Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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LE ULTIME FIABE

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

E spalancava tutte le finestre del suo appartamento; e scendeva in giardino a capo scoperto sotto il sole di mezzogiorno; e si slanciava a corsa pei viali, saltando, scalpitando, imitando i nitriti del cavallo e gli abbai del cane, gli urli del lupo, poiché gli avevano detto che i lupi urlassero a quel modo. Ed ecco i suoi custodi ad affrettarsi a chiudere le finestre. Ed ecco i suoi custodi a mettergli per forza un berretto o un cappello in testa per ripararlo dal sole. Ed ecco i suoi custodi a corrergli dietro, sfiatati, lungo i viali, raggiungerlo, afferrarlo per un braccio e gridargli: - Ma, Reuccio! ... Ma, Reuccio! ... Che dirà Sua Maestà? Sua Maestà ormai non diceva più niente. Il Reuccio era un bel giovanotto alto, robusto, amava di cavalcare, di andare a caccia, di divertirsi coi giovanotti suoi pari. E accadde che un giorno, a caccia, egli disparve. Le persone del suo seguito lo cercarono dappertutto, e dovettero tornare al palazzo reale recando la triste notizia. Il Re, disperato dal gran dolore, aveva già ordinato che gli sellassero il suo cavallo, quando il Reuccio giunse, a piedi, sano e salvo. - Che è stato, Reuccio? - Niente, Maestà. Non volle dir altro. Ma aveva un viso strano. Il Re, che viveva continuamente sotto il terrore di perderlo, non poteva acchetarsi da questa risposta: - Niente? Con quel viso? - Niente di male, Maestà. Ho visto la più bella creatura del mondo, ma dice: "Vedermi, si, toccarmi, no!". E se io dovessi sposare, vorrei sposare soltanto lei. - Chi è? Dove si trova? - Non lo so. La sua carne è bianca come la neve; e dà un senso di frescura che é una delizia. - Reuccio, vi siete addormentato in mezzo al bosco e avete sognato. - Maestà, avevo gli occhi ben aperti. Voglio tornare a rivederla ... Infatti, il giorno dopo, non ostante che il Re prima gli ordinasse e poi lo supplicasse di non andare, il Reuccio volle tornare, solo, nel posto dove gli era apparsa la bianca creatura che, anche in sogno, era venuta a ripetergli: Vedermi si; toccarmi, no! Che significava? Voleva saperlo. Il Re si era deciso di seguire, non visto, il Reuccio. Gli pareva assurdo quel che questi aveva raccontato. Forse poteva trattarsi di qualche maligno sortilegio con cui si insidiava il suo unico figiiuolo. Prima aveva temuto l'aria, il sole, il movimento; ed ora che esso era venuto su bello e forte temeva sempre qualche disgrazia ... Se lo rimproverava spesso: - Ah! Gli faccio il malaugurio! Ma la paura di un'improvvisa disgrazia lo teneva in agitazione suo malgrado. Si sentiva già vecchio e non voleva riprender moglie per riavere un erede. Per ciò quella mattina, appena il Reuccio uscì dai portone del palazzo reale, il Re, travestito da contadino, gli andò dietro, a breve distanza, per non perderlo di vista. A un punto della strada, s'imbatté in un povero asino cascato malamente sotto il carico: - Per carità, compare, aiutatemi! Voi dalla testa; io dalla coda! Poteva lasciare quel vecchio contadino nell'imbarazzo? E: - Ohè! Su! Ohè! Su! - lui dalla testa e quello dalla coda, finché il povero asino non si rizzò sui quattro piedi. Ma quando il Re cercò con gli occhi il Reuccio, non lo vide più né vicino, né lontano. Errò di qua, errò di là; si internò nel bosco dove il Reuccio era sparito il giorno avanti; cercò ancora, chiamò ad alta voce: - Reuccio! Reuccio! - E non vedendolo, e non ricevendo risposta si avviò per tornare addietro deciso che un'altra volta gli si sarebbe attaccato ai panni, e non lo avrebbe lasciato di un passo. Ma prima ch'egli giungesse a palazzo reale, ecco il Reuccio. Il Re fece tanto di cuore. E, dimenticando il suo travestimento da contadino che lo rendeva irriconoscibile, voleva abbracciare il figlio. Vedendosi sdegnosamente respinto, pensò di divertirsi a spese del Reuccio, per l'equivoco. E contraffacendo la voce, disse: - La bella creatura bianca e fresca Un giorno se ne andrà di palo in frasca ... - La conoscete anche voi? - esclamò il Reuccio, stupìto. - Vedere, non toccare, questa è l'esca. Vedere e non toccare ... e tutto passa! - No, vecchiaccio maligno! E stava per picchiarlo. - Reuccio! Riconobbe il Re al grido, e gli si buttò ai piedi chiedendo perdono. - Ah, Maestà! ... Mi ha detto: "Devo recarmi lontano, verso le alte montagne". Voglio andare a trovarla lassù. - A che scopo? Non potrà mal essere la futura Regina. Vedermi, si; toccarmi, no! È possibile? - Mi basta vederla. Se vostra Maestà la vedesse, mi darebbe ragione. Il Re pensò: - Questo è sortilegio o pazzia. E il più vecchio dei Ministri suggerì: - Bisogna consultare la maga Nana. La maga Nana abitava nella grotta, a mezza costa di una montagna circondata di boschi. Vi si doveva girare tre volte attorno, chiamando ad alta voce: - Maga buona, Maga bella! - Al terzo giro si scopriva la bocca della grotta e si poteva entrare dalla Maga. Ed ecco il Re a fare il primo giro attorno ai boschi: - Maga buona! Maga bella! Era stanco, non ne poteva più; pure riprese il secondo giro: - Maga buona! Maga bella! Al terzo giro, il Re si trascinava a stento attorno, ed era così sfinito che invece di chiamare: - Maga buona! Maga bella! gli scappò di bocca: - Maga Nana! Maga Nana! E dové tornarsene addietro, senza aver trovato l'entrata della grotta. Intanto il Reuccio si preparava a partire per le alte montagne dove la Creatura bianca e fresca come la neve era andata a rifugiarsi. Il Re, desolato, non sapeva in che modo impedirlo. Il più vecchio dei Ministri tornò a suggerire: - Bisogna consultare la maga Nana! E il Re intraprese di nuovo il viaggio attorno al boschi, chiamando ad alta voce: Maga buona! Maga bella! - Era già all'ultimo giro, non ne poteva più, e dovette fare proprio un grande sforzo per non gridare anche questa volta: - Maga Nana! Maga Nana! L'entrata della grotta si aperse, e il Re poté inoltrarsi per l'andito che aveva le pareti luminose, senza candele né lampade, e abbagliavano gli occhi. La maga Nana era a tavola. - Ben venuto, Maestà! Sedete, Maestà! Mangiate e bevete, Maestà. Poi parleremo di vostro figlio il Reuccio. Il Re era stupìto che già la maga Nana sapesse il motivo della sua visita. A guardarla in viso la Maga sembrava una vecchietta, ma il corpo era di una bambina di sei anni. Il Re si confondeva a rispondere: Grazie! E guardava sbalordito la tavola apparecchiata. Piatti di oro, bicchieri di oro, bottiglie di oro, posate di oro. Quattro bellissime donzelle portavano in tavola le pietanze, mutavano i piatti e le posate. La Maga divorava tutto e si versava vino quasi a ogni boccone. - Mangiate, Maestà! Bevete, Maestà! Poi parleremo di vostro figlio il Reuccio. E la Maga riprendeva a divorare quasi fossero quelli i suoi primi bocconi. All'ultimo: - Mangiare e dormire; dormire e mangiare è il meglio che si possa fare. Domani parleremo di vostro figlio il Reuccio. - Parliamone ora, Maga bella! - Mangiare e dormire; dormire e mangiare è il meglio che si possa fare! Domani ... domani ... E non poté finire. Si era addormentata su la seggiola. Le quattro donzelle la sollevarono tra le braccia e la portarono a letto. Si sentì a poco a poco sopraffare dal sonno anche lui, e la mattina dopo si svegliò in una bella camera, su morbidissimo letto. - Parliamo del Reuccio, Maga buona! - Oh, Maestà! Che grazioso anello avete al dito! - Ecco: è per voi ... Parliamo del Reuccio, Maga bella! - Grazie! ... Oh, Maestà! Che ricca collana portate sul petto! - Ecco: è per voi ... Parliamo del Reuccio, Maga buona! - Grazie! Oh, Maestà! Che magnifica cintura avete ai fianchi! - Ecco: è per voi ... Ma parliamo del Reuccio ... E fu un miracolo che il Re, un po' seccato, non soggiungesse: Maga Nana! - Si morse la lingua. La Maga infilò al dito l'anello, mise sul petto la collana, si affibbiò attorno al fianchi la cintura, e cominciò a socchiudere gli occhi, a sbadigliare e