Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbaiando

Numero di risultati: 3 in 1 pagine

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I ragazzi della via Pal

208088
Molnar, Ferencz 1 occorrenze
  • 1929
  • Edizioni Sapientia
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Ettore si fermò sotto una catasta abbaiando con furore. La catasta era una di quelle sulle quali era costruita una fortezza. Sulla cima del cubo c'era un bastione di legna in pezzi e sopra un'asticciuola sventolava uno stendardino rosso e verde. II cane saltellò intorno alla fortezza e continuava ad abbaiare. — Cosa c'è? — chiese il biondino al cane, perchè bisogna sapere che il biondino era molto amico del cane nero, forse perchè, all'infuori di lui, Ettore era l'unico soldato semplice dell'esercito. Nemeciech guardò su verso la fortezza. Non vide nulla, ma sentì che qualcosa si muoveva tra il legname. Si mise allora ad arrampicarsi aiutandosi con le sporgenze delle travi. Si trovava a metà percorso quando sentì distintamente che qualcuno frugava tra la legna spaccata. Il suo cuore si mise a battere forte. Avrebbe forse voluto tornare indietro ma quando, guardando giù, vide Ettore si fece coraggio. — Nemeciech, non aver paura, disse a sè stesso. E continuò ad arrampicarsi con cautela. Ad ogni gradino prendeva coraggio e ripeteva: — Nemeciech, non aver paura! Nemeciech, non aver paura! E giunse in cima alla catasta. Lì si disse un ultimo: «Non aver paura, Nemeciech!», ma quando volle scavalcare il muro basso del bastione, la sua gamba che già si era alzata rimase sospesa per lo spavento. — Gesù! E precipitosamente si lasciò cadere lungo le sporgenze fino a terra. II suo cuore batteva a galoppo. Guardò in su, verso la fortezza: accanto alla bandiera, col piede destro posato sul bastione della fortezza, stava ritto Franco Ats, il terribile Franco Ats, il nemico di tutti loro, il capo dei ragazzi dell'Orto Botanico. II vento agitava la sua larga camicia rossa. Sorrideva beffardo. E si rivolse al ragazzino per dirgli con tranquillità: - Nemeciech, non aver paura! Ma Nemeciech aveva invece tanta paura che gia s'era messo a correre. E il cane nero gli correva dietro; e s'infilarono insieme tra cubi di legname, dirigendosi verso il campo; ma sulle ali del vento li raggiunse il grido beffardo di Franco Ats: - Nemeciech, non aver paura! Quando, dal campo, Nemeciech si volse, in cima alla fortezza non v'era più la camicia rossa di Franco Ats. Ma anche la bandiera era scomparsa dal bastione, la bandiera rosso e verde che era stata cucita dalla sorella di Ciele. Il nemico era scomparso tra le cataste di legna. Uscito forse dalla parte di via Maria, verso la segheria, o fors'anche appiattato in qualche angolo con i suoi amici, i fratelli Pastor. E all'idea che anche i Pastor potessero essere presenti, un brivido freddo percorse la schiena di Nemeciech. Egli sapeva cosa significasse incontrare i Pastor. Ma Franco Ats l'aveva visto da vicino, ora per la prima volta. S'era spaventato molto, ma a dir la verità il giovane gli piaceva. Era un bel ragazzo bruno, largo di spalle e la camicia rossa gli stava a meraviglia. C'era qualcosa di garibaldino in quella camicia rossa. I ragazzi dell'Orto Botanico indossavano tutti la camicia rossa per imitare Franco Ats. Sullo steccato del campo si bussò con quattro colpi regolari. Nemeciech trasse un sospiro di liberazione: i quattro colpi erano il segnuale convenuto dei ragazzi della via Pal. Corse alla porticina sprangata e l'aprì. Entrarono Boka, Ciele e Ghereb. Nemeciech moriva dalla voglia di raccontar loro la tremenda notizia, ma non dimenticò di essere un soldato semplice e di fare il suo dovere verso i tenenti e i capitani. S'irrigidì sull'attenti e salutò militarmente. — Salve! — dissero i nuovi venuti. — Che c'è di nuovo? Nemeciech sospirò affannosamente ed avrebbe voluto raccontar tutto d'un fiato. — Terribile! — disse. — Cosa? — Orrendo! — Parla! — Non vorrete credermi! — Che cos'è accaduto? — C'è stato qui Franco Ats! Ora