Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

Gli abbaiamenti continuavano ognor più furiosi, segno infallibile che la tigre era stata scoperta. Bhagavadi affrettò il passo movendo intrepidamente verso una grande macchia di bambù tulda, in mezzo alla quale s'erano cacciati i botoli. A cento passi di distanza fu trovato uno dei cani orrendamente sventrato da un poderoso colpo d'artiglio. L'elefante cominciò a dare segni d'inquietudine, agitando vivamente la proboscide dall'alto in basso. - Bhagavadi la sente, - disse Macpherson. - Sta' bene attento mahut e bada che l'elefante non dia indietro o che esponga troppo la sua tromba. La tigre gliela sbranerà come l'anno scorso. - Rispondo di tutto, padrone. Fra i bambù s'alzò un formidabile ruggito a cui nessun grido è paragonabile. Bhagavadi s'arrestò fremendo ed emettendo sordi barriti. - Avanti! - gridò il capitano Macpherson, le cui dita si raggrinzavano sul grilletto della carabina. Il mahut lasciò andare un colpo di uncino sul pachiderma, il quale si mise a sbuffare in orribile modo, arrotolando la proboscide e presentando le due aguzze zanne. Fece ancora dieci o dodici passi poi tornò a fermarsi. Dai bambù si slanciò fuori, simile a un razzo, una gigantesca tigre emettendo un formidabile miagolìo. Il capitano Macpherson lasciò partire la scarica. - Tuoni e fulmini! - gridò irritato. La tigre era ricaduta fra i bambù prima di essere stata toccata. Si slanciò altre due volte nell'aria, facendo balzi di dodici metri e scomparve. Bhârata fece fuoco in mezzo al macchione, ma la palla andò a fracassare la testa di un botolino mezzo sbranato, che si trascinava penosamente fra le erbe. - Ma ha il diavolo in corpo quella tigre, - disse il capitano, assai di cattivo umore. - È la seconda volta che sfugge alle mie palle. Come va questa faccenda? Bhagavadi si rimise in marcia, con molta precauzione, facendosi prima largo colla proboscide, che si affrettava però a ritirare subito. Fece altri cento metri, preceduto dai cani che andavano e venivano cercando la pista del felino, poi fece alto piantandosi solidamente sulle gambe. Tornava a tremare ed a sbuffare fragorosamente. Davanti a lui, a meno di venti metri, stava un gruppo di canne da zucchero. Un buffo d'aria impregnata d'un forte odore di selvatico, giunse fino ai cacciatori. - Guarda! guarda! - gridò il capitano. La tigre s'era slanciata fuori dalle canne movendo con rapidità fulminea verso il pachidermo il quale s'era affrettato a presentare le zanne. Vi giunse quasi sotto, sfuggendo alle carabine dei cacciatori, si raccolse su se stessa e piombò in mezzo alla fronte dell'elefante cercando con un colpo d'artiglio d'afferrare il mahut, che s'era gettato all'indietro urlando di terrore. Già stava per raggiungerlo, quando in lontananza echeggiarono alcune note acute emesse da un ramsinga. Sia che si spaventasse o altro, la tigre fece un rapido voltafaccia e si precipitò giù, cercando di raggiungere la macchia. - Fuoco! - urlò il capitano Macpherson, scaricando la carabina. Il felino mandò un ruggito tremendo, cadde, si rialzò, varcò la macchia e ricadde dall'altra parte, rimanendo immobile come se fosse stato fulminato. - Hurrà! hurrà! - urlò Bhârata. - Bel colpo! - esclamò il capitano, deponendo l'arma ancor fumante.