Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbagliava

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Senso

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Boito, Camillo 1 occorrenze

Non solo aveva smesso di nevicare, ma il cielo, in gran parte sereno, con quel contrasto del bianco della terra, che abbagliava gli occhi, appariva d'un colore turchino splendido. Camminavo seguendo le peste leggiere, le quali ora, per un buon tratto, si seguivano regolarmente, ora si smarrivano di qua o di là per rientrare poco dopo sulla linea torta della via, e nello stesso tempo guardavo in basso alla valle, alla pianura. Sulla pianura stava, immobile, una massa non interrotta, lunghissima di nubi dense, che si vedevano dall'alto al basso. Illuminate dal vivo sole parevano candide sul dorso, d'un candore argenteo, e coperte come di ondulazioni, di vette, di punte strane, che le facevano somigliare a catene di monti nevosi, e sembrava di potervi camminare sopra; ma di giù erano brune, tenebrose, fracide di folgori e di tempeste, e mettevano in un'ombra triste e nera i paeselli e i campi della vallata lontana. Sotto a quella coltre, a quella cappa plumbea doveva farci notte. Le traccie si perdevano. A destra, dalla parte del mezzodì, il monte alzandosi a picco sopra la strada, serbava in essa la neve tanto ghiacciata, lustra, sdrucciolevole, che non si poteva reggersi in piedi. Poco appresso le pedate ricomparivano. Giunto a' piedi della prima cappella, m'arrampicai più lesto: guardai dentro, non v'era nessuno, ma si vedeva sul suolo il segno della neve portata di fresco dalle scarpe d'una persona, la quale era andata fino al cancello, che divide la parte destinata ai preganti dalla parte destinata alle immagini. La scena rappresentava in molte figure grandi al naturale, eseguite in terra cotta e dipinte a briosi colori, la Natività di nostro Signore; personaggi sacri e personaggi profani, animali e prospettive, tutto sembrava il vero tale e quale, un vero che stupiva e che disgustava. Tornai a camminare con l'animo sempre più inquieto e con ansia sempre più affannata. Mi asciugavo la fronte, da cui gocciolava il sudore; sbottonavo la pelliccia; le ginocchia mi tremavano; dovetti fermarmi un istante a riprender fiato. In quel mentre si distendeva giù, dal Santuario verso il piccolo cimitero, l'accompagnamento funebre del barbiere. Innanzi alla bara, portata da quattro contadini, camminavano il sagrestano col crocifisso, il rettore, più dritto, più lungo, più magro della sera innanzi e occupato a tenere in freno le sue gambe interminabili ed impazienti, e due preti vecchi, i quali stropicciavano i piedi sulla neve, temendo di scivolare a ogni passo. Dietro alla bara venivano sei Figlie di Gesù, delle quali le voci limpide, soavemente accordate insieme, destavano gli echi lenti della montagna. Dieci o dodici persone chiudevano il breve corteo, che andava strisciando come un serpe le curve della strada stretta. Intanto io giungevo alla seconda cappella, poi alla terza, alla quarta. Le orme si fermavano alla porta di questa ultima. Esclamai con gioia: - È salva -, e mi precipitai nell'interno dell'oratorio. Chiamavo: - Suor Maria, suor Maria. Tutto era sossopra. Una parte del cancello, scassinata a forza, stava rovesciata sul pavimento; le figure in terra cotta rappresentavano la Strage degli Innocenti. Tutti i bimbi erano stati strappati dalle branche dei carnefici, e deposti regolarmente l'uno accanto all'altro sul gradino del parapetto. Ai manigoldi mancavano la testa, le mani o le braccia, e codeste membra si vedevano sparse sul suolo. Erode, circondato dai grandi satrapi e dalle sue cortigiane, guardava impassibile dall'alto del trono alla bizzarra punizione dei proprii sgherri; e costoro, in attitudini furiosamente crudeli, mutilati a quel modo, apparivano anche più spaventosi, mentre le donne discinte, disperate, continuavano a trascinarsi alle loro ginocchia, implorando pietà. Mi cacciai per entro alla confusione. Fra quelle sculture, che parevano la verità viva, fra quelle madri nel parossismo del dolore, fra quei fanciulli squartati, vidi finalmente una figura di donna stesa a terra con le mani insanguinate, con le vesti a brandelli, coi capelli biondi, ed un sorriso angelico sulle labbra bianche, e nel volto una espressione di beatitudine soprannaturale. Stringeva al petto uno dei putti di terra cotta, roseo e ricciuto. Era gelata, il suo cuore non batteva più, viveva unicamente nel suo sorriso. La coprii con la mia pelliccia, e corsi fuori per cercare aiuto. Passava giù nella strada del cimitero, quasi a piombo, il funerale del barbiere. Mi posi a gridare con tutta la forza de' miei polmoni: - Signor rettore, signor rettore, suor Maria è moribonda qui nella cappella; non c'è un minuto da perdere; venga, per carità, venga subito -. Il rettore diede uno sbalzo, piantò lì la bara, e principiò a salire con quelle sue gambe a pertica, saltando sulla neve, facendo passi da gigante, aiutandosi con le ginocchia, con le mani, affrontando senza esitare gli ostacoli, non curando i pericoli, volando. Quando giunse all'oratorio, la bella bionda, ch'era morta, sorrideva ancora.

C'ERA UNA VOLTA ... :FIABE

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Capuana, Luigi 2 occorrenze

Dalle fessure si vedeva uno splendore che abbagliava, e di tanto in tanto si sentiva la mamma: - Spera di sole, Spera di sole, sarai Regina se Dio vuole! E Tizzoncino che faceva l'uovo. - Se lo dicevano che erano ammattite! Ogni notte così, fino alla mezzanotte: - Spera di sole, Spera di sole, sarai Regina se Dio vuole! La cosa giunse all'orecchio del Re. Il Re montò sulle furie e mandò a chiamare le fornaie. - Vecchia Strega, se seguiti, ti faccio buttare in fondo a un carcere, te e il tuo Tizzoncino! - Maestà, non è vero nulla. Le vicine sono bugiarde. Tizzoncino rideva anche al cospetto del Re. - Ah!... Tu ridi? E le fece mettere in prigione tutte e due, mamma e figliuola. Ma la notte, dalle fessure dell'uscio il custode vedeva in quella stanzaccia un grande splendore, uno splendore che abbagliava, e, di tanto in tanto, sentiva la vecchia: - Spera di sole, Spera di sole, sarai Regina se Dio vuole! E Tizzoncino faceva l'uovo. Le sue risate risonavano per tutta la prigione. Il custode andò dal Re e gli riferì ogni casa. Il Re montò sulle furie peggio di prima. - La intendono in tal modo? Sian messe nel carcere criminale, quello sottoterra. Era una stanzaccia senz'aria, senza luce, coll'umido che si aggrumava in ogni parte; non ci si viveva. Ma la notte, anche nel carcere criminale, ecco uno splendore che abbagliava, e la vecchia: - Spera di sole, Spera di sole, sarai Regina se Dio vuole! Il custode tornò dal Re, e gli riferì ogni cosa. Il Re, questa volta, rimase stupito. Radunò il Consiglio della Corona: e i consiglieri chi voleva che alle fornaie si tagliasse la testa, chi pensava che fosser matte e bisognasse metterle in libertà. - Infine, che cosa diceva quella donna? Se Dio vuole O che male c'era? Se Dio avesse voluto, neppure Sua Maestà sarebbe stato buono d'impedirlo. - Già! Era proprio così. Il Re ordinò di scarcerarle Le fornaie ripresero il loro mestiere. Non avevan le pari nel cuocere il pane appuntino, e le vecchie avventore tornarono subito. Perfin la Regina volle infornare il pane da loro; il Tizzoncino così saliva spesso le scale del palazzo reale, coi piedi scalzi e intrisi di mota. La Regina le domandava: - Tizzoncino, perché non ti lavi la faccia? - Maestà, ho la pelle fina e l'acqua me la sciuperebbe. - Tizzoncino, perché non ti pettini? - Maestà, ho i capelli sottili, e il pettine me li strapperebbe. - Tizzoncino, perché non ti compri un paio di scarpe? - Maestà, ho i piedini delicati; mi farebbero i calli. - Tizzoncino, perché la tua mamma ti chiama Spera di sole? - Sarò Regina, se Dio vuole! La Regina ci si divertiva; e Tizzoncino, andando via colla sua asse sulla testa e le pagnotte e le stiacciate di casa reale, rideva, rideva. Le vicine che la sentivan passare: - Tizzoncino fa l'uovo! Intanto ogni notte quella storia. Le vicine, dalla curiosità, si rodevano il fegato. E appena vedevano quello splendore che abbagliava e sentivano il ritornello della vecchia, via, tutte dietro l'uscio: non sapevano che inventare. - Fornaie, Fatemi la gentilezza di prestarmi lo staccio; nel mio c'è uno strappo. Tizzoncino apriva l'uscio e porgeva lo staccio. - Come! Siete allo scuro? Mentre picchiavo, c'era lume. - Uh! Vi sarà parso. La cosa era arrivata anche alle orecchie del Reuccio, che aveva già sedici anni. Il Reuccio era un gran superbo. Quando incontrava per le scale Tizzoncino, coll'asse sulla testa o colla cesta sulle spalle, si voltava in là per non vederla. Gli faceva schifo. E una volta le sputò addosso. Tizzoncino quel giorno tornò a casa piangendo. - Che cosa è stato, figliuola mia? - Il Reuccio mi ha sputato addosso. - Sia fatta la volontà di Dio! Il Reuccio è padrone. Le vicine gongolavano: - Il Reuccio gli aveva sputato addosso; le stava bene a Spera di sole Un altro giorno il Reuccio la incontrò sul pianerottolo. Gli parve che Tizzoncino lo avesse un po' urtato con l'asse, e lui, stizzito, le tirò un calcio. Tizzoncino ruzzolò le scale. Quelle pagnotte e stiacciate, tutte intrise di polvere, tutte sformate, chi avrebbe avuto il coraggio di riportarle alla Regina? Tizzoncino tornò a casa piangendo e rammaricandosi. - Che cosa è stato, figliuola mia? - Il Reuccio mi ha tirato un calcio e mi ha rovesciato ogni cosa. - Sia fatta la volontà di Dio: il Reuccio è padrone. Le vicine non capivano nella pelle dall'allegrezza. - Il Reuccio gli aveva menato un calcio: le stava bene a Spera di sole Il Reuccio pochi anni dopo pensò di prender moglie e mandò a domandare la figliuola del Re di Spagna. Ma l'ambasciatore arrivò troppo tardi: la figliuola del Re di Spagna s'era maritata il giorno avanti. Il Reuccio volea impiccato l'ambasciatore. Ma questi gli provò che avea spesa nel viaggio mezza giornata di meno degli altri. Allora il Reuccio lo mandò a domandare la figliuola del Re di Francia. Ma l'ambasciatore arrivò troppo tardi: la figliuola del Re di Francia s'era maritata il giorno avanti. Il Reuccio volea ad ogni costo impiccato quel traditore che non arrivava mai in tempo: ma questi gli provò che avea spesa nel viaggio una giornata di meno degli altri. Allora il Reuccio lo mandava dal Gran Turco per la sua figliuola. Ma l'ambasciatore arrivò troppo tardi: la figliuola del Gran Turco s'era maritata il giorno avanti. Il Reuccio non sapea darsi pace; piangeva. Il Re, la Regina, tutti i ministri gli stavano attorno: - Mancavano Principesse? c'era la figliuola del Re d'Inghilterra: si mandasse per lei. Il povero ambasciatore partì come una saetta, camminando giorno e notte finché non arrivò in Inghilterra. Era una fatalità! Anche la figlia del Re d'Inghilterra s'era maritata il giorno avanti. Figuriamoci il Reuccio! Un giorno, per distrarsi, se n'andò a caccia. Smarritosi in un bosco, lontano dai compagni, errò tutta la giornata senza poter trovare la via. Finalmente, verso sera, scoprì un casolare in mezzo agli alberi. Dall'uscio aperto, vide dentro un vecchione, con una gran barba bianca, che, acceso un bel fuoco, si preparava la cena. - Brav'uomo, sapreste indicarmi la via per uscire dal bosco? - Ah, finalmente sei arrivato! A quella voce grossa grossa, il Reuccio sentì accapponarsi la pelle. - Brav'uomo, non vi conosco; io sono il Reuccio. - Reuccio o non Reuccio, prendi quella scure e spaccami un po' di legna. Il Reuccio, per timore di peggio, gli spaccava la legna. - Reuccio o non Reuccio, vai per l'acqua alla fontana. Il Reuccio, per timore di peggio, prendeva l'orcio sulle spalle e andava alla fontana. - Reuccio o non Reuccio, servimi a tavola. E il Reuccio, per timore di peggio, lo servì a tavola. All'ultimo il vecchio gli diè quel che era avanzato. - Buttati lì; è il tuo posto. Il povero Reuccio si accovacciò su quel po' di strame in un canto, ma non poté dormire. Quel vecchio era il Mago, padrone del bosco. Quando andava via, stendeva attorno alla casa una rete incantata, e il Reuccio rimaneva in tal modo suo prigioniero e suo schiavo. Intanto il Re e la Regina lo piangevano per morto e portavano il lutto. Ma un giorno, non si sa come, arrivò la notizia che il Reuccio era schiavo del Mago. Il Re spedì subito i suoi corrieri: - Tutte le ricchezze del regno, se gli rilasciava il figliuolo! - Sono più ricco di lui! A questa risposta del Mago, la costernazione del Re fu grande. Spedì daccapo i corrieri: - Che voleva? Parlasse: il Re avrebbe dato anche il sangue delle sue vene. - Una pagnotta e una stiacciata, impastate, infornate di mano della Regina, e il Reuccio sarà libero. - Oh, questo era nulla! La Regina stacciò la farina, la impastò, fece la pagnotta e la stiacciata, scaldò il forno di sua mano e le infornò. Ma non era pratica; pagnotta e stiacciata furono abbruciacchiate. Quando il Mago le vide, arricciò il naso: - Buone pei cani. E le buttò al suo mastino. La Regina stacciò di nuovo la farina, la impastò e ne fece un'altra pagnotta e un'altra stiacciata. Poi scaldò il forno di sua mano e le infornò. Ma non era pratica. La pagnotta e la stiacciata riusciron mal cotte. Quando il Mago le vide, arricciò il naso: - Buone pei cani. E le buttò al mastino. La Regina provò, riprovò; ma il suo pane riusciva sempre o troppo o poco cotto; e intanto il povero Reuccio restava schiavo del Mago. Il Re adunò il Consiglio di Ministri. - Sacra Maestà - disse uno dei Ministri - proviamo se il Mago è indovino. La Regina staccerà la farina, la impasterà, farà la pagnotta e la stiacciata; per scaldare il forno ed infornare chiameremo Tizzoncino! - Bene! Benissimo! E così fecero. Ma il Mago arricciò il naso: - Pagnottaccia, stiacciataccia Via, lavatevi la faccia E le buttò al cane. Aveva subito capito che ci avea messo le mani Tizzoncino. - Allora - disse il ministro - non c'è che un rimedio. - Quale? - domandò il Re. - Sposare il Reuccio con Tizzoncino. Così il Mago avrà il pane stacciato, impastato, infornato dalle mani della Regina, e il Reuccio sarà liberato. - É proprio la volontà di Dio - disse il Re. - Spera di sole, Spera di sole, sarai Regina se Dio vuole! E fece il decreto reale, che dichiarava il Reuccio e Tizzoncino marito e moglie. Il Mago ebbe la pagnotta e la stiacciata, stacciate, impastate e infornate dalle mani della Regina, e il Reuccio fu messo in libertà. Veniamo intanto a lui, che di Tizzoncino non vuol saperne affatto: - Quel mucchio di filiggine sua moglie? Quella bruttona di fornaia Regina? - Ma c'è un decreto reale ... - Sì? Il Re lo ha fatto, e il Re può disfarlo! Tizzoncino, diventata Reginotta, era andata ad abitare nel palazzo reale. Ma non s'era voluta lavare, né pettinare, né mutarsi il vestito, né mettersi un paio di scarpe: - Quando verrà il Reuccio, allora mi ripulirò. Era possibile? E aspettava, chiusa nella sua camera, che il Reuccio andasse a trovarla. Ma non c'era verso di persuaderlo. - Quella fornaia mi fa schifo! Meglio morto che sposar lei! Tizzoncino, quando le riferivano queste parole, si metteva a ridere: - Verrà, non dubitate; verrà. - Verrò? Guarda come verrò! Il Reuccio, perduto il lume degli occhi e colla sciabola in pugno, correva verso la camera di Tizzoncino: volea tagliarle la testa. L'uscio era chiuso. Il Reuccio guardò dal buco della serratura e la sciabola gli cadde di mano. Lì dentro c'era una bellezza non mai vista, una vera Spera di sole! - Aprite, Reginotta mia! Aprite! E Tizzoncino, dietro l'uscio, canzonandolo: - Mucchio di filiggine! - Apri, Reginotta dell'anima mia! E Tizzoncino ridendo: - Bruttona di fornaia! - Apri, Tizzoncino mio! Allora l'uscio s'aperse, e i due sposini s'abbracciarono. Quella sera si fecero gli sponsali, e il Reuccio e Tizzoncino vissero a lungo, felici e contenti ... E a noi ci s'allegano i denti.

Era così bella, che abbagliava. La Regina, come intese che Serpentina stava per tornare, montò sulle furie: - Se vien lei, partirò io! É la nostra cattiva Sorte! Ma, saputo che quella recava l'unguento da far sparire le gobbe, le andò incontro col Re e con tutta la Corte. Fecero grandi feste, e vissero tutti felici e contenti. E noi citrulli ci nettiamo i denti.

SI CONTA E SI RACCONTA - Fiabe Minime

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Diventò una meravigliosa forma di luce che abbagliava, e, tutt'a un tratto, sparì. Il Re, quasi per ammenda di quel che aveva fatto, mandò fuori un altro decreto: - Da oggi in poi, nessuno più finga di zoppicare nel regno! Ma la gente aveva contratto l'abitudine di zoppicare che il Re fu costretto a far bandire: - Zoppichi pure chi vuole! E quando vedeva passare davanti al palazzo reale qualcuno che arrancava come lui, non sapeva indovinare se lo facesse a posta o se realmente ciampicasse; e nel suo interno si rodeva. A poco a poco divenne malinconico e scontroso. Voleva restar solo; non riceveva neppure i Ministri, che per ciò facevano a modo loro, e ne facevano di tutti i colori. Si aggirava, ciampicando, per le vaste sale del palazzo. Ma dunque non c'era un dottore, un Mago nel suo regno da ridurgli la gamba corta uguale all'altra?Venne un dottore, e gli disse: - Maestà, io potrei accorciarvi quella più lunga. Val quasi lo stesso. Che! Che! Sarebbe diventato un nachero, più ridicolo che non fosse ora. O allungare la corta o niente! Venne un Mago, vecchio, canuto, con un barbone fino ai piedi. - Maestà, questo è un unguento capace di allungarvi la gamba più corta. Bisogna ungerla con esso e strofinarla forte forte fino a quando sentirete un dolore acuto che vi farà gridare dallo spasimo. Dovete aver pazienza. Una volta al giorno, non più. Ne prenderete quanto un cece, lo spalmerete nel cavo della mano e, via, a strofinare forte forte. Facendo così, dopo un anno, un mese e un giorno, sarete guarito. Non dovete però aver fretta; sarebbe peggio. - Vi pagherò, dunque, dopo guarito. - Maestà, quest'unguento, se non è pagato prima, non opra. - E se non oprerà anche pagato? - Maestà, qui c'è la mia testa! .... Il Re cominciò sùbito la cura. Ogni sera, prima di andare a letto, apriva lo scatolino dell'unguento, ne prendeva quanto un cece, lo spalmava nel cavo della mano e poi, strofina, strofina, strofina, fino a che non sopravveniva l'insopportabile dolore che lo faceva urlare dallo spasimo. Dopo due mesi di medicatura, il Re si accorse che quel vecchione di Mago non lo aveva ingannato: la gamba corta cominciava sensibilmente ad allungarsi. Doveva proprio attendere che si compisse il tempo stabilito da quello? Se invece di una al giorno facesse due, tre strofinazioni, non guarirebbe più presto? Il Mago lo aveva ammonito che sarebbe peggio; ma era, certamente, un'astuzia, per accreditare di più la sua medicina. E il Re, esitato un po', decise di farsi, tre, quattro, cinque strofinazioni al giorno, non curandosi dell'atroce dolore che provava ad ognuna di esse. E così, strofina, strofina, strofina, egli vedeva allungarsi la gamba a vista d'occhio. Se non che, quando, raggiunta la giusta misura dell'altra, avrebbe dovuto fermarsi, essa continuò, per una settimana, a crescere per conto suo: e il Re si trovò cianca all'incontrario; invece di ciampicare da destra, ora ciampicava da sinistra. Fortuna che quella maledetta gamba si fosse arrestata di crescere! Mandò corrieri per tutto il regno, in cerca del Mago. Nessuno sapeva dove abitasse: chi diceva in cima a una montagna, chi in una grotta sotterranea. Finalmente lo trovarono in mezzo a un bosco, intento a raccogliere erbacce selvatiche. - Dite al Re che io non c'entro più. Si rivolga a fata Luce. Udita la risposta, il Re capì che si trattava di una vendetta della vecchia che aveva detto: - Sono una Fata! Dove rintracciarla? Pensò di rifare il decreto: - Pena la testa, tutti i sudditi, uomini e donne, devono camminare zoppicando! Forse la Fata sarebbe ricomparsa sotto sembianze di vecchia; questa volta, però, l'avrebbe invitata a Corte, e le avrebbe reso tutti gli onori possibili. Ma la vecchia che si era rifiutata di zoppicare non comparve; e i sudditi cominciarono a stancarsi dei ghiribizzi di Re Cianca. Così, un giorno, tutti di accordo, rifiutarono di imitarlo. Il Re montò sulle furie. Se la prese coi Ministri: - A questo modo mi fate rispettare? E, spingendoli per le spalle, li cacciò via. Uno di essi, il più anziano, ebbe allora il coraggio di rispondergli: - Maestà, è rispettato chi rispetta; e voi non rispettate nessuno! Per questo, Cianca siete e Cianca resterete! ... Stretta la foglia, larga la via, dite la vostra, che ho detto la mia!

Racconti 1

662659
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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C'era dappertutto un nuovo colorito vivace, chiassoso che mi abbagliava: c'era un profumo soavis simo che deliziava le narici e penetrava fino all'anima; c'era una musica paradisiaca, come di un'orchestra invisibile, destata dal voluttuoso fruscio della sua veste di seta: mi pareva strano, quasi impossibile che tutte queste cose non ci fossero mai state fino allora! Presi per mano, andavamo in salotto senza sapere perché; tornavamo addietro girando per le altre stanze, fermandoci innanzi un quadro, una stampa, un gingillo di porcellana, cosí spensierati, cosí contenti, cosí felici da non metter fuori nemmeno un'esclamazione per dircelo a vicenda con un semplice monosillabo. Parlavano piú efficacemente, piú profondamente gli sguardi; e quando essi non bastavano aiutavano i baci. Che baci, Signore Iddio! Che baci! La sua stanza da letto fu adornata come un piccolo santuario dell'amore: tutta cortine candidissime, tutta ombre e frescura, pareva, entrando, prendervi un bagno vivificante di giovinezza e di felicità. Come ero superbo di quel santuario cosí elegante e civettuolo, intorno al quale avevo speso tante cure meticolose quasi si fosse trattato di un'opera d'arte! E come ero beato di vederla il mattino uscire di lí avvolta nel suo bianco abbigliamento da toeletta, con la cuffiettina da notte che ratteneva a stent o i capelli disciolti, coi nastri di essa che le svolazzavano per le spalle e sul petto, e coi piedi entro le microscopiche pantofoline rosse che affasciavano di quando in quando la punta sotto gli orli della veste come due linguette di serpenti! Pensavo alle belle apparizioni delle dee antiche sognate dai greci e sentivo diffondersi per l'aria attorno un odore soavissimo come di cosa sovrumana. Per piú settimane i limiti del nostro quartierino segnarono per noi gli estremi confini del creato! Vi era intanto un che di austero in quel sogno di amore! Cecilia, benché si sforzasse di non mostrarmelo, provava in tanta felicità una tristezza che giornalmente diventava piú intima e piú profonda. I suoi occhi avevano spesso degli sguardi di un abbandono inesprimibile; sulle labbra le appariva frequente un sorriso che toccava il cuore come un rimpianto. Non era, lo capivo, a una felicità sparita che rivolgevasi quell'indefinito sospiro dell'anima; ma ad una felicità che le pareva fuggisse via di mano in mano che ella si accorgeva diventasse piú intensa. E ques to metteva nella nostra vita un'intonazione elevata, austera che me la rendeva piú cara. La mia stanza da studio fu adornata per suo consiglio di vasi di fiori. Rimpetto al tavolo dove leggevo o scrivevo, ella situò il suo tavolino di lacca intarsiato in madreperla, col cestino del lavoro e qualche libro; e sedeva lí sur una poltroncina bassa, covandomi coi suoi sguardi e coi suoi sorrisi pieni di un sentimento di premura quasi materna, di qualcosa insomma che trascendeva qualunque straordinaria espressione di amore. Spesso mi levavo dal tavolo, andavo a sedermele accosto per terra e, la testa sui suoi ginocchi, le domandavo con un gesto delle labbra la mia elemosina di baci. Altra volta era lei che mi s'avvicinava in punta di piedi per dirmi dolcemente all'orecchio - Maurizio, ti affatichi troppo! E mi distraeva dallo studio coll'accarezzarmi e col baciarmi. Ingrati come tutti gli amanti, non ritornammo piú ai giardini pubblici, non ne parlammo nemmeno una volta. Ella si chiuse in casa pari a quelle femmine di uccelli, che nel tempo della cova non abbandonano mai un solo momento il lor nido e vi son nutrite dal maschio che va in busca di preda. Non voleva piú veder nessuno, nemmeno la sorella; tutto il suo mondo era circoscritto in quelle nostre stanze; che le importava del resto? Mi pregava intanto di non sacrificarmi per lei. Amici, conoscenze, relazioni sociali, tutto dovevo coltivare come prima, senza mutare un'abitudine, senza venir meno a un dovere, senza mancare a una convenienza! ... Per carità, non la facessi accorta che mi fosse già diventata un impaccio! ... Pur troppo questo momento sarebbe arrivato! Che arrivasse almeno il piú tardi possibile! Tanta insistenza a dubitare dell'avvenire m'irritava un pochino e mi costringeva mio malgrado a riflettere. Ero forse mutato? No. Provavo dei sintomi di stanchezza e non mi accorgevo di mostrarli? Neppure per ombra. La Cecilia, conosciuta intimamente, superava perfino l'ideale che me n'ero formato al solo vederla. Ma quel suo lamento rassegnato mi feriva. In confuso capivo forse anch'io che qualcosa di ciò che ella prevedeva dovesse finalmente avvenire; ma m'illudevo volentieri e m'ostinavo a credere che invece non sarebbe punto avvenuto. - Perché sempre cosí triste? - le dissi un giorno. - Mi fai soffrire! - Io triste? - rispose sorridendo, ma in maniera che il sorriso ne smentiva le parole. - Non son mai stata tanto felice! - Temi sempre che il nostro amore ... - Chi ama teme! - m'interruppe. - Però tu mi hai giurato che il giorno in cui ti accorgeresti di non piú amarmi, saresti tanto generoso e leale da dirmelo subito. - E lo torno a giurare. - Del resto poi non aspetterò che tu me lo dica; lo saprò anche prima che tu stesso abbia coscienza del mutamento avvenuto. Con una donna che ama davvero è cosa inutile il mentire -. E sorrideva. Intanto le tremava la voce e aveva gli occhi imbambolati. Divenne, e mi pareva impossibile, piú tenera, piú espansiva. Sentivo nei suoi baci come un furore di affetto. Dalle sue carezze traspariva una smania, un tormento di volerne esaurire tutt'intera la dolcezza e uno scontento di non riuscire. Spesso mi chiamava a nome due, tre volte di seguito, unicamente pel piacere di pronunciare: "Maurizio! Maurizio!" - Matta! - le dicevo abbracciandola, e battendole sulla guancia colla punta delle dita, quasi per castigarla come una bimba cattiva. Insomma sembrava avesse fretta di godersi una felicità che vedeva dileguarsi a poco a poco. Io intanto vivevo tranquillo. Non scorgevo nei miei sentimenti e nei miei modi nessun mutamento. Naturalmente mi trovavo assai piú calmo; lo stato di esaltazione febbrile non poteva durare in perpetuo; ma quel godimento sereno, sempre uguale che vi era succeduto, mi sembrava piú dolce, piú intimo e per conseguenza piú duraturo. Le smanie della Cecilia, le sue tenerezze eccessive m'inquietavano stranamente, come un cattivo presagio. La rimproveravo con un accento che sembrava preghiera; e in seguito mi stizz ivo di non averla rimproverata con bastante energia; quella fiacchezza di rimproveri mi sembrava un delitto dalla mia parte. - Tu hai pianto! - le dissi un giorno, sorprendendola cogli occhi rossi e asciugati malamente in fretta nel sentirmi rientrare in casa. - No - rispose; - ho dormicchiato sulla poltrona; ho un po' di emicrania -. Mi appagai di quella risposta; ma rimasi inquieto fino a sera. Perché m'ero appagato? Non ero forse sicuro che la Cecilia aveva voluto nascondermi la verità? Sí, ella aveva pianto! E non mi era passato pel capo di dirle una parolina sola di conforto. Ingrato! Ma non trovavo il verso di riparare al mal fatto. Era un po' dimagrita da qualche tempo in qua, e un po' pallidina. Mi persuasi dopo alcuni giorni che doveva dormir poco. Una notte fui di un tratto svegliato da un fruscio di veste nella mia stanza. Apersi gli occhi con un senso d'indefinito terrore, e vidi la Cecilia accoccolata sul tappeto accanto al mio letto, coi capelli sciolti sulle spalle, colle mani aggrappate attorno un ginocchio, gli occhi spalancati, immobili sopra di me, le guance irrigate da lagrime che scorrevano silenziose. - Dio mio! Cecilia, che fai? - le dissi. E tentavo rimoverla da quella posizione attirandola per un braccio verso di me onde spingerla a levarsi. - Lasciami star qui! - rispose, - lasciami star qui, te ne prego! - Ma ti ammalerai! Sei fredda! Cecilia! - Lasciami stare! - Non rispondeva altro, né si asciugava le lagrime e continuava a guardarmi fisso. Mi posi a sedere sul letto accostandomi alla sponda, in modo di prendere la sua testa fra le mie mani, e cominciai a baciarla sui capelli, mormorando affettuosamente: - Cecilia mia! Levati su, per carità! Levati su! Parla che è stato?- Si alzò lentamente, come un'apparizione, ricacciò dietro le orecchie i capelli e mi tese le mani sorridendo sconsolata. I capelli nerissimi sciolti pel collo, l'accappatoio bianco, il pallore del viso, alla luce del lumino da notte che ardeva sul comodino entro un vaso di alabastro, davano a quella figura di donna un fascino sacro ... In quel momento ero superstizioso e credevo a qualcosa di un altro mondo. - Parla, che è stato? - tornai a balbettare. - Tutto è finito! - rispose con un filo di voce che parve quello di una moribonda. Poi, dopo una breve pausa, diessi a divorarmi dai baci per parecchi minuti di seguito in modo da togliermi il respiro e fuggí via. Rimasi fino al mattino cogli occhi fissati all'uscio da cui l'avevo vista sparire come un fantasma, incerto se avessi assistito ad una realtà o sognato a occhi aperti. Nella giornata non osai interrogarla sull'accaduto della notte. Ero sbalordito: credevo di aver ricevuto un gran colpo sulla testa e non mi stupivo di non riuscire a riordinar bene le idee. La vidi affaccendata a far dei preparativi che mi sorprendevano: ma non trovavo modo di aprir bocca per domandargliene ragione. Mi pareva che facesse un'operazione convenuta di accordo fra noi. Per un viaggio? Per una villeggiatura? Non lo rammentavo preciso; però quei preparativi erano tristi, mi stringevano il cuore, mi riempivano gli occhi di lagrime. Finalmente il mio spirito acquistò ad un tratto una sorprendente lucidità. Tutto era finito! Come? Cosí lentamente, cosí segretamente che non me n'ero accorto io medesimo; ma pur troppo tutto era finito! La Cecilia aveva detto una cosa che la mia mente non avrebbe saputo esprimere per cento ragioni, e sopratutto perché si rifiutava a credere quello che imaginava non avrebbe dovuto accadere. La Cecilia era calma. Ripiegava i suoi vestiti di mano in mano che li toglieva dall'armadio e li situava nelle casse. Ogni abito era per me un ricordo di un giorno di beatitudine, di un'ora felice, e a vederlo riporre, mi pareva assistere alla tumulazione di una particella del mio povero cuore ... Soffrivo un dolore compresso, un acuto limío, ma non avevo il coraggio di accostarmi a lei per dirle: - Rimani! Ricominciamo daccapo! - Non volevo mentire; non avrei neanche saputo. Sentivo tutta ora la stanchezza di una situazione irregolare, nella quale ci eravamo imbarcati io colla spensieratezza di un uomo appassionato, ella colla rassegnazione del sagrificio di una donna che ama! Pensavo con tristezza: - Perché non può durare? Perché non deve durare? - E la riflessione rispondeva tranquillamente: - È la legge! - Tornai dopo alcuni giorni ai giardini pubblici per rintracciarvi un passato che piú non trovavo dentro di me. Era la stessa stagione del nostro primo incontro, la primavera. Gli alberi ricchi di fronde; le aiuole verdi di erbe e qua e là fiorite; il sole, prossimo al tramonto, scherzava coi raggi fra le foglie agitate dai venticelli della sera. Ahimè! Quei viali, quelle frondi, quelle aiuole non mi dicevano piú nessuna delle mille celesti cose rivelatemi una volta. I zampilli mormoravano stupidamente monotoni; le acque dei laghetti e dei canali torbide, verdastre, riflettevano il cielo e gli oggetti in un tono di colorito che faceva schifo. Le rane, nascoste tra le foglie delle ninfee, gracidavano una musica degna del posto, che ora mi sembrava pretenzionoso e volgare. Gironzolai qua e là, facendo ogni sforzo per evocare una sensazione, un sentimento; ma invano. Il viale dei Boschetti mi parve tristo, lungo, basso da mozzare il fiato; dal canale accanto esalava un cattivo odore di borraccina che non avevo mai avvertito. E andando via rimuginavo: - Ma è dunque vero che questo mondo di fuori sia una mera creazione del nostro spirito, uno scherzo, un'illusione? Povera Cecilia! Tu non avresti mai creduto che perfino il mio rimpianto di amore sarebbe un giorno sfumato perdendosi fra le nebbie di un problema di metafisica!

