Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il fosso

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Bonanni, Laudomia 1 occorrenze

Lassù in cima al paese la notte s'avvicinavano all'abi- tato, se ne trovavano le peste al mattino fin sotto gli usci, e se ne udivano gli ululati, talora sommessi abbaianti, talora profondi lunghi, arrovellati di fame. Nelle cucine la gente si riuniva per stare in compagnia, ma a casa della Colomba, appena buio, già erano sotto le coltri per risparmiare lume e fuoco. Lo scricchiolìo del fogliame di granturco al letto grande s'avvicendava da un lato all'altro senza tregua: a Titta mancava la fatica, alla Colomba il fiato. Grossa come un otre di quella gravidanza travagliata che le si gelava nel ventre, col cuore in subbuglio, non poteva star giù, passava le ore seduta a mezzo, tutta madida e intirizzita entro le vi- scere, presa da palpitazioni ogni volta che le pecore, allar- mate di qualcosa fuori, foravano il buio col verde fosforico degli occhi. All'improvviso, nel cuor della notte, lui le affer- rava una mano. «A chi l'hai lasciata?» Di nuovo bisognava raccontargli, rifare la storia, assicurarlo. «Una monachella giovane giovane.» Essa stessa si sentiva racconsolata e fi- dente di quell'estrema giovinezza, le si ripresentava il visino gentile annidato in fondo alla gran cuffia, un viso di ra- gazza, pietoso. E Onorina, tenuta per mano da quella ra- gazza, infine s'allontanava da tutt'e due nel buio clemente del sonno. Stavolta le comari raccolsero un morticino. «Ha voluto dare meno scomodo» disse Anna Dimonte, dopo aver inu- tilmente maneggiato il corpicciolo nerastro che restava inerte. Lo portava già morto dentro, perciò quel gelo nelle viscere. Guardarono tutte alla Colomba, anch'essa maculata di chiazze nere, che schiuse due occhi ottenebrati. Lì den- tro era tutto un mortorio, mancava uno sterpo da bruciare al camino, s'erano mangiati in quell'inverno anche i polli e le pecore. Vederla ridotta così, questa donnina solerte, rab- buia l'anima: eccola che pare ormai un tizzoncino spento, non ha più un luccicore né all'occhio né in bocca, la grani- tura fina dei denti se n'è andata di già. Entrò il figlio con un mazzo di uccelli presi lì fuori alle trappole e aveva lui, ora, il sorriso smagliante di sua madre. Questi uccelli morti buttati sul tavolo accanto all'involto del cadaverino - sebbene non sia carne battezzata - turbano la giovane dei Pratesi che, toltili, si mette a spennarli in un angolo. Quando arrivò fi- nalmente il dottore - veniva sul mulo da un cascinale della montagna, inzaccherato fino al collo - mise fuori quel pul- cinaio di donne e mandò a chiamare il prete. Rivederla, l'estate, alla fontana, fu un rallegramento per tutte. «Noi poveri s'ha sette spiriti» dicevano con la frase del dottore. E si congratulavano inoltre che Innocenzo avesse già trovato lavoro col padre, così ragazzo, che Ono- rina stesse per tornare. La Colomba s'era fatta più socie- vole, prendeva gusto al cicalìo, subito traeva dal seno la let- tera. «Dice che la rimandano, è guarita.» Le donne si passa- vano il foglietto di mano in mano, vi ponevano su l'occhio incuriosito, ma anche quelle che avevano avuto un po' d'i- struzione, a stento decifravano qualche parola. «È guarita, sta qui detto.» La scrittura della monachina gentile era pic- cola serrata, a punte e svolazzi. «Gu-a-r-rrri-ta.» La Co- lomba si beveva le parole. «Potrà presto tornare a casa» leggeva essa stessa, puntando il dito a vanvera, sapendo già tutto a memoria per essersi fatto leggere quel foglio dal parroco, dalla maestra, dalla sorella del dottore, infinite volte. (Innocenzo sa solo interpretare la stampa.) Ma non rivelò alle donne le parole misteriose che l'angustiavano: un piccolo inconveniente. Così dice la suoretta, che le è