- Getta la scala. - Il mahut ubbidì. Il capitano Macpherson impugnato il coltellaccio giunse a terra e si diresse verso la macchia. La tigre giaceva inerte presso un cespuglio. Il capitano, con sua grande sorpresa, non iscorse su quel corpo alcuna ferita, né per terra macchie di sangue. Ben sapendo che le tigri talvolta si fingono morte per gettarsi di sorpresa sul cacciatore, stava per tornare indietro, ma gli mancò il tempo. Il misterioso suono del ramsinga tornò a echeggiare. La tigre a quella nota scattò in piedi, si scagliò sul capitano e lo atterrò. La sua enorme bocca, irta di denti, si spalancò sopra di lui pronta a stritolarlo. Il capitano Macpherson, inchiodato al suolo, in maniera da non potersi muovere, né servirsi del coltellaccio, emise un grido d'angoscia. - A me! ... Sono perduto. - Tenete fermo, ci sono! - urlò una voce tonante. Un indiano si gettò fuori della macchia, afferrò la tigre per la coda e con un violento strappone la scaraventò da una parte. S'udì un ruggito furioso. L'animale, pazzo di collera, s'era prontamente alzato per gettarsi sul nuovo nemico; ma, cosa strana, inaudita, appena che l'ebbe scorto fece un rapido voltafaccia e s'allontanò con fantastica rapidità, scomparendo fra l'inestricabile caos della jungla. Il capitano Macpherson, sano e salvo, s'era prontamente levato in piedi. Un profondo stupore si dipinse tosto sui suoi lineamenti. A cinque passi da lui stava un indiano di forme muscolose, grandemente sviluppate, con una testa superba, piantata su due larghe e robuste spalle. Un piccolo turbante ricamato in argento copriva il suo capo ed ai fianchi portava un sottanino di seta gialla, stretto da un bellissimo scialle di cachemire. Quell'uomo, che aveva intrepidamente affrontato la tigre non aveva alcuna arma. Colle braccia incrociate, lo sguardo sfavillante d'ardire, egli fissava con curiosità il capitano, conservando l'immobilità d'una statua di bronzo. - Se non m'inganno, ti devo la vita, - disse il capitano. - Forse, - rispose l'indiano. - Senza il tuo coraggio a quest'ora sarei morto. - Lo credo. - Dammi la mano; tu sei un prode. L'indiano strinse, con un tremito, la mano che Macpherson gli porgeva. - Posso io conoscere il tuo nome, o mio salvatore? - Saranguy, - rispose l'indiano. - Non lo scorderò mai. Fra loro due successe un breve silenzio. - Cosa posso fare per te? - ripigliò il capitano. - Nulla. Macpherson estrasse una borsa rigonfia di sterline e gliela porse. L'indiano la respinse con nobile gesto. - Non so che farne dell'oro, - dissegli. - Sei ricco tu? - Meno di quello che credete. Sono un cacciatore di tigri delle Sunderbunds. - Ma perché ti trovi qui? - La jungla nera non ha più tigri. Sono salito al nord a cercarne delle altre. - E dove vai ora? - Non lo so. Non ho patria, né famiglia; erro a capriccio. - Vuoi venire con me? Gli occhi dell'indiano mandarono un lampo. - Se avete bisogno d'un uomo forte e coraggioso, che non teme né le belve, né l'ira degli dei, sono vostro. - Vieni, o prode indiano, e non avrai a lagnarti di me. Il capitano girò sui talloni, ma s'arrestò subito. - Dove credi che sia fuggita la tigre? - Molto lontano. - Sarà possibile trovarla! - Non lo credo. Del resto m'incarico io d'ammazzarla, e fra non molto tempo. - Ritorniamo al bengalow. Bhârata, che aveva assistito con stupore a quella scena, li aspettava presso l'elefante. Egli si slanciò contro al capitano. - Sei ferito, padrone? - gli chiese, ansiosamente. - No, mio bravo sergente, - rispose Macpherson. - Ma se non giungeva questo indiano, non sarei ancora vivo. - Sei un grand'uomo, - disse Bhârata a Saranguy. Non ho mai veduto un simile colpo; tu tieni alta la fama della nostra razza. - Un sorriso fu l'unica risposta dell'indiano. I tre uomini salirono nell'hauda e in meno di mezz'ora raggiunsero il bengalow dinanzi al quale li aspettavano i sipai. La vista di quei soldati fece corrugare la fronte di Saranguy. Parve inquieto e represse con grande sforzo un gesto di dispetto. Per fortuna nessuno avvertì quel movimento che fu, del resto, rapido come un lampo. - Saranguy, - disse il capitano, nel momento che entrava con