Demetrio Pianelli

663130
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Quel gran sole di fuori lo abbagliava, lo stordiva; scosse il capo per togliersi d'addosso la vertigine, e gli parve, fra tanti veli bianchi che lo circondavano, di trovarsi perduto in mezzo a una nuvola. Scambiati i saluti e i complimenti coi Grissini, colla Pardi, col Bonfanti, la nostra brigatella, coi ragazzi davanti in crocchio, si avviò verso il centro. Lo zio Demetrio voleva pagare a tutti la colazione al caffè Biffi in Galleria. I ragazzi parlarono tutti insieme (c'era anche Ferruccio) saltando intorno all'Arabella, che col Signore in corpo mandava la contentezza attraverso alla nuvola bianca del suo velo. Demetrio camminava a fianco di Beatrice, distaccato, sui ciottoli, per lasciare tutto il marciapiede a lei; e pareva soltanto occupato a curar le carrozze, che sbucavano da tutte le parti. "Che bella giornata!" disse egli dopo un bel tratto, alzando gli occhi e facendo un mezzo giro sulle gambe. "Bello essere in campagna!" osservò Beatrice. "Proprio davvero ... Guardate alle carrozze!" Camminarono un altro poco in silenzio. Demetrio una volta si specchiò in una vetrina e non si riconobbe subito. Non era abituato a portare il cilindro e a far da cavalier servente a una bella signora. Beatrice osservò per conto suo che la cerimonia non poteva essere piú commovente, che pareva un giardino la chiesa. "Proprio davvero!" esclamò Demetrio, mentre si domandava in cuor suo se non era il momento di buttar fuori il nome di Paolino e di tirare il discorso sul famoso argomento; ma appunto in quel momento uscí una carrozza da una delle vie laterali e lo zio corse a prendere Naldo. Beatrice si trovò a fianco di Arabella, che si attaccò al braccio della sua bella mammetta. "Ho pregato tanto anche per te, mamma." "Brava." In quel benedetto crocevia della piazza del Duomo, da dove si irradiano gli omnibus e i tram, lo zio prese per mano anche Mario e gridò alle donne: attente alle carrozze! Pareva il capitano che salva la nave dagli scogli, e gli deve esser passata questa idea nella mente. Entrarono nella Galleria. Non c'era molta gente in quell'ora mattutina — lo zio osservò che l'orologio in cima all'arco segnava le otto e mezzo. — Il bel mosaico del pavimento, quasi sgombro, spiccava in tutta la nitidezza de' suoi marmi e de' suoi arabeschi nel chiaro riverbero che il cupolone di vetro, tocco dal sole, sbatteva nel vasto ambiente, sui cristalli dei negozi, sui globi, sugli ori delle ditte, sugli stucchi delle pareti liscie come specchi, su tutto ciò che poteva prendere e rimandare la luce in un giuoco di luci. Una fresca arietta volava attraverso ai bracci dell'edificio, che pulito e splendido, si preparava a una nuova giornata della sua vita rumorosa ed elegante. Beatrice, che da molti mesi non poneva il piede in quel magnifico salone pubblico, sollevò con un sospiro un monte di meste ricordanze, ma si lasciò subito prendere dalla curiosità delle belle botteghe, dove brillavano i gioielli, le porcellane, i ventagli, gli specchi e le avrebbe fatte passar tutte, se i ragazzi non avessero reclamato. Oltre la fame, Demetrio voleva esser all'ufficio per le nove. Entrarono subito al Biffi che rimesso a fresco da poco tempo con stucchi nuovi, specchi nuovi, velluti nuovi, pareva un pezzo di paradiso. Sedettero a un tavolino presso uno dei grandi cristalli che dànno sull'ottagono, da dove si può vedere il vasto piazzale pubblico, con tutte le botteghe in giro, con sopra la tazza immensa e trasparente della cupola, un vero barbaglio per chi ci va una volta tanto. Beatrice si rimirò subito nello specchio di fronte, badò a sedersi bene, lieta in cuor suo — senza dirlo a sé stessa — perché i camerieri s'erano voltati tutti al suo entrare. Al Biffi era venuta l'ultima volta col povero Cesarino la vigilia di Natale, ma s'era angustiata per un ufficiale di cavalleria, che non aveva mai cessato di fissarla come se avesse voluto bruciarla cogli occhi. Cesarino finí coll'accorgersene e nel tornare a casa l'aveva fatta piangere. "Pren ... prendete un caffè e latte?" domandò Demetrio, guardando in terra. "Un caffè e panna, volentieri" rispose Beatrice. "Allora, uno, due, tre, quattro, cinque e sei caffè e panna," disse al cameriere, contando col dito teso gl'invitati, "del pane e quattro paste ... ." E sedette in faccia a Beatrice, senza accorgersi che tre o quattro camerieri in fondo alla sala sbirciavano, ridendo sotto i bei baffi, il redingotto e il cilindro ancor nuovo fiammante. Mentre si aspettava, lo zio, che aveva il cuore contento, prese un'orecchia di Naldo tra le dita e la tirò. Poi si voltò a guardar fisso in faccia all'Arabella, come se pretendesse una risposta a una domanda che non aveva fatto. Guardò in alto il cupolone, e una volta l'orologio del caffè che confrontò col suo: quella donna la vedeva in ombra davanti, la sentiva presente, la pensava, ma non avrebbe osato guardarla per paura ... Paura di che? Lo sa Dio ... Finalmente arrivò un gran vassoio pieno di chicchere, di panetti, di paste dolci e lo zio ebbe a occuparsi a distribuire, a versare, a far le parti giuste. A Beatrice offrí una bella veneziana fresca e siccome essa esitava ad accettare: "Andiamo, andiamo," disse con una certa furia screanzata, "che sciocchezze!" E nel dir queste parole sentí di nuovo una vampa di fuoco pigliargli il corpo, salire al collo, alle orecchie, alla radice dei capelli. Per fortuna capitò che Ferruccio lasciasse cadere un cornetto intero di pane nella chicchera. Ciò sollevò l'ilarità di tutti, anche di Beatrice, anche del sor Demetrio, e il tempo passò presto. Invece di chiamare il cameriere, il signor zio andò al banco a pagare, cosa che non si usa piú in un caffè rispettabile, e serví anche questo a divertire quei bravi giovinotti. "Bisogna che io me ne vada ... finite con comodo" tornò a dire. "Ci rivedremo piú tardi, stasera ... ." I ragazzi gridarono: "Riverisco, zio, riverisco ... grazie." Egli uscí in fretta in fretta, senza capire ciò che gli diceva la cognata. Aveva bisogno d'aria ... Passò davanti al cristallo, guardò nel caffè, vide un gruppo di gente, ma vide annebbiato, salutò colla mano, e col suo passo di bifolco che cammina nel molle, traversò verso Santa Margherita, portato come un pezzo di legno galleggiante dalla corrente dell'antica abitudine, non piú chiaro a sé stesso di quel che sia un pezzo di legno. Una sola parola con un senso umano, uscí da quel garbuglio di sentimenti che egli portò all'ufficio, e prese nel fondo del suo silenzio la cadenza di un bastone che picchia addosso a un sacco di cenci. Questa parola, ch'egli ripeté cento volte nel breve tratto di strada fino alla porta del Demanio, era il nome del suo migliore amico: Ah, Paolino! Ah, Paolino!

Malombra

670408
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Non abbagliava però, in casa Steinegge, lo splendore della ricchezza. Quella lì era una stanza bassa d'angolo, sotto il tetto. Aveva due balconi a ringhiera di ferro, uno a mezzogiorno e l'altro a levante, le pareti tappezzate di carta azzurra a righe più scure, il soffitto dipinto a cielo sereno e nuvoli. Un letto di ferro pure inverniciato, coi suoi pomi lucenti d'ottone alle spalliere, coperto di percallo perlato a fiori rossi, stava accostato alla parete di ponente sotto un quadrettino piccino dove una ciocca di capelli biondi si disegnava sul raso bianco incorniciato d'ebano. Tra l'uscio della scala e l'altro che metteva nella camera di Edith, un caminetto di pietra grigia portava con civetteria due lucernine a petrolio a' due capi e nel mezzo un bicchiere modesto, un mazzolino di viole mammole ignude. In faccia al caminetto, sopra la mole tozza di un massiccio cassettone a piano di marmo cenerognolo, odoravano pochi calicanthus, simili a delicate fantasie meste di un poeta convalescente. Tra il balcone di levante e la porta della camera di Edith, si rizzava una stretta palchettiera a tre piani, zeppa di libri e sormontata dal busto, piccino, di Federico Schiller. In mezzo alla stanza la bianca tavola di abete strillava per avere il suo tappeto azzurro e nero, il suo manto di ricchezza e di nobiltà da nascondervi sotto le quattro gambe. Pei due balconi si spandeva sino al fondo della stanza la gran luce vitale dell'aprile, mettendo dal cielo sereno un bagliore azzurrognolo sui fogli sparsi per la tavola, e sul soffitto un riflesso caldo di opposte case, arse dal sole cadente. Quand'anche non si fosse veduto per quei due meravigliosi quadri dei balconi tanto arco di cielo e tanto mare disordinato di tetti sconvolti per ogni verso fra poche fenditure di grandi vie, rappezzati di vecchio e di nuovo, d'ombra e di luce, rotti da ciuffi d'alberi verdognoli, da striscie di muri bianchi, irti di fumaiuoli e d'abbaini, quand'anche non si fosse veduta a piè dei balconi la nera fascia del Naviglio e un lungo arco di via parallela, punteggiato di moscerini umani che si traevano dietro lentamente il loro lungo filo d'ombra, si sarebbe pur sempre sentita la smisurata altezza di quella camera nella luce, nell'aria, nei suoni vasti e sordi che ascendevano lassù in un'onda sola, continua. "Vi prego" disse Steinegge, togliendo calamaio e fogli dalla tavola e posandoli sulla palchettiera "aiutate me a mettere il tappeto. Mia figlia ama molto questo." Presero il tappeto azzurro e nero e lo spiegarono sulla tavola, che non strillò più. La stanzetta prese un'aria quieta, contenta, che si rifletté sul viso del nostro vecchio amico. "Grazie" diss'egli. "Molte grazie. Oh, Voi non sapete con quanto piacere io faccio queste cose. Non sapete cosa io provo quando tocco solo una di queste sedie. Erano diciassette anni che non toccavo una sedia mia, eh? Capite? Diciassette anni. Questo legno è così dolce! Io ringrazio Dio, caro amico. Voi siete giovane, Voi non pensate a questo vecchio signore; anche io per un pezzo non ho pensato, ma adesso io ringrazio...! Sentite." Steinegge afferrò Silla pel braccio e se lo trasse vicino. I suoi occhi sci ntillavano sotto le ciglia aggrottate; una fiamma sola gl'infocava il collo e il viso. "Io ringrazio..." ripeté con voce soffocata e stese, tacendo, l'indice della destra prima verso il quadrettino dai capelli biondi, poi verso la stanza di Edith. Finalmente lo alzò al soffitto. "E Dio" diss'egli. "In passato io credeva vi fosse là, sopra le nuvole, un re di Prussia." Qui Steinegge scosse violentemente il pugno sempre a indice teso. "No, no, credete me" soggiunse. "Io l'ho creduto sempre, caro Steinegge" rispose Silla. "Guai a me se non lo credessi." "Se Voi sapeste" disse Steinegge "come sono contento! Alle volte ho paura perché lo sono troppo e non lo merito, oh no! Ma poi mi consolo perché tutto il merito è di mia figlia. Oh, mia figlia, caro amico...!" Steinegge giunse le mani. "Io non posso" diss'egli "questo mi muove troppo il cuore di dir cosa è mia figlia." "Lo credo" disse Silla stringendogli forte la mano. "La conosco." "No, no, Voi non conoscete niente. Bisogna sentire come parla con me di queste cose di che parlano i preti. Pensate, i discorsi dei preti sono cattivi organetti, e questi di Edith sono come musica che si sente in sogno quando si è giovani. Noi andiamo qualche volta in chiesa, ma noi non parliamo mai di preti. E di arte come intende, oh! Io nasco adesso per quest'arte; io non capivo niente. Siamo andati ieri... Come si dice? A Brera, a Brera. Pensate Voi se aveste ad aprire adesso un libro tedesco, qualche g rande libro come Goethe. Voi capireste otto, dieci parole per pagina. Questo Vi farebbe senso. Vi farebbe battere il cuore di cominciare a vedere otto o dieci lumi nelle tenebre, e andreste pensando cosa può dire Goethe in quella pagina. Così ha fatto senso a me, ieri, di cominciare a capire, ascoltando Edith, qualche cosa di quadri. E di letteratura, mio caro amico! Questo Klopstock! Questo Novalis! Questo Schiller! Ma non parlerà mai con Voi; non credete! Bene!" Qui gli occhi di Steinegge, capitano o no, s'empirono di lagrime; la sua voce discese a un tono sommesso, ma vibrato. "Noi abbiamo una domestica per poche ore al giorno. Poi Edith fa tutto lei, così semplicemente, così allegramente come uno va a passeggio. Io sono un vecchio poltrone goloso e prendo il caffè a letto. Io Vi assicuro, non sono goloso del caffè; sono goloso di veder entrare mia figlia e sentirmi dire: "buon giorno, papà" in tedesco. Ogni mattina è come se la ritrovassi dopo dodici anni. Ella mi porta il caffè, mi pulisce gli abiti e anche deve qualche volta cucirli! Intanto noi parliamo del nostro paese, di t ante cose passate, lontane, e anche un po' dell'avvenire. Edith ha tre lezioni quasi tutti i giorni. Vi sono due signore, la signora Pedulli Ripa e la signora Serpi, due signore oh, fff!" Steinegge spalancò gli occhi e alzò le mani soffiando, "che sono innamorate di lei e le loro figlie anche; e tante volte vorrebbero rimandarla a casa con la loro carrozza, ma ella non ha mai accettato, perché sa che io non vorrei salire in carrozza." "Voi?" disse Silla. "Che c'entrate Voi?" "Oh sì, perché io aspetto nella strada tutto il tempo." "E perché non vorreste salire in carrozza?" "Questo non sarebbe conveniente, caro amico. E così mia figlia è sempre venuta con me, sia vento, sia pioggia. Io sono orgoglioso allora e ho piacere che così mia figlia, quando esce dalla porta di questi signori, non è più maestra. L'hanno invitata a pranzo, volevano condurla a teatro. Non è mai andata, per fare compagnia a me; no, no!" Gli brillavano anche i capelli mentre diceva "no, no" e il naso gli si raggrinziva su fino alla radice. "Sapete cosa facciamo, la sera? Prima Edith lavora e io faccio il sunto francese di questo Gneist per il signor conte. Dopo Edith mi legge Schiller e Uhland, oppure mi dice poesie moderne che io non conosco, poesie di Freiligrath, di Geibel, di... di..." "Di Heine." "No, mia figlia non legge questo Heinrich Heine. Lo ho conosciuto questo uomo a Parigi. Non è stato buon tedesco. Se Voi veniste qualche volta di sera, io Vi tradurrei queste poesie e Vi darei una tazza di thè, perché Edith mi fa il thè ogni sera." "Voi" disse Silla sorridendo, "Voi pigliate il thè?" Steinegge si pose a ridere d'un riso muto, contorcendosi, gesticolando. "Ah, Voi siete un maligno uomo. Capisco, capisco. È come se der König in Thule, il Re in Tule, Voi sapete? si mettesse a bere un decotto, non è vero? Io bevo adesso due bicchieri a pranzo e non altro." "È vostra figlia che lo desidera?" "No, no, voglio io. Mia figlia mi pregava di prender vino la sera, e mi prega ancora adesso, ma io ho visto una volta per i suoi occhi il suo cuore e io prendo thè, caro amico." "V'invidio" disse Silla e prese il cappello per andarsene. Steinegge lo trattenne. "Aspettate, venite a passeggio con noi." Silla esitò a rispondere. "Oh, venite, venite!" Steinegge andò a battere alla porta di Edith e la prego di uscire un momento. Edith venne tosto e porse affabilmente la mano a Silla. "Buon giorno" diss'ella. "Che lezione lunga!" Era graziosa nel suo abito nero, semplicissimo, corto ma non troppo, con un mazzolino di viole alla cintura, il suo medaglione d'oro e onice sul petto e una stretta golettina bianca che le rifletteva sul collo un candore diffuso, trasparente. Le ricche trecce eran raccolte sopra la nuca. Nel viso delicato, leggermente roseo, la bocca e gli occhi avevano una espressione più spiccata di fermezza. È strano come quegli occhi esprimessero intelligenza della vita reale, contemperata di bontà: come nello scherzo, nel sorriso che li illuminava sovente, vi apparisse sotto all'iride un color di dolcezza triste; quale se un altro spirito infuso al suo, uno spirito malinconico si ravvivasse qualche poco nella gaiezza di lei. Ella e Silla si parlavano con certa familiarità amichevole in cui, per un sottile osservatore, si disegnava più evidente il riserbo; come due persone unite e in pari tempo divise da mutuo rispetto mostrano meglio lo studio di non toccarsi quanto più si camminano accosto. Il contegno di Silla tradiva maggiormente queste cautele talvolta eccessive, questa cura di trattenersi; Edith aveva modi più spontanei ed eguali, misurati da un riserbo tranquillo, ingenito. Si conoscevano oramai da oltre sei mesi; si vede vano spesso, non in un freddo salone di ricevimento, ma nella intimità violenta d'una stanza tepida di vita domestica; li univa una persona cara, benché in diverso grado, ad ambedue. Sin dai primi giorni della loro conoscenza Edith aveva parlato a Silla del Palazzo e dei suoi abitanti. Di Marina, conoscendo tutta la coperta storia delle relazioni loro, gli aveva toccato il meno possibile. Silla s'era ben avvisto di tale studio; né Edith poteva dubitare ch'egli non ne indovinasse la causa. Quel conscio silen zio serviva pure, in qualche modo, di occulto legame tra loro; essendo quasi un accordo ignoto a tutti, stretto senza la parola fra le anime, in argomento d'amore. Simili segreti fra due persone che si stimano e si vedono spesso, congiungono, in sulle prime, con qualche dolcezza; ma poi cresciuta la familiarità, l'amicizia ch'essi aiutano, il silenzio, in luogo di congiungere, divide, quella dolcezza diventa pena, desiderio inquieto; e il desiderio comincia a tradirsi con i discorsi che tentano obliqui l'ar gomento proibito. Allora come fra due gocce vicine sopra un piano liscio basta il tocco di un capello perché trabocchino l'una nell'altra, così il tocco di una parola sola rompe gli ultimi ritegni alla effusione del cuore e l'amicizia diventa piena. Ma Edith e Silla non parevano vicini a questo punto. Ella accettò ben volentieri la proposta di suo padre e andò a mettersi il soprabito ed il cappello. Anche Steinegge chiese licenza a Silla, con grandi cerimonie, di attendere all'ornamento della propria persona. Silla andò intanto ad affacciarsi al balcone sul Naviglio. L'aprile brillava quella sera nel cielo lucido e soffiava la lieta novella di primavera sulla vecchia città che beveva i soffi tepidi per ogni finestra. Quei soffi si spandevano blandi per le piazze, saltavano per le vie, sibilavano ai canti. Lassù in alto passavano a grandi ondate silenziose, movendo per le finestre degli abbaini biancherie pendenti dalle imposte, fiori schierati sul davanzale, che nella dolcezza infinita del tramonto primaverile ridevano al cielo, innocenti, dalle vecchie case piene di co lpa. Il sole cadeva alle spalle di Silla. La casa dove egli stava e le altre sulla stessa linea a destra e a sinistra, cupo bastione colossale, gittavan ombra sui giardinetti ai loro piedi, sul Naviglio, la via e parte delle case di fronte. Sotto il balcone, a sinistra, si spiccava dal primo piano, fra due macchie di grandi magnolie, una terrazza a quadroni bianchi e rossi e balaustrata di granito rosa. Cinque o sei uomini in giubba e cravatta bianca, senza guanti, vi passeggiavano fumando. Una signora, una lunga cometa di velluto azzurro con una camelia bianca in testa, vi comparve a braccio di un signore piccolo, grasso, anch'egli in giubba e cravatta bianca. I fumatori le si fecero tosto attorno con rispettosa premura. Dal balcone di Silla non si potevano intendere le parole, ma si udivano le voci e si distingueva benissimo quella del piccolo signore grasso, il commendatore Vezza. Silla conosceva quella dama, tenace bellezza di quarantacinque anni, divisa da pochi anni da un marito giuocatore e nota per le sue velleità letterarie, per i suoi cuochi di prima riga e per gli amanti di quarta che le si attribuivano. Un acre sapore di sensualità elegante saliva da quel terrazzo nella purezza della sera, un'aura di mille piaceri squisiti, raffinati dallo spirito, come l'odore indistinto di leccornie che dalle cucine sotterranee d'un grande albergo fuma nella via. Ma lassù nelle grandi ondate del vento questo filo di fumo mondano si perdeva. Lassù si respirava una dolcezza simile alle malinconie indefinibili dell'a dolescenza casta, un turbamento d'affetto che non ha uscita, un desiderio di aprire il cuore. Silla non pensava a cosa alcuna: gli tornavano in mente i ricordi di paesi lontani, vaghe sensazioni amorose della sua prima giovinezza, cadenze in minore e versi di canzoni popolari; uno fra gli altri che lo perseguitava quel giorno, un verso marchigiano, quanto dolce! Boccuccia riderella spandifiori. "Signor Silla" disse Edith sorridendo "Ella resta qui?" Egli si scosse, si voltò in fretta e si scusò della sua distrazione. Edith e Steinegge non attendevano che lui. Edith aveva un soprabito grigio scuro e una toque nera, con il velo calato. "È un peccato" le disse Silla "di dover scendere." "Lei amerebbe camminare nelle nuvole?" Egli la guardò un po' piccato, notò la recondita tristezza del suo sorrise e tacque. "Scusi" diss'ella "non ho poesia." Non aveva poesia, forse, ma ve n'era tanta nella voce con cui lo disse, nella graziosa persona illuminata dal sole cadente. "Andiamo, dunque" disse Steinegge. "Non è possibile" rispose finalmente Silla a Edith, nell'uscire. Ci aveva pensato molto. Edith non parlò, né si poté vedere con qual viso accogliesse la tarda risposta di Silla, perché ella era già sulla scala e vi faceva scuro. Era una consolazione uscire da quella scala fredda e buia nella strada ancor chiara del sole recente, nitida dopo una giornata di vento, quanto il cilindro di Steinegge. Questi camminava a sinistra di sua figlia, rigido come un Y capovolto. "Oh" diss'egli, fermandosi a un tratto "sapete, caro amico? Oggi mi ha scritto Innocenzo." Fece atto di cercarsi la lettera nelle tasche del soprabito, ma, ad una rapida occhiata di Edith, disse di averla dimenticata a casa e ne parlò a Silla con entusiasmo. "Molto affettuosa" disse Edith "e molto..." Non trovava la parola. "Non spiritosa, no. C'è un'altra parola italiana che mi pare, così per istinto, migliore in questo caso." "Arguta?" disse Silla. "Sì, arguta." Edith seppe ripeterne gran parte a Silla. Non era la prima volta che don Innocenzo aveva scritto al suo buon amico tedesco, appagando così un desiderio segretamente confidatogli da Edith prima di lasciare il Palazzo. Le sue lettere improntate di bontà e di arguzia erano scritte classicamente, in forma alquanto artificiosa, come usa l'uomo colto che ne scrive poche. Toccava stavolta di tristi casi avvenuti nella sua parrocchia, di grandi dolori sopportati con la umile pace cristiana. Parlava con riverenza di queste virtù dei suoi poveri contadini punto democratici; parlava della fede come un uomo che nella sua giovinezza ha combattuto per non smarrirla e, avendo pur vinto, guarda con grande indulgenza a chi ha lottato e perduto. Narrava che la neve, il gelo e le grandi piogge, avevano danneggiato il soffitto della sua chiesa e che, la domenica precedente, vi era venuto per caso a suonare l'organo un giovane maestro, il quale aveva magistralmente eseguita certa musica di un tedesco, di Bach, gli pareva. Al popo lo la musica era piaciuta poco: ma lui n'era ancora imparadisato. Raccontava che i lavori della cartiera erano molto avanzati e che parecchi tegami e cocci preistorici, scoperti nello scavo delle fondamenta, fregiavano adesso il suo museo privato. Annunciava che le tepide coste de' suoi monti, le rive settentrionali del lago, erano in piena primavera e ne descriveva l'aspetto con studiata eleganza di stile. Chiudeva con un caldo invito agli Steinegge di venir a passare qualche giorno da lui presto, presto. Edith ripeté quasi alla lettera lo scritto del curato, omettendone solo una certa parte. Era strano udir parlar di lago, di montagne, di vita semplice, sul corso di Porta Venezia tra il doppio flutto della gente che calava ai bastioni, tra il fragor sordo delle ruote sulle trottatoie e il calpestìo vibrato dei cavalli di lusso, davanti alle cantonate bianche, rosse, gialle di affissi d'ogni genere. Non c'era più sole; le nubi dorate riflettevano da ponente una luce calda sulle case più alte e il vento porta va in viso tratto tratto odore di primavera, di sigari, di profumeria. Le signore che scendevano il bastione in carrozza, parevano correr giù verso l'orizzonte limpido, abbandonarsi con insolito languore, silenziose, alle carezze dell'aria tepida. E due lunghi rivi neri di gente, picchiettati d'abiti chiari femminili, scendevano a destra e a sinistra del Corso con un gran rombo confuso di passi e di voci, come due lunghe striscie di stoffa pesante trascinate pei marciapiedi fuori del fitto ombroso della cit tà. Tutte le finestre erano aperte. Pareva a Silla che tutti i cuori lo fossero pure, che quella corrente di uomini portasse tesori di pensieri gai, d'immagini ridenti, che riflettesse la ingenua giovinezza eterna della primavera. Anche nel color delle pietre, tuttavia calde di sole, egli sentiva il prepotente aprile che non valendo a mettervi la vita, ve ne metteva quasi il desiderio, la speranza lontana. Non gli toccava il cuore udir parlare del lago e delle montagne; nessuna voce del passato si ridestava in lui. "Non scrive altro quel signor curato?" disse egli a Edith. "Null'altro" rispose per lei Steinegge. "Come? Non parla del Palazzo?" "Oh, qualche parola, sì." "Non parla del matrimonio di donna Marina?" Steinegge non poté rispondere, perché un tilbury sopravvenne di gran trotto, tuonando sul ciottolato vicino a Silla che si voltò a guardare il cavallo, un bel sauro snello. "Bello" s'affrettò a dire il capitano di cavalleria, appena passato il tilbury "bello, ma troppo leggero. Cavallo ungherese; io conosco. Migliore da sella." "Dunque" ripeté Silla "non parla del matrimonio?" Steinegge lo guardò. Non gli pareva vero che fosse così indifferente. "Sì" diss'egli "mi pare che scriva qualche cosa." "Suo padre fa il diplomatico, signorina." "Non lo credo" rispose Edith. "Lo faresti troppo male, papà; non è vero? Ma, e Lei, signor Silla, cosa fa?" "Faccio il curioso, vuol dire. Ha ragione. Ma è curiosità innocentissima, lo creda." Disse queste ultime parole con enfasi, come per far loro esprimere più di quello che potevano. Allora Steinegge uscì dalle sue trincee; con qualche cautela, però spiegandosi lentamente. "Ecco" diss'egli "pare che le cose vadano liscie e che il matrimonio non tarderà molto a farsi." "Lo credo bene. Non è combinato da sei mesi?" "Sì, sì, ma capite bene, caro amico, i preparativi, questo è lungo. Adesso poi si fa presto, pare; prestissimo." "Me ne rallegro assai" disse Silla tranquillamente. Steinegge fece uscire anche le sue riserve. "Il matrimonio" diss'egli "si fa, pare, questa sera, ventinove aprile. Pare che il popolo vuol fare grandi cose; musiche, fuochi d'artificio. Ci è stata la scritta. Si dice che il conte Cesare voleva costituire a donna Marina una dote di trecentoventimila lire, ma che essa ha preferito un'obbligazione diretta del conte allo sposo per questa somma, da sottoscriversi all'atto del matrimonio. Il conte Cesare non è stato bene due giorni, ma ora è guarito. Il conte Nepo si è fermato al Palazzo una settimana, in principio di questo mese, e i domestici vanno dicendo che è molto avaro, ma il parroco afferma che non è vero e racconta di aver ricevuto cento lire per i poveri." Steinegge scherzò su questo splendore di munificenza che aveva abbagliato il povero prete; ma Silla lo contraddisse risolutamente, sostenne che alle buone azioni non si piglia la misura, che non si arrovesciano per guardarne la fodera. Parlava vivacissimo, di vena, interrompendosi spesso per salutare i suoi conoscenti, per fare a Edith osservazioni gaie su persone e cose che gli passavano sotto gli occhi. Tutti coloro che lo salutavano, guardavano poi Edith curiosamente. Edith gli rispondeva breve, senza gu ardarlo, o solo quando non ne poteva a meno. Ella non sorrideva più, si era fatta grave. Prese il braccio di suo padre. Silla ammutolì poco a poco esso pure. Sospettò che Edith avesse attribuito un significato preciso alla sua dichiarata indifferenza per il matrimonio della marchesina di Malombra, e che volesse tenersi in guardia. Il cuore gli batté forte, una oscura dolcezza gli confuse i pensieri. Qualcuno, dall'onda della gente, lo salutò in quel momento; non rispose. Camminava in mezzo alla folla come se né vedesse né udisse alcuno. Erano giunti presso al bastione. Vi spirava un'aria men tepida, pregna dell'odor de' prati; ma la folla saliva tuttavia densa al viale di sinistra, e, al di sopra de' cappelli si vedevano sfilar lentamente nel viale di mezzo, facendo il giro, cocchieri pettoruti, cocchieri umili, cocchieri appaiati a staffieri, cocchieri solitari, cocchieri soddisfatti, cocchieri rassegnati, cocchieri scuri, cocchieri gialli, rossi, azzurri, e verdi. Edith avrebbe voluto ritornare indietro; l'aria le pareva umida; temeva ch e suo padre ne soffrisse. Steinegge ne rise. Quando mai aveva notato sua figlia ch'egli si curasse del secco e dell'umido? E il Corso lo divertiva tanto! Edith non insisté. All'entrata del viale Steinegge alzò in aria tutte e due le braccia e tirò una allegra mitraglia d'interiezioni tedesche a un signore piantato lì a vedere sfilare le carrozze. Questo signore, un tal C... col quale Steinegge aveva tentato fondare tempo addietro una Corrispondenza litografica si voltò, lo guardò e gli venne incontro stendendogli la mano. "Scusate" disse Steinegge a Edith e Silla "questo è C... Io debbo parlare. Andate avanti; vengo subito." Edith non ebbe tempo di rispondere perché suo padre era già sgusciato via attraverso la gente che, sopravvenendo fitta e continua, non consentiva di fermarsi. Fatti pochi passi, ella volle uscire sul gran viale a guardare indietro, ma non vide suo padre. Fermarsi lì ad aspettare non le garbava; le pareva di sentirsi più imbarazzata, più sola. Silla le consigliò sommessamente di andare avanti, come le aveva detto suo padre, ond'egli, passando oltre fra la gente, non li avesse poi a cercar senza frutto. Essi camminavano fra il viale affollato e il lungo cordone di curiosi intenti a guardar le carrozze che andavano al passo, fermandosi di tempo in tempo. Camminavano discosti l'uno dall'altra, senza parlare, guardando tutte le carrozze con grande attenzione, fossero calessi alla Daumont o sudicie cittadine. Ad ogni tratto Edith voltava il capo a guardar indietro. Intanto le sconfinate campagne di levante, al di là del bastione, si vedevano nelle ombre della sera sotto l'azzurro pallido del cielo che si confondeva quasi, laggiù all'orizzonte, con esse, distese, aperte avidamente agli inenarrabili amori della notte di aprile. Apparivano fra una carrozza e l'altra, scomparivano, riapparivano, grande immagine di pace, al di là di quel brulichìo mondano. A ponente le case oscure della città si disegnavano sul cielo aranciato che posava una languida luce calda nei bassi p rati dei giardini, il margine scoperto del viale. La striscia nera della gente a piedi moveva lenta, assaporando l'ora dolce, l'aria pura, odorata di primavera e di eleganza, il rumor soffice delle carrozze, musica della ricchezza indolente, piena d'immagini tentatrici. E le signore, negli equipaggi di gala, passavano e ripassavano sotto la nebbia verdognola dei grandi platani, come Dee infingarde, fra gli sguardi ardenti, la curiosità invidiosa del pubblico, blandite da questi acri vapori d'ammirazione, fi so l'occhio al di sopra di essi, in qualche invisibile. Quel moto lento e molle, quella stanca inquietudine umana pareano consentire col nuovo turbamento, con le nascenti passioni della terra. Silla avrebbe voluto parlare, interrompere un silenzio pieno d'imbarazzo e di trepide immaginazioni, ma non ne trovava la via. Arrivarono davanti al caffè dei giardini mentre molte persone se ne rovesciavano sul viale, rompendo la corrente del passaggio. Egli offerse allora il braccio alla sua compagna, che lo ringraz iò e vi pose appena la mano. Silla sentì sul cuore quel tocco leggero. Fendette la gente, facendo strada a Edith, guardando alla sfuggita la piccola mano che gli pendeva inerte sul braccio. Strinse, per istinto, il braccio e, senza saper bene quello che si dicesse, sentendo confusamente di fare un discorso avventato: "Scusi" cominciò "donna Marina Le ha mai parlato di me?" Edith non s'aspettava una domanda simile. Non ritirò più la mano e rispose semplicemente: "Sì." Certo ella stava preparando qualche spiegazione cauta per una seconda domanda, inevitabile; ma la seconda domanda non venne. "Che sera soave!" disse Silla. "Si rinasce. Si sente l'aprile nel cuore. Lei non voleva dirmi tutto quel che ha scritto quel signor curato: e io ho avuto tanto piacere di udirlo da Suo padre!" Il braccio di Edith si mosse un poco, ma non si ritrasse. "Ella non sa, quando si ha una mano ferita, come si eviti ogni stretta, anche d'un'altra mano amica, e quale consolazione sia sentirsela afferrare un giorno e non provare più dolore!" "Vuol dire" rispose Edith "ch'era una scalfittura e che questa persona teme molto il male. Se son poi ferite dell'anima, allora per me sarebbe un grande avvilimento non sentirle più, guarire come si guarisce da una febbre, come queste piante guariscono dall'inverno. Non le pare? Quanta gente! E papà che non viene?" Ella si sciolse pian piano da Silla e si fermò; Steinegge non compariva. "Perdoni, signorina Edith" disse Silla con voce leggermente tremante. "Ella mi giudica male. Ad esser giudicato male ci sono avvezzo sin da quando è morta mia madre. La colpa n'è in gran parte mia, del mio carattere; però è una cosa amara! Con un po' di orgoglio e di fede in altri giudici o qua o via di qua, si resiste; ma qualche volta anche l'orgoglio e la fede cascano in fondo al cuore; il cuore stesso pare che si sprofondi. Mi lasci dire una parola, signorina Edith. Io non trovo negli uomini che indiffe renza e nella fortuna che derisione. Vado tuttavia avanti a fronte alta, finora; ma, creda, è crudele di ferire uno cui tutti voltan le spalle. La prego di darmi il Suo braccio e di ascoltarmi un momento." "Non credo d'averla offesa" disse Edith, appoggiando ancora la mano al braccio di lui "son cose umane." Egli prese risolutamente con la sinistra quella mano restìa, allargò il braccio, la trasse avanti e parlò tra la folla indifferente, a voce bassa, con maggior effusione di cuore, con maggior franchezza di spirito che se si fosse trovato solo con Edith in un deserto: "Cose umane? Sì, certo, ma non la cosa che Lei crede. Non sono guarito come una pianta, a forza di sole e d'aria, dimenticando; ho voluto guarire, con indomita volontà; mi sono strappato dal cuore una febbre maligna che mi avviliva. Perché io non la stimo e non l'ho stimata mai." "No?" disse Edith con vivacità involontaria. "No, mai. Mi creda, Lei che ha l'anima tanto alta. Ho bisogno che qualcheduno come Lei mi creda e abbia un poco d'amicizia per me. Non ne parlo mai a nessuno, sa, ma mi succede spesso, solo come sono, senz'amicizie, senz'amore, senza genio, senza riputazione, senza speranze, mi succede di sentirmi morire nell'altezza in cui mi sforzo di tenere il mio spirito, studiando, lavorando, pensando a Dio. Sento allora tante voci sinistre, sempre più forti, sempre più forti, chiamarmi giù abbasso, in qualche fango ch e spenga il pensiero. Scusi, signorina Edith, Le dà noia che io parli tanto di me?" "Oh no" diss'ella piano. "Non avrei creduto quello che dice." "Lo so; il mio cuore è ben chiuso di solito. Questa sera parlo perché mi pare di essere in sogno." "Ella sogna" disse Edith "di parlare ad una persona morta da lungo tempo, cui si può confidarsi." "No, faccio un sogno da notte di primavera, come ne potranno fare questi vecchi platani pieni di speranze, quando si alzerà la luna e la gente andrà via. Sogno di mettere anch'io una volta foglie e fiori, di parlar sottovoce, dopo tanto silenzio, con la primavera blanda, di raccontarle tutte le tristezze dell'autunno e dell'inverno, come se fossero passati de' secoli. Dunque senta. Io non la stimavo. Premetto questo: nelle mie ore di sconforto ho sempre avuto lo stolido istinto di qualche fatalità oscura ch e mi domini. Ora Suo padre non ha potuto raccontarle tutto perché non sa tutto. Io mi confido alla primavera blanda. Qualche tempo fa ho publicato un libro anonimo, intitolato Un sogno." "Si potrà leggere?" chiese Edith. "Lo leggerà. Poco tempo prima ch'io partissi pel Palazzo, capitò, alla tipografia ond'era uscito il libro, una lettera diretta all'autore di Un sogno e sottoscritta Cecilia. Era una lettera sfavillante di spirito sarcastico, intarsiata di motti francesi, profumata, in cui si parlava molto di fatalità e di destino. Il tono di questa signora Cecilia non mi era pienamente simpatico, ma pure la lettera aveva un certo fascino d'ingegno e di stranezza: e poi sorrida pura, blandiva il mio amor proprio che ha ben d i rado assaporato la lode pubblica, e trovava una dolcezza molto più delicata nelle parole direttemi segretamente da una lettrice sconosciuta. Vede se Le confido anche le mie miserie. Insomma risposi. La replica di Cecilia mi capitò la vigilia della mia partenza per il Palazzo. Era piena di frizzi e di domande curiose, impertinenti. Decisi di rompere: le scrissi un'ultima lettera che cominciai a Palazzo e spedii qui nei due giorni in cui venni a prender i miei libri. Lei sa da Suo padre per qual cagione e i n qual modo partii dal Palazzo. Quel giorno stesso avevo scoperto per caso, indovini!... che Cecilia era donna Marina. Nella notte parto, trovo lei nella sua lancia. Avemmo un colloquio violento. Sopravvenne un temporale: dovetti ricondurla a casa. Non Le dirò come né perché, ma fui tentato fieramente di non partire più. Mi strappai da lei gittandole il suo finto nome, Cecilia. Fuggii pieno di sgomento, pieno della stolta idea che mi perseguita, d'esser giuoco di una potenza nemica che mi mostra ogni tanto la felicità vicina, me la offre, me la porta via quando sto per afferrarla. Ci volle tutto il mio orgoglio... Lei mi crede modesto, signorina Edith?... No, non lo sono, tranne qualche volta, nelle ore di scoramento; allora mi sento abbietto addirittura. Ci volle dunque tutto il mio orgoglio spiritualista per giungere a calcarmi ai piedi queste paure vigliacche; ci volle, per liberarmi da sentimenti non degni, un lavorar feroce, sia tuffandomi ne' libri antichi come in acque fredde, sia scrivendo di cose ide ali in cui il mio pensiero si esalta e si riposa. E così ho vinto. Solo questa sera potei comprendere quanto pienamente ho vinto. E Lei..." "Oh" disse allora Edith fermandosi "dove siamo?" Erano soli sul viale. Avevano oltrepassato senza avvedersene il punto dove le carrozze e la gente giravano indietro. Edith arrossì della sua distrazione e si voltò in fretta, lasciando il braccio di Silla. Poi temé forse di averlo offeso con quell'atto brusco. "Non potevo sapere queste cose" diss'ella. "Non ho compreso tutto quello che ha raccontato, ma lo credo. Se sapesse quale concetto ha di Lei mio padre! Non sono italiana" soggiunse con forza "non so se è vero ch'Ella non ha riputazione; ma non è certo vero" continuò abbassando la voce "che Ella non ha amicizie." Fosse per la tenera poesia d'aprile o per la emozione delle confidenze recenti, Silla era così disposto che le semplici parole di lei gli abbuiarono la vista. Le riprese il braccio. "Ah" disse "è vero, è vero ch'Ella mi crede anche se non mi comprende interamente, è vero che ha fede in me? Ebbene, la riputazione, la fama più splendida, io la darei cento, mille volte se l'avessi, non per un'amicizia, non basta..." Il braccio di Edith tremò nel suo. Egli proseguì con voce incerta, diversa dalla sua solita, camminando come se le gambe non sapesser tenere la via diritta né la misura del passo: "Per un'anima. Per un'anima che accettasse, che volesse da me, per sé sola, le creazioni del mio ingegno e del mio cuore; per un'anima chiusa a tutti fuor che a me, com'io sarei chiuso in lei. Dovrebbe essere appassionata e pura come il puro cielo. Noi ameremmo insieme, uno attraverso l'altro, Dio e il creato con un amore di potenza sovrumana. Pare a me che saremmo forti nella nostra unione, come tutta questa gente non sospetta neppure che si possa esserlo, più forti del tempo, della sventura e della morte; pare a me che intenderemmo l'essere delle cose, il loro spirito; che ci attraverserebbero la mente visioni del nostro avvenire, splendori incredibili di visioni. La troverò quest'anima?" "Sarebbe un'anima egoista" disse Edith, "se volesse tutte per sé sola le opere del Suo ingegno e del Suo cuore. La gloria, lo sento, deve avere in sé qualche cosa di vuoto, persino, di triste forse, per uno spirito come il Suo; ma aver la potenza di far amare, di far piangere, di muovere le anime al bene e non usarla! Avere della luce nel pensiero e nasconderla, non inviarla dritta a traverso questa gran confusione torbida del mondo!" "Questo non è per me, signorina Edith. Il poco che ho scritto è affondato in silenzio, partecipando della mia sfortuna. Forse qualcuno, un giorno, frugando, per farsi del merito, tra le cose dimenticate..." Ecco Steinegge, rosso, trafelato. "Finalmente!" diss'egli. "Io credeva che eravate saliti sopra qualche albero. Io ho corso su e giù come un bracco." "Perdonami, caro papà" disse Edith soavemente, staccandosi da Silla e prendendo il braccio di suo padre, benché questi, sempre cerimonioso, protestasse. "Siamo esciti per un breve tratto dalla gente." Ella gli parlò carezzevole, in tedesco, stringendosi a lui quasi volesse compensarlo, provasse un rimorso. Il povero Steinegge, imparadisato, si scusava di non averli raggiunti prima, come se la colpa fosse sua. Silla non parlava. Passeggiarono così un pezzo. La gente e le carrozze si venivano ormai diradando. I viali, i giardini, le case lontane s'intorbidavano di mistero. Le donne, camminando languidamente, guardavano i passeggeri con occhi fatti audaci dall'ombra. Si udiva parlare sotto i viali, da lontano; di là dai giardini, lungo le case tenebrose, i fanali, occhi ardenti della grande città pronta al piacere, si aprivano uno dopo l'altro. Sopra le case il cielo sereno, senza stelle, aveva ancora un tepido chiaror di perla che s i stendeva blando sul margine scoperto del bastione e sulla spianata bianca del caffè dei giardini, a cui Steinegge si avviava con propositi di munificenza. In faccia al cavalcavia era fermo un elegante calesse vuoto. Uno staffiere teneva aperto lo sportello, volgendo il capo a due signore che venivano dal caffè. Silla salutò. Una di quelle, nel passargli vicino, gli disse con una vocina piena di grazie: "Si ricordi. Dopo il Re." "Io mi congratulo molto, caro amico" disse Steinegge. "Oh, di che?" rispose Silla sdegnosamente. "È la signora De Bella. Un'antipatica bambola di Parigi. Non ci vado mai. Se sapeste come l'ho conosciuta! Lo scorso autunno un certo G... che studia filologia a Berlino, mi manda dei versi di un nostro antico poeta, Bonvesin de Riva, stampati colà. Contemporaneamente manda degli altri libri fors'anche delle fotografie, a questa signora che allora era a Varese. Per un equivoco della Posta, anche il mio libriccino fu portato a casa sua, qui a Milano. Ella fa una cor sa da Varese proprio quel giorno e m'incontra in via San Giuseppe con mia zia Pernetti che accompagnavo. Mia zia si ferma, e dopo molte chiacchiere ha la bontà di presentarmi. Questa signora fa un atto di sorpresa. "Ma io" dice "ho della roba Sua!" Io non capisco e non rispondo. "Lei" soggiunge "è ben l'autore di Un sogno?". Rimasi sbalordito. Allora ella mi parla, ridendo, del libriccino, e mi dice candidamente che G... ci aveva posto dentro un biglietto dove si leggeva: "Mandami una copia del tuo Sogno". Mi fece mille premure perché andassi a trovarla, e vi andai difatti un paio di volte in dicembre. Poi non ci tornai più. Oggi mi ha scritto che desiderava parlarmi e che ci vada domani sera dopo il teatro." Silla raccontò tutto questo con calore, come se volesse giustificarsi di quella relazione. Sedettero fuori del caffè. I fanali non v'erano ancora accesi e i tavoli quasi deserti. Uscivano invece dall'interno con la gran luce del gas, le voci vibrate dei garzoni, l'acciottolìo delle tazze e delle sottocoppe, il tintinnìo dei cucchiaini e delle monete buttate sui vassoi. Steinegge cominciò a parlare di quel tal C..., che aveva conosciuto in Oriente. S'erano trovati a Bukarest nel 1857 e, l'anno dopo, a Costantinopoli; quindi nel 1860 a Torino. Steinegge parlava assai volentieri del suo soggiorno ne i dominii del "sublime portinaio". Da C... passò a Stambul e al Bosforo. Tocca il cuore udir parlare nelle ombre del crepuscolo di paesi lontani, di costumi bizzarri, di strane lingue sconosciute. Silla guardava spesso Edith, ascoltava il narratore come chi ascolta una dolce musica leggendo e pensando, che le sue lettere e i pensieri si colorano di poesia, e neppure una nota gli resta nella memoria. Era la elegante forma bruna di Edith ch'egli vestiva di poesia, udendo parlare di cipressi, di fontane moresc he, di palazzi bianchi, di mare brillante. Ogni linea della bella persona gli appariva improntata di grazie nuove, gli pareva segno di un'idea attraente, impenetrabile. Non vedeva l'occhio, lo immaginava; ne sentiva sul cuore lo sguardo con la sua dolcezza. Immaginava pure i pensieri di lei; no, non i pensieri, ma piuttosto vagamente, la dignità e la tranquillità loro, la purezza altera. E sentiva in se stesso una luce serena, un calore così lontano, gli pareva, dall'indifferenza come dalla passione, un sor gere di non so quale indefinibile fede. Provava la sensazione di salire, alla lettera; e un singolare esaltamento della potenza visiva per cui le grandi ombre degli alberi del bastione, i profili taglienti delle macchie brune intorno a lui, gli oggetti vicini, tutto gli riesciva straordinariamente netto e vivo; nuovo, perciò, interessante come al tempo della sua fanciullezza. Steinegge intanto parlava. Descrisse un episodio comico della sua traversata da Costantinopoli a Messina. A quel punto il gas del fanale vicino, tocco dal lume dell'accenditore, divampò sonoro, arse in viso a Edith. Ella era pallidissima, grave, e non guardava suo padre. Si scosse allora e si pose ad ascoltarlo con attenzione troppo subitanea ed intensa per essere sincera. Silla se ne avvide, n'ebbe un lampo di piacere nel petto. Quando più tardi riaccompagnò a casa il padre e la figlia, pochissime parole furono scambiate fra loro. Nel separarsi, Silla stese la mano a Edith, che esitò ad accordargli la sua e la ritrasse tosto. Egli udì appena i saluti chiassosi di Steinegge: se n'andò via dolente e insieme avido di esser solo. Si allontanò a capo chino e a lenti passi, immaginando fortemente il viso pallido e gli occhi di lei quando il divampare del gas la sorprese; ripensando ad una ad una le parole scambiate, le proprie confidenze , la protesta d'amicizia, così singolare sulle caute labbra di Edith, la sua evidente trepidazione, nello staccarsi dal padre, dimenticato poi mentr'egli, Silla, le dava il braccio e le parlava. Non ne traeva nessuna espressa conclusione; si guardava il braccio là dove s'era posata la mano di Edith, odorava queste memorie come un profumo. E pareva che a poco a poco se ne inebriasse. Dalla via poco frequentata dove abitavano gli Steinegge, moveva inconscio verso il cuore della città. La gente cominciava a sp esseggiare, crescevano gli splendori dei negozi, lo strepito delle carrozze. Alzò la testa e affrettò il passo. Gli saliva dentro una foga d'orgoglio non del tutto insolita in lui che in tali condizioni di spirito cercava, godeva la folla per la voluttà acuta di sentirsele ignoto e di disprezzarla, di dominarla col pensiero. Trovatosi a un tratto sul corso Vittorio, si gettò nel fiume della gente. Egli aveva detto a Edith: "Un'anima! Un'anima sola che accetti le creazioni del mio ingegno!". Ma questo era il grido delle sue tristezze scorate, quando si sentiva debole a fronte del mondo indifferente e di un sinistro demonio confitto nel suo fianco. Grido dell'ora nera, vôta di fede e di speranza. Non sarebbe stato sincero quando l'ingegno gli ardeva di vigore audace e il demonio sinistro taceva; che allora l'uomo, ebbro di felicità fiera, disprezzava le dimenticanze del pubblico, le ingiustizie amare d ella critica, la insolenza dei fortunati, il maligno volto della stessa beffarda fortuna; scriveva, non per ambizione, né per diletto, né pel sublime amore dell'Arte ch'è la musa dei grandi ingegni, ma per la coscienza di un dovere ideale verso Dio, per obbedire alla vasta mano prepotente che gli si piantava tra le spalle, lo curvava, lo schiacciava sul suo tavolo di lavoro, spremendogli dal cuore il sangue vitale che ora ingiallisce ne' suoi libri dimenticati. Tra queste rade ore splendide gli correvano lu nghi intervalli bui. La vasta mano si alzava dalle sue spalle, ogni luce di pensiero si spegneva in una tenebra pesante d'inerzia; tutte le passate delusioni lo rimordevano al cuore, tutte le vecchie ferite sanguinavano; egli numerava con acre piacere doloroso le fallite speranze della prima giovinezza, le contrarietà strane, incredibili che aveva provate, sempre e dovunque, sul suo cammino, le funeste contraddizioni insite nella sua stessa natura; poco a poco non lavorava, non pregava più, non sentiva più Dio. Allora il suo paziente nemico mortale, il demonio confitto nel suo fianco, sorgeva e gli strideva nel sangue. Era il demonio della voluttà tetra. L'adolescenza e la prima giovinezza di Silla erano state pure. La santa protezione di sua madre, le tendenze artistiche e la squisita nobiltà del suo spirito, la fatica degli studi, l'ambizione letteraria, lo avevano preservato dalle corruzioni grossolane che avvelenano quell'età. Aveva allora il sangue tranquillo, la mente illuminata di bellezze femminili ideali, sovrumane per l'intelligenza ancor più che per la perfezione delle forme. Di tempo in tempo si credeva innamo rato. I suoi amori cercavano sempre lo sconosciuto e l'impossibile. Uno sguardo, un sorriso, una voce di qualche dama di cui non sapeva il nome, gli si figgevano in cuore per mesi. Allora il solo pensiero degli amori vili gli metteva orrore; tutto il fuoco della sua giovinezza bruciava nel cuore e nel cervello. Dopo le prime disillusioni letterarie, nell'abbattimento che ne seguì, quel fuoco divorante gli scese intero ai sensi. Egli vi ripugnò lungamente e quindi si gittò abbasso. Non cercò facili amori, gl i era impossibile piegar l'anima alla ipocrisia di parole menzognere: volle il tetro piacere muto che si offre nelle ombre cittadine. Ne uscì tosto stupefatto, palpitante, in ira a se stesso; ritrovò il calore perduto dell'ingegno e dell'affetto, ritrovò i suoi amori ideali, riprese la penna, afferrò il concetto del dovere verso Dio come una fune di salvamento. Ricadde quindi e si rialzò più volte, lottando sempre, soffrendo nella sconfitta incredibili prostrazioni di spirito, col presentimento angoscioso d i un'ultima caduta irrimediabile, di un abisso che lo avrebbe finalmente inghiottito per sempre. Perché in lui l'antagonismo dello spirito e dei sensi era così violento che il prevalere di una parte opprimeva l'altra. Non aveva mai conosciuto il giusto equilibrio dell'amore umano né potuto trovar durevole corrispondenza di quell'affetto sublime e puro ch'egli invocava con angoscia quando Iddio si ritraeva da lui. Gli era toccata due volte la rara e inestimabile ventura di essere amato come voleva egli, col fuoco dell'anima. Uno di questi amori fu troncato subito da necessità fatali e ineluttabili; l'altro scomparve misteriosamente, lasciando Silla pieno di terrore, come se avesse veduta l'ombra e udito il sarcasmo del destino. La passione di sensi e di fantasia ispiratagli da Marina lo attraversò quale una vampa di polvere. Tornato a Milano spense a forza il bruciante ricordo di lei in ostinati studi di greco e di filosofia religiosa alternati con un lavoro fantastico e uno studio morale. Non fu mai colto in quell'inverno dal cupo silenzio interiore che soleva precedere in lui le tempeste furiose dei sensi. Una così lunga tranquillità gli ritemprò lo spirito, gli rese quasi la freschezza dell'adolescenza; e ora, con lo sguardo e la dolce voce di Edith nel petto, egli si sentiva casto e potente, guardava in faccia all'avvenire aperto, vôto di fantasmi paurosi. Andava fra la gente colla voluttà del nuotatore gagliardo che fende da padrone la spuma e il fragore delle onde. Sentiva la stolta fede che sarebbe giunto un giorno a signoreggiar con l'ingegno quella folla così avida negli occhi di bellezza fisica, di piacere, ferma e densa intorno al fulgore dei gioielli, ferma e densa intorno alla ridente luce di certe altre vetrine, paradisi della gola; palpitante nel sinistro fascino dell'oro, abbrutita nelle cupidigie del ventre. Qual sogno opporsi a lei, sfidarne la viltà e la superbia, frustrarla in viso come una fiera, gittarla indietro sgomenta e doma, con la potenza di una divina ispirazione interiore e della paro la, amando ed essendo amato senza fine da una donna come Edith, sicuro, in questa fiamma, dal fango ignobile! Passava, così fantasticando, lungo il Duomo. La tacita mole enorme, assediata dai fanali a gas, pigmee scolte del secolo nemico, ne portava sul fianco il picciol lume che moriva a breve altezza nell'ombra; e l'ombra sfumava più in su in un fioco albor puro, dove salivano guglie, pinnacoli, trine marmoree color di neve lontana, prima dell'aurora. Quella visione di marmi e di luna, inutili, adorabili magnificenze dell'ideale, ruppe a Silla le fantasie, forse non vôte di ambizione e di rancori contro gli uomin i, gli refrigerò il cuore, vi mise un gran desiderio di silenzio. Egli si avviò verso casa sua. Abitava lontano, presso Sant'Ambrogio. Quando entrò nella chiara piazza deserta gli si affacciò, alta sopra le case di via S. Vittore, la luna. Silla trasalì e si levò il cappello involontariamente. Aveva ella presieduto alla sua nascita la fredda e solenne signora che veniva a guardarlo tristamente in faccia nei momenti gravi della vita, adesso come un'altra sera, quand'ella usciva tra i nuvoloni sull'Alpe di Fi ori e gittava nelle acque nere del lago una spezzata lama d'argento? Silla rise di se stesso e si disse che era un saluto di congedo alla vecchia amante. Egli vegliò a lungo nella sua cameretta al quarto piano, che guardava in un cortile quadrato, stretto e profondo. Tenne la finestra aperta. Fuori della finestra sul ballatoio c'eran de' vasi fioriti di violacciocche, che mandavano odore nella stanza. Dal suo tavolo Silla vedeva sopra la opposta muraglia bianca, tra gli abbaini e i fumaioli del tetto, una lista di cielo e qualche stella pallida nella luce lunare. Egli trasse il manoscritto di un racconto incominciato durante l'inverno con questo titolo Nemes i, ne rilesse alcune pagine e non gli piacquero. Depose il manoscritto, pensò a Edith. "Buona sera" disse una voce dalla finestra. Era uno studente dell'Istituto Superiore che alloggiava in fondo al ballatoio. Silla lo salutò. "Vengo di là, sa" soggiunse l'altro che si compiaceva di raccontargli i suoi amori. "Mi ha congedato subito e non vuole che ci torni prima di posdomani, perché dice di essere andata oggi a confessarsi. Ma che fatica ha fatto! Che fatica!" Il giovane pareva ubbriaco di questo pensiero. Parlava ridendo, ansando. "Sa, sono sentimentale per forza questa sera. Farò un po' di musica. Farò uscire dalla finestra quella bionda, quella ch'è venuta l'altro ieri. Come? non la conosce? Al terzo piano, prima finestra a dritta. Dove c'è lume. Una francese. Buona sera." Se ne andò cantando a mezza voce sopra un motivo dei Lombardi certa strofetta composta per il prof. B... Per ridurre all'orizzonte La pendenza del terreno Si moltiplica il coseno Per la stessa inclinazion. Entrato nella sua camera, lasciò l'uscio spalancato e tempestò sul piano un walzer diabolico, da far ballare i morti. Silla, infastidito dal dialogo e dalla musica, si alzò per chiudere la finestra. Ma era così soave l'odore dei fiori, gli piaceva tanto quella muraglia tutta bianca di luna, quel cielo puro! Guardò abbasso. La signorina francese era uscita sul ballatoio del terzo piano e si appoggiava alla ringhiera, fumando. Due cameriere ballavano da un'altra parte e rispondevano a interlocutori invisibili ; un capitano in pensione stava alla finestra, in berretto da notte, con la sua giovine governante. Silla chiuse la finestra. La santa notte di primavera gli pareva ammorbata e guasta. Chiuse vetri e imposte con impeto, tornò al suo tavolo, e dopo aver pensato a lungo con il capo tra le mani, afferrò un foglio di carta, scrisse precipitosamente: "È amore? Quale amore? Sono ancora tranquillo abbastanza, voglio riflettere, studiarmi finché mi è possibile. Io sento, pensando a lei, di desiderare qualche cosa di ignoto a me stesso, d'inconcepibile dal pensiero umano. Il mio desiderio è tanto puro che lo scrivere - è puro - mi costa uno sforzo, mi ripugna. Ma tuttavia vi è veramente una commozione fisica in me, specialmente nel petto. Vi è un reale movimento nel sangue o nei nervi, che corrisponde alla esaltazione del mio spirito. Sono incapace, in ques to punto, di ragionamento freddo, ma sento invincibilmente che se quello che io provo è amore, esso non è solamente spirituale. Lo penso, lo credo, sono barlumi di una vita futura più nobile che si destano in me, presentimenti d'uno squisito amore fisico, non concepibile in questa tenebra. Solo questo io so, che dev'essere immensamente più degno dello spirito, benché forse capace ancora di altre sublimi trasformazioni. Tento immaginare la unione intera, il mio sguardo nel suo, il cuore nel cuore, un fuoco d i pensieri commisti, un palpito che ad ogni momento ci divida e ci unisca. Sento altresì che queste idee esaltano la mia intelligenza e abbattono il corpo, ne troncano i desideri più vili. "Signore degli spiriti, tu me li doni questi divini fantasmi, ombre del futuro, questi ardori che mi levano dal fango verso te. Non abbandonarmi, fa ch'io sia amato. Tu lo sai, non è solo dolcezza che io cerco nell'amore; è lo sdegno d'ogni viltà, è la forza di combattere per il bene e per il vero malgrado l'indifferenza degli uomini, l'occulto nemico esterno, i tuoi silenzi paurosi. Padre, rispondi al grido dell'anima mia, fa ch'io sia amato! Vedi, tra queste sublimi speranze mi assalta l'angoscia che siano una derisione ancora e mi stringo ad esse e sospiro." "Ah no!" Gettò la penna, spiegazzò fra le dita lo scritto e lo arse alla candela. Prese poscia un libriccino di note. Rilesse queste parole tracciatevi anni prima: "È finito. Creare ancora, creare fantasmi di quanto ho desiderato invano, lasciare un ricordo, un'eco dell'anima mia profonda e partire attraverso gli abissi per qualche stella lontana da cui questa terra dura non si veda nemmeno! Dio, gli uomini, la giovinezza, la fede, l'amore, tutto mi abbandona." Vi scrisse sotto: "29 aprile 1865." "Spero."