stirare le braccia, mugolando sconnesse parole. Il Re attese un po' prima d'insistere: - Parliamo del Reuccio, Maga bella! Parliamo del Reuccio, Maga buona! - Maestà ... già ... ritorno! Stirò le braccia e le gambe, si mise di nuovo a sbadigliare e aperse gli occhi. - Fata Neve l'ha chiamato, Fata Neve l'ha incantato, Per finire questo giuoco Ci vorrebbe fata Fuoco. Il Re si mise le mani ai capelli, piangendo: - Ah, povero Reuccio! ... E come fare? - Fata Neve è molto lontana, in cima alle montagne, in questo momento. Daremo al Reuccio poche gocce di Sméntica - eccola qui - e per parecchi mesi non si ricorderà più di fata Neve. Intanto ricorreremo a fata Fuoco, quella che vive nel suo palazzo sottoterra. - Ah, povero Reuccio! E come fare? - Egli è già pronto per partire. Direte ... E la maga Nana gli spiegò minutamente come doveva comportarsi. - Dunque, Reuccio, siete deciso? - Decisissimo, Maestà. - E non v'importerebbe di non trovarmi vivo al ritorno? - Che dite mai, Maestà? - Beviamo, intanto, alla vostra e alla mia salute. - Volentieri, Maestà. E il Reuccio vuotò il bicchiere. Le gocce di Sméntica operarono subito. Il Reuccio, che aveva tanta fretta di mettersi in viaggio, si diè a gironzolare per le stanze canticchiando, con le mani dietro la schiena, guardando attorno quasi cercasse qualcosa che aveva smarrito. Guardava da una finestra il giardino reale tutto verde, tutto fiorito, e domandava: - Maestà, è arrivata ora la Primavera? ... E quando andrà via? - Fra tre mesi, Reuccio. - Maestà, poi verrà l'Estate, è vero? E quando andrà via? - Dopo altri tre mesi, Reuccio. Perché? - Troppi fiori in Primavera; troppo caldo in Estate. E tornava a guardare attorno, quasi cercasse qualcosa che aveva smarrito; non sapeva che cosa. Il Re da un lato era contento; dall'altro quella smemorataggine gli ispirava compassione. Il più vecchio dei Ministri disse al Re: - Maestà, se approfittassimo di questo intervallo di calma per dar moglie al Reuccio? La figlia del Re di Spagna è bellissima, dicono, e in età da marito. Mandiamolo in viaggio a quella Corte; servirà anche per distrarlo. E il giorno che il padre gliene fece la proposta, il Reuccio rispose con aria indifferente: - Andiamo a vedere questa bellezza rara! Partì, accompagnato dal vecchio Ministro, con un gran seguito e molti ricchi doni per la famiglia reale. Ma quando il Re di Spagna disse al Reuccio: - Ecco la mia Reginotta! - il Reuccio stette un po' a guardarla da capo a piedi e, rivolto al vecchio Ministro, esclamò: - È questa la gran bellezza? Mi sembra una lavandaia! Figuratevi quel che accadde! La Reginotta svenne; il Re voleva ruzzolar dalle scale l'impertinente Reuccio, e senza l'astuzia del vecchio Ministro che dichiarò il Reuccio improvvisamente ammattito, ne sarebbe nata una guerra. - Ah, Reuccio! Reuccio! Come vi è passata per la testa ... - Ho detto quel che mi avete suggerito voi ... - Io? Ah, Reuccio! - Voi o un altro non so; suggerito all'orecchio: "È questa la gran bellezza? Mi sembra una lavandaia!". Non è forse vero? - Io? Io? Reuccio! Il vecchio Ministro non sapeva darsene pace. Il Re capì benissimo chi aveva sussurrato all'orecchio del Reuccio quelle brutte parole: fata Neve certamente. Ah! il sortilegio durava ancora! Infatti, di tratto in tratto il Reuccio domandava: - È arrivato l'Autunno, è vero, Maestà? - Che ve n'importa, Reuccio? - Niente. Poi, dopo, sopraggiunge l'Inverno, è vero, Maestà? - Che ve ne importa, Reuccio? - Non so; mi pare che l'Inverno debba apportarmi una gran gioia. Il Re si turbò grandemente sentendolo parlare così. - L'inverno, Reuccio, è la più brutta stagione dell'anno. Non mise tempo in mezzo. Tornò dalla maga Nana. - Maga buona! Maga bella! Le gocce di Sméntica non giovano più! - Sedete, Maestà. Mangiate e bevete. Poi parleremo di vostro figlio il Reuccio. Ah, Maestà! Che bel braccialetto avete al polso! - Ecco: è per voi ... Maga buona! - Grazie! E quel fermaglio con due stelle diamantate? - Anch'esso è per voi ... Maga bella! Ma parliamo del Reuccio! - Grazie! Che bello smeraldo avete al dito! - È vostro, Maga buona! Maga bella! ... Ma parliamo ... - Vado e torno! Socchiuse gli occhi, sbadigliò, stirò le braccia, borbottando sconnesse parole, e si addormentò come l'altra volta. Stiè un pezzo così. Quando si svegliò sembrava molto stanca. - Sono andata lontano, per amor vostro, Maestà, dai miei grandi Maestri. Fata Neve sta per arrivare. Bisogna ricorrere a fata Fuoco, la sua forte nemica. Vi conduco io. Venite. La maga Nana andava lesta; pareva che non posasse i piedi al suolo. Il Re stentava a seguirla. Che non avrebbe fatto, povero padre, pur di salvare il Reuccio? - Vi avverto, Maestà: bisogna accennare a fata Neve senza punto nominarla. Ed ora, sprofondiamoci sotterra. Da principio, buio fitto. Non si sapeva dove mettere i piedi. Poi, una luce fioca, che aumentava fino a un chiarore di luna piena; e poi ... Le mura, le volte del lungo andito brulicavano come di fiamma e, in fondo, i gradini della scala che conduceva giù negli appartamenti, sembravano di fiamma viva, ed erano più solidi del marmo. Il Re, che, da principio, aveva avuto paura di rimanere carbonizzato, visto che quelle fiamme avevano maravigliosa ma innocua apparenza, s'inoltrò con animo lieto fino al vasto salone. Fata Fuoco sembrava la vibrante lingua di una splendida fiamma, con su una bellissima testa di donna attorno a cui si agitavano lunghi capelli d'oro come aureola irrequieta. - Fata Fuoco! Fata Fuoco! Voi sola potete salvare mio figlio il Reuccio! - Chi lo minaccia? - Un pericolo ignoto ... ma certo! - disse la maga Nana. - D'uomo ... o di nonna? - Chi sa chi sa? - rispose il Re. -Vedermi, sì, dice, toccarmi, no! La fiamma del corpo di fata Fuoco si contorse, si oscurò, l'aureola dei capelli cessò di vibrare, e davanti al Re apparve una vecchina vestita di un umile abito cinericcio, coi bianchi capelli raccolti attorno alle tempie, con lo sguardo sereno e la bocca sorridente. Usciti all'aria aperta, fata Fuoco disse al Re: - Maestà, afferratevi forte a un lembo della mia veste. Dobbiamo volare due giorni e due notti per giungere in tempo. Voi, Maga, non ne avete bisogno. Addio, Maga! Il Re si sentì portar via leggero come una piuma. Vola! Vola! Vola! Due giorni e due notti! - Ahimè! - sospirò la Fata. - Forse arriviamo troppo tardi! Volteggiarono per l'aria piccoli e varii fiocchi di neve. Il Re si guardò bene di nominare quell'altra Fata! Salendo le scale del palazzo reale, fata Fuoco si era trasfigurata in bellissima giovane, riccamente vestita, ornata di preziosi gioielli. - Reuccio! Reuccio! - disse il Re. - Ecco la bellezza in persona! Il Reuccio era affacciato alla finestra. Guardava, estasiato, i piccoli fiocchi di neve che volteggiavano per l'aria; e, lontana, lontana, tra le nuvole rosee, vedeva, quasi ombra bianca e trasparente, colei che gli era tornata nella mente e nel cuore, e che egli stava per credere perduta per sempre. - Reuccio! Reuccio! ... Ecco la bellezza in persona! Il Reuccio si voltò, la guardò da capo a piedi, e sprezzantemente rispose: Questa la bellezza in persona? Mi sembra una lavandaia! E tornò a festeggiare con gli occhi i fiocchi di neve che ora volteggiavano più fitti per l'aria, e l'ombra bianca e trasparente che si avvicinava, trasportata lievemente dal vento. Fata Fuoco era sparita. Il Re, mezzo svenuto dall'ambascia, piangeva in un angolo della stanza. - Eccola! Eccola! Il Reuccio capì in quel momento che la sua vita andava a confondersi, a perdersi nel divino fantasma bianco: - Vedermi, sì; toccarmi, no! Sembravano parole di minaccia, di condanna, ed eran state per lui dolce ammonimento di un bel sogno. Infatti, la mattina dopo, quando trovarono il cadavere del Reuccio sotto un soffice strato di neve - e pareva serenamente addormentato - il vecchio Ministro esclamò: - Sorride ancora al suo sogno! Fiaba di neve, fiaba di fuoco, Se non vi spiace, fatele luogo. Fiaba di fuoco, fiaba di neve, Chi ben comprende cara la tiene.