Bhârata, - se hai fame, fatti additare la cucina; se vuoi dormire, scegli quella stanza che meglio ti accomoda; e se vuoi cacciare, domanda quell'arma che meglio ti conviene. - Grazie, padrone, - rispose l'indiano. Il capitano entrò nel bengalow. Saranguy si sedette presso la porta. La sua faccia era diventata allora assai cupa e gli occhi brillavano d'una strana fiamma. Tre o quattro volte s'alzò come se volesse entrare nel bengalow, e sempre tornò a sedersi. - Chissà quale sorte toccherà a quell'uomo, mormorò egli con voce sorda. - Forse la morte. È strano, eppure quell'uomo mi interessa, eppure sento che quasi lo amo! Appena lo scorsi sentii il mio cuore fremere in modo inesplicabile; appena udii la sua voce mi sentii quasi commosso. Non so, ma quel volto somiglia ... Non nominiamola ... Tacque diventando ancor più tetro. - E sarà qui lui? - si chiese d'un tratto. - E se non vi fosse? Si alzò per la quinta volta e si mise a passeggiare colla testa china. Passando dinanzi ad un recinto, udì alcune voci che venivano dall'interno. Si arrestò alzando bruscamente la testa. Parve indeciso, si guardò attorno come volesse assicurarsi che era solo, poi si lasciò cadere ai piedi della palizzata, tendendo con molta attenzione gli orecchi. - Te lo dico io, - diceva una voce. - Il birbone ha parlato dopo le minaccie di morte del capitano Macpherson. - Non è possibile, - diceva un'altra voce. - Quei cani di thugs non si lasciano intimidire dalla morte. Ho visto coi miei propri occhi, delle diecine di thugs lasciarsi fucilare senza nulla dire. - Ma il capitano Macpherson ha dei mezzi ai quali nessuna creatura umana resiste. - Quell'uomo è molto forte. Si lascierà strappare di dosso la pelle, prima di dire una sola parola. Saranguy divenne più attento, e accostò viepiù l'orecchio alla palizzata. - E dove credi che l'abbiano rinchiuso? - chiese la prima voce. - Nel sotterraneo, - rispose l'altra - Quell'uomo è capace di scappare. - È impossibile, poiché le pareti hanno uno spessore enorme, di più uno dei nostri veglia. - Non dico che scapperà da solo, ma aiutato dai thugs. - Credi tu che ronzino da queste parti? - La scorsa notte abbiamo udito dei segnali e mi si disse che un sipai scorse delle ombre. - Mi fai venire i brividi. - Hai paura tu? - Puoi crederlo. Quei maledetti lacci di rado falliscono. - Avrai paura ancora per poco - Perché? - Perché li assaliremo nel loro covo. Negapatnan confesserà tutto. Saranguy udendo quel nome era balzato in piedi, in preda ad una viva eccitazione. Un sorriso sinistro sfiorò le sue labbra e guardò trucemente. - Ah! - esclamò egli con voce appena distinta. - Negapatnan è qui! I maledetti saranno contenti.

Vi era da pochi minuti, quando la tigre balzò in piedi facendo udire un sordo miagolio a cui fecero eco i festosi abbaiamenti di Punthy. Kammamuri si alzò, credendo che arrivassero i cacciatori, ma non vide alcuno. Si volse ed appoggiato allo stipite della porta, scorse Tremal-Naik. - Tu, padrone! - esclamò egli con stupore. - Tu! ... - Sì, Kammamuri, - rispose Tremal-Naik, con un amaro sorriso. - Quale imprudenza! ... Sei ancora convalescente e ... - Taci, sono forte, più forte di quello che credi,- rispose il cacciatore di serpenti quasi con rabbia. - Ho sofferto troppo in quell'amaca, è ora che la sia finita. Egli fece alcuni passi innanzi senza barcollare, senza dimostrare fatica e sedette fra le erbe, prendendosi la testa fra le mani e guardando fisso il sole che tramontava all'occidente. - Padrone, - disse Kammamuri, dopo alcuni istanti di silenzio. - Cosa vuoi? - I cacciatori non sono ancora tornati. Temo che sia accaduta qualche disgrazia. - Chi te lo dice? - Nessuno, ma lo sospetto. Nella jungla possono