UN MATRIMONIO IN PROVINCIA

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Marchesa Colombi 1 occorrenze

Un'anticamera, di grandezza naturale, ma chiara che abbagliava, e perfettamente vuota. Non c'era dove posare un cappello. Alcuni testi con un resto di terra arsiccia e dei mozziconi di piante, morte di siccità, perché nessuno si era mai curato di inaffiarle, la ingombravano qua e là, e servivano, quando occorreva, a tener aperto l'uscio che metteva in sala. La sala vasta, quadrata, chiara, troppo chiara, perché non c'erano né tende, né cortine, né trasparenti alle finestre, era mobigliata con un divano addossato alla parete principale di contro alle finestre, quattro poltrone due a destra e due a sinistra del divano, appoggiate al muro, ed otto sedie lungo le pareti laterali, quattro per parte. Nel centro della sala c'era una tavola rotonda, coperta con un tappeto di lana; e sul rosone di mezzo del tappeto, c'era una scatola da guanti col coperchio di vetro, traverso il quale si vedeva un paio di guanti bianchi un po' sciupatini. La scatola era un dono nuziale del babbo alla sua sposa, ed i guanti erano quelli che la mia povera mamma aveva portati il giorno delle nozze. Intorno alla scatola erano schierati sulla tavola: due cerchi da tovaglioli ricamati sul canovaccio, colla scritta "buon appetito"; un portasigari di velluto rosso, con una viola del pensiero ricamata in seta; una busta di pelle scura, imbottita di raso turchino, che stava sempre aperta per lasciar vedere una ciotola ed un piattino d'argento, dono del mio compare Gaudenzio alla mia mamma, in occasione della mia nascita. Nessuna di quelle cose aveva mai servito all'uso a cui era destinata, perché il babbo le trovava troppo di lusso e per conseguenza la teneva in sala, la stanza di lusso della casa. Dopo la sala veniva la camera del babbo con un gran letto nuziale, che la riempiva tutta. A capo del letto c'erano due pilette d'acqua santa d'argento cesellato, che il tempo aveva ossidate rendendole piú belle, due altre pilette di porcellana, in forma di angeli, colla gonnellina rialzata che faceva da coppa, e finalmente una quinta piletta di rame inargentato, che però aveva perduto l'argento, era la sola che contenesse veramente l'acqua santa. E sopra le pilette erano appesi molti rami d'ulivo, e palmizi, ed un fascio di lu- men-cristi, dai quali si sarebbero potuti contare gli anni dacché il babbo aveva messo casa, cominciando dai primi, rappresentati da candelette sminuzzate, tenute insieme soltanto dall'anima di bambagia, sulla quale quei vecchi pezzetti di cera annerita, ciondolavano come una filza di salsiccie, e passando via via, d'anno in anno, pei lumen-cristi scrostati, sgretolati, contorti, poi per quelli intieri ma gradatamente sudici, che, dal color castano, venivano giú giú per tutte le sfumature del giallo, fino a quello dell'ultimo anno, intatto, quasi bianco, coi fiorellini rossi e verdi dipinti, che erano una bellezza. A destra del letto c'era uno scrigno, dove il babbo teneva gelosamente rinchiusi i denari e quelle che chiamava "le reliquie di famiglia": i ritratti al dagherrotipo di lui e della mamma quand'erano sposi, quasi completamente svaniti; la cuffiettina che aveva servito pel nostro battesimo; una quantità di fogli ingialliti, che contenevano le poesie giovanili del babbo, e finalmente i gioielli della mamma. Dall'altra parte del gran lettone, c'erano otto seggiole a spalliera alta, ma punto antiche né belle, vecchie soltanto, e schierate in fila come tanti soldati. E se per caso una si staccava un dito dal muro, o rimaneva voltata anche solo d'una linea verso la sua vicina, il babbo correva a metterla a posto e non era contento se non s'era assicurato, chinandosi e prendendo la mira come se dovesse sparare, che gli otto sedili formavano una linea retta inappuntabile. Dopo la camera del babbo, c'era una vasta cucina, dove la zia s'era tagliata fuori la camera da letto col paravento; il che non impediva che ci stessero a tutto agio una tavola ordinaria per usi di cucina, ed una tavola di noce piú grande, dove si pranzava. Dietro la cucina c'era una stanzona larga, bassa di soffitto, colle pareti imbiancate a calce, dove si dormiva la Titina ed io. I nostri letti erano di quelli primitivi, fatti di cavalletti e panchette, con un saccone di cartocci ed una materassa. Ed a capo del letto avevamo anche noi la piletta dell'acqua santa, ma di terra verniciata come i tegami da cucina, delle immagini sacre che, per risparmiare la cornice, erano state appiccicate al muro colla pasta, ed un rosario di avellane con una noce per ogni paternostro, che ci aveva fatto commettere col desiderio chissà quanti peccati di gola, ed aveva dovuta la sua salvezza, nei primi anni al suo carattere sacro, e piú tardi al suo gran puzzo di rancido. Non c'era un giardino, né un cortile, né un balcone per uscire a respirare all'aperto. Ma, in compenso, il nostro babbo aveva la passione, la fede, la manía del moto. Per tutte le malattie, per tutti i guai della vita ammetteva due soli rimedi, ma erano infallibili: una lampada alla madonna, ed il moto. Li usava anche come preservativi, come semplici misure igieniche; perché noi non s'avevano in casa né malattie, né guai; eppure la lampada s'andava a farla accendere ogni venerdí, e, quanto al moto, se ci penso mi dolgono ancora le piante dei piedi. Dio! Quanto camminare su quelle strade maestre larghe, diritte, bianche l'inverno di neve, e l'estate di polvere, che s'allungavano a perdita d'occhio nelle vaste pianure, fra i prati e le risaie del basso Novarese! Ho detto che il babbo era notaio; ma il suo studio non era preso d'assalto dai clienti. Teneva un giovane praticante, e lui solo con quell'aiuto bastava a tutto, ed avanzava ancora il tempo per le nostre enormi passeggiate. La mattina ci faceva alzare prestissimo, ci dava appena il tempo di vestirci, e via; lasciando la casa sossopra, i letti disfatti, s'andava giú giú, lungo una strada maestra qualsiasi, senza scelta, senza scopo. A lui non importava che i luoghi fossero belli; non ambiva di fare delle escursioni alpine; punto. La sua passione era proprio di mettere un piede avanti l'altro, per molte ore di seguito, e di poter dire al ritorno: "Si son fatti tanti chilometri". Quando si tornava eravamo stanche, e non ci sentivamo di sfacchinare per ordinare la casa. C'era una serva che veniva alle otto del mattino, e se ne andava verso le due. In quelle ore doveva ordinare, andare al mercato, far la cucina, servire in tavola, rigovernare. Tutto dunque era fatto molto sommariamente. Ma il babbo, pel mangiare era sempre contento, per l'ordine di casa gli bastava che i mobili fossero bene a posto e le sedie bene in fila; e purché si facesse del moto non esigeva di piú. Non ci mandava neppure a scuola, perché diceva che tutte quelle ore di immobilità sono micidiali. C'insegnava lui di quando in quando a leggere, scrivere e far di conto. E durante le nostre passeggiate faceva la nostra educazione letteraria. Almeno lui lo credeva, perché ci raccontava l'Iliade, l'Eneide, la Gerusalemme. Si animava, gesticolava narrando di eroi che si battevano soli contro un'armata, sollevavano macigni grossi come montagne e li scaraventavano contro il nemico, compievano le imprese piú stupefacenti ed inverosimili; e, quando finiva quelle narrazioni, il povero babbo era tutto ansimante ed in sudore, come se quelle gesta le avesse fatte lui. Noi non dividevamo punto la sua ammirazione. Prive dell'attrattiva della forma, dette cosí fra due campi di granturco, quelle cose ci parevano stravaganze, e non ci riusciva di capire come potessero costituire la nostra educazione letteraria. Le confondevamo con certe fole bislacche, che ci raccontava la zia nelle sere di pioggia, e non le trovavamo neppure piú belle. Tra il pranzo e la cena si faceva un'altra passeggiata sopra un'altra strada maestra, o magari sulla stessa del mattino. A cena si mangiava freddo qualche avanzo del pranzo, e dopo, s'usciva un'altra volta, si correva all'altro capo di Novara fino al palazzo del mercato, un gran quadrilatero cinto da tutti i lati da bei portici alti e spaziosi, e si girava, si girava intorno a quel palazzo, sotto quelle arcate deserte e sonore, finché s'aveva la persuasione d'aver fatto un numero sufficiente di chilometri, per poter andare a dormire colla coscienza tranquilla. Noi non eravamo malcontente di quel regime, e non ci annoiavamo di certo. Ma non eravamo neppur contente, e non ci divertivamo. Era un'apatia, un'indifferenza assoluta. Nell'autunno uscivano di collegio certe nostre lontane parenti che ci chiamavano cugine, e, prima che partissero per la campagna, il babbo ci conduceva a vederle. Avevano una sala poco migliore della nostra; ma ci stavano continuamente, ci tenevano dei fiori, movevano i mobili, e pareva tutt'altra cosa. Ci ricevevano là, fra i loro ricami ed i loro libri; salutavano graziose e disinvolte, e porgevano la mano al babbo, dicendogli con un coraggio che ci sbalordiva: - Buon giorno, dottore. Poi si volgevano a noi con molto buon garbo, e ci domandavano: - Volete che andiamo di là a giocare, o preferite che si stia qui a discorrere? Per noi erano due cose egualmente impossibili. Non avevamo mai giocato. Nessuno ci aveva mai dato un trastullo né una bambola; e per correre e saltare, in casa nostra non c'era posto. Le nostre ricreazioni erano quelle interminabili passeggiate. E quando le pioggie torrenziali, o la neve alta un metro, o un calore di trentasei gradi all'ombra, un caso di forza maggiore, rendeva le passeggiate impossibili per qualche giorno, quelle ore si dovevano occupare ad imparare il famoso leggere, scrivere e far di conto. In conseguenza non sapevamo né giocare né discorrere; ed a quella domanda delle cugine Bonelli ci guardavamo fra noi un po' confuse e non rispondevamo nulla. E loro dicevano: - Ebbene, stiamo qui, facciamo conversazione. Mettevano un panchettino dinanzi alla finestra, tiravano quattro poltroncine basse basse intorno, poi sedevano loro due e facevano seder noi, mettendo tutte e quattro i piedi sullo stesso panchettino "per star piú vicine" dicevano; come se fossimo in gran confidenza. Ma noi, per vicine che si fosse, non si sapeva mai cosa dire. Però loro erano cosí belline e gentili, e sapevano tante cose, che eravamo contente soltanto di guardarle, e di star a sentire le loro chiacchierine del collegio dov'erano state, e della campagna dove andavano. Dopo la campagna venivano poi loro a salutarci prima di tornare in collegio, e, se riescivano a trovarci in casa, il che non era facile, le ricevevamo maestosamente in sala, dicendo: "accomodatevi, sedete" e finalmente mettendoci a seder noi sul divano per dare l'esempio. E loro dicevano: "grazie, grazie" ma non sedevano mai, sfarfallavano un po' intorno, toccavano tutte le cose sulla tavola, la scatola da guanti, i cerchi da tovagliolo, la coppa, e domandavano ogni volta, chi aveva fatto questo e regalato quello; e noi ripetevamo la leggenda d'ogni oggetto. Poi correva in sala il babbo, che noi avevamo fatto chiamare in aiuto, e non so come avvenisse che, dopo due minuti, stava narrando con grande enfasi e grandi gesti, qualche impresa eroica degli Aiaci, o qualche sfuriata di Orlando. E quelle ragazzine ridevano, capivano, suggerivano, e sapevano anche loro i nomi degli eroi di quei poemi del babbo, come se fossero stati dei loro amici. La Titina diceva: - È perché loro hanno già fatta la loro educazione letteraria. Pel resto dell'anno poi, si parlava di quelle visite fra noi e colla zia. La zia ci stava a sentire con un gran sorriso beato che le scopriva tutte le avarie della dentiera; pareva che ci avesse gusto alle nostre chiacchierine; cercava anche di prendere parte al discorso. Ma, quando si rideva, non le riesciva mai di afferrare il lato buffo della cosa, e rideva dal canto suo per tutt'altro motivo. Una volta le Bonelli ci avevano narrato quel vecchio aneddoto, d'una signora che, dopo aver cercato sull'orario delle strade ferrate dove potrebbe fare una gita di piacere, vedendo: Novara, Trecate, Magenta, Milano e viceversa, disse: "Andiamo a Viceversa!" Noi ne ridemmo per l'appunto un anno; e l'anno seguente credevamo di riderne ancora colle cugine, che l'avevano dimenticato, e quando glielo ricordammo, sorrisero appena, e dissero che era "una vecchia stupidaggine". Ma, nel colmo della nostra ilarità, la zia se l'era fatto raccontar molte volte; poi era scoppiata in una gran risata convulsa, esclamando: - Il Vice-versa! Il Vice-versa! - ed alzando la mano nell'atto di chi versa qualche cosa da una brocca. C'era nella nostra parrocchia un vice-parroco, che, tra loro divote, chiamavano il Vice, e del quale si occupavano e parlavano continuamente. In quell'aneddoto credeva che ci fosse un'allusione balorda a quel suo Vice, e fu impossibile distoglierla da quell'idea, che trovava enormemente comica. Del resto aveva poco tempo da chiacchierare. Soffriva di reumi, ed era occupata continuamente a mettersi una flanella di piú, o a toglierla, appena la temperatura aumentava o diminuiva d'un grado. Poi aveva le funzioni di chiesa, che le portavano via molte ore del mattino. Poi c'era la serva, alla quale si figurava d'insegnare a far cucina, un'arte che le era perfettamente ignota, e per la quale aveva un'inettitudine fenomenale. Queste sono le memorie rosee dell'infanzia, l'età dei sorrisi, delle gioie, di tutte quelle belle cose che si dicono e si scrivono. Poi venne la gioventú. Ma, tra la gioventú e l'infanzia, quando avevo poco piú di quattordici anni, accadde il primo grande avvenimento della nostra famiglia. Il babbo si ammogliò con una vecchia signora, che conoscevamo da un pezzo, e che ci dava una gran suggezione. Da anni ed anni, la vedevamo venire in chiesa l'inverno con un gran mantello di flanella viola che l'avvolgeva tutta, ed uno scialle sul braccio, da stendersi sulle gambe quand'era seduta, perché soffriva il freddo alle ginocchia. Portava un cappello stravagante, con un lungo bavero di seta, che le ricadeva sulla schiena, per ripararle il collo dall'aria. Teneva sempre nel manicotto una palla d'ottone piena d'acqua calda; e masticava perpetuamente un pezzo d'anice stellato per la digestione. S'era fatta radere i capelli sul cucuzzolo, perché erano molto diradati, e sperava di farli crescere piú fitti, ma non erano cresciuti piú, e portava sempre un parrucchino sulla parte rasa. Noi credevamo che avesse cinquant'anni, il che, ai nostri occhi, era l'ultima espressione della vecchiaia: l'età della zia. Seppimo piú tardi che ne aveva quarantatré. Ma per noi era lo stesso. Figurarsi che ridere, quando udimmo che il babbo la sposava! Egli ci disse: - Capirete, figliole, che lo faccio nel vostro interesse. Io ho un piccolo, piccolo patrimonio; lo studio non frutta molto; la dote di vostra madre si riduce a diecimila lire. Questa buona signora ha sessantamila lire, che un giorno o l'altro toccheranno a voi, perché non ha parenti, e vuol bene a me... Inoltre si occuperà un poco di voi, che ora siete grandi, ed avete bisogno d'un'assistenza, che la zia non saprebbe prestarvi... Furono ancora dei bei giorni quelli del fidanzamento e delle nozze. Era d'autunno. Le cugine eran fuori dal collegio, ed a noi non parve vero d'andarle a vedere con quella gran nuova in petto. Infatti, appena fummo sedute, cogli otto piedi sul panchettino, ci dissero: - Dunque avete una sposa in casa, nevvero? - E si misero a ridere, e noi a ridere piú di loro. Una commedia, via! Calcolavamo che, fra tutte e quattro noi, si riesciva appena a mettere insieme l'età della sposa. La Giuseppina, la cugina maggiore, che aveva quindici anni, diceva con gran sussiego: - Ed appena collocata questa sposina, bisognerà pensare a dar marito alla zia! Ah! che allegria! La sposa ci faceva andare ogni giorno tutte e quattro a casa sua, dove, dacché s'era promessa, aveva posto sulla tavola del salotto un gran vassoio di confetti, nel quale potevamo attingere liberamente. E questo durò fin al giorno delle nozze; un mese e mezzo o due mesi. Che allegria! Ci mettevamo tutte intorno al vassoio, e stritolando confetti, dicevamo ogni sorta di insulsaggini maligne sul conto della sposa: "Come sarà bellina vestita di bianco! Avrà suggezione a dar del tu allo sposo cosí giovinetta. Si punterà i fiori d'arancio nel parrucchino". E quelle stupidaggini ci divertivano come se fossero state le cose piú spiritose. Dopo le nozze gli sposi partirono, e noi si stette otto giorni sole colla zia, che ci faceva uscir di casa soltanto la mattina presto, per andare in chiesa. Ma avevamo ancora i confetti nuziali, i doni nuziali, e quel tempo ci parve breve. Poi una sera tornò il babbo con sua moglie, sana, forte, che non masticava piú l'anice stellato, che mangiava polenta, e fagioli, e citrioli, ed ogni sorta di cose indigeste, e camminava come un portalettere... Insomma, quegli otto giorni di viaggio, ed "il cambiamento di stato" come diceva lei, l'avevano rimessa tutta a nuovo. Era piena di brio e di vita. Fece portare nel nostro salotto tutti i mobili del suo, che, per combinazione, erano precisamente gli stessi che avevamo noi: un divano, otto sedie, quattro poltrone, ed una tavola rotonda. Soltanto, i nostri erano verdi, e quelli della sposa rossi! Non si potevano fondere; quelle due tinte urtavano terribilmente. La sposa risolvette la questione collocando il salotto rosso contro la parete destra, il salotto verde contro la parete sinistra, ciascuno colla rispettiva tavola dinanzi, e facendo casa da sé. La parete principale, di contro alle finestre, divenne un terreno neutro, dove i due salotti si avanzavano ciascuno dalla sua parte, fin quasi a metà; poi si fermavano ad una linea di demarcazione ideale, che indicava lo spazio da frapporre tra l'ultima seggiola rossa, e la prima seggiola verde. E cominciarono a venir delle visite. Noi ce ne facevamo una festa. Correvamo in sala, e stavamo là sedute colla bocca aperta, a sentire cosa dicevano. Persino la zia, sedotta da quella novità, si messe un abito piú liscio, piú nero, piú aderente che mai, una cuffia d'una bianchezza abbagliante con una bella gala insaldata che le incorniciava il viso, e venne a sedere in sala, sorridente e muta, colle mani incrociate in grembo. La sposa lasciò che i visitatori fossero partiti, poi ci disse con gran disinvoltura: - Un'altra volta è inutile che voialtre ragazze veniate in sala quando c'è gente. Ed anche lei, zia. Io non ho bisogno d'assistenza; è l'unico vantaggio d'essermi maritata vecchia. La zia rientrò quatta quatta nel paravento, e noi tornammo nella nostra camera solitaria. Le passeggiate sulle strade maestre si ripresero, in compagnia della sposa, che si appoggiava trionfalmente al braccio del babbo, e ci diceva: "andate avanti voialtre". Ma dalle corse della sera intorno ai portici, fummo escluse. La sola volta che si vedesse qualche persona civile e ben vestita, era appunto quando si traversava la città, dopo cena, per andare sotto i portici del mercato. Addio! Non ci si andò piú. Passati i primi mesi della luna di miele, la sposa cominciò a badare un poco alla casa, e trovò che era molto in disordine. Questo era vero. S'accorse che noi non si sapeva punto cucinare. E questo era pure vero. Dichiarò che spendere i nostri denari per ingoiare gli intingoli che faceva fare la zia, era troppo da grulli. Terza verità incontestabile. E pronunciò questa sentenza: "Che a correre sulle strade maestre non s'impara nulla". Il babbo insinuò modestamente che ci "raccontava i classici" passeggiando, ma lei diede una crollatina di spalle e disse: - Sí, va bene; ma possono anche farne a meno. Io non so neppure cosa siano, ed ho trovato marito lo stesso. Un po' tardi, soggiunse con la franchezza imperturbabile che faceva passar la voglia di burlarla, ma insomma, l'ho trovato. Dunque, a correre tutto il giorno non s'impara nulla. Di "leggere, scrivere e far di conto" ne sanno a sufficienza, le ragazze non debbono diventar dottoresse. Ora è tempo che imparino a tenere la casa in ordine, a cucire, a stirare, a cucinare, ad essere buone massaie. Parole d'oro a cui nessuno trovò nulla a ridire. Per conseguenza anche le lunghe strade maestre, bianche di neve e di polvere, furono abbandonate, e si cominciò tutt'altra vita. La sposa comperò due seggioline di paglia, che collocò ai due lati della finestra della cucina, fra la tavola piccola ed il paravento della zia, e ci fece sedere, la Titina ed io, una in faccia all'altra, con un cesto di vimini in mezzo, pieno di biancheria da accomodare. La mattina ci faceva scopare, spolverare, rifare i letti, sfaccendare per la casa con un gran grembiule di tela davanti; poi ci mandava in camera a pettinarci e vestirci. E quando eravamo in ordine, bisognava sedere a lavorare. Però, all'ora di fare il pranzo, una settimana per ciascuna, si lasciava il lavoro d'ago, e s'imparava a cucinare sotto la direzione della sposa, piú intelligente e piú energica di quella della zia. Anche a volerlo, non si sarebbe potuto dire, in coscienza, che ci facesse del male. Se soltanto ci avesse messa un po' di buona grazia nell'insegnare, nel comandare!... Ma non era nel suo carattere, nel suono della sua voce, ne' suoi modi. Era aspra per natura, e quell'asprezza la chiamava sincerità. Infatti era sincera, e diceva francamente tutto quel che pensava. Le gentilezze non le capiva e le chiamava leziosaggini. Noi eravamo state male avvezze fra un uomo ed una vecchia. Non avevamo l'abitudine della disciplina e del lavoro. Quell'anno cominciammo a sentirci malcontente della nostra vita. L'anno seguente fu ben peggio. Nacque un bambino, e, sebbene fosse mandato a balia a Trecate, divenne il re della casa. La sposa rifiutò il dono d'un abito che il babbo voleva farle scegliere, e disse di darle invece quella somma in danaro, che voleva metterla alla cassa di risparmio "pel suo erede". Poco dopo disse che lei era vecchia, che non faceva vita elegante, per conseguenza i gioielli non le servivano, ed era un peccato tenere un capitale morto in orecchini e spille. E vendette tutti i gioielli che erano stati regalati a lei personalmente e con quel denaro comperò un pezzo di campo, accanto ad un fondo che possedeva già "pel suo erede". Fra le molte economie che inventò, ci fu anche quella di far macinare una gran parte del granturco che si raccoglieva sui fondi del babbo, e di fare un gran consumo di polenta in famiglia. Un bel giorno arrivò un carro con un'infinità di sacchi di farina, che furono collocati nell'anticamera, e parte anche in sala, la stanza di lusso. "Occupavano soltanto un angolo... si vedevano appena..." Ma poco dopo venne la provvista delle patate, delle castagne, delle mele, del riso; e tutte quelle derrate s'accumularono in sala, che diventò una specie di dispensa. Il babbo osservò che non s'aveva piú un luogo per ricevere. Ma la sposa rispose subito: - Per ricevere chi? Le mie visite, nevvero? perché le persone che debbono parlare con te, vengono nel tuo studio da basso. Ebbene, le mie visite trovano qui il divano e le poltrone, che ci debbono essere in una sala. Le provviste sono un di piú, e danno un'idea d'abbondanza, che alla gente seria non può dispiacere. Del resto le visite sono una superfluità, ed io, che quasi non ne faccio, finirò per non piú riceverne. Mentre la farina, le patate, le frutta, sono una necessità della famiglia. Aveva sempre ragione lei. Infatti di visite non ne vennero quasi più. I pochi parenti, che capitavano assai di rado, si ricevevano nella camera del babbo, divenuta camera nuziale, dove si teneva il camino acceso. E la sala s'andò coprendo d'uno strato di polvere sopra le vecchie lenzuola che coprivano i mobili, e si trasformò definitivamente in magazzeno. Pareva fatta apposta, perché non aveva né stufa né camino, ed era fredda come una cantina. Le patate vi gelarono. Intanto avevo compiti i sedici anni. Ero cresciuta molto, ed anche mi ero sviluppata in proporzione. Gli abiti mi scricchiolavano sulla vita, e spesso si aprivano nelle cuciture delle maniche e del dorso; e sul petto ne saltavano via i bottoni o si squarciavano gli occhielli, che era una disperazione. Ed avevo ancora i capelli rialzati sulla fronte, tirati indietro e stretti sulla nuca in un nodo compatto come una collegiale, e le gonnelle corte fin sopra la caviglia, che lasciavano vedere tutto il piede, punto piccolo né grazioso, calzato di grosse scarpe solidamente costruite in vista del moto straordinario che, secondo il babbo, era una necessità della vita. Appena il bimbo della nostra matrigna ebbe sei mesi, la sua nutrice si ammalò, e si dovette prenderlo in casa e finire di tirarlo su coll'allattamento artificiale. Quando avevo in braccio quel marmocchio, che toccava a me di sballottare tutto il giorno per la casa, perché la Titina non era abbastanza forte per reggerlo a lungo, la matrigna mi guardava con compiacenza, e diceva: - Ci voleva proprio un bimbo, su quelle braccia! Non sembra una bella sposa di Trecate o d'Oleggio, col suo primo maschiotto? Io non ero punto lusingata da quel discorso, perché, infatti, colla mia floridezza e la vestitura insufficiente sembravo appunto una contadina dei villaggi che diceva lei, o di qualunque altro; e questo mi mortificava. Una volta mi provai a dirle: - Già, sembro una contadina coi vestiti corti e pettinata a questo modo. Bisognerebbe che dividessi un poco i capelli sulla fronte, che li abbassassi, e che allungassi un pochino le gonnelle, tanto da coprire i piedi... Ma la matrigna esclamò: - Ci mancherebbe altro! Cosa ti salta in mente? Con quella faccia bianca come la luna, e quegli occhiacci che sembrano due lanterne, ti fai guardare anche troppo, e fai scomparire tua sorella, che è una miseria. Se ti si veste anche da ragazza da marito, buona notte! Quell'altra non si marita piú. Infatti la Titina era una virgola accanto a me. Piccina, biondina, graziosa, cogli occhi chiari e senza ciglia, pareva una figurina di cera. L'idea di recare un danno a lei, mi trattenne dal reclamare che mi vestissero da signorina. Ma quando mi toccava d'uscir di casa, camminando dinanzi al babbo ed alla matrigna, col bimbo in collo e conciata a quella maniera, divoravo una stizza, che non so come facessi a non dimagrarne. E, per maggior dispetto, tutti mi guardavano e sorridevano, e bisbigliavano fra loro. Una volta, tornando a casa dopo una di quelle disgraziate passeggiate, la Titina mi disse, guardandomi colla piú profonda stupefazione: - Sai che sei bella, Denza? Io ripetei un po' confusa: - Bella?... Ma debbo confessare che ero un po' meno stupefatta di mia sorella. Molte volte avevo colte al volo certe parole di quei signori che mi guardavano in istrada... "Bel pezzo di giovane... Bella faccia... Begli occhioni... Fresca come una rosa..." Ed ogni volta, tornando a casa, ero andata allo specchio per vedere se avevano detto il vero. E quella buona Titina, che cascava dalle nuvole all'idea che quella qualità di lusso, tutta speciale, secondo lei, alle giovani delle fole e dei poemi del babbo, se ne stesse modestamente in casa nostra, e sotto i miei umili panni, tornò a dire: - Ma sí, Denza. Ho udito un signore che si è fermato a guardarti, poi ha detto: "Che bella giovane! È una bellezza!" Quel discorso si faceva nella nostra camera. La matrigna, che era in cucina, l'udí, e colla solita sincerità brusca, aperse l'uscio, mise dentro il capo, e disse: - Una bellezza no, perché ha l'aria troppo beata e minchiona. Ma bella lo è. Ed è appunto perché lei è bella e tu no, e tu sei più vecchia di lei, che non voglio metterla in fronzoli, altrimenti in otto giorni trova marito, e tu mi resti nella schiena, il che dispiacerebbe a te forse piú che a me. Io non vi faccio complimenti né smancerie, ma bado al vostro interesse, come se fossi vostra madre, ed un giorno mi ringrazierete. Ed ora, leste in cucina! E tu bada a non montarti la testa con questa bellezza, che, se l'hai, non ci hai nessun merito, e non ti farà né più buona, né piú fortunata, né più amata d'un'altra. Vedi, io sono brutta ed anche vecchia, ed ho trovato il piú buon marito del mondo, e poche mogli sono piú amate di me. Quel discorso, ad onta della sua asprezza, mi procurò una gioia dolcissima, mi empí l'anima di soavità, come se avessi acquistato un tesoro, un grande motivo di contento. L'avviso di non montarmi la testa colla bellezza, ottenne precisamente il risultato opposto. Mi montai la testa, non pensai piú ad altro che al piacere d'esser bella. Che questo non mi rendesse né piú buona, né piú fortunata, né più amata, non me ne importava nulla. Era certo che mi rendeva ammirata, e questo mi lusingava. Avevo finito per prendere certi atteggiamenti sprezzanti, quando andavo in istrada cosí mal vestita, come per dire quello che in realtà pensavo: - Ecco, anche conciata a questo modo, sono bella. Io non ho bisogno di fronzoli per piacere. Però, alla lunga, quell'ammirazione di passaggio, e di gente ignota, mi venne a noia, o almeno non mi commosse piú. Ero impaziente che la Titina trovasse marito, per potermi vestire come le altre ragazze della mia età. Ero vicina ai diciassette anni. Non potevo star tutta la vita coi piedi fuori dalle gonnelle e pettinata da collegiale perché mia sorella non era maritata. Tanto piú dacché la matrigna aveva detto che, vestita a modo, in otto giorni, avrei trovato marito. Ed io in quella casa brutta con quelle abitudini laboriose e casalinghe e quell'uggioso marmocchio sulle spalle, colla sua faccina vecchia da figlio di vecchi, mi struggevo di maritarmi. Fin allora avevo sempre dormito beatamente le lunghe nottate, andando a letto appena mi mandavano in camera, sovente senza neppur accendere il lume, scambiando poche parole colla Titina nello svestirmi, già assonnata, addormentandomi appena toccate le lenzuola, ed ingrassando nel sonno. Dopo quel famoso discorso della matrigna sulla bellezza, mi parve impossibile di potermi coricare al buio. Accendevo il lume, e mi scioglievo le trecce dinanzi allo specchietto di due decimetri quadrati, la sola concessione fatta alla vanità nel mobiglio della nostra camera, e che, prima d'allora, ci aveva servito pochissimo. La Titina non sapeva darsi pace di quella novità. Mi domandava continuamente: - Ma perché ti sciogli i capelli? Tanto, per coricarti, li devi intrecciare di nuovo... Una volta mi disse, ma ridendo come d'una supposizione molto strana: - È perché t'hanno detto che sei bella, che ti sei messa a spettinarti dinanzi allo specchio? Mi feci tutta rossa, e risposi che era una scioccherella, che non mi curavo affatto di essere bella o brutta. Ma non avevo mai detto una bugia; il babbo ci aveva allevate nel culto della verità; ed il mio cuore onesto soffrí di quella prima parola falsa. Mi pareva d'avere una grave colpa sulla coscienza. Mi martellava in testa quella frase della Dottrina Cristiana, che afferma: "non si può dire una bugia nemmeno per salvare tutto il mondo". Avevo studiato la Dottrina Cristiana per prepararmi alla prima comunione, e, sebbene non ci avessi attinto nessun fervore religioso, avevo accettato quei dogmi belli e fatti, persuasa che, dacché erano scritti, e tutti li credevano, - io non conoscevo nessuno che mostrasse di non crederli, - dovevano essere veri. E non ne avevo mai dubitato un istante; non avevo neppure pensato che si potesse dubitarne. Ed ora mi trovavo d'aver detto una bugia; d'aver commesso quella colpa enorme, che non si dovrebbe commettere neppure per salvare tutto il mondo; e d'averla commessa senza quella grande attenuante, senza avere neppur una bricciola di mondo da salvare. Mettevo certi sospironi rivoltandomi nel letto, che la Titina ne era sempre risvegliata in sussulto al momento d'addormentarsi. Finalmente vinse la sonnolenza pigra che la ammutoliva, e borbottò: - Ma che cos'hai da gemere a quel modo? Io risposi tragicamente, ansiosa di potermi togliere quel peso dalla coscienza: - Ho, che ho detto una bugia... Speravo che la Titina m'interrogasse, per farmi coraggio a dir tutto. Ma lei borbottò assonnata: - Oh!... ti confesserai... E si voltò verso il muro, riprendendo una posizione comoda per dormire in pace. Infatti era un'idea consolante, quella della confessione. Come mai non ci avevo pensato, che i peccati vengono cancellati dall'assoluzione? È vero che c'era il purgatorio; ma non mi riesciva di darmi pensiero di quella cosa remota. Allora, riservandomi di confessare poi tutto insieme e di farmi assolvere in blocco, m'abbandonai alla gioia colpevole di pensare che ero bella, e che, fra quei tanti che me lo dicevano passando e tiravano via, ce ne sarebbe uno che non tirerebbe via; che tornerebbe indietro, mi seguirebbe da lontano fino a casa, poi entrerebbe nello studio del babbo a domandarmi in isposa. La matrigna aveva detto che, se fossi stata vestita bene, questo sarebbe accaduto in otto giorni. Ed io calcolavo che, essendo vestita male, ci sarebbero voluti otto giorni di piú, o anche quindici, o anche un mese, per prevedere il peggio. Ma insomma, la cosa doveva accadere, perché tanto, che ero bella se ne accorgevano malgrado la mia vestitura infelice e ridicola. Lo sapevo, perché me lo sentivo dire ad ogni tratto. Come sarebbe quel giovane? Non potevo dargli una figura. Ma, mi sentivo commovere al pensarci, e gli volevo bene. Certamente, cosí innominato, incorporeo, indeterminato persino nell'immaginazione, era il piú caro de' miei pensieri. Pensavo che doveva abbracciarmi stretta, darmi una sensazione d'affetto caldo, che desideravo ardentemente, e di cui sentivo la mancanza, perché nessuno mi aveva mai abbracciata, neppure il babbo, dacché non ero piú piccina. E doveva susurrarmi: "Cara... Come sei bella!" Non mi riesciva di pensare cose lunghe: le nozze, il viaggio, le abbigliature, la mia casa... No. Tutto questo mi balenava un momento, a sbalzi, e mi sfuggiva. La sola scena che vedevo chiara, e sulla quale tornavo con un'insistenza da idea fissa, senza stancarmene mai, era un giovane in piedi, che mi abbracciava stretta, susurrando: - Cara... Come sei bella! La mattina dopo, mentre ci vestivamo, ciascuna accanto al suo letto, la Titina mi disse: - Che cos'avevi ieri sera, con quella storia della bugia? Sognavi? Io risposi spronando il mio coraggio, colla convinzione di fare un'azione meritoria. - No, non sognavo. Ti dissi che non m'importa d'esser bella o brutta; invece non è vero... M'importa molto, e sono contenta d'esser bella, ed è proprio per questo, come avevi sospettato tu, che mi spettino dinanzi allo specchio. Ecco! Dissi quell'ecco con un gran sospirone, come per dire: "Ora l'espiazione è fatta". E mi sentii contenta di me, allegerita; soltanto non osavo guardare la Titina. Lei rimase un po' stupita. Quel discorso, quella confessione, uscivano dal terra a terra delle nostre abitudini. Mi guardò un momento sconcertata, esitante, poi disse con una crollatina di spalle, ed un sorriso forzato: - Ti metti a far delle scene, ora... Sei proprio matta! E non ne parlò piú. Un giorno le cugine Bonelli, che avevano lasciato definitivamente il collegio e facevano la signorina ed erano molto eleganti, c'invitarono ad andare con loro a teatro, dove si dava il Faust. E la matrigna consentí che ci andassimo, perché non costava nulla. Ci mettemmo un abitino da estate di lanetta a fondo bianco sparso di foglie verdi; ed, avezze com'eravamo ai vestiti scuri in quella stagione d'inverno, ci parve di essere molto eleganti con quel po' di chiaro intorno. Quando entrammo nel palco, trovammo le cugine vestite di bianco, in gran gala, coi fiori in capo, e questo ci umiliò un pochino. Cambiavamo posto ad ogni atto per avere tutte il piacere di stare un tratto al parapetto, ai due lati del palco, dove si vedeva e si era vedute meglio. Era un palco signorile, con una striscia di specchio incastonata nello stucco bianco a fili d'oro degli stipiti. Quando toccò a me ed alla mia cugina Maria di metterci davanti, dopo la Giuseppina e la Titina, che c'erano state prima perché erano le maggiori, mi vidi riflessa nello specchio dietro le spalle della Maria che mi stava in faccia, e quasi non mi riconobbi, tanto era abbagliante quel volto bianco, colle guancie rosee e gli occhi lucenti, per l'eccitazione che mi davano quel divertimento e quella novità. Non potevo togliere gli occhi da quello specchio. Mi attirava piú dello spettacolo che non capivo molto, e mi sbalordiva, perché era la prima volta che udivo un'opera. La Maria, che ci andava piú sovente, voleva spiegarmi il dramma. Mi diceva: - Quel bel giovinotto lí, è quel vecchio del primo atto. E quell'altro dalle gambe magre, è il diavolo che l'ha fatto diventar giovane, purché gli vendesse l'anima in compenso. Ed ora vedrai com'è bello. Lui, Fausto, appena diventato giovane s'innamora di Margherita. Allora lo spettacolo cominciò ad interessarmi moltissimo. Come faceva ad innamorarsi? Oh, con che ansietà aspettavo quel momento! Quando Faust si curvava amorosamente verso Margherita, e le gorgheggiava delle belle cose con una voce dolce dolce, mi sentivo struggere di tenerezza, come se le avesse gorgheggiate a me. Avrei voluto sapere cosa le diceva. Ma cantavano, e la musica portava via le parole. Di tutto il dramma non capii gran cosa. Ma mi restarono in mente le scene d'amore. Nel tornare a casa, camminando leste leste perché si gelava, ed a Novara non v'erano carrozze da nolo per la strada, la Maria che mi dava il braccio, mi disse: - Hai fatto una conquista, sai, bellezza? Io domandai con una curiosità ed una gioia che non pensai neppure a nascondere: - Ah, sí? Chi? Bisogna notare che quell'espressione: "fare una conquista" non l'avevo mai udita; non entrava nel nostro vocabolario casalingo. Eppure la capii per intuizione, per civetteria istintiva, come se la conoscessi da un pezzo. La Maria rispose: - Fa' il favore! Vuoi dire che non te ne sei accorta? Ed io, a protestare col candore della mia ignoranza: - No davvero, sai? Mi piaceva tanto guardarmi in quello specchio lungo, dietro le tue spalle, che non ho veduto nessuno. La Maria si mise a ridere e disse: - Vanerella! E lo confessi cosí apertamente? Non ti vergogni d'esser tanto vana? Ci pensai un momento, poi ripresi franca franca, per paura di tornare a dire la bugia: - No. Dite che sono una bellezza. Siete voi che lo dite; ed io mi guardo. Ma chi è che ho conquistato? Di'? - Mazzucchetti. Sai il figlio di quei due vecchi possidenti che abitano laggiú verso Sant'Eufemia. È figlio unico e molto ricco. T'ha fissata tutta la sera col cannocchiale. - Oh! Che peccato che non l'ho