toccò agli altri d'essere ansiosi e atterriti. — Non è vero! — esclamò Ghereb. Nemeciech pose la mano sul petto e disse: — Vero quant'è vero Iddio! — Non giurare! — intimò Boka, e, per dare maggiore efficacia alle sue parole: — Attenti!!! — ordinò. Nemeciech battè i tacchi uno contro l'altro. — Racconta minutamente quello che hai veduto! — Stavo passeggiando tra le viuzze quando il cane si mise ad abbaiare. Lo seguo. E nella cittadella centrale sento dei rumori. Mi arrampico e in cima v'era Franco Ats in camicia rossa. — In cima? Sulla cittadella? — In cima, sì! — disse il biondino e stava di nuovo per giurare. Aveva già la mano sul petto, ma la ritrasse davanti allo sguardo severo di Boka. Aggiunse: — Ha anche portato via la bandiera! Ciele sussulto: — La bandiera? — Sì. Corsero tutti verso il luogo della sciagura. Nemeciech modestamente veniva ultimo, in parte perchè era soldato semplice, in parte perchè non era ben sicuro che in qualche angolo non fosse nascosto Franco Ats. Si fermarono davanti alla fortezza: nemmeno l'asta c'era più. Tutti erano molto agitati: il solo Boka conservava il suo sangue freddo. — Dì a tua sorella — ordinò rivolto a Ciele — che per domani prepari un'altra bandiera. — Sta bene; — rispose Ciele — ma non ha più stoffa verde. Rossa ne ha ancora, ma verde è finita. Boka rispose imperturbabile: — Stoffa bianca, ne ha? — Ne ha. — Faccia allora una bandiera rossa e bianca. D'ora in poi i nostri colori saranno rosso e bianco. Si rassegnarono a questa modifica. Ghereb chiamò Nemeciech: — Fante! — Presente! — Per domani siano corretti i nostri statuti. I nostri colori non sono più rosso e verde, ma sono bianco e rosso. — Sta bene, signor tenente! E Ghereb accordò benignamente al biondino irrigidito: — Ri..poso!!! — E il biondino allora riposò. I ragazzi s'arrampicarono sulla fortezza e constatarono che l'asta della bandiera era stata spaccata da Franco Ats: non rimaneva più che il pezzettino che l'inchiodava. Dal campo giunsero richiami: — Ahò, oò! Ahò, oò! Questa era la parola d'ordine: anche gli altri erano dunque arrivati e stavano cercando di loro. Da molte parti s'intese il richiamo: — Ahò, oò! Ahò, oò! Ciele fece un cenno a Nemeciech: — Fante! — Presente! — Rispondete agli altri! — Sì, signor tenente! E facendosi portavoce con le mani davanti alla bocca per ingrossare la sua vocina di bimbo, gridò: — Ahò, oò! Dopo di che scesero strisciando e s'avviarono verso lo spiazzo. Nel mezzo del prato c'erano gli altri aggruppati: Cionacos, Vais, Colnai ed alcuni altri. Quando s'accorsero di Boka tutti si misero sull'attenti perchè Boka era il capitano. — Salute a tutti — disse Boka. Colnai si fece avanti. — Porto a conoscenza del signor capitano — disse — che quando siamo entrati, la porticina non era chiusa. Secondo il regolamento la porticina deve essere sprangata dall'interno. Boka si volse severo verso il suo seguito. E tutti gli occhi fissarono Nemeciech. E Nemeciech aveva già la mano ancora sul petto e voleva proprio giurare che non era stato lui a lasciarla aperta, quando il capitano domandò: — Chi è entrato per ultimo? Si fece un gran silenzio. Nessuno era entrato per ultimo. E allora il viso di Nemeciech si rasserenò. Una voce disse: — Per ultimo è entrato il signor capitano. — Io? — chiese Boka. — Signorsì! Boka riflettè un poco. — Hai ragione — disse serio — Ho dimenticato di chiudere la porticina. Signor tenente, scrivete il mio nome sul libro delle punizioni! Si era volto a Ghereb e Ghereb tolse di tasca un taccuino nero sul quale scrisse: «Giovanni Boka» e per sapere di cosa si trattava aggiunse: «porticina». Questo piacque ai ragazzi. Boka era un giovane giusto. Questa autocondanna era un esempio di virilità quale non si trova nemmeno nella lezione di latino, benchè la lezione di latino sia sempre piena di caratteri romani. Ma Boka era anche un uomo e neanche Boka era esente dalle debolezze umane. Aveva fatto segnare il suo nome, è vero, ma poi s'era rivolto a Colnai che aveva denunziato la porticina aperta e