Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbaiando

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Piccolo mondo antico

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Fogazzaro, Antonio 2 occorrenze

La marchesa si alzò e il cane accovacciato sul seggiolone si levò pure, abbaiando verso il Gilardoni. "Non mi parli", disse solennemente la vecchia signora, "di quella persona che per me non esiste più. Andiamo, Friend." "No, signora marchesa!", ripigliò il professore. "Ella non può assolutamente immaginare cosa Le dirò!" "Non m'importa di niente, non voglio saper niente, La riverisco!" La inflessibile dama si mosse, così dicendo, verso l'uscio. "Marchesa!", esclamò alle sue spalle il professor Beniamino, mentre Friend, saltato dal seggiolone, gli abbaiava disperatamente alle gambe: "Si tratta del testamento di Suo marito!" Stavolta la marchesa non poté a meno di fermarsi. Tuttavia non si voltò. "Questo testamento non Le può piacere", soggiunse rapidamente il Gilardoni, "ma io non ho l'intenzione di pubblicarlo. Mi ascolti, La supplico, marchesa!" Ella si voltò. La faccia impenetrabile tradiva una certa emozione nelle narici. Neppure le spalle eran del tutto tranquille. "Che storie mi conta?", rispose. "Le pare una bella convenienza di venire a nominarmi, così senza riguardi, il povero Franco? Cosa c'entra Lei negli affari della mia famiglia?" "Perdoni", replicò il professore frugandosi in tasca. "Se non c'entro io, ci potrebbero entrare altri con meno riguardi di me. Abbia la bontà di vedere i documenti. Queste ..." "Si tenga i suoi scartafacci", interruppe la marchesa vedendogli levar di tasca delle carte. "Queste sono le copie fatte da me ..." "Le dico che se le tenga, che se le porti via!" La marchesa suonò un campanello e si avviò da capo per uscire. Il professore, tutto fremente, udendo venir un domestico, vedendo lei aprir l'uscio, gittò le sue carte sopra una seggiola, disse sottovoce in fretta e furia: "Le lascio qui, non le veda nessuno, io sono al Sole, ritornerò domani, le guardi, ci pensi bene!", e prima che arrivasse il domestico, scappò per la parte ond'era venuto, tolse il ferraiuolo, infilò le scale. La marchesa rimandò il domestico, stette un poco in ascolto, poi ritornò sui suoi passi, prese le carte, andò a chiudersi nella sua stanza e, inforcati gli occhiali, incominciò a leggere presso la finestra. La faccia era oscura e le mani tremavano. Il professore stava per andare a letto nella sua camera gelata del Sole, quando due poliziotti vennero a recargli l'ordine di recarsi immediatamente all'ufficio di Polizia. Egli sentì bene un certo rimescolamento interno ma non si smarrì e partì con essi. Alla Polizia, un piccolo Commissario insolente gli domandò perché fosse venuto a Lodi e avutone risposta che c'era venuto per affari privati, fece un atto d'incredulità sprezzante. Che affari privati pretendeva avere a Lodi il signor Gilardoni? Con chi? Il professore nominò la marchesa. "Ma se nessuna Maironi sta a Lodi!", esclamò il Commissario, e perché l'altro protestava, lo interruppe subito: "Basta, basta , basta!". La Polizia sapeva di certo che il signor Gilardoni, quantunque I. R. pensionato, non era un leale austriaco, che aveva degli amici a Lugano e ch'era venuto a Lodi con un fine politico. "Lei ne sa più di me!", esclamò il Gilardoni soffocando a stento la collera. "Faccia silenzio!", gl'intimò il Commissario. "Del resto Ella non deve credere che l' I. R. Governo abbia paura di Lei. È libero di andare. Solamente deve lasciar Lodi entro due ore!" Qui Franco avrebbe capito subito di dove veniva il colpo; il filosofo non capì. "Son venuto", diss'egli, "a Lodi per un affare urgente che non ho finito, per un interesse privato gravissimo. Come posso partire dentro due ore?" "Con una vettura. Se, trascorse due ore, Ella è ancora in Lodi, La faccio arrestare." "La mia salute", replicò la vittima, "non mi permette di viaggiare di notte in dicembre." "Ebbene, La farò arrestare subito." Il povero filosofo prese in silenzio il suo cappello e uscì. Un'ora dopo egli partiva per Milano in un calessino chiuso, con i piedi nella paglia, con una coperta sulle gambe, con una gran sciarpa al collo, pensando che aveva pur fatto una bella spedizione e inghiottendo saliva ogni momento per sentir se gli doleva la gola. Notte infame davvero; ma non la passò sulle rose neppur la signora Marchesa.