veduto! Com'è? bello? - Sí... è... è... è un po' grasso. Ma ad osservarlo bene ha dei bei lineamenti. È un bel giovane. E poi fa una cura per dimagrare. I suoi parenti non risparmiano nulla per lui, sebbene siano avari. L'hanno condotto l'estate scorso a Monsummano in Toscana a fare i bagni a vapore, sai, per fargli sudar fuori il grasso. Poi l'hanno tirato su ad Oropa a non so quanti metri sul livello del mare, anche là per farlo smagrire col freddo, e colla cura idropatica... Io ero un po' impressionata da quella grassezza, e dissi: - Ma doveva essere una balena! Ed ora è dimagrato? - Sí... sí... Un pochino... Ma via; grasso o magro è sempre un bellissimo partito. Sua madre ha portato dugentomila lire di dote. E suo padre ne avrà piú del doppio. Ero sbalordita! Quella ragazza sapeva tante cose!... i paesi di bagni, le provincie dove si trovavano, gli effetti delle cure, i patrimoni delle famiglie... Aveva tutto questo sulla punta della lingua. Era possibile che qualcuno si curasse di me, mentre c'erano delle ragazze come lei? Eravamo giunte alla porta della loro casa, e le cugine ci lasciarono. Noi si riprese la corsa col babbo, ed io non apersi piú bocca per tutta la strada. Avevo il cuore gonfio d'un grandissimo affetto per la Maria. Sentivo il bisogno di affermarlo, ed appena fui sola in camera colla Titina, le dissi con enfasi: - Com'era bella la Maria questa sera! La Titina rispose con indifferenza rimboccando le coperte del suo letto: - Era piú bella la Giuseppina. Infatti la Giuseppina era piú bella. Ma non mi aveva mai parlato di nessuno che si fosse innamorato di me. Non s'era mai curata della mia bellezza, se non per deplorare che non figurasse bene colle mie vestiture. Del resto lei era piú bella di me, piú svelta, piú alta, bionda, fine, era una figura signorile, e non mi ammirava punto. Non potevo adorarla come sua sorella, che dimenticava se stessa per occuparsi di me, e mi aveva trovato un innamorato. Sinceramente io credevo di doverlo a lei, le serbavo una gratitudine vivissima, e desideravo di dichiararla. Risposi dunque a mia sorella: - Io preferisco la Maria. La Maria è sempre stata la mia prediletta. La mia amica! La Titina crollò il capo, sorrise da persona savia, e ripeté una parola che mi diceva spesso: - Sei proprio matta! Da quando in qua la Maria è la tua amica? Ci vediamo cosí poco... - No, ora che è fuori di collegio ci vediamo piú spesso. - Meno di rado, devi dire. Ma ad ogni modo, non c'è stato il tempo per questa grande amicizia. - L'amicizia non ha bisogno di molto tempo. È un sentimento d'attrazione... La Titina rise ancora, e domandò con un po' d'ironia: - Dove l'hai letto? Crollai le spalle, e borbottai: - Sciocca! Non avevo ragioni migliori. Mia sorella quella sera era stizzita, povera buona! Forse s'era accorta che in teatro non la guardavano, e che io le facevo ombra, ed attiravo l'attenzione su di me... Aveva diciotto anni! Ma fors'anche era gelosa di quel mio subitaneo infatuarmi della Maria, mentre, fin allora, la mia sola amica e confidente era stata lei. Mi disse guardando il soffitto, con un accento tutto nuovo: - Ho letto, non so dove, che gli amici si conoscono nella sventura. Eri sventurata questa sera? Io gridai con un impeto spontaneo di gioia: - No! Ero felice. Ero tanto felice! Gli amici si conoscono nella felicità! Quelle parole offesero mia sorella; ed io sentii d'averla offesa. Aveva forse ragione lei. Tutta la sua vita passata con me, una vita di bontà, di docilità, di rassegnazione, valeva meno ai miei occhi che poche parole lusinghiere di una giovinetta elegante e chiacchierina. Però allora non pensai che la Titina avesse ragione, e mi coricai senza parlarle piú. Da quella sera vissi sempre colla mente lontanissima dalla mia casa e dalle mie occupazioni. E l'avere un pensiero nuovo, e di tutt'altra natura di quelli che avevo avuti fin allora, mi alleviava di molto l'uggia della casa ed il peso delle occupazioni. Coricavo il bambino, lo rivestivo quando si svegliava, facevo la cucina; ma per pura abitudine meccanica, senza avvedermene, senza distogliere l'attenzione dalla cura dolce, che m'assorbiva tutta. Mi premeva soltanto di vedere quel giovane, e, per conseguenza, mi premeva di rivedere la Maria, d'uscire di casa con lei perché, incontrandolo, me lo indicasse. Ebbi degli ardimenti incredibili. Suggerii io stessa al babbo ed alla matrigna, che eravamo in debito d'una visita ai Bonelli per ringraziarli della serata all'opera. La matrigna rispose che c'era tempo. Allora dissi che mi piaceva tanto la chiesa di Santa Eufemia, e che avrei desiderato d'andare alla messa laggiú la prossima domenica. Anche questa m'andò male. La matrigna crollò il capo in atto di biasimo, e disse: - Pare che ti studii apposta di crearti dei desideri strambi, come quelle ragazze viziate che sono solite a vedere i parenti appagare ogni loro capriccio. Tu sai, però, che non ti faccio nessun torto, non ti lascio mancar di nulla, ma di capricci non ne tollero. Abbiamo San Gaudenzio a due passi, e, in ogni caso, San Marco ed il Duomo poco distanti... Avevo preveduto, non solo il no, ma anche quella serie di considerazioni, che accompagnavano sempre le risposte della matrigna, tanto affermative quanto negative. Ma la Maria mi aveva detto che i signori Mazzucchetti abitavano a Sant'Eufemia, e la speranza di vedere il mio innamorato era cosí intensa, che mi fece fare quel tentativo disperato. In istrada guardavo con attenzione tutti gli uomini un po' grassi, e mi pareva d'aver sempre abborrito i magri. Però guardavo i grassi giovani e svelti. Finalmente s'andò a far visita alle cugine. Io sorridevo fra me salendo le scale, al pensiero che, al primo vedermi, la Maria mi avrebbe parlato di lui. Le diedi una stretta di mano forte forte, arrossendo molto, e senza osare guardarla. Contavo sulla sua disinvoltura, perché trovasse il modo di prendermi a parte a discorrere senza che altri udisse. Ma pareva che lei non ci pensasse. La matrigna s'era fermata nello studio col signor Bonelli, e noi quattro, col marmocchio per quinto, ci eravamo aggruppate nel vano di una finestra nel salotto. Si parlava delle mascherate degli ultimi giorni di carnovale, e d'una festicciola da ballo, dove la Giuseppina e la Maria erano state. La Maria descriveva la loro abbigliatura di quella sera; era bianca di crespo guarnita di rose pallide; e la vita, che non era scollata si abbottonava, non in mezzo al petto, come al solito, ma da un lato. La Titina ascoltava con un'attenzione vivissima. Domandava delle spiegazioni. Voleva sapere da che lato si abbottonasse quella vita; a destra o a sinistra? Ed i bottoni, c'erano da un lato solo, bizzarramente, o anche dall'altro per fare riscontro? Io fremevo; il tempo passava, e prevedevo che, a momenti, la matrigna ci avrebbe chiamate per andarcene. Come mai la Maria non parlava di quanto mi stava a cuore? Doveva essere per eccesso di prudenza. Ma io ero cosí fissa in quell'idea, che preferivo ancora che ne parlasse presente mia sorella e la sua, piuttosto che non parlarne affatto. Anzi desideravo che la Titina fosse, finalmente informata "di tutto". Un fatto cosí importante nella mia vita, non potevo lasciarglielo ignorare. Ed, inoltre, bisognava pure che potessi discorrerne con qualcuno, in casa, a passeggio, in camera, di giorno, di notte, sempre... La Maria la vedevo troppo di rado. Pensai di domandare chi c'era a quella festa, persuasa che la Maria profitterebbe dell'occasione per nominar lui, e dirne qualche cosa, piú o meno apertamente. Rispose la Giuseppina, cominciando una lunga enumerazione di signore e signorine. La lasciai finire, poi domandai ancora: - E di uomini, chi c'era? - Di uomini... aspetta. Il Tale, il Talaltro, i due fratelli X, il capitano Y... - e tirò via cosí per un pezzo. Tratto tratto la Maria suggeriva un nome. La Titina dava segni evidenti di noia, perché noi non conoscevamo neppur uno di quei signori, né di persona né di nome. Io invece palpitavo, mi sentivo impallidire, ed il cuore mi martellava forte. Finalmente la Giuseppina disse: - C'era Mazzucchetti, co' suoi tre amici... Guardai la Maria fissamente, in grande aspettativa. Ma lei era tutta intenta a rammentarsi quei nomi di ballerini, e ne suggerí due o tre altri, senza far caso di quello come se non lo avesse udito. Al colmo della stizza, mutai di braccio il bimbo, che mi sonnecchiava in collo, e dissi che la finissero con quella litania di nomi; che, tanto, noi non si conoscevano; e che non c'era gusto, per me, a star a discorrere con quel marmocchio addosso; che non me ne potevo liberare un minuto; che ero stufa di lavarlo, vestirlo, dargli la pappa, e, peggio di tutto, portarlo in giro per le strade dove tutti mi guardavano e ridevano... La Maria disse: - Sei come la Margherita del Fausto - . E si mise a recitare, pian piano, in cadenza: Tanto che da me sola fui costretta A tirarmela su, la bamboletta. . . . . . . . . . . . . . . . La piccola culla Stavami nella notte accanto al letto... . . . . . . . . . . . . . . . Darle ber, collocarmela vicina Dovea per acquetarla, o dal piumaccio Balzar quando vagiva... . . . . . . . . . . . . . . . E poi di gran mattina, Correre al lavatoio, indi al mercato, E dal mercato al focolare... La grande analogia fra quei versi e la mia situazione, vinse un momento la mia impazienza e mi forzò all'attenzione. La Titina poi, si divertí molto di quella poesia che pareva fatta per noi, e domandò: - Ma sei tu che inventi questa poesia? La Maria rise, e rispose con aria importante: - Che! Ti pare ch'io sappia far versi? È il discorso che fa la Margherita con Fausto. Parla della sua sorellina. - Come? Quella signorina vestita di bianco con quel grande strascico, sfaccendava cosí? - Sono le prime donne che si vestono da signora. Ma la Margherita è una contadina... E tornò a recitare: ... Serva non abbiamo; io cuoco, Spazzo, cucio e lavoro di calzetta... La Titina batteva le mani per l'allegria, rideva forte, e gridava: - Oh Dio! Come noi! Ma senti, Denza! Fa come noi quella bella signora! Io risposi guardando fissa la Maria: - Sí, ma lei aveva Fausto per raccontargli le sue noie, e noi non l'abbiamo. La Titina, scandolezzata, mi fece il solito rimprovero, molto severamente: - Sei proprio matta! Guarda se son cose da dire! Io, per altro, ero risoluta a far parlare la Maria ad ogni costo. Con una sfrontatezza che mi stupisce ancora a ripensarci, dissi: - Cioè; io forse l'ho il Fausto; ma non lo conosco. Mi toccò un altro rimprovero della Titina. - Hai il Fausto? Ma ne hai piú di grullerie da dire? Stai zitta; fai il favore! Ma ormai ero lanciata, e le risposi insolentemente ridendo: - Stai zitta tu; tu non sai. Di', Maria, l'hai piú visto il mio Fausto grasso, che mi guardava in teatro. La Maria stette un momento incerta, come se non si ricordasse; e quella fu per me una grande mortificazione; poi si mise a ridere, e disse: - Ah, sí! È, vero. Non te lo dissi, Giuseppina, che la Denza ha fatto la conquista del Mazzucchettone la sera del Fausto. Quel grande avvenimento, che m'aveva occupato tanto, che aveva mutato il mio umore, il mio modo d'agire, le mie viste per l'avvenire, che m'aveva quasi fatto dar volta al cervello, alla Maria era sembrato cosí inconcludente, che non ne aveva neppure parlato a sua sorella. La Giuseppina, però, lo prese sul serio, come aveva fatto la Maria quella sera, e disse: - Mia cara. Se è vero, bada che non è un partito da trascurare. Dacché ti preme di maritarti per uscir di casa, tieni da conto quello, che è ricco, ed è anche un buon giovane. Accompagna sempre la sua mamma alla messa... Io mi lasciai sfuggire un'esclamazione di rammarico. - Ecco! L'ho detto io che se s'andava a messa a Sant'Eufemia l'avrei veduto, finalmente! - Ma come? Non l'hai ancora veduto? - No. La Maria me ne parlò soltanto quando fummo uscite dal teatro... La Giuseppina prese un atteggiamento pensoso, e borbottò: - Come si fa a farglielo vedere? Come si fa? Poi interruppe le sue riflessioni, ed osservò: - Ma però, vestita come sei, non so neppure se ti convenga di attirare la sua attenzione. Se tu potessi farti fare un vestito un po' piú lungo... E un po' meno scarso di questo, che ti fa parere stretta in petto... - Oh lascia stare il vestito; non importa. Di', pensa; come si può fare per vederlo quel giovane? La Maria, che non rifletteva mai molto, ed amava andar per le spicce, propose di farselo presentare in casa dal suo maestro di piano, che dava lezione anche a lui, e di invitare noi pure in quella circostanza. Ma la Giuseppina le diede sulla voce: - Questo è un romanzo! Quando mai il babbo ci ha permesso le presentazioni, i ricevimenti?... Si pensò ancora molto; poi si concluse che le cugine verrebbero a prenderci la prossima domenica per andare alla passeggiata sull'"allea" all'ora della musica. E, siccome io crollavo il capo sfiduciata, prevedendo che la matrigna direbbe di no in causa del bimbo, la Maria accomodò la cosa cosí: - E, se dirà di no pel bimbo, la Titina, che non lo tiene mai, si offrirà di stare a casa lei a custodirlo. Nevvero, Titina? Per una volta... Tu non hai nessuno da vedere, e puoi fare un sacrificio per tua sorella. Quando lei sarà maritata, starai meglio anche tu. Ti verrà a prendere ogni giorno, ti farà divertire... Ne avemmo ancora per una mezz'ora da congetturare su quel disegno. A casa poi ci furono degli altri giorni di orgasmo, di fantasticaggini sempre sullo stesso argomento. La Titina, dopo essersi scandolezzata all'idea del Fausto, aveva finito per prenderla a cuore anche lei; e fra noi, se ne parlava come d'un possibile, anzi probabile scioglimento della nostra situazione. A sentirci, si sarebbe supposto che ci fossero delle vere trattative di matrimonio e che s'andasse a marito tutte e due. Libera io, doveva esser libera anche mia sorella dalla suggezione della matrigna, dall'uggia del bimbo, e da tutto. Mi diceva con slancio generoso, come se la cosa dipendesse appunto da lei: - A me non importa, sai, che ti mariti prima tu, che sei la minore. Maritati pure. Pensa, se voglio farti perdere una fortuna... Io parlavo piú volentieri di lui: - Chissà se mi vedeva per la prima volta quella sera in teatro, o se mi aveva già osservata prima! E fra me stessa, senza osare dirlo a mia sorella, pensavo che forse era innamorato di me. Quanto a me, mi sentivo innamorata di lui, ignoto com'era. Amavo l'innamorato, ed il fatto d'avere un innamorato, che mi dava importanza a' miei propri occhi. Dunque potevo essere desiderata e sposata, come le signorine eleganti educate in collegio. M'ero sentita tanto avvilita, dal mio vestire grottesco, e dalle nostre abitudini eccezionali, che quell'amore mi consolava, e m'insuperbiva come una riabilitazione. Le cugine vennero alla metà della settimana, a fare il famoso invito per la passeggiata della domenica; e la matrigna non fece neppure l'obbiezione che avevamo preveduta; disse che al bimbo, per quelle poche ore avrebbe badato lei, "che ci divertissimo pure, che la gioventú ne ha bisogno, e lei lo capiva, e lo concedeva sempre quando si poteva fare senza una spesa per la famiglia..." Noi accettammo il permesso e le riflessioni, facendo l'indifferente; ma, appena uscite le cugine, ci precipitammo in camera, per poter metter fuori le esclamazioni di gioia gongolante, che avevamo nel petto. Ci abbracciammo ridendo, e sussurrando piano: - Che piacere! Tutte due! Che piacere! Io aggiunsi: - Lo vedrai anche tu! E mi pareva che fosse un gran privilegio per la Titina, e che fossi io a procurarglielo. Ma, dopo esserci abbracciate e baciate, rimanemmo un po' confuse, perché quelle dimostrazioni non erano nelle nostre abitudini. Noi ci baciavamo sulle due guancie, alla partenza ed al ritorno, soltanto quando accadeva che una sola partisse da Novara senza l'altra. Era accaduto appena due o tre volte a nostra ricordanza, per far delle visite ad una sorella del babbo, maritata a Borgomanero. Rimanemmo mortificate di quella scena che avevamo fatta, e non osavamo guardarci. Ed io, per farla dimenticare, andai a spalancare l'armadio dei vestiti, e mi misi a guardarli con una grande attenzione, come se ci fosse molto da scegliere. E si ridissero tutti i guai del mio abito, e si deplorò da capo la meschinità della mia abbigliatura. E pel resto della settimana continuammo a parlarne, a fare dei lavorucci in segreto, ad allargare, a stirare, ad insaldare, a turchinettare, tanto per aggiungere, colla goletta ed i polsini, una certa eleganza al mio vestito. Io immaginai anche di disfare un ritreppio alla gonnella, che ne aveva tre, per allungarla. Ma quando, nell'uscire, traversai il cortile, pieno di sole, tutti si misero a ridere, perché le mie gambe trasparivano traverso la stoffa un po' leggerina dell'abito, che di sotto aveva le sottane corte. Si dovette ritardare d'una mezz'ora, la passeggiata, per rifare la tessitura disfatta, senza contare la mortificazione che mi toccò, per aver fatto quella figura in faccia alle cugine ed al signor Bonelli. Finalmente si partí, a due a due. Io e la Maria davanti, le due sorelle maggiori dietro noi; i due babbi dietro loro. Le cugine erano in gala, con una cappina di panno, il manicotto, il goletto di pelliccia, il velo del cappello ben teso sul viso fino alla punta del naso, ed un buon odorino di violetta, che mi metteva in gran suggezione. Io camminavo tutta impacciata, co' piedi fuori della gonnella, ed i polsi rossi pel freddo che si vedevano tra la manica ed il guanto, senza mantello di nessuna specie, senza manicotto, colle mani in mano. Per un pezzo non osai parlare, e pensavo che la Maria forse si vergognava di farsi vedere in giro con me, perché non mi diceva nulla, ed aveva un fare superbiosetto che non le avevo mai veduto. Ma piú tacevo, e piú mi sentivo avvilita, e capivo che prendevo un'aria sempre piú grulla, col viso imbronciato e rosso, camminando muta accanto a quella bella signorina, che pareva la mia padrona. E quando fummo per entrare nel viale dell'"allea", mi feci coraggio, e domandai alla Maria una cosa che mi stava sul cuore da un pezzo, chinandole il capo accanto per far vedere che eravamo amiche. - Perché domenica la Giuseppina ha detto che a quel ballo c'era "Mazzucchetti coi suoi tre amici"? Chi sono? - Ah! sono De Rossi e Rigamonti. Stanno sempre insieme. Sono "I tre moschettieri". Io non avevo la piú lontana idea di quello che potessero essere "I tre moschettieri", e, senza punto punto vergognarmene, dissi, lasciando vedere tutto il mio stupore: - Oh! che cosa sono? La Maria fece: "Scc!" Poi mi rispose, colle mani nel manicotto, e piano piano come fanno le persone per bene in istrada, senza guardarmi, perché avrebbe dovuto alzare il capo, lei che era piccolina: - Non parlar forte! "I tre moschettieri" sono dei personaggi da romanzo. Quei giovani hanno pigliato quei tre nomi e fra amici si chiamano cosí. Il mio buon senso naturale, accresciuto di tutto quello che la matrigna mi andava insinuando da circa due anni, si ribellò a quell'idea. Al colmo della stupefazione esclamai, dimenticando di parlar piano: - Oh Dio! ma perché? Quello scoppio di voce mi procurò un doppio rimprovero dalla Maria e da sua sorella, che anche lei, di dietro, fece: "Scc!" E la Maria rispose: - Parla piano! Io non so, perché. Sai; hanno letto quel romanzo, e gli sono piaciuti quei personaggi. C'è anche il Crosio, quello che è ufficiale nelle guide, e che è qui in aspettativa, che fa d'Artagnan. - Che cosa fa? - D'Artagnan. Un altro moschettiere. - Allora sono quattro? - Sí. Ma si dice "I tre". Diceva questo tranquilla tranquilla, tutta composta, movendo appena le labbra, senza il menomo stupore, come se dicesse la cosa piú naturale del mondo. Quella ragazza aveva il dono di saper tutto e di non meravigliarsi di nulla. Quanto a me, ero in tale stupefazione che rinunciai affatto a capire. Soltanto ero un po' inquieta per lui. Come si farebbe ad intenderci? Domandai timidamente: - E lui, che nome ha preso? - Portos, perché è grosso... Avevo già spalancato gli occhi e la bocca, e stavo per prorompere in un'esclamazione, come mai Portos volesse dire grosso, quando, per fortuna, la Maria fece: - Scc! Stai zitta. È qui, ma non guardare; fa' finta di nulla. Non guardare! Se ero uscita per vederlo! Voltai il capo da tutte le parti, dicendo: - Dov'è? dov'è? - Ora te lo dico. Ma aspetta a guardare, non farti scorgere, sai. È da questa parte, accanto al rondò della musica, dietro le signore Savi, quelle dal cappello granato. Non guardare ancora. Ci saluterà, perché c'è anche il maestro di piano, allora lo vedrai. Di dietro la Giuseppina susurrò piano: - Denza, eccoli. Se ne parlava sempre in plurale. Io ero rossa come una ciriegia, tutta confusa, e mi struggevo di vederlo. Domandai: - Ci son tutti? - Sí, stai attenta; ora ci salutano. Intravvidi un movimento, udii come uno strisciar di piedi; la Maria chinò appena impercettibilmente il capo senza guardare nessuno e seria seria. Io guardai a tutt'occhi, vidi dei cappelli che si movevano, ed un gruppo di uomini fra i quali campeggiava in un lungo soprabito grigio, una specie di elefante. Mi si strinse il cuore, e domandai sbigottita: - Qual è? - Il piú grasso; ma non farti scorgere. Ero tutta turbata. Quella mole superava ogni mia immaginazione. Sí, lo avevano detto che era grasso, lo sapevo; ma avevo sempre cercato di attenuare la cosa, di conciliare la pinguedine colla gioventú, colla sveltezza... Invece era un coso tutto d'un pezzo, colle spalle poderose, alte, quadrate, il petto sporgente, il collo corto ed una grossa testa coi capelli neri neri, lisci lisci, e gli occhi neri, grossi, sporgenti. Mi parve un vecchio. Ma la Maria, appena fummo sedute tutte e quattro sopra una panchina, coi nostri babbi in piedi di dietro, dall'altra parte della musica, tirò fuori dal manicotto una bella pezzuolina che olezzava di violetta, e mettendola sulle labbra, come per ripararne il freddo, mi parlò da buona, come in casa: - Non dir grullerie. Ti pare che sia vecchio? ha ventun anno e non è punto brutto. Guarda. Ora puoi guardarlo senza farti scorgere. Vedi? di profilo è bello. Ecco ora guarda in giro per cercarci. Gli hai fatto buona impressione... Lo fissai lungamente. Infatti aveva un bel profilo da cammeo, e quando finalmente scoprí dov'eravamo e posò un minuto quegli occhioni tondi su di me, li trovai pieni di dolcezza. La Titina, che lo guardava dal punto di vista del matrimonio, badava ad incoraggiarmi, e diceva, sporgendo il capo dinanzi alla Giuseppina per farmi sentire: - Ma è bello, sai. Ha un'aria da gran signore. Infatti, sia perché quel soprabito lungo e chiaro lo faceva spiccare in mezzo agli altri, sia perché dominava di tutto il capo i suoi amici, aveva l'aria nobile, sembrava superiore a loro. Tutti gli parlavano, e lui rispondeva con gran calma, e senza nessun gesto. Aveva i movimenti molto lenti. Potei osservarlo finché volli, perché lui mi guardò soltanto quella prima volta un istante, e poi un'altra volta nel passarci davanti, mentre io avevo gli occhi fissi su lui, e una terza volta di sfuggita al ritorno, incontrandoci sotto i portici. Ma, in sostanza, mi parve un po' freddo, e mi sentii umiliata e malcontenta. La Maria mi disse che questa freddezza apparente, era una prova di tatto da parte sua. Che non voleva compromettermi guardandomi troppo. Che del resto lei avrebbe saputo dal maestro di piano, se gli ero piaciuta, e cosa aveva detto di me. Il domani cominciò a piovere, e piovve per una serie di giorni. Sedute accanto alla finestra della cucina, lavorando, io e mia sorella parlavamo continuamente di lui, del suo amore, del matrimonio; si discuteva se andrei a vivere con suo padre e sua madre, o se si metterebbe una casetta per noi soli. Io propendevo per la casetta. Ma il pensiero che m'avesse guardata poco, mi perseguitava. Dopo quanto m'aveva detto la Maria la sera del teatro, me l'ero figurato innamorato come Fausto; ed a forza di pensarci, ero riescita ad immaginarmi che avesse pieno il cuore e la mente di me, che si struggesse di rivedermi appunto come mi struggevo io di veder lui, e che al vedermi, tutto il suo volto dovesse esprimere un'estasi di gioia, la soddisfazione di veder compiersi un desiderio lungamente vagheggiato. Invece era rimasto impassibile. Per quanto mi dicessero, della prudenza, del non volermi compromettere, io avevo sentito che era impassibile. Al secondo incontro, sí, il suo sguardo s'era fermato su me con compiacenza, come una carezza. E quello era il mio conforto. Perché l'idea che tutto quell'amore fosse stato un sogno mi affliggeva profondamente. Mi affliggeva al punto che dimenticavo la sua grossezza, e la prima impressione spiacevole che ne avevo ricevuta. Piú ci pensavo, nella nostra solitudine uggiosa, nella monotonia dei giorni piovosi, e piú mi sentivo intenerire. Una volta, mentre sballottavo il bimbo, che frignava perché metteva i denti, tutta assorta in quel mio pensiero, figurandomi d'essere non so dove, sola con lui, e già sua moglie, mi sorpresi a susurrare: - Povera gioia, come sei grasso! La matrigna, che cucinava, si voltò e disse. - Non è piú grasso affatto, poverino. Non vedi che la dentizione lo strugge? Credeva che parlassi al suo bambino. Ed infatti avevo parlato a lui per potermi sfogare. Ma parlavo dell'altro. E provavo una gran dolcezza a compiangerlo di quella sua pinguedine, ad aver questa cosa da perdonargli, per dargli una prova d'amore. Diedi un bacio sonoro, rabbioso sulla guancia del marmocchio, che si mise a strillare, e m'illusi di baciar lui. Lo strinsi e lo carezzai, con una passione pazza, tanto che la matrigna mi sgridò che glielo soffocavo, e me lo portò via. Io corsi in camera, mi buttai col capo sul guanciale del mio letto, e piansi dirottamente. Quel giorno avevo finito d'innamorarmi. D'allora la sua pinguedine, il collo corto, i capelli lustri e lisci, tutto mi parve bello, e sentivo uno struggimento di tenerezza nel rivederlo col pensiero, e lo rivedevo sempre. Una sera, il bimbo era già a letto, il babbo e la matrigna prendevano una tazza di camomilla accanto al fuoco nella loro camera, come facevano ogni sera, prima di coricarsi, e noi eravamo entrate dietro il paravento a dar la buona notte alla zia, quando s'udí il campanello, poi il passo del babbo che s'allontanava ad aprire, poi delle vocine gaie e graziose: - Oh! ma anche lei, dottore, un uomo, andare a dormire a quest'ora? Che vergogna! Era la voce della Maria. Erano le cugine. L'uggia della pioggia incessante le aveva spinte a venire una sera da noi. Io mi agitai molto, mi feci tutta rossa. Certo il maestro di piano aveva portato una risposta, ed erano venute per dirmela. Corsi in camera del babbo cogli occhi lucenti, ed ammiccai alle cugine nel salutarle, con aria d'intelligenza come per dire: "Ho capito; so perché siete venute; ora parleremo". E loro ammiccarono graziosamente a me sorridendo, e mi diedero delle strette di mano energiche, scuotendomi il braccio fino alla spalla. Aspettai che il discorso fosse un po' avviato fra i vecchi, poi dissi, per suggerire un pretesto di tirarci un po' da parte: - Avete veduto quel fondo di gonnella che stiamo ricamando? - Ma sí! L'abbiamo veduto molte volte, non ti ricordi? La Giuseppina disse questo, stupita, come se non avesse capito il perché di quella proposta. Aspettai ancora un tratto, poi, vedendo che non c'era mezzo di parlar piano, dissi ancora: - Volete vedere il bimbo addormentato? Le tre ragazze ripeterono come una triplice eco: - Il bimbo addormentato!!! E tutte e tre mi guardarono sbalordite. Era cosí fuori delle nostre abitudini il dimostrare la menoma ammirazione per quel marmocchio, che fra noi chiamavamo sempre il vecchino, che non sapevano cosa pensare. Ma io insistetti: - Tu, Maria che ami tanto i bambini... Mi alzai, ed andai risolutamente alla culla: le cugine e la Titina mi seguirono. Quando fummo là, io esclamai un momento che era bellino, e che aveva i braccini colle fossette, tanto per far sentire alla matrigna, poi domandai piano alla Maria; - E cosí? Cos'ha detto? - Chi? Questa volta m'impazientai e borbottai stizzita: - Oh Dio! non ti ricordi mai! Ma cosa pensi? Lui, Fausto, cos'ha detto poi al maestro? - Ah! sí! Non gli ho ancora domandato. Mi venne una stizza che l'avrei picchiata. Credo d'averla picchiata davvero, perché urtai da una parte e dall'altra per aprirmi il passo, e tornai accanto al fuoco, senza dire piú nulla. Loro mi vennero dietro e si misero a sedere un po' confuse. Poi nel salutarmi la Maria mi susurrò tenendomi la mano: - Via. Alla prima lezione glielo dico di certo. Non sapevo se ti facesse piacere davvero. Ma avevo perduto la fede in quella promessa; ero disingannata; mi sentivo senza appoggio per raggiungere lo scopo vagheggiato, me lo vedevo sfuggire, e lo desideravo con tutto l'ardore con cui si desidera un bene che sfugge. Intanto però quelle sofferenze non mi erano uggiose, come quelle che avevo tanto deplorate, della matrigna, della casa, del bimbo. Mi erano care, amavo soffrire cosí. Quando la Titina, vedendomi impensierita e triste, e sovente col pianto alla gola, mi diceva: - Prega la Madonna che te lo faccia dimenticare, - io mi stizzivo, mi sgomentavo all'idea di dimenticare quell'amore, di non trovarlo piú nella mia mente, nel mio cuore, di perdere quella cosa dolce, che mi riempiva tutta, di rimanere con quel gran vuoto e quel gran silenzio. E gridavo: - No, no, per carità! Cosa vuoi ch'io faccia, quando l'avrò dimenticato? Una notte, la notte d'un sabato, il bimbo stette assai male per la solita storia dei denti. Si dovette alzarci tutti, cocere decotti e pappine, e stare in piedi tutta la notte. La mattina era ancora malato, aveva la febbre, e voleva stare in braccio alla sua mamma. La zia non usciva da tutto l'inverno, perché aveva un reuma in una gamba, e non poteva reggersi in piedi. Il babbo doveva correre dal medico, dal farmacista, ed in chiesa di fretta a far accendere la lampada alla madonna perché il bimbo guarisse. Non c'era chi potesse accompagnar noi alla messa. E, per quanto ne dispiacesse alla matrigna ed al babbo, che disapprovavano molto - "l'abitudine di affidare le ragazze ad una serva, press'a poco della loro età, e meno educata di loro" - , per quella volta dovettero rassegnarsi, e mandarci a messa colla serva. Non avevano finito di dirlo, che io avevo già il mio piano bell'e fatto. Confesso anzi, che, già durante la notte, fra gli stridi del bimbo e l'inquietudine di tutti, perseguitata da quell'idea unica che mi dominava, dicevo fra me: "Domani, non potranno accompagnarci alla messa di certo. Se ci mandassero colla serva..." E, se non mi rallegravo che quel povero vecchino stesse male, mi consolavo però che dacché la cosa doveva accadere, fosse accaduta appunto nella notte d'un sabato. In casa non dissi nulla per evitare le discussioni, ma appena fummo in istrada, dissi alla Titina: - Andiamo a messa a Sant'Eufemia! Lei non fece opposizioni. Ci mettemmo d'accordo per dire alla serva che non ne parlasse con nessuno e via di corsa, perché era assai lontana quella chiesa. Entrammo che la messa era cominciata. Il prete leggeva l'epistola. Nell'aprir la porta, urtai la figura colossale del mio Fausto, che stava in piedi, proprio accanto alla porta, come fanno i giovinotti, forse per dimostrare che sono là contro la loro volontà ed impazienti d'andarsene. Ci guardò entrare, ci tenne dietro mentre cercammo un posto, e quando l'ebbi trovato poco discosto da lui per poterlo vedere, si voltò verso di noi, trascurando l'altare. Io feci altrettanto. Lo guardai intensamente, pazzamente tutto il tempo della messa. Gli narrai, coll'ardore degli occhi fissi ne' suoi, il mio lungo amore, le mie sofferenze, la gioia di quell'ora, le speranze dolci dell'avvenire, ed i miei dolori, e la mia fede in lui. Sentivo di dirgli tutto questo, ed avevo la certezza d'esser compresa. Ah, fu un bel giorno, e ne riportai un fondo di conforto e di gioia per tutto il resto della malattia del bimbo, della stagione piovosa. Parlavo delle piú volgari inezie di casa, colla voce commossa e giubilante; volgevo un sorriso beato al bimbo che frignava, alle fascie da sciorinare, alle pentole della cucina, e portavo la testa alta gloriosamente. Finalmente ero certa d'essere amata, e lui sapeva d'esser corrisposto. C'eravamo messi d'accordo fra noi. Non era piú che una questione di tempo. Dopo quella messa, ogni volta che incontravo Mazzucchetti per la strada, oltre ad arrossire e sentirmi battere il cuore fin nelle spalle, sorridevo un pochino di soppiatto, e lo guardavo fisso negli occhi con aria d'intelligenza. Dacché ci amavamo, avevo diritto di farlo. E lui mi guardava con insistenza, e se era davanti, si voltava indietro tratto tratto. Ed io contavo quante volte s'era voltato. Se era di sera, e se c'era soltanto il babbo con noi, mi voltavo io a guardar lui, quando dopo esserci scontrati, s'andava dai lati opposti. E qualche volta lo sorprendevo fermo e voltato a guardar dietro a me. Un giorno che ci scontrammo cosí, ed io avevo il bimbo in collo, e la matrigna era dietro, mi fermai a dirle che il bimbo aveva le manine calde e che forse stava male, per poter stare voltata un tratto a guardare il mio innamorato. Il bimbo era fresco e stava benissimo, e mi toccò una lunga serie di riflessioni sulla mia sbadataggine, di cui non capii una parola. Questi erano gli episodi del mio amore, sui quali trovavamo argomento di parlar molto con mia sorella e colle cugine, e che io ripensavo giorno e notte senza stancarmene mai, e che bastavano ad alimentare la mia speranza, anzi a rafforzar la mia fede. Tratto tratto poi accadeva qualche fatto piú importante che ci occupava lungamente. Il primo fu che la Maria trovò modo, in un discorso gaio, di domandare al maestro di piano se mi avesse veduta quel giorno sull'"allea" con lei. Il maestro mi aveva veduta, e soggiunse che ero "una bella ragazzona". Allora la Maria aveva continuato il discorso: - Mi pare che ci fosse il Mazzucchettone con lei, nevvero maestro? - Sí, e De Rossi, e Rigamonti, e Crosio; la solita compagnia dei moschettieri. - E cos'hanno detto della mia cugina? - Gli altri non so, io ero dietro col Mazzucchettone, Portos... - E lui non ha detto nulla? Mi pareva che la guardasse... - Sí. Ha detto che è bella. È il genere di ragazze che piace a lui. - Ah sí? Perché? - Perché lui è un po' selvatico, non ama i complimenti, ed ha suggezione delle signorine eleganti. Da questo concludemmo che, fin dal primo giorno, gli ero andata a genio anche dal punto di vista del matrimonio; perché, se fosse stato soltanto per guardarmi, non gli avrebbe potuto importar nulla che fossi elegante o no. Poi vi furono questi altri avvenimenti: Un giorno, che ero in casa Bonelli sul balcone, Mazzucchetti si voltò tre volte a guardare in su nel traversare la contrada, e si fermò parecchi minuti prima di voltare la cantonata. La Titina pretendeva, anzi, che avesse fatto col capo un cenno di saluto; ma le cugine non lo ammisero perché "le signore si salutano togliendosi il cappello, e non con un cenno". Una sera, uscendo di casa sul tardi, col babbo, sul finir dell'estate, lo trovammo fermo dinanzi alla nostra porta e solo: questo fu uno dei fatti piú importanti, e mi tenne occupata e felice tutto un mese che passai a Borgomanero dalla sorella del babbo, perché la matrigna trovava che da qualche tempo, non avevo piú la mia aria beata e minchiona, e, per conseguenza, avevo bisogno di aria ossigenata. Laggiú, non avendo né la Titina né le solite cugine, con cui parlare del mio amore, finii per confidarlo alla figlia della zia; tanto piú che lei era fidanzata col figlio del farmacista del paese, il quale stava a fare la pratica in una farmacia di Novara, e le scriveva una volta la settimana. Lei, che non faceva misteri all'intero paese del suo amore, narrò subito alla sua mamma il mio, e la sera a cena, la zia disse a suo marito: - Sai, Remigio, che la nostra Denza ci ha data una buona nuova? Che è fidanzata con un giovane molto ricco, e di buona famiglia a Novara? Mi sentii tutta calda e sudata. La cosa era andata assai piú avanti che non credessi. Tremavo che si congratulassero col babbo quando verrebbe a prendermi, e sebbene, lí sul momento, accettassi i rallegramenti de' miei zii, e provassi una gioia tutta nuova a fare la sposa, passai poi una notte molto agitata per la paura di veder nascere un guaio, se ne parlavano colla mia famiglia. La mattina pregai mia cugina di avvertire la sua mamma, che non dicesse ancora nulla col babbo, perché né lui né la matrigna non lo sapevano. Lei esclamò: - Ma come? Sei fidanzata, ed i tuoi parenti non lo sanno? Bisognava pure che mi scusassi in qualche modo, e nella notte avevo preparata la risposta: - Non sono proprio fidanzata, sai. Non l'ho detto questo. Che lo sposerò, è quasi sicuro, perché ci vogliamo bene; ma la cosa l'hanno combinata le mie cugine Bonelli. - Loro lo conoscono molto? - Prendono lezione dallo stesso maestro. - E lui ha detto alle tue cugine che ti vuol sposare? - L'ha fatto dire dal maestro... C'era un fascio di bugie in quel discorso, ma erano sottintese, e la mia coscienza se ne accomodava. E poi si trattava di salvare non tutto il mondo, ma me ed il mio amore, che mi premeva ben piú di tutto il mondo. E mi proponevo di confessarmi. Però quella promessa formale e dichiarata tra mia cugina ed il suo fidanzato, le loro lettere periodiche, che finivano tutte "credi all'inalterabile amore del tuo Antonio" mi avevano date delle nuove aspirazioni. Tornai a Novara col desiderio intenso di una lettera o di una promessa. La Titina diceva che, se Mazzucchetti m'avesse domandata e sposata addirittura, sarebbe stato meglio; ma io avrei voluto prima le lettere. Ne componevo una nella mia mente, la leggevo. Non era tranquillamente affettuosa come quelle d'Antonio a mia cugina. Era ardente come dev'essere una prima dichiarazione. Alle volte, nel mio pensiero, ci mettevo delle espressioni cosí appassionate, che mi si empivano gli occhi di lagrime. Finalmente lo conobbi e gli parlai. Ecco la storia di quel giorno memorabile. Era la prima domenica d'ottobre, la festa del Rosario. Nel sobborgo di San Martino, dopo i vespri, si faceva la processione, portando in giro la Madonna del Rosario, tutta vestita d'oro colla corona di perle. Le cugine Bonelli avevano un villino appunto nel sobborgo di San Martino; ma dal villino non si poteva vedere la processione. Però in fondo al sobborgo possedevano una casa colonica, con un ballatoio sulla strada e là c'invitarono quel pomeriggio d'autunno, perché la processione passava