innamorati sull'ali ad ascoltare, e i pesci boccheggiavano le armonie a fior d'acqua. Ambrogione spicciativo, brutale nei suoi capricci, quietò appena cinque minuti in barca, poi fissando un nero cespo di ontani sulla riva lontana, ordinò che si ritornasse a terra. Là annunziò solennemente: - Andiamo a fare una serenata ai morti. Poi verrete a casa mia a mangiare il cardo con la salsa calda e i tartufi. Nessuno gli rispose di sì. Anzi l'organista, assunto un coraggio apostolico, da uomo di chiesa con annesso stipendio, disse: - No... Non va bene... È una profanazione... I nostri vecchi... Ma Ambrogione minacciò: - Vi dico che verrete con me, dovessi spingervi innanzi a colpi di revolver. Protaso, al pari del resto della brigata, ammutolì. Tutti camminavano, come la biscia all'incanto. L'organista non vedeva più splendere la luna, fuorché sulla punta delle sue scarpe. Ruminava in mente il modo di evadersi: pensava e ripeteva: - Ah! se fossi rimasto a casa, chiuso col chiavistello... Ritrovandosi sulla piazza considerò che poteva con una stranezza minore evitare la maggior pazzia di Ambrogione, e gli propose: - Se andassimo a far la serenata sulla punta del campanile! - L'idea non è cattiva... - Io so dove sta la chiave... È qui. - Pigliala subito. L'organista, tosto levato un mattone da una buca presso la finestra del campanaio, vi trovò la chiave del campanile. Ambrogione si caricò sulle spalle la cesta colle bottiglie rimaste, e cacciandosi innanzi il bel Rolando e l'organista cogli strumenti, salì poderosamente le numerose e ripide scale legate l'una in vetta all'altra nell'interno della torre. Egli era così rigoglioso che pareva il succhio sanguigno di quell'albero in muratura. Giunti nel castello delle campane si affacciarono al firmamento. Che dominazione! Alcuni cortili di case, che da basso figurano in lontananza fra loro, qui parevano essere proprio riuniti sotto gli sputi dal campanile. Ambrogione guardò fieramente nel cortile di sua casa, quasi schiodando colle pupille le impannate della stanza coniugale. Era scuro; sua moglie dormiva... Egli rapidamente si tranquillizzò. - Ho sete... Come si deve bere bene qui sopra in excelsis Deo!... Ci deve essere ancora nel canestro un'ala di pollo... Adesso... soniamo... Le ondate sonore si diffondevano spaziose, quasi arricchivano di forza i lombi dei suonatori; e ad un tempo un senso di benessere igienico, estetico, alleggeriva, sollevava, rassicurava tutti. Finita la prima suonata, l'organista si accorse che gli altri della banda non lo avevano seguito. Ambrogione guardò in giù, e vide ch'era sparito anche il carretto colla spinetta. - Manigoldi! Poi si ritornò a suonare... Un ampio fremito ondeggiava intorno. Sbucò un gufo spaventato e strisciò come un velluto ombroso sulla testa di Ambrogione. - Alt! - disse egli con voce da capitano di nave. Quindi con entusiasmo d'oratore ubbriaco: - Andiamo al cimitero. L'organista, scendendo per le scale, avrebbe voluto rompersi il collo, pur di non seguire Ambrogione nella sacrilega impresa. Ma, a farlo apposta, si trovò in istrada saldo e netto sulle gambe. Si ricordò un'altra volta, che gli altri si erano discostati; e questa solitudine gli aumentò il terrore. Ambrogione se lo cacciava dinanzi a piattonate nella schiena e a pizzicotti nei fianchi. Osava persino minacciarlo barzellettando: - Se non trottate, vi rovescio addosso il campanile, e vi... schiaccio... Il bel Rolando andava di per sé di buon portante. Quando si fu fuori del paese, all'organista si piegarono le gambe. Camminava ginocchino come un prigioniero sfinito. Comparve il viale del camposanto. Protaso assalito da un brivido non trovò altra ripresa fuorché addossarsi ad un albero colla testa penzoloni. Ambrogione vincendo la ripugnanza di accostarsegli, si mosse ferocemente per ghermirlo, e staccarlo dall'albero: - Troio! L'organista si difese col sonare il violino, traccheggiando in tutta la persona. Ambrogione ne fu disarmato, colpito da un'idea. - Pitocco! Sta' pure lì; e suona. Ma non cessa dal suonare... se no, ti fulmino con la pistola. Protaso seguitò a suonare, come l'avesse morso la tarantola. Sfregacciava con l'archetto nell'impugnatura, e quando arrivava le corde sul cavo armonico, mandava raspature gemebonde, sdruccioli, guizzi di note che facevano rizzare i capelli: sonava ripiegando a pancia, come un soffietto, rompendosi, curvandosi, aprendosi come un compasso; si alzava, si torceva come uno spirale, traboccava in singulti, come se recesse secco sopra un invisibile leggio. Ambrogione e il bel Rolando continuarono il cammino da soli. Ad un tratto quest'ultimo si sedette sopra un paracarro. - Che? anche tu?... ti ballano i morticini davanti li occhi?... O temi che venga Caterina dalla Maternità di Torino a tirarti i piedi, o la bionda Nina al cimitero di Vercelli?... Piangi?... Devi suonare, suonare... su, via, alzati! dico... Veniamo ai voti fra voi due. Che dici? Bestia! pari e dispari... Non ti muovi? Sei freddo come un marmo? Devo seppellirti...? Su, gratta la chitarra... Il bel Rolando con la mano tronca, febbrile, trovò i1 coraggio di straziare un accordo. Ambrogione tranquillossi. - Bravo! stai lì... lascerò dietro due colonne vive, di musicanti, dico musi... cani... Fermi...! Olà! Quindi con l'impeto di un masnadiero e collo sgarbo di un orso prese d'assalto il muro del cimitero. Ritto sulla vetta, quel truce gradasso dominava nella notte. Dentro il camposanto scintillavano le croci intagliate nel chiarore lunare, quasi armi apparecchiate per combatterlo. Egli allargò spaventosamente la fisarmonica con un muggito interminabile, come se aprisse un abisso di sonorità sotto il pedale di un organo stregato. Quindi la rinchiuse con un soffio da smorzare la luna e l'intelligenza. Poi si diede ad agitarla, divincolarla con una frequenza di movimenti di su, di giù, nel mezzo, cagionando tremolii concentrici, cicalecci di vecchie sdentate, civetterie rabbiose, sospiri strozzati, lordure musicali, stomachevoli. In un punto si sentì passare un cane vicino all'orecchio, e poi sollevarsi un cespo nero dentro il camposanto. Saltò a capo fitto nell'agone. Era una mischia orribile. Aveva contro di sé tutti i morti... C'erano le nonne che lo minacciavano con le rocche; tutti i parroci, di cui si legge l'iscrizione nel corridoio della parrocchia, lo allontanavano coll'aspersorio. Don Beltrame Coraglia gli buttava gocce roventi... Contadini, spose di duecento anni fa, gli si avventarono contro colle unghie ricurve... Gli innocenti tentavano di fustigarlo colle verghe. Si chiudevano vecchie tabacchiere; sentì scricchiolare il pettine della sua povera mamma sotto la pesta sanguinosa. Scoppiavano fragorosamente i cadaveri nelle tombe... Colonne di fuoco gli ballonzolavano attorno, ed egli, orribile clown funereo, combatteva contro tutti col soffio della fisarmonica. Correva, rinculava, avanzavasi all'impazzata, spingendo, ritraendo, agitando lo strumento, come dovesse purgare ogni angolo col vento e collo strazio della sua musica. Ma fu sopraffatto... Gli furono addosso le conocchie, gli aspersori, le unghie... lo ardevano i fuochi... lo strozzava il fetore, lo impacciavano le vesti, lo impauriva, assordava il fragore tumultuante degli scoppi cadaverici... tutto lo toccava, lo forava, lo opprimeva... Sentì sotto le piante il petto tenero di un bambino mortogli nelle fasce. Balzò in aria, e si scatenò verso il muricciuolo. Ne guadagnò la cima, lasciandovi l'impronta di due guanti sanguigni. Ululava, ululava così tremendamente, che i boari levatisi alle due antimeridiane per dare il fieno nelle stalle, recitarono un De profundis. Nessuno seppe precisare quanto egli abbia corso. Lo si poté congetturare il giorno dopo, quando si trovò l'impugnatura della fisarmonica dentro il cimitero e la carta rossa del mantice a un miglio di distanza, e un vaccaro scoperse poi le linguette e le molle d'acciaio, e i bottoni di porcellana sotto il fogliame in un bosco a un altro mezzo miglio di lontananza. Egli fu rinvenuto al mattino sull'orlo di un fosso, coi calzoni spalmati di fango, la giacca a brandelli, il petto scoperto, scalfitto e intriso d'erba fra la neraggine irsuta della pelle, la faccia chiazzata e logora come invecchiata, la schiuma alla bocca, gli occhi lividi e ingigantiti, i capelli pesti e insafardati di letame, ma tuttavia con un anelito da Mongibello. L'organista venne immediatamente licenziato con un motivato verbale del Consiglio comunale e della Fabbriceria della parrocchia, e dovette risalire in un paesello di montagna per raccattarvi polenta e castagne tanto da poter campacchiare senza la sicurezza di scoprire un altro tesoretto musicale del maestro Caronti. Stavolta anche il bel Rolando fu proprio costretto a sloggiare dal suo nido; ossia venne esiliato dal paese, come ne ragionano le vecchie, quando fanno il pane al forno. I maldicenti invidiosi suppongono, che egli faccia da forza armata e protettrice a una famosa mondana d'ambasciatori. Invece i suoi parenti annunziano (ed è la verità) che, dopo avere lavorato al Gottardo è disegnatore in un'officina a Londra, e si fa onore e manda giù buone notizie con vaglia internazionali. Perciò la compagnia del Santo Cordone assicura che egli ritornerà presto in paese per erigervi una nuova cappella in suffragio delle Anime. Il dottore dovette penare per guarire Ambrogione, molto più che non abbia faticato allora, quando il camallo si era rotta una gamba sullo stradone. Non potendo il grosso cottimista pei suoi interessi e per la famiglia abbandonare il paese, sentì con molta amarezza sopratutto per riguardo alla moglie e alle sue creature una terribile notificazione fattagli dal Parroco: "Ambrogione, siete irregolare! Siete incorso nella scomunica maggiore!". Per farsela togliere, il cottimista spinto dalla moglie, egli già così fiero, accettò la penitenza canonica di girare a porte chiuse quattro volte intorno all'altare, come un ciuco stangato e ricevette poi veramente, dal Prevosto, parecchie bastonate sulla testa e sulle spalle con accompagnamento di parole latine ed acqua benedetta. Il suo personone di orso domato soffrì un gran ribasso; non frequenta quasi più l'osteria, dove il dottore per un po' di tempo imperò esclusivamente, e poi scadde anche lui di moda essendosi sbandata anche la sua clientela dei frottolisti. Appena si parla di musica e di morti, al povero Ambrogione si imbrusca e si intenebra la faccia.

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

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Garibaldi, Giuseppe 2 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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La carica dei mercenarii non ebbe sfogo che contro alcuni cani e somarelli di campagna che si ritiravano a casa e non s’udiva altro che un grande abbaiare dei primi ed un urlar dei secondi, perseguiti colle baionette alle reni dai valorosi campioni delle sottane. Eran circa le 10 della sera e tutto era tranquillo in Viterbo. La truppa aveva formato i fasci sulla piazza principale, riposandosi sugli allori dalle fatiche e vittorie del giorno. Dei cittadini, ritirati nelle loro case, non se ne incontrava uno solo per le strade. Al grande Albergo della Luna il campanello chiamava a raccolta i commensali alla gran tavola rotonda. Circa cinquanta posti erano preparati, con quel lusso che nelle odierne locande si suole spiegare. Verso l’istessa ora, una carrozza a quattro cavalli giungeva alla porta della locanda, e vi scendeva una donna in abito da viaggio, che alla sveltezza del passo e alla scioltezza d’ogni movimento si scorgeva essere giovane. Il maestro di casa, dopo aver introdotto in una delle più eleganti camere dell’albergo la forestiera, le chiese se desiderava rifocillarsi senza uscire di stanza; ed essa rispose che volentieri sarebbe scesa alla tavola rotonda, non piacendole di pranzar sola. La sala era già affollata, e la maggior parte degli astanti erano ufficiali stranieri del corpo recentemente arrivato. Il resto erano forestieri italiani e cittadini di Viterbo. All’apparire della viaggiatrice, tutti gli occhi si rivolsero su lei con ammirazione ed era veramente ammirabile in quella sera la nostra Giulia, perocché la nuova venuta era lei. Tutti fecero largo quando traversò la sala, gli italiani assunsero un’aria di gentile stupore, gli ufficiali affilarono i baffi, dilatarono il collo e rigonfiarono il torace in aria di conquistatori. A capo della tavola s’assise il padrone di casa, elegantemente vestito, e pregò la bella inglese di sedersi alla sua destra. Gli ufficiali sollecitamente si affollarono verso il capo della tavola per mettersi accanto alla signorina e così i primi posti in un batter d’occhio furono occupati da loro. Giulia vedendosi un mercenario alla destra, si pentì di avere accettato l’offerta, ma era già troppo tardi e, mentre con aria contrita, girava lo sguardo sui commensali, i suoi occhi s’incontrarono con due occhi, che la colpirono come folgore. Erano gli occhi di Muzio! di Muzio che si trovava all’altra estremità della mensa, collocato fra Attilio ed Orazio niente meno! Assuefatta a vedere il suo diletto col mantello, poco abituata alla fisionomia d’Orazio che aveva veduto un sol momento armato da capo a piedi nella selva, e d’Attilio, che in Roma usava il semplice vestito dell’artista, rimase incerta ed esitante e vedendoli tutti e tre in cilindro, e con abito da viaggiatori stranieri, veramente sulle prime non li riconobbe. Quando fu ben sicura che erano loro, proprio loro, rimase mortificata di trovarsi accanto a tal vicino. Ma come fare? Come alzarsi, avvicinarsi, chieder loro mille cose che essa bramava sapere senza destare sospetti, senza comprometterli, mentre sovr’essa lampeggiavano cinquanta sguardi d’uomini affascinati dall’incantatore suo volto? E Muzio! il medico, il capo della contropolizia Romana, l’uomo che come il suo omonimo