Un brutto cagnolino smilzo trottò abbaiando incontro alla signora Barborin che cercava di sorridere mentre Pasotti metteva la sua faccia più ossequiosa e il curato, entrando ultimo con un faccione dolce dolce, mandava in cuor suo all'inferno la maledetta bestia. "Friend! Qua! Friend! ", disse placidamente la vecchia marchesa. "Cara signora, caro Controllore, curato." La grossa voce nasale parlava con la stessa flemma, con lo stesso tono agli ospiti e al cane. S'era alzata per la signora Barborin ma senza fare un passo dal canapè, e stava lì in piedi, una tozza figura dagli occhi spenti e tardi sotto la fronte marmorea e la parrucca nera che le si arrotondava in due grossi lumaconi sulle tempie. Il viso doveva essere stato bello un tempo e serbava, nel suo pallore giallastro di marmo antico, certa maestà fredda che non mutava mai, come lo sguardo come la voce, per qualsiasi moto dell'animo. Il curatone le fece due o tre inchini a scatto, stando alla larga, ma Pasotti le baciò la mano, e la signora Barborin, sentendosi gelare sotto quello sguardo morto, non sapeva come muoversi né che dire. Un'altra signora si era alzata dal canapè all'alzarsi della marchesa e stava guardando con sussiego la Pasotti, quel povero mucchietto di roba vecchia rinfagottato di roba nuova. "La signora Pasotti e suo marito", disse la marchesa. "Donna Eugenia Carabelli." Donna Eugenia piegò appena il capo. Sua figlia, donna Carolina, stava in piedi presso la finestra discorrendo con una favorita della marchesa, nipote del suo fattore. La marchesa non stimò necessario d'incomodarla per presentarle i nuovi venuti e, fattili sedere, riprese una pacata conversazione con donna Eugenia sulle loro comuni conoscenze milanesi, mentre Friend faceva, fiutando e starnutendo, il giro dello scialle canforato della Pasotti, si strofinava sui polpacci del curato e guardava Pasotti con i suoi occhietti umidi e afflitti, senza toccarlo, come se intendesse che il padrone dello scialle indiano, malgrado la sua faccia amabile, gli avrebbe torto il collo volentieri. La marchesa Orsola teneva in moto la sua solita grossa voce sonnolenta e la Carabelli si studiava, rispondendo, di rendere amabile la sua grossa voce imperiosa, ma non sfuggì agli occhi penetranti e al maligno ingegno di Pasotti che le due vecchie dame dissimulavano, la Maironi più e la Carabelli meno, un comune malcontento. Ciascuna volta che l'uscio si apriva, gli occhi spenti dell'uno e gli occhi foschi dell'altra si volgevano là. Una volta entrò il prefetto del Santuario della Caravina col piccolo signor Paolo Sala detto "el Paolin" e col grosso signor Paolo Pozzi detto "el Paolon", compagni indivisibili. Un'altra volta entrò il marchese Bianchi, di Oria, antico ufficiale del regno d'Italia, con la sua figliuola, una nobile figura di vecchio cavalleresco soldato accanto a una seducente figura di fanciulla briosa. Sì la prima che la seconda volta un'ombra di corruccio passò sul viso della Carabelli. Anche la figlia di costei girava pronta gli occhi all'uscio, quando si apriva, ma poi chiacchierava e rideva più di prima. "E don Franco, marchesa? Come sta don Franco?", disse il maligno Pasotti, con voce melliflua, porgendo alla marchesa la tabacchiera aperta. "Grazie tante", rispose la marchesa piegandosi un poco e ficcando due grosse dita nel tabacco: "Franco? a dirle la verità sono un poco in angustia. Stamattina non si sentiva bene e adesso non lo vedo. Non vorrei ..." "Don Franco?", disse il marchese. "È in barca. L'abbiamo visto un momento fa che remava come un barcaiuolo." Donna Eugenia spiegò il ventaglio. "Bravo!", diss'ella facendosi vento in fretta e in furia. "È un bellissimo divertimento." Chiuse il ventaglio d'un colpo e si mise a mordicchiarlo con le labbra. "Avrà avuto bisogno di prender aria", osservò la marchesa nel suo naso imperturbabile. "Avrà avuto bisogno di prender acqua", mormorò il prefetto della Caravina con gli occhi scintillanti di malizia. "Piove!" "Don Franco viene adesso, signora marchesa", disse la nipote del fattore dopo aver dato un'occhiata al lago. "Va bene", rispose il naso sonnacchioso. "Spero che stia meglio, altrimenti non dirà due parole. Un ragazzo sanissimo ma apprensivo. Senta, Controllore; e il signor Giacomo? Perché non si vede?" "El sior Zacomo", incominciò Pasotti canzonando il signor Giacomo Puttini, un vecchio celibatario veneto che dimorava da trent'anni in Albogasio Superiore, presso la villa Pasotti. "El sior Zacomo ..." "Adagio", lo interruppe la dama. "Non le permetto di burlarsi dei veneti, e poi non è vero che nel Veneto si dica Zacomo." Ella era nata a Padova, e benché abitasse a Brescia da quasi mezzo secolo, il suo dire lombardo era ancora infetto da certe croniche patavinità. Mentre Pasotti protestava, con cerimonioso orrore, di aver solamente inteso imitar la voce dell'ottimo suo vicino ed amico, l'uscio si aperse una terza volta. Donna Eugenia, sapendo bene chi entrava, non degnò voltarsi a guardare, ma gli occhi spenti della marchesa si posarono con tutta flemma su don Franco. Don Franco, unico erede del nome Maironi, era figlio di un figlio della marchesa, morto a ventott'anni. Aveva perduto la madre nascendo ed era sempre vissuto nella potestà della nonna Maironi. Alto e smilzo, portava una zazzera di capelli fulvi, irti, che l'aveva fatto soprannominare el scovin d'i nivol lo scopanuvoli. Aveva occhi parlanti, d'un ceruleo chiarissimo, una scarna faccia simpatica, mobile, pronta a colorarsi e a scolorarsi. Quella faccia accigliata diceva ora molto chiaramente: "Son qui, ma mi seccate