capi- tato un piccolo inconveniente; ma non spiega di che si tratti, neppure il medico, qui, lo ha capito, non si sa che si- gnifichi questo "inconveniente". Essa vedeva la parola gran- deggiare minacciosa anche di notte, al buio. Una malattia non è, che mai può essere, quale nuova diavoleria? Titta, lui, si mette il fiore all'orecchio, la domenica, e va verso la stazione, caso mai tornasse all'improvviso. Invece la trovò un sabato. Scendendo i gradini dell'uscio, gli parve ricono- scere la voce di sua figlia. Era seduta su uno sgabello, ai passi si volse. Cosi di sbieco, al poco lume, un occhio chiuso e l'altro semiaperto, pareva e non pareva. Ma poi, come rise a suo padre, e le si torse la bocca, tutta la faccia, verso un orecchio, non era più, non era Onorina nient'affatto. Toltosi di tasca l'involto di carabattole che teneva in serbo da un mese per la figlia, Titta lo posò sullo sporto del camino e si mise a ridacchiare come fra sé, con un curioso chioccolìo entro lo stomaco, mentre essa continuava a guardarlo con un occhio chiuso e l'altro coperto a metà da una palpebra greve. Quando la madre la portò a servizio in città, ebbe fine quella storia dei ragazzi e le donne si rimisero in pace. Ve n'erano state di baruffe, per la faccenda del soprannome: Facciatorta la chiamavano, e non c'era rimedio, si poteva forse imbavagliarli? Ala che vipera quella Colomba, che dia- vola di Monachicchia, nessuno avrebbe creduto potesse tirar fuori una lingua consimile, menar financo le mani, pi- gliarsela cosi calda da buttar sassi alla cieca nel mucchio dei ragazzi, tanto che uno ne aveva ancora il segno in testa. Ora, eccole, madre e figlia, laggiù sullo stradone, con la sac- chetta degli stracci ad armacollo. Bene, l'ha situata, la Ma- donna le accompagni e le faccia incontrare con un carretto che se le prenda su. Ma non incontrarono il carretto, giun- sero a piedi in città. Aprì la signora in persona e le fece en- trare nel salotto. Già v'era stata più d'una volta, la Co- lomba, ma dell'inconveniente non s'era parlato. «È questa la ragazza?» La ragazza ride torcendo il muso. «Questa, sis- signora.» La vecchia mette su l'occhialino a cavallo del naso, osserva quella faccia stravolta. «Cos'ha?» Della malat- tia era al corrente, aveva visto i certificati e tutto. Che cosa avesse poi avuto sua figlia, la Colomba non saprebbe proprio dire. A interrogarla, raccontava sempre la stessa storia: che la mattina si alza, le compagne di camerata la guardano e si mettono a ridere, lei ride e quelle più forte ancora, cre- dono faccia per burla, finché viene suor Gabriella e le sgrida. La vecchietta tentennava il capo per tremito senile, tolse l'occhialino, sedé. Ma sì, certo, poca fatica, un po' di pulizia alla meglio, qualche straccetto da lavare, quel che può servire a una povera vecchia abbandonata dai figli. Sibi- lante sospiro. Rimette su l'occhialino, dietro cui scola una lacrima, osserva ancora, ispeziona, soppesa: ma la prende, sì che la prende, per quel che costa. La Colomba confermò che danaro non ne pretenderebbe, purché mangi. Mangerà, si, mangerà tutto lei, la padrona spelluzzica, alla padrona basta quanto a un uccello. In quell'epoca la Colomba aveva già scoperto il Go- verno. Non che sapesse con precisione che sia, questo Go- verno, ma certo se ne può cavare qualcosa: una specie di Pa- dreterno in terra, più in obbligo di quello celeste a soccor- rerti, perché è tutto qui ciò che può dare, a questo mondo. (E inoltre sai meglio come regolarti per non peccargli con- tro, ingraziartelo.) Il ricovero della figlia era stato a spese del Governo, dottore e medicine pagava sempre il Go- verno, mandava quattrini per ogni figlio - anche se poi muore - e scarpe ai vivi, sussidi, tutto quanto puoi spre- merne se hai tempo da picchiare alle sue porte. Tempo