L'ALTARE DEL PASSATO

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Gozzano, Guido 1 occorrenze

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 3 occorrenze

I cani s'erano messi ad abbaiare e Alessio sfuggendo a Costanza, che lo aveva afferrato per la manica, retrocesse fino al cancello. Vieni, - gli ripetè lei impazientita. Non verrò; porta qui la mia nemica; in casa del padrone non voglio entrare. Costanza mandò una imprecazione, ma risali sola. Alessio, che era rimasto sul cancello, fu assalito da un vago timore e guardavasi intorno tremante. Se qualcuno mi vedesse! - pensava sgomento ed ebbe per un momento la tentazione di attaccarsi alla campana, di chiamare i guardiani dello stabilimento, d'impedire che si commettesse un'azione nefanda. Ma in quel momento vide Costanza comparire nel viale camminando a stento, curva sotto il peso che si era caricato sulle spalle. Era una notte scura; sopra alla villa scintillavano rare le stelle, ma verso il mare e dal lato di terra le nubi formavano un cerchio, che aveva la forma e l'aspetto della testa di un cappuccino. Da quei nuvoloni neri ogni tanto si sprigionava un lampo e allora come un fremito di luce biancheggiava dietro la cortina densa e nel punto ove s' era prodotto il lampo le nuvole acquistavano strane forme. Il tuono non si faceva udire, ma una raffica di vento; annunziante la burrasca, passava di tanto in tanto attraverso le palmette e gli alti palmizj, producendo un fruscio che somigliava allo scrosciar della pioggia. Sotto quelle raffiche il mare si agitava, mandava sordi mugolii e ogni tanto un'onda più forte delle altare infrangevasi con un colpo secco, quasi tagliente, contro la riva. Prendi, - disse Costanza abbassandosi, affinchè Alessio la liberasse dal peso di quel corpo. Il giovine lo sollevò nelle braccia poderose. Velleda era vestita di una sola camicia, sulla quale Costanza aveva gettato uno scialle. Quando Alessio sentì il contatto di quelle carni morbide, il profumo sottile che emanava da quel corpo delicato e vide quella testina riversa che a ogni passo che egli faceva inchinavasi all'indietro come la testa di un cadavere, fu preso di orrore e disse a Costanza: Riportiamola a letto, io non voglio essere il tuo complice. E troppo tardi; il cancello è chiuso, il duca ci aspetta, vieni! E fecero ancora alcuni passi in silenzio fra la sabbia coperta di piante e Alessio fermandosi di nuovo riprese : Costanza, perché vendicarci? Non sono libero forse? Vieni, - ripetè la donna a denti stretti afferrandolo per un braccio. - Sei libero, sì, ma per lei saresti in galera e io mi dannerei. Non parlarono più e quando penetrarono nel fondo della grotta Alessio depose il bei corpo bianco sulle alghe e, acceso un fiammifero, si mise a guardarlo. Franco non vi era ancora e Costanza, uscendo sulla spiaggia, non lo vide neppure al bagliore dei lampi che si facevano più fitti. Quando rientrò nella grotta sorprese il giovane in ammirazione. È bella? Ti piace? Godine, io non sarò gelosa, anzi la vendetta sarà più grande quanti più saranno gli uomini che l'avranno insozzata, la maledetta! Taci! Taci; strega, - diceva Alessio rivoltato da quel cinismo. Velleda era bella davvero col piccolo capo appoggiato sopra un mucchio di alghe e il corpo circondato dalle scure piante. La camicia sottile seguiva le curve del seno e delle anche e i piedi soltanto erano nudi. Pareva una giovinetta pudicamente coricata, una giovinetta composta e casta anche nel sonno. Eccolo! - disse Costanza udendo un rumore di passi sulla sabbia indurita dall'acqua. Alessio si alzò e usci, mentre il duca entrava. Perché così tardi? - gli domandò Costanza. Sono passati i doganieri e ho avuto paura di esser sorpreso. Hai scelto invero un luogo molto strano. Non dubitate; c'è chi veglia, - ella rispose. - Lei è là e dorme. Non v'indugiate troppo, - aggiunse con intonazione sarcastica. - Venite, - e presolo per la mano lo condusse accanto alla dormente. Ci vedi anche nelle tenebre! - osservò Franco. È l'odio che mi guida; voi non sapete odiare come me. Addio, - e uscì per andare in cerca d'Alessio. Franco, eccitato dalla lunga attesa, si gettò come un pazzo su Velleda, ma appena sentì quelle carni ghiacciate dall'aria della notte e quella bocca che non rispondeva ai suoi baci, fu preso da un vago terrore. Non così aveva sognato di possederla; non così. Se l'era figurata nelle lunghe veglie, piena di ardori, di ribellione forse; aveva vagheggiato di lottare con lei, di domarla alla fine con l'impeto della sua passione, ma mai aveva pensato di stringerla a sé inerte, insensibile. Oh! non era quello il premio dopo un così lungo delirio : non era un premio! Velleda! Velleda! - le diceva scotendola, ma ella dormiva sempre sotto l'azione del potente narcotico, dormiva così profondamente che a Franco a momenti veniva il sospetto che fosse morta, ma quel sospetto si dileguava sentendola debolmente gemere. Allora la baciava di nuovo, l'accarezzava tutta, cercava di riscaldarla al contatto della sua carne, della sua carne ardente, fremente di desiderio e di brama, e per un istante illudevasi di averla scossa dal letargo, di averle comunicato il suo fuoco, di averla fatta fremere, ma l'illusione svaniva presto lasciandolo spossato e non pago. Ma poiché tutti i tentativi per destarla riuscivano vani, Franco si alzò dal giaciglio di alghe e, fattosi sull' imboccatura della grotta, chiamò Costanza. Nessuno rispose. Intanto il vento aveva rinforzato, i lampi eransi fatti più spessi e il mare s'infrangeva con fracasso sulla spiaggia, spingendo lingue listate di spuma sulla sabbia asciutta. Franco chiamò di nuovo e credè di sentire una voce die gli rispondesse : Vengo! Egli era così turbato, così scosso da quell'ora di amore senza corrispondenza, da quelle carezze smaniose prodigate a un corpo inanimato, sentiva tanto forte il disgusto di sé, che non vedeva il momento di fuggir lontano da Velleda e dal luogo che gli ricordava la sua ignominia. Gli pareva d'essere abbietto e vile, come quei satiri che vanno a scoperchiare le tombe delle giovinette per violarle. Ah! il freddo di quel corpo, lo sentiva ancora sulla carne, lo agghiacciava ancora, mentre il sudore della angoscia gli scendeva dalla fronte. Fuggire! Non voleva altro che fuggire! Egli si diede a correre sulla spiaggia, travergando quel terreno coperto di colonne infrante e di massi biancheggianti fra l'appio e le palme, che al chiarore dei lampi parevano tombe, ora inciampando, ora rialzandosi, preso da un terrore che toglievagli il respiro. E l'impressione di quelle carni gelide, di quella bocca che non si schiudeva a nessuna carezza, a nessun grido, lo perseguitò anche nella sua camera, ove appena giunto accese molti lumi, per scacciare i fantasmi che lo perseguitavano. Quando ebbe fumata una sigaretta e si fu alquanto calmato, esclamò con un ghigno di rabbia: Sono sempre un inetto, anche nel male! Ho forse goduto? L'ho forse umiliata? No, Velleda non saprà nulla e domattina, destandosi nel suo letto, ignara di tutto, correrà a stender le braccia, a offrire la bocca desiosa di baci a Roberto! No, non lo farà, si vergognerà di farlo; questo almeno voglio - e ubbidendo a un pensiero improvviso, andò alla scrivania e tracciò sulla carta queste parole: Velleda, mentre stanotte tu credevi di dormire nel tuo letto, giacevi nella grotta in riva al mare, su un letto d'alghe. Su quel letto, come una belva mi sono gittate sul tuo corpo nudo e ti ho fatta mia. Voglio che tu lo sappia affinchè il pensiero di quest'onta tu lo senta anche nelle braccia di mio fratello, affinchè tu lo respinga inorridita. Si, sei stata mia, rammentalo sempre. Tu arrossirai ora dinanzi a me, tu non potrai più trattarmi con disprezzo, poiché tu mi appartieni; ma non è inerte, insensibile che ti voglio ancora. Ti voglio, viva, animata, fremente; ti voglio subito, poiché il mio desiderio ,si è fatto più vivo, più imperioso. A quando? Il duca non firmò la lettera, ma dopo averla chiusa in una busta e avervi fatto l'indirizzo la sigillò con l'anello di smeraldo, che portava incisa la mano che spezza il pane, con lo stemma dei Frangipani. Domattina saprà tutto, - disse, e accesa un'altra sigaretta prese a fare con cura minuziosa la sua toilette toiletteda notte.

Da quella vide chiudere le finestre della villa, spegnere i lumi e poco dopo udì abbaiare festosamente i cani, come se qualcuno li avesse sciolti. Dinanzi a Franco si stendeva il mare illuminato dalla luna e sulle onde si cullavano barche e vaporetti ancorati vicino alla gettata. Un silenzio solenne regnava su quella spiaggia deserta: nessun grido turbavalo, ora che i cani avevano sfogata la gioia di sentirsi liberi nel giardino. Capisco che Roberto possa viver qui, - pensava Franco, - egli si è procurata una esistenza comoda, signorile, allietata dalla presenza di una graziosa donnina; è molto molto abile quel caro fratello! E l'immagine di Velleda gli s'imprimeva negli occhi e la rivedeva ora a tavola, signorilmente composta, ora con Maria fra le braccia, sorridente e affettuosa, ora parlando eccitata della questione femminile, sempre carina sotto quegli aspetti diversi di dama, di madre e di pensatrice. Sapro chi è, conoscerò il mistero di quella esistenza, - disse fra sè Franco, invaso da una malsana curiositá. - Non è una donna comune e a Firenze non può esser passata inosservata. Il Signorini deve conoscerla certo, conosce tutti! E ruminando nella mente il disegno di scrivere a quello sfaccendato fiorentino, che lo distraeva quando passava per Firenze, Franco si coricò e dormì saporitamente.

In quel momento i cani si misero ad abbaiare e Velleda vide un' ombra sgattaiolare fra i palmizj a poca distanza da lei e perdersi sotto il fogliame scuro delle folte piante d'arancio. Ella tremò, ma vinta la paura, sciolse presto i cani dicendo : Cerca Lampo! cerca Etna! E i due cani, col muso in terra, abbaiando, s'allontanarono di corsa. Per Velleda fu quello un momento di suprema angoscia. Non sapeva che fare, se risalire in camera di Maria, o correre a suonar la campana per chiamare aiuto dallo stabilimento, quando un colpo di fucile ruppe l'alto silenzio della spiaggia, e uno solo dei cani tornò a lei spaventato latrando. I malandrini! - esclamò la signora atterrita, e senza riflettere più gettò un sasso contro la finestra della camera del cuoco e salendo a precipizio le scale si attaccò alla corda della campana. Costanza era andata sulle scale, pallida e tremante, il cuoco era corso su col fucile in mano, mezzo vestito; Maria sola dormiva placidamente. Velleda collocò Costanza accanto al letto della bambina, chiuse a chiave le porte e preso che ebbe un revolver di Roberto, incominciò a perquisire la casa, insieme col cuoco, premendo ovunque i bottoni della luce elettrica, affinchè se vi era qualcuno nascosto, fosse subito visto a quel chiarore vivo. Ella era ancora al piano superiore, allorché giunsero due guardiani armati, Saverio e il Varvaro. Quest'ultimo aveva in mano la lanterna e avanzandosi nel viale dei palmizj guardava a destra e a sinistra, proiettando in basso e in alto la luce e intanto gridava per annunziare il suo arrivo. Velleda udi quei gridi e scese incontro al direttore. Ma che cosa è avvenuto? - domandò questi. Non so precisamente" - diceva con voce interrotta cercando di ritrovare il filo delle idee, - mi ero un po' attardata prima di sciogliere i mastini e quando sono scesa per isguinzagliarli ho veduto un'ombra nera fra gli alberi. Allora immediatamente ho sciolto Lampo ed Etna. I cani certo debbono avere scoperto il malfattore, perché ho sentito un colpo di fucile e Lampo solo è tornato verso di me ed è rifuggito subito. Ponetevi a difesa della casa sulla terrazza e non lasciate avvicinare alcuno, - ordinò il Varvaro ai guardiani, - Saverio e il cuoco cercheranno insieme con me. Velleda risalì in camera di Maria e vi si rinchiuse ; Costanza, in preda a un cieco terrore, aveva acceso tante candele a una immagine della Vergine, e balbettava : Maria, bedda matri aiutatemi! Salvatemi! Maria dormiva sempre e Velleda, con l' orecchio teso, spiava ogni lieve rumore. La camera di Maria, che era pure la sua, non guardava sul viale dei palmizj ne su quella parte del giardino in cui erasi svolta poco prima la rapida scena, e per questo ella non poteva seguire le indagini del Varvaro. Però a un certo momento sentì un rumore di passi nell'anticamera terrena e non reggendo più, corse sul pianerottolo, spenzolandosi nel vano della scala per veder chi era. Saverio! Saverio! che cosa è successo? - diceva scorgendo il cameriere, che correva verso la cucina. Lampo ha fatto il suo dovere! - rispose il servo nel passare. Poco dopo Saverio ripassava portando una spugna e una catinella piena d'acqua. Ma Saverio, per carità, spiegatevi! - diceva Velleda che lo aveva atteso trepidante. Signora, un malandrino ferito. Laconico nelle risposte come ogni siciliano, non disse altro e tornò verso i suoi compagni nel giardino. Suonate! - gridò Velleda ai guardiani affacciandosi al terrazzo. - Sparate i fucili, fate che vi odano dalla Casa dei Viaggiatori. Lo Carmine con i suoi ci verrà in aiuto. Oh se i carabinieri fossero in perlustrazione, se i doganieri accorressero; sparate! Partirono quattro colpi di fucile a breve intervallo e poi la campana suonò a distesa. A un tratto s'illuminò la Casa de' Viaggiatori, s'illuminò il " Selino " e da quello partì un colpo per avvertire che l'appello era stato udito. Lampo abbaiava furiosamente e i cani dello stabilimento pareva che gli rispondessero. Velleda correva ansiosa dalla camera di Maria alla terrazza e il suo pensiero volava a Roberto. Oh.' come lo invocava in quel momento; come sentiva il bisogno di averlo accanto a sé, a difesa della casa! A un tratto vide Costanza, che rompendo la consegna, scendeva le scale e le ingiunse di tornare dalla bimba. Sotto la chiara luce lunare, la signora scorse una lancia del " Selino " accostarsi alla banchina e vide dalla Casa de' Viaggiatori uscire un gruppo scuro, che correva in direzione della villa. Ma intanto che tutti quei soccorsi si avvicinavano, e Velleda ne affrettava col desiderio l'arrivo, più colpi di fucile erano sparati nel cortile dello stabilimento. I marinari del "Selino, che erano giunti al cancello della villa, retrocessero di corsa, i due guardiani che erano sul terrazzo della villa traversarono la sala; gridando a Velleda : Era una finta per allontanarci; il pericolo è là. Il pericolo! - ripeteva la signora atterrita. Dunque attentavano alla proprietà di Roberto, al frutto paziente del suo lavoro? Il Varvaro anch'egli s'era unito ai guardiani e correva verso il luogo più minacciato. Velleda non sapeva più che cosa fare e le fucilate che continuavano a turbare l'alto silenzio della notte, le ferivano dolorosamente gli orecchi. Ella scese incontro al Lo Carmine e ai due tedeschi e non seppe dire altro che : Maria! Lo stabilimento! Anche il sottodirettore degli scavi e i suoi due compagni erano armati di fucile e nella cintura portavano il revolver. revolver.Signori, - ella disse ai due giovani architetti tedeschi, conducendoli sulla porta della camera di Maria, restino qui, non si muovano, non lascino uscir nessuno, veglino per me. Io devo correr là. Non si muovano! Ella aveva preso in mano il revolver e trascinava seco il Lo Carmine verso il cancello, quando s'imbattè in Saverio e nel cuoco che portavano sopra un asse un uomo con la gola aperta e sanguinante. Velleda si fermò un momento, lo fissò con raccapriccio e poi esclamò: Alessio, il capo degli scioperanti di quest' inverno! Proprio lui! - rispose Saverio. - Ma Lampo gli ha levato la voglia di ricominciare. Lo rinchiudo in camera mia e dopo frugheremo la casa. Lampo seguiva il ferito mandando latrati feroci annunzianti che non era soddisfatto dell'opera sua. La fucilata era cessata allo stabilimento e il Lo Carmine, che vedeva con dispiacere Velleda dirigersi verso quel punto più minacciato, la trattenne quando stava per varcare il cancello. Resti qui, - le disse. - Se Maria si destasse, non avrebbe forse bisogno della sua parola rassicurante? Pensi che questa bimba è quello che di più caro ha il signor Roberto. Là vi è il Varvaro, vi sono tanti uomini. A quel nome, invocato da un amico, Velleda non seppe resistere e dopo aver chiuso a chiave il cancello, disse : Frughiamo il giardino, Ella aveva preso nella sinistra la lanterna abbandonata da Severio e col revolver nella destra, coraggiosa e cauta, si avanzava sotto le piante di arancio e sulla sua testina piovevano i petali bianchi. A un tratto si fermò, In una pozza di sangue giaceva Etna, con la testa squarciata da una palla, gli occhi spalancati e vitrei e intorno, mescolati al sangue, i soliti fiori profumati. Povera bestia! - esclamò, - mi voleva tanto bene ed è andata incontro alla morte per ubbidirmi. Più là vi erano altre tracce di sangue; il sangue di Alessio e sempre fiori, ovunque fiori nivei. Una corda abbandonata era attaccata con un arpione alla sommità del muro del giardino. Velleda l'accennò al suo compagno, il quale la staccò. Camminavano in silenzio esplorando. In un altro punto era stata tagliata un'alta pianta di fico d'India, in terra trovarono un altra corda avvoltolata. Velleda e Lo Carmine andavano sempre avanti, senza scambiare una parola. Quando ebbero esplorato tutta la parte anteriore del giardino, passarono in quella a tergo della casa. Velleda alzò la lanterna e mandò un grido. Attaccata al davanzale della finestra di Costanza, attigua alla camera di Maria, stava una scala di corda, e in terra, sulle aiuole di margherite e di pelargoni si vedevano tracce di pedate e piante calpestate. Velleda impallidì. Ormai il complotto era palese. Volevano rubare Maria per esigere poi da Roberto una somma prima di restituirla. Sventato il colpo avevano tentato di penetrare nello stabilimento, per rifarsi, rubando i denari che vi erano sempre. Quando la signora ebbe la percezione esatta del pericolo corso dalla bambina, impallidì e rimase irrigidita senza poter fare un passo. Se i malandrini avessero avuto tempo di mandare ad effetto il rapimento, che sarebbe avvenuto di Maria? Come avrebbe lei, Velleda, sostenuto la vista di Roberto? Oh! si sentiva impazzire a pensarvi. Pochi momenti più che si fosse indugiata nella meditazione della lettera di Roberto, e il colpo era fatto. Posò la lanterna; strappò la scala con un atto repentino e poi invasa dal terrore di un nuovo pericolo, corse in casa, salì in fretta le scale e penetrata in camera di viaria s'inginocchiò accanto al letto di lei e pianse, pianse lungamente. Costanza, inginocchiata pure e con aspetto truce pareva pregasse. Così Franco vide Velleda giungendo, così la vide il Varvaro, che andava a dirle quello che era accaduto. Ella fece loro cenno di non fiatare per non turbare il sonno della bambina, e senza accorgersi dei due tedeschi che facevano sempre la guardia, come sentinelle, andò in sala e lasciandosi cadere sopra una poltrona; disse al Varvaro: Ora mi racconti tutto! L' attacco allo stabilimento non era preparato, disse il direttore, - ma appena i malandrini hanno udito il suo appello, hanno veduto che io mi dirigevo qui con i guardiani e che i marinari del " Selino " venivano pure alla villa, hanno dato la scalata al muro di cinta e senza esser visti dal solo guardiano che era rimasto là, si son diretti alla segreteria, ove sanno che vi sono danari. I cani hanno dato l'allarme, il guardiano ha incominciato a tirare schioppettate e s'è attaccato alla campana. Allora io, destato all' improvviso, - continuò Franco, ho preso il revolver e, spalancata la finestra, ho mirato su quello dei malandrini che stava dietro a tutti e gli ho messo due palle nella schiena. Gli altri - erano sette - hanno rivolto i fucili verso la mia finestra facendo un fuoco di fila. Io sono andato a quella accanto e di dietro la persiana ho continuato a tirare. I marinari del " Selino " allora sono entrati nel cortile insieme col signor Varvaro ed i guardiani ed hanno fatto fuoco. Due altri malandrini sono caduti, i quattro rimasti illesi, mettendo mano ai coltelli hanno attaccato i difensori per aprirsi un varco e fuggire. Due vi sono riusciti; due sono stati presi e legati. Velleda con gli occhi pieni di lagrime che le scendevano sul dolce visino coperto da un pallore mortale, narrò quello che era accaduto alla villa e come avesse acquistato la convinzione che il colpo era diretto contro Maria. Era una imprudenza di restar qui quasi sola, disse Franco, - da stasera in poi mi permetterà di occupare la camera di mio fratello, e Saverio ed io faremo una ispezione nel giardino prima di coricarci. Il Varvaro approvò quella risoluzione, ma Velleda che non dimenticava mai Roberto, rispose: Farò avvertire i carabinieri, grazie; essi veglieranno nella villa. Franco non rispose, e non insistè perché sapeva che era inutile. Intanto erano giunti i doganieri, i quali trovandosi in perlustrazione verso il porto di Palo, avevano udito la fucilata, e quando l'alba rosea già illuminava le imponenti rovine, la villa e lo stabilimento, nessuno pensava ancora a cercare il riposo, e Velleda, con gli occhi sempre pieni di lagrime vegliava onde sparisse dal giardino ogni traccia dell'assalto notturno e Maria potesse ignorare il pericolo che aveva corso. Alessio, il ferito, era vegliato da un guardiano, il cadavere di Etna era stato sotterrato nella sabbia, i due tedeschi e il Lo Carmine erano tornati alla Casa dei Viaggiatori, e quando Maria aprì gli occhi sorrise vedendo Velleda da un lato del suo letto e dall' altro Franco. Oh! zio che sorpresa! - disse e cinse con un braccio il collo del duca, mentre con l'altro attirava a sé Velleda. gàra sui capelli. Sì, amore, - le rispose, - la mattinata è tanto bella! Anzi faremo il primo bagno di mare. I carabinieri dovevano giungere presto e Velleda era impaziente di allontanare la bambina dalla villa. Non voleva che sentisse parlare di quell' eccidio, come non avrebbe voluto che quella notizia giungesse a Roma a Roberto. Ma come fare? Ella affidò Maria alla balia; che aveva ancora gli occhi rossi, e fatto cenno a Franco di seguirla nella sala, gli disse: I giornali di Roma avranno probabilmente stasera la notizia del fatto, suo fratello la leggerà; non sarebbe meglio avvertirlo con un lungo telegramma? Non so, - rispose Franco. - Forse è più prudente di avvertire le autorità di tener celato l'acccaduto. Certe cose non si nascondono; sono troppi i testimoni e a quest' ora una cinquantina di persone sanno tutto. Io non posso celar nulla al signor Roberto; egli ha diritto di saper quello che avviene in bene e in male e io non meriterei più la sua stima se tacessi. Telegrafi allora; ma gli dica che il pericolo è scongiurato, - rispose Franco il quale non pensava ad altro che ai suoi interessi che sarebbero rimasti abbandonati se Roberto fosse partito.