assai". "Come stai, Franco?", gli chiese la nonna, e soggiunse tosto senz'aspettare risposta: "Guarda che donna Carolina desidera udire quel pezzo di Kalkbrenner." "Oh no, sa", disse la signorina volgendosi al giovine con aria svogliata. "L'ho detto, sì, ma poi non mi piace, Kalkbrenner. Preferisco chiacchierare con le signorine." Franco parve soddisfatto dell'accoglienza ricevuta e andò senza aspettar altro a discorrere col curatone d'un buon quadro antico che dovevano vedere insieme nella chiesa di Dasio. Donna Eugenia Carabelli fremeva. Ell'era venuta con la figliuola da Loveno dopo un'arcana azione diplomatica cui avevano preso parte altre potenze. Se questa visita si dovesse fare o no, se il decoro della famiglia Carabelli lo permettesse, se vi fosse quella probabilità di successo che donna Eugenia richiedeva, erano state le ultime questioni definite dalla diplomazia; perché malgrado la vecchia relazione della mamma Carabelli e della nonna Maironi i giovani non s'erano veduti che un paio di volte alla sfuggita ed erano i loro involucri di ricchezza e di nobiltà, di parentele e di amicizie, che si attraevano come si attraggono una goccia d'acqua marina e una goccia d'acqua dolce, benché le creature minuscole che vivono nell'una e nell'altra sieno condannate, se le due gocce si uniscono, a morirne. La marchesa aveva vinto il suo punto, apparentemente in grazia dell'età, sostanzialmente in grazia dei denari, era stato accettato che l'intervista seguisse a Cressogno, perché se Franco non aveva di proprio che la magra dote della madre, diciotto o ventimila lire austriache, la nonna sedeva, con quella sua flemmatica dignità, su qualche milione. Ora donna Eugenia, vedendo il contegno del giovine, fremeva contro la marchesa, contro chi aveva esposto lei e la sua ragazza a una umiliazione simile. Se avesse potuto soffiar via d'un colpo la vecchia, suo nipote, la casa tetra e la compagnia uggiosa, lo avrebbe fatto con gioia; ma conveniva dissimulare, parer indifferente, inghiottir lo smacco e il pranzo. La marchesa serbava la sua esterna placidità marmorea benché avesse il cuore pieno di dispetto e di maltalento contro suo nipote. Egli aveva osato chiederle, due anni prima, il permesso di sposare una signorina della Valsolda, civile, ma non ricca né nobile. Il reciso rifiuto della nonna aveva reso impossibile il matrimonio e persuasa la madre della ragazza a non più ricevere in casa don Franco; ma la marchesa tenne per fermo che quella gente non avesse levato l'occhio da' suoi milioni. Era quindi venuta nel proposito di dar moglie a Franco assai presto per toglierlo dal pericolo; e aveva cercato una ragazza ricca ma non troppo, nobile ma non troppo, intelligente ma non troppo. Trovatane una di questo stampo, la propose a Franco che si sdegnò fieramente e protestò di non voler prender moglie. La risposta era ben sospetta ed ella vigilò allora più che mai sui passi del nipote e di quella "madama Trappola", poiché chiamava graziosamente così la signorina Luisa Rigey. La famiglia Rigey, composta di due sole signore, Luisa e sua madre, abitava in Valsolda, a Castello: non era difficile sorvegliarla. Pure la marchesa non poté venir a capo di nulla. Ma Pasotti le riferì una sera con molta ipocrisia d'esitazioni e d'inorriditi commenti che il prefetto della Caravina, stando a crocchio nella farmacia di S. Mamette con lui Pasotti, col signor Giacomo Puttini, col Paolin e col Paolon, aveva tenuto questo bel discorso: "Don Franco fa il morto da burla fino a che la vecchia lo farà sul serio". Udita questa fine arguzia, la marchesa rispose nel suo pacifico naso "grazie tante" e cambiò discorso. Seppe quindi che la signora Rigey, sempre infermiccia, si trovava a mal partito per una ipertrofia di cuore e le parve che l'umore di Franco se ne risentisse. Proprio allora le fu proposta la Carabelli. La Carabelli non era forse interamente di suo gusto, ma di fronte all'altro pericolo non c'era da esitare. Parlò a Franco. Stavolta Franco non si sdegnò , ascoltò distratto e disse che ci avrebbe pensato. Fu la sola ipocrisia, forse, della sua vita. La marchesa giuocò audacemente una carta grossa, fece venire la Carabelli. Ora lo vedeva bene, il giuoco era perduto. Don Franco non s'era trovato all'arrivo delle signore e aveva poi fatto una sola apparizione di pochi minuti. I suoi modi, durante quei pochi minuti, erano stati cortesi, ma la sua faccia no; la sua faccia aveva parlato, secondo il solito, talmente chiaro, che la marchesa, affibbiandogli, come subito fece, una indisposizione, non poté ingannar nessuno. Però la vecchia dama non si persuase d'aver giuocato male. Già dall'età dei primi giudizi in poi, ella si era messa al punto di non riconoscersi mai un solo difetto né un solo torto, di non ferirsi mai, volontariamente, nel suo nobile e prediletto sé. Ora le piacque si supporre che dopo il suo sermone matrimoniale al nipote, gli fosse pervenuta nel mistero una parolina di miele, di vischio e di veleno. Se il suo disinganno aveva qualche lieve conforto era nel contegno della signorina Carabelli che mal celava la vivacità del proprio risentimento. ciò non piaceva alla marchesa. Il prefetto della Caravina non aveva torto se non forse un poco nella forma quando diceva sottovoce di lei: "L'è on' Aüstria p ...". Come la vecchia Austria di quel tempo, la vecchia marchesa non amava nel suo impero gli spiriti vivaci. La sua volontà di ferro non ne tollerava altre vicino a sé. Le era già di troppo un indocile Lombardo-Veneto come il signor Franco, e la ragazza Carabelli, che aveva l'aria di sentire