Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbaiamenti

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Giacomo l'idealista

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Blitz, eccitato dal gesto e dallo sguardo ispirato del suo padrone non seppe piú stare alle mosse, e protestò, se non sbaglio il commento, con due o tre abbaiamenti sgarbati e dispettosi. - Vedi se in lui non c'è lo scettico pessimista? - proruppe Giacomo, abbandonandosi a ridere sulla sua seggiola, che perdeva le paglie per il di sotto. - Tutte le volte che io assicuro all'uomo una qualche superiorità, il mio cane abbaia. Ma abbi pazienza, Blitz: ancora una cartella e poi ho finito. Mentre Giacomo leggeva, e mentre l'acqua del caffè muggiva nel gamellino, sopra una fiamma a spirito in mezzo a un treppiedi di ferro, feci con l'occhio il giro delle quattro pareti di quell'umile cameretta, da dove usciva tanto orgoglio filosofico e tanta fede nella missione conquistatrice dell'umanità. Un letto con un pagliericcio imbottito di foglie secche, quattro sedie scompagnate, un vecchio trumò del settecento, pieno di libri, un tavolino zoppo di tre gambe tenuto ritto da un vecchio Rimario del Ruscelli, ecco tutto l'arredamento. A capo del letto pendeva un quadretto della Madonna del Bosco, di un gusto molto campagnuolo, circondata da un rosario a grani grossi come le noci, e da altri piccoli segni religiosi, che svelavano una mano affettuosa e forse una pia sollecitudine. Se il pensiero è il diavolo, i grani di quel rosario non erano ancor grossi abbastanza per cacciarlo via; ma Giacomo aveva troppa fede nella bontà, per togliere alla sua mamma un'illusione. Dall'imposta della finestra pendeva la borraccia, che gli aveva servito nella disgraziata campagna del 1866 nel Trentino, piccolo fasto, che, insieme al gamellino, ricordava una storia segnata di patimenti e forse di eroismi, di cui non si doveva mai parlare. Anche la vecchia chitarra pendeva attaccata a un chiodo, coperta da un dito di polvere, tra due sacchi di grano, un sacco di carbone e un arcolaio fuori uso. L'indole di Giacomo, cosí facile ad arrendersi ad ogni piccolo bene che parlasse un po' forte, non pareva nemmeno accorgersi della mediocrità e dello squallore, in cui era nato e cresciuto. Abituato fin da ragazzo ai gusti semplici e a cercare nelle reali compiacenze della meditazione il sapore squisito anche delle cose che non si possono avere, non solo non provava alcuna invidia per chi si pasce dei lauti favori della fortuna, ma il non vivere di idee parevagli la piú compassionevole sorte che potesse toccare a una creatura ragionevole. - Scarpe rotte e la testa in paradiso era il motto della sua nobiltà di spirito. Questa soddisfazione tutta interiore, come lo rendeva indifferente e spensierato nelle cose contingenti di questo basso mondo, lo rendeva altrettanto paziente nel sopportar i piccoli inconvenienti della povertà, le umili molestie e i pregiudizi de' suoi di casa, i piagnistei frequenti della mamma, che vedeva precipitare la sua casa, le fantastiche declamazioni di suo padre, che attribuiva al governo anche gli spropositi della sua ostinazione, le scontrosità di sua sorella Lisa (che, per far presto, in casa chiamavano Spaventapasseri), la povertà intellettuale di Battista, che vedeva in lui un prediletto il quale andava spesso a tavola in casa dei signori, perché gli ripugnava la polenta e il merluzzo di casa sua. - Ho bisogno che questa dissertazione sull' Idealismo sia stampata presto, perché il premio non si può ritirare se non si presenta l'opera stampata. E non mai, come in questi tempi, ho sentito il bisogno di denaro, non tanto per me, quanto per questa mia povera gente . Giacomo, mentre parlava, andava rimestando con un cucchiale il caffè bollente nel gamellino, come soleva fare in collegio Ghislieri, quando c'invitava a una discussione metafisica nella sua camera. - A mio padre, come forse avrai capito, manca il senso e l'indirizzo della vita moderna. Egli crede che negli affari basti essere galantuomini, e, quel che è peggio, immagina che gli altri siano tutti galantuomini come lui. Già da qualche anno siè lasciato trascinare in una falsa speculazione con un certo signore che abita quassú a un sito detto la Rivalta, un ex impresario che si è dato all'usura, un chiacchierone che incanta con la sua parlantina. Costui, col pretesto di un impianto d'una sega a vapore, credo che a quest'ora abbia già mangiato a mio padre una ventina di mila lire, e continui a mettere ipoteche su quel po' di terra che abbiamo al sole. Il male si è che il povero pà, per non spaventarsi, si sforza d'illudersi e, abilmente raggirato da quel furbo di professione, crede che il suo denaro abbia a fruttare domani il cinquanta per cento. Non volendo, per un senso d'orgoglio, confessare i suoi torti a persona pratica, cova i suoi pensieri dentro di sé, cerca di stordirsi colle barzellette, se la piglia cogli italiani, coll'esattore, colla ricchezza mobile, ch'egli crede causa della sua rovina. Se noi potessimo aiutarlo! ma Battista non ha che le spalle di buono, e ora si è fitto in capo di voler sposare la figlia dell'oste della Praschetta, che è stata l'amante di tutti i carabinieri di passaggio. Angiolino è un ragazzo che dovrà presto andar soldato. Ci sono io, il dotto, il sapiente, vale a dire il piú inutile. Se fosse greco, potrei dare un suggerimento; ma che vuoi che m'intenda io di mattoni, di tegole, di sega a vapore, di mutui e di ipoteche? Giacomo sorrise e cantarellò sull'aria del Crispino e la Comare: - Maledetto il mio troppo saper. Levò il gamellino dal fuoco, tolse dal trumò due chicchere che collocò sul tavolino, dopo averne rimossa la gran montagna di libri e di fogli scritti che vi stava sopra, e, sedendosi accanto a me, dopo avermi battuto famigliarmente colla mano sui ginocchi, riprese: - Ecco perché ti ho invitato, caro Edoardo, a passar qualche giorno alle Fornaci. Mio padre, che ha della simpatia per te, non avrà difficoltà ad avviare un discorso su questi benedetti suoi interessi, e tu potrai dargli un buon parere. Cerca di vedere un po' in fondo a questa birboneria della sega a vapore e delle ipoteche, e, se è possibile, di arrestare il male prima che diventi cancrena. - Lo farò volentieri. - Io ero tornato quest'anno con molti progetti, ma li metteremo in guardaroba con pepe e canfora fino a un altro anno. - Tu pensavi forse a prender moglie . Giacomo si fece subito rosso in viso, come soleva facilmente quando appena un'emozione un po' forte gli passava nel cuore. Versò il caffè nelle chicchere, tenendo delicatamente il gamellino per un'orecchietta, e, quando ebbe finita la delicata operazione, soggiunse: - Sai che io son legato da un'antica promessa . - Se non ricordo male, si chiamava Celestina questo tuo vecchio idealismo. - Vedi che non è un amore di ieri. Celestina è figlia d'una nostra povera parente, che, dopo essere stata mal maritata a uno scucito sarto di Oggiono, morí nell'estrema miseria. Il pà, col suo gran cuore, si prese la bambina, che rimase sempre con noi, ed è cresciuta con noi, come una sorella, fino all'anno scorso, quando la persuasi a entrare al servizio della contessa Magnenzio. Gli anni non sono piú quelli di prima, e in queste angustie la poverina non voleva piú restare di peso a' suoi benefattori. E poi per metter su casa non fa male l'aver un po' di quattrini in disparte. Un po' di quattrini lei, il premio dell'Istituto io, i mobili dello zio prete, che me li cede volentieri c'era abbastanza per fare in modo che il nostro ente ideale diventasse sussistente; ma anche per quest'anno non si potrà far nulla. Ieri il pà mi fece capire, che se gli potevo prestare cinquecento lire, gli avrei levata una spina dal cuore. Gli ho dato tutto quello che avevo su un libretto della Banca Popolare; e dico il vero che, se l'Istituto volesse anticiparmi i denari del premio, vorrei procurarmi questa consolazione di dire a mio padre: Prendete, è roba vostra. Sarebbe proprio una cosi grande consolazione per me, di poter rendere qualche cosa a questa povera gente, che, se coi libri si potesse far quattrini, vorrei scrivere e stampare tutto quel che mi passa qua dentro . Giacomo si toccò la fronte colla mano, e rimase un istante cogli occhi fissi alla luce della finestra. Poi lentamente, come se parlasse a sé stesso, soggiunse: - Tutte le volte che vedo mio padre sudar sotto il sole, intento a caricare e scaricare mattoni, che lo sento litigare cogli operai e coi capimastri, quando torna dai mercati rauco, spossato, abbattuto, mentre io sto qui di sopra a conciliare i nominalisti coi realisti o a sostenere il concetto dell'anima universale, provo una tale mortificazione di questo sapere che non sa far nulla . - Scusa, Giacomo, - interruppi con grave intonazione - tu lavori a sminuzzare la grammatica ai ragazzi, e ad elevare un edificio morale . - Ben, bene, lasciamola li. - soggiunse con un sorriso tra il lieto e il melanconico. - Intanto anche per quest'anno: cara Celestina addio. Quantunque si sforzasse di cantarellare sul suo patimento, una tenera commozione tremolò nella sua voce. Povero Giacomo! a questo suo amore aveva consacrato la parte migliore della giovinezza, quando la donna è per la maggior parte dei giovinotti allegri o una lieta scapestreria o una bambola divertente. Nel suo ascetismo filosofico aveva accesa una lampada davanti a una cara immagine, e in questa luce mite che emanava dal suo cuore, insieme alla sua virtú aveva potuto trattenerlo un santo rispetto per la celeste creatura, che l'amore monello piglia col vischio. Il tempo che egli aveva occupato in aspettare non era stato perduto per lui e nemmeno per la bella Celestina, se è vero che anche la donna migliori nel pensiero dell'uomo che l'adora. Ma perché l'aspettare sia bello, è necessario che non sia infinito. Se Giacomo, dunque, si doleva del suo destino non sapevo dargli torto. - Non conosco questa tua Celestina, - gli dissi compassionandolo - ma procuro di vederla co' tuoi occhi. - Per il momento non potrebbe essere collocata piú bene. Conosco casa Magnenzio fin da ragazzo, e quel che sono lo devo alla protezione di questi bravi signori. Fu per un legato di questa buona famiglia, che ho potuto avviarmi agli studi nel Seminario di Cremona e bussare alla porta della sacra teologia. Speravano di cavare da me un buon prete, e quando, per non ingannare la loro buona fede, ho dovuto confessare che non ne sentivo la vocazione, non mi tolsero per questo la loro benevolenza. La contessa Cristina è una donna d'animo e di coltura superiore, che sa unire a una grande delicatezza un sentimento elevato del dovere. In casa sua Celestina non può che migliorare. - E c'è anche una contessina? - Donna Enrichetta è una bambina alta, bionda, semplice come una figura di frate Angelico. A proposito di lei, mi fai ricordare che le ho promesso un sonetto per i suoi quindici anni. Tu le vedrai stamattina alla messa, perché per tua norma al Ronchetto e alle Fornaci si è tutti buoni cristiani. - Celestina vale una messa, dirò come Enrico quarto.