Le Fate d'Oro

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Perodi, Emma 3 occorrenze

Comin- ciava a rassegnarsi a morire senza rivedere i suoi, sbranato forse dai lupi, quando udì abbaiare un cane, e poco dopo lo scòrse avvicinarsi alla sponda del fosso, insieme con una bambina. - Non vi sgomentate, - gli disse la bambina - corro a casa e torno con una fune per tirarvi su. - Il Conte riprese animo, e dopo un po' di tempo vide ricomparire la coraggiosa bambina, la quale, legata solidamente la fune al tronco di un albero, la lasciò ca- lare nella fossa. Aiutato dalla fune, il Conte potè salire insieme col cavallo sulla proda, sano e salvo. La bambina gli dette pure una boccettina di liquore per risto- rarlo, e lo guidò a casa sua, dove fu ac- colto affettuosamente e albergato dai ge- nitori di lei. - Vi potremmo dare di più, - disse il padre della bambina a cena, mettendo in tavola castagne e carnesecca - ma il Conte ci spolpa. Se sapeste che flagello è un padrone simile per noi! Bisogna soffrire e tacere; ma lui deve essere più infelice di tutti gl'infelici che fa. - Il Conte respinse il piatto, disse che era stanco, e chiese d’andare a letto. S'addormentò anche quella notte a stento, e in sogno vide la felicità che re- gnava nel suo castello riflessa in tanti quadri lieti, e vide che nessuno desiderava il suo ritorno. Si destò, fu preso da un grande sco- raggiamento e si mise a piangere. In quel momento sentì battere forte forte alle im- poste della finestra. Aprì e vide l'aquila. - Cògli un ramoscello del dittamo del buon cuore, che cresce qui sulla fine- stra della bambina; annaffialo di lacrime e portalo a casa tua; vedrai che non si sec- cherà più. - A. casa non ci torno; non ci posso tornare! - Perchè avresti fatto il viaggio? - gli domandò l'aquila. - Da' retta a me e parti subito. - Il Conte colse il ramoscello, si vestì e scese giù. Tutti erano già alzati e lavo- ravano. Il Conte sellò il suo cavallo, dette una borsa piena di danari al capoccia, baciò la bambina e ringraziando si al- lontanò. La famiglia lo accompagnò con sa- luti e benedizioni, ed egli si sentì sol vare il cuore. Il Conte, tornando al castello, vide spa- rire a un tratto l'allegria da tutti i volti, cessare i canti, cessar le risa, ma egli non si sgomentò per questo; voleva essere amato ad ogni costo. Egli piantò con cura il ramoscello di dittamo in un bel vaso, lo annaffiò ogni giorno, si mostrò umano e affabile con i sottoposti, dolce con la moglie, carezzevole col bambino, e da quel tempo il dittamo del buon cuore fiorì splendidamente nel castello, e il Conte diventò un signore fe- lice, meno temuto, ma molto amato.

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Quando suonò la mezzanotte, il Manovale mise la chiave nella serratura, ma appena andò per girarla, cento cani incominciarono ad abbaiare, e gli si scatenarono addosso. Il turco, con la scimitarra, tagliò la testa a tutti. Erano i cani del Nano. Dopo poco il Manovale, facendo uno sforzo terribile, spinse la porta, lasciando il compagno a guardia. Entrò dentro la fortezza. Camminava a tastoni per le stanze; c'era un buio come in gola al lupo, e il Manovale disperava di trovare la sua Miseria, quando dai larghi finestroni vide entrare un grande chiarore, che illuminò le sale ricchissime, tutte tap- pezzate di seta. In mezzo a una di quelle sale c'era un baldacchino d'oro, e sotto quel baldac- chino un letto. In quel letto dormiva Mi- seria. Sognava e chiamava la mamma, il babbo e i fratellini. Il Manovale se la prese in collo, l'av- volse nel suo lungo mantello bianco, e la portò via addormentata, uscendo con lei sano e salvo dal palazzo del Nano. Il suo compagno era sparito. Egli portò la bambina nella grotta dove si era vestito da turco, per riprendere i suoi panni, e ci trovò la Fata, alla quale espresse tutta la sua gratitudine, e restituì la chiave. La Fata fu commossa dall'affetto che aveva quel pover'uomo per la sua bam- bina. - Miseria non conoscerà la miseria - disse dandogli la chiave. - Questa ti servirà ad aprire una cassetta piena d'oro, che troverai sotto il sasso quadrato, che è nel tuo giardino; ma non te ne valere al- tro che quando ti manca il lavoro. - La Fata sparì dopo aver ordinato alle nuvole di trasportarlo al di là del fiume. Sparì nella luce dell'aurora, e il Ma- novale vide il Nano, che, montato sopra un cavallo, volendola inseguire, precipitò nel- l'acqua. Quel tenero padre tornò a casa con- tento come una pasqua con la sua cara Miseria, che si svegliò nel suo letto e credè d'aver sognato; e allora: Fecero un gran festino, Goderon proprio tutti; Io sol nel cantuccino Rimasi a denti asciutti.

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Un giorno che la caprina se ne era andata fuori, Briciolina sentì abbaiare fu- riosamente, e, affacciandosi, vide la caprina inseguìta da una muta di cani, che stavano per afferrarla. Dietro venivano di galoppo tre bellissimi cacciatori. Briciolina urlò, strepitò, ma i cani as- salirono la capra, l'uccisero e si accinge- vano a sbranarla. - Assassini! - disse Briciolina ai cacciatori. - Assassini! - ripeterono Lucia Maria, che erano sopraggiunte. E fra tutte e tre portarono in casa la caprina morta e l'adagiarono sopra un letto di fiori; e lì incominciarono a piangere da far compassione. I cacciatori erano rimasti tutti umi- liati e dolenti, e non osavano muoversi Ognuno di essi avrebbe dato la vita per rasciugare le lacrime di quelle tre belle ra- gazze. Briciolina era la più desolata e non si saziava di baciare la povera caprina. Una lacrima di Briciolina andò pro- prio a posarsi sulla ferita sanguinante del caro animale, e subito la caprina agitò le zampe; a poco a poco la pelle le cadde da dosso, e comparve davanti agli occhi delle fanciulle una bellissima Fata. - Chi sei? - le domandò Bricio- lina. - Sono la Fata dei bambini abban- donati: sono la vostra Fata! - Le tre bambine le saltarono al collo. Ora torniamo un bel passo addietro. Il mercante, rimasto solo, era andato a letto e si era addormentato profonda- mente; ma dopo poco incominciò a sognare pareva che i ladri gli rubassero suoi te- sori; gli sembrava di sentir rotolare le mo- nete sul pavimento; voleva urlare e non poteva. Si svegliò spaventato e andò in cantina per sincerarsi. I mucchi delle monete erano tutti a po- sto; soltanto quand'egli prendeva una mo- neta in mano ci vedeva sempre da una parte o dall’altra il viso piangente di una delle sue bambine, e dagli angoli bui della cantina sentiva partire gemiti ed ululati di lupi. Richiuse la cantina e tornò a letto, e lì riprincipiò a sognare i ladri e si ride- stò. Insomma, non aveva un momento di pace, tanto che dopo una settimana di quella vita avrebbe dato tutti i suoi tesori per riavere le sue bambine e riacquistare la tranquillità. Si mise una bisaccia in spalla, e via per il mondo a cercarle. Camminò sette anni, sette mesi e sette g'iorni, quando una sera arrivò stanco sfi- nito in riva ad un bellissimo lago. Sulla sponda del lago incontrò una vecchia. - Sapreste dirmi in che paese siamo? - Siamo nel reame di un Re poten- tissimo, che oggi fa sposo l'unico suo figlio; anzi vado al banchetto nuziale, e possiamo fare la strada insieme. - Il mercante s'incamminò, e per la strada seppe che la sposa era una povera ragazza, ma tanto mai buona e tanto mai bella che nessuna poteva starle a confronto, altro che le due sorelle di lei, che erano già spose di due Principi coronati. Al mercante venne voglia di vedere quella perla di principessa e di parlarle, perciò domandò alla vecchina se gli poteva ottenere un'udienza. La vecchina glielo promise, ma sul più bello la perse di vista e arrivò solo, stracciato e polveroso al palazzo reale. I servitori Io mandavano via, i cani stessi gli abbaiavano alle calcagna, ma lui tanto fece, tanto s'arrabattò che gli riuscì di mettersi in fondo allo scalone di dove doveva scendere la sposa, in mezzo al cor- teo, per andare al banchetto. Quando il mercante vide la sposa si sentì tremare le ginocchia e sussurrò: « Bri- ciolina! » Briciolina si voltò, riconobbe il padre e gli si buttò al collo. Costì il corteo do- vette fermarsi, perché Briciolina era sem- pre abbracciata a lui, e poi se lo mise al fianco, fece chiamare le sorelle e tutte gli fecero un'accoglienza, come se le avesse fatte crescere nel cotone. Il mercante, guarito dall'avarizia, con- solato dalle figliuole, dimenticò i patimenti sofferti, e tutti insieme fecero una festa coi fiocchi. E i tre cacciatori? Che non l'avete capito? Erano i tre Principi che sposarono le figliuole del mer- cante.

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LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