appunto sotto la casa. Per noi si trattava di discorrere liberamente del mio amore, perché in un sobborgo non c'era probabilità di incontrare Mazzucchetti né altri. I giovinotti signori non uscivano mai dalle porte della città. Quel giorno il babbo dovette accompagnare la matrigna da un suo vecchio parente, dal quale sperava, pare, una eredità, e ci permise di andare colle cugine e col signor Bonelli. Eravamo noi quattro ragazze sul ballatoio, guardando la folla dei contadini vestiti da festa, e la croce che precedeva la processione in fondo alla contrada, quando dal lato opposto, quasi dalla campagna, vedemmo spuntare il gruppo del Mazzucchetti coi tre amici ed il maestro di piano. Noi eravamo in fondo al sobborgo, e furono subito sotto al balcone, e stavano per passare senza averci vedute. Ma la Maria gridò: - Maestro! Maestro! - E quando il maestro alzò il capo, tornò a gridare: "Venga su!" Che momento fu quello! non ero ancora rinvenuta della scossa d'averlo veduto in quel luogo inaspettato, d'aver temuto che passasse senza guardarmi, e lo vedevo là, fermo sotto il ballatoio, cogli occhioni rivolti a me, in compagnia di uno che parlava colla mia cugina. Era quasi come se ci parlassimo. Tanto, che lui e tutti i suoi amici si tolsero il cappello, e noi chinammo il capo. Ma non basta. Le cugine, tanto composte in città, erano tutte eccitate di trovare della gente civile in campagna: la Maria poi non cessava di dire al maestro: - Ma venga su, venga su. Vede? La processione è quasi qui. Il maestro accennò la brigata, e disse stringendosi nelle spalle: - Sono in compagnia... Allora, quella ragazza stupefacente gridò: - Vengano su tutti - . Poi rivolgendosi a quei signori, che conosceva appena per averli veduti a qualche festa da ballo, disse: - Favoriscano. "À la guerre comme à la guerre!" Parlava anche francese. I quattro cappelli s'alzarono un'altra volta enormemente sulle quattro teste, poi tutti scomparvero nella porticina sotto noi, ed un minuto dopo il ballatoio di legno tremava sotto il passo del Mazzucchettone, che, da giovane ben educato, mi passò accanto senza fermarsi, ed andò a salutare le padroncine di casa. La Giuseppina, che era la piú a modo, anche in campagna non perdette la testa e disse dopo aver dispensato delle forti strette di mano: - Ma dov'è il babbo? Maestro, entri un po' a cercare il babbo. La Maria, intanto, s'era voltata verso di noi, e disse accennando quei signori: - Il signor De Rossi, il signor Rigamonti, il signor Crosio, il signor Mazzucchetti. Poi accennò la Titina e me con un bel gestino garbato, e riprese: - Le signorine Dellara. Io non avevo mai visto fare delle presentazioni, non sapevo neppure che si facessero. La Maria era destinata a darmi tutti gli stupori. Tanto piú, che la credetti un'idea sua tutta nuova, di farci conoscere a quella maniera perché potessimo rompere la suggezione e parlarci. E mi parve una gran bella invenzione, ed ammirai nella mia piccola cugina, la trovata di quell'inventore sconosciuto e remoto. Quei signori s'inchinarono tutti; intanto venne il signor Bonelli, si strinsero tutte le mani, parlarono forte, poi la Maria gridò che stessero zitti, che giungeva la processione. Infatti era già lí sotto; allora tutti ci affacciammo, e Mazzucchetti si trovò proprio vicino a me, che avevo il cuore che mi rompeva il petto a forza di battere, e mi sentivo formalmente fidanzata, orgogliosa e felice. Dopo un tratto, nel forte d'un "tantum ergo", stonato dai contadini in processione che copriva le nostre voci, mi disse misteriosamente: - Si diverte? - e mi guardò negli occhi come per dire: "Risponda la verità. È questione di vita". Io dissi un sí! squillante, alto, giulivo, come se m'avessero domandato: "Siete contenta di prendere per vostro legittimo consorte?..." Ci fu una pausa lunga e laboriosa, durante la quale sentivo che lui preparava un discorso. Poi, piú misteriosamente ancora di prima, mi susurrò: - La vidi una mattina alla messa in Sant'Eufemia, mi pare; questa primavera... Io corressi: - Era appena marzo. - Come si ricorda! - Sí. Ho buona memoria. Questo lo dissi con un'occhiata rapida, che voleva aggiungere: "In circostanze come quelle". E lui capí, perché mi guardò intensamente, proprio con un'occhiata d'amore, e riprese il discorso: - Non c'è piú venuta però a Sant'Eufemia. - No. Stiamo troppo lontano... La mia matrigna non vuole. - Ma lei vorrebbe, però? Voleva dire, e gli occhi e la voce lo dissero: "Vorrebbe rivedermi e ripetere quelle occhiate?" Ed io risposi a quella domanda sottintesa, sinceramente, seria e commossa come se avessi realmente confessato il mio amore: - Io, sí, vorrei. Lui susurrò: - Grazie! - ed allora tutto fu detto. Ci eravamo compresi, ed eravamo commossi tutti e due. Passava il baldacchino col Sacramento. I contadini in istrada s'inginocchiarono tutti. La Titina piombò in ginocchio. Io stavo per fare lo stesso; ma diedi un'occhiata alle cugine, e vidi che avevano curvato prodigiosamente il capo, ma stavano in piedi, e tutti i signori sul ballatoio stavano in piedi, e feci come loro. Fra un'ondata d'odore e di fumo d'incenso, che saliva dai turiboli agitati intorno al baldacchino, udii la voce del Mazzucchetti, che mi susurrava quasi all'orecchio, e con accento amorevolissimo: - Denza, mi permette di scriverle? Denza! M'aveva chiamata col mio nome! Fu uno struggimento di piacere e d'amore cosí estremo, che pareva un dolore, e mi faceva piangere. La lettera tanto sognata! Ma come facevo a riceverla? Era impossibile, finché non eravamo formalmente promessi, col consenso del babbo. Risposi con un gran rincrescimento: - Io non posso ricever lettere... Le vedrebbero prima il babbo, e la matrigna... Questo lo dissi per avvertirlo che quando avesse parlato con loro avrebbe potuto scrivermi. Lui non insistette; mi domandò invece quando potrebbe vedermi, dove andavo a messa. Io non esitai a dirgli che andavo in Duomo, e che il nostro banco era a destra della navata principale, dinanzi alla cappella di Sant'Agapito... E lui disse: - Domenica verrò in Duomo. Poi tacque un lungo tratto; però sentivo che aveva ancora qualche cosa da dire, perché anche a me mancava qualche cosa, sebbene l'avessimo detto in altri termini. Ma la processione era finita; il signor Bonelli aveva fatto portare dal suo villino delle bottiglie di vino bianco; tutta la compagnia era agglomerata all'uscita del ballatoio, e noi due eravamo rimasti fuori soli. Un contadino, che ci venne dietro portando il vassoio coi bicchieri, toccò Mazzucchetti sulla spalla, e ci richiamò sulla terra, da quel bel cielo d'amore dove eravamo. Prendemmo i bicchieri, e rimanemmo molto goffi con un bicchiere in mano, non osando far l'atto, troppo materiale in quel momento di bere e, tuttavia, desiderando di liberarci da quell'impiccio. Lui fu il piú coraggioso; stette ingrullito un minuto, poi bevve tutto d'un fiato, ed entrò nella stanza a deporre il bicchiere. Io, rimasta sola, mi sentii un po' mortificata d'essermi isolata in quel colloquio di amore in faccia a tutti, e m'accostai alle cugine che chiacchieravano coi giovinotti, mentre la Titina, un passo piú indietro, stava a sentire a bocca aperta. Facevano un discorso strambo, che non si capiva, fra De Rossi e la Maria. Lei diceva: - Anche il ghiaccio si fonde ai grandi calori del sole. E lui rispondeva: - Ma non i ghiacciai... La Maria disse con una gran furberia: - Badi che i ghiacciai ingannano. L'Etna ha il fuoco di dentro... E la Giuseppina con quel suo fare un po' sprezzantuccio, da bellezza elegante, soggiunse: - E questa sera mi pare che l'Etna sia in eruzione. E tutti scoppiarono in una risata, e si dispersero. Io non capivo cosa ci fosse da ridere, e come potessero occuparsi tanto di quella montagna che nessuno aveva veduta. La Maria nel voltarsi s'accorse ch'ero lí, e prendendomi il braccio, mi disse: - Hai sentito? Dicono che è un ghiacciaio. - Oh Dio! ma cosa v'importa? - Credevo che dicesse dell'Etna. Lei rispose: - A me nulla. Ma parlavo per te. Mi pareva tutt'altro che un ghiacciaio questa sera. S'è dichiarato? Al solito, cascavo dalle nuvole con quella ragazza. Le dissi: - Ma come? Parlavate di lui? È lui che chiamate un ghiacciaio col fuoco dentro? Avete un modo di parlare! - No; è De Rossi che lo diceva freddo come il ghiaccio, incapace d'innamorarsi... Ma non importa. Cosa t'ha detto? Nel ripetere m'accorsi che aveva detto poco in realtà. Ma aveva fatto capir molto. E la Maria fu del mio parere. Quel "Grazie" e quel "Domenica verrò in Duomo" erano una dichiarazione ed una promessa. Cosa pensava quel signore col suo ghiacciaio? Uscimmo tutti insieme, avviandoci verso la città. Crosio, il bell'ufficiale in permesso, camminava accanto alla Giuseppina, e parlavano poco e piano, e parevano un re ed una regina. La Maria dava il braccio alla Titina, e gli altri due giovinotti le sfarfallavano intorno, e fra tutti facevano un chiacchierío e delle risatine allegrissime. Il babbo delle cugine, che accompagnava sempre devotamente le sue figlie, le compiaceva in tutto, le adorava, e parlava pochissimo, e soltanto d'affari o di politica, veniva dietro col maestro di piano, e nel passargli accanto, udii che discorreva del Canale Cavour. Io mi trovai davanti a tutti, e Mazzucchetti si trovò accanto a me. La strada maestra era assai larga. Tutta la compagnia teneva la destra; noi prendemmo la sinistra. Appena fummo immersi in quell'oscurità, lui si sentí il coraggio di dire quella parola che ci mancava ancora: - Sa che le voglio tanto bene? - Sí... Allora sentii moversi qualche cosa lungo le pieghe del mio vestito, poi la mano di lui prese la mia, che appunto mi pendeva al fianco, e la strinse. Ed io provai in quel momento un tale fremito di tenerezza in tutta la persona, una tale puntura di gioia acuta al cuore, che dev'essere la piú grande delle dolcezze umane. Non ne conobbi mai di maggiori e neppure d'uguali. Ed avrei venduta l'anima mia, come Fausto, perché avesse osato abbracciarmi. E si stette zitti un lungo tratto, commossi tutti e due. Lui fu il primo a rinfrancarsi, e deplorò che non si potesse scriverci, perché mi avrebbe confidato tutti i suoi segreti. Tanto per rispondere, domandai: - Ha dei segreti lei? Mi disse di sí, e raccomandandomi la massima prudenza, mi confidò che lui e quei tre amici, facevano "I moschettieri". Avevano affittata una camera, appunto vicino a casa nostra, già da vari anni. E la sera andavano là, si mettevano un fez, e fumavano nella pipa, e si chiamavano Athos, Portos, Aramis e d'Artagnan. Lui era Portos. Anzi, una sera, si ricordava d'avermi veduta uscir di casa, con mia sorella, ed il babbo, mentre lui stava appunto aspettando i suoi compagni pel solito ritrovo... Quella sera che noi s'era almanaccato tanto perché era fermo accanto alla nostra porta! Questo fu un momento d'amarezza, in quella grande gioia. Non era là per me. Mi parlava sottovoce, con una serietà un po' triste come un uomo impegnato in una cospirazione, e che accetta quella fatalità di cui conosce i pericoli. Io avevo udita quella storia, e sapevo che era nota a tutti. Ma, confidata da lui, acquistava tutt'altra importanza. I particolari della stanza presa in affitto, delle pipe, dei fez, gli altri non me li avevano detti. Non li conoscevano. Nessuno li sapeva. Li narrava a me sola. Mi faceva depositaria d'un segreto. Ed io mi proponevo di custodirlo gelosamente nel mio cuore, ed ero superba di quella prova di fiducia che mi dava. Soltanto, avrei voluto che le cugine Bonelli sapessero che m'aveva fatto delle confidenze; ed anche quell'altro grullo che lo chiamava un ghiacciaio... Poi mi confidò che lui era un uomo fatale. E lo provò con un fatto. Un giorno, che era a caccia coi soliti amici, avevano incontrato una vecchia; - e la descrisse, come le vecchie dei romanzi, curva, sdentata, e colla voce chioccia. - L'avevano pregata di dire l'avvenire a tutti, che le avrebbero dato ciascuno una lira. Lui, naturalmente era uno spirito forte, ribelle a qualsiasi superstizione, e persino un po' ateo... un'ombra. Lo nascondeva per non affliggere la sua mamma, ma nel suo cuore rideva della gente credula, Eppure, nelle parole di quella vecchia aveva riconosciuto un'impronta di verità solenne, e ne era stato turbato, lui Portos, il forte. Tanto piú che c'era temporale e lampeggiava. La vecchia gli aveva predetto, che lui farebbe la disgrazia della donna di cui s'innamorerebbe e che s'innamorasse di lui. Per questo, mi giurò che, spontaneamente, non avrebbe mai fatto un passo per avvicinarsi a me, per quanto lo desiderasse; se non fosse stato il caso a farci incontrare quella sera, forse non ci saremmo parlato mai! Io sentii un brivido corrermi per tutta la persona a quella supposizione. Lui continuò a dire, che era fatalista! Dacché il caso ci aveva riuniti, in quel modo "quasi miracoloso" era una prova che doveva dichiararmi i suoi sentimenti; e l'aveva fatto a rischio di tutto. Ma era contristato ed impaurito per me, per me sola, in mezzo alla sua gioia; ed il caso solo aveva tutta la responsabilità della cosa; responsabilità che lui non accettava, perché sentiva che realmente quella vecchia aveva detto il vero. Lui portava sventura, specialmente alle persone che gli erano care. Aveva una sorella, ed a sedici anni era morta! E soggiunse: - Tutto questo avrei voluto scriverglielo! E dopo un tratto, durante il quale ripensò forse le belle espressioni che avrebbe scritte, e che erano rimaste inutili nel suo cervello, mi domandò: - Mi perdona d'averle parlato, a rischio di tutto? Mi perdona, Denza? Io strinsi la mano che teneva sempre la mia, e le comunicava una specie di ardore febbrile, poi domandai: - E lei, come ha nome? - Onorato. Mi chiami Onorato quando mi nomina, o pensa a me... Intanto eravamo giunti alle porte della città. Lui si fermò e disse: - Addio, Denza... - E la sua mano pareva un essere pensante, e che avesse una mente ed un cuore, tante cose mi disse e tanti affetti mi rivelò in quell'ultima stretta fremente e nervosa. Mi disse anche, quella mano, che dovessi salutarlo col suo nome. Ed io, un po' confusa, susurrai: - Addio, Onorato. Tutti gli altri ci avevano raggiunti, e si fermarono in gruppo. Bisognava separarsi. Se si fosse entrati in Novara tutti insieme, la cronaca ne avrebbe ciarlato chissà come, e chissà per quanto. Senza dirlo, tutti lo sentivamo, e ci lasciammo con molte strette di mano, ma senza inviti né promesse di visite. E fra noi due non potemmo dirci altro. Serbai nell'animo una certa apprensione per la predizione di quella vecchia. Non ci credevo affatto; nessuno m'avrebbe persuasa mai che una cosa tanto bella come essere amata, e sentirselo dire, potesse portarmi disgrazia. Ma mi sgomentava il pensiero che ci credesse lui, e che forse, per quella paura infondata, si asterrebbe dall'avvicinarmi, dal fare qualsiasi passo verso di me, e mi priverebbe di tante gioie... Avrei voluto persuaderlo che da lui, fin allora, mi erano venute soltanto delle estasi di dolcezza; che ogni sguardo, ogni sorriso mi inondava di contento, che era impossibile che quella beatitudine mi portasse sventura, e che la sola sventura per me era la sua lontananza... La Titina, da quella ragazza positiva che era, mi domandò: - Quando farà la domanda formale al babbo? Non so perché quell'interrogazione mi sembrasse un'offesa ad Onorato, un pensiero diffidente; e le risposi con gran dignità: - Quando vorrà. Credi ch'io diffidi di lui, e che abbia bisogno di farlo parlare coi parenti, e di vincolarlo con una promessa, per credere al suo amore? So che mi vuol bene, "che è mio, ed io sono sua" e mi basta, e sono felice. Mia sorella, che era tenace nelle sue idee, tornò a dire: - Io, se fossi te, preferirei che mi sposasse. - Io no. Non sai come è bello avere una persona che ci ama, essere d'accordo con lei, e conoscerne tutti i segreti... Anch'io ero impaziente di maritarmi prima. Ma ora che ho provato tutte queste gioie, desidero di gustarle, di prolungarle un poco, prima di sposarlo. Infatti pel momento calmata l'inquietudine dei dubbi e l'ansietà di conoscerlo, beata nella sicurezza fiduciosa di quell'amore, ero troppo assorta nella mia nuova gioia, per avvertire le noie della casa, che m'avevano fatto desiderare di maritarmi altre volte. Ero felice in mezzo a quelle seccature, precisamente come se non fossero esistite. Quello che allora desideravo ardentemente era di leggere I tre moschettieri per comprendere meglio il segreto che avevo nel cuore. Ma questa gioia non l'ottenni. La Maria voleva prestarmi il romanzo; ma la Giuseppina si oppose formalmente. Sapeva che il babbo era molto rigido in fatto di letture, e non voleva assolutamente, né per sé né per sua sorella, la responsabilità di farmi leggere un romanzo di nascosto, e mi disse: - Domanda al tuo babbo, e, se lui lo permette... Figurarsi se osavo domandarglielo! E se lui l'avrebbe permesso! Venne l'autunno. L'autunno piovoso e triste, che passammo tappati in casa, colla matrigna severa, il babbo tutto assorto in lei, il bimbo piagnoloso e la zia reumatizzata. Ma quando la casa era piena del rumore delle faccende, e dello stridio del bimbo, e quando era silenziosa e triste come una tomba nelle ore del pomeriggio, io udivo risonarmi all'orecchio la voce ansimante ed amorosa di Onorato, che mi ripeteva dolcemente e sempre, le sue care parole: "Sa che le voglio tanto bene? E lei mi vuole un po' di bene, dica? Addio Denza!" Qualche volta piangevo di commozione, qualche volta ridevo, cantavo, giocavo pazzamente col bimbo, per sfogare la piena della mia gioia; ma ero sempre felice. Una sera mi occorse d'entrare imprevedutamente nella camera della matrigna; e mentre stavo per aprir l'uscio, la udii che diceva al babbo: - È strano! Credevo che la Denza dovesse fare piú incontro. Ora che non ha piú affatto quell'aria beata e minchiona, anzi è fino un po' sentimentale, è proprio una bella giovane. Eppure nessuno le sta intorno, nessuno la domanda... Il babbo rispose: - Cosa vuoi? Le ragazze senza dote non sono mai molto ricercate. E dopo un tratto soggiunse: - Tempo fa, Bonelli mi accennò qualche cosa del figlio dell'ingegnere Mazzucchetti. Pare che la guardi di buon occhio... - Ma che! di buon occhio la guarderanno tutti; è una bella ragazza, fa piacere a guardarla. Ma non vi mettete in testa che Mazzucchetti la voglia sposare. Un giovane che avrà forse un milione! La guarderà finché non avrà altro da fare, poi sposerà un'altra... Invece d'entrare, tornai indietro pian piano ridendo fra me di quel grosso granchio che pigliava la matrigna, malgrado il suo buon senso. Pensavo. "Se sapessero! Se sapessero che fra noi siamo già d'accordo, ed è soltanto questione di tempo! Che so i suoi segreti, e che lo chiamo Onorato!" E nel mio cuore c'era quella fede sicura, colla quale dice il vangelo che si potrebbero trasportar le montagne. Passò anche l'autunno e venne l'inverno, rigido, con certe nevicate che rendevano le strade impraticabili; e la nostra casa, dove soltanto in cucina e nella camera della matrigna s'accendeva il fuoco nel camino, era fredda come la Siberia. Mi vennero i geloni alle mani, che si fecero grosse e rosse vergognosamente. Ma io pensavo che erano le mani strette con tanto amore da Onorato, e stavo estatica a contemplarle, e, deformate com'erano, mi evocavano alla mente le incantevoli visioni di quella sera memorabile. Venne anche il carnovale, quel carnovalino di provincia, pettegolo e pretenzioso, dove della menoma festicciola si discorre, prima e dopo, fino alla nausea; dove si fanno i più minuti inventari degli abbigliamenti, e si veste sempre troppo in gala. Le Bonelli, che brillavano molto, ci parlavano sempre di feste e di spassi, di cui noi altre non avevamo la menoma idea. Eppure, io non desideravo quei divertimenti. Cosa avrei fatto ad un ballo! Oltrechè non sapevo ballare, l'idea di ballare con tutt'altri che con lui, mi faceva orrore come un'infedeltà. E lui non ballava. Dicevano, perché era troppo grasso; ma io ero certa che non ballava perché non c'ero io. E leggevo anche nel suo pensiero, dietro il rincrescimento momentaneo di non potermi abbracciare in un giro di valzer, una grande ammirazione per la vita ritirata che facevo, per la mia modestia. Mi ricordavo cosa aveva detto, quella volta il maestro di piano alla Maria: "Lui è selvatico; ha soggezione delle signorine eleganti". "Ha soggezione" era un modo di dire cortese del maestro, per riguardo alle sue allieve, che erano elegantissime. Ma un giovane ricco e bello come Onorato, non poteva aver soggezione di nessuno. Voleva dire che non gli piacevano. Che amava le fanciulle semplici e modeste. E nessuno lo era piú di me. Dacché sapevo che questo piaceva a lui, dimenticavo tutte le mie lagnanze passate per le abitudini patriarcali della nostra casa, e mi pareva d'aver scelto io stessa quel genere di vita, e d'amarlo. Quella che a noi teneva luogo di carnovale, era l'ottava di San Gaudenzio. Dal ventidue di gennaio, che era appunto la gran festa di San Gaudenzio, primo vescovo di Novara, per otto giorni di seguito c'era la benedizione colla musica, per la quale venivano persino dei professori dell'orchestra della Scala, di Milano. Noi avevamo un banco di prima fila, a sinistra dell'altar maggiore. Davanti a noi c'era un largo spazio vuoto, dove si fermavano gli uomini in piedi, per veder i musicanti sull'organo che era a destra dell'altare. Tutti gli anni andavamo assiduamente all'ottava, qualunque tempo facesse. Della solennità non c'importava nulla, della musica poco, del Santo men che meno. Ma si vedeva un po' di gente, qualche giovinotto ci guardava; e nella monotonia della nostra esistenza era qualche cosa. Di solito era la zia che ci accompagnava perché la matrigna non amava la musica, ed il babbo, di sera, stava sempre con lei. E poi, la chiesa era il dominio della zia. Quell'anno, incominciai un mese prima ad inquietarmi, per paura che i reumi le impedissero d'uscire. Ma, anche per lei, quegli otto giorni rappresentavano il periodo brillante dell'annata; e si curò tanto, che per San Gaudenzio stava relativamente bene. Fin dalla prima sera, dopo pochi minuti che ero in chiesa, udii uno strisciar di passi, alzai gli occhi con un gran batticuore, e vidi sfilare pian piano i "Moschettieri", Portos davanti, e gli altri di dietro. Lui andò ad appoggiarsi al muro sotto il pulpito, in faccia a me, a due passi, e gli altri si schierarono in fila. Mi fissò gli occhi negli occhi, e finché durò la funzione, stette a guardarmi, insistente, instancabile. Gli altri mi guardavano tutti, come se fossero tutti innamorati di me. Anche quando m'accadeva d'incontrarli separati in istrada, mi guardavano e si voltavano per riguardarmi, come faceva lui. Ed io mi sentivo d'essere entrata quinta nella loro amicizia, e li amavo un po' tutti come fratelli, per amore di lui. La sera seguente, e tutte le altre, tornò alla stess'ora, cogli stessi amici; si mise allo stesso posto, mi dette le stesse occhiate intense e lunghe. Però la seconda sera ci fu un avvenimento. Al momento della benedizione, quando il prete alza la pisside col sacramento, e i turiboli esalano nuvole di fumo e d'incenso, e tutti chinano il capo divotamente, io lo rialzai pian piano, e guardai Onorato. Lui aveva avuto lo stesso pensiero e guardava me. In quel silenzio profondo e solenne, come isolati e soli al disopra di quelle teste chine, in quel profumo eccitante dell'incenso, in quella luce misteriosa, in quell'ambiente di preghiera, i nostri occhi si unirono in un solo sguardo arditamente amoroso, si confusero, si strinsero, si baciarono lungamente.. Quando la voce stonata del prete, e subito dopo quelle alte e festose dei musici, intuonarono l'O salutaris hostia, io mi scossi sbalordita, confusa, inebriata, come da un lungo amplesso. Mi pareva d'essermi legata anche piú strettamente a lui; sentivo d'appartenergli. Finché durò l'ottava, rialzammo il capo al momento della benedizione, e ripetemmo quella specie di muto ed ardente colloquio d'amore, che mi lasciava turbata come una colpa, ma pazzamente felice. Per tutta la mia vita, quell'alto silenzio della benedizione mi ricordò la gioia di quell'ora, e mi commosse, e mi fece piangere. I miei parenti ed amici hanno una grande idea della mia divozione. Finita l'ottava, sentii una gran mancanza, mi parve che fosse avvenuta una grave catastrofe, come un incendio, un'inondazione e che m'avesse tolto dei tesori inestimabili, e mi lasciasse nello squallore. Però vedevo Onorato immancabilmente alla messa della domenica. Sovente lo incontravo in istrada. Se s'andava in casa Bonelli, le cugine mi facevano uscire sul balcone, e qualche volta lo vedevo passare, e sempre mi guardava allo stesso modo. Poi, nella quaresima, un giorno io, un giorno mia sorella, s'andava alla predica colla zia. E lui c'era sempre, in capo alla fila dei banchi dove era il nostro, nella cappella di Sant'Agapito. E, quand'era il mio giorno, mi guardava tutto il tempo della predica. E quand'era il giorno della Titina guardava lei, e lei me lo diceva al ritorno portandomi quegli sguardi come un'ambasciata; ed era anche quella una gioia. Del resto, non ero un'eccezione. C'erano a Novara parecchie ragazze che avevano degli amori a quella maniera, ed erano contente e fiduciose quanto me, e tiravano innanzi cosí da anni, senza domandar altro, e senza che i loro innamorati facessero di piú. La figlia di un farmacista di contro a noi, aveva aspettato il figlio d'un notaio per tredici anni, poi l'aveva sposato. È vero che era morta di una malattia di nervi, dopo poco piú di un anno di matrimonio; ma questo a me non poteva accadere. Quegli amori d'occhiate sono talmente entrati nell'uso a Novara, che parlando di due innamorati nel ceto civile, si dice "Il Tale guarda la Tale". Soltanto parlando di operai e bottegai, si dice: "Il Tale parla alla Tale". C'è l'uso in tutto il Novarese, di mandare in giro il giorno della mezza quaresima una sega. Nel popolo la fanno portare scarabocchiata col gesso sul dorso, o rinvoltata e nascosta ingegnosamente, in modo che chi la porta non se ne accorga. Ed è una burla che trovano molto divertente. I signori mandano a regalare delle seghe eleganti, e ne fanno il pretesto per offrire un gingillo, un dipinto, un dono. I galanti del carnovale si ricordano, col mezzo della sega, alle signorine che hanno incontrato ai balli. Mandano la sega in una lettera per la posta, accompagnata da proteste d'amore in versi o in prosa, sempre anonime soltanto pei parenti. Le ragazze indovinano subito il nome dell'autore. Le Bonelli ricevevano in quella giornata dei fasci di lettere, con seghe di carta frastagliata o dipinta, di seta ricamata, d'argento... Avevano persino ricevuta una bella seghettina d'oro, che portavano sempre appesa al cordoncino dell'orologio. Quell'anno la mattina della mezza quaresima, la serva tornando dal mercato, portò su una lettera che aveva trovata dal portinaio, diretta a me "Denza Dellara!" Io sentii il sangue salirmi alle guancie, caldo come una vampa. La Titina si fece pallida. Mi disse poi, che l'aveva creduta la domanda formale di matrimonio. Figurarsi, diretta a me! Ma era la sua idea fissa. Eravamo tutte e tre in piedi, noi due e la matrigna, intorno alla tavola della cucina. La lettera era là, tra il pacco della carne aperto, ed un cavolo tutto bagnato che le sgocciolava sopra. Io la divoravo cogli occhi, ma non osavo toccarla. La matrigna, quand'ebbe ricevuto il conto dalla serva, prese tranquillamente la busta, ed andando in camera a pigliare gli occhiali, disse: - Sarà qualche stupidaggine. Oggi è il giorno delle seghe! Io lo sapevo che era il giorno delle seghe. Senza osare esprimere neppure con mia sorella quella grande speranza, che avrebbe potuto esser vana, ci pensavo da mesi e mesi, ed invocavo quella lettera. La matrigna tornò cogli occhiali sul naso, ed il foglio aperto in mano, lo lesse accanto alla finestra, poi disse crollando le spalle: - L'ho detto, che doveva essere una stupidaggine! E la buttò di nuovo sulla tavola, con una sega di carta turchina leggera leggera, che andò ad appiccicarsi al pezzo di manzo umido. Quella lettera le era sembrata tanto inoffensiva, che me l'abbandonava. Io domandai con un sorriso forzato, tutta nervosa e tremante: - Posso leggerla? - Oh leggi pure! Puoi vantarti che la tua corrispondenza porta le ultime novità. Presi il foglio tutto sgocciolante dell'acqua del cavolo, e lessi: Un dí felice eterea Mi balenasti innante, E, da quel primo istante, Arsi d'immenso amor. Di quell'amor che è palpito Dell'universo intero Misterioso altero Croce e delizia al cor. La matrigna mi guardava, aspettando che facessi una risata anch'io, e dicessi che era una stupidaggine. Ma la commozione mi toglieva il fiato; cercai di ridere, ed invece scoppiai in un pianto dirotto. La matrigna ebbe un sospetto, e, con maggior dolcezza del solito, mi disse: - Cosa c'è da piangere? Sai chi l'ha scritta forse? Io, soffocata dai singhiozzi, crollai il capo e le spalle energicamente. Lei riprese: - No? Peccato! Avrei preferito che lo sapessi. Se fosse un giovane buono, bene intenzionato ed adatto a te, si potrebbe fargli parlare, e vedere di combinare un matrimonio. Sarebbe tempo di rompere il ghiaccio... Io tornai a crollarmi tutta, negativamente. L'idea che Onorato fosse aggredito da qualcuno che gli intimasse di sposarmi, come se si trattasse di pagare un'imposta, mi faceva arrossire e m'impauriva. Mi pareva che lui dovesse credermi complice d'una cospirazione per forzare la sua volontà, ed offendersi e sfuggirmi. Volevo che venisse a me spontaneamente, quando le sue circostanze glielo permetterebbero, e desideravo di dargli una grande ed assoluta prova di fiducia, non domandandogli mai neppure quali fossero le sue intenzioni. Potevo dubitarne? La matrigna riprese: - Se non sai chi ti scrive questa sciocchezza, non capisco perché piangi... La Titina, con un'astuzia ed una prontezza che mi sbalordirono, rispose: - Si mortifica, perché capisce che è una burla. Io accennai di sí, e profittai di quella giustificazione per rileggere il foglio, e piangere tutte le lagrime de' miei occhi in un accesso di tenerezza nervosa. La matrigna mi diede uno scappellottino carezzevole, e disse: - E tu piangi per una burla? Grande e grossa e minchiona a quel modo? Lascia che dicano! Io quand'ero alla tua età, una festa, che rinnovavo un bel vestito color di rosa, con un canezou di tulle bianco, ed una cappottina di seta, incontrai una brigata di giovinotti che mi guardarono, poi il caporione gridò: "Tutto è bello fuorché il viso". Ma non mi son messa a piangere per questo. Ho riso anch'io, e m'ha fatto buon sangue. E poi, chissà che sia davvero qualcuno che s'è innamorato di te! E che un giorno o l'altro si presenti a domandarti in moglie? Sarebbe un po' grullo, ma cosa importa? Se s'avessero a sposare soltanto le aquile... Via via, smetti di piangere, e va' a rinfrescarti il volto. Non mi parve vero di correre in camera, e di rileggere attentamente quelle vecchie parole, che conoscevo e cantavo da un pezzo, e di baciarle, e di rileggerle ancora. Per tutta la primavera ed una parte dell'estate non vi furono altri avvenimenti. Verso la metà di giugno, una sera che si moriva dal caldo, nel passare dinanzi al caffè Cavour, vidi Onorato, coi tre amici, seduto ad un tavolino, in mezzo alla gran folla di signori eleganti, e di camerieri che correvano portando i vassoi colle braccia alzate, e gridando: "Pronti! Vado!" Noi non ci eravamo mai seduti a quel caffè di lusso. Le poche volte che si prendeva un gelato, s'andava ad un caffè modesto e meno frequentato e si entrava per una porticina di dietro, in una sala deserta. E là si domandavano tre gelati e due piattini in piú; poi si facevano le parti. Il babbo e la matrigna, davano ciascuno una parte del loro gelato, in un piattino, al bimbo. La Titina divideva il suo con me. Per lo piú il cameriere portava soltanto tre cucchiarini, ed il babbo doveva reclamare ed impazientarsi, per avere gli altri due. Credo che il cameriere ci burlasse. Quella sera, forse che il caldo le portasse via la testa, la matrigna propose di fermarci al caffè Cavour. Io arrossii al pensiero di fare tutto quell'armeggio dei piattini, dinanzi a tanta gente ed a lui; ma non potevo oppormi. Allora dissi che mi doleva il capo, e che non potevo prendere il gelato; cosí soltanto la Titina divise il suo col bimbo, e non ci furono altre complicazioni. Mi parve che quella sera le occhiate di Onorato avessero qualche cosa d'insolito, come un'espressione di rammarico, di malinconia. Due volte chinò lievemente il capo come in atto di saluto. Quando noi ci alzammo, si alzò anche lui, e, naturalmente, anche i "Moschettieri"; e per tutta la strada udii le loro voci dietro a noi. E mentre il babbo apriva il portone, loro ci passarono dinanzi, e dopo alcuni passi, Mazzucchetti si voltò indietro, e mi salutò; positivamente mi salutò. L'impressione che riportai da quell'incontro, non fu tutta di gioia. Ero turbata. Sentivo che aveva voluto annunciarmi qualche cosa; e qualche cosa di triste. Ma che cosa? La Titina non voleva aiutarmi ad indovinare, e diceva: - Ma sei matta! È sempre la stessa storia. T'ha guardata come al solito. Sarebbe meglio che ti sposasse! Per alcuni giorni non lo vidi. La domenica non comparve alla messa, per la prima volta dopo quasi un anno! E la sera di quella stessa domenica, incontrai due Moschettieri scompagnati. De Rossi e Rigamonti... Portos e d'Artagnan mancavano. Era troppo! cominciai a rattristarmi, ad almanaccare idee nere, e per quanto la Titina affermasse che doveva essere andato "a quelle acque che dimagrano, da dove tornava sempre piú grasso" io non potevo darmi pace. Ricorsi al solito rifugio delle Bonelli. Per l'appunto dovevano andare presto in campagna; dissi alla matrigna che partivano fra due giorni, sebbene sapessi che era fra dieci, e la indussi ad accompagnarci a salutarle. Sgraziatamente lo studio del signor Bonelli era chiuso, e la matrigna dovette salire con noi. Ma questa volta la Maria pensò a me, e nello stringermi la mano susurrò: - È andato a Parigi all'Esposizione. Poi si volse alla matrigna e parlò d'altro lasciandomi tutta pallida e fredda, con quella trafittura nel cuore. A Parigi! Ma era dunque possibile che si andasse davvero a Parigi? E che se ne tornasse? - Stetti un tratto muta, paralizzata. Poi a poco a poco mi riebbi cogli orecchi che ronzavano come dopo uno svenimento; ed in mezzo a quel ronzio, che era la conversazione generale, di cui non capivo una parola, esclamai col coraggio della disperazione: - C'è l'Esposizione a Parigi, nevvero? La matrigna rispose: - Bella novità! È un anno che se ne parla... E ripigliò il discorso che aveva interrotto "che noi non s'aveva villeggiatura, perché le villeggiature sono una passività, e lei, quando comperava dei fondi, intendeva di mettere del denaro a frutto pel suo erede..." La interruppi ancora per domandare ansiosamente: - E c'è molta gente che ci va? - In villeggiatura? - No, a Parigi. - Toh! quella s'è fissata su Parigi! Hai la speranza che io ti ci conduca? - No... Domando cosí... per sapere. La Giuseppina disse: - Di qui sono andati i Carotti, il marchese Fossati, i Preatoni, e poi una compagnia di giovinotti... Mi lanciò un'occhiata per avvertirmi che parlava di lui, ma, colla sua prudenza, non disse il nome, né nessun nome che richiamasse quello; e continuò: - ...Che staranno un mese a Parigi, poi passeranno un mese a Londra, poi visiteranno una parte dell'Inghilterra, il Belgio e l'Olanda... Io esclamai scoraggiata: - Ma staranno in giro un'eternità! - Un po' a lungo, sí. È un viaggio d'istruzione. Ma devono tornare agli Ognissanti. A misura che si avvicinava la festa degli Ognissanti il mio spirito si rasserenava. Non pensavo piú alla lontananza; pensavo alla gioia del ritorno, di incontrarlo per strada di rivederlo in chiesa. La vigilia degli Ognissanti andammo dalle Bonelli. Ma quell'anno avevano cessato di prender lezioni di piano, vedevano il maestro molto di rado, e non sapevano piú dirci nulla di Mazzucchetti. La Giuseppina disse: - È certo che dovevano tornare oggi. So che Crosio torna questa sera, e credo che torni anche Mazzucchetti. Piú tardi la Titina osservò che la Giuseppina era sempre informata di quanto faceva Crosio, e, che doveva esservi qualche cosa. Ma a me non importava nulla di nessuno, il mio amore mi assorbiva tutta. La mattina degli Ognissanti, nel vestirmi per la messa, dicevo a mia sorella: - Non so come farò a non svenire, quando lo vedrò entrare in chiesa. E lei mi rispondeva: - Non montarti la testa. È probabile che oggi non venga. È appena arrivato per passare gli Ognissanti in famiglia; non potrà, fin dal primo giorno, lasciare la sua mamma. Durante la messa non feci che voltarmi indietro ogni volta che udii richiudersi la porta. Scandolezzai i devoti, mi feci sgridare dalla zia, ma Onorato non lo vidi. Il giorno dei morti mi svegliai coll'impressione che fosse accaduta una sventura; e subito mi ricordai la mia sventura, e cominciai a gemere colla Titina, prima ancora d'alzarmi. Nel pomeriggio, mentre la Titina, che faceva la settimana di cucina, stava preparando la minestra di fagioli, che si mangia in tutta la provincia il giorno dei morti, io, che mi sentivo il cuore gonfio di amarezza e gli occhi gonfi di lagrime, buttai il lavoro nel paniere, e mi rizzai contro la finestra, guardando la pioggia che cadeva frettolosa e minuta, e piagnucolando in silenzio. Ad un tratto vidi il signor Bonelli entrare dal portone, traversare il cortile dando un'occhiata allegra alle nostre finestre, e scomparire nello studio dei babbo. Il cuore mi diede un gran balzo. Ebbi il presentimento che quella visita insolita riguardasse me. Senza osare di fermar il pensiero sulla speranza, che mi spuntava timidamente nell'animo, corsi accanto alla Titina e le susurrai quanto avevo veduto. Lei, senza scomporsi, e continuando a tagliare a quadretti uniformi la cotenna di maiale da cuocere coi fagioli dei morti, disse: - Si vede che Mazzucchetti è tornato, e lo manda a fare la domanda di matrimonio. Io le buttai le braccia al collo, le nascosi il volto sulla spalla, e mi misi a singhiozzare nervosamente. Lei crollò le spalle senza asprezza, ma un po' confusa, ed affrettandosi a tagliare le cotenne e guardandole fisse mi disse rapidamente: - Sei matta? Stai su, e va' in camera. Senti, viene il bimbo. Guai se andasse a dire alla sua mamma che fai queste scene! Poi, mandando un gran sospiro, con uno sguardo desolato al tagliere, soggiunse: - Non vedo l'ora che ti