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Avevano percorso altri cinquecento metri e stavano per rifugiarsi tra le fronde di un simaruba, quando udirono, a non molta distanza, dei furiosi abbaiamenti. I doz cubani erano giunti e, non avendo piú trovato le tracce dei fuggiaschi, sfogavano il loro malumore con terribili e minacciosi latrati. - Devono aver trovato il cadavere del mio bracco, - disse il bucaniere, il quale si era messo a cavalcioni d'un grosso ramo, accanto al conte. - Che ci scoprano? - chiese questi. - Non ve lo saprei dire, signore, - rispose Buttafuoco. - Quei maledetti cani hanno un olfatto meraviglioso. - Siamo su un albero ben alto. - Lo vedo bene, - rispose il bucaniere, sorridendo. - Eppure non sono affatto tranquillo. I mastini che adoperano, ve l'ho già detto, sono terribili. - Non fiatiamo. - E sarà meglio per noi. I doz cubani continuavano a latrare furiosamente, a non meno di cinquanta passi. Come Buttafuoco aveva detto, dovevano aver scoperto il cadavere del bracco e si aggiravano intorno alla foresta cercando le orme dei fuggiaschi. Ad un tratto si fece udire un latrato sonoro, piú acuto degli altri, seguito da un fruscio di foglie. - Vengono! - disse il bucaniere. - Che nessuno parli. Mendoza ed il guascone si erano rannicchiati sul loro ramo, tenendo gli archibugi in mano. Buttafuoco ed il conte li avevano subito imitati, cercando di rendersi invisibili. Attraverso la cupa e tenebrosa foresta si udí un frastuono di latrati acuti che si perdettero subito in lontananza. - Sono passati! - disse il bucaniere al conte. - Ora attenti alla cinquantina. Non deve essere molto lontana; ne sono sicuro. - Che si avanzi? - chiese sottovoce il signor di Ventimiglia. - Segue sempre i cani. Ascoltate attentamente: udite? - Sí, un leggiero fruscio. - Sono gli spagnuoli che marciano attraverso il bosco. - Che ci scoprano? - Per Bacco! Non hanno già gli occhi d'un giaguaro, - rispose Buttafuoco. - E poi il fogliame ci copre interamente. - E se fossero archibugieri? - Non ve ne sono fra le cinquantine, - rispose Buttafuoco. Nessuno sparerà contro di noi un colpo di fucile, ve l'assicuro io. Zitti tutti! Può essere l'avanguardia della cinquantina che perlustra. Il fruscio aumentava, mentre i latrati dei cani diventavano sempre piú fiochi. Probabilmente i terribili mastini avevano trovata una vecchia traccia e la seguivano colla loro abituale ostinazione. Un momento dopo, cinque uomini armati di alabarde s'aprivano il passo attraverso i folti cespugli, fermandosi quasi sotto l'enorme albero. - Carrai! - esclamò uno. - Dove sono scappati quei maledetti perros? - Saranno vicini ai fuggiaschi, Alonzo - rispose un altro. - Possono strangolarli sul colpo! Erano tre, non è vero? - Almeno io non ne ho veduti altri, quando hanno ucciso il nostro Cid. - Che gambe avevano quegli uomini per percorrere una tale distanza? Scommetterei che erano bucanieri. - T'inganni, Diaz. Sono gli uomini usciti da San Domingo e che hanno ucciso quel povero Barrejo. - Caramba! Noi lo vendicheremo. - Taci! I cani ritornano. Ed infatti i latrati che poco prima erano diventati fiochi si facevano udire ora piú distinti. La terribile muta, accortasi di correre su una vecchia traccia, ritornava a corsa sfrenata, latrando rabbiosamente. Passò un minuto, poi venticinque o trenta cani, enormi, col pelame ispido, le teste grosse e le mascelle assai sporgenti, somiglianti molto ai cani americani che vengono chiamati dai piantatori della Virginia e della Luisiana blood hound, balzarono addosso ai cinque soldati con tale impeto che per poco non li gettarono a terra. - Una corsa inutile, è vero, miei piccini? - disse colui che chiamavano Diaz. - Non vi scoraggiate. Quei bricconi non avevano le ali e quindi sapremo ritrovarli. - Tu sei un vero imbecille che non conosci i cani cubani. - Sarò anche un cretino, ma intanto sono ritornati con gli orecchi bassi e senza le prede. Uno scoppio di risa salutò quella risposta. - Voi siete dei triplici cretini! - gridò Diaz furioso. - Da dove venite? Dai presidios forse? - O dalla via dell'Alcalà di Madrid? - Caramba! - urlò Alonzo. - Siamo dinanzi al nemico e urlate piú forte dei nostri mastini! È cosí che voi preparate le imboscate? Vi denuncerò tutti al governatore di San Domingo e vi farò disarmare. Il sergente sono io! - Portategli dell'aguardiente e non si ricorderà piú di avere dei galloni - disse un altro soldato con voce ironica. - Se parli ancora ti uccido, miserabile! Seguí un profondo silenzio, poi la voce del sergente si fece ancora udire: - Via, piccini! Quei birbanti non devono essere molto lontani. I cani a quell'ordine si slanciarono in tutte le direzioni, cacciandosi in mezzo alle macchie. S'avanzavano e retrocedevano fiutando rumorosamente l'aria, poi tornavano ostinatamente verso il drappello, abbaiando sordamente. - Ci sentono - disse Buttafuoco, accostando le labbra ad un orecchio del signor di Ventimiglia. - Che ci scoprano? - chiese il conte. - Sarà un po' difficile. Tuttavia teniamoci pronti ad annientare con una scarica l'avanguardia delle cinquantine - rispose il bucaniere. - Il mio archibugio è pronto. - Ed anche il mio. Non fate però fuoco se prima non vi do il comando. Le ricerche dei cani durarono un buon quarto d'ora, poi essi ripresero la corsa, seguendo la traccia di prima. Non avendone trovate altre piú recenti, si ostinavano su quella vecchia lasciata forse da qualche negro fuggiasco. L'avanguardia della cinquantina, dopo una breve discussione, prese il partito di seguirli, e scomparve ben presto attraverso la foresta. - Finalmente possiamo respirare liberamente! - esclamò il guascone. - Mi pareva di sentirmi i denti di quei cagnacci nelle gambe. - Avrebbero trovato ben poco da rosicchiare, signor soldato - disse Mendoza ironicamente. - E per questo forse se ne sono andati a cercare dei polpacci piú rotondi. Malgrado la gravità della situazione tutti si erano messi a ridere, perfino Buttafuoco. - Che cosa facciamo dunque? - chiese il conte. - Scendiamo? - Sarebbe una grave imprudenza - rispose il bucaniere. - I cani possono ritornare, scoprire le nostre orme e darci la caccia. Avete fretta di giungere a San Josè? - Nessuna: la mia fregata non lascerà i paraggi del capo Tiburon, se io non mi farò vedere, ed il mio luogotenente è troppo furbo per lasciarsi sorprendere e battere dai galeoni spagnuoli. - Allora vi consiglio di passare la notte qui. - Cosí diventeremo dei volatili! - disse Mendoza. - Purché non giungano i cacciatori! - Vi ho detto che le cinquantine non hanno armi da fuoco - disse il bucaniere. - Dei cacciatori con le alabarde ne parleremo! Accettate, signor conte? - Giacché non si può far di meglio e la prudenza lo esige, passiamo la notte quassú - rispose il signor di Ventimiglia. - Ed il vostro arruolato non verrà scoperto? La capanna non è molto lontana. - Non si lascerà sorprendere, ve lo assicuro io. Ha dei buoni cani che l'avvertiranno in tempo dell'avvicinarsi delle cinquantine. Sono perfettamente tranquillo per lui. Ah, me lo ero immaginato! Che brutta faccenda se avessimo lasciato questo asilo ... Le vedete, signor conte? - Chi? - Le cinquantine: sbucano ora dal bosco e avanzano a catena. Gli spagnuoli vi considerano persone pericolosissime, perché vi fanno l'onore di mandarvi dietro due colonne. - Potevano risparmiarsi quest'onore - brontolò Mendoza. - Io non lo desideravo affatto. Il conte si era alzato sul ramo che gli stava sotto e guardava attentamente nella direzione che il bucaniere gli indicava. L'albero che serviva loro d'asilo si trovava a poche decine di metri dal margine del bosco, sicché essendo la notte abbastanza chiara, i filibustieri potevano scorgere benissimo le persone che fossero avanzate nella vicina pianura terminante verso gli stagni e le paludi. Il conte, che era molto alto, potè vedere le due cinquantine camminare cautamente fra le alte erbe, con le alabarde in resta e con una mezza dozzina di altri cagnacci dinanzi. - Che ci circondino? - chiese al bucaniere. Il bucaniere non rispose. Seguiva con gli sguardi la manovra un po' complicata che eseguivano in quel momento le due colonne. A un tratto gli sfuggí un'imprecazione. - Circondano e battono le macchie - disse facendo un gesto di collera. - Sgombriamo di qui prima che giungano, o saremo persi. Stavano per lasciarsi scivolare giú dai rami, quando dei latrati furiosi si fecero udire a breve distanza, poi la torma dei doz, che poco prima si era allontanata, si scagliò intorno alla pianta, spiccando salti indiavolati. - Ah, maledetti! - gridò Buttafuoco. - Sono riusciti a scoprirci. Signori, preparatevi a vender cara la vita e soprattutto mirate attentamente, prima di consumare una carica di polvere. L'avanguardia accorreva, aizzando con altissime grida la feroce muta, credendo forse che quelli che cercava si fossero nascosti in mezzo ai cespugli, invece che fra i rami del gigantesco albero. - Ay hiyiito! - urlavano. - Ay perritos! - Che uno solo di voi si occupi dei cinque che guidano i cani! - disse il bucaniere. - Gli altri facciano fuoco con me sulle cinquantine. - Me ne incarico io! - disse il guascone. - Fra mezzo minuto i cinque soldati saranno a terra. - Bum! - mormorò Mendoza. - Quante guasconate! Le due cinquantine, udendo i latrati dei cani, si erano prontamente raccolte, credendo forse di dover subire un improvviso attacco, poi erano tornate ad allargarsi, accostandosi con precauzione alla macchia, con l'evidente intenzione di accerchiarla. Uno colpo di fuoco fu il principio delle ostilità. Il guascone aveva scaricato il suo archibugio contro i cinque uomini dell'avanguardia, i quali avevano commesso l'imprudenza di mostrarsi e la palla non era andata perduta. I superstiti erano subito fuggiti, non potendo impegnare una lotta con le loro alabarde e con le spade, buone solamente in un combattimento a corpo a corpo. - Benone! - disse il bucaniere, vedendo un soldato a terra. L'avanguardia è per ora fuori combattimento e si guarderà dal tentare qualche cosa. Occupiamoci ora delle cinquantine e non lasciamo loro il tempo di accerchiarci. - E i cani? - chiese Mendoza. - Lasciateli urlare: piú tardi penseremo a disfarcene. Si mise a cavalcioni del ramo, appoggiando le spalle contro il tronco della pianta e sparò un colpo. Un grido lo avvertí che la sua palla, come sempre, era giunta a destinazione. Il corsaro e Mendoza a loro volta fecero fuoco. Le cinquantine arrestarono subito il loro movimento aggirante e si gettarono in mezzo alle altissime erbe, cercando di rendersi invisibili. - Che cosa vorranno ora tentare? - si chiese il signor di Ventimiglia con inquietudine. - Cercheranno di raggiungerci strisciando - rispose il bucaniere, il quale invece appariva perfettamente tranquillo. - Bah, finché avremo polvere e palle, saremo sempre noi i padroni della situazione. Gran bella idea hanno avuto i governatori di sostituire con le alabarde gli archibugi! Hanno fatto meravigliosamente il nostro gioco. Siete pronti? - Sí - rispose il conte. - Mirate fra le erbe, specialmente là dove si agitano. Se noi spareremo bene, i nemici se ne andranno e non oseranno assalirci. I tre uomini ricominciarono a sparare, mentre il guascone, non sapendo che cosa fare, se la prendeva coi cani, facendo piovere addosso a loro una tempesta di rami secchi, ma non osando consumare le munizioni diventate troppo preziose in quel momento. E come lavorava il bravo soldato! Sicuro di non correre il pericolo di prendersi un colpo d'archibugio dalle due cinquantine, fracassava legna e la scaraventava addosso alle bestie, facendole urlare di dolore. Buttafuoco, il conte e Mendoza intanto continuavano a sparare a lunghi intervalli, facendo di tratto in tratto retrocedere le cinquantine. Di quando in quando un grido echeggiava fra le erbe, annunciando che qualche uomo era stato colpito. Era soprattutto il bucaniere che faceva dei colpi meravigliosi. Prima di far fuoco cambiava piú di dieci volte posizione, abbassava e rialzava il pesante archibugio e, quando sparava, la detonazione era seguita quasi sempre da un urlo o da una bestemmia. Se non uccideva, di certo feriva o storpiava. - Che uomini! - mormorava Mendoza, il quale pareva che fosse altamente stupito di quei tiri. - Si vantavano i filibustieri, ma questi bucanieri sono inarrivabili! Ora comprendo perché sono riusciti ad espugnare Vera-Cruz e anche Panama, sotto la guida di quel diavolo di Morgan! Gli spagnuoli peraltro, degni discendenti di quei formidabili conquistatori che con un pugno d'uomini avevano rovesciato i due piú potenti imperi dell'America, quello dei Messicani e quello dei Peruviani, quantunque sprovvisti di ogni arma da fuoco, si mantenevano coraggiosamente sul posto, esponendosi audacemente al tiro del bucaniere e dei suoi compagni, convinti di poter facilmente aver ragione di quel piccolo gruppo di avversari. Strisciavano fra le erbe, ansiosi di venire ad un corpo a corpo e di giungere sotto l'albero. Quella tenacia parve sconcertare Buttafuoco. - Devono avere qualche progetto - disse il bucaniere al conte. - Quale? - chiese il signor di Ventimiglia. - Io non riesco a indovinarlo; ma non sono affatto tranquillo. - Che contino sui cani? Buttafuoco scosse la testa. - Forse piú tardi - disse poi. - Li vedete? - Io no. - E voi, Mendoza? - Non vedo altro che delle erbe che continuano a muoversi rispose il marinaio. - Ed io, che ho gli occhi d'un vero guascone, scorgo qualche altra cosa - disse don Barrejo, il quale era salito molto in alto, con la speranza di fare un buon colpo contro l'avanguardia. - Dite. - Fanno dei fasci. - Di legna? - Sí. - Se riescono a giungere qui, ci bruceranno o per lo meno ci arrostiranno un po'. Manovra vecchia che non sempre è riuscita completamente. Signori, avete tutti le spade? - E che tagliano come rasoi - disse Mendoza. - Io non vorrei provarle sul mio collo, ve lo giuro. - Che cosa volete fare delle nostre spade, Buttafuoco? - chiese il signor di Ventimiglia. - Tagliare le alabarde? Avrebbero un cattivo giuoco. - No; ma usarle contro quei dannati cani - rispose il bucaniere. - Se è per questo, non v'inquietate. - Me ne incarico