disse: — E tu non ciarlare troppo! Signor tenente, iscrivete Colnai sul libro delle punizioni per essere stato delatore! Il signor tenente tornò a cavar di tasca il terribile taccuino e scrisse il nome di Colnai. Nemeciech che era in fondo balò in segreto di gioia per non essere questa volta iscritto sul libro delle punizioni, perchè bisogna sapere che in quel libro non c'era altro nome che quello di Nemeciech. Tutti sempre e per qualunque motivo iscrivevano il suo nome. E il tribunale militare che teneva udienza ogni sabato condannava sempre lui. Non poteva essere che così, essendo egli l'unico soldato semplice dell'esercito. A questo punto s'iniziò la grande discussione. In pochi minuti tutti furono al corrente della grande novità, che Franco Ats, capitano delle camicie rosse, aveva avuto l'audacia di spingersi fin nel cuore del campo nemico, di arrampicarsi sulla cittadella centrale e di portar via la bandiera. L'indignazione era generale. Tutti stavano intorno a Nemeciech che ripeteva sempre nuovi particolari. — E ti ha detto qualche cosa? — Certamente! — affermò Nemeciech. — Che cosa? — Mi ha gridato... — Che cosa? — Mi ha gridato: «Non hai paura, Ne- meciech?» E qui il biondino inghiottì saliva, perchè sentiva che non era precisamente la verità. Anzi era proprio il contrario della verità. Sarebbe stato come se egli si fosse dimostrato molto coraggioso tanto che Franco Ats, meravigliato, gli avrebbe domandato: «Come mai non hai paura, Nemeciech»? — E tu non avevi paura? — Io no! Mi sono fermato ai piedi della fortezza; e lui si lasciò cadere dall'altro lato e sparì. Se la svignò. Ghereb l'interruppe gridando: — Questo non è vero! Franco Ats non se la svigna davanti a nessuno, mai! Boka fissò Ghereb: — Ma guarda come lo difendi! — Ho parlato — disse con maggior pacatezza Ghereb — ho parlato perchè non mi sembra verosimile che Franco Ats si sia spaventato di Nemeciech. A queste parole risero tutti perchè in verità non era verosimile. Nemeciech rimaneva sconcertato in mezzo al gruppo e scrollava le spalle. Allora Boka prese il comando delle operazioni: — Ragazzi, qui bisogna fare qualche cosa. Era, stato fissato che oggi avrernmo eletto un presidente. Eleggiamo il presidente e che sia un presidente con pieni poteri: bisognerà seguire ciecamente i suoi ordini. Può darsi che dall'incidente di oggi scoppi una guerra ed allora occorre qualcuno che prepari le cose come in una vera guerra. Soldato, fatevi avanti! Attenti!!! Preparate tanti pezzettini di carta quanti siamo noi; ciascuno scriverà sul pezzettino che gli sarà dato il nome di colui ch'egli desidera sia presidente. Le schede verranno buttate in un berretto e chi avrà riportato maggior numero di voti sarà il presidente! — Evviva! — gridarono tutti ad una voce e Cionacos emise un fischio di allegria, un fischio che pareva quello di una locomotiva. Dai vari taccuini furono strappate delle pagine e Vais mise a disposizione la sua matita; ma poi nacque una discussione per sapere quale berretto avrebbe avuto l'onore di servire da urna. Colnai e Barabas che trovavano sempre di che litigare stavano già in procinto di prendersi a pugni. Colnai sosteneva che il berretto di Barabas non poteva servire perchè troppo unto. D'altra parte Chende affermava che il berretto di Colnai era ancora più unto. Vollero far subito la prova del grado di untume: con un temperino si misero a grattare la striscia di pelle nell'interno del berretto, ma arrivarono in ritardo. Ciele aveva già offerto alla comunità il suo elegante berrettino nero, ed in materia di berretti, inutile discutere, nessuno poteva superare Ciele. Ma Nemeciech, con grande sorpresa di tutti, invece di distribuire i foglietti, approfittò dell'attenzione che per un istante s'era rivolta a lui, e stringendo i foglietti nella manina sporca, si fece avanti. Dritto sull'attenti, coi tacchi accostati, disse con voce tremante: — Perdoni, signor capitano! Veramente non è giusto che io sia il solo soldato semplice... Da quando s'è fondata la società tutti