e volere per conto proprio, sarebbe probabilmente riuscita in casa Maironi una suddita incomoda, una torbida Ungheria. Si annunciò il pranzo. Nella faccia rasa e nell'abito grigio, mal tagliato, del domestico si riflettevano le idee aristocratiche della marchesa, temperate di abitudini econome. "E questo signor Giacomo, Controllore?", disse ella, senza muoversi. "Temo, marchesa", rispose Pasotti. "L'ho incontrato stamattina e gli ho detto: "Dunque, signor Giacomo, ci vediamo a pranzo?". È parso che gli mettessi una biscia in corpo. Ha cominciato a contorcersi e a soffiare: "Sì, credo, no so, forse, no digo, apff, ecco, propramente, Controllore gentilissimo, no so, insomma, e apff!". Non ne ho cavato altro." La marchesa chiamò a sé il domestico e gli disse qualche cosa sottovoce. Quegli fece un inchino e si ritirò. Il curato di Puria si dondolava in su e in giù accarezzandosi le ginocchia nel desiderio del risotto; ma la marchesa pareva petrificata sul canapè e perciò si petrificò anche lui. Gli altri si guardavano, muti. La povera signora Barborin, avendo visto il domestico, meravigliata di quella immobilità, di quelle facce sbalordite, inarcò le sopracciglia, interrogò con gli occhi ora suo marito, ora il Puria, ora il prefetto, sino a che una fulminea occhiata di Pasotti petrificò lei pure. "Se fosse bruciato il pranzo!", pensava componendosi un viso indifferente. "Se ci mandassero a casa! Che fortuna!". Dopo due minuti il domestico ritornò e fece un inchino. "Andiamo", disse la marchesa, alzandosi. La comitiva trovò in sala da pranzo un personaggio nuovo, un vecchietto piccolo, curvo, con due occhietti buoni e un lungo naso spiovente sul mento. "Veramente, signora marchesa", disse costui tutto timido e umile, "io avrei già pranzato." "Si accomodi, signor Viscontini", rispose la marchesa che sapeva praticare l'arte insolente della sordità come tutti coloro che assolutamente vogliono un mondo secondo il proprio comodo e il proprio gusto. L'ometto non osò replicare, ma neanche osava sedere. "Coraggio, signor Viscontini!", gli disse il Paolin che gli era vicino. "Cosa fa?" "Fa il quattordici di coppe", mormorò il prefetto. Infatti l'ottimo signor Viscontini, accordatore di pianoforti, venuto la mattina da Lugano per accordare il piano dei signori Zelbi di Cima e quello di don Franco, aveva pranzato al tocco a casa Zelbi, era quindi venuto a casa Maironi, e ora gli toccava di sostituire il signor Giacomo perché altrimenti i commensali sarebbero stati tredici. Un liquido bruno fumava nella zuppiera d'argento. "Risotto no", sussurrò Pasotti al Puria passandogli dietro. Il faccione dolce non diede segno di avere udito. I pranzi di casa Maironi erano sempre lugubri e questo accennava ad esserlo anche più del solito. Per compenso era pure molto più fino. Pasotti e il Puria si guardavano spesso, mangiando, per esprimere ammirazione e quasi per congratularsi a vicenda del godimento squisito, e se mai qualche occhiata di Pasotti sfuggiva al Puria, la signora Barborin, vicina di quest'ultimo, lo avvertiva con un timido tocco del gomito. Le voci che più si udivano erano quelle del marchese e di donna Eugenia. Il grande naso aristocratico del Bianchi, il suo fine sorriso di galante cavaliere si volgevano spesso alla bellezza, languente ma non ancora spenta, della dama. Milanesi ambedue del miglior sangue, si sentivano uniti in una certa superiorità non solamente rispetto ai piccoli borghesi della mensa, ma rispetto altresì ai padroni di casa, nobili provinciali. Il marchese era l'affabilità stessa e avrebbe conversato amabilmente anche col commensale più modesto; ma donna Eugenia, nell'amarezza dell'animo suo, nel suo disgusto del luogo e delle persone, s'attaccò a lui come al solo degno, marcatamente anche per far dispetto agli altri. Ella lo imbarazzò dicendogli forte che non capiva com'egli potesse essersi innamorato dell'orrida Valsolda. Il marchese, che vi si era ritirato da molti anni a vita quieta e vi aveva veduto nascere la sua unica figliuola, donna Ester, rimase sulle prime un poco sconcertato da quel discorso insolente verso parecchi dei convitati, ma poi fece una briosa difesa del paese. La marchesa non mostrò turbarsi; il Paolino, il Paolon e il prefetto, valsoldesi, tacevano con tanto di muso. Pasotti recitò solennemente un ampolloso elogio del "Niscioree", la villa Bianchi, presso Oria. Il Bianchi, leale uomo, che in passato non aveva avuto troppo a lodarsi del Pasotti, non parve gradir l'elogio. Egli invitò la Carabelli al Niscioree. "A piedi no, tu, Eugenia", disse la marchesa, sapendo che l'amica sua era tribolata dallo spavento d'ingrassare. "Bisogna vedere com'è stretta la strada, dalla Ricevitoria al Niscioree! Tu non ci passi di sicuro." Donna Eugenia protestò con sdegno. "L'è minga el Cors de Porta Renza", disse il marchese, "ma l'è poeu nanca, disgraziatamente, le chemin du Paradis!" "Quell no! Propi no! Ghe l'assicuri mi!", esclamò il Viscontini riscaldato, per disgrazia, da troppi bicchieri di Ghemme. Tutti gli occhi si volsero a lui e il Paolino gli disse qualche cosa sottovoce. "Se son matto?", rispose l'ometto acceso in faccia. "Nient del tütt! Le dico che ona bolgira compagna non la mi è mai più toccata in vita mia." E qui raccontò che la mattina, venendo da Lugano e avendo preso un po' di freddo in barca, era disceso al Niscioree per proseguire il viaggio a piedi; che tra quei due muri, dove non si potrebbe voltare un asino, aveva incontrato le guardie di finanza, le quali lo avevano insultato perché non era disceso allo sbarco della Ricevitoria; che