io - disse il guascone. - Sempre spaccone! - brontolò Mendoza. - Questi uomini sono davvero incorreggibili. - Continuate il fuoco - disse il bucaniere. - Anche voi, soldato. L'avanguardia non pare che abbia voglia di punzecchiarci le gambe con le sue alabarde. - Già, non arriverebbero fino alle mie - rispose il guascone. - Ci vorrebbe una scala. Ora butto giú un uomo ogni mezzo minuto! I quattro uomini ricominciarono a sparare fra le erbe, con crescente rabbia. Il bucaniere, il quale misurava bene i suoi colpi, faceva dei tiri meravigliosi, tuttavia gli spagnuoli non cessavano di guadagnare terreno, malgrado le enormi perdite che subivano. Degli uomini certo cadevano di quando in quando morti o feriti, pure essi s'avvicinavano con un'ostinazione ammirabile alla macchia scivolando fra le alte erbe. Che cosa volevano tentare? Se avessero avuto qualche archibugio si sarebbero certamente sbarazzati, con poche scariche, di quel piccolo gruppo di nemici. Probabilmente volevano tentare un disperato assalto all'arma bianca. Buttafuoco s'infuriava, bestemmiando e sparando senza tregua. - Che non riesca questa volta a farli scappare? - brontolava. Che uomini abbiamo dunque noi dinanzi? Sono fusi con acciaio temprato nelle acque del Guadalquivir? Invano le palle fischiavano o miagolavano sopra le erbe ed invano i quattro assediati sparavano con rabbia crescente. Le due cinquantine, risolute a por fine a quel combattimento che costava loro molte perdite, non cessavano di avanzarsi e di circondare la macchia. - Ebbene, Buttafuoco? - chiese il signor di Ventimiglia ad un certo momento. - Come va questa faccenda? - Che cosa volete che vi dica, signor conte? - rispose il bucaniere. - Io sono meravigliato. In vita mia non ho mai veduto degli uomini cosí coraggiosi. Queste due cinquantine sono stupefacenti! Al loro posto io sarei già scappato! - Purché non facciano invece stupire noi, - disse Mendoza. - È quello che attendo, - rispose il bucaniere, - anzi che temo. Questa ostinazione mi dà molto a pensare. - Che cosa temete, Buttafuoco? - chiese il signor di Ventimiglia. - Non lo so e non sono affatto tranquillo. - Per tutti i pescicani del mar di Biscaglia! _ esclamò il guascone. - Qui l'affare sembra che cominci ad imbrogliarsi! - Voi che siete un guascone dovreste sbrogliarlo subito, - disse Mendoza. - Ci sono i cani sotto di noi. - Pei guasconi valgono meno dei lupi. - Tacete e fate fuoco invece, - disse il bucaniere. - Non è colle chiacchiere che si guadagnano le battaglie. - Toh! La chiama una battaglia! - brontolò Mendoza. - Io la chiamerei una misera scaramuccia! Quattro colpi d'archibugio rimbombarono uno dietro l'altro, facendo scappare una mezza dozzina di spagnuoli; gli altri però non lasciarono le erbe e continuarono a spingersi audacemente attraverso la foresta, sul cui margine erano ormai giunti. - Morte dell'inferno, - disse Buttafuoco, gettando via il cappello. - Ora non li fermeremo piú. - Gli spagnuoli? - Se si gettano fra i cespugli, nessun occhio potrà scovarli e nessuna palla potrà raggiungerli. Che cosa vorranno fare? Arrostirci? Si era voltato verso il guascone, il quale era disceso su uno dei rami piú bassi. - Signor soldato, - gli disse - volete prendervi la briga ora di distruggere la muta che urla sotto i nostri piedi? Dovete aver ancora una sessantina di colpi da sparare. - Io spero di averne anche di piú - rispose il guascone, il quale conservava un sangue freddo ammirabile. - Giacché l'avanguardia vi lascia inoperoso, massacratemi quei dannati mastini. - Preferirei uccidere degli uomini, - rispose Barrejo. - Ma quelli sono meno pericolosi! Vi affido un incarico piú difficile. - Un posto d'onore, - brontolò Mendoza, ridendo. - Sia pure - disse il guascone. - Se quei cani valgono gli uomini, m'incarico io di fare di loro una gigantesca frittata. Armò l'archibugio che aveva già caricato e con un colpo ben aggiustato abbatté il cane piú grosso, spaccandogli la testa. - E uno! - disse. - Quello non mangerà piú i miei polpacci. Mentre il guascone si arrabattava contro i mastini che latravano a piena gola intorno all'albero, impazienti di piantare i loro formidabili denti nelle carni dei fuggiaschi, Buttafuoco, il conte e Mendoza non cessavano di sparare qualche colpo a casaccio contro le cinquantine ormai scomparse nel bosco. Gli eroici soldati della vecchia Spagna, per nulla atterriti da quelle incessanti archibugiate che mettevano a dura prova il loro coraggio, non cessavano di avanzare, risoluti a raggiungere l'enorme albero de l cotone e a venire ad un corpo a corpo, sicuri, dato il loro numero, di aver facilmente ragione dei loro nemici. Avevano però da fare con uomini ben risoluti a vendere cara la pelle. Mentre il guascone continuava a fucilare i cani, Buttafuoco aveva impegnato una rapida conversazione col conte, interrotta di frequente dalle archibugiate di Mendoza. - È necessario sloggiare e salvarci fra le paludi - aveva detto il bucaniere. - Potremo spezzare il cerchio di ferro che sta per serrarsi intorno a noi? - aveva chiesto il signor di Ventimiglia. - Con una scarica improvvisa di archibugi ci apriremo una breccia sufficiente per passare. - E dopo? - Ci rifugeremo in mezzo ai pantani. - Mi hanno detto che queste paludi hanno dei banchi di sabbie mobili. - Li conosco. - E i cani? - Il vostro compagno sta fucilandoli con rara maestria. Ancora qualche minuto e non vi sarà piú un mastino sotto di noi ... Ah, ecco quello che temevo! Un bagliore sinistro era balenato a breve distanza dall'albero, poi un fastello di legna veniva scaraventato contro il tronco del bombax, facendo scappare i cinque o sei cani sfuggiti ai colpi del guascone. Un fumo denso, soffocante, che provocò agli assediati una tosse violentissima e che fece lagrimare istantaneamente i loro occhi, si alzò subito. - Del pimento! - gridò Buttafuoco. - A terra, amici, o non potremo piú resistere! Lasciate gli archibugi e preparatevi a lavorare con le spade. Giú! Un secondo fascio di legna, pure acceso, era stato scagliato. Anche quello era formato di rami di pepe rosso di Cajenna che sprigionavano un fumo infernale. - Sono carichi gli archibugi? - chiese Buttafuoco, il quale stava per spiccare il salto. - Sí! - Giú! e mano alle spade! I quattro uomini si lasciarono cadere. Un mastino si precipitò sul bucaniere, tentando di saltargli alla gola e di strangolarlo, ma il cacciatore, che si aspettava quell'assalto, balzò indietro con agilità prodigiosa afferrando il fucile per la canna e gli fracassò il cranio con un terribile colpo di calcio. Anche altri due, che si erano scagliati contro il conte e contro il guascone, non ebbero miglior fortuna. Due fulminei colpi di spada li fecero cadere l'uno sull'altro, con le gole squarciate. - Fuoco sulle cinquantine! - tuonò allora il bucaniere. Gli spagnuoli accorrevano con le alabarde in resta, urlando a piena gola: - Arrendetevi! Siete presi! Quattro colpi d'archibugio furono la risposta; poi il bucaniere ed i suoi compagni, approfittando della confusione manifestatasi fra gli assalitori per quell'improvvisa scarica, si slanciarono a corsa disperata verso il margine della foresta per guadagnare le paludi. Il guascone, che aveva le gambe piú lunghe degli altri e che era tutto nervi e muscoli, aveva la velocità d'un proiettile: chi si trovava forse un po' male era Mendoza; tuttavia non rimaneva indietro di molto. Gli spagnuoli si erano slanciati a loro volta, urlando ferocemente e aizzando i due ultimi cani che erano loro rimasti. Pareva però che le povere bestie, impressionate probabilmente dalla strage fatta dei loro compagni, non avessero molto desiderio di far la conoscenza con gli archibugi e con le spade di quei formidabili avversari, poiché non osavano spingersi troppo innanzi. In meno di cinque minuti i fuggiaschi attraversarono la piccola pianura e raggiunsero il margine delle paludi. - Fermatevi! - gridò Buttafuoco. - Vi possono essere dei banchi di sabbie mobili. Fate fronte agli spagnuoli per qualche minuto finché io non trovo il passaggio. Gli assalitori, vedendo i quattro uomini fermarsi e caricare precipitosamente gli archibugi, si arrestarono anch'essi, non osando esporsi al tiro di quei terribili tiratori. Buttafuoco, avendo scorto una lingua di terra coperta in parte di canne e di erbe palustri, si era slanciato risolutamente innanzi per cercare un passaggio che li conducesse in qualche luogo sicuro. Il conte e i suoi due compagni si erano intanto posti al riparo dietro il tronco d'un albero caduto per decrepitezza o abbattuto da qualche fulmine, ed avevano ricominciato a sparare, abbattendo i due ufficiali che guidavano le cinquantine. Gli alabardieri, spaventati dalla precisione terribile di quei tiri, si gettarono nuovamente fra le erbe, non sapendo in quale modo dare l'attacco. In quel momento non ringraziavano di certo i governatori che li avevano privati delle armi da fuoco. Mentre il conte e i suoi compagni mantenevano un fuoco abbastanza vivo, Buttafuoco continuava a perlustrare la palude che pareva di una estensione immensa. La sua paura era d'incontrare quelle terribili sabbie mobili che quando afferrano una preda, sia uomo o animale, non la restituiscono piú. Aveva spezzato una canna e si avanzava nell'acqua tastando il fondo. Ad un tratto il conte lo vide ritornare correndo, col volto giulivo. - Dunque? - chiese il signor di Ventimiglia, sparando un'altra archibugiata là dove vedeva scintillare gli elmetti degli alabardieri. - Ho trovato il passaggio - rispose il bucaniere. - Non sarà forse largo, tuttavia per noi basterà. - E i caimani? - Non preoccupatevi di quelle stupide bestiacce. Non ci daranno molti fastidi. Caricate gli archibugi e seguitemi tutti! Attenti sempre ai cani! Il conte ed i suoi compagni ricaricarono frettolosamente le loro armi, poi si slanciarono dietro al bucaniere, il quale correva lungo la piccola lingua di terra che aveva scoperta. I due cani, vedendoli scappare, avevano ripreso animo, mentre anche gli spagnuoli, comprendendo che i loro nemici stavano per sfuggire al tanto sospirato accerchiamento, si erano alzati agitando furiosamente le alabarde. In meno di mezzo minuto i fuggiaschi raggiunsero l'estremità della lingua di terra. - Fuori le spade e risparmiate la polvere! - gridò Buttafuoco. I due cani stavano per raggiungerli, aizzati dalle grida dei loro padroni. Il conte, che conservava un ammirevole sangue freddo, cacciò la sua spada fra le fauci spalancate del primo doz, immergendola fino a mezzo corpo, mentre Mendoza ed il guascone attaccavano coraggiosamente il secondo. Due guaiti avvertirono Buttafuoco che anche i due pericolosi avversari avevano avuto il loro conto. - In acqua, signori, - disse - e badate di seguirmi attentamente, perché ai vostri fianchi si trovano le sabbie mobili e chi vi cade dentro non ne esce piú. Se gli spagnuoli ci seguono, sparate uno per volta qualche colpo di archibugio. Ai caimani ci penso io. Erano entrati tutti nell'acqua fangosa della savana, immergendosi fino alla cintola, senza preoccuparsi gran che degli spagnuoli, i quali si erano slanciati animosamente sulla lingua di terra, con la speranza di poterli acciuffare o di vederli scomparire fra le sabbie traditrici. Buttafuoco tastava sempre il fondo con la sua canna e cercava di affrettare il passo, quantunque incespicasse ogni momento, essendovi sott'acqua delle erbe non meno perfide delle sabbie. Avevano cosí percorso circa cinquecento passi, quando videro alzarsi a breve distanza un isolotto coperto da una folta vegetazione e che pareva avesse un'estensione considerevole. - Ecco uno splendido rifugio! - disse Buttafuoco. - Se il fondo continua a mantenersi buono, sotto quelle piante potremo sfidare non due, ma anche dieci cinquantine. Mi pare già che gli spagnuoli non abbiano, almeno per il momento, alcuna intenzione di cacciarsi in acqua. Diavolo! Le sabbie mobili fanno troppa paura a tutti! Tastando sempre il terreno ed avanzando con grande precauzione, il bucaniere raggiunse l'isolotto e salí sulla riva, aggrappandosi a certe erbacce dure e coriacee, chiamate olgochloa e che sono cosí cattive che perfino le capre le rifiutano. Una massa di passiflore rampicanti si parò dinanzi al bucaniere. Sono piante che crescono molto rapidamente formando dei bellissimi festoni e che producono dei fiori purpurei con pistilli e stami bianchi con martello, chiodi, il ferro della lancia e tutti gl'istrumenti della Passione, che poi si tramutano in frutta gialle, ovoidali, grosse come poponcelli, assai apprezzate dagli abitanti, specialmente se cucinate con vino e molto zucchero. - Questo deve essere un piccolo paradiso! - mormorò Buttafuoco. - Probabilmente gli spagnuoli ci assedieranno ora, ma io credo che non riusciranno ad affamarci, come forse sperano. Conosco la ricchezza di questi isolotti. - Siamo giunti finalmente a casa? - chiese Mendoza. - Parrebbe - rispose Buttafuoco. - Che i nostri creditori vengano a romperci le tasche anche qui? - Mi sembra che abbiano rinunciato, per oggi o meglio per questa notte, ad importunarci. - Sono gente educata, - disse il guascone. - Se avessero però potuto mettervi le mani addosso, non so, mio caro signor soldato, se avreste ancora tanto spirito, - rispose il bucaniere, ridendo. - E lo dite a me? Oh li conosco io, quei signorini. Diavolo! Ci tengono poco a scherzare coi bucanieri. - E nemmeno i bucanieri con loro, - ribatté Buttafuoco. Noi siamo ancora in quattro e dubito molto che essi siano ancora in cento. Signor conte, volete dormire qualche ora? Pel momento nessun pericolo ci minaccia. - La gente di mare è abituata alle lunghe veglie e non sento affatto il desiderio di riposarmi, - rispose il signor di Ventimiglia. - Io preferirei una buona cena, - disse Mendoza. - La lingua di bufalo e anche l'arrosto di maiale non so piú dove si trovino. Probabilmente si sono affondati nei miei talloni, dopo tante corse furiose. - Io credo di averli sulle punte dei piedi, - disse il guascone con comica gravità. - Io non ho meno fame di voi, - disse il bucaniere. - Però sarete costretti, al pari di me, ad aspettare l'alba. Non posso già prendere degli uccelli