EH!La vita...(Novelle)

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Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1913
  • Tipografia agraria
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Pel vicolo stretto, buio, passò un cane randagio, che die' due o tre abbai, e scappò a una pedata di Nino. Dopo breve pausa, la conversazione ricominciò. - E tuo padre? - È in collera con mia sorella, appunto per Pizzuto. - Io ho in casa la lima sorda di mia madre che vuoi darmi la figlia di Garozzo. - Sposala!... . - Lo so; non ti dispiacerebbe: sposeresti Barreca.... - C'è lui solo in questo mondo? - Che cosa hai detto? Parlavano così basso che talvolta le parole di lei arrivavano giù come un confuso mormorìo, e quelle di Nino si dileguavano per l'aria quasi fossero un po' di fumo. Maria si era ritirata improvvisamente e aveva chiuso la finestra. Egli attese mezz'ora, lusingandosi che Maria ricomparisse. Accadeva spesso che un rumore interno dèsse un falso allarme. Ma quella volta Maria non si fece vedere neppur dietro i vetri, a picchiarvi su leggermente con la punta delle dita, per saluto. Cominciava a piovigginare. La mattina dopo, Nino, appena uscito di casa, si trovò faccia a faccia con Pizzuto che pareva lo attendesse. - Posso dirti una parola? - Anche due. - Tu vuoi sposare Maria Ledda. - C'è qualcuno che non vuole? - Precisamente, come dispiace a te che ci sia un altro.... - Ognuno per sè, Dio per tutti. - Vorresti, forse.... Perchè si dice: Fra due litiganti il terzo gode.... - Lo sai bene che il mio boccone non può toccarmelo nessuno. - O dunque? - Parlo per voialtri. - Chi ha più forza vince. - È quel che dico io. Bisognerebbe fare una scommessa, per finirla presto. - Quasi noi fossimo padroni della volontà altrui! - Dire alla ragazza: Mettici alla prova. - Io, se tu non lo sai, ci sono alla prova da due anni. Barreca ha voglia di sgolarsi con le notturne. E se tu credi che la protezione della sorella, che è la tua zita (Amorosa), possa far cambiar Maria di volontà, la sbagli grossa. Di' piuttosto al tuo amico che si metta il cuore in pace. E la finisca con le notturne (Serenata) se no, qualche domenica notte succederà uno sbaraglio. Sono sei mesi che tenta. Credevo che egli ignorasse che il posto è preso. Ora, però, che non posso più dubitare.... - Non ti scaldar tanto! - Che diresti tu se io tentassi di guastarti il nido? - Con me è un'altra cosa. - È un'altra cosa anche con me. E facciamo conto che non ci siamo visti, se sei un uomo, e se hai stomaco. Lo stesso giorno, Nino si presentò a mastro Tano il suonatore che accompagnava le notturne notturnedi Saro Barreca. - Per tre, quattro nottate, di domenica.... - Impossibile. Sono impegnato. - Vi pago il doppio. Non faticherete niente. Dovrete sparire; e cália e vino quanto ne vorrete, voi ed i vostri compagni. - Che mi fate fare! - Questa è la caparra. Senza mastro Tano era impossibile di combinare una serenata. Il suo violino parlava: Buona sera! Buona sera! - con la voce di un cristiano. E se, smesso il violino, egli prendeva a suonare lo zufolo di canna, altro che il flauto del farmacista Arcurio quando egli vi soffiava: Mira, Mira,Norma, ai tuoi ginocchi! e la gente si affollava davanti alla farmacia! Saro Barreca, quella domenica, pareva pazzo. Andava di qua, di là, su e giù anche pei viali fuori Porta, domandando a chi incontrava: - Avete visto mastro Tano, il suonatore? - Nessuno lo aveva visto. Neppur la maestra, come chiamavano sua moglie, ne sapeva niente. E il secondo violino? E il contrabasso? Spariti tutti! Poteva immaginare che era un tiro fattogli da Nino Sbrizza? E, la notte del lunedì, Nino diceva a Maria: - Sei dispiacente; non hai avuto la notturna. notturna.- Vuol dire che ha capito. - Gliel'ho fatta capire io. Che è?... Piangi? Maria singhiozzava. - Parla più forte. Non aver paura! Con questo vento! Il vento urlava nel vicolo, scoteva i tetti delle case e le imposte, quasi volesse portar via tutto, giù, nella vallata. Nino stentava a tenersi ritto sul solito pezzo d'intaglio che gli serviva da piedistallo. Il vento, che spazzava il vicolo, spazzava via pure le parole della ragazza, un po' soffocate dai singhiozzi. - Tuo padre?... Che vuole tuo padre? - Gli hanno parlato.... - Che importa?... Se tu mi vuoi bene.... - Anche mia sorella.... - Chi le tocca il suo Pizzuto? Ah!... Tu dovresti darmi retta!... La notte del sabato santo.... - No! Questo no!... - Sai? È tornata la gnà Vicenza Suo figlio è morto. Verrà a trovarti. Con lei, possiamo fidarci, come prima.... Quella vecchietta filatora di lino era stata la loro confidente, la loro ambasciatrice. Da che se n'era andata a Grammichele, in casa del figlio, maritato colà, essi avevan dovuto adattarsi a quelle conversazioni notturne, tremando sempre di essere scoperti; spesso, come quella nottata, col vento che infuriava, non riuscendo a intendersi, e anche con la paura di buscarsi un malanno. Alla notizia della visita della vecchietta, Maria ripetè: - Questo, no! Questo, no!.... Ti saluto. Ma prima che lei chiudesse la finestra, egli rispose, alzando la voce: - Questo, sì! Questo, sì! Ti saluto. Con la filatora Nino si sfogava: - Non c'è altro verso. Se vuol farmi fare la buona Pasqua! Ora, con Saro Barreca guerra dichiarata. Un dispetto lui a me, due io a lui; botta e risposta. Finora ci ha avuto poco gusto. Dice che sta per indurre suo padre a far la richiesta a massaio Ledda. - Dispone forse della volontà della figlia? - Ah, gnà Vicenza Voi sapete come sono le ragazze. - Maria è buona, assennata.... - Niente; non c'è altro verso! Io poi dirò a suo padre: Fate come volete. Non è per la dote.... - È necessaria anche questa! La gnà Vicenza si era ripresentata in casa di massaio Ledda col pretesto di chieder lavoro, lino da filare; e aveva portato con sè la rocca con un grosso pennacchio e il fuso; c'era così bel sole su la terrazza! Maria e sua sorella andavano e venivano, per le faccende di casa. Maria ora indugiava a innaffiare i garofani e le viole a ciocche, e la gnà Vicenza pur continuando a filare, quasi non badasse ad altro, le diceva: - Fallo contento. Non è giovane da abusarsi delle circostanze. - Sua madre vuol dargli la figlia di Garozzo. - Sua madre sarà felice del cambio.... Mentre nessuno è in sospetto, nè tuo padre, nè tua sorella... Andresti via con S. Giovanni, santo glorioso... a suon di campanella benedetta.... Alludeva alla scommessa che correva tra i giovani massai per suonare, la notte di sabato santo, la campanella detta di San Giovanni e poi nella processione della Inchinata, la domenica di Pasqua. Saro Barreca aveva giurato: Dovrò sonarla io! E Nino Sbrizza, saputolo, aveva giurato: - Non la sonerai! Maria era rimasta perplessa. Quella fuga, accompagnata dal suono della campana di san Giovanni, le aveva acceso l'immaginazione. La gnà gnàVicenza insisteva per la risposta. - Gliela darò domani, alla benedizione delle Palme. Io, mia sorella e le nostre cugine saremo davanti al ballatoio del Sordo. Egli prenda di mira l'albero più vicino, per buttarlo giù quando sarà il momento e s'impossessi della palma benedetta. La gitti per aria, verso di noi. Io l'afferro, e se la bacio.... vuol dire di sì! - E se non riesci ad afferrarla? - Mi bacio una mano. E vuol dire di si. Se lui non butta per aria la palma benedetta, significa... - Non significa nulla, con le zuffe che accadono. Palma o non palma, vado a farlo felice. La Madonna ti aiuti, figliuola mia! E vedendo entrare Rica, la sorella di Maria, con un corbello di ulive nere salate da asciugare al sole, la gnà Vicenza disse: - Per Pasqua ne voglio un pugno! - Intanto, tenete. La vecchia sporse il grembiule e Rica gliene versò due giumelle colme. - E questa per me - soggiunse Maria. Il piano davanti alla chiesa rigurgitava di gente. Allato alla porta maggiore, chiusa perché la cerimonia voleva così, il rozzo altare di pietra era parato a festa. Durante la nottata il piano aveva cambiato aspetto: un gran viale fiancheggiato da alberi improvvisati - lunghi pali di aloè confitti al suolo rivestiti di rami di querce e di olivo con in cima una piccola palma inargentata - si allungava, facendo gomito dalla via, fino alla porta maggiore della chiesa. Le Ledda e le cugine erano tra la folla in attesa della processione. Nino Sbrizza, vestito di panno azzurro scuro, col berretto alla marinara, un garofano rosso all'occhiello e un sigaro in bocca, passeggiava assieme con due amici lungo il viale, divorando con gli occhi Maria, che lo guardava a tratti, fuggevolmente, per non farsi scorgere dai curiosi. E mentre Nino scendeva da un lato del viale, Saro Barreca, vestito anche lui di panno azzurro scuro, col berretto alla marinara, con una rosa all'occhiello e il sigaro in bocca, veniva su dall'altro lato, fermandosi a ogni po' assieme con Pizzuto e un altro amico di rimpetto al posto dov'erano le Ledda e le cugine, cavando di tasca a riprese il fazzoletto di seta a vivaci colori, come per segnale convenuto, allo scopo di far arrabbiare Nino Sbrizza, che tornava indietro in quel punto. Poi Sbrizza e i suoi amici si erano fermati presso uno degli alberi, quasi per prenderne anticipatamente possesso. Giacché la processione, coi confrati e la banda musicale e i canonici che cantavano, si avanzava, e un fremito correva tra la gente, specie tra gli uomini che dovevano, al momento della benedizione, atterrare gli alberi e afferrare la palma benedetta attaccatavi in cima. Fu un attimo. Parve che una ventata li scotesse e li abbattesse da una punta all'altra del viale. Nino Sbrizza, con due poderose spinte, aveva sradicato il palo di aloè e già stendeva la mano ad afferrare la palma argentata, quando Saro Barreca, con un salto gli si precipitò addosso, strappò dall'albero la palma e, trionfalmente, la