sposi! Non si può durare cosí. Andai in camera agitatissima. Giú nello studio si trattava la grande questione del mio avvenire. Udivo in cucina la Titina discorrere colla matrigna, che era andata ad aiutarla, e ridere col bimbo che domandava "perché i morti mangiano i fagioli?" La voce del babbo, che doveva essersi affacciato all'uscio della cucina, chiamò la matrigna. - Marianna! Vieni in camera un momento! Appena udii richiudersi l'uscio dietro a lei, sgusciai in cucina e domandai a mia sorella: - Titina, che viso faceva il babbo? T'è sembrato contento? - Sí; si stropicciava le mani. In quella, dalla sua camera, la matrigna chiamò forte due volte: Titina! Titina! Mia sorella rispose: "Vengo!" E, mentre si scioglieva i nastri del grembiule da cucina, mi susurrò: - Vogliono domandarmi se non mi dispiace troppo lasciarmi passare innanzi la sorella minore. La tua sorte è nelle mie mani! Ed uscí ridendo. Stettero un gran pezzo in conferenza. Io ero sulla brace. Avevo tanto bisogno di sfogo, che entrai nel paravento, e raccontai alla zia che forse Bonelli era venuto a farmi la domanda di matrimonio, per un giovane molto ricco, e molto buono, figlio unico... La zia si allegrò tutta, e si raccomandò che la facessi venire in campagna con me, almeno un mese all'anno, perché "non pareva, ma era lunga l'annata dietro quel paravento". Risuonò un passo forte in cucina, ed il babbo disse: - Denza! Dove sei? Uscii dal paravento, sorridendo alla zia, che mi faceva dei piccoli cenni col capo, e seguii il babbo, che s'avviava nella sua camera, tenendo l'uscio aperto per me. Trovai la matrigna seduta accanto al fuoco, colla Titina in piedi dinanzi, che teneva gli occhi bassi, ed era rossa in viso come se avesse pianto. Il babbo si mise a sedere dall'altra parte del camino, ed io mi fermai in piedi presso mia sorella. Il babbo disse: - Mia cara Denza. Tua sorella ci assicura che tu sei molto malinconica, e che non potresti vivere senza la sua compagnia, o, almeno, che saresti infelice. È vero questo? Non capivo affatto. Come mai mia sorella poteva immaginarsi che, vivendo con Onorato, sua sposa, io avessi a sentire tanto la mancanza di lei? Sí, le volevo bene ma non vedevo l'ora di andarmene; e, se avevo un rammarico, era di non rimpiangerla abbastanza. Ad ogni modo non volevo rinunciare alla mia felicità per secondare la tenerezza di mia sorella. Mi domandava un sacrificio troppo grande. Risposi: - Tutto dipende dalla compagnia con cui dovrei vivere, lasciando lei... La matrigna m'interruppe un po' risentita: - Oh, quanto a questo, la compagnia di tuo padre, e di quella che ti tien luogo di madre, potrebbe trovar grazia a' tuoi occhi, mi pare! La guardai stupefatta. Dovevo vivere con loro anche dopo maritata? E, allora perché non ci doveva essere la Titina? Fu questa la domanda che mi venne alle labbra: - Ma la Titina dove andrebbe? - Oh bella! Con suo marito. La Titina si lasciò sfuggire un gran singhiozzo, e ricominciò a piangere coprendosi il volto con le mani. Io esclamai tutta giubilante: - Oh! si marita anche lei? La matrigna mi diede un'occhiata stupita, poi disse, parlando al babbo. - Anche lei! Vedrai che questa signorina ha creduto d'essere lei la sposa. Del resto tu hai un po' di colpa, perché non dici mai le cose con precisione. Poi si volse ancora a me, e riprese: - Ecco di cosa si tratta. Abbiamo ricevuto una domanda di matrimonio per tua sorella; ma lei esita ad accettare per non separarsi da te, che sei tanto malinconica, dice... Chissà perché, poi? Mi pare che qui nessuno ti dia dei dispiaceri... Tirò via una lunga chiacchierata, ma io non ascoltavo piú. Le prime parole mi avevano dato un tal colpo, che rimanevo tutta fredda e tremante e non rispondevo nulla. Il babbo mi disse severamente: - Ma Denza, non trovi una parola da dire alla Titina, che vorrebbe sacrificarsi per te? Io balbettai: - Non voglio che si sacrifichi. Si mariti pure! Tanto, alla mia malinconia nessuno può farci nulla... Ne morirò! Ne morirò di certo! E fuggii via singhiozzando, mentre la matrigna diceva al babbo: - Quella ragazza va curata... È nervosa... Il pretendente di mia sorella era Antonio Ambrosoli, figlio del farmacista di Borgomanero, lo stesso che era stato fidanzato per tre anni con la nostra cugina di laggiú. Al momento di concludere il matrimonio, la sposa non aveva voluto adattarsi a convivere coi genitori di lui; lui, per considerazioni d'interesse, non aveva potuto separarsene, e le nozze lungamente vagheggiate, erano andate a monte. Questa rivelazione mi mise un grande sgomento nell'animo. È vero che, prima di rinunciare ad Onorato, io mi sarei rassegnata a far vita comune col padre, colla madre di lui, con tutta la parentela paterna e materna, ascendente e collaterale, fino ai cugini piú remoti. Ma se, per qualsiasi altro motivo, i suoi genitori si fossero opposti al nostro matrimonio? E se lui, come Antonio, vi avesse rinunciato? La matrigna, che non amava le cose lunghe, dichiarò che le nozze di mia sorella si farebbero fra un mese. E quel tempo fu cosí occupato nei preparativi, che fui molto distratta dalla mia eterna cura amorosa. Il gran giorno ci capitò addosso che non avevamo ancora finito di cucire il corredo. La notte precedente non ci coricammo neppure, e la mattina all'alba eravamo già tutte in gala. Io, che a forza di crescere avevo finito per dover allungare le gonnelle volere o non volere, ebbi per quella circostanza un abito nuovo di lana ver- de-bottiglia, che toccava terra, un cappellino di feltro verde, ed una cappina eguale all'abito. E mia sorella, impietosita delle mie mani rosse, aveva suggerito allo sposo di regalarmi un manicotto di falso ermellino... Ah! come mi struggevo d'esser veduta da Onorato vestita a quel modo! Avevo anche i capelli divisi sulla fronte! Ma nessuno mi vide perché la cerimonia si fece alle sei e mezzo del mattino, senza pompa e senza inviti, ed uscendo dalla chiesa s'andò direttamente alla stazione ad accompagnare gli sposi che partivano per Borgomanero. Partiti loro, la casa ripiombò nella solita tristezza. Ma si avvicinava il Natale, ed io mi consolavo pensando che Onorato sarebbe tornato per fare le feste in famiglia. Ripetevo fra me un proverbio, che alludeva non so a quale vecchia leggenda, e che la zia ripeteva, ogni volta che si parlava del Natale e di gente lontana: "A Natale si restituiscono fino i banditi!" Sebbene di solito non fossi divota, quell'anno uscii ogni mattina alle sette colla zia che faceva la novena di Natale a San Marco. Mi pareva che quell'ora mattutina, quelle strade deserte e buie, ed il ghiaccio della notte che scricchiolava sotto i piedi, aumentassero il merito della divozione. M'inginocchiavo in atto compunto nella chiesa buia, e fissando con occhio supplichevole la luce lontana delle candele sull'altare, susurravo fervidamente: "Oh Gesú, fatelo tornare! Oh Gesú, fatelo tornare!" E mi sgolavo a cantare ad alta voce le litanie ed il tantum ergo; ma, per me, quella nenia gemebonda e quelle parole latine che non capivo, ripetevano tutte la stessa invocazione! "Oh Gesú, fatelo tornare!" Il 22 dicembre, vennero le Bonelli ad annunciarci che la Giuseppina era sposa. Il padre diede la nuova ufficialmente; e la figliola arrossiva un pochino, non troppo; scoteva energicamente le nostre mani in risposta alle congratulazioni, e diceva senza confondersi: - È capitano delle Guide. Suo padre era colonnello; il famoso colonnello Crosio che morí a Solferino. Carlo Alberto lo stimava molto, lo trattava da amico. La madre è dell'antica nobiltà piemontese; vive presso Racconigi. Il suo piccolo parco confina col parco reale; e Carlo Alberto, quand'era là per le caccie, entrava qualche volta nella villa modesta del suo colonnello... Diceva tutto questo, come se discorresse d'un uomo nuovo, che avesse conosciuto soltanto dacché l'aveva domandata in moglie, e del quale non sapesse altro che quelle generalità. Dei loro sentimenti, del come s'erano amati e fidanzati, - e doveva essere un pezzo perché la Titina aveva sempre notato che in casa Bonelli si conosceva tutto quanto faceva Crosio, - non si lasciò sfuggire neppure una parola. Quelle ragazze facevano tutto compostamente, senza scene, da gente per bene; anche l'amore. Fui cosí mortificata da quella riserbatezza dignitosa, che non osai domandare di Onorato. Come mi parvero noiosi quell'anno gli apparecchi del Natale, che in casa nostra si cominciavano otto giorni prima della festa! Di solito si rideva molto con mia sorella, quando si saliva in piedi sui fornelli, sulle tavole, sulla credenza, e fin sul piano del camino per incoronare di lauro le casseruole appese al muro, "come si coronavano i poeti in Campidoglio", diceva il babbo. E noi, nel cucinare, dicevamo l'una all'altra: "Staccami quel poeta piú grande, o piú piccino". Nel fare il presepio pel bimbo avevamo scoperto che uno dei Re Magi, quello dall'incenso, rassomigliava ad Onorato, e chiamavamo i Magi "I tre Moschettieri". Quell'anno invece ero sola e triste. Nel mettere a posto i "moschettieri" in fondo al presepio, mi ricordai che la Titina, il Natale precedente, aveva detto: "questi benedetti Moschettieri sono sempre sull'uscio colla loro offerta, ma non entrano mai". Era passato ancora un anno, ed il mio moschettiere era sempre sull'uscio... Seppure v'era, perché, a quella distanza, che cosa ne sapevo piú? Nel gennaio si celebrarono con gran pompa le nozze della Giuseppina; ma io dovetti accontentarmi d'andare colla matrigna in chiesa tra la folla, a vedere la sposa vestita di bianco, e lo sposo in grande uniforme, e la suocera maestosa come una regina, e tutte le signore cogli strascichi lunghi che tenevano la gente a distanza, e gli uomini in abito nero, fra i quali c'era anche il babbo, con un grosso rotolo in mano. Era un epitalamio che doveva leggere alla colazione, e che il signor Bonelli aveva fatto stampare a sue spese. Veramente il babbo lo aveva scelto nel vecchio fascio di poesie giovanili, che serbava nello stipo della sua camera fra le memorie di famiglia. Ma ci aveva lavorato molto per adattarlo alla circostanza, e si lagnava che "l'estro non gli sorridesse piú come una volta". Parlava d'Imene, poi della Madonna e di san Giuseppe patrono della sposa, perché il babbo "conosceva il linguaggio poetico, ma non dimenticava d'esser cristiano". Nella primavera seppi che Onorato era a Soleure e che contava di rimanerci tutto l'anno per rinfrancarsi nella lingua tedesca. Quei due matrimoni l'uno dietro l'altro, m'avevano fatto sembrare piú facile anche il mio. E ad un tratto, quell'idea d'un anno intero di lontananza, d'un'aspettazione indefinita, mi colpí come un disinganno. E tuttavia mi rassegnai, e tirai avanti altri dodici mesi, e sempre collo stesso pensiero. Avvennero molte novità in quel tempo, piacevoli e dolorose. Mia sorella ebbe un bambino. Il marito della Giuseppina fu destinato di guarnigione a Palermo, e lei lo seguí di là dal mare. Il bimbo della matrigna smesse le gonnelline, mise i calzoni e andò a scuola. E la povera zia si prese un reuma piú grave degli altri, stette a letto un mese intero, e finí per andarsene quietamente come aveva vissuto, all'altro mondo nel quale credeva. Il babbo aveva acceso molte lampade alla Madonna durante la malattia; ma per quella volta, il suo rimedio non aveva giovato. E la cucina ci parve piú grande e piú triste ancora, senza quel paravento. Poi, nei primi tempi del nostro lutto si fece sposa anche la Maria, e, dopo un breve viaggio di nozze, tornò collo sposo in casa di suo padre, per non abbandonarlo nella vecchiaia. Di quattro, io, la bellezza, ero rimasta l'ultima. Finalmente una sera di maggio, mentre eravamo a passeggio sull'"allea", vidi Onorato, coi due moschettieri che gli erano rimasti. Nel passarmi accanto, mi guardò, precisamente come se m'avesse veduta il giorno innanzi. Ebbi un accesso di gioia pazza, e pensai: "Ecco! È venuta la mia volta!" Ed aspettai di giorno in giorno la domanda di matrimonio. Ma la domanda non venne. Riprese a guardarmi quando m'incontrava, a venire in chiesa in capo al banco, cogli occhi fissi su me; gli occhi che mi riconfermavano sempre il tacito accordo pattuito fra noi, e rafforzavano la mia fede, ed accrescendo la mia impazienza, mi davano però l'energia d'aspettare. Ed aspettai infatti altri cinque o sei mesi, felice del suo ritorno, tranquilla d'aver assicurato il mio avvenire. Un giorno la Maria, che dopo il suo matrimonio non m'aveva piú parlato d'Onorato, e si lasciava vedere di rado a casa nostra, venne a prendermi per condurmi a pranzo da lei. Quel fatto strano mi fece supporre che avesse qualche buona nuova da comunicarmi; pensai alla domanda di matrimonio ed uscii col cuore palpitante. Infatti, mentre aspettavamo che il signor Bonelli ed il marito della Maria tornassero pel pranzo, lei mi disse: - E tu, bellezza! non pensi a maritarti? È tempo, sai. Hai sei mesi piú di me. Io cominciai a rispondere: - Ma appena mi farà la domanda... Lei m'interruppe con una risatina che non era naturale, ed esclamò: - Ah! la domanda di Mazzucchetti! È il tuo vascello fantasma, quella domanda! - Il mio vascello fantasma?... - Sí; tu non sai. È un'opera. Vuol dire una meta a cui si tende sempre e non si raggiunge mai. Un'illusione. - Credi che sia un'illusione? - Vedo che passano gli anni e non concludete nulla... Io, nel caso tuo, ci rinuncerei. Crollai le spalle indispettita, e lei continuò: - Ti allontana i partiti quel grassone. Io protestai: - Ma che partiti? Se non c'è nessun altri che si curi di me... - Sfido! Sanno tutti che sei innamorata di quello lí. Mio marito l'ha udito dire in un caffè. - In un caffè! - Ma sicuro, mia cara. Tu vivi fuori del mondo, e non sai che quel bel signore ti compromette colle sue eterne occhiate, che non mettono capo a nulla. Ero un po' offesa, senza saper bene il perché. Quel discorso mi pareva brutale, e fuor di proposito. Perché me lo faceva appunto allora, e non qualche anno prima? Non rispondevo nulla, ma il mio silenzio doveva dimostrarle che ero risentita, perché lei mi venne accanto, mi prese le mani e disse: - Non andare in collera, ti dico queste cose pel bene che ti voglio. Se noi potessimo giovarti, tanto io che mio marito... pensaci. Possiamo far qualche cosa per te? Presto andiamo in campagna. Vuoi venir via con noi e star fuori tutto l'autunno, e cercare di dimenticarlo?... Vuoi? Stetti un lungo tratto a pensare. Mi pareva di sentire in quelle parole un sottinteso che non mi riesciva di comprendere. Finalmente dissi: - Perché dimenticarlo? Dopo aver aspettato tanto!... Lei mi guardava con un'aria di compassione che mi faceva stizza, e non parlava piú. Io tornai a dire: - Dimenticarlo! Bisognerebbe che sapessi che non mi sposerà mai, per volerlo dimenticare. La Maria chinò il capo come se avesse un torto e se ne vergognasse, e senza guardarmi sussurrò: - Fa' conto di saperlo. Diedi una forte scossa alle sue mani che tenevano sempre la mia, e respingendola, ed alzandomi a guardarla in viso, tutta eccitata gridai: - Perché? Che motivo hai di dir questo? Perché non dovrebbe sposarmi mai? Ho qualche torto? Di'... Crollò il capo, e sempre cogli occhi bassi rispose: - Tu no, povera Denza! - Allora è di lui che sospetti? Di che cosa? Sentiamo. Ha un'altra moglie? Questa volta alzò gli occhi, mi guardò addolorata, e giungendo le mani come per domandarmi perdono, disse pian piano: - Sposa la Borani. Io ripetei come un'eco: - Sposa la Borani! E mi sentivo divenir tutta fredda, e tremavo, tremavo, e non potevo dir altro. Mi pareva che tutti i vincoli che avevo colla vita si fossero spezzati ad un tratto, e che, dopo quella grande rovina, dovessi morire; che fosse finita. La Maria mi guardava sbigottita. Mi ero lasciata cadere sul divano; lei si mise in ginocchio accanto a me, in silenzio. I singhiozzi cominciavano a gonfiarmi il petto e stringermi la gola. Resistetti un minuto, poi m'abbandonai nelle sue braccia, piangendo disperatamente, ed esclamando che volevo morire, che volevo farmi monaca, che non volevo piú stare a Novara neppure un giorno, e che non volevo piú uscir di casa, e che tutti vedendomi avrebbero riso di me, e che sarei morta di vergogna. La Maria mi lasciò sfogare pazientemente, senza contraddirmi, senza tentare di consolarmi, finché la convulsione del pianto cessò. Allora soltanto, con molta delicatezza, mi disse: "che avevo sempre data troppo importanza a quelle occhiate, che, in sostanza, lui era stato accorto, non s'era impegnato in nessun modo; che certo gli piacevo, perché ero bella, e se avessi avuto la dote della Borani avrebbe preferito sposar me; ma era uomo interessato; non aveva il coraggio di rinunciare alla dote. E non meritava che lo rimpiangessi; e soprattutto non dovevo dargli quel trionfo d'avermi fatta vittima, d'avermi turbata. Dovevo mostrarmi indifferente. Capiva che era difficile e doloroso, ma questo doveva essere il mio eroismo. Dovevo averlo per la mia dignità; cominciando subito a ricompormi per non farmi scorgere dal suo babbo e da suo marito, e piú tardi dalla mia famiglia..." Questa considerazione mi scosse piú di tutte le altre. Infatti non potevo dire a casa mia: - Piango, mi dispero, faccio delle scene perché il mio innamorato mi pianta. Mi lavai il volto coll'acqua fresca, e, bene o male, assistetti a quel pranzo, dove i due uomini ebbero la cortesia di fingere di non saper nulla e di non vedere in che stato di alterazione mi presentavo. La sera, quando la matrigna vedendomi tutta pallida e cogli occhi gonfi, mi guardò sgomenta, io sussurrai: - Si parlò della zia. E me ne andai in camera a spogliarmi. Il domani ci furono le occupazioni inevitabili della casa che mi aiutarono a combattere, se non il mio dolore, almeno le manifestazioni del dolore! Parlavo pochissimo, ero triste, avevo spesso il pianto alla gola, ma lo ringoiavo, e fingevo di non aver altro cruccio che quello per cui portavo ancora il lutto Cosí superai il periodo piú acuto e difficile della catastrofe. Più tardi andai colla Maria alla sua campagna e vi stetti fin dopo quelle nozze di gente ricca di cui a Novara si parlava troppo, perché io potessi rimanerci senza molte sofferenze e mortificazioni. Quando tornai ripresi la solita vita, ed a poco a poco mi avvezzai anche all'idea dolorosa di non essere amata. Quando mi accadeva d'incontrare Onorato, mi guardava tal quale come prima. Era un'abitudine. Se non avesse avuto moglie, avrei potuto illudermi che m'amasse sempre, e sperare chissà fin quando. La Maria mi diceva: - È meglio che si sia ammogliato, altrimenti t'avrebbe fatta invecchiar zitellona come la tua zia, per vivere e morire dietro un paravento. A quell'idea rabbrividivo, e dovevo convenire che infatti era meglio. E lei, incoraggiata, continuava colla sua monelleria da ragazza, che qualche volta faceva capolino ancora: - Se lo sa il tuo babbo, accende una lampada alla Madonna per Grazia ricevuta. Dopo quel grande avvenimento ci fu un lungo periodo, assai lungo, durante il quale non accadde assolutamente nulla. Un periodo uggioso e grave tutto pieno di faccende di casa, di discorsi scipiti, di abitudini che si ripetevano a tempo fisso: solennità, feste di famiglia, esami e premiazioni nelle scuole del mio fratellino, piccole malattie della matrigna, visite scambiate con mia sorella. Nulla che mi abbia dato una scossa o lasciato una impressione profonda, fin al carnovale del 1875. Quell'anno la Giuseppina, che aveva avuto un parto immaturo, e ne aveva fatto una malattia, venne a passare l'inverno a Novara, e sua sorella per divertirla diede una serata musicale, avvertendo che sul tardi si sarebbero fatti quattro salti. Era la prima volta che mi si offriva l'occasione d'andare ad una serata; e mi davo gran pensiero dell'abbigliamento. Avevamo ricevuto l'invito nel pomeriggio, pel posdomani. E la sera a cena dissi: - Potrei mettermi l'abito bianco di questa estate... Il babbo osservò soltanto che avrei potuto infreddarmi. Ma la matrigna fece delle obbiezioni: - Cosí com'è? Tutto bianco? Mi pare troppo giovanile per una ragazza della tua età. Credo che in quel momento la circolazione del mio sangue triplicasse di rapidità, perché sentii una vampa di calore salirmi dal cuore alla testa, ed il cuore mi batté con una violenza che mi scosse tutta, ma mentre risentii quell'impressione istantaneamente, il pensiero non fu altrettanto pronto a riflettere che età avessi e se mi convenisse o no quel vestito, ed esclamai: - Alla mia età! Sono una vecchia da non potermi vestir di bianco? E la matrigna, spietatamente sincera, disse: - Non sei una vecchia, no; ma sei una giovane matura... Ah, che colpo fu quello! Neppure l'abbandono d'Onorato m'aveva desolata a quel modo. Una giovane matura! Ed era vero. Avevo venticinque anni passati! Non m'ero mai fermata su quel pensiero. Quell'età me l'ero lasciata venire addosso, cosí, lemme lemme, facendo sempre la stessa vita che facevo a quindici anni, stando sempre sommessa al babbo ed alla matrigna... Infatti quel bimbo che avevo portato in collo, era diventato un omino di dieci anni, ed andava al liceo. Quella sera, seduta sul letto, colle gambe penzoloni, livide pel freddo, rimasi lungamente assorta in quelle riflessioni profondamente tristi. Venticinque anni passati, quasi ventisei! Fra quattro anni ne avrei trenta! Mi ricordavo quanto s'era riso colle cugine e con mia sorella d'una certa signorina di ventotto anni, che si dava l'aria d'una giovinetta, e non osava uscir di casa sola. Una volta che aveva detto "quando sarò maritata" ne avevamo avuto per un gran pezzo da burlarla. Ed un'altra volta che le era sfuggito, parlando con noi, di dire: "Fra noi ragazze" oh! che scene avevamo fatte! Ci era sembrato il colmo del ridicolo. Ed ora ero nello stesso caso. Una zitellona! Non potevo piú parlare di speranze future, di nozze; mi avrebbero burlata dietro le spalle. Le altre ragazze mi trovavano vecchia. E di certo! Le mie coetanee, la Maria più giovane di me, erano maritate, avevano dei figlioli che andavano alla scuola; erano donne. La mia vita era sciupata. Mi vedevo sorgere dinanzi minacciosamente il paravento della povera zia, e mi cadevano le lagrime silenziose, sconsolate, giú per le guancie sulla camicia, e non m'accorgevo che mi gelavano le gambe, che mi assideravo tutta. Una zitellona! La mattina ero gravemente infreddata, e presi quella scusa, o l'altra che non sapevo ballare, per non andare alla serata della Maria. Comparire per la prima volta in società come una giovane matura, troppo vecchia per vestirmi di bianco, era troppo umiliante e doloroso. I sei mesi che passarono tra quel giorno memorabilmente triste, e l'agosto seguente, furono i piú squallidi della mia vita. Nell'agosto di quello stesso anno, una sera che m'ero coricata presto, mi svegliai verso le undici con una gran sete, ed andai in cucina senza lume a piedi scalzi, per bere un po' d'acqua. Faceva un caldo soffocante, tutti gli usci erano aperti, e si udivano il babbo e la matrigna discorrere nella loro camera. Il babbo diceva: - Io non oso neppure proporglielo. Una ragazza giovane e bella... La matrigna rispose: - Sicuro è bella ed è sul fior dell'età. Ma, come giovane da marito, è un po' matura. - Ma che! Quanto ha? ventidue, ventitrè anni... Povero babbo, per lui non ero una zitellona. Mi credeva sempre la giovinetta che faceva correre sulle strade maestre, narrando l'Iliade. La matrigna rettificò. - Ne ha ventisei. È giovane, ripeto. Ma ci sono tante ragazze, di diciotto o vent'anni belle quanto lei e ricche; e, naturalmente, lei, che non ha dote, ed ha degli anni di piú, se vuol maritarsi non dev'essere troppo esigente. Già è il primo che le capita... Fuggii in letto in punta di piedi col cuore che mi batteva forte forte. Infatti era il primo che mi capitasse. Chi era? Chiunque fosse, mi faceva un gran bene. Ero disposta ad accettarlo; il fatto solo d'avermi domandata, era un titolo in suo favore. Non mi trovava troppo matura, lui! Purché il babbo non si ostinasse ad essere piú esigente di me! Perché non osava propormelo? Era forse un vecchio? Oh Dio! Quante supposizioni, quanti romanzi fabbricai in quella notte! Fu la matrigna che il giorno dopo, alla fine del pranzo, mi disse: - Senti, Denza. Ci sarebbe un partito per te; però non è brillante. Il babbo era presente, ma leggeva un giornale per dimostrare che voleva rimanere estraneo a quella proposta. Io domandai molto agitata: - Chi è? - Un notaio di Vercelli, che viene a stabilirsi a Novara. Fin qui non c'era nulla di male; ma ci doveva essere. Domandai ancora: - Vecchio? - No... Quarant'anni - . Stavo per dire che mi pareva vecchio. Ma mi ricordai che ero matura, e dissi invece, cercando ancora il male che non stava nell'età: - È molto povero? - Tutt'altro, è agiato. E venendo qui entrerà come socio nello studio del notaio Ronchetti. Cosa poteva avere a suo svantaggio? La figura di certo. Domandai con molta trepidazione. - Ma dunque è un mostro? - Un mostro no... Ma ha un difetto... Stavo senza fiato. Non osavo interrogare. La matrigna lasciò che mi fossi fatta all'idea d'un difetto, magari d'una deformità, perché il colpo mi riescisse meno grave, poi continuò: - Ha una verruca; sai, un porro, un po' grosso, qui sulla tempia destra. Rimasi impressionata. Non riescivo a figurarmi che grossezza potesse raggiungere un porro. Avevo veduto una volta, a Borgomanero, un contadino con un'escrescenza sul naso, grossa il doppio del naso stesso; un orrore. Ma non poteva esser cosí. Quello non era un porro, doveva essere qualche malattia spaventosa... Finalmente mi feci coraggio e domandai: - È molto grosso? - No... che! Come una noce. Portando i capelli abbassati sulla tempia, non si vede neppure... L'idea di quei capelli, ravviati, appiccicati su quella mostruosità che dovevano nascondere, mi dispiacque piú del porro. Mi pareva che, se l'avesse portato con disinvoltura, sarebbe stato meno male. La matrigna riprese: - Ad ogni modo vederlo non t'impegna a nulla. Prima di rifiutare, vedilo. Chinai il capo rassegnata. Non che mi dispiacesse vederlo. Anzi era il mio desiderio. Ma mi dispiaceva che il matrimonio si presentasse in modo tanto differente da quello che avevo sognato. Era stato il signor Bonelli che aveva proposto per me il notaio Scalchi, come aveva proposto parecchi anni prima Antonio Ambrosoli per mia sorella. Pareva che quel lontano parente avesse la missione di darci marito. Fu dunque, per colmo d'imbarazzo, in casa sua, ed alla presenza della Maria, che dovetti vedere il mio pretendente. Andammo in casa Bonelli dopo il loro pranzo, verso le sette. Lo sposo non c'era ancora. Si parlava apertamente di quell'incontro, e del motivo che lo provocava. La Maria diceva: - È un bell'uomo, non ha che quel difetto. Del resto ha già rifiutato delle spose con dote, sai. Gli avevano proposto la signorina Vivanti, e non la volle perché era troppo piccola. Le fu presentata mentre stava seduta sopra un divano un po' alto, e lui vide che i piedi non le arrivavano in terra... La signorina Vivanti era un mostricciattolo che i parenti e gli amici cercavano di maritare da parecchi anni, senza mai riuscirvi. Cosa poteva essere un uomo a cui si proponeva quella specie di sposa? Venne quasi subito, e la prima impressione non fu sfavorevole. Era alto, un po' grosso, ma ben fatto. Aveva una foresta di capelli castano chiari, tutti dritti a spazzola. Si vedeva che non tentava neppure di portarli abbassati sulla tempia per nascondere il suo difetto. Del resto non avrebbe potuto; erano capelli ispidi che non si piegavano. Anche per lui la prima impressione dovette essere favorevole, perché, appena m'ebbe trovata collo sguardo, e fissata un minuto, si fece rosso come un giovinetto, e perdette l'aria disinvolta con cui s'era affacciato all'uscio. Quando me lo presentarono ebbe un momento d'imbarazzo, e, sorprendendo i miei occhi rivolti alla sua tempia destra, arrossí un'altra volta. Ma si rinfrancò subito, e prese parte al discorso che facevano gli uomini. Aveva una voce armoniosa, e parlava bene. S'intratteneva delle risaie del Vercellese; deplorava che fossero troppo vicine alla città, ma chiamava esagerata e sentimentale la compassione degli scrittori pei risaioli. Diceva che, trattati umanamente dai proprietari, possono attendere a quella coltivazione senza soffrirne. E spiegava tutto un sistema d'igiene per quei contadini, che mi annoiava molto. Avrei voluto che mi parlasse delle sue speranze, dell'impressione che gli avevo fatta... d'amore insomma. La Maria, da accorta padrona di casa, seppe procurarci un colloquio da soli. Ci fece uscir tutti sul balcone; poi, poco dopo, rientrò colla matrigna per fare il tè, e gli altri le seguirono. Rimanemmo soli sul balcone. Tenevo gli occhi fissi giú nella strada, e stavo zitta, ansiosa di sentire cosa direbbe. Parve che ci pensasse molto, perché stette un tratto senza parlare, poi s'appoggiò al davanzale accanto a me e disse: - Non ho sentito il suo parere signorina, sulla questione che si discuteva dianzi. Pensai che avessero discusso col babbo o col signor Bonelli sul nostro matrimonio; mi sentii salire al volto una vampa di rossore, e tutta confusa, domandai: - Quale questione? - Quella delle risaie. Credetti che scherzasse, e lo guardai stupefatta. Ma lui, senza far caso del mio stupore, continuò: - I miei fondi, i pochi che ho, perché non sono un gran possidente, sono in risaia. E ci vivo una parte dell'anno per sorvegliare io stesso i lavori. Per i proprietari di risaie è un obbligo di coscienza; altrimenti si deve affidarsi ai sensali ed allora sí che i poveri giornalieri, in quelle mani, sono oppressi da un lavoro soverchio, mal pagati, mal nutriti, alloggiati come Dio vuole, trattati da schiavi. Io risposi un po' stizzita: - Non me ne intendo, sa. Noi abbiamo pochissimi fondi verso Gozzano; boschi e vigneti. Le risaie non le conosco. - Ma potrebbe trovarsi nel caso di conoscerle, di possederle. E vorrei che comprendesse la necessità di sacrificarsi a sorvegliarle personalmente. Dico sacrificarsi, perché capisco che è un vero sacrificio, specialmente per una signora. Io, per esempio, ho una casa vasta, comoda, anche abbastanza elegante; ma non è una villeggiatura dove si possano fare degl'inviti, dove ci si possa divertire. Si fanno delle passeggiate lungo il giorno, ma la sera bisogna ritirarsi presto, star chiusi in casa ad accender il fuoco... Capii che mi voleva preparare alla vita che m'aspettava; ma avrei voluto che ci mettesse un po' piú di sentimento. Ero scoraggiata. Lui forse se ne avvide, perché disse: - Io mi ci sono avvezzo, e lo faccio volentieri, per un sentimento d'umanità; ma sento che se in quei mesi, in quelle lunghe sere nebbiose, avessi vicino qualcuno... Esitò un tratto; fece una pausa, forse cercava i miei occhi per averne un incoraggiamento a spiegarsi su quel qualcuno; ma io non osai voltarmi, e lui concluse con una risatina piena di mistero: "mi ci avvezzerei anche meglio". La Maria uscí con due chicchere di tè e nel porgermi la mia sussurrò: - Come va? E vedendomi rossa e confusa, accennò lei stessa che andava bene. Ero sconfortata, perché dinanzi a quell'uomo positivo e nella nebbia delle sue risaie, vedevo svanire i miei sogni sentimentali. Ma però ero risoluta a sposarlo per non restar zitellona. Tutti uscirono sul balcone colle chicchere sorseggiando il tè, persuasi che quei pochi minuti fossero bastati per farci decidere di tutta la nostra vita. Infatti erano bastati. Avevamo deciso. Il signor Scalchi se ne andò prima di noi, ed il signor Bonelli, che lo aveva accompagnato in anticamera, rientrò tutto soddisfatto dicendo: - Lui è felice, e protesta che non poteva desiderare una sposa piú bella, piú gentile. È innamorato addirittura, e teme soltanto di non essere accettato. Gli tremava la voce nel parlarmi. Mi strinse la mano col pianto alla gola: era tutto commosso. Rimasi sbalordita di quella commozione che era scoppiata soltanto in anticamera, mentre, dinanzi a me, non aveva saputo suggerirgli una parola. Però mi fece piacere e ne fui lusingata. Poteva anche aiutarmi ad uscir d'imbarazzo. Tutti mi guardarono aspettando il mio responso; e la matrigna, vedendo che stavo zitta, mi domandò: - E tu cosa dici? Ti piace sí o no? Io balbettai: - Se non avesse quel porro... - Ah! se non l'avesse sarebbe meglio di certo. Ma l'ha. Questo è inevitabile. Devi accettarlo con quell'aggiunta o rifiutarlo. Feci ancora un'obbiezione, per salvare la mia dignità. - Non potrebbe farselo togliere? Ci fu un momento di silenzio e d'imbarazzo. Tutti si guardarono, e mi parve di leggere su tutti i volti un'espressione di biasimo. Poi il signor Bonelli rispose: - Come si fa proporgli una cosa simile? Del resto, se fosse un'operazione possibile l'avrebbe fatta quand'era piú giovine... La matrigna mi disse severamente: - Ma ti pare! Esporre la vita d'un uomo per un capriccio... E la Maria osservò: - Sarebbe una mortificazione per lui, sentirsi rinfacciare il suo difetto, ora che t'ha conosciuta, ed è innamorato di te... Sii generosa; accettalo com'è... Il babbo la interruppe: - Non influenzarla, Maria. Lascia che ci pensi lei. Preghi il Signore che le dia una buona ispirazione; accenda anche una lampada alla Madonna, e poi faccia quello che il cuore le consiglia. Si tratta di tutta la vita. Se lo sposo non le piace è meglio che dica di no subito, per non pentirsi poi. Non ero punto disposta a dir di no. Chinai il capo in silenzio; ma tutti capirono che avrei accettato, e pel resto della serata si parlò del patrimonio di Scalchi, de' suoi fondi a Borgo Vercelli, dello studio di Novara, del suo socio, come di cose che ci toccassero molto davvicino. Il domani dissi definitivamente di sí. Lo sposo fu ammesso in casa. Mi portò i soliti doni nuziali, cercò l'alloggio e vi fece trasportare i suoi mobili da Vercelli, e finalmente si fissò il giorno delle nozze, che grazie alle buone condizioni finanziarie dello sposo, si dovevano fare con solennità. Da quel momento non ebbi piú tempo di pensare alle mie aspirazioni passate, e quasi neppure al mio sposo. Il matrimonio, colle sue formalità preventive, m'assorbiva tutta, ed assorbiva anche il resto della famiglia. Mia sorella aveva affidato il figliolo alla suocera, ed era venuta a Novara per aiutarci. Tutto il giorno eravamo in giro a far compere, o visite di partecipazione. E la sera, io e mia sorella, facevamo delle copie, colla nostra scrittura piú accurata, d'un epitalamio che il babbo aveva preparato per le mie nozze. A misura che una copia era finita, lui la correggeva, - c'era sempre da correggere nelle nostre copie, - poi la rotolava, la legava con un nastrino rosso, e ci scriveva sopra il nome dei destinatari, con una precisione notarile: "Signor Bonelli ingegnere Agapito, e genero e figlia, coniugi Crespi". "Signor Martino Bellotti, dottore in medicina, chirurgia ed ostetricia, e consorte". Intanto la matrigna combinava la colazione e gli inviti, e tratto tratto interrompeva il nostro lavoro, per consultarci e fare delle lunghe discussioni. A mia ricordanza non s'era mai fatto un invito a pranzo in casa nostra. Avevamo l'abitudine di desinare in cucina, al tocco, e quando capitava lo zio Remigio, o qualcuno degli Ambrosoli, o qualche altro parente di fuori, gli si offriva il nostro desinare di famiglia, senza nessuna aggiunta, su quella tavola di cucina, tra i fornelli ed il paravento della zia. Ora il paravento non c'era piú; ma ad ogni modo non era possibile servire una colazione nuziale in cucina. Bisognava apparecchiare in salotto. Quella novità ci mise in grande orgasmo. Si dovettero portar via i sacchi di granturco, le patate, le castagne e tutto; si dovettero scoprire i mobili, ed appendere le cortine, e togliere le tavole rotonde per sostituirvi quella grande della cucina. Poi non era lunga a sufficienza, e ci si aggiunsero ancora ai due capi le tavole rotonde un po' piú bassine, che facevano un effetto curioso e poco bello. Nessuna delle nostre tovaglie aveva le dimensioni di quella mensa cosí allungata. E le due tavole rotonde ebbero anche una tovaglia a parte, di modo che facevano come casa da sé, un gradino piú in giú della tavola centrale. Il babbo suggerí di nascondere il gradino sotto uno strato di fiori; ma rinunciò a mettersi, come s'era combinato prima, a capo tavola, perché, dovendo sedere piú basso, non avrebbe dominato tutta la mensa leggendo l'epitalamio. Scelse il posto nel centro, e la matrigna l'altro in faccia a lui, sebbene quella nuova moda francese non fosse di loro gusto. Anche la mia abbigliatura da sposa era stata argomento di molte discussioni. La solennità che si voleva dare alla cerimonia, non arrivava però al lusso dell'abito bianco. Un abito di seta colorata a strascico, sul quale avevo fatto assegnamento e di cui andavo superba, la Maria lo trovò disadatto alla circostanza e provinciale. Allora la matrigna fece la pensata di vestirmi da viaggio, e per quanto le si facesse osservare che non facevamo nessun viaggio, non si lasciò rimovere, ed il vestito da viaggio fu accettato. Finalmente venne quella mattina aspettata e temuta. Quando fui tutta vestita come una touriste che si disponesse a fare il giro del mondo, cominciai a piangere abbracciando tutti prima d'andare in chiesa, come se non dovessimo mai piú rivederci in questo mondo. Poi, durante la cerimonia piansi tanto che fu un miracolo se udirono il sí, che tentai di pronunziare fra due singhiozzi. Poi tornai a piangere zitta zitta durante tutta la colazione, rispondendo con un piccolo singhiozzo ogni volta che mi facevano un complimento, tanto che smessero di farne, e mangiarono tutti quieti, parlando di cose serie, dei raccolti, che quell'anno erano buoni, dei nostri vini dell'alto Novarese che non hanno nulla da invidiare a quelli del Piemonte, e del secondo vino, "il cosí detto vinello che è eccellente, e tanto conveniente per uso di famiglia". Poi, alle frutta, quando il babbo spiegò uno dei tanti fogli che avevo scritto io stessa, e cominciò a leggere ad alta voce: In questo dí, sacro ad Imene, io prego La Vergine ed i Santi a voi propizi, quei versi, che sapevo a mente, mi commossero al punto che scoppiai in un pianto dirottissimo, e dovettero condurmi via. Cosí, dopo tutti quegli anni d'amore, di poesia, di sogni sentimentali, fu concluso il mio matrimonio. Ora ho tre figlioli. Il babbo, che quel giorno dell'incontro con Scalchi aveva accesa lui la lampada che mi consigliava, dice che la Madonna mi diede una buona inspirazione. E la matrigna pretende che io abbia ripresa la mia aria beata e minchiona dei primi anni. Il fatto è che ingrasso.