di notte e qui noi non troveremo altro che uccelli. - E sarà già molto, - disse il conte, sorridendo. - Le paludi di San Domingo sono di solito molto frequentate dai pennuti, signore, ed una buona colazione non ci mancherà, purché gli spagnuoli ci lascino tranquilli. - Credete che tentino un nuovo attacco? - Ora che non hanno piú i cani, i quali costituiscono la vera forza delle cinquantine, non oseranno forse assalirci. È probabile però che mandino degli uomini a cercare dei rinforzi per assediarci. Di ciò però mi preoccupo ben poco. - E se circondassero la savana? - chiese il signor di Ventimiglia. - Eh! Ci vorrebbero almeno cento cinquantine ed il governatore di San Domingo non ne troverà mai tante. Se io ho un passaggio, non dispero di trovarne un altro e, prima che i rinforzi giungano, noi saremo a S. José, nella fattoria della marchesa. Là non correremo alcun pericolo, essendo io molto conosciuto dall'intendente. - Quest'uomo è veramente meraviglioso, - disse Mendoza. - Decisamente i filibustieri hanno una fortuna straordinaria. È bensí vero che gli spagnuoli ci credono figli o nipoti o pronipoti di compare Belzebú! È già qualche cosa anche questo. Il bucaniere ed il conte si erano coricati sotto una passiflora, sorvegliando attentamente le mosse degli spagnuoli, mosse assolutamente inoffensive, poiché non avevano osato abbandonare la penisoletta che s'avanzava nella savana. Sorvegliavano anche le acque, soprattutto quelle ingombre di erbe, per paura che qualche caimano tentasse di giungere di soppiatto fino all'isolotto per fare qualche buon colpo. Quelle brutte bestiacce non dovevano mancare in quella palude, però non si mostrarono. Probabilmente non si erano ancora accorte della presenza di quel gruppo d'uomini. Quando le tenebre cominciarono ad alzarsi, il bucaniere ed il conte, dopo essersi assicurati che gli spagnuoli erano sempre fermi sulla penisoletta, fecero una rapida escursione attraverso all'isolotto, onde cercare un passaggio che permettesse loro di sfuggire alla sorveglianza dei loro avversarii. Quel pezzo di terra era ingombro di ponted eire, bellissimi cespi di foglie d'un verde lucente e di fiori azzurri e di aristolochie dalle foglie ovali, i fiori lividi in forma di sifoni, col tronco grosso come una botte e radici gigantesche le quali s'alzavano fuori dalla terra come serpenti smisurati. Non mancavano però le piante d'alto fusto. Qua e là s'ergevano, a gruppi, delle quercie, delle magnolie acuminate cariche di certe frutta somiglianti ai cetriuoli, d'un bel rosso lucente, e che si adoperano con successo per guarire le febbri intermittenti, e anche dei noci neri, di dimensioni gigantesche e molto frondosi. Numerosi volatili fuggivano dinanzi al corsaro ed al bucaniere. Erano corvi di mare, piú grossi dei galli, ferocissimi perché osano assalire perfino le persone ferite impotenti a difendersi; fenicotteri, tantali verdi, ibis bianche e botauri, bellissimi volatili alti quasi due piedi, colle penne brune rigate, il ventre grigiastro, il becco acutissimo e gli occhi gialli e molto delicati. - Occupiamoci prima del passaggio, - disse il bucaniere al conte, il quale si preparava a sparare qualche colpo onde procurarsi una buona colazione. - Avremo tempo per massacrare questi volatili, i quali non mi sembrano molto spaventati per la nostra presenza. - Sperate di trovarlo? - Eh! ... Le savane di quest'ísola sono molto difficili ad attraversarsi in causa delle sabbie mobili che costituiscono il fondo. Ma io non dispero di trovare qualche costa che ci permetterà di farla agli spagnuoli. Voi siete sicuro che la vostra nave vi aspetta sempre al capo Tiburon? - Non scioglierà le vele senza mio ordine, - rispose il conte. - Allora possiamo andare alla fattoria della marchesa. Senza il suo appoggio sarà un po' difficile che voi possiate lasciare San Domingo. A quest'ora tutte le cinquantine saranno in movimento per catturarvi. I tre famosi corsari non sono stati dimenticati e gli spagnuoli devono essere molto spaventati nell'apprendere che ve n'era un quarto che batte ancora le acque del gran golfo e che non si sa che cosa voglia fare. - Forse è questo che farà venir loro la febbre, - disse il conte. - Che cosa io sia venuto a fare qui tutti lo ignorano. Certamente io non ho varcato l'Atlantico per continuare le gesta di mio padre e dei miei zii. Il bucaniere si era voltato vivamente, guardando fisso il figlio del Corsaro Rosso. - Delle vendette? - chiese. - Quelle verranno piú tardi, - rispose il signor di Ventimiglia, con voce grave. - Ho prima altro da fare. Si era fermato, guardando a sua volta fisso fisso il bucaniere. - Siete stato nel Darien, voi? - gli disse ad un tratto. - Sí; con Wan Horn, - rispose Buttafuoco. - Conoscete dunque quel paese? - Abbastanza bene: si trattava allora di attraversarlo con l'aiuto di un grande cacico, nemico terribile degli spagnuoli, per andare ad assalire Granata. - Come si chiamava quel grande cacico? - Hara. - Aveva delle figlie, non è vero? - Sí, signor conte. - Date spose a dei famosi filibustieri? - Questo lo ignoro - rispose Buttafuoco. - È lui. - Chi? Il conte, invece di rispondere, si mise a guardare la savana che si estendeva dinanzi a lui a perdita d'occhio, interrotta qua e là da isolotti e da altifondi coperti da una vegetazione superba. - Saremo costretti ad attraversarla? - chiese dopo un lungo silenzio. - Sí, signor conte - rispose Buttafuoco. - Non possiamo tornare indietro: perderemmo la vita, poiché sono certo che gli spagnuoli hanno mandato dei corrieri per aver degli aiuti e le cinquantine che giungeranno non saranno solamente armate di alabarde. - Quando partiremo? - Questa sera stessa, perché i nostri nemici non s'accorgano della direzione che prenderemo. - È lontana la fattoria della marchesa? - È piú vicina di quello che supponete - rispose Buttafuoco. Con una rapida marcia vi potremo giungere in cinque o sei ore. - Cerchiamo la colazione, allora. - Un momento, signor conte; è la costa che mi occorre trovare. Se non riesco a scoprirla, non potremo allontanarci dall'isolotto. Spezzò una canna, armò l'archibugio per essere piú pronto a far fuoco sui caimani e avanzò nell'acqua tastando il fondo. Aveva percorso una quindicina di passi, quando il conte lo vide ritornare. - Abbiamo una fortuna meravigliosa, - disse - il fondo è ottimo e non vi sono sabbie. Signori spagnuoli, ci aspetterete un bel po' e quando vi metterete in marcia non troverete che dei caimani ... Signor conte, guadagniamoci ora la colazione. Non sarà una faccenda lunga. Getteremo giú una mezza dozzina di scoiattoli e ci procureremo un arrosto squisito. Rifecero il cammino percorso, costeggiando specialmente i noci neri, ed aprirono quasi subito il fuoco. Fra gli enormi rami delle grosse piante saltavano disperatamente o meglio volavano dei graziosi animaletti, un po' piú grossi dei topi, col pelame grigio perla sopra e bianco argenteo sotto, con gli orecchi piccoli e neri, il muso roseo ed una splendida coda che pareva una magnifica piuma di struzzo. Erano degli scoiattoli volanti i quali, spaventati dalla presenza di quei due sconosciuti, cercavano di mettersi in salvo, come se avessero già indovinate le malevole intenzioni del bucaniere. Quantunque rassomiglino un po' a quelli che si trovano nelle foreste d'Europa, ne differiscono per una membrana pelosa che unisce le gambe posteriori a quelle anteriori, permettendo loro di spiccare delle vere volate che si prolungano talvolta perfino di cinquanta e più passi. Avevano però da fare con un tiratore meraviglioso; cosicché, in meno di cinque minuti, sette od otto di quei graziosi roditori, mitragliati dal bucaniere, caddero al suolo insieme ad un gran numero di noci che potevano servire benissimo come ottima frutta. Mendoza ed il guascone, che già s'immaginavano di avere una buona colazione con un cacciatore cosí famoso, avevano nel frattempo acceso un allegro fuoco e raccolte delle erbe aromatiche per rendere l'arrosto piú gustoso. I quattro uomini scuoiarono in pochi istanti le bestiole, le infilarono nella bacchetta di ferro d'uno degli archibugi e le misero sopra i carboni, girando quello spiedo primitivo su due forchettoni di legno piantati nel suolo. Mendoza si era improvvisato cuoco, dopo che il guascone gli aveva solennemente dichiarato di saper divorare anche sei beccaccini l'uno dietro l'altro, ma di non saperseli cucinare. Il buon marinaio non aveva né protestato, né brontolato; anzi, aveva guardato con ammirazione quel formidabile mangiatore, chiedendogli solamente per quale motivo i guasconi, pur essendo divoratori, non ingrassavano. Non occorre dire che la domanda era rimasta senza risposta, perché anche don Barrejo non avrebbe saputo dare su quello strano caso nessuna spiegazione plausibile. Il fatto sta che gli scoiattoli scomparvero tutti e la maggior parte passò nel ventre del guascone. Finita la colazione, i quattro uomini si occuparono subito degli spagnuoli, temendo sempre un improvviso colpo di mano. Quelli invece pareva che per il momento non si occupassero affatto di loro. Avevano acceso dei fuochi all'estremità della penisoletta e divoravano la loro colazione tranquillamente, composta forse di testuggini, poiché quei preziosi rettili abbondano intorno alle savane sandominghesi.. - Attendono dei rinforzi - disse Buttafuoco al conte. - Se noi non ci affrettiamo a scappare, circonderanno la palude, e allora sarà bravo chi potrà sfuggire all'accerchiamento. Le cinquantine non si trovano però lí per lí, e possono passare parecchi giorni prima che arrivino. Certo che noi non aspetteremo il momento terribile e fileremo attraverso le acque e anche fra le sabbie mobili. Penserà poi la marchesa a farvi scappare, signor conte. - Sarà la seconda volta - rispose il conte. - A lei tutto è facile - disse Buttafuoco. Aprí una tasca di cuoio che portava al fianco e offrí al conte un grosso sigaro dicendogli: - Potrete con questo ingannare il tempo. È tabacco cubano che ho potuto avere dai filibustieri della Tortue, e non ne troverete del migliore, ve lo assicuro io. Il conte stava per prendere il sigaro, quando un colpo d'archibugio rimbombò e una palla fischiò sopra di loro. Il basco si alzò precipitosamente, afferrando il suo fucile. - Signor conte - disse con la voce un po' alterata - sono giunti dei rinforzi agli spagnuoli e si preparano a prenderci a fucilate. Poi, alzando la voce, disse a Mendoza ed al guascone: - S'impegna battaglia: attenti alle palle!

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

Gli abbaiamenti continuavano ognor più furiosi, segno infallibile che la tigre era stata scoperta. Bhagavadi affrettò il passo movendo intrepidamente verso una grande macchia di bambù tulda, in mezzo alla quale s'erano cacciati i botoli. A cento passi di distanza fu trovato uno dei cani orrendamente sventrato da un poderoso colpo d'artiglio. L'elefante cominciò a dare segni d'inquietudine, agitando vivamente la proboscide dall'alto in basso. - Bhagavadi la sente, - disse Macpherson. - Sta' bene attento mahut e bada che l'elefante non dia indietro o che esponga troppo la sua tromba. La tigre gliela sbranerà come l'anno scorso. - Rispondo di tutto, padrone. Fra i bambù s'alzò un formidabile ruggito a cui nessun grido è paragonabile. Bhagavadi s'arrestò fremendo ed emettendo sordi barriti. - Avanti! - gridò il capitano Macpherson, le cui dita si raggrinzavano sul grilletto della carabina. Il mahut lasciò andare un colpo di uncino sul pachiderma, il quale si mise a sbuffare in orribile modo, arrotolando la proboscide e presentando le due aguzze zanne. Fece ancora dieci o dodici passi poi tornò a fermarsi. Dai bambù si slanciò fuori, simile a un razzo, una gigantesca tigre emettendo un formidabile miagolìo. Il capitano Macpherson lasciò partire la scarica. - Tuoni e fulmini! - gridò irritato. La tigre era ricaduta fra i bambù prima di essere stata toccata. Si slanciò altre due volte nell'aria, facendo balzi di dodici metri e scomparve. Bhârata fece fuoco in mezzo al macchione, ma la palla andò a fracassare la testa di un botolino mezzo sbranato, che si trascinava penosamente fra le erbe. - Ma ha il diavolo in corpo quella tigre, - disse il capitano, assai di cattivo umore. - È la seconda volta che sfugge alle mie palle. Come va questa faccenda? Bhagavadi si rimise in marcia, con molta precauzione, facendosi prima largo colla proboscide, che si affrettava però a ritirare subito. Fece altri cento metri, preceduto dai cani che andavano e venivano cercando la pista del felino, poi fece alto piantandosi solidamente sulle gambe. Tornava a tremare ed a sbuffare fragorosamente. Davanti a lui, a meno di venti metri, stava un gruppo di canne da zucchero. Un buffo d'aria impregnata d'un forte odore di selvatico, giunse fino ai cacciatori. - Guarda! guarda! - gridò il capitano. La tigre s'era slanciata fuori dalle canne movendo con rapidità fulminea verso il pachidermo il quale s'era affrettato a presentare le zanne. Vi giunse quasi sotto, sfuggendo alle carabine dei cacciatori, si raccolse su se stessa e piombò in mezzo alla fronte dell'elefante cercando con un colpo d'artiglio d'afferrare il mahut, che s'era gettato all'indietro urlando di terrore. Già stava per raggiungerlo, quando in lontananza echeggiarono alcune note acute emesse da un ramsinga. Sia che si spaventasse o altro, la tigre fece un rapido voltafaccia e si precipitò giù, cercando di raggiungere la macchia. - Fuoco! - urlò il capitano Macpherson, scaricando la carabina. Il felino mandò un ruggito tremendo, cadde, si rialzò, varcò la macchia e ricadde dall'altra parte, rimanendo immobile come se fosse stato fulminato. - Hurrà! hurrà! - urlò Bhârata. - Bel colpo! - esclamò il capitano, deponendo l'arma ancor fumante.