lanciò per aria, verso il punto dove erano le Ledda. Cento braccia si tesero in alto per afferrarla, ma una delle cugine Ledda fu la più lesta di tutti. La baciava, la dava a baciare come cosa benedetta. Quando toccò a Maria, però essa si baciò più volte la mano. E Nino Sbrizza, che stava per perdere il lume degli occhi per la soperchieria del Barreca, alla vista di quei baci alla mano, si frenò, diè un grande respiro di soddisfazione, e raccattò da terra il sigaro che gli era cascato nella breve lotta... - Ah!... Era di sì! Non gli occorreva altro! La gente si riversava in chiesa, dalla porta maggiore spalancata tutt'a un tratto; e mentre la processione s'inoltrava per la navata di mezzo, un frate, agitando le braccia, si sporgeva dal pulpito gridando: - Benedictus qui venit in nomine Domini! Domini!Ma il rumore della folla era tale che il predicatore pensò bene di smetter quasi sùbito. Nino, addossato a una colonna, approfittando della gran confusione, faceva cenni, con gli occhi, a Maria, che volevano significare: - Grazie! Grazie! Maria, quasi atterrita dell'assenso dato, sorrideva tristemente. Ora la lotta era presso il Parroco. La campanella di San Giovanni si concedeva al migliore offerente. Il Parroco spiegava: - Capisci, figliuolo mio. Tu rappresenteresti il più amato discepolo di Gesù Cristo, San Giovanni evangelista. Gesù è risuscitato. La Madonna e le Marie non lo hanno trovato nel sepolcro; lo cercano dappertutto dopo che l'Angelo ha detto a Maria Maddalena: - Non è qui! - E così san Giovanni va attorno per avere notizie del Signore risuscitato. 'Ntio! 'Ntio! 'Ntio! Il suono della campanella significa: Lo avete visto? Lo avete incontrato? - per portar la notizia alla Madonna che piange il figliuolo morto crocifisso. - 'Ntio! 'Ntio! 'Ntio! E come se tu fossi San Giovanni!... Dunque che daresti? E il parroco notava il nome e l'offerta. - Scriva - disse Saro Barreca: - Mezza salma di farro. E se ce ne vorrà di più, metterò di più. La campanella dev'essere mia. - Eccola là! - rispose il Parroco. - . Appoggiata al muro. Il manico della campanella, incastrato in bilico su un grosso bastone colorato in rosso, era già ornato di rose finte; e lasciava pendere fino a terra il laccio che doveva permettere di fare quei rintocchi di rito - 'Ntio! 'Ntio! Saro volle provarsi. - Bravo! - disse il Parroco. - Ma bisogna attendere fino a venerdì sera, per la certezza. Si tratta dell'interesse della chiesa; le offerte non servono per me ma per le spese del culto. Nino Sbrizza volle arrivare proprio all'ultimo momento, e soverchiare tutti. Andò, di sera, in casa del Parroco per parlargli a quattr'occhi. Nella sacrestia c'era sempre gente, o il sagrestano; e Nino non voleva testimoni. - Dica, vossignoria; io accetto la sua parola. - Ma, figliuol mio.... - Niente! Pago sùbito, in contanti anche. Dica vossignoria!!! E pago io pure la banda... - Sogliono far cena a mezzanotte. Un montone al forno e vino e càlia... Lo sai! - Due montoni, se occorrono... E quel che vossignoria comanda! Nino, con le braccia dietro la schiena, in piedi davanti al Parroco, attendeva la risposta decisiva, che questi pareva cercasse nel breviario aperto sul tavolino per dire l'ufficio. - E vossia farà la buona Pasqua col tacchino che riceverà sabato mattina... - Oh, per me, nulla! Io non c'entro! Io non c'entro! - protestò il Parroco. - Per la chiesa, per la campanella... una salma di farro o il prezzo.... Sei contento? Faccio una particolarità, per riguardo di tua madre che è una gran devota. - E il tacchino... lo manderà mia madre. Le bacio la mano! La gnà Vicenza col pretesto delle funzioni religiose della settimana santa, stava attorno a Maria Ledda per riportare notizie, per battere il ferro, come lei diceva, mentre era caldo, perché quella benedetta ragazza, riguardo alla fuga, aveva un cuor d'asino e un cuor di leone, secondo i momenti e le piccole circostanze. E Nino le andava dietro da una chiesa all'altra, facendo le viste di visitare i santi Sepolcri. E più tardi, durante la processione del Cristo alla Colonna, si strizzava rabbiosamente le mani e si mordeva le labbra, per quella malombra di Saro Barreca, che, assieme con Pizzuto, ora seguiva, ora precedeva le Ledda. Poi Nino pensava che, tra due giorni, Maria sarebbe scappata di casa con lui, e si rasserenava, e faceva l'indifferente. Quando Saro apprese che la campanella di Pasqua era toccata al suo rivale, andò a prendersela col Parroco, minacciando, bestemmiando nella sacrestia, quasi si trovasse in una taverna. Il Parroco, ch'era un omone, lo aveva preso per le spalle e messo fuori dell'uscio, ripetendo: - Nella mia chiesa faccio quel che mi pare! In quei giorni, Maria Ledda sembrava una mosca senza capo. Si aggirava per la casa, cominciava una faccenda, smetteva, ne principiava un'altra, e rimaneva come incantata, con le braccia ciondoloni, guardando per aria. - Che hai? - le domandava la sorella. Rispondeva con una spallucciata; e se ne andava su la terrazza, quasi nelle stanze sentisse mancarsi il respiro. Ormai aveva detto di sì! Ma che sarebbe avvenuto dopo? Le pareva che non dovesse più rivedere la casa dove era nata e cresciuta; la sua cameretta imbiancata a calce, coi santi appiccicati al cappezzale, la candela della Candelora e la piletta di terraglia per l'acqua benedetta. Nel vuoto del muro, riparato con una vecchia coltre, stavano appesi i vestiti, e giù, su una tavoletta, le scarpe, gli stivaletti, assieme con un cofanetto di paglia, a colori, ripieno di sete, di aghi, di scampoli, di fettucce, di cordelle, e tra essi, un paio di forbicine. La cassa, tinta di verde, a piè del letto, con la biancheria sua particolare, due scialli, uno nero e l'altro di seta gialliccia, per l'estate, fazzoletti, calze, nascondeva, sotto sotto, i regalucci di Nino, che non poteva mostrare ai parenti: due anelli e una collana di corallo. Maria, tirava da parte la coltre e rimaneva a guardare i vestiti, rivoltati, appesi ai chiodi; apriva la cassa verde, metteva sossopra la biancheria, gli scialli, e tastava la carta dov'erano involtati gli anelli e collana. - Non ti prepari, per la visita ai santi Sepolcri e per la processione? C'è, di là, la gnà Vicenza Vicenzache si accompagnerà con noi. Che stai a rimestare? - venne a dire Rica. Rica.- Su, lagnusazza! (1). Io che sono vecchia sono già pronta. E la gnà Vicenza entrata nella cameretta, appena si vide sola con Maria, la rimproverò: - Dovresti, anzi, mostrarti più allegra degli altri giorni! Infine, non vai alla morte. Quel poveretto smania, non vede l'ora. Passerà due volte (1) Lagnusazza, Pigrona. con la banda e la campanella; alla terza volta sarà solo, mentre gli altri mangeranno il montone al forno e si ubbriacheranno nella taverna di Scatà. Un vestito, due camicie, due paia di calze.... Butterai l'involto dalla finestra... e scenderai le scale!... Se non fosse pel buon fine.... Figurati, figliola mia, se penso a dannarmi l'anima! Allegra! Coraggio!... Vuoi che ti pettini io? - Farò più presto da me! - rispose Maria. E aveva il pianto nella voce, e le lacrime che le gonfiavano gli occhi! - Non farti scorgere!... Allegra! Di là si sentiva la parola grave e lenta di massaio Ledda: - Io devo tenere le maniglie della barella del Cristo alla Colonna. È devozione di famiglia: da padre in figlio. Voialtre spicciatevi. Appunto quella sera Maria, che avrebbe voluto vedere il padre alle maniglie della barella del Cristo alla Colonna, dovette voltarsi dall'altra par-te, irritata dalla sfacciata insistenza con cui Saro Barreca la guardava, quasi avesse qualche diritto di perseguitarla in quel modo. E mentre il Cristo, tutto piagato, legato da un cordone dorato alla colonna di argento, con le mani dietro la schiena, barcollava sulla barella, in mezzo alle torce accese davanti alla raggiera che lo circondava, la gnà Vicenza stringendo una mano di Maria, pregava in modo che questa la udisse: - Signore Gesù, aiutate le anime in pena che si rivolgono a voi! Date ad esse forza e coraggio per quel che devono fare; così, con la vostra divina grazia, potranno servirvi santamente in questa vita e glorificarvi, dopo morte, nell'altra! Nino era in grandi faccende per via della cena nella taverna di Scatà. Dalle due di notte - allora si contava cosi - fino alla mezzanotte, la banda andava dietro a colui che sonava la campanella di San Giovanni, con gran rumore di tamburo, di gran cassa e di piatti. Poi fatto onore al montone al forno - pietanza tradizionale in quella occasione - veniva ripresa la passeggiata per le vie, dietro il 'Ntio! 'Ntio! della campanella, con rinforzo di passi doppi, allegramente stuonati??? e grida degli sfaccendati che li seguivano: - Viva la Misericordia di Dio! Nino voleva fare le cose alla grande. Lo zi' Scatà, il tavernaio, in maniche di camicia, con le mani incrociate sul pancione, proponeva: - E se cuocessimo due fili di maccheroni? - No, si andrebbe troppo per le lunghe. - Anzi! Il sugo li fa scivolare giù per la gola meglio di ogni altra cosa. - Vada pei maccheroni! - Vino di Vittoria, arrivato fresco fresco! - E senza battezzarlo, mi raccomando. - Lo zi' Scafa è cristiano, ma il vino lo vuole turco... - Per sé. Ma per gli altri? - E càlia e fave arrostite a disposizione dei bevitori. - Tutto pronto per la mezzanotte. - Non è la prima volta, compare Nino... Io scusate il consiglio - aggiungerei le cassatelle di ricotta col miele. Mia moglie, che è stata nel Monastero, le prepara meglio delle monache... - Non mi dispiacciono, zi' Scatà! Voleva farsi onore. Voleva che, ogni anno, si ricordassero della cena di Nino Sbrizza, quando scappò con la Ledda, la notte del Sabato Santo. E mentre dava gli ordini, gli pareva che Maria fosse presente e l'approvasse, perché la campanella di San Giovanni, e il montone al forno, e i maccheroni e le cassatelle di ricotta col miele, erano in onore di lei, una festa di amore! Glielo ripetè la notte appresso: - Una festa di amore per te!..... Hai tutto pronto? - Ah, Nino! Che mi fai fare! - Ti sei pentita? Non mi vuoi bene? - Ti avrei detto di no, come da principio. Penso a mio padre. Non mi perdonerà! - Fra due mesi, saremo marito e moglie! Non devi pensare ad altro! - Rica forse sospetta qualcosa. Mi ha detto: quella gnà Vicenza! Certe vecchie portano alla perdizione! - Per chi mi hai presa? - le risposi. - Poveretta! Vorrebbe un paio di scarpe vecchie! - È la nostra Provvidenza! Le regaleremo un vestito nuovo. Se lo merita. Hai capito bene? Passerò due volte con la campanella e la banda. Poi li lascerò a ubriacarsi da Scatà. Due soli 'Ntio! 