ne ebbe, la Colomba, e imparò a picchiare a una infinità di porte: restava per ore in attesa entro belle sale, penetrava in uffici lussuosamente parati, saliva e scendeva scale di marmo, aveva imparato a presentarsi a signori e signore che l'accoglievano bene come lei diceva: «Una madre di quat- tordici figli». Il numero faceva impressionare, che poi fos- sero vivi o morti contava meno, si persuase che essi doves- sero per forza aiutarla, essendo servi di quel Governo - vuol figli, molti figli - il quale c'è ma non si vede come il Si- gnore Iddio. «Eh! eh!» dicevano le donne al paese «non è mica da fi- darsi. Quando il diavolo t'accarezza vuole l'anima. Questo Governo così benefattore, oggi o domani scatena una guerra e ti si prende i figli. Ecco come farà.» Ma lei, i figli, non glieli avrebbe dati, li sotterrava uno dopo l'altro, e l'unico nessuno può prenderselo, s'era infor- mata. Essa per quell'unico voleva munger la vacca grassa del Governo, ora che l'aveva scoperta. Ormai, stando fuori anche Innocenzo, la Colomba era sempre in città - aveva imparato ad andarvi col treno, valendone la spesa - e al paese perfino i signori del municipio stupivano, al giungere dei mandati, per l'abilità di quella donnetta. «Però, ci sa fare» sussurravano tra loro le comari «ci sa fare, la Mona- chicchia.» Con la pezzuola nera al capo, pareva proprio una monaca in giro, una monaca questuante. La miseria, ben s'intende, restò sempre tale, ora che Titta s'era così lasciato andare, ma almeno lei, acciaccata com'è, può risparmiarsi le fatiche pesanti. E inoltre va a trovare la figlia. Ci andava dalla signora, di tanto in tanto. «È infingarda, una ragazza infingarda» era l'accoglienza. Chiamata, Ono- rina usciva dalla cucina strascicando i piedi in un paio di scarpe vecchie della padrona, rideva storto alla madre, si scansava dalla faccia i cernecchi con le mani gonfie di ge- loni. Senza dir nulla, cavandole dal seno, la Colomba posava due ova calde sul tavolo. Una volta che la trovò sola, seppe che non le beveva la figlia e non le portò più. «Ti fa lavo- rare assai?» Onorina disse di sì: lavare i pavimenti, e i panni, tanti panni, la signora si smerda, ha male alle viscere. Le fece bere subito quelle due ova che aveva in seno, ma al secondo, piena la gola di albume colloso, vomitò. S'era ri- fatta come uno sterpolo, deperita, e tossiva. Più tardi, in un ufficio della prefettura, stando dinanzi a un signore polput0 dal colore acceso, che pareva viola come un fico al riflesso azzurro del parato, la Colomba parlava con l'ansima e in- tanto vedeva, dietro a colui, or la figlia ora Titta, fare capolino dietro la voluminosa schiena con un colore in faccia di patata lessa. «Che avete, eh?, che avete?» quello disse a un tratto. La fece sedere, guardava all'uscio come in aiuto. Ma fu solo una vertigine - da tempo ne soffriva - si rimise su- bito. «Tranquilla, su su, lo faremo ricoverare, la mia donna.» E intanto, a braccia larghe, l'avviava all'uscio come si abbocca una gallina fuor del proprio orto. Fatto sta che quella colonna di Titta era crollato. Al canto del fuoco, ciondolava da mesi come un cero ammol- lito, ora comincia a sbavare. Bisognava stargli sempre di guardia, imboccarlo come un bambino, metterlo al letto, rialzarlo. Non che desse in smanie - pericoloso non è - ma essa non ha più forze bastanti, e il guadagno d'Innocenzo sfuma. Appena fu tutto sistemato, si potè portarlo via. Due uomini lo ressero alle ascelle per il rotolìo del pietrisco lungo la viuzza della discesa - egli metteva i piedi come un bambino ai primi passi - fin giù alla strada, alla macchina del dottore che lo condusse in città al manicomio. Come passarono innanzi alla chiesa, si sciolse da coloro che lo portavano, si renne ritto da solo vacillando e annaspò con le mani