aggirarsi quegli uomini che assassinarono Hurti e pugnalarono te. La faccia di Tremal-Naik divenne cupa. - Sono forse qui? - chiese egli. - Forse. - Presto, Kammamuri, sarò guarito, ritorneremo in quell'isola maledetta e li stermineremo tutti, tutti! - Che? ... - esclamò Kammamuri, con ispavento. Noi ritornare in quell'isola? ... Padrone, cosa dici? - Hai paura tu? - No, ma ritornare laggiù, in quei luoghi, è una follia. - Follia! ... Follia tu dici? ... Non sai tu adunque chi ho lasciato laggiù, nelle mani di quegli uomini? - Chi mai? - La vergine della pagoda. - Chi è questa donna? - Una creatura bella, Kammamuri, che io amo alla pazzia, e per la quale metterei l'India in fiamme. - Hai lasciato una donna laggiù? - Sì, Kammamuri, quella stessa che io mirava al tramontare del sole nella mia jungla. Ada! Ada! Quanto m'hai fatto soffrire! - È la visione adunque? - Sì, la visione. - Ma come si trova a Raimangal? - Una condanna pesa sulla disgraziata fanciulla, Kammamuri. Quei mostri la tengono in loro mano, non so il come, né il perché. Io l'ho veduta nella pagoda a versare dei profumi ai piedi d'un mostro di bronzo. - D'un mostro! ... Quella donna sarà forse al pari degli altri. - Non ripetere quest'insulto, Kammamuri, - esclamò Tremal-Naik, con accento minaccioso. - Son gli uomini che l'han condannata, che le fanno adorare quel mostro di bronzo! Lei feroce! ... Lei! ... povera fanciulla! ... - Perdono, padrone - balbettò il maharatto. - Non sapevi nulla e ti perdono. Ma quegli uomini che l'han condannata, che la fanno morire di pianto, quegli uomini che le straziano il cuore e mi fan barriera onde non la salvi dai loro artigli, li esterminerò tutti, Kammamuri, tutti! Ho qui nel petto ancor le traccie del loro pugnale, e mi faranno ricordare in ogni tempo la vendetta! Non rimarrai no, nelle loro mani, o infelice Ada, perché Tremal-Naik, dovesse pagare colla sua vita la tua libertà, ti toglierà da quegli orribili luoghi per quanto sieno ben guardati e irti di ostacoli. Tremino allora coloro che t'avranno tormentata, coloro che hanno avvelenato la tua giovane esistenza. Darma ed io c'incaricheremo di ucciderli tutti, nelle loro spaventevoli caverne! - Mi fai paura, padrone. E se ti uccidessero? - Morrò per colei che amo! - esclamò con trasporto appassionato Tremal-Naik. - E quando partiremo? - Appena avrò la forza d'alzare la carabina. Son già forte, ma non tanto da pugnare contro tutti loro. In quell'istante, al sud, rimbombò una fucilata seguita tosto da due altre detonazioni. Darma fece un salto, mugolando. Il maharatto e Tremal-Naik scattarono in piedi, trattenendo Punthy che abbaiava furiosamente. - Cosa succede? - chiese il maharatto, strappandosi dalla cintola il coltellaccio. - Kammamuri! ... Kammamuri! ... , - gridò una voce. - Chi chiama? - chiese Tremal-Naik. - Grande Brahma! ... Manciadi! - esclamò il maharatto. Infatti il bengalese, con rapidità grandissima attraversava la jungla, sfondando la fitta cortina di bambù ed agitando come un pazzo la carabina. Pareva in preda ad un vivo terrore. - Kammamuri! ... Kammamuri! - ripeté egli con voce strozzata. - Corri, Manciadi, corri! - gridò il maharatto. Che sia inseguito? Attenta, Darma! La tigre si raccolse su se stessa cogli artigli aperti, e aprì la bocca mostrando una doppia fila di denti aguzzi. Il bengalese, che correva molto rapidamente, in pochi minuti giunse alla capanna. Il miserabile aveva la faccia insanguinata per una ferita che s'era fatta sulla fronte per meglio colorire il tradimento ed aveva la tunica pure macchiata. - Padrone! ... Kammamuri! - esclamò egli, piangendo disperatamente. - Cosa ti è accaduto? - chiese Tremal-Naik con angoscia. - Hanno ferito a morte