'Ntio!'Ntio! da sentirsi appena; butterai il fagotto giù dalla finestra, io sarò davanti alla porta.... - Zitto!... Mi è parso.... Maria accostò l'imposta; Nino si addossò al muro. Nella fitta oscurità e nel silenzio egli sentiva il battito accelerato del cuore. Maria riaperse lentamente l'imposta. Nino, con un salto, fu sul pezzo d'intaglio che gli serviva da piedistallo proprio sotto la finestra. - Sii pronta, per carità! - Sì, sì! Buona notte! - Buona notte. E Nino si avviò, zufolando, verso casa, strofinandosi le mani dall'allegrezza perché quello era l'ultimo loro colloquio notturno! La festa dell'Inchinata, dalla notte del Sabato Santo alla mattina della Domenica di Pasqua, poteva dirsi una specie di rappresentazione, di Mistero Sacro, dove facevano da personaggi la campanella di San Giovanni, la Madonna avviluppata col manto di lustrino nero, e il Cristo Risorto, col braccio destro levato in alto, il pennone tramato d'oro, attaccato all'asta, nel pugno sinistro. Per ciò ogni anno don Giuseppe il sacrestano ripeteva le istruzioni a colui che doveva fare da San Giovanni, e ai quattro giovani massai che regalavano due tumoli di frumento ciascuno per portare a spalla la leggera barella della Madonna col manto. - Nella nottata, è niente. 'Ntio! 'Ntiò! per le vie; ma, domenica mattina, quando vien la Madonna in cerca del Signore Resuscitato e va ad attendere nella chiesetta di San Rocco, voi, figliuolo caro, dovete correre su e giù, tra le due ale di confratelli schierati in piazza; andare come uno sperduto che non sa più dove dar la testa; sempre più lesto, sempre più lesto, perché vorreste consolare la Madonna: Finalmente! L'ho trovato! Intanto il Signore Resuscitato vien portato nella Piazza, con la testa alta, con quegli occhi da spiritato che mettono paura... E appena voi lo vedete, un bell'inchino con la campanella e con tutta la persona e, addietro, di corsa. 'Ntio! 'Ntio! 'Ntio! Voialtri, con la barella della Madonna, accorrerete alla notizia, a precipizio; io tiro il laccio che fa andar giù il manto e.... tre volte avanti, tre volte indietro, tre inchini tra Madre e Figlio. Poi si fermano l'uno di faccia all'altro, fino a che non arriva il clero col Santissimo Sacramento, e non si avvia la processione, la Madonna innanzi, il Signore Resuscitato dietro, e San Giovanni con la campanella 'Ntio! 'Ntio! quasi per invitare a gridare: Viva! Viva! Viva!Non c'era bisogno di queste istruzioni; ma don Giuseppe avrebbe creduto diminuita la sua autorità se non avesse riuniti nella sacrestia Nino Sbrizza e gli altri quattro giovani massai. Il suo zelo, però, non era proprio disinteressato. Nino infatti gli disse: - Verrete a prendere un boccone assieme coi bandisti, da Scatà, domani notte. E gli altri: - Scusate, don Giuseppe. Bevete un bicchiere di vino alla nostra salute. Don Giuseppe stese la mano e intascò, senza fiatare, quel pugno di soldi. - Sissignore! Col camice da confratello! E Nino, al lume del mozzicone di torcia accesa da don Giuseppe su un piccolo candelabro della sacrestia, indossava il camice e la mantellina rossa; ma sopra di esso infilava il giubbone di panno, sfoderato di lana verde, col cappuccio, per garantirsi dal freddo di quella nottata di marzo, che era proprio di quello che penetra fin il corno del bue! bue!Appena l'orologio della chiesa finì di sonare i cento colpi - din-don - delle due ore di notte.... Nino si mise alla testa della banda, tirando il laccio che pendeva dal manico della campanella infiorata. 'Ntio! 'Ntio! 'Ntio! 'Ntio!Si udiva per le vie il grande scalpito degli scarponi dei contadini che seguivano la banda, e il picchiare dei loro bastoni sul selciato quasi per battere la solfa. E, di tratto in tratto, le grida: - Viva la Misericordia di Dio! Maria aveva dovuto fingere di andare a letto dopo che la campanella era passata per la via, tornando indietro. Tendeva l'orecchio per convincersi che il padre e la sorella fossero nel primo sonno; e non osava di accendere il lume, di mettere i piedi a terra, con le sole calze, per non fare il minimo rumore. Nel gran silenzio della notte, le arrivava, ora sì, ora no, il lontano 'Ntio! 'Ntio! 'Ntio!della campanella, la voce di Nino, le pareva, che si raccomandava: Tienti pronta! Tra un'ora sarò costì! Tra un'ora! Oh, per amore di lui si sarebbe buttata viva nel fuoco. Ma quella fuga diventava per lei qualcosa di peggio. Lei stessa aveva terrore che, all'ultimo momento, non le venissero meno la forza e il coraggio.... Ed ecco - mettevano i brividi, quasi lanciassero per l'aria un malaugurio - ecco i cento colpi dell' orologio - din-don - che suonavano la mezzanotte dal campanile della Matrice. Arrivavano da lontano, fiochi, lenti... non finivano più. Tra mezz'ora, tra un quarto d'ora. Nino avrebbe lasciato gli altri nella taverna di Scatà.... L'avrebbe condotta da una parente di lui, e sarebbe tornato a riprendere il giro con la campanella e la banda, fino all'alba, come se niente fosse stato!! Nella casa e nella via silenzio profondo. Acceso il lume, preparò il fagottino, infilò le scarpe, si buttò addosso lo scialle, e si sedette accosto alla finestra socchiusa, soffocando i singhiozzi con un fazzoletto, col cuore in tumulto, trasalendo a ogni piccolo rumore. Udì lievi passi sotto la finestra. Spense il lume, aprì metà dell'imposta, e tossì leggermente. Le fu risposto allo stesso modo. - Tieni! Scendo! Il fagotto non era caduto per terra. L'imposta fu socchiusa, il lume riacceso; e due minuti appresso per la via dove ancora non erano lampioni, nella fitta oscurità della notte, risuonarono i passi dei fuggitivi.... Immediatamente, allo svolto della cantonata un gran grido di donna che chiamava: Aiuto! Aiuto! Poi, niente. Pietro Chitella, inteso Lasagna, si era precipitato nella taverna di Scatà come, se fosse stato inseguito, pallido, con la voce strozzata nella gola: - Hanno ammazzato... qualcuno! - Dove? - Lassù... Vicino a casa mia. Un grido: Aiuto! Aiuto! - È il vino di Pasqua! Eh? - disse lo zi' Scatà che non voleva disturbata la festa. Il brigadiere dei carabinieri però ordinò di preparare le lanterne e con due militi e parecchi della banda che volevano vedere il morto - Torniamo subito! - si affrettarono dietro a Lasagna che ripeteva, senza andar oltre nella narrazione: - Volevo accendere la pipa dopo di aver chiuso la porta... Erano tre, quattro alla svolta della cantonata.... Andavano di fretta, si capiva dal rumore dei passi.... E tutt'a un tratto: Aiuto! Aiuto!... Lasciai di accendere la pipa... Mi parve voce di donna! Nino era rimasto inchiodato su la seggiola, sbalordito dal contrattempo. - Quel Lasagna! È il vino di Pasqua!... Allegria, signori miei!... Lo zi' Scatà andava da un punto all'altro della tavola per rianimare la festa; ma pure quelli che eran rimasti là si sentivano impressionati dalle parole di Lasagna. Lasagna.- Anche voi, compare Nino. Dove volete andare? Nino, che si era tolto la mantellina rossa e il camice da confratello, s'infilava in fretta in fretta il giubbone di panno, e scappava via, senza rispondere una parola, quasi uno gli avesse sussurrato all'orecchio... non capiva che cosa, ma una cosa trista assai... E a mezza strada, incontrò il brigadiere e gli altri che tornavano addietro ridendo: - Niente! Niente! Una ragazza rapita, pare. Sentiremo domani! Lo avevano visto sparire nel buio, e lo attesero invano da Scatà. Don Giuseppe il sacrestano, all'ultimo, prese lui la campanella e uscì per le vie, seguito dalla banda: 'Ntio! 'Ntio! 'Ntio!Nino intanto, come un cane da fiuto, andava; gli pareva di seguire una traccia, dopo che aveva trovato aperta la porta di massaio Ledda e Maria non aveva risposto alla chiamata nel vicolo. - Com'è stato? Com'è stato? Si fermava, origliava, riprendeva a correre all'impazzata. E l'alba lo trovò seduto a pie' di un ballatoio, in una straducola, coi gomiti su le ginocchia, con la testa tra le mani, quasi rantolando: - Scellerata! Scellerata! Due giorni dopo, Pizzuto si presentava al brigadiere: - Creda, creda, signor brigadiere! È stato per caso. Chi ne sapeva niente? Io avevo detto a Saro Barreca: - Vuoi scommettere che Nino Sbrizza penserà di far assaggiare alla Ledda le cassatelle con la ricotta preparate da Scatà? - E andammo ad appostarci in fondo al vicolo, per mettergli paura e portargli via almeno le cassatelle... Fu così, signor brigadiere!.... Chi ne sapeva niente? Ora, però, bisogna accomodare la faccenda. La picciotta dice ancora di no! Ma, capisce? Saro, che n'era inmamorato pazzo... Capisce?... Non è giovane per nulla... Vedrà. Si aggiusterà ogni cosa. Venga con me. Intanto bisogna tener d'occhio Nino Sbrizza, che non vuol credere al caso e minaccia di ammazzare, di squartare!!... Dovette crederci, povero Nino, quando seppe che la sua Maria, non potendo sopportare la triste fatalità e la violenza patita, si era conficcata nella gola un paio di forbici, ed era morta proprio mentre Pizzuto diceva al brigadiere: - Venga! Si aggiusterà ogni cosa! Saro è pronto!....