aggranchite. Ma anziché segnarsi - come immaginava la moglie - Titta inarcò un braccio sul fianco e vi rivolgeva teneramente l'occhio torbido. Nessuno capisce che crede di avere a quel braccio Onorina giovinetta, agghindata di bianco, con gli occhioni di velluto nero sgranati, e condurla in chiesa tra gli sguardi persi dei giovanotti lì sul sagrato. Tutti quegli anni di guerra che vennero appresso scivo- larono via come chicchi dalla mano quando si semina, per la Colomba; vale a dire che la vita, come dimentica di lei, aveva cessato di accanirlesi e preso quel corso quasi inavver- tito del tempo senza sciagure grosse. Sciagure grosse fiocca- vano invece sul mondo intero, ma la Colomba, avendone già avuto la sua buona parte, ora stava a guardare cheta, come rassicurata nel suo angolo. Innocenzo il Governo non poté prenderselo (questo discorso era l'unico che ricavasse un sorriso dalla sua faccia inciprignita) e ora, essendo in due, due bocche sole, si tornava come ai primi anni della fa- miglia, una paga basta a tirar la vita. Il figlio era buono, di quelli che rimettono in casa fin l'ultima lira del guadagno, non fumano, non bevono, non vanno appresso a donne. Sì che pareva ancora un ragazzo, senza pelo di barba alle guance lisce, solo una calugine bruna al labbro gentile come la madre, con la stessa granitura femminea di denti bianchi; ma le giovani lo guardavano, alle fatticce campagnole piace il maschio fino. Egli pareva non avvedersene, non pensava ad amoreggiare, tanto meno ad accasarsi. Non senza una punta di veleno, le comari dissero ch'era di giudizio, final- mente, e certo non faceva altro che il suo dovere, visto ch'era stata sgombrata la casa per fargli largo. Che la Monachicchia si fosse disfatta così della figlia e del marito, era considerato sacrilegio addirittura, mai s'era usato in paese disfarsi degli infermi e degli invalidi, la casa deve custodirli finché Dio gli dà respiro. Di nuovo si tor- nava a guardare con perplessità e astio a quella forestiera, giudicandola, ora, di cuor crudo. Mai rammemorava i figli morti, né quella infelice messa per serva, né il poveruomo stroncato dalla fatica. E neppure pareva commuoversi della strage che infieriva sul mondo, cui erano trascinati tutti quei figli di mamma. A lei, che ha tanto smunto il Governo, non glielo toccano, il figlio, e anzi adesso lavora di più e guadagna meglio, non c'è concorrenza. Pare le vada fin troppo bene, s'è fatta forastica di superbia. La guardavano storto, come passava con Innocenzo al fianco - piccolino, minuto, ma ritto e ben fatto: un fusello - lei rattrappita, il viso di castagna secca entro la pezzuola nera e gli occhi bassi da monaca, monaca questuante, eh! eh! Ma aveva fatto una faccia dura: mancandole tutti i denti di sopra, il mento sporgeva e il labbro inferiore sopravanzava l'altro in una mossa bisbetica. Se le vicine s'arrischiavano una volta tanto a vuotar l'orinale nel suo fosso, levava stridi alle stelle, e lanciava pietre ai ragazzi che s'attentassero a scendervi. Così furono ben liete, le comari, quando poterono farle ri- sapere che Innocenzo guardava quella gatta rossa della tes- sitrice, la più brutta e povera ragazza della contrada: un'or- fana senza tetto, che andava per le case a tessere i corredi altrui, e di suo non aveva che una bisaccia da cavallaro, in- tessuta a rame e uccelli, con quattro stracci dentro. La Co- lomba si mostrò indifferente a tutto, e questo non dar sod- disfazione, che è considerato dalle donne la peggiore offesa, finì di alienarle gli animi. In quel tempo la contrada era già brulicante di soldati stranieri e di ordigni guerreschi, passavano di continuo gli aeroplani, cadde qualche bomba anche lì attorno, e si sa- peva che la battaglia stava avvicinandosi. Eppure, che qual- cosa di umano potesse colpire il pezzetto