sono divenuti ufficiali e io soltanto sono rimasto senza grado e tutti mi comandano e io devo fare tutto e io... Qui il biondino si commosse molto e sul suo visino sottile colarono grosse lagrime. Con una piccola smorfia di disgusto Ciele osservò: — Bisogna esciuderlo! Piange! Una voce dal fondo esclamò: — Singhiozza! Tutti si misero a ridere. E questo esasperò definitivamente Nemeciech. II cuore del poverino era troppo addolorato e le lagrime ora si misero a scorrere liberamente. Singhiozzava e in mezzo al suo gran pianto diceva: — Anche nel... libro delle punizioni... anche lì non ci sono scritto che io... Sempre iI mio nome... Io sono... il cane... Boka disse calmo: — Se non smetti subito di strillare sarai espulso. Noi non possiamo giocare con i mocciosi... La parola «moccioso» fece il suo effetto. Nemeciech, il povero piccolo Nemeciech si spaventò molto e pian piano smise di piangere. II capitano gli mise la mano sulla spalla: — Se vi comportate bene e vi distinguete, nel maggio potrete diventare anche voi ufficiale. Per ora rimarrete soldato semplice. Tutti approvarono, perchè se anche Nemeciech fosse divenuto ufficiale, allora tutt'il giuoco avrebbe perduto di sapore. Non ci sarebbe stato più nessuno a cui comandare. La voce acuta di Ghereb intimò: Fante, temperate questa matita! Gli venue consegnata la matita di Veis che, nella tasca, per la vicinanza delle biglie aveva rotta la punta. Il soldato semplice prese in consegna la matita, rimanendo sull'attenti; poi con gli occhi ancora lagrimosi, col viso umido, obbediente, incominciò a temperare ansando un poco, come si fa dopo un gran pianto, e tutto il suo dolore, tutta la sua amarezza si concentravano nel temperare la matita Faber numero 2. — E'... temperata, signor tenente! La restituì e trasse un profondo sospiro. E con questa sospiro rinunciò per il momento alla promozione. I foglietti furono distribuiti. Ognuno si ritirò in disparte, perchè l'affare era di somma importanza. Poi il soldato semplice raccolse i foglietti che mise tutti nel berretto di Ciele. Ma quando il berretto di Ciele fu portato in giro per la raccolta delle schede, Barabas diede un colpo di gomito a Colnai mormorando: — E' unto anche quello! Colnai guardò nel berretto; e tutt'e due sentirono che non avevano più da vergognarsi. Se anche il berretta di Ciele era unto, allora voleva dire veramente che il mondo era sottosopra. Raccolti i foglietti, Boka cominciò lo spoglio e passava le schede lette a Ghereb che gli stava vicino. Lesse: Giovanni Boka, Giovanni Boka, Giovanni Boka. Poi una volta lesse: Desiderio Ghereb. I ragazzi si scambiarono un'occhiata: sapevano che questa era la scheda di Boka il quale aveva votato per Ghereb per cortesia. Seguivano altri Giovanni Boka, poi da capo un Desiderio Ghereb, ed infine un ultimo Desiderio Ghereb. In totale Boka aveva ottenuto undici voti e Ghereb tre. Ghereb sorrise sconcertato; gli accadeva per la prima volta di esser posto apertamente di fronte a Boka. E i tre voti gli facevano piacere. A Boka invece due di quei tre voti contrari gli facevano dispiacere e riflettè per un attimo chi potessero mai essere i due che non lo volevano presidente, ma poi disse: — Dunque voi: mi avete eletto a vostro presidente. Grida di evviva e nuovo fischio di Cionacos. Gli occhi di Nemeciech erano ancora umidi ma anch'egli gridava «evviva» con entusiasmo perchè voleva un gran bene a Boka. Il presidente accennò a voler parlare. Si fece silenzio. — Amici, — disse — vi ringrazio. Cominciamo subito a lavorare. Credo che tutti siamo d'accordo nel ritenere che le camicie rosse vogliono usurparci il campo e le cataste di legna. E' di ieri la prepotenza dei Pastor che si presero le biglie dei ragazzi. E' di oggi l'intrusione di Franco Ats che portò via la nostra bandiera. Prima o poi le camicie rosse saranno qui per cacciarci. Ma noi difenderemo questa terra. Cionacos l'interruppe urlando: — Evviva il nostro campo! Si guardarono attorno; fissarono lo spiazzo libero e le cataste di legna illuminate dal