Il Drago e cinque altre Novelle per fanciulli

662593
Capuana, Luigi 1 occorrenze

La mattina, mentre egli si disponeva a mungere il latte, gli abbai del cane gliene preannunciavano l'arrivo; e tosto giungevano, ognuno munito di piatto, di cucchiaio e di una fetta di pane fresco, per mangiare la giuncata o la ricotta calda o semplicemente una zuppa di pane e latte. Fossero rimasti tranquilli, non sarebbe stato niente. Ma volevano metter le mani dappertutto, mungere lo- ro, e loro rimescolare il latte posto a scaldare, e loro far fuoco, e aiutare il pecoraio, cioè e imbarazzarlo nelle delicate operazioni del frutto, come egli diceva. Il poveretto doveva avere cent'occhi, cento mani per impedire che quei benedetti figliuoli non rovesciassero la caldaia o i secchi col latte. Fin il cane di guardia si mostrava seccato del chiasso importuno, e ringhiava accoccolato davanti al pa- gliaio per impedire che coloro vi entrassero; pareva capisse che quei ragazzi avevano paura della bestia sciat- ta, pelosa e brutta che egli era. Quella volta intanto, invece d'un giorno e mezzo, i ragazzi dovevano rimanere alla fattoria l'intera setti- mana. C'erano non so quali vacanze, e il babbo, forse per stare più tranquillo in casa, li aveva mandati in campagna. Indurli a tornare alla fattoria, dopo mangiata la giuncata o la ricotta o la zuppa di latte, ogni mattina era una fatica. - Vogliamo stare con voi; venire dietro le pecore! Il pecoraio, alla fine, era riuscito a persuaderli; prometteva che, al ritorno dal pascolo, avrebbe loro porta- to fiorì di campo, o nidiate di uccelli, o bacchette lunghissime, o avrebbe raccontato una bella fiaba; così i padroncini lo lasciavano in pace. Un giorno però essi volevano aspettarlo dentro il pagliaio, per non rifare due volte la strada dalla fattoria alla mandra. - Dentro il pagliaio no! - Perchè? - Perchè no. Lì non ci può entrare nessuno. I ragazzi parvero convinti di questa perentoria ragione. Ma appena stimarono che il pecoraio doveva esse- re con le pecore nella vallata dello Sgombo, tornarono addietro da sotto il carrubo dove s'erano fermati a mezza strada, e in due salti si trovarono davanti al pagliaio. Avevan ordito una congiura. Sapevano che il pecoraio riponeva lì dentro la ricotta che poi la sera egli so- leva portare alla fattoria; dovevano mangiarsi quella ricotta, per farlo disperare. E la mangiarono. * * * Il povero pecoraio strillò contro i contadini della fattoria; sospettava autore del furto uno di loro. Non gli era accaduto mai in vita sua che qualcuno avesse osato rubargli una goccia di latte; intanto, da due giorni, gli mancava un bel cesto di ricotta al giorno. - Se me n'accorgo, rompo la testa anche al figlio di mio padre! E i ragazzi che erano presenti alla sfuriata, stettero zitti e seri, un po' impauriti della minaccia; ma appena il pecoraio andò via, di nascosto dei contadini, per non farsi scoprire, si diedero a saltare, a ridere, a battere le mani, applaudendosi per la prodezza fatta. Non risero il terzo giorno. Tornavano quatti quatti alla fattoria rimpinzati della ricotta fresca rubata; quando proprio sotto il carubbo dovettero fermarsi. Si erano guardati in viso, e si eran visti pallidi, bianchi come cenci lavati, e non avevano potuto dirsi nep- pure una parola, tanto si sentivano sconcertati di stomaco. Il minore diè l'esempio il primo; poi lo imitarono gli altri tre, uno appresso all'altro, quasi invece di ricot- ta avessero ingoiato un violento vomitivo. Il minore piangeva, chiamando: - Mamma! Mamma! - Il maggiore voleva fare il coraggioso, ma non si reggeva in piedi. Si misero a piangere tutti e quattro, a gridare, a chia- mare il fattore. Un uomo accorse dal fondo vicino, e si spaventò vedendoli ridotti a quel modo. Ne prese in collo due, li portò alla fattoria, e tornò a prendere in collo gli altri sotto il carrubbo. Le donne del fattore non sapevano che rimedio apprestare; volevano spedire un messo al paese per avver- tire il padrone. - Che avete mangiato, Signore Iddio? Uva agresta? Frutta immature? - Abbiamo mangiato la ricotta! Lo confessarono tutti e quattro insieme. Ma nessuno gli credeva,. vedendoli contorcere anche dai dolori di pancia; pensavano che il pecoraio non poteva poi avergliene data tanta, da produrre: quello sconquasso. Il pecoraio passava tra quei contadini un po' per medico, un po' per fattucchiere; perciò gli diedero la vo- ce dall'alto; - Venite su, presto: venite! Lasciate le pecore. - Lui solo poteva consigliare, lì per lì, qualche ri- medio per quei poveri bambini. Arrivò trafelato; e appena li vide, si diè un colpo alla fronte: - Madonna! Erano loro che mi rubavano la ricotta! Per accertarsi che il ladro fosse stato uno dei contadini della fattoria, come gli era venuto il sospetto, quel- la mattina egli aveva messo nel latte certi succhi di erbe a lui note, che non facevano molto male, ma davano dolori di pancia e producevano vomiti. - Non è niente, - disse. - Un po' d'acqua bollita, con due stille di limone. - E il poveretto angustiandosi che il vomitivo fosse proprio toccato ai ragazzi, non finiva di ripetere, me- ravigliato e mezzo incredulo: - Erano loro che mi rubavano la ricotta. * * * La lezione giovò. I ragazzi nei giorni appresso lasciarono in pace pecoraio e pecore, e non vollero neppur sentir nominare la ricotta. Fecero anche meno chiasso, meno capestrerie. D'allora in poi, a ogni loro ritorno alla fattoria, se essi ac- cennavano a riprendere un po' dì solito aire, bastava che il fattore dicesse: - Eh, padroncini, ci vorrebbe un po' di ricotta! - perchè tutti e quattro si frenassero e anche stessero un po' cheti.