l'avevano condotto alla maledetta Ricevitoria; che portava in mano un rotolo di musica manoscritta e che l'animale del Ricevitore, pigliando le crome e le biscrome per corrispondenze politiche segrete, gliel'aveva trattenuto. Silenzio profondo. Dopo qualche momento la marchesa sentenziò che il signor Viscontini aveva torto marcio. Non doveva sbarcare al Niscioree, ciò era proibito. Quanto al signor Ricevitore egli era una persona rispettabilissima. Pasotti confermò, con una faccia severa. "Ottimo funzionario", diss'egli. "Ottima canaglia", mormorò il prefetto fra i denti. Franco, che sulle prime pareva pensare a tutt'altro, si scosse e lanciò a Pasotti un'occhiata sprezzante. "Dopo tutto", soggiunse la marchesa, "trovo che col pretesto della musica manoscritta si potrebbe benissimo ..." "Certo!", disse il Paolino, austriacante per paura, mentre la padrona di casa lo era per convinzione. Il marchese, che nel 1815 aveva spezzata la spada per non servire gli Austriaci, sorrise e disse solo: "Là! C'est un peu fort!" . "Ma se tutti sanno ch'è una bestia, quel Ricevitore!", esclamò Franco. "Scusi, don Franco ...", fece Pasotti. "Ma che scusi!", interruppe l'altro. "È un bestione!" "È un uomo coscienzioso", disse la marchesa, "un impiegato che fa il proprio dovere." "Allora le bestie saranno i suoi padroni!", ribatté Franco. "Caro Franco", replicò la voce flemmatica, "questi discorsi in casa mia non si fanno. Grazie a Dio non siamo mica in Piemonte, qui." Pasotti fece una sghignazzata d'approvazione. Allora Franco, preso furiosamente il proprio piatto a due mani lo spezzò d'un colpo sulla tavola. "Jesüsmaria!", esclamò il Viscontini, e il Paolon, interrotto nelle sue laboriose operazioni di mangiatore sdentato: "Euh!". "Sì, sì", disse Franco alzandosi con la faccia stravolta, "è meglio che me ne vada!" E uscì dal salotto. Subito donna Eugenia si sentì male, bisognò accompagnarla fuori. Tutte le signore, meno la Pasotti, le andaron dietro da una parte mentre il domestico entrava dall'altra portando un pasticcio di risotto. Il Puria guardò Pasotti con un riso trionfante, ma Pasotti finse di non avvedersene. Tutti erano in piedi. Il Viscontini, reo apparente, continuava a dire: "Mi capissi nagott, mi capissi nagott", e il Paolino, seccatissimo del pranzo guastato, gli brontolò: "Cossa l'ha mai de capì Lü?". Il marchese, molto scuro, taceva. Finalmente il Pasotti, reo di fatto, presa un'aria d'affettuosa tristezza, disse come tra sé: "Peccato! Povero don Franco! Un cuor d'oro, una buona testa, e un temperamento così! Proprio peccato!". "Ma!", fece il Paolino. E il Puria, tutto contrito: "Sono gran dispiaceri!". Aspetta e aspetta, le signore non ritornavano. Allora qualcuno cominciò a muoversi. Il Paolino e il Puria si accostarono lentamente, con le mani dietro la schiena, alla credenza, contemplarono il pasticcio di risotto. Il Puria chiamò dolcemente Pasotti, ma Pasotti non si mosse. "Volevo solo dirle", fece il curatone, coprendo il suo trionfo in modo da lasciarlo e non lasciarlo vedere, "che ci sono i tartufi bianchi." "Direi che qui non mancano neppure i tartufi neri", osservò il marchese pigiando un poco sulle due ultime parole.

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Aghur stava per svegliare Kammamuri onde lo surrogasse, quando Punthy s'alzò abbaiando. - To'! - esclamò l'indiano, sorpreso. - Cosa vuol dir ciò? Il cane abbaiava colla testa volta al fiume, segno evidente che colà succedeva qualche cosa. Contemporaneamente la tigre apparve sulla soglia della capanna, facendo udire un sordo miagolio. - Kammamuri! - chiamò Aghur, preparando le armi. Il maharatto, che dormiva con un sol occhio, lo raggiunse. - Cosa succede? - chiese egli. - I nostri animali hanno udito qualche cosa e sono inquieti. - Hai udito qualche rumore? - Assolutamente nulla. - Tieni il cane ed ascoltiamo. Aghur s'affrettò a ubbidire. D'improvviso verso il fiume s'udi a gridare: - Aiuto! Aiuto! ... Il cane si mise ad abbaiare furiosamente. - Aiuto! ... - ripeté la medesima voce. - Kammamuri! - esclamò Aghur. - Qualcuno si annega. - Certamente. - Non possiamo lasciarlo annegare. - Non sappiamo chi sia. - Non importa: alla riva! - Prepariamo le armi e stiamo attenti. Non si sa mai cosa può accadere. Tu, Darma, rimani qui e sbrana senza pietà quanti si presentano. La tigre certamente lo comprese, poiché si raccolse su se stessa, cogli occhi fiammeggianti, pronta a scagliarsi sul primo venuto. I due indiani si slanciarono verso la riva, preceduti da Punthy che continuava ad abbaiare furiosamente, e guardarono sul fiume che pareva nero come se fosse d'inchiostro. - Vedi nulla? - chiese Kammamuri ad Aghur, che si era curvato sulla corrente. - Sì, mi pare di scorgere laggiù qualche cosa che va alla deriva. - Un uomo forse? - Si direbbe più il tronco di un albero. - Olà! - gridò Kammamuri. - Chi chiama? - Salvatemi! - rispose una fioca voce. - È un naufrago, disse il maharatto. - Potete giungere alla riva? - chiese Aghur. Un gemito fu la risposta che ottenne. Non vi era da esitare, quel naufrago si trovava agli estremi e poteva da un momento all'altro annegarsi. I due indiani balzarono nel canotto e si diressero rapidamente verso di lui. Ben presto s'avvidero che l'oggetto nero che andava alla riva era il tronco di un albero, a cui era aggrappato un uomo. In pochi istanti lo raggiunsero allungando le mani al naufrago, che le afferrò colla forza della disperazione. - Salvatemi! ... - balbettò egli ancora una volta, lasciandosi deporre nel fondo del battello. I due indiani si curvarono su di lui