Le Fate d'Oro

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Il gatto, correndo, lo precede in un corridoio lungo lungo, che scendeva sem- pre, e alla fine aprì una porta e lo intro- dusse in una sala, che abbagliava da quanto era bella. Nel mezzo alla sala c'era un trono tutto d'oro, e su questo trono stava seduta la vecchina più grinzosa che mai. Costei sorrise al figliuolo del Re e ac- carezzò la cerbiatta domandando loro che cosa erano venuti a chiederle. In quel mo- mento il figliuolo del Re era tanto mera- vigliato che non si rammentava neppure che aveva fame. La vecchina lo fece sedere e gli disse che essa voleva dargli moglie. Il figliuolo del Re fece una smorfia e disse che lui non voleva prender moglie, perché nessuna donna avrebbe tollerato la cerbiatta, e lui non acconsentirebbe mai a separarsi da quella cara bestiola, alla quale voleva tutto il bene del mondo! E chinan- dosi la baciò sulla fronte. In quel momento cadde il collare di rose dal collo della cerbiatta, e questa fu trasformata in una bellissima ragazza coi capelli biondi inanellati e una carnagione di latte e sangue. Il figliuolo del Re la guardava esta- tico, e lei lo fissava sempre senza proferir parola. La vecchina spiegò tutto, raccontando che una Fata cattiva e gelosa della bellezza di quella fanciulla l'aveva trasformata in cerbiatta. Bisognava che il figliuolo di un Re l'amasse per salvarla. Il Principe reale, promise di sposare la bella ragazza, e insieme ad essa e alla vecchina fece ritorno al Palazzo reale. Il Re ordinò gran feste, fecero le nozze e furono felici e contenti; e quando mori- rono il Re e la Regina, i due Principi ere- ditarono tutto il reame e camparono quanto Matusalemme. E la vecchina? Essa è sempre nella sua capanna pic- cina piccina, col gatto che le tiene buona compagnia.

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Racconti umoristici IN CERCA DI MORTE - RE PER VENTIQUATTRORE