- Getta la scala. - Il mahut ubbidì. Il capitano Macpherson impugnato il coltellaccio giunse a terra e si diresse verso la macchia. La tigre giaceva inerte presso un cespuglio. Il capitano, con sua grande sorpresa, non iscorse su quel corpo alcuna ferita, né per terra macchie di sangue. Ben sapendo che le tigri talvolta si fingono morte per gettarsi di sorpresa sul cacciatore, stava per tornare indietro, ma gli mancò il tempo. Il misterioso suono del ramsinga tornò a echeggiare. La tigre a quella nota scattò in piedi, si scagliò sul capitano e lo atterrò. La sua enorme bocca, irta di denti, si spalancò sopra di lui pronta a stritolarlo. Il capitano Macpherson, inchiodato al suolo, in maniera da non potersi muovere, né servirsi del coltellaccio, emise un grido d'angoscia. - A me! ... Sono perduto. - Tenete fermo, ci sono! - urlò una voce tonante. Un indiano si gettò fuori della macchia, afferrò la tigre per la coda e con un violento strappone la scaraventò da una parte. S'udì un ruggito furioso. L'animale, pazzo di collera, s'era prontamente alzato per gettarsi sul nuovo nemico; ma, cosa strana, inaudita, appena che l'ebbe scorto fece un rapido voltafaccia e s'allontanò con fantastica rapidità, scomparendo fra l'inestricabile caos della jungla. Il capitano Macpherson, sano e salvo, s'era prontamente levato in piedi. Un profondo stupore si dipinse tosto sui suoi lineamenti. A cinque passi da lui stava un indiano di forme muscolose, grandemente sviluppate, con una testa superba, piantata su due larghe e robuste spalle. Un piccolo turbante ricamato in argento copriva il suo capo ed ai fianchi portava un sottanino di seta gialla, stretto da un bellissimo scialle di cachemire. Quell'uomo, che aveva intrepidamente affrontato la tigre non aveva alcuna arma. Colle braccia incrociate, lo sguardo sfavillante d'ardire, egli fissava con curiosità il capitano, conservando l'immobilità d'una statua di bronzo. - Se non m'inganno, ti devo la vita, - disse il capitano. - Forse, - rispose l'indiano. - Senza il tuo coraggio a quest'ora sarei morto. - Lo credo. - Dammi la mano; tu sei un prode. L'indiano strinse, con un tremito, la mano che Macpherson gli porgeva. - Posso io conoscere il tuo nome, o mio salvatore? - Saranguy, - rispose l'indiano. - Non lo scorderò mai. Fra loro due successe un breve silenzio. - Cosa posso fare per te? - ripigliò il capitano. - Nulla. Macpherson estrasse una borsa rigonfia di sterline e gliela porse. L'indiano la respinse con nobile gesto. - Non so che farne dell'oro, - dissegli. - Sei ricco tu? - Meno di quello che credete. Sono un cacciatore di tigri delle Sunderbunds. - Ma perché ti trovi qui? - La jungla nera non ha più tigri. Sono salito al nord a cercarne delle altre. - E dove vai ora? - Non lo so. Non ho patria, né famiglia; erro a capriccio. - Vuoi venire con me? Gli occhi dell'indiano mandarono un lampo. - Se avete bisogno d'un uomo forte e coraggioso, che non teme né le belve, né l'ira degli dei, sono vostro. - Vieni, o prode indiano, e non avrai a lagnarti di me. Il capitano girò sui talloni, ma s'arrestò subito. - Dove credi che sia fuggita la tigre? - Molto lontano. - Sarà possibile trovarla! - Non lo credo. Del resto m'incarico io d'ammazzarla, e fra non molto tempo. - Ritorniamo al bengalow. Bhârata, che aveva assistito con stupore a quella scena, li aspettava presso l'elefante. Egli si slanciò contro al capitano. - Sei ferito, padrone? - gli chiese, ansiosamente. - No, mio bravo sergente, - rispose Macpherson. - Ma se non giungeva questo indiano, non sarei ancora vivo. - Sei un grand'uomo, - disse Bhârata a Saranguy. Non ho mai veduto un simile colpo; tu tieni alta la fama della nostra razza. - Un sorriso fu l'unica risposta dell'indiano. I tre uomini salirono nell'hauda e in meno di mezz'ora raggiunsero il bengalow dinanzi al quale li aspettavano i sipai. La vista di quei soldati fece corrugare la fronte di Saranguy. Parve inquieto e represse con grande sforzo un gesto di dispetto. Per fortuna nessuno avvertì quel movimento che fu, del resto, rapido come un lampo. - Saranguy, - disse il capitano, nel momento che entrava con Bhârata, - se hai fame, fatti additare la cucina; se vuoi dormire, scegli quella stanza che meglio ti accomoda; e se vuoi cacciare, domanda quell'arma che meglio ti conviene. - Grazie, padrone, - rispose l'indiano. Il capitano entrò nel bengalow. Saranguy si sedette presso la porta. La sua faccia era diventata allora assai cupa e gli occhi brillavano d'una strana fiamma. Tre o quattro volte s'alzò come se volesse entrare nel bengalow, e sempre tornò a sedersi. - Chissà quale sorte toccherà a quell'uomo, mormorò egli con voce sorda. - Forse la morte. È strano, eppure quell'uomo mi interessa, eppure sento che quasi lo amo! Appena lo scorsi sentii il mio cuore fremere in modo inesplicabile; appena udii la sua voce mi sentii quasi commosso. Non so, ma quel volto somiglia ... Non nominiamola ... Tacque diventando ancor più tetro. - E sarà qui lui? - si chiese d'un tratto. - E se non vi fosse? Si alzò per la quinta volta e si mise a passeggiare colla testa china. Passando dinanzi ad un recinto, udì alcune voci che venivano dall'interno. Si arrestò alzando bruscamente la testa. Parve indeciso, si guardò attorno come volesse assicurarsi che era solo, poi si lasciò cadere ai piedi della palizzata, tendendo con molta attenzione gli orecchi. - Te lo dico io, - diceva una voce. - Il birbone ha parlato dopo le minaccie di morte del capitano Macpherson. - Non è possibile, - diceva un'altra voce. - Quei cani di thugs non si lasciano intimidire dalla morte. Ho visto coi miei propri occhi, delle diecine di thugs lasciarsi fucilare senza nulla dire. - Ma il capitano Macpherson ha dei mezzi ai quali nessuna creatura umana resiste. - Quell'uomo è molto forte. Si lascierà strappare di dosso la pelle, prima di dire una sola parola. Saranguy divenne più attento, e accostò viepiù l'orecchio alla palizzata. - E dove credi che l'abbiano rinchiuso? - chiese la prima voce. - Nel sotterraneo, - rispose l'altra - Quell'uomo è capace di scappare. - È impossibile, poiché le pareti hanno uno spessore enorme, di più uno dei nostri veglia. - Non dico che scapperà da solo, ma aiutato dai thugs. - Credi tu che ronzino da queste parti? - La scorsa notte abbiamo udito dei segnali e mi si disse che un sipai scorse delle ombre. - Mi fai venire i brividi. - Hai paura tu? - Puoi crederlo. Quei maledetti lacci di rado falliscono. - Avrai paura ancora per poco - Perché? - Perché li assaliremo nel loro covo. Negapatnan confesserà tutto. Saranguy udendo quel nome era balzato in piedi, in preda ad una viva eccitazione. Un sorriso sinistro sfiorò le sue labbra e guardò trucemente. - Ah! - esclamò egli con voce appena distinta. - Negapatnan è qui! I maledetti saranno contenti.

Vi era da pochi minuti, quando la tigre balzò in piedi facendo udire un sordo miagolio a cui fecero eco i festosi abbaiamenti di Punthy. Kammamuri si alzò, credendo che arrivassero i cacciatori, ma non vide alcuno. Si volse ed appoggiato allo stipite della porta, scorse Tremal-Naik. - Tu, padrone! - esclamò egli con stupore. - Tu! ... - Sì, Kammamuri, - rispose Tremal-Naik, con un amaro sorriso. - Quale imprudenza! ... Sei ancora convalescente e ... - Taci, sono forte, più forte di quello che credi,- rispose il cacciatore di serpenti quasi con rabbia. - Ho sofferto troppo in quell'amaca, è ora che la sia finita. Egli fece alcuni passi innanzi senza barcollare, senza dimostrare fatica e sedette fra le erbe, prendendosi la testa fra le mani e guardando fisso il sole che tramontava all'occidente. - Padrone, - disse Kammamuri, dopo alcuni istanti di silenzio. - Cosa vuoi? - I cacciatori non sono ancora tornati. Temo che sia accaduta qualche disgrazia. - Chi te lo dice? - Nessuno, ma lo sospetto. Nella jungla possono aggirarsi quegli uomini che assassinarono Hurti e pugnalarono te. La faccia di Tremal-Naik divenne cupa. - Sono forse qui? - chiese egli. - Forse. - Presto, Kammamuri, sarò guarito, ritorneremo in quell'isola maledetta e li stermineremo tutti, tutti! - Che? ... - esclamò Kammamuri, con ispavento. Noi ritornare in quell'isola? ... Padrone, cosa dici? - Hai paura tu? - No, ma ritornare laggiù, in quei luoghi, è una follia. - Follia! ... Follia tu dici? ... Non sai tu adunque chi ho lasciato laggiù, nelle mani di quegli uomini? - Chi mai? - La vergine della pagoda. - Chi è questa donna? - Una creatura bella, Kammamuri, che io amo alla pazzia, e per la quale metterei l'India in fiamme. - Hai lasciato una donna laggiù? - Sì, Kammamuri, quella stessa che io mirava al tramontare del sole nella mia jungla. Ada! Ada! Quanto m'hai fatto soffrire! - È la visione adunque? - Sì, la visione. - Ma come si trova a Raimangal? - Una condanna pesa sulla disgraziata fanciulla, Kammamuri. Quei mostri la tengono in loro mano, non so il come, né il perché. Io l'ho veduta nella pagoda a versare dei profumi ai piedi d'un mostro di bronzo. - D'un mostro! ... Quella donna sarà forse al pari degli altri. - Non ripetere quest'insulto, Kammamuri, - esclamò Tremal-Naik, con accento minaccioso. - Son gli uomini che l'han condannata, che le fanno adorare quel mostro di bronzo! Lei feroce! ... Lei! ... povera fanciulla! ... - Perdono, padrone - balbettò il maharatto. - Non sapevi nulla e ti perdono. Ma quegli uomini che l'han condannata, che la fanno morire di pianto, quegli uomini che le straziano il cuore e mi fan barriera onde non la salvi dai loro artigli, li esterminerò tutti, Kammamuri, tutti! Ho qui nel petto ancor le traccie del loro pugnale, e mi faranno ricordare in ogni tempo la vendetta! Non rimarrai no, nelle loro mani, o infelice Ada, perché Tremal-Naik, dovesse pagare colla sua vita la tua libertà, ti toglierà da quegli orribili luoghi per quanto sieno ben guardati e irti di ostacoli. Tremino allora coloro che t'avranno tormentata, coloro che hanno avvelenato la tua giovane esistenza. Darma ed io c'incaricheremo di ucciderli tutti, nelle loro spaventevoli caverne! - Mi fai paura, padrone. E se ti uccidessero? - Morrò per colei che amo! - esclamò con trasporto appassionato Tremal-Naik. - E quando partiremo? - Appena avrò la forza d'alzare la carabina. Son già forte, ma non tanto da pugnare contro tutti loro. In quell'istante, al sud, rimbombò una fucilata seguita tosto da due altre detonazioni. Darma fece un salto, mugolando. Il maharatto e Tremal-Naik scattarono in piedi, trattenendo Punthy che abbaiava furiosamente. - Cosa succede? - chiese il maharatto, strappandosi dalla cintola il coltellaccio. - Kammamuri! ... Kammamuri! ... , - gridò una voce. - Chi chiama? - chiese Tremal-Naik. - Grande Brahma! ... Manciadi! - esclamò il maharatto. Infatti il bengalese, con rapidità grandissima attraversava la jungla, sfondando la fitta cortina di bambù ed agitando come un pazzo la carabina. Pareva in preda ad un vivo terrore. - Kammamuri! ... Kammamuri! - ripeté egli con voce strozzata. - Corri, Manciadi, corri! - gridò il maharatto. Che sia inseguito? Attenta, Darma! La tigre si raccolse su se stessa cogli artigli aperti, e aprì la bocca mostrando una doppia fila di denti aguzzi. Il bengalese, che correva molto rapidamente, in pochi minuti giunse alla capanna. Il miserabile aveva la faccia insanguinata per una ferita che s'era fatta sulla fronte per meglio colorire il tradimento ed aveva la tunica pure macchiata. - Padrone! ... Kammamuri! - esclamò egli, piangendo disperatamente. - Cosa ti è accaduto? - chiese Tremal-Naik con angoscia. - Hanno ferito a morte Aghur! ... Povero me ... non ne ho colpa, padrone ... ci sono balzati addosso ... Aghur! povero Aghur! - L'hanno ferito! - esclamò Tremal-Naik con furore. - Chi? Chi? - I nemici ... gl'indiani dai lacci ... - Maledizione! ... Parla, narra, di' su, voglio saper tutto! - Eravamo seduti in un bosco di giacchieri, disse il miserabile, continuando a singhiozzare. - Ci sono balzati addosso prima che potessimo prendere le armi ed Aghur è caduto. Io ho avuto paura e sono fuggito. - Quanti erano? - Dieci, dodici, non ricordo bene quanti. Sono fuggito per miracolo. - È morto Aghur? - No, padrone, non può esser morto. L'hanno pugnalato, poi sono scomparsi. Fuggendo, udii il ferito gridare, ma non ebbi il coraggio di ritornare presso di lui. - Sei un vigliacco, Manciadi! - Padrone, se fossi ritornato mi avrebbero ucciso, - singhiozzò il bengalese. - Quando la finiranno adunque? - gridò Tremal-Naik. - Kammamuri, forse Aghur non è morto; bisogna andarlo a trovare e portarlo qui. - E se mi assaltano? - chiese Kammamuri, terrorizzato. - Prenderai con te Darma e Punthy. Con questi animali puoi tenere testa a cento uomini. - Ma chi mi guiderà? - Manciadi. - E tu vuoi rimanere nella capanna solo? - Basto io solo per difendermi. Va' e non perdere tempo, se vuoi salvare il povero Aghur. Manciadi, guida quest'uomo al bosco. - Padrone ho paura. - Guida quest'uomo al bosco; se esiti, ti faccio sbranare dalla tigre. Tremal-Naik aveva pronunciato quelle parole con tale tono, da far comprendere a Manciadi che non era uno scherzo. Affettando il massimo terrore, si unì al maharatto che si era armato della carabina e d'un paio di pistole. - Padrone, - disse Kammamuri, - se fra due o tre ore non ritorniamo, vorrà dire che siamo stati assassinati. Il canotto è arenato sulla riva; penserai a metterti in salvo. - Mai! - esclamò Tremal-Naik. - Ti vendicherò a Raimangal; taci e parti. Il maharatto e Manciadi, preceduti dal cane e dalla tigre, si slanciarono di corsa in mezzo alla jungla. Il sole era di già scomparso sotto l'orizzonte, ma la luna sorgeva, spandendo una luce azzurrognola, d'una infinita dolcezza, sufficiente per guidare i due indiani attraverso la massa dei bambù. - Camminiamo con precauzione e in silenzio, disse Kammamuri a Manciadi. - Non bisogna attirare l'attenzione dei nemici, che forse si tengono nascosti a poca distanza da noi. - Hai paura, Kammamuri? - chiese il bengalese, che non tremava più. - Credo di sì. Per fortuna, con noi abbiamo Darma, una valorosa bestia che non teme cinquanta uomini armati. - Ti avverto, Kammamuri, che io non entrerò nel bosco. - Mi aspetterai dove meglio ti piacerà, e se vuoi ti lascierò Punthy, un bravo cane che sa strozzare una mezza dozzina di persone. Avanti e silenzio. Manciadi, che aveva già tracciato il suo piano, condusse il maharatto sul sentiero che aveva percorso al mattino e lo seguì per tre quarti d'ora. S'arrestò sul margine del bosco di giacchieri. - È qui? - chiese Kammamuri, guardando con ansietà sotto gli alberi. - Sì, qui, - rispose Manciadi, con fare misterioso. - Segui questo sentieruzzo che s'addentra nel bosco e giungerai allo stagno, sulle cui rive è caduto Aghur. Io qui t'aspetto, nascosto in quella fitta macchia. - Vuoi il cane? - Amo meglio esser solo. Gl'indiani non mi scopriranno, ne sono certo. - Fra mezz'ora io sono di ritorno. Darma, sta' attenta e pronta a piombare sul primo uomo che si presenta dinanzi a noi, e tu, Punthy, preparati pure a strozzare qualcuno. La tigre fece udire un basso ruggito e si mise dinanzi al maharatto colle corte orecchie alzate ed il cane gli si mise dietro mostrando i denti. - Benone, - disse Kammamuri, quando vide il bengalese nascosto nella macchia. - Nessuno ardirà avvicinarsi senza il permesso di queste care bestie. Entrarono nel bosco sotto il quale regnava una profonda oscurità ed un silenzio funebre e s'avanzarono sul sentiero, senza produrre rumore di sorta. Kammamuri più volte si fermò sperando di udire qualche lamento o qualche chiamata che segnalasse la presenza di Aghur, ma nulla giungeva al suo orecchio. - È strano, - mormorava, tergendosi il sudore che colavagli in gran copia dalla fronte. - Se fosse ancora vivo, si udirebbe qualche lamento, ma qui regna un silenzio perfetto. Che sia morto? Aveva percorso da trecento a quattrocento passi, quando udì qualcuno che zuffolava un'arietta malinconica. Era la medesima arietta che Manciadi aveva zuffolato prima d'assassinare Aghur. La tigre si mise a brontolare volgendo la testa all'indietro e il cane diè segni d'inquietudine, ringhiando. - Attenti, piccini, - disse Kammamuri, che sentivasi gelare il sangue. - State vicini a me e lasciate che quell'uomo zuffoli a suo piacimento. Credo che per Aghur sia finita. Una nube oscurò la luna e le tenebre divennero più fitte sotto il bosco. Kammamuri si arrestò, indeciso se dovesse avanzare o tornare indietro, poi tirò innanzi colle pistole montate. - Kammamuri! - gridò una voce. - Kammamuri! - ripeté una seconda voce. - Kammamuri!