osservandolo con curiosità. Era un uomo della loro razza, bengalese al tipo, di statura inferiore alla media, di colorito assai oscuro, estremamente magro ma coi muscoli assai pronunciati, indizio sicuro d'una forza non comune. Aveva la faccia qua e là contusa e la gialla tunica, strettamente chiusa al corpo, macchiata di sangue. - Sei ferito? - gli domandò Kammamuri. Quell'uomo lo fissò attentamente con due occhi che avevano strani riflessi. - Credo, - mormorò dipoi. - Hai la veste insanguinata. Lasciami vedere - Non è nulla, - diss'egli, mettendosi le mani sul petto, come se avesse paura di metterlo allo scoperto. - Ho battuto la testa su quel tronco d'albero e mi sanguinò il naso. - Da dove vieni? - Da Calcutta. - Ti chiami? - Manciadi. - Ma come ti trovi qui? Il bengalese tremò in tutte le membra, battendo i denti. - Chi abita questi luoghi? - chiese egli, con terrore. - Tremal-Naik, il cacciatore di serpenti, - rispose Kammamuri. Manciadi tornò a tremare. - Feroce uomo, - balbettò. Aghur ed il maharatto si guardarono l'un l'altro con sorpresa. - Tu sei pazzo, - disse Aghur. - Pazzo! ... Non sai tu che i suoi uomini mi diedero la caccia, come se fossi una tigre? - I suoi uomini ti diedero la caccia! Ma siamo noi i suoi compagni. Il bengalese si raddrizzò, guardandoli con ispavento. - Voi! ... Voi! ... - ripeté. - Sono perduto! S'aggrappò all'orlo del canotto colla evidente intenzione di lanciarsi nel fiume, ma Kammamuri l'afferrò a mezzo corpo obbligandolo a sedersi. - Spiegami la causa di questo spavento, - gli disse con accento minaccioso. - Noi non facciamo male ad alcuno, ma ti avverto che se tu non parli chiaro ti spacco il cranio col calcio della mia carabina. - Volete assassinarmi! - piagnucolò Manciadi. - Sì, se non ti spieghi. Cosa sei venuto a far qui? - Sono un povero indiano e campo la vita cacciando. Un capitano dei sipai mi promise cento rupie per una pelle di tigre, e qui venni sperando di soddisfarlo. - Tira avanti. - Ieri sera approdai alla riva opposta del Mangal, e mi appiattai nella jungla, due ore dopo mi si slanciarono addosso alcuni uomini e mi sentii stringere il collo da un laccio ... - Ah! - esclamarono i due indiani. - Un laccio, hai detto? - Sì - confermò il bengalese. - Gii hai veduti quegli uomini? - chiese Aghur. - Sì, come vedo voi. - Cosa avevano sul petto? - Mi pare d'aver visto un tatuaggio. - Erano quelli di Raimangal, - disse Kammamuri. - Continua. - Impugnai il mio coltello, - proseguì Manciadi, che fremeva ancora per lo spavento, - e tagliai la corda. Corsi a lungo inseguito dappresso e giunto al fiume mi vi gettai dentro a capofitto. - Sappiamo il resto, - disse il maharatto. - Tu adunque sei cacciatore. - Sì, e valente. - Vuoi venire con noi? - Un lampo strano brillò negli occhi del bengalese. - Non domando di meglio, - s'affrettò a dire. - Sono solo al mondo. - Sta bene, noi ti adottiamo. Domani mattina ti presenterò al padrone. I due indiani rituffarono i remi nel fiume e ricondussero il canotto nel piccolo seno. Appena sbarcarono, Punthy si slanciò contro il bengalese, abbaiando rabbiosamente e mostrandogli i denti. - Zitto, Punthy, - disse Kammamuri, trattenendolo.- È uno dei nostri. Il cane, anziché obbedire, si mise a ringhiare minacciosamente. - Questa bestia mi pare che non sia troppo cortese, - disse Manciadi, sforzandosi a sorridere. - Non aver paura, ti diventerà amico, - disse il maharatto. Legato il canotto, raggiunsero la capanna dinanzi alla quale vegliava la tigre. Cosa strana, anche questa si mise a brontolare in modo tutt'altro che amichevole, guardando di traverso il nuovo arrivato. - Oh! - esclamò egli spaventato. - Una tigre! - È addomesticata. Fermati qui che vado dal padrone. - Dal padrone! È qui forse? - chiese il bengalese attonito. - Sicuro. - Ancora vivo! ... - To'! - esclamò il maharatto sorpreso. - Perché tale domanda? Il bengalese trasalì e parve confuso. - Come sai tu che è ferito, per farmi tale domanda? - replicò Kammamuri. - Non m'hai detto tu che era stato ferito? - Io! ... - Mi sembra. - Non mi rammento. - Eppure non posso averlo udito dire che da te o dal tuo compagno. - Così deve essere. Kammamuri ed Aghur rientrarono nella capanna. Tremal-Naik dormiva profondamente e sognava, poiché delle parole tronche uscivano dalle sue labbra. - Non vale la pena di svegliarlo, - borbottò Kammamuri, volgendosi ad Aghur. - Lo presenteremo domani, disse quest'ultimo. - Cosa ti sembra di quel Manciadi? - Ha l'aspetto d'un buon uomo e ho tutte le ragioni per credere che ci aiuterà validamente. - Lo credo anch'io. - Lo faremo vegliare lui fino a domani. Aghur prese una terrina di cangi, densa decozione di riso, e la recò a Manciadi il quale si mise a mangiare con una voracità da lupo. Raccomandatogli di fare buona guardia e di dare l'allerta se scorgesse qualche pericolo, s'affrettò a rientrare, chiudendo, per precauzione, la porta. Era appena scomparso che Manciadi s'alzò con una sveltezza sorprendente. I suoi occhi s'erano d'un subito accesi e sulle sue labbra errava un satanico sorriso. - Ah! Ah! - esclamò egli, sogghignando. S'accostò alla capanna e vi appoggiò l'orecchio, ascoltando con profondo raccoglimento. Stette così un lungo quarto d'ora, poi partì colla rapidità di una freccia arrestandosi mezzo miglio più lontano. Accostò le dita alle labbra ed emise un acuto fischio. Tosto al sud un punto rossastro si alzò fendendo le tenebre e scoppiò spandendo una luce vivida che subito si spense con una sorda detonazione. Altre due volte il fischio risuonò, poi nella jungla tutto tornò silenzio e mistero.