SCURPIDDU

662771
Capuana, Luigi 2 occorrenze

Altre volte si udivano fuori gli abbai di due-tre cani. Qualcuno degli uomini si affacciava dal portone per vedere chi arrivava a quell'ora, e non vedendo cani e nessuno, richiudeva il portone ridendo: - È quel boia di Scurpiddu ! E Scurpiddu compariva poco dopo, lieto della burla fatta. Un giorno, tornando a casa coi tacchini, aveva portato sotto un braccio tre lunghi steli di cipolle fioriti. - Che ne vuoi fare? - gli aveva domandato la massaia. - Niente. Mi servono. E quella sera, mentre gli uomini mangiavano la minestra, egli era sgusciato fuori zitto zitto. Si udiva un muggito lungo, lamentoso, dalla parte dell'agghiaccio dei buoi. - Che sarà? - esclamò il massaio. - Va vedere. Il Soldato uscì fuori, s'inoltrò sulla strada che menava all'agghiaccio, e da lontano chiamò: - Zi' Girolamo! - Ohi! - quegli rispose. - Che vuol dire questo muggito? - Che ne so io? Viene di costì. Infatti il muggito lungo, lamentoso, partiva dai fichi d'India dietro il frantoio, dal lato opposto dell'agghiaccio. Il Soldato si accostò con cautela ai fichi d'India, e al lume di luna scorse Scurpiddu che soffiava dentro uno stelo di cipolla come in una tromba e ne traeva quel suono che imitava così bene il muggito d'un bove, da ingannare. - Ah, sei tu! E se Scurpiddu non scappava, avrebbe ricevuto quattro bei scappellotti. Il Soldato tornò maravigliato, alla masseria: - È quel discolo di Scurpiddu ! La cosa parve così strana, che il massaio volle vedergliela ripetere là, davanti a tutti. E accadde che lo zi' Girolamo, intricato anche lui, si mosse dal suo corbello e cominciò a chiamare: - Ohi! Ohi! Che è stato? Il Soldato , riconosciuta la voce, si affacciò su la soglia e gli gridò: - Venite! C'è un bove smarrito. E lo zi' Girolamo era tornato indietro scornato, minacciando Scurpiddu con la mano, dopo che si accorse della burla. Le sere di pioggia, nel novembre, attorno al fuoco acceso per asciugarsi i vestiti, gli uomini lo invitavano: - Scurpiddu , fa' la rissa del cane col gatto. Non se lo faceva dire due volte. E non imitava soltanto i ringhi, gli abbai, i miagolamenti e gli sbuffi dei due animali, ma le loro mosse, e così abilmente che pareva di vederli. - Bravo, Scurpiddu ! E battevano le mani. - Soltanto la lettura stenti ad apprendere! - gli rimproverava il Soldato . Infatti faceva fatica, quantunque ci mettesse molta buona volontà. Ma forse la colpa era un po' del maestro che non ne sapeva molto neppur lui, e non era destro nell'insegnare quel pochino che sapeva. E poi Scurpiddu , era ragazzo, si distraeva facilmente. Quando aveva sillabato un quarto d'ora da solo, cominciava a sbadigliare. Certe sillabe non c'era verso gli entrassero nel cervello, o vi entravano a rovescio. E più egli stava attento, per non sbagliare quando arrivava a quel punto, e peggio sbagliava. Nella masseria c'era il Soldato che gli gridava subito: - Bestia! Ma lassù, su la collina dell'Arcura o sotto gli ulivi del Piano del Galluzzo, egli rimaneva sempre incerto se avesse sbagliato o no; chiudeva subito il sillabario, e si metteva a sonare con lo zùfolo la ninna-nanna del Natale, dolce e malinconica melodia. E durava a suonare per ore ed ore, interrompendosi soltanto per dar la voce a qualche tacchino che si allontanava troppo dagli altri. - Dove vai, Notaraccio ! E con una sassata lo faceva tornare addietro. - Sciò, Fra Giuseppe ! Sciò! E brandendo la canna, lo rincorreva. Aveva trovato altri nomi per le sue bestiole: Massaio, Soldato, zi' Girolamo, za' Tegonia, Don Pietro, Correntina, Scanza-fatica . A un tacchino giovane avea appiccato fin il proprio nomignolo di Scurpiddu , ed era il tacchino che gli dava più da fare, sempre avanti a tutti, sempre sbandato e sempre in rissa con gli altri. Da principio, quando alla masseria ignoravano quel battesimo, sentendolo esclamare: - Scurpiddu infamaccio! - non capivano perchè si sgridasse da sè. - L'hai con te stesso, Scurpiddu ? - gli domandava il Soldato . Si distraeva pure con fare la guerra, come egli diceva, ai tacchini. Il prepotente era Scurpiddu che l'aveva con Notaio e Soldato , chi sa perchè. Stirava le ali fino a terra, apriva a ventaglio la coda e pettoruto, col bernoccolo e i bargiglioni gonfi, rossi e violacei, si scagliava addosso all'avversario. Allora Scurpiddu li incitava con la voce e coi gesti, li aizzava, gridando: - Guerra! Guerra! Spesso erano quattro a una volta che entravano in lizza. Scurpiddu faceva far largo agli altri e batteva le mani, saltava di qua e di là: - Guerra! Guerra! E pareva che i combattenti lo capissero. Si accanivano, inferocivano. Notaio afferrava col becco il bernoccolo di Scurpiddu e glielo tirava, glielo tirava, quasi volesse strapparglielo. Scurpiddu tramortiva un po', ma riprendeva subito la lotta; e quando aveva afferrato il bernoccolo di Notaio non voleva rilasciarlo più, fino a che l'avversario non si dava per vinto. Mommo interveniva; picchiava con la canna addosso ai combattenti, dava pugni e calci per dividerli, se no si ammazzavano; e poi si metteva a suonare una marcia strana, inventata da lui, e che, secondo la sua intenzione, celebrava la vittoria. - Peccato, - egli pensava, - che lassù non ci era nessuno a godere quello spettacolo! C'erano soltanto le tàccole che passavano a stormi, gracchiando, e i falchetti che squittivano, librandosi su le ali prima di piombare come un sasso su qualche animaletto, scoperto dall'alto tra l'erba. La vallata sembrava presa da torpore sotto la vampa del sole. Si udiva, lontano, il campanaccio dei buoi dello zi' Girolamo, ma non si vedeva anima viva per le colline attorno. Laggiù laggiù, un branco di capre si arrampicava tra le rocce, brucando. E Scurpiddu tornava a cavar fuori dalla tasca il sillabario e ricominciava a compitare. Spesso si fermava, meravigliato che quei segni potessero parlare. Come facevano per dire: Pa-ne, Pon-te, Can-na? Eppure dicevano così! Ora ci prendeva gusto a quella specie di giuoco, svoltava pagina, si arrestava davanti alle difficoltà, si ingegnava di vincerle, e guardava all'ultimo le pagine con righe tutte unite che gli parevano un imbroglio inestricabile e che il Soldato però leggeva facilmente. Un giorno o l'altro le avrebbe lette anche lui. E tentava. E se riusciva a compitar bene qualche parola, la segnava per domandare poi al Soldato : - È vero che qui dice così? - Bravo, Scurpiddu ! Ora che il massaio gli aveva regalato una tàccola piccina, appena coperta di piume, Scurpiddu aveva un altro motivo di distrazione. La portava con sè nella sacca a tracolla e la imbeccava e l'addestrava a venirgli dietro come un cagnolino. - Paola ! Paola ! E la tàccola gli salterellava appresso, gracchiando. La metteva sul dorso di Notaio o di Don Pietro ed essi dovevano portarla attorno mentre pascolavano. Paola spesso saltava giù, annoiata di star ferma. Ma egli la prendeva per le ali e la rimetteva al posto. - Qui devi stare in carrozza. La tàccola aveva finito con avvezzarsi, e stava, signora in carrozza, passando da un tacchino all'altro, ora che aveva messo le ali. Scurpiddu l'addestrava anche a volargli addosso ad ogni richiamo. Paola faceva due o tre giri in alto e poi andava a posarglisi su la spalla o sul braccio. Scurpiddu l'accarezzava, le lisciava le penne lucide e nere, le dava a imbeccare un grillo, un baco, e tornava alla masseria con Paola appollaiata su la testa, sonando allegramente con lo zùfolo la ninna-nanna di Natale, interrompendosi per chiamare: - Paola ! Paola ! - lieto che Paola gli rispondesse con un gracchio quasi per dirgli: Sono qui. - E sùbito gli tirava col becco i capelli che gli scappavano fuori del berretto su la fronte. La sera, egli la metteva a dormire in un paniere appeso al muro del suo bugigattolo; le avea formato con un po' di fieno una specie di nido. E mentre egli si ficcava sotto la coperta di lana, le diceva: - Paola , buona notte! Paola rispondeva con un roco chioccolio e s'addormentava.