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Perodi, Emma 1 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Appena egli ebbe nominato quel santo, il cane fece un lancio di gioia e si diede ad abbaiare festosamente come soglion fare i cani quando odono mentovare il padrone. Intanto s'era fatto giorno, e Lapo incominciava a perdersi di animo vedendo intorno a sé tutta quella caterva di morti e sentendo i lamenti di quei feriti che nessuno soccorreva. Prima si mise le mani agli orecchi, poi chiuse gli occhi, ma se per disavvedutezza gli veniva fatto di lasciare entrare il suono nel timpano o di alzar le palpebre, di nuovo lo colpivano quelle voci dolorose o quello spettacolo che gli metteva i brividi addosso. - Bisogna che cerchi di sloggiare di qui; - disse Lapo, - ma con questa gamba così rovinata, come farò mai! Il cane gli leccò le mani, come se volesse dirgli di aspettare un momento e poi corse via. - La morte è brutta quando la viene fra i piedi, - diceva Lapo che aveva l'uso di dire a voce alta tutti i pensieri che gli passavano per la mente. - Finché si vede da lontano, ci si scherza; ma ora gli è un'altra faccenda. Se non c'è qualcuno che mi soccorra, son bell'e fritto, perché di peccatucci non ne ho pochi sulla coscienza, e il Diavolo mi porterà all'inferno dritto dritto! Povero Lapo, ieri tanto arzillo e oggi mogio mogio! Si dice che dopo la burrasca viene il sereno, ma per me non verrà più e non rivedrò neppure la mi' Signa! Così lamentandosi sulla propria sorte egli s'era intenerito, e ora piangeva a calde lacrime. - San Rocco benedetto, - aggiunse col viso nero e polveroso tutto solcato di lacrime, - se siete proprio voi che mi avete mandato quel cane, non mi abbandonate così. Se mi aiutate, non vi posso promettere né una tavola d'altare, né qualche voto di argento o d'oro; ma vi prometto di far, per devozione, un pellegrinaggio alla Verna, magari con una gamba sola, perché quell'altra ormai è ita, e vi prometto anche di mordermi le dita tutte le volte che una di quelle maledette bestemmie mi corra alle labbra. Intanto che si lamentava a quel modo, impetrando l'aiuto di san Rocco, ecco che la gamba gl'incomincia a dolere terribilmente e, riscaldata dal sole ardente di giugno, gli scottava come un tizzo di fuoco. - San Rocco è sordo come tutti gli altri santi, - disse Lapo, - e son bell'e fritto! Frattanto egli stava per coricarsi sulla nuda terra, spossato e scoraggiato, quando vide tornare di corsa il cane e non fece a tempo a difendere la gamba ferita, che già quello aveva addentato la calza che gliela copriva, e la stracciava furiosamente con le zanne. Lapo, anche in quel momento, espresse a voce alta i suoi pensieri: - Morte, come sei brutta; se mi vuoi davvero, pigliami subito, e non mi fare sbrandellare così da un cane da pastore! Ma il cane, appena ebbe strappato la calza, andò a tuffare il muso in un rivo e ne bagnò la ferita. E tante volte tornò all'acqua, finché non ebbe tolto dalla piaga tutto il sangue che v'era rimasto aggrumato; poi raccolse di terra certe erbe che aveva recato in bocca giungendo, e le stese sulla gamba. - Che cane! - esclamò Lapo sentendosi sollevato dal dolore dopo quella medicatura. - Io scommetto, sapiente animale, che tu hai imparato a curar le piaghe stando al servizio di san Rocco? Il ferito s'aspettava una risposta, perché ormai da quella bestia nulla più lo meravigliava; ma il cane non fece altro che scodinzolare, poscia fuggì, e Lapo rimase di nuovo solo, ma per poco, ché di lì a un momento l'animale tornò strascinando un lenzuolo. Rise il soldato a quella vista, e non capì lì per lì per qual ragione glielo recasse; ma quando osservò che il cane, tirandolo con i denti e reggendolo con le zampe, come se volesse spolpare un osso, lo stracciava in tante strisce, fece un lancio di meraviglia e gridò: - Evviva il cane cerusico ed il suo santo protettore! - e buttò all'aria l'elmo in segno di gioia. Raccolse infatti le sottili bende, con quelle si fasciò la ferita, e dopo essersi ristorato con le vivande che il cane avea prese nel carro, disse all'animale: - Vogliamo andarcene da questo campo di morte prima che cali la sera? Se te lo devo dire, la vicinanza di questi ceffi di morti e i lamenti dei feriti non mi vanno a genio. Aiutami, e io ti vorrò più bene che a tutte le creature della terra e dell'aria. Il cane non si fece ripetere due volte l'invito, e, alzatosi sulle gambe di dietro, infilò una delle zampe davanti sotto l'ascella di Lapo, il quale, appoggiandosi sopra un troncone di asta raccolto in terra e camminando a piè zoppo, poté allontanarsi da Campaldino e cercar rifugio in una casa di contadini verso Soci, dove per compassione lo misero in un fienile. Lapo, appena coricato su quel letto di fieno, dormì come un ghiro senza pensare a nulla, e così, ben nutrito dal cane e ben riposato, non stette molto a rimettersi in salute; ma la prima volta che si provò a posare il piede in terra, s'accòrse che la gamba non la poteva più raddrizzare e che doveva camminare a piè zoppo. - Sono un uomo rovinato, sono un uomo perduto! - diceva. - Era meglio, cane mio, che tu mi avessi lasciato morire dove ero, piuttosto che farmi tanta assistenza per poi avere questo bel risultato! Lapo senza una gamba è un uomo morto! Il cane gli leccava le mani e guaiva. - Lo capisci anche tu, - continuava Lapo, - che per me non v'è più salvezza? Che cosa vuoi che faccia a questo mondo con una gamba di meno? E senza rammentarsi la promessa fatta a san Rocco, snocciolò una filastrocca di bestemmie degne di un turco. Il cane corse a rintanare il muso fra il fieno, e Lapo, accorgendosi di aver mancato di parola al suo santo protettore, si morse le dita a sangue. La sera di quel giorno, Lapo, appoggiandosi sul troncone d'asta, scese dal fienile e, ringraziati i contadini, stava per andarsene tutto sconsolato, quando il vecchio capoccia gli disse: - Ma come farai a tornartene a casa tua con una gamba sola? - Non ci penso neppure a tornare a casa! Signa è lontana, e poi così mutilato non avrei faccia di presentarmi a nessuno. - E che vuoi fare allora? - Quel che vorrà san Rocco; è lui che m'ha tenuto in vita e che m'ha mandato questo cane; mi figuro che per qualche cosa egli abbia voluto che non crepassi. - Aspetta, - rispose il capoccia, - ho visto una volta uno storpiato come te che si serviva di un certo armeggio per poter camminare; guardiamo se mi riesce di fartene uno. E preso dalla legnaia un ceppo di lecciolo, lo misurò al ginocchio dello storpio per vedere se era largo abbastanza per potervelo appoggiare; poi, lo assottigliò da un lato con l'accetta, vi fece con lo scalpello una specie di buco dal lato opposto, e, fasciato quell'armeggio con alcune cinghie di cuoio che tolse da una sua bisaccia, lo affibbiò alla gamba inferma. - Cammina, - ordinò il contadino a Lapo. Lo storpiato non se lo fece dir due volte e incominciò a battere in terra, gridando: - Ora il mio passo è accompagnato dalla musica: bim, bum; bim, bum! Nella sua allegria di potersi movere, Lapo aveva dimenticato la promessa fatta a san Rocco, e appena fu sulla strada maestra, invece di domandare al primo che incontrava quale via avrebbe dovuto seguire per giungere al gran sasso della Verna, domandò dove poteva trovare un'osteria, e, saputolo, si diresse a quella volta. Sotto una pergola v'erano alcuni soldati della sua compagnia che bevevano e giuocavano ai tarocchi. Appena lo videro gli corsero incontro dicendogli che lo avevan creduto morto, e domandandogli come aveva fatto a scampar dalla ferita. Lapo si mise a raccontare per filo e per segno quello che gli era occorso, ma quando chiamò il cane per mostrare agli amici il suo salvatore, chiama che ti chiamo, il cane non c'era più. Lo storpio non ci fece caso, perché era assuefatto a vederlo sparire ogni momento, e una volta imbrancato con gli antichi compagni bevve e giuocò tutto quanto aveva in tasca, finché, disperato di trovarsi senza un soldo, bestemmiò tutti i santi del Paradiso, compreso san Rocco, per non far parzialità. L'oste, sapendo che era al verde, non volle dargli da dormire, e Lapo dovette passare la notte allo scoperto. Ma trovandosi così abbandonato, gli venne il pentimento per quello che aveva fatto, e pianse e si raccomandò come un bambino, non solo a san Rocco, ma anche agli altri santi, che non gli levassero la loro protezione. Peraltro il cane non ricomparve, ed egli rimase tutta la notte con le spalle appoggiate ad un albero a pensare alla sua sorte. La mattina dopo, all'albeggiare, appoggiandosi sul troncone dell'asta e zoppicando, si avviò sulla via maestra chiedendo l'elemosina a quanti incontrava; ma tutti gli rispondevano: - Ben ti sta del tuo malanno, can d'un fiorentino! - Ma che si son dati l'intesa, che tutti mi rispondono a un modo? - esclamò Lapo, che sempre parlava a voce alta con se stesso. - Forse mi riconoscono a questo giglio che mi feci rapportare sul giustacore; ma se arrivo alla Verna voglio vestire il saio, e allora il giglio non mi farà più inviso a nessuno. E senza sgomentarsi per l'erta via, passa sotto Bibbiena e si inerpica sull'aspro monte. Quella salita si fa male con due gambe; figuriamoci quel che sia il farla con una gamba sola ed a stomaco vuoto! Lapo doveva fermarsi ogni momento, e quando si sedeva sopra un sasso, si lamentava più della notte dopo la battaglia, quando era in mezzo ai morti e ai feriti. Mentre era colà in preda alla disperazione, vide salire per l'erta un frate cercatore, che guidava un asino carico di bisacce. - Frate benedetto, - gli disse con voce piagnucolosa, - ho promesso al mio santo protettore, a san Rocco, di compiere il pellegrinaggio della Verna; ma con una gamba sola mi è assai disagevole il far la salita; mi faresti portar dal tuo asino? - Non vedi, - rispose il Frate, - che egli già s'inginocchia sotto il peso? - Ma di quello lo libererò io, - replicò Lapo, - e lo caricherò sulle mie spalle. Il Frate, che era un semplicione e al convento non lo impiegavano altro che alla cerca, non s'accòrse che l'asino avrebbe portato lo stesso il carico, ed aiutò Lapo a salire sul ciuco. Ma questi, a forza di frusta mosse due passi e poi fece una genuflessione come se si fosse veduto davanti san Francesco in carne e ossa, che aveva virtù di comandare agli uccelli, ai pesci e persino ai lupi. - Il tuo asino è stanco, - disse Lapo cui era tornato l'umor faceto. - Fa' una cosa: caricati sulle spalle queste bisacce e tu guadagnerai il Paradiso, perché avrai sudato per portare al convento l'elemosina per i poveri. Il Frate, assuefatto all'ubbidienza, si mise le bisacce sul groppone e arrivò al convento, rosso e trafelato, mentre Lapo vi giunse comodamente. Lassù, come avviene a tutti i pellegrini, egli fu refocillato e ospitato. - Ora che ci sono e che ho compiuta la penitenza, - disse Lapo, - è bravo chi mi manda via. Per fare il soldato non son più buono, ma per vestire il saio, sì. Per molti giorni Lapo rimase alla Verna, e gli pareva d'essere in Paradiso in mezzo a quella frescura, fra quella gente che gli diceva buone parole. Dipingeva allora una cappelletta detta degli Angeli, un certo frate Bigio fiorentino, il quale, attaccato discorso con lo zoppo, si fece narrare come era rimasto impedito nella gamba nonché tutte le avventure capitategli dopo, e financo il sogno. Lapo non aveva la lingua punto legata, sicché frate Bigio, dopo esserlo stato a sentire una mezz'ora, sapeva vita, morte e miracoli di lui, ed essendo persuaso che il sogno e l'aiuto miracoloso del cane significassero che lo storpiato aveva in Cielo qualche santo protettore, volle acquistarlo al convento, affinché la protezione si estendesse anche su questo. Così con bei modi prese a dimostrargli come il mestiere del soldato portava gli uomini alla eterna perdizione, perché oltre i vizî che in quella vita randagia s'incontrano e l'uso del mal parlare, avviene sovente che sieno colpiti improvvisamente dalla morte, senza che abbiano tempo di raccomandar neppure l'anima a Dio. - Frate Bigio, lo so anch'io, - rispondeva Lapo, - e anche prima di esser ferito, avrei voluto campare altrimenti; ma non sono atto a far nulla. - Vedremo, vedremo, - replicava il Frate. - Ti contenteresti, per esempio, d'indossar l'abito e andare in giro per la cerca? - Magari mi contenterei; ma come volete che me ne vada per le salite e per le scese con questa gamba unica? - C'è il somaro che ne ha quattro e che ti potrebbe portare. - Allora dico di sì subito, e se mi fate presto toglier da dosso quest'abito e questo elmetto, che mi rivelano per fiorentino in questo paese dove i fiorentini sono discacciati come se fossero diavoli, io vi prometto, frate Bigio, che dirò per voi tutti i giorni la coroncina a san Rocco, mio protettore. - Io te ne sarò grato, e avrò caro che tu resti fra noi, poiché ciò che m'hai narrato è così strano che io voglio raffigurarti, mentre ricevi la visione di san Rocco in qualcuno degli affreschi di cui vado ornando il refettorio. Perciò conserva codesti abiti anche quando avrai vestito il saio, affinché io possa farteli riprendere al momento in cui mi occorrerà di ritrarti. Lapo non tardò ad ascriversi all'Ordine, ma senza aspirar però né a dir messa né a confessare, poiché non conosceva l'a dalla zeta e anche il pater noster lo seminava di una ventina di strambotti. Appena ebbe vestito il saio se ne andò alla cerca, e nessuno degli altri cercatori riportava al convento tanti donativi quanti egli ne recava. - Come fai? - gli domandavano gli altri frati. - San Rocco mi aiuta, - rispondeva egli. Ma non era, davvero, mercé l'aiuto di san Rocco, che Lapo mangiava e beveva a crepapelle e poi riportava tanta roba su alla Verna. Tutta quella grazia di Dio la doveva alle sue ladre fatiche, perché è d'uopo sapere che sebbene egli avesse vestito l'abito di san Francesco, era più ribaldo che mai. Ecco che cosa aveva fatto. Prima di tutto aveva pregato frate Bigio che gli facesse un quadretto da appendersi nella chiesa del convento, nel quale egli fosse raffigurato mentre san Rocco gli mandava il cane a leccargli la ferita; e, non contento di questo, aveva ottenuto dal buon Frate che da un lato della tavola dipingesse il sogno, poi la sua conversione, e che sotto al quadro scrivesse il racconto di quel periodo della sua vita. Poi, dallo stesso Frate si fece fare un buon numero di abitini di tela da portarsi al collo, con l'immagine di san Rocco e il cane. Naturalmente ogni giorno una gran quantità di gente saliva per devozione alla Verna, vedeva il quadro di frate Bigio, era informato del miracolo, e quando quella gente tornava a casa, spargeva in tutto il contado la notizia. Così, quando fra' Lapo si presentava a chieder la carità con la gamba di legno e il saio, tutti lo pregavano d'intercedere per loro san Rocco, e non lesinavano nel dare al Frate ogni ben di Dio. Lapo ringraziava umilmente, e ai donatori più generosi lasciava l'abitino. A pregare per gli oblatori non ci pensava neppure, anzi, se aveva alzato il gomito più del consueto, snocciolava a voce alta per la via una litania di bestemmie da far venir la pelle d'oca. Così durò il Frate alcun tempo, e più grande si faceva nel contado la sua nomea di sant'uomo, e più prendeva baldanza. Né si limitava a regalare soltanto gli abitini, ma se era richiesto da qualche malato per ottenere da san Rocco la guarigione, portava delle erbe che diceva gli erano state additate dal Santo come salutari, e pronunziava parole che non appartenevano a nessuna lingua. E di questi inganni fra' Lapo non provava nessun rimorso. Egli non si dava cura altro che di mangiare e bere. Una sera, mentre tornava sull'imbrunire al convento, egli diceva fra sé: - Con queste erbe e con questi esorcismi ho trovato un tesoro. Oltre il grano, il vino e i polli, mi dànno anche elemosine in denari. Quando ne avrò raggruzzolati abbastanza, butto il saio in un burrone e mi metto la via fra le gambe per tornare a Signa. E allora, Lapo mio, che baldorie! Mentre così diceva, era giunto a un bosco molto folto, e il somaro s'impuntò senza voler fare un passo avanti. Lapo gli dette un paio di frustate, ma l'asino tenne duro. Allora a un tratto uscì dal bosco il solito can da pastori, che un tempo aveva soccorso Lapo, e con un morso gli staccò tre dita della mano destra; poi fuggì di nuovo a rintanarsi fra gli alberi. Fra il dolore e la paura, Lapo credé di morire, e non trovava neppur la forza di spronare il somaro per uscire da quel luogo cupo e solitario. Prima che il somaro si rimettesse in moto, tal quale come nel sogno, Lapo vide scendere dalla vetta altissima di un poggio un'aquila con le ali spiegate, che si mise a fare cerchi sulla testa di lui. - È finita! San Rocco pietoso aiutatemi, mi pento, salvatemi! E si buttò di sotto dal somaro. Alla invocazione di san Rocco il cane era tornato accanto a Lapo e lo aveva afferrato per la gamba sana, mentre l'aquila s'era attaccata con gli artigli a quella di legno e tirava anch'essa. Tira tira, le cinghie cederono, e l'aquila scappò via scorbacchiata con quell'armeggio fra le zampe; anche il cane lasciò la presa, e, come aveva stagnato a Lapo il sangue della gamba sul campo di battaglia, così questa volta gli stagnò quello che gli usciva dalle dita mozzate. Come Dio volle fra' Lapo risalì sul ciuco e si diresse al convento. - Torno in un bello stato, - disse al frate portinaio, - mi mancano tre dita e la gamba. - Foste forse assalito dai predoni? - domandò l'altro. - Così m'hanno ridotto il Cielo e l'Inferno, - rispose fra' Lapo. - Fratello, qui non si scherza, bisogna prepararsi a morire! - Noi ci prepariamo ogni giorno e ad ogni ora al gran passo. Per questo la morte non ci coglie mai alla sprovvista. - Così potessi dir io! - esclamò Lapo tutto afflitto, - ma sono ancora un gran peccatore. - Fate pubblica confessione. - La farò domattina. Infatti la mattina dopo, Lapo si fece portare nella chiesina degli Angeli, perché non poteva più camminare senza l'armeggio di legno; ma quando a voce alta si mise a narrare tutti i suoi inganni, i frati incominciarono a gridare: - È maledetto! È maledetto! E lo fecero portare fuori del recinto della Verna. - Ieri l'Inferno e il Paradiso si disputavano l'anima mia; oggi non mi vuole né Cristo né il Diavolo. Aspettiamo per veder quello che succede, - disse Lapo. E tanto per consolarsi, trasse fuori dalla scarsella i quattrini accumulati con frode e con inganni e si diede a contarli; ma eccoti che mentre contava gli vola in grembo una gazza, piglia i fiorini nel becco e fugge. - Ora son bell'e spacciato! - disse, - mi pigli anche il Diavolo non me ne importa più nulla! E difatti, nel colmo della notte scese il Diavolo, e, afferratolo, se lo portò all'Inferno. I ragazzi capirono che la novella era finita e ringraziarono la vecchia, la quale trattenne i piccoli invitati, dicendo loro: - O che la pattona non la volete? - Orsù, servitevi! - disse la Carola. Nessuno si fece pregare. E ne mangiarono anche i grandi, specialmente Cecco, che al reggimento non l'aveva mai neppur veduta. - Ora andate a casa, - diss'egli agli amici dei nipoti, - e se la novella e la pattona vi son piaciute, tornate la vigilia di Capo d'anno. - Verremo! - risposero i bambini uscendo tutt'allegri.