di spazio occupato dalla sua casipola, in realtà pareva alla Colomba inverosi- mile. E nemmeno essa aveva da perdere nulla, se ne stava tranquilla mentre gli altri muravano e sotterravano le loro robe: gli ori, i panni, persino masserizie e grano. L'unico privilegio del povero in canna è che nulla al mondo può ar- recargli danno o toglier di più, è in potere solo di Dio ag- giungergli offesa, accrescere i suoi mali: una sorta d'intangi- bilità lo fa sicuro quando il mondo trema per suoi beni e la condizione mortale anzitempo minacciata. Conscia della in- finita pochezza della propria persona - ciò rende inermi e riparati come essere erbicciole entro il frumento che la falce recide alto a fasci - la Colomba continuò a recarsi in città, a piedi o sugli automezzi stranieri, se la prendevano, anche quando la gente non transitava più. L'ultima volta le fu necessario andare per il ricovero di Onorina, nuovamente ammalatasi. Poiché i treni non viag- giavano, la presero all'ospedale in città. Le fu assegnato un letto accanto alla finestra e la suora parve, sebbene brusca, impietosita, gliela tolse con fermezza per farla subito cori- care. In quell'occasione, essendosi congedata dalla figlia come per sempre - ormai la guerra avrebbe diviso strada da strada, casa da casa - andò a trovare anche Titta. C'era in giro quell'aria di finimondo che dà a ogni atto un senso de- finitivo irrevocabile, l'impressione d'un pericolo generale, d'una catastrofe collettiva che sommerga tutto. Ululavano le sirene, la gente scappava urlando, si udivano boati esplo- sioni schianti: solo la donnetta paesana continuava ad an- dare raso i muri e guardava in su, come il rombo era in mezzo al cielo, segnandosi in croce per tutti. Il poveruomo non la riconobbe, succhiò l'uovo che essa gli tenne alla bocca, sbrodolandosi, e poi ripiegò il capo sul petto. Aveva i capelli sulla nuca irti, appariva inselvatichito, con quell'ab- bandono muto dell'animale ammalato che la gente di cam- pagna riconosce subito. Stettero, per tutto il tempo della vi- sita, seduti vicini su una panca. Lei, con le mani sotto il grembiule, guardava il piede polveroso del tavolo tondo e uno stuoino sfrangiato cosparso di orme. Sussurrava di tanto in tanto, dolcemente, senza guardarlo: «Eh! Tì, eh!» Quando le sirene emisero il cessato allarme, l'infermiere la fece uscire. Alla stazione del paese, di cui restavano muri anneriti, sentendosi stanca morta, sedé su un paracarro; ma la Fala- lana la chiamò e la fece entrare. Anche la loro casa aveva ri- sentito del bombardamento, tutti i vetri in frantumi, un an- golo del tetto smantellato. «Eh, che tempi, in che tempi c'era toccato vivere!» gemeva la Falalana. (Ma la Colomba crede che tutti i tempi siano uguali sopra la terra, solo che una volta non si sommoveva così tutt'assieme.) Le era morto un figlio, due stavano oltremare: Dio fulmini chi ha scatenato una guerra consimile, che mai se ne vide la pari. «E il tuo, ce l'hai sempre con te?» Sì, ce l'aveva, Dio non colma mai la misura, ciò che Lui riempie non trabocca, la colpa è degli uomini. (Essa dà ragione a Dio anche ne' pro- prii più secreti pensieri, le ha lasciato Innocenzo, e non è a dire che abbia bisogno di guerre per togliere dal mondo.) Ma la Falalana, col furore dei ricchi impoveriti e dei felici orbati, anche con Dio se la prendeva. Mentre quella stava così a querelarsi con parole vane, entrò una ragazza, e la Colomba, riconosciutala, apprese come la tessitora stesse lì a chiudere una pezza di lino al telaio per poi riporlo in un nascondiglio e sotterrare la roba: ché, si sa, chi ha non vuol perdere. La ragazza era alta e voluminosa, un po' molle di seno e di anche al modo delle donne la cui carne pare pasta di latte, con gli occhi bianchi - si dice così, in campagna, di chi li ha chiari - il ciuffo cresputo simile a una coda di pan- nocchia e la faccia come cosparsa di crusca, che avvampa fa- cilmente. S'imporporò, infatti, ravvisando la visitatrice lì se- duta. Nel parlare, apriva molto la bocca larga, rosea dentro e tenera. Subito se ne andò a tessere, s'udiva ancora dalla strada uno sbattere e schioccare alacre. Ora Innocenzo stava a casa, ogni lavoro essendo inter- rotto si mangiavano i pochi risparmi del tempo buono. Mai s'unì agli uomini che giocavano, né prese alcun altro vizio, e neppure si mostrava irritabile o furibondo come gli altri che parevano diavoli rinchiusi. Qualcuno fu preso e portato via, altri si dettero alla montagna: ma lì da loro, in quella tana di casa, non entrò mai nessuno; né a Innocenzo passava pel capo di ribellarsi, se mai l'avessero chiamato a far qualcosa che non fosse la guerra. (Lo chiamarono infatti, a spalar neve, ma senza dargli mercede.) Nel canto del fuoco, in- trecciava fiscelle di giunchi, ricavava cucchiai forchettoni mestoli, da pezzi di legno duro che aveva racimolato. A Na- tale si fece il Presepe con certi suoi pupazzi, che il prete co- lorì, e tutti lo lodarono. (Anche i tedeschi entravano a ve- dere, stando in chiesa impalati, prosternandosi fino a terra, con una reverenza che impressionò le donne: la loro nequi- zia aveva occhi così celesti da sembrare una invenzione.) Quando fu terminato l'ultimo soldo - e del resto non c'era piú nulla da comprare - arrostita l'ultima manciata di gran- turco, la madre uscì e gli trovò lavoro alle macchine. Erano - poste sotto una tettoia - molto fragorose, trinciavano carne, la impacchettavano e sigillavano con rapidità diabo- lica, non pareva neanche che occorresse opera d'uomo lì at- torno. Ne occorreva, invece, per macellare il bestiame, scuoiarlo e ridurlo in pezzi: Innocenze diede prova di grande abilità nella scuoiatura e i tedeschi lo pagarono bene. Inoltre riportava a casa cartate d'interiora, zampe, ossa da brodo, talvolta parti anche migliori. Mai nella loro vita avevano mangiato carne all'infuori delle feste grandi, e quella divenne un'abbondanza da dare il rigurgito, non tro- vandosi neppur sempre pane da accompagnarvi e, in ultimo, neanche sale da correggere il gusto sanguinolento della ma- cellazione fresca. Invece i padroni del bestiame requisito, in quel tempo, si trattarono di magro: gente che aveva posse- duto mandrie e greggi, e non gli bastavano al consumo giornaliero due maiali per anno, dové ricorrere alla Co- lomba per qualche osso da farne brodo a un ammalato. Poi un giorno i tedeschi smontarono tutto, caricarono e portarono via. Pare che la guerra s'avvicinasse davvero que- sta volta, sarebbe passata addosso a loro come un erpice, altri stranieri sarebbero venuti e, si diceva, forse la pace. La Colomba non tentò mai di capirci, essa si sottometteva agli avvenimenti senza scrutare nel domani: sapeva, pur igno- rando che fosse stato già detto, come a ogni giorno basti la propria pena. (Andare in città non si può, dunque nemmeno si deve pensare a Titta e alla ragazza, essi sono nelle mani di Dio al pari di noi tutti.) Quando la campagna si mise a sob- balzare sotto le esplosioni e l'aria crepitava come se il cielo andasse in frantumi, la gente serrò gli usci e si asserragliò nelle case. E allora capitò l'unica occasione che qualcuno bussasse a quell'usciolo quasi sotterra. Era sull'imbrunire, aprì la Colomba e si trovò innanzi un tedesco: doveva essere l'ultimo della ritirata, uno sperduto in procinto di affron- tare da solo il valico della montagna. Del resto, un pelle- grino coi piedi rotti. Lo fece entrare, sedere, mise fuoco sotto il caldaio. Quello stava come sugli spini, polveroso fino ai capelli biondi scarmigliati, aveva due solchi verdo- gnoli ai lati del naso, un'aria di spossatezza, ma