- riprese una terza. La tigre si mise a ruggire sferzandosi i fianchi colla coda e saltando come se fosse su di un braciere. Cercò due o tre volte di slanciarsi a destra del sentiero, ma il maharatto, con un fischio, la richiamava al posto. - Calma, piccina, calma, - diss'egli. - Lasciate che chiamino. Non sono spiriti, ma uomini che si divertono a spaventarmi. Se ritorno alla capanna, posso ringraziare Visnù d'avermi protetto. Allungò il passo con una pistola puntata a destra del sentiero e l'altra a sinistra e poco dopo giungeva in vista dello stagno. Un fascio di luce lunare piombò in quel luogo, illuminandolo come in pieno giorno. Kammamuri, con indicibile spavento, scorse a terra un corpo umano su cui si agitava un gruppo di marabù. Punthy si slanciò verso quel cadavere urlando lamentosamente e mettendo in fuga i voraci volatili. - Aghur! - esclamò Kammamuri, singhiozzando. Corse come un pazzo allo stagno e si gettò sul corpo dell'infelice suo compagno. Aveva ancora il laccio attorno al collo ed il corpo era stato straziato dai marabù. - Aghur! Mio povero Aghur! - ripeté Kammamuri, abbracciando il cadavere. - Ah! miserabili! D'un tratto emise un urlo terribile e i suoi occhi si fissarono su di una pietra, contro la quale era appoggiata la testa di Aghur. Ai pallidi raggi della luna, aveva letto, fremendo, le seguenti parole scritte a lettere di sangue: "Kammamuri, Manciadi mi ha assass ... ". Il maharatto balzò in piedi. Comprese tutto il tradimento del bengalese e il pericolo che correva il padrone. - Darma! Punthy! - gridò egli con voce strozzata.- Alla capanna! ... Alla capanna! ... Si uccide il padrone. E si slanciò attraverso la foresta preceduto dalla tigre e seguito dal cane, che abbaiava con furore! Nel mentre Kammamuri correva come un daino sotto le cupe volte di verzura, il bengalese non perdeva il suo tempo. Rimasto solo, erasi subito slanciato fuori della macchia correndo precipitosamente verso la capanna, risoluto a strangolare la seconda vittima. Sapeva di avere un vantaggio di un buon quarto d'ora sul maharatto, nondimeno divorava la via colla velocità di una palla di cannone, paventando di venire colto sul fatto dalla tigre e dal cane, dai quali animali aveva tutto da temere. Attraversò la jungla impiegando meno di mezz'ora e si fermò sul margine della piantagione, dopo di avere preparato un secondo laccio. - Il padrone deve tenersi in guardia, - mormorò egli. - Se mi vede tornare, crederà che io abbia abbandonato Kammamuri e mi spaccherà la testa con una palla di carabina. Quell'uomo non ischerza. Aprì adagio adagio i bambù e guardò verso il nord. A quattrocento passi di distanza scorse la capanna ed accanto ad essa Tremal-Naik in piedi, colla carabina in mano. - Ah! - esclamò il miserabile. - Ucciderlo non sarà tanto facile, ma Manciadi è più furbo di un cacciatore di serpenti. Ripigliò la corsa verso l'est, trottando furiosamente per sei o sette minuti, poi si slanciò nella pianura. La capanna stava alla sua destra e Tremal-Naik gli mostrava un fianco. Con un po' d'astuzia poteva avvicinarsi e cogliere la vittima alle spalle. La sua risoluzione fu prontamente presa. Si mise a strisciare fra le erbe come un serpente, allungandosi quanto poteva onde non venire scorto da Tremal-Naik e procurando di non far rumore. Però, il venticello che sfiorava la piantagione, curvando dolcemente le alte cime dei bambù, produceva un leggiero stropiccio, sufficiente per coprire lo strisciare di un uomo. Così avanzando e soffermandosi per tendere gli orecchi e guardare Tremal-Naik che pareva non s'accorgesse di nulla, riuscì a guadagnare la capanna. Con uno scatto da tigre si rizzò. Un sorriso atroce sfiorava le sue labbra. - È mio, - mormorò con un filo di voce. - Kâlì mi protegge. Camminò in punta dei piedi lungo le pareti della capanna e si fermò a dieci passi da Tremal-Naik. Diede un ultimo sguardo alla jungla e non scorse nessuno. Un secondo sorriso, più crudele del primo, apparve sulle labbra ed i suoi occhi scintillarono come quelli di un gatto. Un secondo ancora e la vittima sarebbe caduta per non più rialzarsi. Fece fischiare rapidamente il laccio attorno a sé e lo slanciò facendo un balzo avanti. Tremal-Naik piombò al suolo come un albero sradicato dal vento, ma, per un caso fortuito, una mano era rimasta presa nel laccio. - Kammamuri! - gridò il disgraziato, afferrando coll'altra mano la corda e tirando a sé con disperata energia. - Muori! muori! - urlò l'assassino, trascinandolo sul suolo. Tremal-Naik mandò un secondo grido. - Kammamuri! aiuto! - Eccomi - tuonò una voce. Manciadi digrignò i denti con furore. Sul limite della piantagione era improvvisamente apparso il maharatto: dinanzi, correva, con balzi giganteschi la tigre, fiancheggiata da Punthy. Un lampo squarciò la notte seguìto da una fragorosa detonazione. Manciadi fece un salto di dieci passi e s'avventò all'impazzata verso la riva vicina. Un secondo sparo rimbombò e Manciadi piombò nel fiume, scomparendo fra i gorghi.

Il cane, anziché ubbidire, mise le zampe sul bordo del canotto e raddoppiò i suoi abbaiamenti. Pareva in preda ad una forte eccitazione. I due indiani guardarono verso la jungla, ma non videro alcuno. Eppure Punthy doveva aver udito qualche rumore. Misero le pistole sui banchi, afferrarono i remi e si spinsero al largo rimontando il fiume. Non avevano ancora percorso trecento braccia, che il cane ricominciò ad abbaiare rabbiosamente. - Alto là! - gridò una voce imperiosa. Kammamuri si volse indietro stringendo nella dritta una delle pistole. Sulla riva, sul luogo da essi abbandonato, si teneva ritto un colossale indiano col laccio nella dritta e il pugnale nella sinistra. - Alto là! - ripeté egli. Kammamuri invece di ubbidire sparò. L'indiano si accasciò su se stesso agitando le braccia, indi scomparve fra i cespugli. - Arranca! Arranca, Aghur! - gridò il maharatto. Il canotto fendette rapidamente le acque dirigendosi verso il cimitero galleggiante, nel mentre che una voce tonante, ripiena di minaccia, gridava dalle coste dell'isola maledetta: - Ci rivedremo! ...

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

Agli abbaiamenti poco prima uditi, era succeduto un profondo silenzio che veniva rotto solamente dallo stormire degli alti pioppi e dei pini. Non una parola, non un passo che indicasse la presenza dei guerrieri incaricati di vegliare sull'accampamento, non quel russare che indica la vicinanza di uomini che dormono. - Hum! - esclamò. - Spira una cert'aria che non mi rassicura affatto. Strisciò verso l'apertura, alzò la tenda e guardò. Dapprima nulla vide essendo l'oscurità profonda; ma poi s'accorse che quel tratto di terreno, poco prima occupato dalle tende dei Tanana, era completamente libero. - I bricconi sono fuggiti! - esclamò. - Signor Hostrup, aprite gli occhi! - È spuntato il sole? - chiese il tenente sbadigliando. - Non ancora, ma vi dò un'altra nuova che vi sveglierà completamente. I nostri cari Tanana se ne sono fuggiti defraudandoci della nostra porzione di carne, a quanto pare, poichè non vedo vicino a me nessuna bistecca. - Dovevamo aspettarci qualche bricconata da quei messeri, mio caro fiociniere. Speriamo che tutto il male sia questo. - Forse che avete timore di qualche cosa di peggio? - Questa fuga precipitosa, le parole del capo, quell'insistenza nel chiederci se avevamo della polvere da regalare, se eravamo soli e dove avevamo lasciato la nostra slitta ... - Corpo d'una balena! - esclamò Koninson. - Sospettate forse ... - Che abbiano fatto una visita alla nostra slitta - terminò il tenente. - Se fosse vero, guai a loro! - Bah! Sarà un pò difficile il raggiungerli, tanto più che si dirigono verso est. - Verso est? Io ho udito gli abbaiamenti dei loro cani verso ovest, signor Hostrup. - Verso ovest! Sei propri sicuro? - Sicurissimo. - Allora gatta ci cova. Io temo di aver avuto da fare con uno scaltro briccone, e non sono più sorpreso se ci ha giocato questo brutto tiro. Affrettiamoci a raggiungere il fiume; ho fretta di arrivare alla slitta. - Ma vi giuro fin d'ora, signor Hostrup, che se quel birbante ci ha derubati io lo inseguirò e lo raggiungerò per quanto lontano fugga. - Se saremo capaci di raggiungerlo. I Tanana avevano dei cani attaccati alle loro slitte e chissà mai dove saranno a quest'ora. Si posero in marcia senza prendersi il disturbo di portare con loro la tenda essendo tutta bucata e si diressero verso il Porcupine. Alcuni lupi che ronzavano sotto il bosco, si provarono a seguirli gettando lugubri urla, ma un colpo di fucile, che atterrò il più feroce, li costrinse a ritornare più che in fretta sotto gli alberi. Due ore dopo i due balenieri giungevano sulla riva del fiume. Stavano per scenderla, quando Koninson incespicò in un oggetto che cadde con rumore rimbalzando e correndo sulla superficie gelata. - Bestia o cosa? - chiese egli curvandosi innanzi ed firmando precipitosamente il fucile. - Mi è sembrato un barilotto - disse il tenente. - Uhm! Brutto segno! In quell'istante sulla riva opposta si videro alcune ombre muoversi rapidamente, poi sparire sotto un gruppo di cespugli. - Chi vive? - gridò il fiociniere imbracciando il fucile. Nessuno rispose, ma poco dopo udì un acuto stridio che rapidamente si allontanava verso ovest e un po' più tardi dei lontani latrati. - Temo che siano i Tanana - disse il tenente che ascoltava attentamente. - Corriamo alla slitta, signor Hostrup - suggerì il fiociniere. - Forse arriveremo in tempo per far pagar caro il tradimento. Si slanciarono giù dalla sponda attraversarono correndo il fiume e rimontarono la riva opposta guadagnando una piccola altura da cui potevano dominare il paese circostante per un gran fratto. Alla loro destra avevano il bosco battuto il giorno innanzi; alla sinistra una pianura sull'orlo della quale scorsero una massa confusa che doveva essere la slitta. Nè da una parte nè dall'altra videro alcun uomo; però in distanza si udiva ancora l'acuto stridio che doveva essere prodotto dallo scivolio di una slitta tutta a gran galoppo. Lasciarono l'altura e si diressero verso la slitta la quale rizzava ancora il lungo albero a cui si vedeva sospesa e imbrogliata la vela. Quando furono vicini scorsero a terra casse e barili, aperte le une, sfondati gli altri, e parecchi altri oggetti che facevano parte dell'equipaggiamento. - Ah, miserabili! - esclamò Koninson. - Ci hanno derubati! E pur troppo era vero. I Tanana, approfittando senza dubbio del sonno dei due balenieri, si erano recati colà ed avevano tutto saccheggiato. Viveri, accette, provvista di polvere e di palle, vesti di ricambio, tutto era stato portato via. Non restava che la sola slitta, ma fortunatamente in buono stato e ancora provveduta della sua vela che forse i Tanana non avevano toccata per mancanza di tempo. - Hanno fatto bene a fuggire così presto - disse il tenente, che perdeva un pò della sua calma abituale. - Se li avessi colti sul fatto, qualcuno l'avrebbe pagata cara, questa bricconata. Mio caro Koninson, siamo stati corbellati come due ragazzi. - Ma li ritroveremo forse un giorno, signor Hostrup - rispose il fiociniere tendendo minacciosamente il pugno verso l'ovest. - Anche noi andiamo da quella parte e chissà! ... - Buon per noi che ci hanno lasciata la vela. - Ma non ci hanno lasciato nemmeno un granello di polvere, e voi sapete che in questo dannato paese non si vive se non si adopera il fucile. Non so il perchè non si sia mai pensato ad aprire delle trattorie. - Perchè gli orsi mangerebbero la dispensa e anche i trattori, amico Koninson. Orsù, quante cariche ti rimangono? - Una sessantina e niente di più! - Io ne ho altrettanto. Bah! Con centoventi colpi di fucile possiamo andare fino sulle rive del Makenzie e anche più lontano. - Ma non abbiamo intanto un briciolo di pane da mettere sotto i denti e non vedo nessun animale intorno a noi. - Per ora stringerai la cinghia dei tuoi calzoni, poi vedremo. Aiutami a spiegare la vela e rimettiamoci in viaggio, giacchè qui più nulla abbiamo da fare. Ad oriente cominciava a biancheggiare quando si rimisero in viaggio, favoriti da un vento abbastanza forte