La tregua

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Levi, Primo 1 occorrenze

Così ci presentammo sull' aia, accolti con saluti affettuosi e risatine d' intesa dalle vecchiette, e da un furioso abbaiare di cani. Quando il silenzio si fu ristabilito, forte del mio Michele Strogoff e di altre lontane letture, dissi: _ Telega. Staryje Doroghi, _ e mostrai gli otto rubli. Seguì un mormorio confuso: strano a dirsi, nessuno aveva capito. Tuttavia, il mio compito si annunciava meno arduo di quello della sera precedente: in un angolo dell' aia, sotto una tettoia, avevo scorto un carro agricolo a quattro ruote, lungo e stretto, con le sponde a "V"; insomma, una telega. La toccai, un po' spazientito per la ottusità di quella gente: non era forse una telega? _ Tjeljega! _ mi corresse il barbone, con severità paterna, scandalizzato dalla mia pronuncia barbarica. _ Da. Tjeljega na Staryje Doroghi. Noi pagare. Otto rubli. L' offerta era irrisoria: l' equivalente di due uova per trenta più trenta chilometri di strada, dodici ore di cammino. Invece, il barbone intascò i rubli, sparì nella stalla, tornò con un mulo, lo attaccò fra le stanghe, ci fece segno di montare, caricò qualche sacco sempre in silenzio, e partimmo verso la strada principale. Cesare andò a chiamare gli altri, di fronte ai quali non perdemmo l' occasione di darci un mucchio d' importanza. Avremmo fatto un comodissimo viaggio in telega, anzi in tjeljega, e un ingresso trionfale a Staryje Doroghi, il tutto per otto rubli: ecco che cosa voleva dire la conoscenza delle lingue e l' abilità diplomatica. In realtà, ci accorgemmo poi (e purtroppo se ne accorsero anche i compagni) che gli otto rubli erano stati pressoché sprecati: il barbone doveva andare a Staryje Doroghi comunque, per non so quali suoi affari, e forse ci avrebbe caricati anche gratis. Ci mettemmo in strada verso mezzogiorno, sdraiati sui non troppo morbidi sacchi del barbone. Era comunque molto meglio che viaggiare a piedi: potevamo fra l' altro godere a nostro agio del paesaggio. Questo era per noi insolito, e stupendo. La pianura, che il giorno prima ci aveva oppressi con la sua solenne vacuità, non era più rigorosamente piatta. Era increspata in lievissime, appena percettibili ondulazioni, forse antiche dune, non più alte di qualche metro, tuttavia quanto bastava per rompere la monotonia, riposare l' occhio, e creare un ritmo, una misura. Fra l' una e l' altra ondulazione si estendevano stagni e paludi, grandi e piccole. Il terreno scoperto era sabbioso, e irto qua e là di selvagge macchie di arbusti: altrove erano alberi alti, ma rari e isolati. Ai due lati della strada giacevano informi relitti rugginosi, artiglieria, carri, filo spinato, elmetti, bidoni: i resti dei due eserciti che per tanti mesi si erano affrontati in quei luoghi. Eravamo entrati nella regione delle paludi del Pripet. La strada e la terra erano deserte, ma poco prima del tramonto notammo che qualcuno ci inseguiva: un uomo, nero sul bianco della polvere, che camminava con vigore alla nostra volta. Guadagnava terreno lentamente ma continuamente: presto fu a portata di voce, e riconoscemmo in lui il Moro, Avesani di Avesa, il gran vecchio. Aveva anche lui pernottato in qualche nascondiglio, e ora marciava su Staryje Doroghi con passo di tempesta, i capelli bianchi al vento, gli occhi sanguigni fissi davanti a sé. Procedeva regolare e potente come una macchina a vapore: aveva legato sul dorso il famoso e pesantissimo involto, e appesa a questo lampeggiava la scure, come la falce di Kronos. Si accingeva a sorpassarci come se non ci vedesse o non ci riconoscesse. Cesare lo chiamò e lo invitò a salire con noi. _ Il disonor del mondo. Brutti porchi disumani, _ rispose prontamente il Moro, dando voce alla litania blasfema che perpetua gli occupava la mente. Ci superò, e proseguì la sua mitica marcia verso l' orizzonte opposto a quello da cui era sorto. Il Signor Unverdorben sapeva sul Moro assai più cose di noi: apprendemmo in quella occasione che il Moro non era (o non era soltanto) un vecchio lunatico. L' involto aveva un perché, e così pure lo aveva la vita errante del vecchio. Vedovo da molti anni, aveva una figlia, una sola, ormai quasi cinquantenne, e questa era a letto paralizzata: non sarebbe guarita mai. Per questa figlia il Moro viveva: le scriveva ogni settimana lettere destinate a non pervenirle; per lei sola aveva lavorato tutta la vita, ed era diventato moro come il legno di noce e duro come la pietra. Per lei sola, in giro per il mondo da emigrante, il Moro insaccava tutto quanto gli capitava a tiro, qualunque oggetto che presentasse anche solo la minima possibilità di essere goduto o scambiato. Non incontrammo altri viventi fino a Staryje Doroghi. Staryje Doroghi fu una sorpresa. Non era un villaggio; o meglio, un minuscolo villaggio esisteva, in mezzo al bosco, poco discosto dalla strada: ma lo apprendemmo più tardi, e così pure apprendemmo che il suo nome significa "Vecchie Strade". Invece, l' acquartieramento a noi destinato, a tutti noi millequattrocento italiani, era un unico gigantesco edificio, isolato ai margini della strada in mezzo a campi incolti e a propaggini della foresta. Si chiamava "Krasnyj Dom", la Casa Rossa, e in effetti era rossa senza economie, di dentro e di fuori. Era una costruzione veramente singolare, cresciuta senz' ordine in tutte le direzioni come una colata vulcanica: non si capiva se opera di molti architetti fra loro discordi, o di uno solo ma matto. Il nucleo più antico, ormai sopraffatto e soffocato da ali e corpi fabbricati confusamente più tardi, consisteva di un blocco di tre piani, suddivisi in camerette forse già adibite a uffici militari o amministrativi. Ma intorno a questo si trovava di tutto: una sala per conferenze o riunioni, una serie di aule scolastiche, cucine, lavatoi, un teatro con almeno mille posti, una infermeria, una palestra; accanto alla porta principale, uno sgabuzzino con misteriosi supporti, che interpretammo come un deposito per sci. Ma anche qui, come a Sluzk, nulla o quasi nulla era rimasto del mobilio e dell' attrezzatura; non solo mancava l' acqua, ma perfino le tubazioni erano state asportate, e così pure i fornelli delle cucine, le sedie del teatro, i banchi delle aule, le ringhiere delle scale. Della Casa Rossa le scale costituivano l' elemento più ossessivo. Se ne trovavano in abbondanza, nello sterminato edificio: scale enfatiche e prolisse che conducevano ad assurdi stambugi pieni di polvere e di ciarpame: altre strette e irregolari, interrotte a metà da una colonna tirata su alla brava per puntellare un soffitto pericolante; frammenti di scale sbilenchi, biforcuti, anomali, che raccordavano piani sfalsati di corpi adiacenti. Memorabile fra tutte, lungo una delle facciate, uno scalone ciclopico, che saliva per quindici metri da un cortile invaso dall' erba, con scalini ampi tre metri, e non conduceva in nessun luogo. Intorno alla Casa Rossa non v' era alcuna recinzione, sia pure solo simbolica come a Katowice. Non vi era neppure un servizio di sorveglianza vero e proprio: davanti all' ingresso soggiornava sovente un soldato russo, per lo più giovanissimo, ma non aveva alcuna consegna nei riguardi degli italiani. Il suo compito era solo quello di impedire che altri russi venissero di notte a molestare le donne italiane nelle loro camerate. I russi, ufficiali e soldati, abitavano in una baracca di legno poco lontana, e altri, di passaggio lungo la strada, vi facevano tappa saltuariamente: ma di rado si occupavano di noi. Chi si occupava di noi era un gruppetto di ufficiali italiani, ex prigionieri di guerra, piuttosto altezzosi e sgarbati; erano pesantemente consci della loro condizione di militari, ostentavano disprezzo e indifferenza nei confronti di noi borghesi, e, cosa che non mancò di stupirci, mantenevano ottimi rapporti coi pari-grado sovietici della baracca accanto. Anzi, godevano di una situazione privilegiata non soltanto rispetto a noi, ma anche rispetto alla truppa sovietica stessa: mangiavano alla mensa-ufficiali russa, indossavano uniformi sovietiche nuove (senza gradi) e buoni stivali militari, e dormivano in lettini da campo con lenzuola e coperte. Neanche da parte nostra, tuttavia, c' era ragione di lamentarsi. Eravamo trattati esattamente come i soldati russi quanto a vitto e ad alloggio, e non eravamo tenuti ad alcuna particolare obbedienza o disciplina. Solo pochi italiani lavoravano, quelli che si erano offerti spontaneamente per il servizio di cucina, dei bagni e del gruppo elettrogeno: inoltre Leonardo come medico, ed io come infermiere; ma oramai, con la buona stagione, i malati erano pochissimi, e il nostro incarico era una sinecura. Chi voleva, se ne poteva andare. Parecchi lo fecero, alcuni per pura noia o spirito di avventura, altri tentando di passare i confini e tornare in Italia; ma ritornarono tutti, dopo qualche settimana o mese di vagabondaggi: poiché, se il campo non era né sorvegliato né cintato, lo erano invece, e fortemente, le lontane frontiere. Non vi era da parte russa alcuna velleità di pressione ideologica, anzi, nessun tentativo di discriminazione fra noi. La nostra comunità era troppo complicata: ex militari dell' ARMIR, ex partigiani, ex Häftlinge di Auschwitz, ex lavoratori della Todt, ex rei comuni e prostitute di San Vittore, comunisti o monarchici o fascisti che noi fossimo, nei nostri confronti vigeva da parte dei russi la più imparziale indifferenza. Eravamo italiani, e tanto bastava: il resto era "vsjò ravnò", tutto uguale. Dormivamo su tavolati di legno coperti con sacconi di paglia: sessanta centimetri per uomo. Da principio protestammo, perché ci sembrava poco: ma il comando russo ci fece cortesemente osservare che il nostro reclamo era infondato. Sulla testata del tavolato si potevano ancora leggere, scarabocchiati a matita, i nomi dei soldati sovietici che avevano occupato quei posti prima di noi: che giudicassimo noi stessi, c' era un nome ogni cinquanta centimetri. Lo stesso si poteva dire, e ci fu detto, a proposito del vitto. Ricevevamo un chilo di pane al giorno: pane di segala, poco lievitato, umido e acido: ma era molto, ed era il loro pane. E la "kasa" quotidiana era la loro "kasa": un blocchetto compatto di lardo, miglio, fagioli, carne e spezie, nutriente ma ferocemente indigesto, che solo dopo vari giorni di esperimenti imparammo a rendere commestibile facendolo bollire per varie ore. Tre o quattro volte alla settimana, poi, veniva distribuito il pesce, "ryba". Era pesce di fiume, di dubbia freschezza, pieno di spine, grosso, crudo, non salato. Che farne? Pochi fra noi si adattarono a mangiarlo così com' era (così facevano molti russi): per cuocerlo, ci mancavano i recipienti, il condimento, il sale e l' arte. Presto ci convincemmo che la miglior cosa era rivenderlo ai russi medesimi, ai contadini del villaggio o ai soldati che passavano per la strada: un nuovo mestiere per Cesare, che in breve lo portò ad un alto grado di perfezione tecnica. Al mattino dei giorni di pesce, Cesare faceva il giro delle camerate, munito di un pezzo di filo di ferro. Incettava la "ribba", la infilava da occhio a occhio nel filo di ferro, si infilava a tracolla la ghirlanda graveolente, e spariva. Tornava dopo molte ore, a volte a sera, e distribuiva equamente fra i suoi mandanti rubli, formaggio, quarti di pollo e uova, con vantaggio di tutti e principalmente suo. Con i primi utili del suo commercio si comperò una stadera, per il che il suo prestigio professionale si accrebbe notevolmente. Ma per realizzare compiutamente un certo suo disegno gli occorreva un altro strumento, di utilità meno ovvia: una siringa. Non c' era da sperare di trovarne una al villaggio russo, e perciò venne da me in infermeria, a chiedermi se gliene potevo imprestare una. _ Cosa te ne vuoi fare? _ gli chiesi. _ Che ti frega. Una siringa. Qui ne avete tante. _ Di che misura? _ La più grossa che tenete. Anche se è un po' malandata, non fa niente. Ce n' era una infatti, da venti centimetri cubi, scheggiata e praticamente inservibile. Cesare la esaminò con cura, e dichiarò che faceva al caso suo. _ Ma a che ti serve? _ domandai ancora una volta. Cesare mi guardò torvo, urtato dalla mia mancanza di tatto. Mi disse che erano cavoli suoi, una sua pensata, un esperimento, e che poteva finire bene o male, e che in ogni modo io ero un bel tipo a volermi incaricare a tutti i costi delle sue faccende private. Incartò accuratamente la siringa e se ne andò come un principe offeso. Tuttavia il segreto della siringa non durò a lungo: la vita a Staryje Doroghi era troppo oziosa perché non vi proliferassero il pettegolezzo e l' interferenza negli affari altrui. Nei giorni successivi, Cesare fu visto dalla sora Letizia andare per acqua con un secchio e portarlo nel bosco; fu visto dalla Stellina nel bosco stesso, seduto per terra col secchio in mezzo a una corona di pesci, ai quali "sembrava che desse da mangiare"; e finalmente fu incontrato nel villaggio dal Rovati, suo concorrente: era senza secchio e vendeva pesci, ma erano pesci stranissimi, grassi, duri e rotondi, e non piatti e flosci come quelli della razione. Come avviene per molte scoperte scientifiche, la pensata della siringa era scaturita da un insuccesso e da una osservazione fortuita. Pochi giorni prima, Cesare aveva barattato pesce al villaggio contro una gallina viva. Era tornato alla Casa Rossa persuaso di avere fatto un ottimo affare: per soli due pesci gli avevano dato una bella pollastra, non più giovane e con un' aria un po' malinconica, ma straordinariamente grassa e grossa. Senonché, dopo di averla ammazzata e spennata, si era accorto che qualcosa non andava; la gallina era dissimmetrica, aveva la pancia tutta da una parte sola, e offriva alla palpazione qualcosa di duro, mobile ed elastico. Non era l' uovo: era una grossa cisti acquosa. Cesare, naturalmente, era corso ai ripari, ed era riuscito a rivendere subito l' animale nientemeno che al ragionier Rovi, guadagnandoci ancora sopra: ma poi, come un eroe stendhaliano, ci aveva pensato su. Perché non imitare la natura? Perché non provare coi pesci? Da principio aveva tentato di riempirli d' acqua con una cannuccia, dalla parte della bocca, ma l' acqua tornava tutta fuori. Allora aveva pensato alla siringa. Colla siringa si notava in molti casi un certo progresso, che però dipendeva dal punto in cui si praticava l' iniezione: a seconda di questo, l' acqua usciva nuovamente, subito o poco dopo, oppure restava dentro indefinitamente. Allora Cesare aveva dissecato diversi pesci con un coltellino, e aveva potuto stabilire che l' iniezione, per avere effetto permanente, doveva essere fatta nella vescica natatoria. In questo modo i pesci, che Cesare vendeva a peso, inoltre avevano un aspetto molto più attraente. Certo, la "ribba" così trattata non si poteva vendere due volte allo stesso cliente; ma la si poteva vendere benissimo ai soldati russi smobilitati che passavano sulla strada diretti a oriente, e che avrebbero potuto accorgersi della faccenda dell' acqua solo a molti chilometri di distanza. Ma un giorno ritornò nero in viso; era senza pesce, senza soldi e senza merce: _ Mi sono fatto incastrare _. Per due giorni non ci fu modo di rivolgergli la parola, se ne stava raggomitolato sul paglione, ispido come un porcospino, e scendeva solo per i pasti. Gli era successa un' avventura diversa dalle solite. Me la raccontò più tardi, in una lunghissima sera tiepida, raccomandandomi di non riferirla in giro, poiché, se si fosse risaputa, la sua onorabilità commerciale ne avrebbe sofferto. Infatti, il pesce non gli era stato strappato con la violenza da un russo ferocissimo, come in un primo tempo aveva cercato di lasciare intendere: la verità era un' altra. Il pesce lo aveva regalato, mi confessò, pieno di vergogna. Era andato al villaggio, e, per evitare clienti già bruciati in precedenza, non si era fatto vedere nella strada principale, ma aveva preso un sentiero che si inoltrava nel bosco; dopo qualche centinaio di metri aveva visto una casetta isolata, anzi, una baracca di mattoni a secco e lamiera. Fuori c' era una donna magra vestita di nero, e tre bambini pallidi seduti sulla soglia. Si era avvicinato e le aveva offerto il pesce: e quella gli aveva fatto capire che il pesce lo avrebbe voluto sì, ma non aveva niente da dargli in cambio, e che lei e i bambini non mangiavano da due giorni. Lo aveva anche fatto entrare nella baracca, e nella baracca non c' era niente, solo delle cucce di paglia come in un canile. A questo punto i bambini lo avevano guardato con degli occhi tali, che Cesare aveva buttato giù il pesce ed era scappato come un ladro.

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Vizio di forma

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Levi, Primo 1 occorrenze

Si udì a un tratto un cane abbaiare. Ci fermammo: veniva proprio verso di noi, galoppando orizzontalmente lungo una delle terrazze. Poteva essere un bene o un male: dalla voce, non doveva essere un cane molto grosso, però abbaiava con sdegno e con tenacia, fin quando gli mancava il fiato, e allora lo si sentiva aspirare l' aria con un corto rantolo convulso. In breve fu a pochi metri sotto di noi, e fu chiaro che non abbaiava per capriccio, ma per dovere: non intendeva lasciarci entrare nel suo territorio. Clotilde gli chiese scusa per l' invasione, e gli spiegò che avevamo perso la strada e non volevamo altro che andarcene; perciò, lui faceva bene ad abbaiare, era il suo mestiere, ma se ci avesse insegnato la strada che portava a casa sua avrebbe fatto meglio, e non avrebbe perso tempo lui e neanche noi. Parlava con voce così tranquilla e persuasiva che il cane si quietò subito: lo intravvedevamo sotto di noi come una vaga chiazza bianca e nera. Scendemmo di pochi passi, e sentimmo sotto i piedi la durezza elastica della terra battuta. Il cane si incamminò a mezza costa verso destra, uggiolava ogni tanto, e si fermava a vedere se lo seguivamo. Dopo un quarto d' ora arrivammo così alla casa del cane, accolti da un tremulo coro di belati caprini: di lì, nonostante l' oscurità, trovammo facilmente un viottolo ben segnato che scendeva al paese.

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IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Eppure, quantunque i cani continuassero ad abbaiare in lontananza, nessun pericolo pareva che li minacciasse. Marciavano già da qualche ora sempre in mezzo alle canne, quando il bucaniere si fermò di colpo, dicendo rapidamente: - Abbassatevi! Il conte il basco ed il guascone si erano affrettati ad obbedire. - Che cosa c'è dunque? chiese il conte, dopo qualche istante di attesa. - Rimanete qui, signore, rispose Buttafuoco. - Siamo piú vicini di quello che crediamo alla villa della marchesa; non so però se potremo facilmente raggiungerla. Io mi domando se per caso gli spagnuoli hanno indovinato le nostre intenzioni. - Perché dite questo, Buttafuoco? - Mi spiegherò quando sarò tornato. - Vi allontanate? - È necessario, signor conte: ma la mia assenza non sarà lunga. Voglio essere certo che non cadiate in qualche imboscata. Quello che vi raccomando è di non muovervi, qualunque cosa dovesse accadere, e se vi attaccano, di resistere fino al mio ritorno, altrimenti non saprei piú ritrovarvi fra tutte queste canne e queste erbe palustri. E poi potreste cadere nella savana tremante che deve trovarsi sulla vostra destra, e non uscireste mai piú da queste sabbie. - Dunque siamo seriamente minacciati? - disse il signor di Ventimiglia un po' preoccupato della brutta piega che prendevano le cose. - Non so nulla per ora. Addio, signor conte, e se non mi spaccano il cranio con una palla, mi rivedrete presto. Ciò detto il bucaniere si mise a scivolare fra le canne, senza produrre il piú leggero rumore, allontanandosi velocemente. - Che questa caccia non finisca piú? - disse il guascone. - Signor conte, avete fatto male a lasciare San Domingo. Se foste ritornato nella mia soffitta, nessuno sarebbe venuto a cercarvi di certo. - Ma se volevate accopparci! - disse Mendoza. - Perché vi avevo creduto due ladri - rispose don Barrejo. - Se avessi saputo con quali persone avevo da fare, non avrei sfoderato la mia draghinassa. Speriamo che tutto finisca bene. Non è la pelle che mi dispiacerebbe perdere, bensí i miei dobloni. - Ci tenete tanto? - Un guascone non è mai stato un signore - rispose l'avventuriero con gravità. - Il signor conte può affermarlo. - Io tengo piú alla mia carcassa, quantunque nemmeno i baschi siano mai stati castellani, don Barrejo. - Zitti! - disse il signor di Ventimiglia. - Non è il momento di discutere con la lingua, bensí con l'archibugio. Aveva aperto con precauzione il gruppo di canne che serviva loro di nascondiglio e osservava attentamente dinanzi a sé. - Vengono? - chiese Mendoza. - Non vedo nessuno; eppure se fossi a bordo della mia fregata, mi troverei meglio che qui, anche se ci fossero due galeoni dietro poppa. Un leggiero fruscio si fece udire in quel momento, poi, dopo qualche istante, comparve Buttafuoco. - Partiamo subito, signore! - disse - o non giungeremo mai piú alla fattoria della marchesa. Stiamo per essere circondati. - Ancora? - chiese il conte. - Sono già giunti? Eppure odo sempre i cani latrare verso la savana! - Io non so quante cinquantine si siano messe in campagna per catturarci. A quanto pare gli spagnuoli ci tengono a prendervi. Dopo tutto, non hanno torto: i tre corsari hanno lasciato troppi ricordi nel golfo del Messico! In marcia, signori! Ogni minuto perduto è un grave pericolo di piú per noi. - Riusciremo a passare inosservati? - Sí, lungo la savana tremante - rispose Buttafuoco. Ripartirono velocemente, tenendosi nascosti dietro alle canne, guidati dal bucaniere. Di quando in quando Buttafuoco si gettava a terra e accostava un orecchio al suolo, ascoltando attentamente, poi si rialzava e ripartiva con maggiore velocità. Dopo cinque o seicento metri, i quattro fuggiaschi si trovarono sulla riva di un'altra savana. - Questo è il momento terribile! - disse Buttafuoco. - Le cinquantine sono sulla nostra sinistra. Vi concedo cinque minuti di riposo poiché avrete da mettere, molto probabilmente, le vostre gambe ad una dura prova. - Finiremo col diventare cani levrieri - disse Mendoza, scuotendo il capo. - Questo è un allenamento in piena regola. Il bucaniere lasciò trascorrere i cinque minuti, poi si alzò dicendo: - Tenete pronti gli archibugi! Vengono! ... - Ah! ... poveri i miei dobloni! - mormorò il guascone. Buttafuoco si era slanciato a corsa disperata. Pareva che un improvviso terrore avesse colto quell'uomo che pure sembrava avesse un cuore di bonzo. Ad un tratto si udirono alcuni colpi di archibugio, accompagnati da altissime grida e da latrati furiosi. Le cinquantine si erano accorte del passaggio dei fuggiaschi ed avevano aperto il fuoco. - Fulmini! Piove piombo! - esclamò il guascone, il quale apriva piú che poteva le sue lunghe e magrissime gambe. Alcuni uomini, preceduti da parecchi cani, si erano slanciati fuori dai gruppi di canne, urlando a piena gola: - Ferma! ... Ferma! ... - Sparate prima sui cani! - gridò Buttafuoco. - È necessario! Si era fermato contro il tronco d'una palma e aveva imbracciato l'archibugio. Sette bestiacce giungevano l'una dietro l'altra, con le gole spalancate, urlando come lupi famelici. Buttafuoco sparò il primo colpo, abbattendo il capo-fila che era il piú grosso e che probabilmente doveva essere anche il piú feroce e pericoloso. Il conte ed i suoi compagni a loro volta fecero fuoco, gettandone giú altri, poi snudarono le spade, tenendosi in parte riparati dietro al tronco della palma. Non erano indiani da scappare dinanzi a quei feroci mastini che incutevano agli ingenui figli dell'America centrale, non abituati a vedersi assaliti da bestie cosí grosse, tanta paura Un luccicare d'acciaio, sette od otto colpi, menati con forza terribile, e le bestie rimasero a terra, sbudellate o decapitate. Gli spagnuoli, che avevano contato sull'assalto di quei mastini, vedendoli stramazzare l'uno dietro l'altro, ricominciarono a sparare, ma essendo costretti a far fuoco correndo, le loro palle non colpivano mai il segno, anche a causa dei canneti, dietro ai quali si riparavano i fuggiaschi. Buttafuoco ed i suoi compagni avevano subito ripresa la corsa, non avendo alcun desiderio d'impegnare una battaglia che non offriva nessuna possibilità di riuscire a loro favorevole, dato il numero degli assalitori. Sbarazzatisi dei cani, i soli che avrebbero potuto raggiungerli e dare loro molto da fare, si erano raccomandati alle proprie gambe, poiché ormai la loro salvezza non consisteva che nella robustezza e resistenza dei garretti. Buttafuoco, abituato alle fughe precipitose, correva con uno slancio invidiabile. Quel diavolo d'uomo, quantunque non piú giovane, filava come un vero daino inseguito da una muta furibonda. Chi si trovava male era sempre Mendoza, il quale non finiva mai di borbottare, assicurando di essere ormai finito, dopo tante scappate. Il guascone invece allargava sempre piú le sue gambe smisurate e pareva che se ne ridesse di quella corsa indiavolata. Buttafuoco pure, di quando in quando, faceva qualche breve sosta per sparare qualche archibugiata, ma piú per concedere ai suoi compagni un mezzo minuto di riposo che colla speranza di abbattere qualche nemico. Quella corsa furiosa durava da circa mezz'ora e gli spagnuoli erano rimasti tanto indietro da non scorgerli piú, quando Buttafuoco andò a urtare contro una palizzata. - Siamo salvi! - gridò. - Ecco la fattoria della marchesa di Montelimar!