irta, inselva- tichita. Anche mentre teneva i piedi sanguinolenti nel bagno tiepido, Innocenzo continuò a intrecciare i suoi giunchi e portò a termine la fiscella senza mai guardare. Il tedesco si rassicurava, trasse un respiro profondo, scaricò in terra lo zaino che ancora teneva in spalla. Non poterono dargli da mangiare, solo acqua e misericordia. Ma, com'ebbe tratto dal bacile i piedi simili a melanzane, e asciugandoli con uno straccio di canapa continuavano a san- guinare, la Colomba scoprì il letto e lacerò un lembo di len- zuolo perché si fasciasse. Guardatala con occhi bianchi, quello depose in terra anche la pistola. Al momento di an- darsene, trasse un pacco dallo zaino, lo porse alla donna e, pronunziate alcune parole inintelligibili, uscì zoppicando nel buio per arrampicarsi con quei piedi rotti fra il pietrame ruinante della montagna. «Che ha detto?» domandò la Co- lomba al figlio. Ma lui non sapeva, non capiva altro di quella lingua che gli ordini avuti sul lavoro. Scartato l'in- volto, apparvero due lenzuola di un lino candido e sottile come paramenti di chiesa, tutto fiorito di ricami. «Sono da sposa» disse animandosi Innocenzo, con una riposta inten- zione. Ma essa neppure gli badò; rapita, esaltata, a un tratto vedeva il miracolo, proprio come raccontavano le monache: che uno fa la carità e l'angelo subito porta il premio, né si sa mai sotto quali panni un angelo possa apparirti. Sebbene, sì, da pellegrino, dicono sempre le storie. In fine di sua vita, la Colomba avrà ancora al suo letto quelle lenzuola fra cui una volta è già morta per metà. Av- venne poco dopo l'arrivo degli altri stranieri, e non che ac- cadesse di peggio, anzi: Innocenzo anche presso quelli trovò da lavorare, ché i servizi umili occorrono a tutti. Ma seppe allora che Onorina se n'era andata. O fu, come si vociferò in paese, a causa di tutto quel carname ingerito: a non esserci avvezzi, tale cibo robusto produce troppo sangue e il sangue a un tratto va a inondare il cervello. La notte che il figlio invocò soccorso per il vicinato, le donne la trovarono fra quelle lenzuola e, più che per la sciagura, sbigottirono di tanta sospetta ricchezza. Essa, fra tutti quei ricami a ghiri- goro e le onde candide accavallantisi d'un profluvio di lini spazzanti in terra attorno ai bassi cavalletti, stava con la testa sprofondata, aperti gli occhi ma senza sguardo, né si risentiva a toccarla per braccia e spalle che aveva come morte, tranne le dita della mano sinistra annaspanti. «Si spoglia» dissero le donne. «Già si spoglia.» E intendevano che morisse, poiché l'uomo, in ultimo, fa sempre atto con le mani di mondarsi dei nostri stracci, ché dovrà presentarsi ignudo fra poco. Invece, come il dottore giunse a pungerla all'altezza del cuore, ne ricavò un gemito. E così continuò a gemere, desta o dormiente, per l'intero corso del male: fu un gemito ininterrotto, dal profondo, come esalasse tutt'in una volta la pena del vivere. Le donne, vistala inerte a metà, non potevano saperne nulla, ma il fatto si è che davvero, pur così paralizzata, incapace di articolare (restò poi sempre con un intoppo alla lingua), ignara del presente era, ma non, ahimé!, immemore. Era stato così, in principio: si sveglia e s'accorge d'essere sepolta, non profondo, sibbene a fior di terra, sepolta nel- l'immondizia del fosso - una cosa tiepida arida soffocante - fino a metà corpo: vuol cavarne le mani e una n'esce, solo però le dita. (Certe volte, alla morte dei bambini, pensava che tutti loro erano caduti nella vita come in un fosso.) Poi, attraverso secoli di lenti sforzi, riuscì a cavarsene quasi completamente; ma sempre, finché stette coricata, era come se le rimanesse addosso una quantità di terriccio, che tal- volta si copriva d'una pelurie d'erbicciola ovattando i suoni, continuando a tenerla