dolce sole di un pomeriggio di primavera. Si vedeva nel loro sguardo l'amore che portavano alla loro terra e come avrebbero lottato, se fosse stato necessario, per essa. Era una specie di amor di patria. Gridavano: «Evviva il campo» come avrebbero gridato: «Evviva la patria!» E i loro occhi brillavano e il cuore di tutti traboccava di entusiasmo! Boka continuò: — Prima che essi vengano qui, andremo noi da loro, all'Orto Botanico! In un altro momento un progetto così audace avrebbe sconcertato i ragazzi. Ma in quell'ora di entusiasmo, tutti esclamarono ad una voce: — Ci andremo! E poiché tutti gridavano: «Ci andremo!», anche Nemeciech gridò: «Ci andremo!». In ogni modo egli sarebbe venuto per ultimo portando i cappotti dei signori ufficiali. In mezzo alle voci dei ragazzi c'era una voce rauca e profonda, che anch'essa aveva gridato: «Ci andremo!» Si volsero tutti. Era lo slovacco. Era lì, con la pipa tra i denti, e rideva. Ettore gli era vicino. I ragazzi risero. Lo slovacco anche: gettò il suo cappello per aria ed urlò: — Andiamo! Con questo le faccende ufficiali erano terminate. Si passava al gioco quotidiano: il tennis. Uno disse con dignità: — Fante, andate nel magazzeno e portateci le palle e le racchette . E Nemeciech corse al magazzino. Il magazzino era sotto una catasta di legname. Scivolò sotto e ricomparve con le palle e le racchette. Accanto alla catasta c'era lo slovacco ed accanto allo slovacco Chende e Colnai. 4 Chende aveva in mano il cappello dello slovacco: Colnai vi fece la prova dell'untume. Il cappello dello slovacco era senza dubbio il più unto di tutti. Boka si accostò a Ghereb: — Hai avuto tre voti anche tu! — gli disse. — Sì — rispose fiero Ghereb e lo fissò orgogliosamente negli occhi.

Lo stralisco

208400
Piumini, Roberto 1 occorrenze
  • 1995
  • Einaudi
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
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Non soltanto la vallata dove vivevano Insubat e Mutkul, e le pendici su cui il cane zoppo correva abbaiando dietro le capre: ma molte altre valli e cime, capanne e recinti, stambecchi visibili e serpenti invisibili, strapiombi e laghetti con le salamandre. Tutto lentamente nasceva, fatto di quello che Madurer e Sakumat sapevano e immaginavano e desideravano, abbozzando, cambiando, disegnando, colorando. Il movimento della mano di Sakumat era pacato: sapeva attendere che attraverso la parola, le risate e i ricordi, il segno fosse insieme concordato. Scomparve il bianco della prima parete, e al suo posto ci fu una parte montagnosa del mondo, uno spazio ben distribuito tra il vicino e l'infinito, tra il basso e l'altissimo. Ogni colpo di pennello aveva creato una dimensione, una direzione e una verità. La pittura non si fermò. Scivolando sulla curva che raccordava le pareti, le montagne continuavano, mutando tessitura e tinta, abbassandosi in colline brune, spoglie di boschi e ricche di pietraie. Una zona pianeggiante fu poi distesa, con casupole sparse e lontani villaggi dai muri bianchi, molto simili a quelli di Nactumal. In primo piano, anzi in secondo, giacché in primo piano vi era una sensazione luminosa di aria, una trasparenza adatta a guardare, un carro di nomadi con la tenda azzurra attraversava un ponticello di legno su un torrente. Era una illustrazione trovata da Madurer su uno dei suoi libri, e cosí amata e guardata che Sakumat l'aveva rifatta sulla parete. Ma dietro, sul piccolo cavallo pelo-di-pepe che trottava legato al carro, avevano aggiunto una bambina col fazzoletto rosso in testa, che si chiamava Talya. — Dove va il carro, Madurer? — Va molto molto lontano, Sakumat. — Sí, ma è diretto verso le colline, laggiú, o dall'altra parte? — Perché lo chiedi? — Vedi, qui, dopo la curva, la strada non è ancora disegnata. Possiamo farla proseguire verso le colline, cosí, con un largo giro, fino a quel villaggio; oppure possiamo farla andare a destra, verso la nuova parete. — Cosa ci sarà sulla nuova parete, Sakumat? — Continuerà il mondo. Non avevamo pensato