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

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Salgari, Emilio 4 occorrenze

Il cane si mise ad abbaiare furiosamente. - Aiuto! ... - ripeté la medesima voce. - Kammamuri! - esclamò Aghur. - Qualcuno si annega. - Certamente. - Non possiamo lasciarlo annegare. - Non sappiamo chi sia. - Non importa: alla riva! - Prepariamo le armi e stiamo attenti. Non si sa mai cosa può accadere. Tu, Darma, rimani qui e sbrana senza pietà quanti si presentano. La tigre certamente lo comprese, poiché si raccolse su se stessa, cogli occhi fiammeggianti, pronta a scagliarsi sul primo venuto. I due indiani si slanciarono verso la riva, preceduti da Punthy che continuava ad abbaiare furiosamente, e guardarono sul fiume che pareva nero come se fosse d'inchiostro. - Vedi nulla? - chiese Kammamuri ad Aghur, che si era curvato sulla corrente. - Sì, mi pare di scorgere laggiù qualche cosa che va alla deriva. - Un uomo forse? - Si direbbe più il tronco di un albero. - Olà! - gridò Kammamuri. - Chi chiama? - Salvatemi! - rispose una fioca voce. - È un naufrago, disse il maharatto. - Potete giungere alla riva? - chiese Aghur. Un gemito fu la risposta che ottenne. Non vi era da esitare, quel naufrago si trovava agli estremi e poteva da un momento all'altro annegarsi. I due indiani balzarono nel canotto e si diressero rapidamente verso di lui. Ben presto s'avvidero che l'oggetto nero che andava alla riva era il tronco di un albero, a cui era aggrappato un uomo. In pochi istanti lo raggiunsero allungando le mani al naufrago, che le afferrò colla forza della disperazione. - Salvatemi! ... - balbettò egli ancora una volta, lasciandosi deporre nel fondo del battello. I due indiani si curvarono su di lui osservandolo con curiosità. Era un uomo della loro razza, bengalese al tipo, di statura inferiore alla media, di colorito assai oscuro, estremamente magro ma coi muscoli assai pronunciati, indizio sicuro d'una forza non comune. Aveva la faccia qua e là contusa e la gialla tunica, strettamente chiusa al corpo, macchiata di sangue. - Sei ferito? - gli domandò Kammamuri. Quell'uomo lo fissò attentamente con due occhi che avevano strani riflessi. - Credo, - mormorò dipoi. - Hai la veste insanguinata. Lasciami vedere - Non è nulla, - diss'egli, mettendosi le mani sul petto, come se avesse paura di metterlo allo scoperto. - Ho battuto la testa su quel tronco d'albero e mi sanguinò il naso. - Da dove vieni? - Da Calcutta. - Ti chiami? - Manciadi. - Ma come ti trovi qui? Il bengalese tremò in tutte le membra, battendo i denti. - Chi abita questi luoghi? - chiese egli, con terrore. - Tremal-Naik, il cacciatore di serpenti, - rispose Kammamuri. Manciadi tornò a tremare. - Feroce uomo, - balbettò. Aghur ed il maharatto si guardarono l'un l'altro con sorpresa. - Tu sei pazzo, - disse Aghur. - Pazzo! ... Non sai tu che i suoi uomini mi diedero la caccia, come se fossi una tigre? - I suoi uomini ti diedero la caccia! Ma siamo noi i suoi compagni. Il bengalese si raddrizzò, guardandoli con ispavento. - Voi! ... Voi! ... - ripeté. - Sono perduto! S'aggrappò all'orlo del canotto colla evidente intenzione di lanciarsi nel fiume, ma Kammamuri l'afferrò a mezzo corpo obbligandolo a sedersi. - Spiegami la causa di questo spavento, - gli disse con accento minaccioso. - Noi non facciamo male ad alcuno, ma ti avverto che se tu non parli chiaro ti spacco il cranio col calcio della mia carabina. - Volete assassinarmi! - piagnucolò Manciadi. - Sì, se non ti spieghi. Cosa sei venuto a far qui? - Sono un povero indiano e campo la vita cacciando. Un capitano dei sipai mi promise cento rupie per una pelle di tigre, e qui venni sperando di soddisfarlo. - Tira avanti. - Ieri sera approdai alla riva opposta del Mangal, e mi appiattai nella jungla, due ore dopo mi si slanciarono addosso alcuni uomini e mi sentii stringere il collo da un laccio ... - Ah! - esclamarono i due indiani. - Un laccio, hai detto? - Sì - confermò il bengalese. - Gii hai veduti quegli uomini? - chiese Aghur. - Sì, come vedo voi. - Cosa avevano sul petto? - Mi pare d'aver visto un tatuaggio. - Erano quelli di Raimangal, - disse Kammamuri. - Continua. - Impugnai il mio coltello, - proseguì Manciadi, che fremeva ancora per lo spavento, - e tagliai la corda. Corsi a lungo inseguito dappresso e giunto al fiume mi vi gettai dentro a capofitto. - Sappiamo il resto, - disse il maharatto. - Tu adunque sei cacciatore. - Sì, e valente. - Vuoi venire con noi? - Un lampo strano brillò negli occhi del bengalese. - Non domando di meglio, - s'affrettò a dire. - Sono solo al mondo. - Sta bene, noi ti adottiamo. Domani mattina ti presenterò al padrone. I due indiani rituffarono i remi nel fiume e ricondussero il canotto nel piccolo seno. Appena sbarcarono, Punthy si slanciò contro il bengalese, abbaiando rabbiosamente e mostrandogli i denti. - Zitto, Punthy, - disse Kammamuri, trattenendolo.- È uno dei nostri. Il cane, anziché obbedire, si mise a ringhiare minacciosamente. - Questa bestia mi pare che non sia troppo cortese, - disse Manciadi, sforzandosi a sorridere. - Non aver paura, ti diventerà amico, - disse il maharatto. Legato il canotto, raggiunsero la capanna dinanzi alla quale vegliava la tigre. Cosa strana, anche questa si mise a brontolare in modo tutt'altro che amichevole, guardando di traverso il nuovo arrivato. - Oh! - esclamò egli spaventato. - Una tigre! - È addomesticata. Fermati qui che vado dal padrone. - Dal padrone! È qui forse? - chiese il bengalese attonito. - Sicuro. - Ancora vivo! ... - To'! - esclamò il maharatto sorpreso. - Perché tale domanda? Il bengalese trasalì e parve confuso. - Come sai tu che è ferito, per farmi tale domanda? - replicò Kammamuri. - Non m'hai detto tu che era stato ferito? - Io! ... - Mi sembra. - Non mi rammento. - Eppure non posso averlo udito dire che da te o dal tuo compagno. - Così deve essere. Kammamuri ed Aghur rientrarono nella capanna. Tremal-Naik dormiva profondamente e sognava, poiché delle parole tronche uscivano dalle sue labbra. - Non vale la pena di svegliarlo, - borbottò Kammamuri, volgendosi ad Aghur. - Lo presenteremo domani, disse quest'ultimo. - Cosa ti sembra di quel Manciadi? - Ha l'aspetto d'un buon uomo e ho tutte le ragioni per credere che ci aiuterà validamente. - Lo credo anch'io. - Lo faremo vegliare lui fino a domani. Aghur prese una terrina di cangi, densa decozione di riso, e la recò a Manciadi il quale si mise a mangiare con una voracità da lupo. Raccomandatogli di fare buona guardia e di dare l'allerta se scorgesse qualche pericolo, s'affrettò a rientrare, chiudendo, per precauzione, la porta. Era appena scomparso che Manciadi s'alzò con una sveltezza sorprendente. I suoi occhi s'erano d'un subito accesi e sulle sue labbra errava un satanico sorriso. - Ah! Ah! - esclamò egli, sogghignando. S'accostò alla capanna e vi appoggiò l'orecchio, ascoltando con profondo raccoglimento. Stette così un lungo quarto d'ora, poi partì colla rapidità di una freccia arrestandosi mezzo miglio più lontano. Accostò le dita alle labbra ed emise un acuto fischio. Tosto al sud un punto rossastro si alzò fendendo le tenebre e scoppiò spandendo una luce vivida che subito si spense con una sorda detonazione. Altre due volte il fischio risuonò, poi nella jungla tutto tornò silenzio e mistero.

In lontananza s'udirono i cani ad abbaiare furiosamente e qualche guaito lamentevole. Bhârata si sentì correre un brivido per le ossa. - I cani l'hanno scoperta, diss'egli. - E qualcuno è stato sventrato, - aggiunse il sipai che aveva preso le carabine, pronto a passarle ai cacciatori. Uno stormo di pavoni s'alzò a circa cinquecento metri e volò via mandando grida di terrore. - Uszaka? - gridò il capitano, facendo una specie di portavoce colle mani. - Attenzione, capitano! - rispose il capo dei battitori. - La tigre è alle prese coi cani. - Fa' suonare la ritirata. Uszaka accostò al naso il bansy, sorta di flauto, e soffiò con forza emettendo una nota acuta. Tosto si videro i sipai tornare precipitosamente e correre a rifugiarsi dietro all'elefante. - Animo, - disse il capitano al mahut, - conduci l'elefante dove abbaiano i cani. E tu, Bhârata, guarda bene alla tua sinistra mentre io guardo alla dritta. Può darsi che dobbiamo combattere più di un avversario. Gli abbaiamenti continuavano ognor più furiosi, segno infallibile che la tigre era stata scoperta. Bhagavadi affrettò il passo movendo intrepidamente verso una grande macchia di bambù tulda, in mezzo alla quale s'erano cacciati i botoli. A cento passi di distanza fu trovato uno dei cani orrendamente sventrato da un poderoso colpo d'artiglio. L'elefante cominciò a dare segni d'inquietudine, agitando vivamente la proboscide dall'alto in basso. - Bhagavadi la sente, - disse Macpherson. - Sta' bene attento mahut e bada che l'elefante non dia indietro o che esponga troppo la sua tromba. La tigre gliela sbranerà come l'anno scorso. - Rispondo di tutto, padrone. Fra i bambù s'alzò un formidabile ruggito a cui nessun grido è paragonabile. Bhagavadi s'arrestò fremendo ed emettendo sordi barriti. - Avanti! - gridò il capitano Macpherson, le cui dita si raggrinzavano sul grilletto della carabina. Il mahut lasciò andare un colpo di uncino sul pachiderma, il quale si mise a sbuffare in orribile modo, arrotolando la proboscide e presentando le due aguzze zanne. Fece ancora dieci o dodici passi poi tornò a fermarsi. Dai bambù si slanciò fuori, simile a un razzo, una gigantesca tigre emettendo un formidabile miagolìo. Il capitano Macpherson lasciò partire la scarica. - Tuoni e fulmini! - gridò irritato. La tigre era ricaduta fra i bambù prima di essere stata toccata. Si slanciò altre due volte nell'aria, facendo balzi di dodici metri e scomparve. Bhârata fece fuoco in mezzo al macchione, ma la palla andò a fracassare la testa di un botolino mezzo sbranato, che si trascinava penosamente fra le erbe. - Ma ha il diavolo in corpo quella tigre, - disse il capitano, assai di cattivo umore. - È la seconda volta che sfugge alle mie palle. Come va questa faccenda? Bhagavadi si rimise in marcia, con molta precauzione, facendosi prima largo colla proboscide, che si affrettava però a ritirare subito. Fece altri cento metri, preceduto dai cani che andavano e venivano cercando la pista del felino, poi fece alto piantandosi solidamente sulle gambe. Tornava a tremare ed a sbuffare fragorosamente. Davanti a lui, a meno di venti metri, stava un gruppo di canne da zucchero. Un buffo d'aria impregnata d'un forte odore di selvatico, giunse fino ai cacciatori. - Guarda! guarda! - gridò il capitano. La tigre s'era slanciata fuori dalle canne movendo con rapidità fulminea verso il pachidermo il quale s'era affrettato a presentare le zanne. Vi giunse quasi sotto, sfuggendo alle carabine dei cacciatori, si raccolse su se stessa e piombò in mezzo alla fronte dell'elefante cercando con un colpo d'artiglio d'afferrare il mahut, che s'era gettato all'indietro urlando di terrore. Già stava per raggiungerlo, quando in lontananza echeggiarono alcune note acute emesse da un ramsinga. Sia che si spaventasse o altro, la tigre fece un rapido voltafaccia e si precipitò giù, cercando di raggiungere la macchia. - Fuoco! - urlò il capitano Macpherson, scaricando la carabina. Il felino mandò un ruggito tremendo, cadde, si rialzò, varcò la macchia e ricadde dall'altra parte, rimanendo immobile come se fosse stato fulminato. - Hurrà! hurrà! - urlò Bhârata. - Bel colpo! - esclamò il capitano, deponendo l'arma ancor fumante.- Getta la scala. - Il mahut ubbidì. Il capitano Macpherson impugnato il coltellaccio giunse a terra e si diresse verso la macchia. La tigre giaceva inerte presso un cespuglio. Il capitano, con sua grande sorpresa, non iscorse su quel corpo alcuna ferita, né per terra macchie di sangue. Ben sapendo che le tigri talvolta si fingono morte per gettarsi di sorpresa sul cacciatore, stava per tornare indietro, ma gli mancò il tempo. Il misterioso suono del ramsinga tornò a echeggiare. La tigre a quella nota scattò in piedi, si scagliò sul capitano e lo atterrò. La sua enorme bocca, irta di denti, si spalancò sopra di lui pronta a stritolarlo. Il capitano Macpherson, inchiodato al suolo, in maniera da non potersi muovere, né servirsi del coltellaccio, emise un grido d'angoscia. - A me! ... Sono perduto. - Tenete fermo, ci sono! - urlò una voce tonante. Un indiano si gettò fuori della macchia, afferrò la tigre per la coda e con un violento strappone la scaraventò da una parte. S'udì un ruggito furioso. L'animale, pazzo di collera, s'era prontamente alzato per gettarsi sul nuovo nemico; ma, cosa strana, inaudita, appena che l'ebbe scorto fece un rapido voltafaccia e s'allontanò con fantastica rapidità, scomparendo fra l'inestricabile caos della jungla. Il capitano Macpherson, sano e salvo, s'era prontamente levato in piedi. Un profondo stupore si dipinse tosto sui suoi lineamenti. A cinque passi da lui stava un indiano di forme muscolose, grandemente sviluppate, con una testa superba, piantata su due larghe e robuste spalle. Un piccolo turbante ricamato in argento copriva il suo capo ed ai fianchi portava un sottanino di seta gialla, stretto da un bellissimo scialle di cachemire. Quell'uomo, che aveva intrepidamente affrontato la tigre non aveva alcuna arma. Colle braccia incrociate, lo sguardo sfavillante d'ardire, egli fissava con curiosità il capitano, conservando l'immobilità d'una statua di bronzo. - Se non m'inganno, ti devo la vita, - disse il capitano. - Forse, - rispose l'indiano. - Senza il tuo coraggio a quest'ora sarei morto. - Lo credo. - Dammi la mano; tu sei un prode. L'indiano strinse, con un tremito, la mano che Macpherson gli porgeva. - Posso io conoscere il tuo nome, o mio salvatore? - Saranguy, - rispose l'indiano. - Non lo scorderò mai. Fra loro due successe un breve silenzio. - Cosa posso fare per te? - ripigliò il capitano. - Nulla. Macpherson estrasse una borsa rigonfia di sterline e gliela porse. L'indiano la respinse con nobile gesto. - Non so che farne dell'oro, - dissegli. - Sei ricco tu? - Meno di quello che credete. Sono un cacciatore di tigri delle Sunderbunds. - Ma perché ti trovi qui? - La jungla nera non ha più tigri. Sono salito al nord a cercarne delle altre. - E dove vai ora? - Non lo so. Non ho patria, né famiglia; erro a capriccio. - Vuoi venire con me? Gli occhi dell'indiano mandarono un lampo. - Se avete bisogno d'un uomo forte e coraggioso, che non teme né le belve, né l'ira degli dei, sono vostro. - Vieni, o prode indiano, e non avrai a lagnarti di me. Il capitano girò sui talloni, ma s'arrestò subito. - Dove credi che sia fuggita la tigre? - Molto lontano. - Sarà possibile trovarla! - Non lo credo. Del resto m'incarico io d'ammazzarla, e fra non molto tempo. - Ritorniamo al bengalow. Bhârata, che aveva assistito con stupore a quella scena, li aspettava presso l'elefante. Egli si slanciò contro al capitano. - Sei ferito, padrone? - gli chiese, ansiosamente. - No, mio bravo sergente, - rispose Macpherson. - Ma se non giungeva questo indiano, non sarei ancora vivo. - Sei un grand'uomo, - disse Bhârata a Saranguy. Non ho mai veduto un simile colpo; tu tieni alta la fama della nostra razza. - Un sorriso fu l'unica risposta dell'indiano. I tre uomini salirono nell'hauda e in meno di mezz'ora raggiunsero il bengalow dinanzi al quale li aspettavano i sipai. La vista di quei soldati fece corrugare la fronte di Saranguy. Parve inquieto e represse con grande sforzo un gesto di dispetto. Per fortuna nessuno avvertì quel movimento che fu, del resto, rapido come un lampo. - Saranguy, - disse il capitano, nel momento che entrava con Bhârata, - se hai fame, fatti additare la cucina; se vuoi dormire, scegli quella stanza che meglio ti accomoda; e se vuoi cacciare, domanda quell'arma che meglio ti conviene. - Grazie, padrone, - rispose l'indiano. Il capitano entrò nel bengalow. Saranguy si sedette presso la porta. La sua faccia era diventata allora assai cupa e gli occhi brillavano d'una strana fiamma. Tre o quattro volte s'alzò come se volesse entrare nel bengalow, e sempre tornò a sedersi. - Chissà quale sorte toccherà a quell'uomo, mormorò egli con voce sorda. - Forse la morte. È strano, eppure quell'uomo mi interessa, eppure sento che quasi lo amo! Appena lo scorsi sentii il mio cuore fremere in modo inesplicabile; appena udii la sua voce mi sentii quasi commosso. Non so, ma quel volto somiglia ... Non nominiamola ... Tacque diventando ancor più tetro. - E sarà qui lui? - si chiese d'un tratto. - E se non vi fosse? Si alzò per la quinta volta e si mise a passeggiare colla testa china. Passando dinanzi ad un recinto, udì alcune voci che venivano dall'interno. Si arrestò alzando bruscamente la testa. Parve indeciso, si guardò attorno come volesse assicurarsi che era solo, poi si lasciò cadere ai piedi della palizzata, tendendo con molta attenzione gli orecchi. - Te lo dico io, - diceva una voce. - Il birbone ha parlato dopo le minaccie di morte del capitano Macpherson. - Non è possibile, - diceva un'altra voce. - Quei cani di thugs non si lasciano intimidire dalla morte. Ho visto coi miei propri occhi, delle diecine di thugs lasciarsi fucilare senza nulla dire. - Ma il capitano Macpherson ha dei mezzi ai quali nessuna creatura umana resiste. - Quell'uomo è molto forte. Si lascierà strappare di dosso la pelle, prima di dire una sola parola. Saranguy divenne più attento, e accostò viepiù l'orecchio alla palizzata. - E dove credi che l'abbiano rinchiuso? - chiese la prima voce. - Nel sotterraneo, - rispose l'altra - Quell'uomo è capace di scappare. - È impossibile, poiché le pareti hanno uno spessore enorme, di più uno dei nostri veglia. - Non dico che scapperà da solo, ma aiutato dai thugs. - Credi tu che ronzino da queste parti? - La scorsa notte abbiamo udito dei segnali e mi si disse che un sipai scorse delle ombre. - Mi fai venire i brividi. - Hai paura tu? - Puoi crederlo. Quei maledetti lacci di rado falliscono. - Avrai paura ancora per poco - Perché? - Perché li assaliremo nel loro covo. Negapatnan confesserà tutto. Saranguy udendo quel nome era balzato in piedi, in preda ad una viva eccitazione. Un sorriso sinistro sfiorò le sue labbra e guardò trucemente. - Ah! - esclamò egli con voce appena distinta. - Negapatnan è qui! I maledetti saranno contenti.