separata dal mondo. (E un alidore ra- spante nella gola, lo sanno i morti che mangiano terra.) Era lì, dentro la propria casa, ma lo ignorava: anziché l'odor del sambuco, giunge alle nari un aroma di cedrina, quell'aria di convento della fanciullezza. Una volta fu appesa entro il quadro del parlatorio, con quelle sette spade, o forse più, infitte nel cuore: vi restò appesa per una eternità, aspet- tando che la conversa giungesse con i gerani. Intanto ombre, fiati di bambini, vagolano attorno: come increati, eppure ciascuno col proprio nome e fattezze e pianto: pianti diversi, un coro di pianti in distinte modulazioni; e non si sa chi siano né di chi, ma il giorno che nacquero e quello che morirono formano una serie di giorni di cui si vede il colore di tempo vivo, ancora. Se scorge presentarsi un bicchier d'acqua, la Colomba non riesce a rammentare che sia, né a indovinare che cosa farne, e non saprebbe davvero come chiamarlo, le sfuggono completamente i nomi delle cose e delle persone. Ma, per entro quella fulgida chiarità, essa vede distintamente, e lo nomina, un carro verniciato di ce- leste, con le stanghe all'aria che portano su Onorina altale- nante, la vesticciola sollevata sulle gambine da passera. Rientrare nella vita, m ricordarsi di Onorina: non quella svolante alle stanghe del carro, bensì Onorina fatta grande senza crescere, mai imbellita, Onorina con la faccia storta, perduto lo splendore degli occhi, Onorina gonfia di geloni e sussultante di tosse; ed ecco, morta, morta sola sotto quel finestrone - e forse ha chiamato mamma - con un grumetto di sangue in bocca come gli agnelli pasquali. Poteva già muovere le braccia e, incespicando nel parlare, ricordarsi i nomi d'ogni cosa. Il giorno che posò per la prima volta in terra le gambe, ricompose nell'oblio i suoi effimeri fiorellini con un cauto ravvedimento della memoria. Riprese a occu- parsi del cibo d'Innocenzo, andando per casa coi movimenti d'una serpicina spezzata; e poco udiva, le era rimasto del terriccio nelle orecchie, ronzavano fin dentro il cervello; ma era tutto in una nebbia, anche gli occhi un poco ottenebrati. Ora il figlio lavorava di nuovo come bracciante, giù alla sta- zione, a rifare la strada ferrata sconvolta dalla guerra, già una volta fatta da suo padre. Al sabato, dopo aver mangiato, tiratasi in mezzo ai ricci fitti una scriminatura gocciolante acqua, se ne usciva di casa. E una volta che c'è la luna, vede apparire la siepe come fiorita. La ragazza aspetta là, in quell'ombra sotto l'albero: a Innocenzo improvvisamente il cuore sussulta. Gli piaceva il bianco molle di giuncata di quella carne, la forma ampia complessa, il biondo arso del capo e quei denti come con- fetti che mettono voglia di leccarli. Forse, pensa stasera, mamma si adatterebbe a dormire nel letto piccolo. Di sulla siepe si toccano la punta delle dita, poi egli la trae in luce: e com’è grande sotto la luna. Vederla nuda, un mare di latte, e lui ad affogarvisi. Anche alla ragazza piace questo giovi- nottino dalle fattezze minute, i suoi occhi morelli, la bocca granita come di pinoli e l'impeto della piccola persona. Si sposta docile, ed ecco che Innocenzo esaltandosi vede un polverìo d'oro nei suoi capelli, argento negli occhi, tutt'un chiarore, una luna essa stessa. Ma pone le mani sull'appari- zione e raggiunge la carne calda palpitante. «No no» geme la ragazza. (Essa è qui al cascinale a tessere una coperta da sposa, guai se la scoprono; e ancora si ricorda che non si può finché c'è la vecchia, lui gliel'ha detto.) Come si di- mena e inarca per svincolarsi, Innocenzo riesce ad abboc- carla, scontrandosi coi denti di confetto che tinniscono: ma subito è una cosa morbida dolce profonda. Dopo, egli balzò dall'altra parte della siepe.

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