I botolini, liberati dal guinzaglio, si slanciarono animosamente in mezzo ai bambù, dietro le traccie della tigre, abbaiando con furore. Bhagavadi, dopo di aver fiutato colla proboscide tre o quattro volte l'aria a diverse altezze, s'addentrò nella jungla, sfondando col suo petto la massa di verzura. - Sta' bene attento Bhârata, - disse Macpherson. - Avete scorto qualche cosa, capitano? - chiese il sergente. - No, ma la tigre può essere tornata sui propri passi ed essersi imboscata fra i bambù. Tu sai che quegli animali sono astuti, e che non temono di assalire l'elefante. - In tal caso avrà da fare con Bhagavadi. Non è la prima tigre che egli calpesta sotto le sue zampaccie o che scaglia in aria a fracassarsi le membra contro qualche albero. L'avete veduto voi, l'animale? - Sì, e posso dirti che era proprio gigantesco. Non mi ricordo d'aver visto una tigre così grossa né così agile; faceva balzi di dieci metri. - Oh! - esclamò l'indiano. - Con un salto arriverà fino all'hauda. - Se la lascieremo avvicinare. - Tacete, capitano. In lontananza s'udirono i cani ad abbaiare furiosamente e qualche guaito lamentevole. Bhârata si sentì correre un brivido per le ossa. - I cani l'hanno scoperta, diss'egli. - E qualcuno è stato sventrato, - aggiunse il sipai che aveva preso le carabine, pronto a passarle ai cacciatori. Uno stormo di pavoni s'alzò a circa cinquecento metri e volò via mandando grida di terrore. - Uszaka? - gridò il capitano, facendo una specie di portavoce colle mani. - Attenzione, capitano! - rispose il capo dei battitori. - La tigre è alle prese coi cani. - Fa' suonare la ritirata. Uszaka accostò al naso il bansy, sorta di flauto, e soffiò con forza emettendo una nota acuta. Tosto si videro i sipai tornare precipitosamente e correre a rifugiarsi dietro all'elefante. - Animo, - disse il capitano al mahut, - conduci l'elefante dove abbaiano i cani. E tu, Bhârata, guarda bene alla tua sinistra mentre io guardo alla dritta. Può darsi che dobbiamo combattere più di un avversario. Gli abbaiamenti continuavano ognor più furiosi, segno infallibile che la tigre era stata scoperta. Bhagavadi affrettò il passo movendo intrepidamente verso una grande macchia di bambù tulda, in mezzo alla quale s'erano cacciati i botoli. A cento passi di distanza fu trovato uno dei cani orrendamente sventrato da un poderoso colpo d'artiglio. L'elefante cominciò a dare segni d'inquietudine, agitando vivamente la proboscide dall'alto in basso. - Bhagavadi la sente, - disse Macpherson. - Sta' bene attento mahut e bada che l'elefante non dia indietro o che esponga troppo la sua tromba. La tigre gliela sbranerà come l'anno scorso. - Rispondo di tutto, padrone. Fra i bambù s'alzò un formidabile ruggito a cui nessun grido è paragonabile. Bhagavadi s'arrestò fremendo ed emettendo sordi barriti. - Avanti! - gridò il capitano Macpherson, le cui dita si raggrinzavano sul grilletto della carabina. Il mahut lasciò andare un colpo di uncino sul pachiderma, il quale si mise a sbuffare in orribile modo, arrotolando la proboscide e presentando le due aguzze zanne. Fece ancora dieci o dodici passi poi tornò a fermarsi. Dai bambù si slanciò fuori, simile a un razzo, una gigantesca tigre emettendo un formidabile miagolìo. Il capitano Macpherson lasciò partire la scarica. - Tuoni e fulmini! - gridò irritato. La tigre era ricaduta fra i bambù prima di essere stata toccata. Si slanciò altre due volte nell'aria, facendo balzi di dodici metri e scomparve. Bhârata fece fuoco in mezzo al macchione, ma la palla andò a fracassare la testa di un botolino mezzo sbranato, che si trascinava penosamente fra le erbe. - Ma ha il diavolo in corpo quella tigre, - disse il capitano, assai di cattivo umore. - È la seconda volta che sfugge alle mie palle. Come va questa faccenda? Bhagavadi si rimise in marcia, con molta precauzione, facendosi prima largo colla proboscide, che si affrettava però a ritirare subito. Fece altri cento metri, preceduto dai cani che andavano e venivano cercando la pista del felino, poi fece alto piantandosi solidamente sulle gambe. Tornava a tremare ed a sbuffare fragorosamente. Davanti a lui, a meno di venti metri, stava un gruppo di canne da zucchero. Un buffo d'aria impregnata d'un forte odore di selvatico, giunse fino ai cacciatori. - Guarda! guarda! - gridò il capitano. La tigre s'era slanciata fuori dalle canne movendo con rapidità fulminea verso il pachidermo il quale s'era affrettato a presentare le zanne. Vi giunse quasi sotto, sfuggendo alle carabine dei cacciatori, si raccolse su se stessa e piombò in mezzo alla fronte dell'elefante cercando con un colpo d'artiglio d'afferrare il mahut, che s'era gettato all'indietro urlando di terrore. Già stava per raggiungerlo, quando in lontananza echeggiarono alcune note acute emesse da un ramsinga. Sia che si spaventasse o altro, la tigre fece un rapido voltafaccia e si precipitò giù, cercando di raggiungere la macchia. - Fuoco! - urlò il capitano Macpherson, scaricando la carabina. Il felino mandò un ruggito tremendo, cadde, si rialzò, varcò la macchia e ricadde dall'altra parte, rimanendo immobile come se fosse stato fulminato. - Hurrà! hurrà! - urlò Bhârata. - Bel colpo! - esclamò il capitano, deponendo l'arma ancor fumante.