Entrava ed usciva dalla capanna, interrogava attentamente l'orizzonte, sperando di vederli spuntare fra la sterminata piantagione di bambù, costringeva Punthy ad abbaiare, ma senza alcun frutto. Più volte si spinse, assieme alla tigre, fino ai primi bambù e porse l'orecchio ai rumori del largo; più volte fe' rimbombare l'hulok sospeso alla porta della capanna e più volte bruciò una carica di polvere. Il silenzio che regnava nelle pianure del sud non fu rotto. Scoraggiato, si sedette sul limitare della capanna, attendendo ansiosamente il loro ritorno. Vi era da pochi minuti, quando la tigre balzò in piedi facendo udire un sordo miagolio a cui fecero eco i festosi abbaiamenti di Punthy. Kammamuri si alzò, credendo che arrivassero i cacciatori, ma non vide alcuno. Si volse ed appoggiato allo stipite della porta, scorse Tremal-Naik. - Tu, padrone! - esclamò egli con stupore. - Tu! ... - Sì, Kammamuri, - rispose Tremal-Naik, con un amaro sorriso. - Quale imprudenza! ... Sei ancora convalescente e ... - Taci, sono forte, più forte di quello che credi,- rispose il cacciatore di serpenti quasi con rabbia. - Ho sofferto troppo in quell'amaca, è ora che la sia finita. Egli fece alcuni passi innanzi senza barcollare, senza dimostrare fatica e sedette fra le erbe, prendendosi la testa fra le mani e guardando fisso il sole che tramontava all'occidente. - Padrone, - disse Kammamuri, dopo alcuni istanti di silenzio. - Cosa vuoi? - I cacciatori non sono ancora tornati. Temo che sia accaduta qualche disgrazia. - Chi te lo dice? - Nessuno, ma lo sospetto. Nella jungla possono aggirarsi quegli uomini che assassinarono Hurti e pugnalarono te. La faccia di Tremal-Naik divenne cupa. - Sono forse qui? - chiese egli. - Forse. - Presto, Kammamuri, sarò guarito, ritorneremo in quell'isola maledetta e li stermineremo tutti, tutti! - Che? ... - esclamò Kammamuri, con ispavento. Noi ritornare in quell'isola? ... Padrone, cosa dici? - Hai paura tu? - No, ma ritornare laggiù, in quei luoghi, è una follia. - Follia! ... Follia tu dici? ... Non sai tu adunque chi ho lasciato laggiù, nelle mani di quegli uomini? - Chi mai? - La vergine della pagoda. - Chi è questa donna? - Una creatura bella, Kammamuri, che io amo alla pazzia, e per la quale metterei l'India in fiamme. - Hai lasciato una donna laggiù? - Sì, Kammamuri, quella stessa che io mirava al tramontare del sole nella mia jungla. Ada! Ada! Quanto m'hai fatto soffrire! - È la visione adunque? - Sì, la visione. - Ma come si trova a Raimangal? - Una condanna pesa sulla disgraziata fanciulla, Kammamuri. Quei mostri la tengono in loro mano, non so il come, né il perché. Io l'ho veduta nella pagoda a versare dei profumi ai piedi d'un mostro di bronzo. - D'un mostro! ... Quella donna sarà forse al pari degli altri. - Non ripetere quest'insulto, Kammamuri, - esclamò Tremal-Naik, con accento minaccioso. - Son gli uomini che l'han condannata, che le fanno adorare quel mostro di bronzo! Lei feroce! ... Lei! ... povera fanciulla! ... - Perdono, padrone - balbettò il maharatto. - Non sapevi nulla e ti perdono. Ma quegli uomini che l'han condannata, che la fanno morire di pianto, quegli uomini che le straziano il cuore e mi fan barriera onde non la salvi dai loro artigli, li esterminerò tutti, Kammamuri, tutti! Ho qui nel petto ancor le traccie del loro pugnale, e mi faranno ricordare in ogni tempo la vendetta! Non rimarrai no, nelle loro mani, o infelice Ada, perché Tremal-Naik, dovesse pagare colla sua vita la tua libertà, ti toglierà da quegli orribili luoghi per quanto sieno ben guardati e irti di ostacoli. Tremino allora coloro che t'avranno tormentata, coloro che hanno avvelenato la tua giovane esistenza. Darma ed io c'incaricheremo di ucciderli tutti, nelle loro spaventevoli caverne! - Mi fai paura, padrone. E se ti uccidessero? - Morrò per colei che amo! - esclamò con trasporto appassionato Tremal-Naik. - E quando partiremo? - Appena avrò la forza d'alzare la carabina. Son già forte, ma non tanto da pugnare contro tutti loro. In quell'istante, al sud, rimbombò una fucilata seguita tosto da due altre detonazioni. Darma fece un salto, mugolando. Il maharatto e Tremal-Naik scattarono in piedi, trattenendo Punthy che abbaiava furiosamente. - Cosa succede? - chiese il maharatto, strappandosi dalla cintola il coltellaccio. - Kammamuri! ... Kammamuri! ... , - gridò una voce. - Chi chiama? - chiese Tremal-Naik. - Grande Brahma! ... Manciadi! - esclamò il maharatto. Infatti il bengalese, con rapidità grandissima attraversava la jungla, sfondando la fitta cortina di bambù ed agitando come un pazzo la carabina. Pareva in preda ad un vivo terrore. - Kammamuri! ... Kammamuri! - ripeté egli con voce strozzata. - Corri, Manciadi, corri! - gridò il maharatto. Che sia inseguito? Attenta, Darma! La tigre si raccolse su se stessa cogli artigli aperti, e aprì la bocca mostrando una doppia fila di denti aguzzi. Il bengalese, che correva molto rapidamente, in pochi minuti giunse alla capanna. Il miserabile aveva la faccia insanguinata per una ferita che s'era fatta sulla fronte per meglio colorire il tradimento ed aveva la tunica pure macchiata. - Padrone! ... Kammamuri! - esclamò egli, piangendo disperatamente. - Cosa ti è accaduto? - chiese Tremal-Naik con angoscia. - Hanno ferito a morte Aghur! ... Povero me ... non ne ho colpa, padrone ... ci sono balzati addosso ... Aghur! povero Aghur! - L'hanno ferito! - esclamò Tremal-Naik con furore. - Chi? Chi? - I nemici ... gl'indiani dai lacci ... - Maledizione! ... Parla, narra, di' su, voglio saper tutto! - Eravamo seduti in un bosco di giacchieri, disse il miserabile, continuando a singhiozzare. - Ci sono balzati addosso prima che potessimo prendere le armi ed Aghur è caduto. Io ho avuto paura e sono fuggito. - Quanti erano? - Dieci, dodici, non ricordo bene quanti. Sono fuggito per miracolo. - È morto Aghur? - No, padrone, non può esser morto. L'hanno pugnalato, poi sono scomparsi. Fuggendo, udii il ferito gridare, ma non ebbi il coraggio di ritornare presso di lui. - Sei un vigliacco, Manciadi! - Padrone, se fossi ritornato mi avrebbero ucciso, - singhiozzò il bengalese. - Quando la finiranno adunque? - gridò Tremal-Naik. - Kammamuri, forse Aghur non è morto; bisogna andarlo a trovare e portarlo qui. - E se mi assaltano? - chiese Kammamuri, terrorizzato. - Prenderai con te Darma e Punthy. Con questi animali puoi tenere testa a cento uomini. - Ma chi mi guiderà? - Manciadi. - E tu vuoi rimanere nella capanna solo? - Basto io solo per difendermi. Va' e non perdere tempo, se vuoi salvare il povero Aghur. Manciadi, guida quest'uomo al bosco. - Padrone ho paura. - Guida quest'uomo al bosco; se esiti, ti faccio sbranare dalla tigre. Tremal-Naik aveva pronunciato quelle parole con tale tono, da far comprendere a Manciadi che non era uno scherzo. Affettando il massimo terrore, si unì al maharatto che si era armato della carabina e d'un paio di pistole. - Padrone, - disse Kammamuri, - se fra due o tre ore non ritorniamo, vorrà dire che siamo stati assassinati. Il canotto è arenato sulla riva; penserai a metterti in salvo. - Mai! - esclamò Tremal-Naik. - Ti vendicherò a Raimangal; taci e parti. Il maharatto e Manciadi, preceduti dal cane e dalla tigre, si slanciarono di corsa in mezzo alla jungla. Il sole era di già scomparso sotto l'orizzonte, ma la luna sorgeva, spandendo una luce azzurrognola, d'una infinita dolcezza, sufficiente per guidare i due indiani attraverso la massa dei bambù. - Camminiamo con precauzione e in silenzio, disse Kammamuri a Manciadi. - Non bisogna attirare l'attenzione dei nemici, che forse si tengono nascosti a poca distanza da noi. - Hai paura, Kammamuri? - chiese il bengalese, che non tremava più. - Credo di sì. Per fortuna, con noi abbiamo Darma, una valorosa bestia che non teme cinquanta uomini armati. - Ti avverto, Kammamuri, che io non entrerò nel bosco. - Mi aspetterai dove meglio ti piacerà, e se vuoi ti lascierò Punthy, un bravo cane che sa strozzare una mezza dozzina di persone. Avanti e silenzio. Manciadi, che aveva già tracciato il suo piano, condusse il maharatto sul sentiero che aveva percorso al mattino e lo seguì per tre quarti d'ora. S'arrestò sul margine del bosco di giacchieri. - È qui? - chiese Kammamuri, guardando con ansietà sotto gli alberi. - Sì, qui, - rispose Manciadi, con fare misterioso. - Segui questo sentieruzzo che s'addentra nel bosco e giungerai allo stagno, sulle cui rive è caduto Aghur. Io qui t'aspetto, nascosto in quella fitta macchia. - Vuoi il cane? - Amo meglio esser solo. Gl'indiani non mi scopriranno, ne sono certo. - Fra mezz'ora io sono di ritorno. Darma, sta' attenta e pronta a piombare sul primo uomo che si presenta dinanzi a noi, e tu, Punthy, preparati pure a strozzare qualcuno. La tigre fece udire un basso ruggito e si mise dinanzi al maharatto colle corte orecchie alzate ed il cane gli si mise dietro mostrando i denti. - Benone, - disse Kammamuri, quando vide il bengalese nascosto nella macchia. - Nessuno ardirà avvicinarsi senza il permesso di queste care bestie. Entrarono nel bosco sotto il quale regnava una profonda oscurità ed un silenzio funebre e s'avanzarono sul sentiero, senza produrre rumore di sorta. Kammamuri più volte si fermò sperando di udire qualche lamento o qualche chiamata che segnalasse la presenza di Aghur, ma nulla giungeva al suo orecchio. - È strano, - mormorava, tergendosi il sudore che colavagli in gran copia dalla fronte. - Se fosse ancora vivo, si udirebbe qualche lamento, ma qui regna un silenzio perfetto. Che sia morto? Aveva percorso da trecento a quattrocento passi, quando udì qualcuno che zuffolava un'arietta malinconica. Era la medesima arietta che Manciadi aveva zuffolato prima d'assassinare Aghur. La tigre si mise a brontolare volgendo la testa all'indietro e il cane diè segni d'inquietudine, ringhiando. - Attenti, piccini, - disse Kammamuri, che sentivasi gelare il sangue. - State vicini a me e lasciate che quell'uomo zuffoli a suo piacimento. Credo che per Aghur sia finita. Una nube oscurò la luna e le tenebre divennero più fitte sotto il bosco. Kammamuri si arrestò, indeciso se dovesse avanzare o tornare indietro, poi tirò innanzi colle pistole montate. - Kammamuri! - gridò una voce. - Kammamuri! - ripeté una seconda voce. - Kammamuri!- riprese una terza. La tigre si mise a ruggire sferzandosi i fianchi colla coda e saltando come se fosse su di un braciere. Cercò due o tre volte di slanciarsi a destra del sentiero, ma il maharatto, con un fischio, la richiamava al posto. - Calma, piccina, calma, - diss'egli. - Lasciate che chiamino. Non sono spiriti, ma uomini che si divertono a spaventarmi. Se ritorno alla capanna, posso ringraziare Visnù d'avermi protetto. Allungò il passo con una pistola puntata a destra del sentiero e l'altra a sinistra e poco dopo giungeva in vista dello stagno. Un fascio di luce lunare piombò in quel luogo, illuminandolo come in pieno giorno. Kammamuri, con indicibile spavento, scorse a terra un corpo umano su cui si agitava un gruppo di marabù. Punthy si slanciò verso quel cadavere urlando lamentosamente e mettendo in fuga i voraci volatili. - Aghur! - esclamò Kammamuri, singhiozzando. Corse come un pazzo allo stagno e si gettò sul corpo dell'infelice suo compagno. Aveva ancora il laccio attorno al collo ed il corpo era stato straziato dai marabù. - Aghur! Mio povero Aghur! - ripeté Kammamuri, abbracciando il cadavere. - Ah! miserabili! D'un tratto emise un urlo terribile e i suoi occhi si fissarono su di una pietra, contro la quale era appoggiata la testa di Aghur. Ai pallidi raggi della luna, aveva letto, fremendo, le seguenti parole scritte a lettere di sangue: "Kammamuri, Manciadi mi ha assass ... ". Il maharatto balzò in piedi. Comprese tutto il tradimento del bengalese e il pericolo che correva il padrone. - Darma! Punthy! - gridò egli con voce strozzata.- Alla capanna! ... Alla capanna! ... Si uccide il padrone. E si slanciò attraverso la foresta preceduto dalla tigre e seguito dal cane, che abbaiava con furore! Nel mentre Kammamuri correva come un daino sotto le cupe volte di verzura, il bengalese non perdeva il suo tempo. Rimasto solo, erasi subito slanciato fuori della macchia correndo precipitosamente verso la capanna, risoluto a strangolare la seconda vittima. Sapeva di avere un vantaggio di un buon quarto d'ora sul maharatto, nondimeno divorava la via colla velocità di una palla di cannone, paventando di venire colto sul fatto dalla tigre e dal cane, dai quali animali aveva tutto da temere. Attraversò la jungla impiegando meno di mezz'ora e si fermò sul margine della piantagione, dopo di avere preparato un secondo laccio. - Il padrone deve tenersi in guardia, - mormorò egli. - Se mi vede tornare, crederà che io abbia abbandonato Kammamuri e mi spaccherà la testa con una palla di carabina. Quell'uomo non ischerza. Aprì adagio adagio i bambù e guardò verso il nord. A quattrocento passi di distanza scorse la capanna ed accanto ad essa Tremal-Naik in piedi, colla carabina in mano. - Ah! - esclamò il miserabile. - Ucciderlo non sarà tanto facile, ma Manciadi è più furbo di un cacciatore di serpenti. Ripigliò la corsa verso l'est, trottando furiosamente per sei o sette minuti, poi si slanciò nella pianura. La capanna stava alla sua destra e Tremal-Naik gli mostrava un fianco. Con un po' d'astuzia poteva avvicinarsi e cogliere la vittima alle spalle. La sua risoluzione fu prontamente presa. Si mise a strisciare fra le erbe come un serpente, allungandosi quanto poteva onde non venire scorto da Tremal-Naik e procurando di non far rumore. Però, il venticello che sfiorava la piantagione, curvando dolcemente le alte cime dei bambù, produceva un leggiero stropiccio, sufficiente per coprire lo strisciare di un uomo. Così avanzando e soffermandosi per tendere gli orecchi e guardare Tremal-Naik che pareva non s'accorgesse di nulla, riuscì a guadagnare la capanna. Con uno scatto da tigre si rizzò. Un sorriso atroce sfiorava le sue labbra. - È mio, - mormorò con un filo di voce. - Kâlì mi protegge. Camminò in punta dei piedi lungo le pareti della capanna e si fermò a dieci passi da Tremal-Naik. Diede un ultimo sguardo alla jungla e non scorse nessuno. Un secondo sorriso, più crudele del primo, apparve sulle labbra ed i suoi occhi scintillarono come quelli di un gatto. Un secondo ancora e la vittima sarebbe caduta per non più rialzarsi. Fece fischiare rapidamente il laccio attorno a sé e lo slanciò facendo un balzo avanti. Tremal-Naik piombò al suolo come un albero sradicato dal vento, ma, per un caso fortuito, una mano era rimasta presa nel laccio. - Kammamuri! - gridò il disgraziato, afferrando coll'altra mano la corda e tirando a sé con disperata energia. - Muori! muori! - urlò l'assassino, trascinandolo sul suolo. Tremal-Naik mandò un secondo grido. - Kammamuri! aiuto! - Eccomi - tuonò una voce. Manciadi digrignò i denti con furore. Sul limite della piantagione era improvvisamente apparso il maharatto: dinanzi, correva, con balzi giganteschi la tigre, fiancheggiata da Punthy. Un lampo squarciò la notte seguìto da una fragorosa detonazione. Manciadi fece un salto di dieci passi e s'avventò all'impazzata verso la riva vicina. Un secondo sparo rimbombò e Manciadi piombò nel fiume, scomparendo fra i gorghi.