che soffiava da sud-sud-est. La slitta, vigorosamente cacciata innanzi dalla grande vela che era così gonfia da temere che scoppiasse, si rimise a scivolare sulla pianura con un lungo stridio e con una velocità che fu stimata non inferiore ai nove nodi all'ora. Il tenente, che stava a timone, la spinse al di là del bosco lasciando alla sua destra il fiume che accennava a piegare verso sud, poi la lanciò dritta dinanzi a sè, sapendo bene che in qualunque punto avrebbe incontrato sul suo passaggio il Makenzie, il quale taglia quella desolata regione fino alle rive dell'oceano artico. Il paese era sempre piano e disabitato. Solamente a nord, alcune catene di monti, assai lontane, apparivano semi-nascoste fra un fitto nebbione e verso sud dei grandi boschi di pini e di abeti costeggianti il corso del Porcupine. Di quando in quando da quegli alberi uscivano correndo torme di lupi affamati, i quali si davano a inseguire la slitta colla speranza di raggiungerla, ma ben presto desistevano riconoscendo l'inutilità dei loro sforzi; talvolta invece delle renne dalle corna ramose apparivano fra i cespugli e, dopo aver guardato quello strano veicolo che doveva sembrare ai loro occhi un immenso uccello, fuggivano spaventate senza lasciar tempo al fiociniere di prendere il fucile. Dei Tanana nessuna traccia, quantunque i due balenieri si guardassero ben bene d'attorno e porgessero attento ascolto ai rumori del largo. A mezzogiorno, dopo aver percorso molte miglia sotto un sole che cominciava già a diventare caldo ed a sciogliere i ghiacci, Koninson additò al tenente una specie di battello sospeso ad alcuni piuoli alti un paio di metri da terra e che si trovava sull'orlo della foresta. - Cos'è quella roba là? - chiese. - Indica la presenza di qualche tribù di indiani, o la vicinanza di qualche villaggio abbandonato? - Nè l'uno, nè l'altro - rispose il tenente. - Se non m'inganno, quella è una tomba. - Che non ci potrà certamente giovare. - Anzi, troveremo qualche cosa che farà per noi. Ammaina la vela e andiamo a vedere. Il fiociniere s'affrettò ad ubbidire e la slitta, trasportata dal proprio slancio, andò a fermarsi a poca distanza da quella strana tomba. Il tenente e il fiociniere vi si diressero e la esaminarono con curiosità. Consisteva in un vero canotto indiano di corteccia di betulla e armatura di salice, lungo circa otto piedi, solido e leggero ad un tempo. Era sospeso a circa due metri da terra con alcuni piuoli e sotto di esso la neve appariva smossa di recente e vi si vedeva un certo rigonfiamento come se nascondesse qualche cosa. - Il morto è nel canotto? - chiese Koninson. - No, giace sepolto sotto la neve. Il canotto conterrà invece le armi, le scarpe, le reti e le lenze appartenenti all'estinto. - E dei viveri? - Forse, ghiottone. Sali nel canotto e guarda dentro. Il fiociniere si alzò sui piuoli e salito nella leggera imbarcazione gettò giù due fiocine di corno di narvalo diligentemente aguzzate, un paio di scarpe assai malandate, alcune reti e una lenza di pelle di foca lunga una trentina di metri. - Non valeva la pena di venire fin qui - diss'egli di assai cattivo umore. - Ci avessero messo almeno qualche sacchetto di quell'eccellente "pemmican" che sanno fare gli indiani di questa regione! - Sanno bene che i morti non mangiano, ragazzo mio, - disse il tenente. - Ma perchè mettono sulle tombe le armi e le reti? - Perchè se ne servano nell'altra vita. - Ah! Credono che i morti risuscitino. - Tutti gli indiani ne sono convinti. Ora scendi e cerchiamo di procurarci la colazione. Tò! Ecco dei lupi che urlano nel bosco. La loro carne è pessima, ma chi non ha di meglio può accontentarsi. - Voi v'ingannate, signor Hostrup, poichè ho qualche cosa di più appetitoso da offrirvi. Guardate in alto. Il tenente alzò il capo e vide un grossissimo uccello il quale volava pesantemente come se facesse molta fatica a mantenersi in aria. Imbracciò rapidamente il fucile, mirò alcuni istanti con molta attenzione, poi premette lentamente il grilletto. Il grosso volatile colpito dall'infallibile palla del cacciatore, rotolò due volte su sè stesso mandando una nota che parve emessa da una tromba, poi piombò a terra con sordo rumore rimanendo immobile. - È un cigno - disse Koninson precipitandovisi sopra. - Trenta libbre di carne eccellente! - rispose il tenente. - Ma come mai questo uccello si trova qui? - In estate i cigni vengono a visitare questa regione. La presenza di questo uccello indica che lo sgelo dei fiumi non è molto lontano. - Brutta nuova per chi non ha che una slitta a vela. - Bah! Fra poco non avremo più bisogno di questo veicolo, poichè il Makenzie non deve essere molto lontano. Koninson si affrettò a spennare il volatile il cui peso, come aveva detto il tenente, superava le trenta libbre, poi ne mise un grosso pezzo al fuoco che in quel frattempo era stato acceso con legna morta raccolta nella vicina foresta. Calmata la fame, i due naufraghi tornarono a imbarcarsi, e la slitta, favorita ancora da un buon vento, ripartì costeggiando sempre la foresta. L'indomani, dopo una ventina di miglia, il terreno che fino allora si era mostrato molto favorevole cominciò a cambiare. La gran pianura era spesso interrotta da ondulazioni, da salite, da larghi crepacci e da ruscelletti, le cui rive assai più alte dei corsi d'acqua facevano trabalzare disordinatamente il veicolo, minacciando spesso di mandarlo in pezzi. Anche un largo fiume che il tenente suppose fosse il Peel, uno degli affluenti al Porcupine, e che sbocca a breve distanza dal Makenzie, venne ad interrompere la corsa. I due naufraghi furono costretti a calare la slitta dalla riva e attraversare il ghiaccio per poi issarla sulla sponda opposta. In quella traversata poco mancò che affondassero nel fiume poichè il ghiaccio, corroso dall'azione delle acque e dal sole, più volte crepitò e tremò sotto il peso della slitta. II 14 maggio il vento improvvisamente mancò e così pure per altri tre giorni durante i quali il sole, che rapidamente diventava caldo, sciolse gran parte dello strato di neve rendendo così la marcia della slitta assai penosa. Il 18 dovettero rinunciare a partire di giorno, quantunque il vento fosse propizio, anzi molto forte. La neve, eccessivamente rammollita, non permetteva più lo scivolamento. La gran pianura, percossa da una vera pioggia di raggi caldissimi, presentava un sublime spettacolo. Pareva che un immenso incendio la divorasse, estendosi fino agli estremi limiti dell'orizzonte. La neve, i massi di ghiaccio, gli "hummoks", si fondevano a vista d'occhio e fitte masse di vapori ondeggiavano in tutti i versi, sbattute dagli impetuosi soffi del vento meridionale. Di quando in quando, però, fasci di luce scaturivano da quelle masse, e così abbaglianti che gli occhi dei due balenieri non ci potevano resistere. Le acque pullulavano dappertutto correndo in tutte le direzioni, radunandosi nelle bassure, formando torrentelli e stagni, e producendo un ronzio che, di mano in mano che il sole si alzava sempre più splendido e sempre più caldo, diventava più forte. - Corpo di una balenottera! - esclamò Koninson che si era affrettato a tirarsi i capelli sugli occhi per non rimanere cieco. - Si direbbe che oggi messer Febo si è avvicinato alla terra di qualche milione di miriametri. - Se non ci affrettiamo, la nostra vela ci sarà affatto inutile. Fra un paio di giorni la pianura rimarrà scoperta - disse il tenente. - E quando partiremo? - Stasera farà ancora un pò di freddo e tutta quest'acqua e questa neve geleranno. Il tenente non si era ingannato. Verso le 11 di sera, quantunque il sole fosse ancora sull'orizzonte, la temperatura precipitò quasi improvvisamente di parecchi gradi, fino a toccare i tre sotto lo zero e la vasta pianura gelò. I balenieri spiegarono la vela e ripartirono con una velocità notevolissima, essendosi il vento mantenuto assai forte. Alle tre del mattino avevano già percorso trenta e più miglia, ora scendendo ed ora salendo. Ad un tratto l'orecchio di Koninson fu ferito da uno strano muggito che veniva da est. - Abbiamo qualche branco d'alci dinanzi a noi? - chiese egli prendendo il fucile. - Lo spero - rispose il tenente, prendendo la sua arma. Di mano in mano che la slitta procedeva il muggito cresceva sempre, ma sulla pianura non si vedeva alcun essere vivente, per quanto i balenieri aprissero gli occhi. Koninson, che cominciava a diventare inquieto, s'alzò in piedi e si issò sull'albero. Un grido gli sfuggì tosto: - Lasciate la scotta. Abbiamo un fiume dinanzi! - È il Makenzie! - esclamò il tenente. In un baleno, lasciò andare la fune, ma ormai era troppo tardi per arrestare la slitta che divorava la via con una celerità di quindici nodi all'ora. In men che lo si dica, giunse al fiume che correva incassato fra due alte muraglie, barellò un istante nel vuoto, poi precipitò giù inabissandosi nei gorghi del Makenzie.

Il capo li condusse nell'accampamento dove vennero circondati da una trentina di eschimesi fra uomini e donne accorsi da tutte le parti ai furiosi abbaiamenti dei cani. Il tenente e il fiociniere notarono che fra i curiosi si trovavano anche alcuni individui che per la loro statura più elevata, per le loro vesti e per i loro lineamenti parevano appartenere ad un'altra razza. Non vi fecero però molto caso e seguirono il capo il quale, dopo averli fatti passare attraverso un vero labirinto di bastoni sostenenti gran numero di pezzi di carne messi a seccare, li condusse in una piccola tenda dove, in mezzo a mucchi di pelli, marcivano, fra odori pestilenziali, ma che sembravano invece apprezzati dagli eschimesi che si cibano volentieri di carni corrotte, salmoni, lucci, trote, gadus, coreganus ed altri pesci del Makenzie. Benchè non si trovassero troppo bene fra quei miasmi, si accomodarono su una gran pelle d'orso distesa per terra e fecero come meglio poterono onore al cavallo marino conservato in olio di balena e ad una grossa trota, un pò troppo passata, offerta loro dal capo. Per tema di fare un affronto all'eschimese, furono anche costretti a sorbire una certa quantità di olio di morsa che fu loro gentilmente offerto, con quante smorfie ognuno lo può immaginare. Terminato quel diabolico pasto, sontuoso per un eschimese gran bevitore d'olio e mangiatore di carne cruda, corrotta o malamente affumicata sulla fiamma di una lampada, ma quanto mai disgustoso per un europeo, il capo intavolò una conversazione narrando che da soli pochi giorni aveva lasciato il forte Speranza, dove aveva fatto moltissimi scambi di pelli contro tabacco, conterie, armi, ecc., e che ora stava per raggiungere le sponde dell'oceano a cacciarvi la balena. - Dista molto il forte? - chiese il tenente, quando il capo ebbe finito. - Tre giorni di marcia e niente di più! - rispose l'eschimese. - Basta seguire questo bosco che si stende lungo le rive del Makenzie per non smarrire la via. - Ci sono altre tribù che si dirigono al forte? - Sì, una che è venuta dalle lontane regioni dell'ovest, come voi e che si è accampata nel bosco. - Appartiene alla vostra razza? - No. - È molto numerosa? - Lo è diventata in questi giorni. Conta almeno quattrocento uomini. - Il suo nome? - Il suo nome è ... Tò, ecco alcuni dei suoi uomini, senza dubbio qui giunti per vedere gli uomini bianchi e che ... Non aveva ancora finito che il fiociniere, alzatesi di colpo, si precipitava fuori urtando furiosamente contro un grosso attruppamento di persone radunatesi dinanzi alla tenda. Il suo robusto pugno piombò con secco rumore su di un uomo il quale stramazzò a terra mandando un urlo di dolore. Gli eschimesi si divisero precipitosamente, lasciando alle prese i due avversari che lottavano con pari accanimento. Il tenente, che non sapeva ancora di che si trattasse, accorse in aiuto di Koninson, il quale ad ogni pugno che lasciava cadere gridava: - Questo per la polvere! Questo per le palle! E questo per la carne che ci hai rubato! Solo allora si accorse che l'avversario era un indiano, anzi il capo Tanana che li aveva indegnamente traditi e derubati sulle rive del Porcupine. Stava per piombare anche lui sul traditore, quando questi sgusciando con una agilità sorprendente fra le mani del fiociniere, riuscì a rimettersi in piedi. - Ti ucciderò! - gridò minaccioso. Poi fuggì a rompicollo verso la foresta dove si trovava il suo accampamento. Il tenente, che aveva perduta la sua flemma abituale, stava già per armare il fucile e inviargli una palla nel dorso, ma il capo eschimese gli abbassò l'arma dicendogli: - Sii prudente! Essi sono molti e molto vendicativi. - Ma quell'uomo ci ha derubati, dopo aver chiesto il nostro aiuto per rifornirsi di viveri - disse il tenente. - Meriterebbe la morte, ma tu qui sei straniero e non hai che un compagno, mentre i Tanana sono numerosi. Vieni nella mia tenda e cercheremo di accomodare ogni cosa. - È troppo tardi! - disse il fiociniere. - Si tratta ora di far parlare i fucili. E non s'ingannava. Dalla foresta uscivano allora due o trecento guerrieri, mandando grida assordanti. I più erano armati di fiocine e di coltelli, ma taluni portavano dei fucili, assai vecchi, ma non del tutto in cattivo stato. - Che uragano sta per scoppiare? - si chiese Koninson che si preparava però a vendere cara la vita. - Non so come la finirà, se quei pagani si gettano tutti uniti contro di noi. - Fuggite! - disse l'eschimese che aggrottava la fronte e che era diventato pensieroso. - I Tanana sono valorosi e non si arresteranno dinanzi ai vostri fucili. - Ma dove fuggire? - chiese il tenente. - I nostri canotti sono lontani e saremo raggiunti prima di trovarli. - Dietro la mia tenda ho una slitta tirata da una muta di robusti cani. Montatela e fuggite verso il forte. - Ma si vendicheranno contro di te, mio buon eschimese. - I Tanana non ardiranno alzare le mani contro di me - rispose con fierezza l'eschimese. - Questa è la terra degli Eschimantik (mangiatori di pesce crudo), come loro ci chiamano, e sanno che una offesa fatta alla mia tribù la pagherebbero cara, poichè i miei compatrioti non la lascerebbero impunita. Presto fuggite, o sarà troppo tardi. Il tenente si levò l'orologio e lo diede al bravo