Aghur! ... Povero me ... non ne ho colpa, padrone ... ci sono balzati addosso ... Aghur! povero Aghur! - L'hanno ferito! - esclamò Tremal-Naik con furore. - Chi? Chi? - I nemici ... gl'indiani dai lacci ... - Maledizione! ... Parla, narra, di' su, voglio saper tutto! - Eravamo seduti in un bosco di giacchieri, disse il miserabile, continuando a singhiozzare. - Ci sono balzati addosso prima che potessimo prendere le armi ed Aghur è caduto. Io ho avuto paura e sono fuggito. - Quanti erano? - Dieci, dodici, non ricordo bene quanti. Sono fuggito per miracolo. - È morto Aghur? - No, padrone, non può esser morto. L'hanno pugnalato, poi sono scomparsi. Fuggendo, udii il ferito gridare, ma non ebbi il coraggio di ritornare presso di lui. - Sei un vigliacco, Manciadi! - Padrone, se fossi ritornato mi avrebbero ucciso, - singhiozzò il bengalese. - Quando la finiranno adunque? - gridò Tremal-Naik. - Kammamuri, forse Aghur non è morto; bisogna andarlo a trovare e portarlo qui. - E se mi assaltano? - chiese Kammamuri, terrorizzato. - Prenderai con te Darma e Punthy. Con questi animali puoi tenere testa a cento uomini. - Ma chi mi guiderà? - Manciadi. - E tu vuoi rimanere nella capanna solo? - Basto io solo per difendermi. Va' e non perdere tempo, se vuoi salvare il povero Aghur. Manciadi, guida quest'uomo al bosco. - Padrone ho paura. - Guida quest'uomo al bosco; se esiti, ti faccio sbranare dalla tigre. Tremal-Naik aveva pronunciato quelle parole con tale tono, da far comprendere a Manciadi che non era uno scherzo. Affettando il massimo terrore, si unì al maharatto che si era armato della carabina e d'un paio di pistole. - Padrone, - disse Kammamuri, - se fra due o tre ore non ritorniamo, vorrà dire che siamo stati assassinati. Il canotto è arenato sulla riva; penserai a metterti in salvo. - Mai! - esclamò Tremal-Naik. - Ti vendicherò a Raimangal; taci e parti. Il maharatto e Manciadi, preceduti dal cane e dalla tigre, si slanciarono di corsa in mezzo alla jungla. Il sole era di già scomparso sotto l'orizzonte, ma la luna sorgeva, spandendo una luce azzurrognola, d'una infinita dolcezza, sufficiente per guidare i due indiani attraverso la massa dei bambù. - Camminiamo con precauzione e in silenzio, disse Kammamuri a Manciadi. - Non bisogna attirare l'attenzione dei nemici, che forse si tengono nascosti a poca distanza da noi. - Hai paura, Kammamuri? - chiese il bengalese, che non tremava più. - Credo di sì. Per fortuna, con noi abbiamo Darma, una valorosa bestia che non teme cinquanta uomini armati. - Ti avverto, Kammamuri, che io non entrerò nel bosco. - Mi aspetterai dove meglio ti piacerà, e se vuoi ti lascierò Punthy, un bravo cane che sa strozzare una mezza dozzina di persone. Avanti e silenzio. Manciadi, che aveva già tracciato il suo piano, condusse il maharatto sul sentiero che aveva percorso al mattino e lo seguì per tre quarti d'ora. S'arrestò sul margine del bosco di giacchieri. - È qui? - chiese Kammamuri, guardando con ansietà sotto gli alberi. - Sì, qui, - rispose Manciadi, con fare misterioso. - Segui questo sentieruzzo che s'addentra nel bosco e giungerai allo stagno, sulle cui rive è caduto Aghur. Io qui t'aspetto, nascosto in quella fitta macchia. - Vuoi il cane? - Amo meglio esser solo. Gl'indiani non mi scopriranno, ne sono certo. - Fra mezz'ora io sono di ritorno. Darma, sta' attenta e pronta a piombare sul primo uomo che si presenta dinanzi a noi, e tu, Punthy, preparati pure a strozzare qualcuno. La tigre fece udire un basso ruggito e si mise dinanzi al maharatto colle corte orecchie alzate ed il cane gli si mise dietro mostrando i denti. - Benone, - disse Kammamuri, quando vide il bengalese nascosto nella macchia. - Nessuno ardirà