Non avevano ancora percorso trecento braccia, che il cane ricominciò ad abbaiare rabbiosamente. - Alto là! - gridò una voce imperiosa. Kammamuri si volse indietro stringendo nella dritta una delle pistole. Sulla riva, sul luogo da essi abbandonato, si teneva ritto un colossale indiano col laccio nella dritta e il pugnale nella sinistra. - Alto là! - ripeté egli. Kammamuri invece di ubbidire sparò. L'indiano si accasciò su se stesso agitando le braccia, indi scomparve fra i cespugli. - Arranca! Arranca, Aghur! - gridò il maharatto. Il canotto fendette rapidamente le acque dirigendosi verso il cimitero galleggiante, nel mentre che una voce tonante, ripiena di minaccia, gridava dalle coste dell'isola maledetta: - Ci rivedremo! ...

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

§Dormivano da tre o quattro ore, quando Koninson fu improvvisamente destato da un lontano abbaiare che rapidamente diventava fioco perdendosi verso occidente. Rammentandosi delle parole dette il giorno innanzi dal Tanana e dei sospetti manifestati dal tenente, si alzò in preda ad una certa inquietudine temendo che quei poco rassicuranti selvaggi avessero approfittato della notte per giuocare qualche brutto tiro. Cercò il fedele fucile e mandò un sospirone di soddisfazione nel sentirselo ancora vicino, poi stette in ascolto. Agli abbaiamenti poco prima uditi, era succeduto un profondo silenzio che veniva rotto solamente dallo stormire degli alti pioppi e dei pini. Non una parola, non un passo che indicasse la presenza dei guerrieri incaricati di vegliare sull'accampamento, non quel russare che indica la vicinanza di uomini che dormono. - Hum! - esclamò. - Spira una cert'aria che non mi rassicura affatto. Strisciò verso l'apertura, alzò la tenda e guardò. Dapprima nulla vide essendo l'oscurità profonda; ma poi s'accorse che quel tratto di terreno, poco prima occupato dalle tende dei Tanana, era completamente libero. - I bricconi sono fuggiti! - esclamò. - Signor Hostrup, aprite gli occhi! - È spuntato il sole? - chiese il tenente sbadigliando. - Non ancora, ma vi dò un'altra nuova che vi sveglierà completamente. I nostri cari Tanana se ne sono fuggiti defraudandoci della nostra porzione di carne, a quanto pare, poichè non vedo vicino a me nessuna bistecca. - Dovevamo aspettarci qualche bricconata da quei messeri, mio caro fiociniere. Speriamo che tutto il male sia questo. - Forse che avete timore di qualche cosa di peggio? - Questa fuga precipitosa, le parole del capo, quell'insistenza nel chiederci se avevamo della polvere da regalare, se eravamo soli e dove avevamo lasciato la nostra slitta ... - Corpo d'una balena! - esclamò Koninson. - Sospettate forse ... - Che abbiano fatto una visita alla nostra slitta - terminò il tenente. - Se fosse vero, guai a loro! - Bah! Sarà un pò difficile il raggiungerli, tanto più che si dirigono verso est. - Verso est? Io ho udito gli abbaiamenti dei loro cani verso ovest, signor Hostrup. - Verso ovest! Sei propri sicuro? - Sicurissimo. - Allora gatta ci cova. Io temo di aver avuto da fare con uno scaltro briccone, e non sono più sorpreso se ci ha giocato questo brutto tiro. Affrettiamoci a raggiungere il fiume; ho fretta di arrivare alla slitta. - Ma vi giuro fin d'ora, signor Hostrup, che se quel birbante ci ha derubati io lo inseguirò e lo raggiungerò per quanto lontano fugga. - Se saremo capaci di raggiungerlo. I Tanana avevano dei cani attaccati alle loro slitte e chissà mai dove saranno a quest'ora. Si posero in marcia senza prendersi il disturbo di portare con loro la tenda essendo tutta bucata e si diressero verso il Porcupine. Alcuni lupi che ronzavano sotto il bosco, si provarono a seguirli gettando lugubri urla, ma un colpo di fucile, che atterrò il più feroce, li costrinse a ritornare più che in fretta sotto gli alberi. Due ore dopo i due balenieri giungevano sulla riva del fiume. Stavano per scenderla, quando Koninson incespicò in un oggetto che cadde con rumore rimbalzando e correndo sulla superficie gelata. - Bestia o cosa? - chiese egli curvandosi innanzi ed firmando precipitosamente il fucile. - Mi è sembrato un barilotto - disse il tenente. - Uhm! Brutto segno! In quell'istante sulla riva opposta si videro alcune ombre muoversi rapidamente, poi sparire sotto un gruppo di cespugli. - Chi vive? - gridò il fiociniere imbracciando il fucile. Nessuno rispose, ma poco dopo udì un acuto stridio che rapidamente si allontanava verso ovest e un po' più tardi dei lontani latrati. - Temo che siano i Tanana - disse il tenente che ascoltava attentamente. - Corriamo alla slitta, signor Hostrup - suggerì il fiociniere. - Forse arriveremo in tempo per far pagar caro il tradimento. Si slanciarono giù dalla sponda attraversarono correndo il fiume e rimontarono la riva opposta guadagnando una piccola altura da cui potevano dominare il paese circostante per un gran fratto. Alla loro destra avevano il bosco battuto il giorno innanzi; alla sinistra una pianura sull'orlo della quale scorsero una massa confusa che doveva essere la slitta. Nè da una parte nè dall'altra videro alcun uomo; però in distanza si udiva ancora l'acuto stridio che doveva essere prodotto dallo scivolio di una slitta tutta a gran galoppo. Lasciarono l'altura e si diressero verso la slitta la quale rizzava ancora il lungo albero a cui si vedeva sospesa e imbrogliata la vela. Quando furono vicini scorsero a terra casse e barili, aperte le une, sfondati gli altri, e parecchi altri oggetti che facevano parte dell'equipaggiamento. - Ah, miserabili! - esclamò Koninson. - Ci hanno derubati! E pur troppo era vero. I Tanana, approfittando senza dubbio del sonno dei due balenieri, si erano recati colà ed avevano tutto saccheggiato. Viveri, accette, provvista di polvere e di palle, vesti di ricambio, tutto era stato portato via. Non restava che la sola slitta, ma fortunatamente in buono stato e ancora provveduta della sua vela che forse i Tanana non avevano toccata per mancanza di tempo. - Hanno fatto bene a fuggire così presto - disse il tenente, che perdeva un pò della sua calma abituale. - Se li avessi colti sul fatto, qualcuno l'avrebbe pagata cara, questa bricconata. Mio caro Koninson, siamo stati corbellati come due ragazzi. - Ma li ritroveremo forse un giorno, signor Hostrup - rispose il fiociniere tendendo minacciosamente il pugno verso l'ovest. - Anche noi andiamo da quella parte e chissà! ... - Buon per noi che ci hanno lasciata la vela. - Ma non ci hanno lasciato nemmeno un granello di polvere, e voi sapete che in questo dannato paese non si vive se non si adopera il fucile. Non so il perchè non si sia mai pensato ad aprire delle trattorie. - Perchè gli orsi mangerebbero la dispensa e anche i trattori, amico Koninson. Orsù, quante cariche ti rimangono? - Una sessantina e niente di più! - Io ne ho altrettanto. Bah! Con centoventi colpi di fucile possiamo andare fino sulle rive del Makenzie e anche più lontano. - Ma non abbiamo intanto un briciolo di pane da mettere sotto i denti e non vedo nessun animale intorno a noi. - Per ora stringerai la cinghia dei tuoi calzoni, poi vedremo. Aiutami a spiegare la vela e rimettiamoci in viaggio, giacchè qui più nulla abbiamo da fare. Ad oriente cominciava a biancheggiare quando si rimisero in viaggio, favoriti da un vento abbastanza forte che soffiava da sud-sud-est. La slitta, vigorosamente cacciata innanzi dalla grande vela che era così gonfia da temere che scoppiasse, si rimise a scivolare sulla pianura con un lungo stridio e con una velocità che fu stimata non inferiore ai nove nodi all'ora. Il tenente, che stava a timone, la spinse al di là del bosco lasciando alla sua destra il fiume che accennava a piegare verso sud, poi la lanciò dritta dinanzi a sè, sapendo bene che in qualunque punto avrebbe incontrato sul suo passaggio il Makenzie, il quale taglia quella desolata regione fino alle rive dell'oceano artico. Il paese era sempre piano e disabitato. Solamente a nord, alcune catene di monti, assai lontane, apparivano semi-nascoste fra un fitto nebbione e verso sud dei grandi boschi di pini e di abeti costeggianti il corso del Porcupine. Di quando in quando da quegli alberi uscivano correndo torme di lupi affamati, i quali si davano a inseguire la slitta colla speranza di raggiungerla, ma ben presto desistevano riconoscendo l'inutilità dei loro sforzi; talvolta invece delle renne dalle corna ramose apparivano fra i cespugli e, dopo aver guardato quello strano veicolo che doveva sembrare ai loro occhi un immenso uccello, fuggivano spaventate senza lasciar tempo al fiociniere di prendere il fucile. Dei Tanana nessuna traccia, quantunque i due balenieri si guardassero ben bene d'attorno e porgessero attento ascolto ai rumori del largo. A mezzogiorno, dopo aver percorso molte miglia sotto un sole che cominciava già a diventare caldo ed a sciogliere i ghiacci, Koninson additò al tenente una specie di battello sospeso ad alcuni piuoli alti un paio di metri da terra e che si trovava sull'orlo della foresta. - Cos'è quella roba là? - chiese. - Indica la presenza di qualche tribù di indiani, o la vicinanza di qualche villaggio abbandonato? - Nè l'uno, nè l'altro - rispose il tenente. - Se non m'inganno, quella è una tomba. - Che non ci potrà certamente giovare. - Anzi, troveremo qualche cosa che farà per noi. Ammaina la vela e andiamo a vedere. Il fiociniere s'affrettò ad ubbidire e la slitta, trasportata dal proprio slancio, andò a fermarsi a poca distanza da quella strana tomba. Il tenente e il fiociniere vi si diressero e la esaminarono con curiosità. Consisteva in un vero canotto indiano di corteccia di betulla e armatura di salice, lungo circa otto piedi, solido e leggero ad un tempo. Era sospeso a circa due metri da terra con alcuni piuoli e sotto di esso la neve appariva smossa di recente e vi si vedeva un certo rigonfiamento come se nascondesse qualche cosa. - Il morto è nel canotto? - chiese Koninson. - No, giace sepolto sotto la neve. Il canotto conterrà invece le armi, le scarpe, le reti e le lenze appartenenti all'estinto. - E dei viveri? - Forse, ghiottone. Sali nel canotto e guarda dentro. Il fiociniere si alzò sui piuoli e salito nella leggera imbarcazione gettò giù due fiocine di corno di narvalo diligentemente aguzzate, un paio di scarpe assai malandate, alcune reti e una lenza di pelle di foca lunga una trentina di metri. - Non valeva la pena di venire fin qui - diss'egli di assai cattivo umore. - Ci avessero messo almeno qualche sacchetto di quell'eccellente "pemmican" che sanno fare gli indiani di questa regione! - Sanno bene che i morti non mangiano, ragazzo mio, - disse il tenente. - Ma perchè mettono sulle tombe le armi e le reti? - Perchè se ne servano nell'altra vita. - Ah! Credono che i morti risuscitino. - Tutti gli indiani ne sono convinti. Ora scendi e cerchiamo di procurarci la colazione. Tò! Ecco dei lupi che urlano nel bosco. La loro carne è pessima, ma chi non ha di meglio può accontentarsi. - Voi v'ingannate, signor Hostrup, poichè ho qualche cosa di più appetitoso da offrirvi. Guardate in alto. Il tenente alzò il capo e vide un grossissimo uccello il quale volava pesantemente come se facesse molta fatica a mantenersi in aria. Imbracciò rapidamente il fucile, mirò alcuni istanti con molta attenzione, poi premette lentamente il grilletto. Il grosso volatile colpito dall'infallibile palla del cacciatore, rotolò due volte su sè stesso mandando una nota che parve emessa da una tromba, poi piombò a terra con sordo rumore rimanendo immobile. - È un cigno - disse Koninson precipitandovisi sopra. - Trenta libbre di carne eccellente! - rispose il tenente. - Ma come mai questo uccello si trova qui? - In estate i cigni vengono a visitare questa regione. La presenza di questo uccello indica che lo sgelo dei fiumi non è molto lontano. - Brutta nuova per chi non ha che una slitta a vela. - Bah! Fra poco non avremo più bisogno di questo veicolo, poichè il Makenzie non deve essere molto lontano. Koninson si affrettò a spennare il volatile il cui peso, come aveva detto il tenente, superava le trenta libbre, poi ne mise un grosso pezzo al fuoco che in quel frattempo era stato acceso con legna morta raccolta nella vicina foresta. Calmata la fame, i due naufraghi tornarono a imbarcarsi, e la slitta, favorita ancora da un buon vento, ripartì costeggiando sempre la foresta. L'indomani, dopo una ventina di miglia, il terreno che fino allora si era mostrato molto favorevole cominciò a cambiare. La gran pianura era spesso interrotta da ondulazioni, da salite, da larghi crepacci e da ruscelletti, le cui rive assai più alte dei corsi d'acqua facevano trabalzare disordinatamente il veicolo, minacciando spesso di mandarlo in pezzi. Anche un largo fiume che il tenente suppose fosse il Peel, uno degli affluenti al Porcupine, e che sbocca a breve distanza dal Makenzie, venne ad interrompere la corsa. I due naufraghi furono costretti a calare la slitta dalla riva e attraversare il ghiaccio per poi issarla sulla sponda opposta. In quella traversata poco mancò che affondassero nel fiume poichè il ghiaccio, corroso dall'azione delle acque e dal sole, più volte crepitò e tremò sotto il peso della slitta. II 14 maggio il vento improvvisamente mancò e così pure per altri tre giorni durante i quali il sole, che rapidamente diventava caldo, sciolse gran parte dello strato di neve rendendo così la marcia della slitta assai penosa. Il 18 dovettero rinunciare a partire di giorno, quantunque il vento fosse propizio, anzi molto forte. La neve, eccessivamente rammollita, non permetteva più lo scivolamento. La gran pianura, percossa da una vera pioggia di raggi caldissimi, presentava un sublime spettacolo. Pareva che un immenso incendio la divorasse, estendosi fino agli estremi limiti dell'orizzonte. La neve, i massi di ghiaccio, gli "hummoks", si fondevano a vista d'occhio e fitte masse di vapori ondeggiavano in tutti i versi, sbattute dagli impetuosi soffi del vento meridionale. Di quando in quando, però, fasci di luce scaturivano da quelle masse, e così abbaglianti che gli occhi dei due balenieri non ci potevano resistere. Le acque pullulavano dappertutto correndo in tutte le direzioni, radunandosi nelle bassure, formando torrentelli e stagni, e producendo un ronzio che, di mano in mano che il sole si alzava sempre più splendido e sempre più caldo, diventava più forte. - Corpo di una balenottera! - esclamò Koninson che si era affrettato a tirarsi i capelli sugli occhi per non rimanere cieco. - Si direbbe che oggi messer Febo si è avvicinato alla terra di qualche milione di miriametri. - Se non ci affrettiamo, la nostra vela ci sarà affatto inutile. Fra un paio di giorni la pianura rimarrà scoperta - disse il tenente. - E quando partiremo? - Stasera farà ancora un pò di freddo e tutta quest'acqua e questa neve geleranno. Il tenente non si era ingannato. Verso le 11 di sera, quantunque il sole fosse ancora sull'orizzonte, la temperatura precipitò quasi improvvisamente di parecchi gradi, fino a toccare i tre sotto lo zero e la vasta pianura gelò. I balenieri spiegarono la vela e ripartirono con una velocità notevolissima, essendosi il vento mantenuto assai forte. Alle tre del mattino avevano già percorso trenta e più miglia, ora scendendo ed ora salendo. Ad un tratto l'orecchio di Koninson fu ferito da uno strano muggito che veniva da est. - Abbiamo qualche branco d'alci dinanzi a noi? - chiese egli prendendo il fucile. - Lo spero - rispose il tenente, prendendo la sua arma. Di mano in mano che la slitta procedeva il muggito cresceva sempre, ma sulla pianura non si vedeva alcun essere vivente, per quanto i balenieri aprissero gli occhi. Koninson, che cominciava a diventare inquieto, s'alzò in piedi e si issò sull'albero. Un grido gli sfuggì tosto: - Lasciate la scotta. Abbiamo un fiume dinanzi! - È il Makenzie! - esclamò il tenente. In un baleno, lasciò andare la fune, ma ormai era troppo tardi per arrestare la slitta che divorava la via con una celerità di quindici nodi all'ora. In men che lo si dica, giunse al fiume che correva incassato fra due alte muraglie, barellò un istante nel vuoto, poi precipitò giù inabissandosi nei gorghi del Makenzie.