di metterci una pianura? Terra e terra fino all'orizzonte. — Sí. Fa' la strada che va verso la pianura, — disse il bambino, — il carro di Talya va laggiú. Quando arriverà laggiú, Talya scenderà dal cavalluccio e raccoglierà fiori... Però, per favore, fai anche una strada che va verso il villaggio. Il carro prenderà l'altra, ma perché lo vuole, non perché c'è una sola strada. — Certo, Madurer. Non c'è una sola strada, al mondo. La terza parete, e anche la quarta, diventarono una pianura. Ci vollero due pareti perché era una pianura molto grande e conteneva moltissime cose: due villaggi, uno vicino e uno lontano, campi di grano e tabacco, mulini a vento simili a quelli della lontanissima Olanda. Era proprio verso i mulini che viaggiava il carro di Talya, su una strada che tagliava campi e villaggi, costeggiava un fiume verde: finché, ormai nella quarta parete, a sinistra dell'ingresso da cui la pittura era partita, arrivava ad una città assediata. Coloratissimi accampamenti di soldati circondavano le mura giallastre della città fortificata, batterie di panciuti cannoni sparavano palle e drappelli di cavalieri sollevavano polvere in carosello attorno alle mura. C'erano anche una catapulta e una torre di legno da cui gli arcieri scagliavano frecce contro i difensori della città. Ma gli assediati si difendevano bene, e si vedeva che avrebbero potuto resistere ancora per molto tempo. Sulla cima delle muraglie, incuranti di frecce e proiettili, donne belle ed eleganti osservavano l'accampamento avversario come una festa di parata. E, a ben osservare, che altro facevano i cavalieri assedianti, se non delle manovre per farsi ammirare dalle donnine di lassú? Che senso aveva il loro trotto, sotto le inespugnabili mura della città? Pensavano forse di poter spiccare un salto, e portare l'attacco all'interno? Ma le mura erano cosí alte e munite che i poveri fanti, piú in là, cadevano a grappoli dal tentativo di scalarle, e finivano come oche e porci nel fossato. Sakumat impiegò tre mesi a dipingere l'assedio. Era una scena molto complicata, e ogni giorno si aggiungevano personaggi, vicende, storie da raccontare. Poi, con l'aggiunta di un piccolissimo principe assediante che spediva con un piccione un messaggio ad una principessa assediata, quella parte dell'opera fu compiuta. Sarebbe riuscito, il piccione messaggero, a volare illeso nel cielo turbinoso della battaglia? Molte frecce, in basso e in alto, erano puntate nella sua direzione; molti proiettili percorrevano la loro rotta invincibile, senza badare al bianco delle sue penne... Sakumat e Madurer sapevano che i soldati, guerreggiando, spesso si annoiano: e preferiscono mirare a un uccello, che cade senza un grido, piuttosto che tra corazza e corazza dei nemici, con il rischio di colpirli, e sentirli gridare e vederne sgorgare sangue come da una brocca rotta... Tuttavia, per ora, il piccione era là, puro e chiaro nei primi metri del volo: e da lassú, sporta da una feritoia come dalla speranza, la principessa lo guardava arrivare, e col suo sguardo lo proteggeva. Erano ormai trascorsi otto mesi dall'arrivo di Sakumat a Nactumal: ma la pittura, avvolgendosi all'angolo smussato della soglia, non si fermava. Come un orizzonte aperto, la pianura la trapassava verso la seconda stanza, allontanandosi da mulini e assedi, e innalzandosi in dolci ondulazioni nella forma di nuove colline. — Perché ancora colline, Sakumat? — diceva il bambino. — Non abbiamo deciso che in questa stanza comincia il mare? Sakumat non rispose, continuando rapido il disegno. Ma non passò molto che la linea morbida dei colli si interruppe, e un segno netto calò, disegnando una scarpata quasi verticale. Poi, tenendo leggermente il carboncino fra due dita, il pittore tracciò una linea sottile, continua, perfettamente orizzontale, per l'intera parete. — Ecco il mare, Madurer. Il bambino seguiva con lo sguardo la nascita dell'orizzonte. — Non ti fermare, per favore, — disse. Sakumat aveva ormai superato l'angolo tra le pareti. — Ancora? — chiese