Si udiva il campanaccio dei buoi e delle vacche che tornavano dal beveratoio, e gli abbai dei cani. Il cielo era coperto di nuvole rossicce. Una gran pace si diffondeva attorno di mano in mano che più calava la sera. Massaio Turi e Mommo camminavano silenziosi, affrettando il passo dopo che dalla scorciatoia stretta tra due ciglioni erano sbucati nella larga strada che conduceva al beveratoio e di là, svoltando a destra, alla masseria. Avevano raggiunto i buoi e le vacche coi vitelli che andavano lentamente, seguiti dal bovaro con la sacca a tracolla e il bastone su la spalla. - Gesù e Maria, zi' Girolamo! - Gesù e Maria! - Come va la Stellata? - Meglio, grazie a Dio. - Nuova-legge? - Non zoppica più. - E le Nonne che fanno, zi' Girolamo? - Ma che Nonne ! Lasciatemi stare! - Eppure la gente giura che voi siete della combriccola, e che la notte andate attorno con loro. - Io dormo la notte, massaio mio. - Lo so come dormite. Massaio Turi amava scherzare col vecchio bovaro a proposito delle Nonne , esseri fantastici a cui la superstizione popolare attribuisce la facoltà di entrare nelle case pel buco della serratura, conducendo con loro quelli della combriccola , come egli diceva. Lo zi' Girolamo parlava poco: dormiva in modo strano, seduto sul fondo di un corbello rovesciato, di estate all'aria aperta, in mezzo alle sue bestie legate a un cavicchio con una fune attaccata alle corna: d'inverno, sotto la tettoia della stalla, avvolto nel giubboncello di albagio e rannicchiato in un angolo. Così accreditava la voce diffusa tra i contadini ch'egli andasse attorno con le Nonne ; se no, dicevano, avrebbe dormito come tutti gli altri cristiani, in un letto, in un giaciglio e non seduto sul fondo di un corbello. Mommo stava a sentire, sbarrando gli occhi, guardando con un senso di paura il vecchio che di tratto in tratto lo guardava anche lui. Mommo credeva alle Nonne , ne aveva udito parlare dalla sua mamma e da altri ragazzi. La sua mamma una volta aveva raccontato alle vicine che le Nonne le avevano levato un bambino dalla culla e glielo avevano deposto sul letto. E poi quel bambino era morto. - Cielo rosso, vento! - sentenziò lo zi' Girolamo dopo una lunga pausa, osservando le nuvole. Intanto giungevano vicino alla masseria. Due grossi cani erano mossi loro incontro, abbaiando e saltellando festosamente attorno al padrone. Visto il ragazzo, ringhiavano minacciosi. Massaio Turi li acchetò con la voce e col gesto, e prese per mano il ragazzo che indietreggiava dalla paura. - Impareranno a conoscerti, - gli disse. E rivolto allo zi' Girolamo soggiunse: - Ho trovato quest'anima del Purgatorio lassù. Sarà il nuzzaru . - Se vuoi mangiar pane, qui si sta bene, figliuolo mio, - fece lo zi' Girolamo. - È figlio di compare Pino Scagghiu, che morì cadendo da un albero di ulivo, l'anno scorso. - Requie materna ! - borbottò lo zi' Girolamo. I buoi e le vacche coi vitelli si erano fermati su lo spianato, ognuno al suo posto davanti il proprio cavicchio; e lo zi' Girolamo, prendendo una delle funi, cominciò a legarla alle corna dell'animale che le era più vicino. - Ora vi mando la minestra, - disse massaio Turi. - Santa notte, massaio. Davanti alla porta della casa, la massaia aspettava il suo uomo con la candela a olio già accesa. Dal camino della cucina salivano nugoli di fumo che si assottigliavano e si disperdevano per l'aria sul fondo incupito del cielo. Cap\ II La mattina dopo, la massaia aveva condotto Mommo nel pollaio, a lato del frantoio delle ulive, per fargli la consegna dei tacchini. All'apparire di lei con la sporta di giunco piena di becchime, le galline le si affollarono attorno chiocciando e starnazzando. Erano uscite nel vasto cortile insieme coi tacchini: ma questi restavano in disparte, quasi non si degnassero di mescolarsi con quei miseri polli che non potevano fare la ruota come loro, e forse anche perchè sapevano che quel becchime non era per loro. - Socchiudi il cancello e conta. Sai contare? - Sì, - rispose Mommo. - Tieni: questa canna ti servirà per guidarli. Li condurrai lassù, dov'è quel prato: sanno la via, vedrai. Domani verrà con te il massaio a insegnarti altri posti. Questa è la colazione: ti farò una bella sacca poi; per oggi metti il pane in una tasca e il companatico nell'altra, se avrai sete, guarda, sotto quel fico, tra le macchie di rovi, là, a dritta, c'è la fontana. E i tacchini, bada! tienli sempre raccolti, per non perderli di vista. Conta dunque. Spinti avanti dalla massaia, i tacchini cominciarono a sfilare a uno a uno, a traverso il cancello socchiuso, con gran stupore di Mommo. Erano sessantaquattro. - Il Signore ti benedica! Io do il becchime alle galline. I tacchini si avviarono. Mommo sollecitava con la canna quelli che si fermavano a leccare tra l'erba ai lati della strada. Arrivati sul prato, si sbrancarono a pascolare; e Mommo, che avrebbe voluto mangiare tranquillamente la sua colazione, doveva rincorrere i maschi che si allontanavano troppo; non voleva perderli di occhio. Le femmine pipiavano dimesse. Poi quando i maschi, ben pasciuti, cominciarono ad aprire le ali e a far la ruota. allungando il bernoccolo rosso pendente sul becco, egli trasse fuori dalle tasche il pane e il formaggio e cominciò a mangiare in piedi, appoggiato alla canna, dando occhiate intorno. Vedeva arrampicati su pei fianchi della vallata di rimpetto, i buoi e le vacche e lo zi' Girolamo seduto su un masso, immobile, quasi dormiente. - Chi sa se è vero, - pensava Mommo, - che egli va con le Nonne ? Laggiù, nella terrazza della casa, la massaia sciorinava i panni lavati, aiutata dalla vecchia serva. Il massaio, davanti a la stalla, faceva rimettere i ferri alle mule dal maniscalco venuto apposta la mattina. Le galline, sparse sul mucchio del concime, razzolavano al sole. Di lassù le persone sembravano piccine piccine. Mommo pensava alle scarpe che il massaio gli avrebbe comprato la domenica prossima, e alle camicie e al vestito promessogli dalla massaia. Era contento di avere un bugigattolo presso il pollaio, col pagliericcio e la coperta di lana. Quel bugigattolo gli pareva già cosa sua. Egli teneva in tasca la chiave dell'uscio. Colà poteva riporre quel che voleva, senza che nessuno venisse a toccargli niente. Era contento anche del coltellino col manico di ferro regalatogli dalla massaia per affettare il pane. Tagliava bene quel coltellino. Con esso si sarebbe fatto uno zùfolo di canna, come quello che aveva quando guardava i tacchini del notaio. Lo aveva venduto per un soldo a un ragazzo di Palagonía. Ora ne avrebbe costruito uno migliore. Per non stare disoccupato, mentre i tacchini, sazi di pascolare, riposavano accoccolati tra le erbe, s'era messo a inseguire farfalle, a chiappare grilli: e quando ne aveva pieno il pugno, li buttava ai tacchini che si azzuffavano per beccarseli. I tacchini rimessisi a pascolare, andavano verso la fontana, lentamente, disposti in larghe file di otto o dieci ognuna, frugando tra l'erbe, ingoiando insetti. Così potè ricontarli bene erano sessantaquattro, tre ventine e quattro, com'egli diceva. La fontana sotto il fico che quasi la nascondeva coi suoi rami e circondata da rovi, era piccola, limpidissima, una specie di conca riparata da una grotticella scavata nel tufo, con le pareti coperte di capelvenere. Per bere bisognava chinarsi e tuffarvi le labbra. Un merlo scappò via squittendo dalle macchie di rovi, appena Mommo vi battè su con la canna. - C'è un nido, - egli pensò. E volle accertarsene. Si graffiò le mani per rimuovere i tralci spinosi, ma scoprì il nido con le uova. - Prenderò poi la covata, - disse sorridendo. E accortosi che i tacchini erano sbucati su la strada li rincorse e li rimenò indietro nel prato. I quattordici tacchini del notaio egli li aveva battezzati tutti con nomi diversi. Uno, il più grasso, lo aveva chiamato Notaio ; un altro, Cionco , perchè gli mancavano due branche a una zampa e ciampicava; il terzo, Fra Giuseppe , dal colore delle penne somigliante a quello della tonaca del frate cappuccino che veniva in campagna, per la cerca del grano e delle ulive. A una delle tacchine aveva messo nome Signa Rosa (sora Rosa), come si chiamava la serva del notaio, e perchè era grigia come lei. Poi, c'erano la Rossa , la Monacella , la z'a Miseria , magra e malaticcia, e Senza-coda , ridotta tale dai figli del notaio che si erano divertiti a strappargliela. Quanti mai nomi ci volevano qui! Tre ventine e quattro! Intanto uno dei tacchini poteva benissimo chiamarlo pure Notaio ; era grosso e pettoruto proprio come il notaio. A quell'altro avrebbe rimesso il nome di Fra Giuseppe . Rosse c'erano più di sei tra le tacchine. Come fare? Quella più grassa, però, l'avrebbe nominata Massaia Al resto penserebbe poi. E, sul tardi, nell'avviare il branco verso la masseria, già adoprava quei nomi. - Sciò, Notaio ! Va diritto, Fra Giuseppe ! Lesta, Massaia ! Con la canna dietro il collo e le braccia accavalcate ad essa, visto che i tacchini andavano difilato, Mommo si era messo a zufolare. La massaia, che lo aveva scorto dalla terrazza, lo aspettava davanti al cancello del cortile per ricontare i tacchini. Di tratto in tratto, afferrava una tacchina, la tastava per accertarsi che la mattina dopo avrebbe fatto l'uovo, e le impediva di entrare con gli altri. - Queste le faremo salire sui corbelli con la paglia appesi al muro. Domani prenderai le uova. E le tacchine, già avvezze, appena ella spalancò l'uscio socchiuso, si avviarono verso l'uscio del pollaio, e con una volatina saltarono sui corbelli e si accovacciarono. Allora la massaia fece entrare gli altri tacchini, che andarono ad appollaiarsi sulle travi di agave conficcate agli angoli, uno accanto all'altro. - Paiono tanti canonici al coro! - disse Mommo ridendo. - Domattina, spazzerai il cortile. Quella è la granata. La spazzatura la butterai sul mucchio del concime, là. - Sissignora. Mommo intanto guardava un fascio di canne addossate a un angolo. - Posso prenderne una? - domandò. - Prendila. Scelse la più grossa, la spezzò a metà. E buttò via la parte superiore. - Mi faccio uno zùfolo. - Prima va' dal massaio, - rispose la padrona. - Quant'è che non ti pettini? Mommo alzò le spalle. Massaio Turi, seduto sullo scalino del portone del frantoio teneva sul braccio un grembiule di traliccio della serva e in mano una gran forbice. - Vieni qua, tu che sembri un gufo con quei capellacci! Se lo mise tra le ginocchia, gli avvolse attorno alle spalle e al petto il largo grembiule, e gli cacciò le forbici tra i capelli. Mommo, a ogni forbiciata, aggrinzava gli occhi, ritirava il collo tra le spalle, scoteva la testa per evitare il solletico dei peli che gli cascavano su la faccia. - Cheto! - lo sgridava il massaio. Mommo però non poteva star fermo, sentendo su la cute il freddo della lama delle forbici che gli rasavano i capelli fino alla radice. - Cheto! E il massaio con una mano gli teneva la testa, e con l'altra menava attorno le forbici, quasi tosasse una pecora. - Così non hai bisogno di pettine! - esclamò all'ultimo, soffiandogli su la faccia per mandar via i peli cadùtivi. Mommo si passò le mani sul cucuzzolo mondo, e si trasse indietro senza dir nulla, guardando compassionevolmente i mucchietti di capelli sparsi per terra. Tutt'a un tratto, preso da strana allegria, fece due capriole, poggiando le mani a terra e levando agilmente le gambe in aria. Gli sembrava di essere diventato un altro, tosato a quel modo.

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