avvicinarsi senza il permesso di queste care bestie. Entrarono nel bosco sotto il quale regnava una profonda oscurità ed un silenzio funebre e s'avanzarono sul sentiero, senza produrre rumore di sorta. Kammamuri più volte si fermò sperando di udire qualche lamento o qualche chiamata che segnalasse la presenza di Aghur, ma nulla giungeva al suo orecchio. - È strano, - mormorava, tergendosi il sudore che colavagli in gran copia dalla fronte. - Se fosse ancora vivo, si udirebbe qualche lamento, ma qui regna un silenzio perfetto. Che sia morto? Aveva percorso da trecento a quattrocento passi, quando udì qualcuno che zuffolava un'arietta malinconica. Era la medesima arietta che Manciadi aveva zuffolato prima d'assassinare Aghur. La tigre si mise a brontolare volgendo la testa all'indietro e il cane diè segni d'inquietudine, ringhiando. - Attenti, piccini, - disse Kammamuri, che sentivasi gelare il sangue. - State vicini a me e lasciate che quell'uomo zuffoli a suo piacimento. Credo che per Aghur sia finita. Una nube oscurò la luna e le tenebre divennero più fitte sotto il bosco. Kammamuri si arrestò, indeciso se dovesse avanzare o tornare indietro, poi tirò innanzi colle pistole montate. - Kammamuri! - gridò una voce. - Kammamuri! - ripeté una seconda voce. - Kammamuri!- riprese una terza. La tigre si mise a ruggire sferzandosi i fianchi colla coda e saltando come se fosse su di un braciere. Cercò due o tre volte di slanciarsi a destra del sentiero, ma il maharatto, con un fischio, la richiamava al posto. - Calma, piccina, calma, - diss'egli. - Lasciate che chiamino. Non sono spiriti, ma uomini che si divertono a spaventarmi. Se ritorno alla capanna, posso ringraziare Visnù d'avermi protetto. Allungò il passo con una pistola puntata a destra del sentiero e l'altra a sinistra e poco dopo giungeva in vista dello stagno. Un fascio di luce lunare piombò in quel luogo, illuminandolo come in pieno giorno. Kammamuri, con indicibile spavento, scorse a terra un corpo umano su cui si agitava un gruppo di marabù. Punthy si slanciò verso quel cadavere urlando lamentosamente e mettendo in fuga i voraci volatili. - Aghur! - esclamò Kammamuri, singhiozzando. Corse come un pazzo allo stagno e si gettò sul corpo dell'infelice suo compagno. Aveva ancora il laccio attorno al collo ed il corpo era stato straziato dai marabù. - Aghur! Mio povero Aghur! - ripeté Kammamuri, abbracciando il cadavere. - Ah! miserabili! D'un tratto emise un urlo terribile e i suoi occhi si fissarono su di una pietra, contro la quale era appoggiata la testa di Aghur. Ai pallidi raggi della luna, aveva letto, fremendo, le seguenti parole scritte a lettere di sangue: "Kammamuri, Manciadi mi ha assass ... ". Il maharatto balzò in piedi. Comprese tutto il tradimento del bengalese e il pericolo che correva il padrone. - Darma! Punthy! - gridò egli con voce strozzata.- Alla capanna! ... Alla capanna! ... Si uccide il padrone. E si slanciò attraverso la foresta preceduto dalla tigre e seguito dal cane, che abbaiava con furore! Nel mentre Kammamuri correva come un daino sotto le cupe volte di verzura, il bengalese non perdeva il suo tempo. Rimasto solo, erasi subito slanciato fuori della macchia correndo precipitosamente verso la capanna, risoluto a strangolare la seconda vittima. Sapeva di avere un vantaggio di un buon quarto d'ora sul maharatto, nondimeno divorava la via colla velocità di una palla di cannone, paventando di venire colto sul fatto dalla tigre e dal cane, dai quali animali aveva tutto da temere. Attraversò la jungla impiegando meno di mezz'ora e si fermò sul margine della piantagione, dopo di avere preparato un secondo laccio. - Il padrone deve tenersi in guardia, - mormorò