senza voltarsi. — Sí, ancora! Per tutta la parete, e anche l'altra... per favore! — disse Madurer. — Facciamo tutto il mare, in questa stanza! Sakumat non si fermò. Lentamente, con sicurezza, tracciò la linea orizzontale tutto intorno interrompendola all'ingresso della terza stanza e riprendendola dall'altra parte, fino a tornare alla porta tra la prima stanza e la seconda. — Ecco, è tutto il mare, — disse. Madurer, in piedi al centro della stanza, girava lentamente su se stesso, guardando intensamente la linea leggera che divideva lo spazio bianco della parete. Girò piú volte, rosso in faccia, con gli occhi lucidi e le mani che stringevano l'aria in strane contrazioni. — Sopra è il cielo, e sotto è il mare, — disse. All'improvviso, con uno dei suoi scatti leggeri, corse nella prima stanza e tirò una corda appesa vicino all'ingresso principale. Dopo un istante entrò la piú anziana delle servitrici. — Alika! Corri a chiamare mio padre! — disse il bambino. — Non stai bene, mio piccolo signore? — chiese la donna guardandolo in faccia. — Sto molto bene, Alika, — disse Madurer. — Voglio soltanto che venga mio padre, per mostrargli una cosa. Fai in fretta, per favore!

Pagina 27

Gambalesta

215910
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1947
  • Società Editrice Tirrena
  • Livorno
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Lampo, il cane, fiutava, frugava scodinzolando, abbaiando a scatti, quasi sottovoce, e il padrone spiava qua e là, col fucile in mano. Cuddu lo guardava, pronto a turarsi gli orecchi appena glielo avrebbe visto inarcare. Ed ecco Lampo che si agita, che si avventa addosso a una macchia e insiste; ed ecco compare Nunzio che con una mano accenna a Cuddu di fermarsi... Il colpo era partito prima ch'egli potesse turarsi gli orecchi; e il cacciatore, in due salti, aveva già raccolto la preda: un coniglio di pelo rosso, che dava gli ultimi tratti. - Prendi, mettilo nella rete della carniera. Cuddu non osava. Il povero animaletto che si dibatteva, insanguinato, nelle strette dell'agonia, lo aveva talmente impietosito da farlo impallidire e fargli venire le lacrime agli occhi. Sciocco!... Hai paura? Non si move più... Cristo! E compare Nunzio, buttato il coniglio per terra, accorreva verso il punto dove Lampo, col corpo mezzo ficcato nella densa macchia che copriva la costa, abbaiava. Tenendo inarcato il fucile, egli lo incitava con gridi gutturali, sporgendo la testa per guardare da tutti i lati onde il coniglio insidiato poteva sbucare, e Cuddu con l' indice delle mani si comprimeva gli orecchi per non udire il botto. - Ehi!... Lampo!... Addosso! Compare Nunzio era balzato sur un masso, col calcio del fucile accostato alla gota, pronto a sparare. Lampo investiva la macchia saltando ora da una parte, ora dall'altra, abbaiando, ringhiando... Bum! A Cuddu parve di sentirsi la fiammata su la testa e si buttò per terra. - Mamma mia! - Grullo! - gli gridò compare Nunzio. - Qua, Lampo! E Lampo accorreva col coniglio tra i denti, altero della preda, sbalzando sulle quattro zampe, scherzando col padrone col far le viste di non volergliela cedere. - Ah! Sei tu! - esclamò compare Nunzio riconoscendo il coniglio, da esperto cacciatore. - Oggi però non sei riuscito a farmela!... Senti come pesa! Cuddu sorrise mentre compare Nunzio, ficcando il coniglio nella rete della carniera, gli diceva: - Giacché non vuoi fare il sarto, impara questo mestiere. Più in su, la vallata si allargava ancora, e l'inoltrarsi diveniva difficile, tanto le macchie, gli arbusti e le erbe ingombravano il terreno. Di lassù Cuddu vedeva la mandra e le vampe e il fumo della legna sotto la caldaia di rame dove il pecoraio faceva bollire il latte. - Dopo, andremo a mangiare la zuppa col siero. Gireremo da quella parte. Sei stanco? - No! - rispose Cuddu, che però si sentiva un po' indolenzite le spalle dal peso della carniera e della gabbiola del furetto. Lampo si era allontanato: fiutava, frugava e

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