eschimese dicendogli: - Conservalo in memoria della tua buona azione. Ed ora alziamo i tacchi. Si slanciò dietro la tenda seguito da Koninson, ma si arrestò subito mandando una sonora imprecazione. Sette od otto Tanana, che si erano avvicinati tenendosi nascosti dietro le tende degli eschimesi, sbarravano la via. Alla loro testa, armato d'un vecchio fucile, si trovava il capo, il cui naso schiacciato dal potente pugno del fiociniere, mandava ancora sangue. - Ah, brigante! - gridò il tenente. - Non si passa di qui - disse il capo con tono minaccioso. - E cosa pretenderesti tu? - Che tu mi consegni il tuo compagno perchè io vendichi l'affronto fattomi. - Bene, prendi questo, giacchè lo vuoi. Il tenente puntò rapidamente il fucile e fece fuoco. Il Tanana, colpito alla fronte, stramazzò al suolo fulminato, mentre i suoi guerrieri fuggivano disordinatamente gettando urla di rabbia e di vendetta. - Presto, Koninson, salviamoci! - disse il tenente. - Andiamo, signore, e filiamo dritti al forte. La slitta era pronta. Dodici robusti cani, somiglianti ai lupi, dalle gambe nervose, erano attaccati due a due, pronti a partire al primo segnale. I due naufraghi balzarono nel veicolo e si slanciarono attraverso la pianura trascinati in una rapidissima corsa. Dalla parte dell'accampamento scoppiarono alcune fucilate, le cui palle attraversarono gli strati d'aria sibilando; poi si videro i Tanana dirigersi correndo verso il bosco mandando clamori assordanti. - Tò! Fuggono forse? - chiese Koninson al tenente che animava i cani colla voce e colla correggia. - Ne dubito, fiociniere. - Che ci diano la caccia? - Lo temo, ma i nostri cani corrono come il vento e abbiamo già un notevole vantaggio. - Terranno duro questi corridori? - Per parecchie ore e senza rallentare. Basta che la neve non ceda sotto il peso della slitta. - Vedo che la pianura è tutta bianca. Ma oh! La matassa s'imbroglia! - Che cosa vedi? - Delle slitte che escono dal bosco. - Sono i Tanana che ci danno la caccia. Quante sono? - Ne ho contate sette e, se non corrono più di noi, certo non rimangono indietro. II tenente volse un rapido sguardo verso il bosco e vide infatti sette slitte correre con fantastica rapidità sulla nevosa pianura, trascinate da lunghe file di cani. Quattordici uomini le montavano e i più erano armati di fucili. - Diamine! Sono proprio decisi a vendicare il loro capo, - disse. - Bah! Avranno pane per i loro denti, se riescono a raggiungerci. Tu sorveglia i loro movimenti, mentre io cerco di far correre i nostri cani. - E gli eschimesi? Mi spiacerebbe che quei buoni diavoli la pagassero per noi. - Il capo mi sembrò quieto; è segno che non avrà nulla da temere. S'avvicinano? - Vorrei ingannarmi, signor Hostrup, ma mi pare che guadagnino su di noi. - Avanti, miei piccini! - gridò il tenente, sferzando i piccoli trottatori. - Se vi comportate bene, avrete doppia razione di carne stasera. - Non ne abbiamo un pezzettino grande come un soldo. - Ne troveremo al forte. Se continuiamo a correre così, vi giungeremo in poche ore. Guadagnano i Tanana? - Sì, signor Hostrup. Non sono che a un chilometro da noi. - Quante cariche ci restano? - Una cinquantina. - Ci bastano per abbatterli tutti quattordici! - disse il tenente con voce tranquilla. - Avanti, miei piccini, lesto il passo e tu, bianco, fatti più sotto. Là, così va bene. Un colpo di fucile echeggiò al largo, ma la palla non giunse fino ai fuggiaschi. - Troppo lontano, mio caro! - disse Koninson ridendo. - Quando sarete a tiro lo darò io il segnale e vi garantisco, brutti pagani, che lo assaggierete, il mio piombo. Altri due colpi di fucile rimbombarono, ma non con miglior effetto. I Tanana compresero che non era ancor giunto il momento di far parlare la polvere e raddoppiarono le grida e le scudisciate per far correre di più i loro cani, i quali parevano più robusti e più veloci di quelli regalati dall'eschimese. Ben presto non furono che a seicento metri di distanza. Koninson, che non li perdeva di vista un sol momento, stava per puntare il fucile quando vide le sette slitte fare un rapido voltafaccia e fuggire precipitosamente verso l'accampamento, di cui si scorgevano appena appena le tende. - Tò! - esclamò il fiociniere al colmo della sorpresa. - Battono in ritirata! - Come? I Tanana fuggono? - Sì signor Hostrup. Che abbiano avuto paura dei nostri fucili? - Io non lo credo. - E allora? Che siamo vicini al forte? - Dinanzi a noi non vedo che un bosco e anche molto lontano. - Che ci minacci qualche pericolo? - Lo temo, Koninson, anzi ne sono certo. - E da che io arguite? - I nostri cani da qualche minuto corrono più rapidi e mi sembrano inquieti. Infatti il tenente non si ingannava. Le povere bestie non parevano più tranquille e divoravano la via con crescente rapidità, senz'essere eccitate. Avevano cessato i loro allegri abbaiamenti, il loro pelo era diventato irto e volgevano frequentemente la testa verso i padroni, come se invocassero la loro protezione. - Hum! - mormorò Koninson. - C'è qualche cosa di grave in aria. - O meglio in terra. Guarda laggiù, guarda! Koninson guardò nella direzione indicata e vide una linea oscura estendersi dinanzi ad un bosco e poi slanciarsi attraverso la pianura con fantastica rapidità. Quantunque dotato di una buona dose di coraggio, impallidì. - I lupi! - esclamò. - Che giungono a centinaia - aggiunse il tenente. - Ecco perchè i Tanana sono fuggiti. Sfuggire al palo di tortura degli Indiani per cadere sotto i denti dei lupi, mi sembra che sia un pò dura. Vi confesso, signor Hostrup, che comincio ad aver paura. - Calma e sangue freddo, fiociniere. Se possiamo giungere a quel bosco che chiude l'orizzonte, siamo salvi. - Contate di trovare colà dei difensori? - No, ma troveremo degli alberi sui quali potremo trovare un comodo rifugio. Prepara le armi e lascia a me la cura di guidare i cani. I lupi arrivavano di gran corsa mandando delle urla brevi, come strozzate e mostrando le loro potenti mascelle armate di acuti e bianchissimi denti. Erano almeno duecento e parevano molto affamati e perciò decisi a tutto. Giunti presso la slitta, che continuava a filare colla velocità di una freccia, formarono un ampio semicerchio. Non assalivano ancora, forse tenuti in rispetto dalla presenza dei due uomini, ma le loro urla parevano volessero dire: Vi mangeremo! Vi mangeremo! - Devo aprire il fuoco? - chiese Koninson con un leggero tremito. - No, finchè si accontentano di seguirci - rispose il tenente che era tutto intento a far correre i cani, nella cui rapidità stava la salvezza di tutti. - Aspetta che ci assalgano. Per un paio di miglia i lupi, quantunque la fame attanagliasse il loro stomaco, continuarono a seguire e a fiancheggiare la slitta, ma poi il loro semicerchio si restrinse e uno di loro, più ardito o più affamato degli altri, si precipitò addosso ai cani che si gettarono violentemente da una parte. Pronto come il lampo Koninson fece fuoco e l'aggressore cadde stecchito nella neve. Alcuni carnivori, spaventati dalla detonazione, si sbandarono, ma gli altri raggiunsero la slitta. Pochi minuti dopo un altro lupo tentò l'assalto, ma ebbe egual sorte del primo. La slitta si trovava allora a due soli chilometri dal bosco e filava con una velocità vertiginosa. Tre o quattro altri l'assalirono per di dietro tentando di balzarvi dentro. - Aiuto, signor Hostrup! - gridò Koninson. - Io non basto più. Il tenente abbandonò la correggia affidandosi all'istinto dei cani e afferrò il fucile. Era tempo, poichè i feroci carnivori avanzavano sempre più, pronti ad un assalto generale. Due detonazioni rimbombarono, poi altre due, poi due altre ancora abbattendo altrettanti lupi. I due balenieri continuarono così, mentre i cani li trascinavano verso il bosco. I lupi, che ormai avevano assaggiato il sangue, non retrocedevano più. Urlando furiosamente assalivano la slitta per di dietro e ai lati tentando di strangolare i cani e di saltare alla gola degli nomini i quali si difendevano disperatamente. Ad un tratto Koninson gettò un grido di disperazione. - Non ho più polvere! - Maledizione! - urlò il tenente. - E questo è il mio ultimo colpo! I lupi, come se avessero compreso che la vittoria era ormai sicura, si precipitarono confusamente all'assalto della slitta, circondandola da ogni parte. I cani sparvero sotto il numero degli assalitori e dopo breve lotta furono fatti a brani, ma i due balenieri non erano ancora vinti. Ritti sul sedile, si difendevano con sovrumana energia respingendo l'orda incalzante coi calci dei fucili, spaccando teste, fracassando dorsi, scavezzando gambe, schiacciando musi. Ma quella lotta di due contro centocinquanta e più non poteva durare a lungo. Già il fiociniere e il tenente si sentivano impotenti di più oltre resistere, già le loro forze venivano meno, i più feroci balzavano contro le loro gambe, quando una scarica violenta rintronò sotto il bosco che era lontano soli trecento passi. Quindici o venti uomini, apparsi improvvisamente, balzarono in mezzo all'orda urlante disperdendola a colpi di scure e di fucile e accolsero nelle loro braccia i due balenieri, così miracolosamente salvati. - Signore, - disse un di loro volgendosi verso il tenente che non si reggeva più - non abbiate più timore: siete fra i cacciatori del forte Speranza.

Le grida e gli abbaiamenti si avvicinavano rapidamente e ben presto attraverso gli alberi si videro correre parecchi cacciatori preceduti da grossi cani, poco dissimili per altezza e per forme dai lupi. - Dove sono queste alci? - chiese Hostrup al capo. - Dinanzi a noi - rispose il Tanana. - Sono molti i cacciatori? - Una quarantina sparsi sulla nostra destra e sulla nostra sinistra. Camminarono per altri venti minuti sempre più inoltrandosi nella foresta e sempre preceduti dai cacciatori che continuavano a mandare urla selvagge, poi il Tanana si arrestò. Dinanzi a loro, a tre o quattrocento metri, stavano riunite venti o venticinque alci, superbi animali, grandi quanto un cavallo giovane, colle teste adorne di corna robustissime. Correvano or qua or là in preda ad un vivo spavento, cercando di fuggire fra gli spazi lasciati dai cacciatori, ma senza arrischiarsi, poichè subito ritornavano galoppando disordinatamente II tenente e il fiociniere puntarono le armi mirando ognuno un'alce, ma il Tanana con un gesto li trattenne. - Siamo a buon tiro - disse Hostrup. - Non è ancor giunto il momento - rispose il capo. - Aspetta che entrino nel recinto e poi farai fuoco a volontà. - In quale recinto? - Guarda laggiù. Il tenente guardò nella direzione indicata e non senza sorpresa vide, attraverso gli alberi, un grandioso recinto fabbricato con rami assicurati ai tronchi mediante strisce di pelle, il quale si restringeva a mò di collo di bottiglia. - È così che noi cacciamo - disse il Tanana. - Le alci hanno paura ad entrare, ma noi le costringeremo. - E non spezzeranno il recinto? - È semplice, ma molto solido. Attenzione e guardatevi dalle corna, poichè talvolta le alci, rese furiose, si gettano sui cacciatori a testa bassa. I suoi uomini si erano a poco a poco riuniti formando un semicerchio assai vasto il quale si univa colle due estremità del recinto. Ad un cenno del capo impugnarono le fiocine e si spinsero coraggiosamente innanzi raddoppiando le grida e aizzando i cani. Le alci si misero a caracollare confusamente mostrando delle intenzioni tutt'altro che pacifiche, ma quando si videro assalite dai cani e minacciate assai da vicino dai cacciatori, non esitarono più a fuggire e non trovando dinanzi che l'apertura del recinto vi si spinsero dentro. II capo, i due naufraghi e tutti gli altri le seguirono e si appostarono dietro a certi mucchi di neve muniti di una feritoia, che erano stati precedentemente costruiti. - Fuoco a volontà! - comandò il capo. Tosto da ogni parte partirono detonazioni ed alcuni alci, colpite mortalmente, caddero dibattendosi disperatamente. Le altre fecero di gran galoppo il giro del recinto cercando una uscita che ormai non esisteva più, essendo stata subito chiusa quella che poc'anzi c'era, poi si scagliarono contro i rami d'albero tentando di spezzarli a colpi di corna, ma invano poichè, come aveva detto il capo, erano solidissimi e ben legati. Vista l'inutilità dei loro sforzi, si rivolsero contro i cacciatori, ma una nuova scarica, che ne gettò a terra altre quattro o cinque, le costrinse a riprendere la fuga. Riunitesi in fondo al recinto, le povere bestie parvero consigliarsi, poi ritornarono verso i cacciatori a testa bassa mostrando minacciosamente le loro robuste corna. Alcune colpite dalle palle caddero, ma le altre passarono come un uragano fra cumulo e cumulo, si gettarono furiosamente contro il recinto che in quel luogo presentava una solidità molto dubbia, ne rovesciarono un tratto e fuggirono nel bosco allontanandosi verso est con tale rapidità, da par perdere ogni speranza di raggiungerle. Il tenente e il fiociniere fecero atto di inseguirle, ma il capo Tanana li arrestò. - È inutile - disse. - Abbiamo carne quanta ci basta per vivere un bel pezzo. Ed infatti aveva ragione. Nove alci giacevano a terra immobili e due altre si dibattevano negli ultimi aneliti. Mentre alcuni cacciatori uscivano traendosi dietro i cani per condurre colà le slitte, gli altri s'affrettarono a finire le ferite; poi, dato mano ai coltelli, si misero a scuoiare e a tagliare con tanta abilità e prestezza che due ore dopo la non facile operazione era finita. Al tramonto, quell'ammasso di carne ancor palpitante veniva caricato sulle slitte e portato all'accampamento dove erano stati accesi dei grandi fuochi. Il capo offrì ai due marinai una lauta ed abbondante cena, poi li ricondusse nella loro tenda che in quel frattempo era stata completamente vuotata. - Quando parti? - gli chiese il tenente, prima di coricarsi. - Domani all'alba - rispose il Tanana con un sottile sorriso. - Dormi in pace sotto la buona guardia dei miei guerrieri e all'alba riceverai i miei saluti e una provvista di carne da bastarti per un mese. - A domani, adunque! - risposero i due naufraghi. E si sdraiarono con accanto le armi.

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