egli. - Se mi vede tornare, crederà che io abbia abbandonato Kammamuri e mi spaccherà la testa con una palla di carabina. Quell'uomo non ischerza. Aprì adagio adagio i bambù e guardò verso il nord. A quattrocento passi di distanza scorse la capanna ed accanto ad essa Tremal-Naik in piedi, colla carabina in mano. - Ah! - esclamò il miserabile. - Ucciderlo non sarà tanto facile, ma Manciadi è più furbo di un cacciatore di serpenti. Ripigliò la corsa verso l'est, trottando furiosamente per sei o sette minuti, poi si slanciò nella pianura. La capanna stava alla sua destra e Tremal-Naik gli mostrava un fianco. Con un po' d'astuzia poteva avvicinarsi e cogliere la vittima alle spalle. La sua risoluzione fu prontamente presa. Si mise a strisciare fra le erbe come un serpente, allungandosi quanto poteva onde non venire scorto da Tremal-Naik e procurando di non far rumore. Però, il venticello che sfiorava la piantagione, curvando dolcemente le alte cime dei bambù, produceva un leggiero stropiccio, sufficiente per coprire lo strisciare di un uomo. Così avanzando e soffermandosi per tendere gli orecchi e guardare Tremal-Naik che pareva non s'accorgesse di nulla, riuscì a guadagnare la capanna. Con uno scatto da tigre si rizzò. Un sorriso atroce sfiorava le sue labbra. - È mio, - mormorò con un filo di voce. - Kâlì mi protegge. Camminò in punta dei piedi lungo le pareti della capanna e si fermò a dieci passi da Tremal-Naik. Diede un ultimo sguardo alla jungla e non scorse nessuno. Un secondo sorriso, più crudele del primo, apparve sulle labbra ed i suoi occhi scintillarono come quelli di un gatto. Un secondo ancora e la vittima sarebbe caduta per non più rialzarsi. Fece fischiare rapidamente il laccio attorno a sé e lo slanciò facendo un balzo avanti. Tremal-Naik piombò al suolo come un albero sradicato dal vento, ma, per un caso fortuito, una mano era rimasta presa nel laccio. - Kammamuri! - gridò il disgraziato, afferrando coll'altra mano la corda e tirando a sé con disperata energia. - Muori! muori! - urlò l'assassino, trascinandolo sul suolo. Tremal-Naik mandò un secondo grido. - Kammamuri! aiuto! - Eccomi - tuonò una voce. Manciadi digrignò i denti con furore. Sul limite della piantagione era improvvisamente apparso il maharatto: dinanzi, correva, con balzi giganteschi la tigre, fiancheggiata da Punthy. Un lampo squarciò la notte seguìto da una fragorosa detonazione. Manciadi fece un salto di dieci passi e s'avventò all'impazzata verso la riva vicina. Un secondo sparo rimbombò e Manciadi piombò nel fiume, scomparendo fra i gorghi.

Il cane, anziché ubbidire, mise le zampe sul bordo del canotto e raddoppiò i suoi abbaiamenti. Pareva in preda ad una forte eccitazione. I due indiani guardarono verso la jungla, ma non videro alcuno. Eppure Punthy doveva aver udito qualche rumore. Misero le pistole sui banchi, afferrarono i remi e si spinsero al largo rimontando il fiume. Non avevano ancora percorso trecento braccia, che il cane ricominciò ad abbaiare rabbiosamente. - Alto là! - gridò una voce imperiosa. Kammamuri si volse indietro stringendo nella dritta una delle pistole. Sulla riva, sul luogo da essi abbandonato, si teneva ritto un colossale indiano col laccio nella dritta e il pugnale nella sinistra. - Alto là! - ripeté egli. Kammamuri invece di ubbidire sparò. L'indiano si accasciò su se stesso agitando le braccia, indi scomparve fra i cespugli. - Arranca! Arranca, Aghur! - gridò il maharatto. Il canotto fendette rapidamente le acque dirigendosi verso il cimitero galleggiante, nel mentre che una voce tonante, ripiena di minaccia, gridava dalle coste dell'isola maledetta: - Ci rivedremo! ...

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