- Getta la scala. - Il mahut ubbidì. Il capitano Macpherson impugnato il coltellaccio giunse a terra e si diresse verso la macchia. La tigre giaceva inerte presso un cespuglio. Il capitano, con sua grande sorpresa, non iscorse su quel corpo alcuna ferita, né per terra macchie di sangue. Ben sapendo che le tigri talvolta si fingono morte per gettarsi di sorpresa sul cacciatore, stava per tornare indietro, ma gli mancò il tempo. Il misterioso suono del ramsinga tornò a echeggiare. La tigre a quella nota scattò in piedi, si scagliò sul capitano e lo atterrò. La sua enorme bocca, irta di denti, si spalancò sopra di lui pronta a stritolarlo. Il capitano Macpherson, inchiodato al suolo, in maniera da non potersi muovere, né servirsi del coltellaccio, emise un grido d'angoscia. - A me! ... Sono perduto. - Tenete fermo, ci sono! - urlò una voce tonante. Un indiano si gettò fuori della macchia, afferrò la tigre per la coda e con un violento strappone la scaraventò da una parte. S'udì un ruggito furioso. L'animale, pazzo di collera, s'era prontamente alzato per gettarsi sul nuovo nemico; ma, cosa strana, inaudita, appena che l'ebbe scorto fece un rapido voltafaccia e s'allontanò con fantastica rapidità, scomparendo fra l'inestricabile caos della jungla. Il capitano Macpherson, sano e salvo, s'era prontamente levato in piedi. Un profondo stupore si dipinse tosto sui suoi lineamenti. A cinque passi da lui stava un indiano di forme muscolose, grandemente sviluppate, con una testa superba, piantata su due larghe e robuste spalle. Un piccolo turbante ricamato in argento copriva il suo capo ed ai fianchi portava un sottanino di seta gialla, stretto da un bellissimo scialle di cachemire. Quell'uomo, che aveva intrepidamente affrontato la tigre non aveva alcuna arma. Colle braccia incrociate, lo sguardo sfavillante d'ardire, egli fissava con curiosità il capitano, conservando l'immobilità d'una statua di bronzo. - Se non m'inganno, ti devo la vita, - disse il capitano. - Forse, - rispose l'indiano. - Senza il tuo coraggio a quest'ora sarei morto. - Lo credo. - Dammi la mano; tu sei un prode. L'indiano strinse, con un tremito, la mano che Macpherson gli porgeva. - Posso io conoscere il tuo nome, o mio salvatore? - Saranguy, - rispose l'indiano. - Non lo scorderò mai. Fra loro due successe un breve silenzio. - Cosa posso fare per te? - ripigliò il capitano. - Nulla. Macpherson estrasse una borsa rigonfia di sterline e gliela porse. L'indiano la respinse con nobile gesto. - Non so che farne dell'oro, - dissegli. - Sei ricco tu? - Meno di quello che credete. Sono un cacciatore di tigri delle Sunderbunds. - Ma perché ti trovi qui? - La jungla nera non ha più tigri. Sono salito al nord a cercarne delle altre. - E dove vai ora? - Non lo so. Non ho patria, né famiglia; erro a capriccio. - Vuoi venire con me? Gli occhi dell'indiano mandarono un lampo. - Se avete bisogno d'un uomo forte e coraggioso, che non teme né le belve, né l'ira degli dei, sono vostro. - Vieni, o prode indiano, e non avrai a lagnarti di me. Il capitano girò sui talloni, ma s'arrestò subito. - Dove credi che sia fuggita la tigre? - Molto lontano. - Sarà possibile trovarla! - Non lo credo. Del resto m'incarico io d'ammazzarla, e fra non molto tempo. - Ritorniamo al bengalow. Bhârata, che aveva assistito con stupore a quella scena, li aspettava presso l'elefante. Egli si slanciò contro al capitano. - Sei ferito, padrone? - gli chiese, ansiosamente. - No, mio bravo sergente, - rispose Macpherson. - Ma se non giungeva questo indiano, non sarei ancora vivo. - Sei un grand'uomo, - disse Bhârata a Saranguy. Non ho mai veduto un simile colpo; tu tieni alta la fama della nostra razza. - Un sorriso fu l'unica risposta dell'indiano. I tre uomini salirono nell'hauda e in meno di mezz'ora raggiunsero il bengalow dinanzi al quale li aspettavano i sipai. La vista di quei soldati fece corrugare la fronte di Saranguy. Parve inquieto e represse con grande sforzo un gesto di dispetto. Per fortuna nessuno avvertì quel movimento che fu, del resto, rapido come un lampo. - Saranguy, - disse il capitano, nel momento che entrava con Bhârata, - se hai fame, fatti additare la cucina; se vuoi dormire, scegli quella stanza che meglio ti accomoda; e se vuoi cacciare, domanda quell'arma che meglio ti conviene. - Grazie, padrone, - rispose l'indiano. Il capitano entrò nel bengalow. Saranguy si sedette presso la porta. La sua faccia era diventata allora assai cupa e gli occhi brillavano d'una strana fiamma. Tre o quattro volte s'alzò come se volesse entrare nel bengalow, e sempre tornò a sedersi. - Chissà quale sorte toccherà a quell'uomo, mormorò egli con voce sorda. - Forse la morte. È strano, eppure quell'uomo mi interessa, eppure sento che quasi lo amo! Appena lo scorsi sentii il mio cuore fremere in modo inesplicabile; appena udii la sua voce mi sentii quasi commosso. Non so, ma quel volto somiglia ... Non nominiamola ... Tacque diventando ancor più tetro. - E sarà qui lui? - si chiese d'un tratto. - E se non vi fosse? Si alzò per la quinta volta e si mise a passeggiare colla testa china. Passando dinanzi ad un recinto, udì alcune voci che venivano dall'interno. Si arrestò alzando bruscamente la testa. Parve indeciso, si guardò attorno come volesse assicurarsi che era solo, poi si lasciò cadere ai piedi della palizzata, tendendo con molta attenzione gli orecchi. - Te lo dico io, - diceva una voce. - Il birbone ha parlato dopo le minaccie di morte del capitano Macpherson. - Non è possibile, - diceva un'altra voce. - Quei cani di thugs non si lasciano intimidire dalla morte. Ho visto coi miei propri occhi, delle diecine di thugs lasciarsi fucilare senza nulla dire. - Ma il capitano Macpherson ha dei mezzi ai quali nessuna creatura umana resiste. - Quell'uomo è molto forte. Si lascierà strappare di dosso la pelle, prima di dire una sola parola. Saranguy divenne più attento, e accostò viepiù l'orecchio alla palizzata. - E dove credi che l'abbiano rinchiuso? - chiese la prima voce. - Nel sotterraneo, - rispose l'altra - Quell'uomo è capace di scappare. - È impossibile, poiché le pareti hanno uno spessore enorme, di più uno dei nostri veglia. - Non dico che scapperà da solo, ma aiutato dai thugs. - Credi tu che ronzino da queste parti? - La scorsa notte abbiamo udito dei segnali e mi si disse che un sipai scorse delle ombre. - Mi fai venire i brividi. - Hai paura tu? - Puoi crederlo. Quei maledetti lacci di rado falliscono. - Avrai paura ancora per poco - Perché? - Perché li assaliremo nel loro covo. Negapatnan confesserà tutto. Saranguy udendo quel nome era balzato in piedi, in preda ad una viva eccitazione. Un sorriso sinistro sfiorò le sue labbra e guardò trucemente. - Ah! - esclamò egli con voce appena distinta. - Negapatnan è qui! I maledetti saranno contenti.

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