682915
Tarchetti, Iginio Ugo 1 occorrenze
  • 1869
  • E. Treves e C. Editori
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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È impossibile il dire quanto ella fosse bella, forse anche impossibile lo immaginarlo: la bianchezza del suo viso era quasi luminosa - abbagliava: le sue fattezze, i suoi profili si perdevano in una specie di vaporosità leggermente rosata; i suoi capelli erano sì sottili, sì neri e sì lucenti che ondeggiavano sotto l'azione della luce come un drappo serico; e mentre io stava contemplando quel prodigio di avvenenza, essa mi si appressò timida e sorridente, e dopo aver pronunciato alcune parole in lingua Potikorese che mi riuscirono per ciò inintelligibili, asciugò il sudore che mi stillava dalla fronte con un suo fazzolettino che non era più voluminoso di una tela di ragno, ed esalava tutti i profumi più inebbrianti. Animato da tanta affabilità, e più ancora dal pensiero che io era re e che quella divina creatura era mia, trovai il coraggio di dirle: Come vi chiamate? - Opala, diss'ella, la più affezionata e la più fedele delle vostre schiave. E pronunciò questa parole nella mia lingua. - Voi non siete nativa del mio regno? le chiesi io meravigliato. - No, disse la fanciulla. La defunta Serenità di vostro padre mi portò seco bambina dall'Oriente, e mi apprese la lingua e i costumi della vostra nazione. Egli mi onorava particolarmente della sua affezione, e mi ha conferito una speciale autorità sulle donne del vostro serraglio. - Mio padre, esclamai tra me stesso, non aveva gusti depravati, non aveva deficienza di senso estetico ... una così bella creatura! Ma egli doveva aver passato i sessant'anni ... è impossibile ... E rivoltomi ad Opala le dissi: Mio padre vi amava? - Molto. - Di che affetto? Il volto di Opala si coprì d'un vivace rossore. Io che capiva a stento in me stesso, non seppi trattenermi dall'abbracciarla, esclamando: io pure vi amerò molto, io vi lascierò intatta l'autorità conferitavi da mio padre. Dio mio! voi siete sì bella!… voi sarete la mia prediletta e la mia regina, - È egli vero? disse Opala. - Quante è vero l'affetto che sente già il mio cuore per voi. - Per me! la vostra schiava .... - Non dite così, interruppi io - e in quell'istante osservai che le altre donne si ritiravano inchinandosi e ci lasciavano soli - dite la vostra amante, la vostra sposa; trovate, se potete, una parola sì dolce che valga ad esprimere ciò che voi sarete per me. Opala si gittò alle mie ginocchia, e abbracciandole disse: Grazie, grazie, io pure vi amerò; io languiva qui così sola, così abbandonata ... perché vostro padre .... era sì vecchio vostro padre ... e sì stizzoso! Voi siete tutt'altra cosa. Perché io non era stata educata qui, in quest'isola ... oh! sì, io vi amerò molto, non vivrò che per voi; e dormirò sul vostro tappeto, vi darò a bere il sorbetto colla mia bocca, vi solleticherò colle penne del mio ventaglio, vi farò riposare la testa sulle ginocchia, vedrete, vedrete! Oh buona creatura! io dissi tra me stesso, sarei pur felice con te, E pensai: se fosse possibile abbandonare il mio regno, fuggire con questa fanciulla, portar meco i tesori di mio padre, quel diamante favoloso, queste verghe d'oro ... e non veder più questi Denti bianchi, questi Denti neri ... questi odiosi ministri ... sottrarmi ad un supplizio spietato .... E mosso da un trasporto di affetto sincero, aggiunsi abbracciandola e sollevandola: sì, mia diletta fanciulla, se io potessi fuggire con te, portarti meco nella mia patria! ... perché devi sapere che mi si vuole già ritogliere il regno, che si pretende deturparmi il viso, forarmi il naso, il mio naso greco, il naso caratteristico della mia famiglia ... E poi ... Ma in quell'istante un fracasso terribile venne a troncare le mie parole. Io mi rivolsi e vidi il primo ministro che entrava ansante impallidito nel padiglione, e dietro ad esso alcuni ufficiali di Corte, uno dei quali mi disse: avvengono dei gravi disordini; è necessario che Vostra Maestà si affretti ad installarsi nella reggia; alla sua incoronazione si penserà dopo ... Il popolo non ha prestato fede alle parole dell'onorevole ministro che voleva giustificare il diniego di Vostra Maestà a subire tutte le formalità di questa incoronazione. Indarno egli ha asserito che ella ne è impedita da un raffreddore potente, che ha inteso egli stesso lungo il viaggio dei fragorosi starnuti reali .... non gli si è creduto: il sentimento nazionale è scosso profondamente da questa notizia, e il rimanente dell'esercito dei Denti bianchi ha abbandonato senz'altro le sue bandiere per congiungersi alle file dei ribelli. Bisogna affrettare l'entrata nella capitale finché la reazione non si è organizzata, e non si è posta in grado d'impedirlo. I Denti neri sono per noi; ove il giudizio pubblico che vostra maestà presiederà oggi, incontri il favore popolare, le sorti della monarchia possono essere ancora rassicurate. Io ho potuto, dissi allora, sollevandomi di tutta la persona, animato da non so qual forza interna, io ho potuto forse mostrarmi debole d'innanzi ad un'esigenza cui le abitudini contratte nella mia patria mi rendevano un poco ripugnante, ma non lo sarò mai d'innanzi agli uomini che vogliono spogliarmi del regno, privarmi dei sacri diritti che mi sono stati trasmessi da mio padre. Se non potrò sedere sul trono di Potikoros, saprò almeno morire difendendolo, E affacciandomi all'uscio del padiglione, e guardando con occhi torvi la folla, esclamai con voce più alta; recatemi le mie armi e il mio cavallo, che io indossi il mio paludamento reale, tutti i miei distintivi di re, e la corona, aggiunsi prendendomela e posandomela sul capo; saprò ben io difenderla da chi si attentasse a tormela. I miei ministri e i miei ufficiali meravigliati da tanto ardimento mi fecero recare in fretta il mio cavallo, e mi aiutarono ad indossare i miei distintivi. Dopo che, fiero del mio coraggio, balzai in sella colla spigliatezza d'un giocoliere e mi avviai in mezzo ad essi alla capitale del regno, e alla reggia. Ma il coraggio veníami meno lungo la via, L'accoglienza poco lusinghiera della popolazione, il freddo contegno de' miei ministri, le urla selvaggie dei ribelli, quei crocchi di Denti bianchi che incontravamo ad ogni istante sul nostro passaggio mi facevano venire la pelle anserina, o ciò che si dice più comunemente la pelle di oca, come se la mia sacra epidermide reale fosse stata l'epidermide del più volgare e del più ignobile de' miei sudditi, E tentando di dare come poteva meglio una diversione qualunque alle mie idee. immaginava come le oche debbano trovarsi in uno stato di spavento incessante se quel fenomeno della loro pelle è continuo, e mi sentiva tratto da un sentimento di pietà, a commiserarle. Che se così non fosse, come potremmo noi esprimere, volendo attenerci strettamente alla medesima frase, lo stato di spavento in un'oca? Potremmo forse dire che l'oca ha la pelle di oca? Io comprendo ora come il quesito che andava formulando in quel doloroso viaggio a me stesso, fosse meno ancora che puerile e non consentaneo alla mia dignità di monarca; pure confesso che me ne trovava imbarazzato, e che fu in virtù di quell'imbarazzo che giunsi alla reggia senza che i motivi di terrore che mi circondavano, avessero potuto cagionare in me dei fenomeni più sensibili e più complicati. La reggia era un edificio stupendo; tutte le meraviglie, tutte le delizie, tutte le ricchezze dell'Oriente vi erano state accumulate a larga mano. Mio padre aveva saputo conciliare fastosamente la mollezza dei costumi orientali colla severa grandiosità dell'architettura europea. Non credo vi sieno in Europa reggie o palazzi di privati più eleganti; certo io non aveva né veduto, né immaginato mai edificio più sontuoso e più splendido. Quantunque le pareti fossero tutte in legno di noce d'India, gli intagli erano sì stupendi, e le decorazioni in oro, in avorio e in argento eseguite sì maestrevolmente, e con tanta grandiosità di dimensioni, che le proporzioni del fabbricato e l'eleganza di quegli ornati non erano inferiori a quelli di qualunque casa europea. Il mio appartamento speciale era uno di quei ritiri incantevoli che si sognano a quattordici anni, di cui spesso non si ha neppure la facoltà di concepire un'idea, uno di quegli edifici che l'architettura nostra costretta nei limiti inesorabili dell'arte e delle sue tradizioni, non avrebbe mai lo slancio e l'ardimento necessario a creare. Io vi rimasi sventuratamente sì poco che non potrei darne una descrizione dettagliata. Non ho serbato memoria che delle stelle mobili che si perdevano nell'azzurro del soffitto di cui non si vedeva il fine, e che gettavano onde di luce abbagliante del colore dello smeraldo. Forse in quel cielo artificiale era rappresentato un intero sistema planetario, co' suoi fenomeni, colle sue orbite, con tutte le sue leggi di evoluzioni. Ricordo il pavimento elastico e semovente, tutto tempestato di rubini, la cui azione di elasticità era combinata per modo, che cedendo dolcemente sotto la pressione del piede e rialzandolo tosto per forza propria, rendeva affatto nulla la fatica del camminare, in guisa che vi si avrebbe potuto passeggiare delle intere giornate senza provare il menomo sintomo di stanchezza. Mi sovvengono pure alla memoria alcune specie di incensieri che appesi a certi arpioni d'oro massiccio sporgenti dalle pareti, si dondolavano per moto proprio; ed emettevano un vapore profumato, in mezzo alle cui spire volteggiavano delle figurine nude, le quali cambiavano forma e colore ad ogni istante, e giunte ad una certa altezza, si assottigliavano e si scioglievano in fumo. Le esalazioni di quei turiboli agivano sì potentemente sui sensi che io mi sentiva come preso da ebbrezza, né poteva prestare attenzione al canto soavissimo di certi uccelli che non vedeva, ma che pensai dovessero essere rinchiusi in una gabbia sospesa nell'azzurro del soffitto. Non parlerò del mio letto, del mio trono, di tutti i mobili delle mie stanze; sarebbe impossibile dirne la foggia, l'uso, i dettagli; erano pelliccie sovrapposte a pellicce, tramezzate di strati di petali di rosa che si mutavano ogni giorno: le sedie si cullavano da sé, volendo ristavano: e le dame di corte - le più attraenti beltà di Potikoros - avvolte in un semplice velo color di rosa, andavano e venivano per le stanze, ansiose di sorprendere ogni mio più piccolo desiderio, ogni mio bisogno più insussistente, e soddisfarlo colla rapidità del pensiero. Appena posto piede nel mio gabinetto particolare, alcune di queste dame mi presentarono il mio nuovo costume di monarca, e si accinsero a spogliarmi del mio abito di borghese (sotto il mantello reale che avea indossato nel padiglione, io vestiva ancora in quell'istante un abito a coda di rondine, di cui non avevo per anco soddisfatto il conto al mio sarto) per mettermi in grado di presiedere al giudizio popolare in tutta l'imponenza, e in tutto lo splendore della mia carica. Ma il mio pudore non mi permetteva di cedere all'invito di quelle dame rispettabili; io mi sentivo salire il rossore fino alla punta del naso; e mi provai a far loro conoscere la mia ripugnanza con un discorso di questo genere: - Egregie signore ... compitissime signore ... le mie abitudini di toeletta; ... il rispetto che io nutro per le loro persone ... non mi permettono di mostrarmi qui in tutta la semplicità del mio costume naturale ... e oltre ciò, i miei arnesi di biancheria, le mie mutande ... in un viaggio sì lungo ... senza la risorsa del bucato ... esse capiranno .... E stava per aggiungere peggio, ma mi avvidi che nessuna di esse intendeva la lingua del mio paese; e non potendo far di meglio, lasciai fare, con quanta confusione da mia parte, permetto a' miei lettori di immaginarlo. Quando mi trovai vestito, attilato, serrato, come in una morsa, dalle cinture di quell'abito tutto ornato di lamine di metallo e di perle, avendo chiesto dell'ora fissata pel giudizio pubblico, e avendo osservato nel mio orologio, (un vecchio orologio di Ginevra che aveva avuto cura di regolare sul meridiano di Potikoros) che vi mancava una buona mezz'ora, chiesi di essere condotto al mio serraglio; e mi vi avviai in mezzo alle persone del mio seguito, parte delle quali mi precedevano agitando dei grossi ventagli di piume, e parte recando con sé alcuni di quegli incensieri che aveva già veduto nelle mie stanze. Dio! dove troverò io espressioni sì eloquenti che bastino a manifestare la sorpresa, la meraviglia che provai alla vista del mio serraglio! Io era rimasto muto ed estatico. Appena ebbi la forza di pronunciare alcune parole per accomiatare gli onorevoli ufficiali della mia casa che mi vi avevano accompagnato. Non farò una descrizione di quel luogo: sarebbe impossibile. L'eleganza, la mollezza, il lusso del mio apartamento erano uno sfarzo meschino a confronto della magnificenza di quello, tutto si confondeva in un'onda immensa di luce: era una di quelle illusioni ottiche che si provano nei sogni da fanciullo; qualche cosa di simile a quelle visioni che si ottengono a quell'età, vellicando le pupille col rovescio della mano. Qua e là negli interstizii d'un lungo colonnato erano appese delle reticelle di seta ripiene di veli e di pizzi, dentro le quali alcune delle mie fanciulle vestite in quel semplice e delizioso costume di Potikoros, si dondolavano agitando i loro piccoli ventagli. Altre stavano sedute su certi divani di raso azzurro, raccontandosi novelle di fate e di genii; altre mangiucchiavano confetti o coccole profumate, di cui mordevano la buccia coi loro dentini (credo aver detto che le donne del serraglio erano tolte tutte dalla tribù dei Denti bianchi) altre infine giuocavano con dei veli, con delle piume; o imbeccavano delle tortorelle che erano grandi quanto uno dei nostri scriccioli, e dei piccoli colibrì che non erano più grossi d'una farfalla. Opala (io l'aveva cercata collo sguardo appena posto piede in quel santuario) Opala già mutata d'abbigliamento e raggiante della bellezza più attraente, era seduta sopra un seggio più elevato, una specie di trono che occupava per segno di distinzione. La sua testa graziosa si riposava in attitudine di pensiero sopra un soffice guancialetto di velluto; i suoi piedini rinchiusi in una pianella impercettibile d'un tessuto serico quasi trasparente, posavano riuniti e composti sopra uno sgabellino d'oro e di avorio, le sue mani piene di una tacita voluttà le pendevano giù pei fianchi in atteggiamento di abbandono, e le sue lunghe palpebre mezzo socchiuse non lasciavano ben indovinare s'ella dormisse o sonnecchiasse per vezzo fantasticando. Al rumore de' miei passi (nessuna pianella del mio guardaroba reale avendo potuto calzare al mio piede, io portava tuttora il mio unico pajo di mezzi stivali a doppia suola), Opala si scosse, e vedutomi, scivolò giù dal suo trono, e venne ad inginocchiarsi a miei piedi. A quella vista tutte le reticelle sospese si abbassarono, non so come, fino al pavimento; le fanciulle ne uscirono così abbigliate come erano, e si prostrarono esse pure ad una breve distanza da noi. Una musica divina e sommessa incominciò in quel momento a farsi udire nel serraglio, e ad elettrizzarmi colle sue note. - Nobili dame, io dissi rialzando Opala, e rivolgendomi alle altre, cui accennai di fare altrettanto, prego .... insisto perché esse si alzino; qui non vi è etichetta di Corte, non vi sono leggi di convenienze ... Prego a voler considerare la mia persona reale come la persona di un semplice amico, come una persona di famiglia ... già; intendo introdurre delle modificazioni nel regime interno di questa nostra società ... voglio dire delle leggi d'uguaglianza una parità di diritti, un equa ripartizione di .... E non venendomi al balzo la parola che calzasse a dovere, temendo di prometter troppo, e desiderando per altro lato di trovarmi qualche istante solo con Opala, aggiunsi: già ... so ben io quel che intendo di fare ... Le prego intanto di risalire nelle loro reticelle, nei loro nidi ... le prego a rioccupare i loro divani ... io mi farò un dovere di venire più tardi .... col tempo ... appena lo permetteranno le gravose esigenze della mia carica, a rendere a ciascuna di esse l'omaggio del mio rispetto e della mia ammirazione. Fui grato alla Serenità di mio padre di aver introdotto nel sistema educativo del serraglio l'insegnamento della lingua del mio paese, poiché tutte quelle mie fanciulle, risalirono all'istante nelle loro reticelle; e Opala, prevenendo i miei desiderii, mi prese per mano e mi condusse nel suo gabinetto particolare. Ci sedemmo sopra un soffice tappeto di Persia. Io era sì stanco per le fatiche della giornata, e sì turbato da tutte quelle apprensioni d'ogni genere, che quello stato di prostrazione m'induceva quasi per bisogno alla tenerezza e ad una espansione confidente e sincera. - Quanto siete buona! io dissi ad Opala abbracciandola, quanto siete bella! Divina creatura! Voi mi avete preceduto in questa reggia, dove io non rimarrò forse molto tempo, e d'onde non mi sarebbe doloroso l'allontanarmi, se non fosse pel pensiero della vostra perdita. Non credeva di trovarvi subito qui, ve ne ringrazio; aveva proprio bisogno di sollevarmi un poco con voi dalle cure dolorose del mio Stato. - Io posso tanto sul vostro cuore? - disse la fanciulla - quanto ve ne sono grata! Oh, voi siete sì diverso da vostro ... era sì nojoso vostro padre. Non amava che di farsi raccontare delle novelle, di passeggiare su e giù per le nostre sale, di regalarci qualche balocco, di farsi accompagnare a braccetto fino alla soglia del suo appartamento, di farsi reggere da noi la coda dell'abito .... Era insoffribile, perdonate, ma era insoffribile .... Già, credo che avesse settant'anni. - Pressapoco. Ecco! Ma voi siete sì giovine, sì bello, sì vivace. Non sapete ... io tremava vedendovi nel padiglione ... temeva che vi si volesse costringere a subire quella barbara usanza del nostro paese. Non che mi impaurisse il pensiero che aveste a perdere il vostro trono, giacché vi avrei amato lo stesso, e voi mi avreste amata ancora di più; ma tremava per me medesima.. mi avrebbe fatto ripugnanza vedervi col naso forato, vi avrei abbracciato con dispiacere. Se aveste veduto vostro padre ... che figura faceva vostro padre col naso così trapassato da quell'osso! Ma ... ora come farete a sottrarvi a quel supplizio? Vi siete rifiutato di acconsentirvi? - Sì. - E credete di poter sfuggire all'adempimento di quest'obbligo crudele? - Non so, diss'io, ma per fermo sono risoluto a niegarmivi. Tanto più che voi mi preferite così, che non mi amereste altrimenti .... - Oh sì, sì, disse la fanciulla abbracciandomi con innocente civetteria, non voglio, io, che vi si guasti il naso, questo naso greco, questo naso così grazioso .... Ma del resto io vi amerei in tutti i modi. E se voi doveste abbandonare quest'isola io vi seguirei lo stesso. Non è vero che voi mi permettereste di seguirvi? Son io, dissi, che vi seguirei, che perdendo il mio regno, troverei un compenso adeguato nell'acquisto che potrei fare del vostro amore. Perché… soltanto che voi mi amiate, che siate disposta a rifuggirvi meco nel mio paese, io avrò la forza di oppormi a tutte le torture che mi minacciano. Credo che i tesori di mio padre superino di gran lunga le più ricche fortune che ci sono in Europa e in quanto ai mezzi di rimpatriare, i miei ministri sono abbastanza corruttibili - come tutti i ministri che ho conosciuto nel mio paese - per lusingarmi che vorranno accordarmeli. - Quanto sarei contenta di venire con voi nel vostro paese! Non crediate già che noi siamo felici qui dentro. Non amiamo nessuno, noi; non siamo amate da nessuno: io per esempio mi reputava assai sventurata prima di vedervi; ed ora ... sento bene che sarò felicissima con voi, tanto più se lungi di qui, perché ... queste dame ... ve ne sono delle graziose, delle più avvenenti di me .... - Non è possibile, io dissi con asseveranza. - Oh, sì, diss'ella ve ne sono delle più graziose ... e voi le amereste. - Mai. - Voi le amereste. - E via, diss'io abbracciandola, non pensate a queste cose. - Una scena di gelosia, a quest'ora, ruminava intanto tra me stesso; e vedendo che Opala aveva gli occhi inumiditi di lacrime, pensai di dare una diversione più lieta al nostro discorso. Ma non trovava argomento di una diversione che tornasse anche acconcia a' miei disegni. Cambiai argomentazioni di sbalzo. - Che occhi furbi che avete, le dissi affissandola con aria che stava tra l'ammirazione e l'insolenza. - Non è vero. - Sì, è vero, avete degli occhi meravigliosi veramente! E che capelli! Lasciatemi toccare .... che trecce piene, abbondanti! Ma non avete freddo ai vostri piedini, così, con quelle pianelle sì trasparenti? - No. - È impossibile. Che piccoli piedi! scommetto che sono più brevi della mia mano. Vediamo, lasciatemi misurare. - Ecco. - Vedete: avanza tutta l'unghia del dito, tanto così .... Siete pur graziosa! Come non amarvi? Bellissima creatura! - Via, via, voi mi adulate .... - No, non è vero. - Sì. - No, ve lo giuro. - Giurate soltanto di amarmi. - Lo giurerò dopo. Datemi un bacio. - Ecco. Ma Opala aveva detto troppo presto questa parola. Mentre che ella curvava il suo volto sul mio si arrestò a mezzo dell'atto: la fanciulla aveva ascoltato un rumore improvviso all'uscio del gabinetto. - Affrettatevi, diceva dal di fuori colla sua voce stentorea, il mio primo ministro, l'ora del giudizio è già trascorsa, e la folla vi attende con impazienza; un indugio maggiore potrebbe peggiorare le gravi complicazioni politiche in cui versiamo, non fatevi aspettare più oltre. Mio Dio! io dissi, interrogando di nuovo il mio vecchio orologio di Ginevra, è vero, l'ora fissata è trascorsa di qualche minuto. Ma è un abuso cotesto .... ho o non ho un'autorità sovrana, assoluta? Disturbarmi, sorprendermi così nelle mie stanze, interrompermi durante le espansioni più doverose delle mie tenerezze domestiche? Se giungo a consolidarmi sul trono, rifarò da capo il regolamento interno della mia casa. E ricordandomi che il ministro attendeva fuori dell'uscio - vengo, soggiunsi a voce più alta, sono da voi, avvertitene il popolo. Quindi abbracciai la fanciulla che mi diceva: è un vero dispetto, venirvi ad importunare a questa ora. Che orrore! Ma ci rivedremo stassera. Mi avviai alla sala del giudizio: era mia intenzione di tenere un contegno severo, di impormi, di farmi temere; ciò che pareami sarebbe tornato assai più efficace di un'indulgenza che i miei sudditi erano ben lungi dal meritare. Oltre a ciò aveva in animo d'introdurre nelle leggi dello Stato alcune disposizioni, la cui saggezza avrebbe potuto dare il concetto più lusinghiero della mia sapienza governativa. - Sarò severo, diceva tra me stesso, ponendo il piede sul limitare della sala, sarò inflessibile: e debbo confessare che in quel momento la mia anima macchinava tristi progetti a danno del mio popolo. Se io riesco a consolidarmi sul trono; se coi tesori di mio padre potrò formare un partito numeroso alla mia causa, muterò sull'istante i vecchi statuti del Regno - ruminava tra me medesimo - e cambierò il governo costituzionale che mi tiene legate le mani in un governo dispotico. Farò, come mio padre, un colpo di Stato. Che cosa è questo governo costituzionale? Una derisione per la mia persona, per la mia qualità, per le tradizioni gloriose della mia casa. Il popolo fa ciò che gli aggrada, e io debbo accennare della testa come un fantoccio snodato di Norimberga quando gli si tira il filo che lo fa gestire. Aveva appreso nel mio paese come si debba governare una nazione: allora era suddito, adesso era re, ma non si trattava che di invertire le parti. - Guai a quel capo dello Stato, ripeteva a me stesso, che non sa fare del suo popolo tanti tipi perfetti di cretino, che invece di pensare a fruire di tutte le risorse della sua posizione, e a dare al paese buon numero di sudditi di sangue reale e plebeo incrociato, si occupa coscienziosamente dell'avvenire e della dignità della nazione che gli ha affidato i suoi destini. Questa testa coronata è una testa già distaccata dal collo. La civiltà è una mannaja che taglia le teste coronate. Io confesso che il mio orgoglio non lasciava più alcun limite alla mia fantasia. In quell'istante di entusiasmo, la teocrazia stessa era ancora poco per la mia ambizione. Entrai nella sala, e presi posto sul trono: a' miei fianchi stavano i ministri, d'innanzi a me i colpevoli, all'intorno la folla. I Denti neri si alzarono e mi fecero un'ovazione fragorosa; ma quegli scellerati Denti, bianchi coi loro orribili denti bianchi, armati dai piedi alla testa, mi guardarono torvi e sdegnosi tacendo. Feci allora un piccolo discorso di occasione che provocò qualche applauso dalla tribuna dei giornalisti stipendiati; dopo di che tentai il mio colpo d'effetto; domandai che mi si portasse la raccolta delle leggi dello Stato, e pregai il mio segretario particolare a dar lettura dei nuovi regolamenti che io aveva raffazzonati a questo scopo lungo il viaggio, e che intendeva inserire in quegli Statuti. Consistevano in una serie di articoli relativi all'abolizione del melodramma dal teatro Potikorese, basati su queste ragioni: essere il dramma musicale il non-senso più enorme, l'assurdo più mostruoso e più ridicolo di cui la scienza si sia resa colpevole. A questo progetto ne andava annesso un altro relativo ai mimi, ai ballerini, ai tenori e ai baritoni dalla trachea più o meno dilatata; ai primi dei quali doveva essere inflitta una pena di ridicolo pel diritto di esercitare il loro mestiere, e ai secondi s'imponeva l'obbligo di ricordarsi consistere tutto il loro merito nella forma e nella dimensione della trachea. Un secondo progetto di legge regolava i diritti degli autori e degli editori. Cinquanta articoli si riferivano esclusivamente a questi ultimi, ed erano sì severi e ad un'ora sì giusti, che mi sento addoloratissimo di doverli ora tacere in causa della loro prolissità. Mi limito a rammentare che in uno di essi, per un caso di pirateria libraria, era proposta la pena della sospensione pei piedi fino a totale estinzione di vita, - e credo che fosse poco. Altri articoli stabilivano pene pei delitti letterari. V'erano severamente puniti i lavori di collezione e di circostanza; quei lavori di schiena che si atteggiano a lavori di testa, ec. ec. Un'appendice a questa disposizione interdiceva alla classe dei professori di credersi letterati, e li chiamava responsali d'innanzi alla posterità della istruzione eunuca e della catalessi intellettuale che è condannata a subire la giovine generazione dei tempi nostri. Un'altra disposizione legislativa toccava delle fame imposte e delle fame usurpate; proponeva pene pei letterati funamboli; condannava a perpetuo bando dall'isola i poeti che si fossero attentati a dar lettura dei loro versi a qualche infelice costretto a subire questa violenza, e vietava finalmente la rappresentazione del dramma e della tragedia - considerate come le più ridicole parodie del dolore e delle sciagure umane. Erano, in una parola, un complesso di leggi inspirate dalla più alta saggezza, e la mia mortificazione non fu sì grande come la mia meraviglia quando intesi che esse erano già state introdotte nel Codice di Potikoros, fino dal tempo in cui quest'isola si reggeva a repubblica. La repubblica aveva dunque giovato a qualche cosa? Per la prima volta io compresi che il Due dicembre di mio padre aveva avuto in sé tutto il carattere di un tradimento indegno, e mi sentii tratto a fare un apprezzamento più benigno di quegli onesti Denti bianchi che coi loro atteggiamenti minacciosi, e coi loro terribili incisivi foggiati ad uncino, reclamavano la ricostituzione del primo sistema governativo dello Stato. Ma in quel momento non poteva, come avrei voluto, soffermarmi su queste considerazioni; e d'altronde il mio interesse personale mi avrebbe reso ingiusto nell'apprezzarle. Credete voi che tutti coloro che sedettero - come io ho seduto - su un trono, non abbiano fatte le stesse considerazioni, benché le abbiano poi soffocate nel fondo della coscienza collo stesso spirito di egoismo? Un fatto meraviglioso si presenta, fino dalle prime epoche della storia dei popoli, agli occhi dell'osservatore e del filosofo. Cinque o sei furbi matricolati regolano a bacchetta i destini di tutta questa massa sterminata di pecore che è l'umanità. Ho letto, non so più dove: mala bestia esser l'uomo, divina cosa la umanità. Non è vero! Per me ho dovuto sempre guardare all'uomo, all'individuo, alla creatura isolata per sapermi trovare meno in disagio colla massa degli uomini; mi sono riconciliato alla meglio, dacché vivo, con tre o quattro di loro, ma credo che non mi riconcilierò mai col resto dell'umanità. D'altronde questa credenza ha cessato di addolorarmi. Ma bando alle digressioni. Era tempo d'incominciare il giudizio, e feci perciò avanzare il primo colpevole. Fu data lettura dell'atto d'accusa. Io era tutto orecchi nell'ascoltare, anzi per servirmi d'una frase inglese, era tutto un orecchio, poiché non ignorava che il mio destino dipendeva totalmente dall'esito di quel giudizio. L'atto di accusa era concepito press'a poco in queste parole: «Akriundaz, della provincia di Pikliya-pokenos, di anni trentadue - della tribù dei Denti neri, di professione incettatore di merli bianchi, è imputato del furto di due pani rubati nella bottega Srikis Tenariasbikeloz esistente sul corso principale della nostra città di Potikoros, con rottura d'un vetro, e senza circostanze attenuanti». Benché la lettura di quell'atto scritto in lingua Potikorese avesse fatto poco meno che spezzarmi i timpani delle orecchie, riordinai come sapeva meglio le mie idee, e invitai l'imputato ad esporre le sue difese. - L'incetta dei merli bianchi, disse egli, essendo diventata più difficile e meno lucrosa per l'introduzione del merlo nero operata dalla Serenità di vostro padre nella nostra isola, e in causa dell'omaggio che vien reso ad esso dal popolo, essendo caduti in dispregio i merli dell'altro colore, io mi sono trovato da qualche tempo fuori della possibilità di vivere dei frutti del mio commercio. Ho chiesto stamane all'onorevole fornaio Tenariasbikeloz che mi fossero dati ad imprestito alcuni pani. Rifiutandomeli egli io ho spezzato un cristallo della vetrina e ne ho tolti due. Io sono un onesto Dente nero. Causa essenziale di questa violenza, fu l'intenzione che aveva di festeggiare, come mi permettevano i miei mezzi, l'assunzione di Vostra Maestà al trono di Potikoros. Questa difesa cui non mancava l'intingolo dell'adulazione, mi dispose in favore dell'imputato. - Avreste dovuto, io dissi, far conoscere alle autorità del vostro paese - parmi, se non erro, Pikliya-pokenos - che vi trovavate nelle circostanze che avete esposte; quel solerte questore di polizia vi avrebbe autorizzato a chiedere l'elemosina senza violare le leggi dell'onestà con una appropriazione sì violenta. - A chiedere l'elemosina! disse meravigliato il mio ministro. E vide che gli uditori avevano sbarrato tanto d'occhi nell'udire quelle parole. - Sì, ripresi io, a voce più alta, lo si sarebbe autorizzato alla mendicità, lo si sarebbe munito di apposita placca, come corre l'uso nei paesi civili dell'Europa. Un bisbiglio immenso si sollevò dalla folla, un bisbiglio di disapprovazione universale. Io sentii salirmi il sangue dai piedi alla testa, e subito precipitare dalla testa ai piedi, e rimontare di nuovo alla testa. - Ignoro, aggiunsi con coraggio, quali sieno le leggi di polizia di questo paese, ed è evidente che non possa sull'istante conformarvimi. Sarà mia premura di prenderne subito cognizione. - Tra noi, interruppe il mio segretario particolare, non è ammessa in alcun modo la mendicità; appena conosciamo il significato di questa parola per le notizie che abbiamo avuto delle usanze invalse in Europa. Nell'isola di Potikoros ogni suddito ha diritto al lavoro; e in caso d'impotenza, ha diritto al mantenimento a spese dello Stato. - Sono leggi veramente saggie, io dissi, veramente apprezzabili. Ringrazio il mio degno segretario particolare di avermene reso informato; ma .... riprendiamo il corso del nostro processo: L'onorevole fornaio .... - Tenariasbikeloz, suggerì uno dei ministri. - Tenariasbikeloz .... si trova egli presente all'udienza? In questo caso deponga se è vero che l'imputato gli abbia chiesto ad imprestito i due pani prima di rubarglieli. Il fornaio si avvicinò al tavolo della presidenza e depose esser vero. - Quando è così, io ripresi, atteggiandomi a severità, udite le giustificazioni dell'accusato, visto la necessità di mantenere inviolate le leggi fondamentali d'ogni diritto civile, tenuto conto dell'asserzione del derubato, e delle altre cause attenuanti, condanno il nominato Akriundaz - credo Akriundaz, incettatore di merli bianchi, alla pena di quattro anni di lavori forzati. Non avessi mai pronunciata quella sentenza! Un urlo di disapprovazione si sollevò dalla folla, un urlo così fragoroso e feroce che i miei stessi ministri se ne sentirono impauriti I capelli mi si drizzarono sì rigidamente sul cranio, che m'accorsi che la mia corona doveva essersi sollevata due buoni pollici dalla testa. I Denti bianchi, digrignando i loro terribili incisivi, domandavano che ne andasse libero l'accusato, e che si sottoponesse invece a processo l'onorevole fornaio Tenariasbikeloz: adducevano a pretesto il diritto che egli aveva di appropriarsi quei pani che aveva chiesti, e che gli erano stati rifiatati; e citavano non so qual articolo di legge, nel quale era detto che ogni cittadino resosi, per qualsifosse ragione, impotente al lavoro, poteva esigere il mantenimento gratuito a spesa dei privati ricchi e dello Stato. Io non so come giungessi a sedare quel tumulto. La fermezza del mio contegno e quella de' miei ministri - sento il dovere di rendere loro questa giustizia - riuscirono a poco a poco a ristabilire un po' d'ordine nella adunanza. La minaccia di far sgombrare la sala da un mezzo pelottone di Denti neri ottenne il suo effetto. Quando la calma fu ristabilita, ordinai che si facesse avanzare il secondo colpevole. Era il direttore del giornale Il Giudizio Universale (il giornale ufficiale di Potikoros) accusato di aver recato il disonore in una onesta famiglia con alcune taccie infamanti, destituite d'ogni verità. L'onorevole direttore parevami una persona seria e meritevole d'ogni riguardo, oltre di che io mi trovava in certo qual modo legato a lui da una vecchia intimità di famiglia, e sentiva il dovere di difenderlo e di pronunciare per esso una sentenza assai mite. - Ove è il gerente? io chiesi: se l'accusato non è direttore responsabile, si conduca qui il gerente e si lasci libero il giornalista. - Il gerente! esclamò il mio giudice istruttore, che cosa è il gerente? Può egli darsi che una persona qualunque si faccia responsabile dei reati di un'altra? Puniamo i reati, o puniamo le coscienze? - Un tale sistema, io dissi, è invalso in tutte le nazioni d'Europa, né io posso giudicare di questa accusa senza conoscere le leggi speciali che regolano la stampa Potikorese. D'altronde .... parmi che questo sia un fallo assai mite; una semplice riprensione .... un semplice ammonimento - Indugierò, ad ogni modo, a pronunciare la mia sentenza fino a che non avrò presa cognizione delle leggi che ho ora accennate. Prego l'onorevole magistrato a fare avanzare il terzo colpevole. Uscitone in tal guisa pel rotto della cuffia, gettai gli occhi sulla folla per conoscere l'impressione che vi avevano prodotto le mie parole. Il disordine si era in parte rinnovato; non era precisamente lo stesso scompiglio, la stessa disapprovazione plateale di prima; ma poco meno. Si vedeva chiaro che la impazienza dell'uditorio stava per prorompere in una dimostrazione più energica e più difficile a reprimere. L'interesse che destava il terzo accusato ebbe virtù di distogliere in tempo i loro animi da questa disposizione. Era egli un alto funzionario governativo, imputato di grave prevaricazione per una somma di molti milioni sottratti alle casse dello Stato. Come suole avvenire in simili casi, le prove erano bensì manifeste, ma confutabili in mille maniere, e facili ad essere ritorte a danno di altri funzionarii. Io diressi ed illuminai in alcuni punti lo svolgimento del processo; ma benché fosse universale la convinzione che si aveva del suo reato, le prove volute dalla legge non avevano tutti i dati necessarii per autorizzarmi a pronunciare un verdetto di colpabilità. Io mi trovava posto in una titubanza terribile - era il caso dell'incudine e del martello - e considerando che l'accusato era un Dente bianco, e faceva parte di quella tribù di cui doveva starmi specialmente a cuore il favore; che egli apparteneva alle alte sfere governative, nelle quali è stabilito il principio che una mano lava l'altra, che questa appropriazione sarebbe stata considerata nel mio paese come una bagattella di nessuna importanza, come uno spostamento di cifre (è la parola addottata da alcuni governi costituzionali per definire i furti governativi) credetti mostrarmi abbastanza severo nel pronunciare una sentenza che lo spogliava semplicemente della sua qualità, e lo esonerava dalla sua carica. Fu la scintilla che cagionò l'incendio: il furore del popolo proruppe sì vivo, sì unanime, sì violento che io mi avvidi subito che non vi era più mezzo a contenerlo. I miei stessi ministri erano rimasti meravigliati della stoltezza del mio giudizio; e temendo che i rivoltosi non li considerassero come facienti causa comune col re, si affrettarono a ritirarsi prudentemente nelle anticamere. Io rimasi come paralizzato, come pietrificato sul trono; e solamente alcuni istanti dopo, quando mi avvidi che la folla gridando «abbasso il re, si destituisca il re,» ed altre graziosita di questo genere, si accingeva a superare lo steccato per impadronirsi della mia persona, pensai a mettermi in salvo nell'interno della reggia. Non dirò quali fossero i pensieri che mi passavano allora pel capo, - rapidi, vari tumultuosi, inutili tutti .... Fu però un'incertezza di un istante. Quando vidi che le persone della mia casa cercavano di rifuggirsi nei gabinetti segreti, e non solo non avevano a cuore la salvezza della mia maestà reale, ma era molto se non attentavano essi medesimi alla mia vita; quando intesi che il tumulto popolare andava orribilmente crescendo, e che i Denti bianchi erano già penetrati in alcune sale della reggia, deliberai di cercare salvezza nella fuga. Mi precipitai verso il mio serraglio, poiché non sentiami la forza di abbandonare il mio regno senza portarne meco la fanciulla che mi aveva affascinato, e abbracciando Opala, le dissi: La rivolta sta per spogliarmi del regno e della vita .... fuggiamo, vieni meco: io sarò ancora il monarca più felice, il più ricco, il più fortunato se potrò trascorrere il resto della mia esistenza con te .... se tu sarai mia, mia cara Opala, mia dolce fanciulla! Sì, sì, fuggiamo nella mia patria, dove la dignità e la coscienza popolare assicurano la monarchia da questi pericoli, dove i re non sono costretti ad infiggersi un osso di balena nel naso, ma menano essi stessi pel naso i sudditi devotissimi .... vieni, vieni .... Ma lascia prima che io prenda i tesori di mio padre .... Ove sono i tesori di mio padre? quel diamante favoloso, quegli smeraldi .... Opala allacciandomi il collo colle sue braccia bianche e delicate, mi diceva colla voce interrotta dal singulto: - Non uscire, non uscire di qui; forse i Denti bianchi non entreranno in questo tempio, rispetteranno il culto che queste vergini rendono all'amore, forse .... - Ma è impossibile, io interruppi, fuggiamo, fuggiamo, ripariamo verso il mare; se possiamo attraversare la capitale senza essere conosciuti, se ... Ma in quel momento si spalancò l'uscio del serraglio, e una turba di Denti bianchi apparve minacciosa sul limitare, Io non vidi che una cosa, i loro denti, tanto essi erano orribili, tanto erano bianchi, lunghi, aguzzi, scoperti dalle labbra che l'avidità del mordere aveva rovesciate e contratte in una smorfia feroce. Lo ripeto, io non vidi che i loro denti; e in questo stesso momento in cui scrivo, quelle orribili rastrelliere che si digrignavano da sé, come segregate dal resto della persona, come attaccate a qualche cosa d'impercettibile, mi balenano dinanzi agli occhi simili alle dentiere artificiali d'un cavadenti collocate per mostra sopra un fondo di velluto nero in una vetrina. Vederli e rabbrividire, e rimanere là immobile e paralizzato sul luogo, come se vi avessi messo radici, fu un punto solo. Un Dente bianco si spiccò allora dal limitare dell'uscio, e venne verso di me, avventandomi una specie di giavellotto che teneva fra le mani. Fu un istante. Opala lo vide, si rivolse, si interpose, e ... oh mio Dio! ... ricevette ella stessa il colpo mortale che mi era stato diretto. Non tenterò qui di evocare quella memoria terribile. Io vedo ancora il suo candido seno lacerato da una ferita profonda, vedo i suoi grandi occhi nuotanti nella morte e nelle lacrime, e ascolto le sue ultime parole interrotte dall'anelito: «io muoio per te ... io ti ho amato .... ricordami.» Commosso, tratto di senno, inferocito a quella vista, volli allora avventarmi, inerme come era, contro i ribelli ... ma quelle orribili rastrelliere mi balenavano ancora dinanzi agli occhi; io le vedeva ancora là, lunghe, bianche, isolate come le dentiere del cavadenti; e sentiva quel rumore sordo, quello scricchiolio freddo e secco che producevano digrignandosi. Mi arrestai a mezzo dell'atto; qualche cosa di nero mi passava dinnanzi alla vista; sentii che le mie forze mi abbandonavano ... vacillai e caddi privo di sensi. Quando rinvenni mi trovai carico di catene, e circondato da alcuni vecchi denti bianchi, i quali avevano costituito un apposito Consiglio di guerra per giudicarmi. Mi fu letto l'atto di accusa, nel quale mi si imputava di aver voluto sovvertire gli ordinamenti dello Stato con una interpretazione falsa e speciosa delle leggi che lo governavano: di aver fatto atto di disprezzo verso le usanze del paese - usanze che avevano forza di legge - rifiutandomi a trafiggere il mio naso greco con quell'ornamento grazioso di balena: di aver poste in grave pericolo la quiete e la sicurezza della nazione, costringendola, in seguito alla mia decadenza dal potere, a riadottare la forma primitiva di governo, il regime repubblicano, o ad eleggersi un re nazionale. In causa dei quali reati io veniva considerato come decaduto dal trono di Potikoros, e condannato alla pena della morte per sospensione. Fui invitato ad esporre le mie difese. Anzi tutto, io dissi non posso ammettere in questo onorevole Consiglio di Denti bianchi il diritto di giudicarmi. Io vedo qui rappresentata una sola metà della nazione. Ove è l'altra metà? Ove sono i degni rappresentanti dei Denti neri? Ma ove pure essi facessero parte di questo consesso, i diritti di un re non posson essere discussi da suoi sudditi, e le sue colpe - se un re può commettere delle colpe - non possono essere né giudicate, né punite da essi. Io venni qui, in un paese i cui ordinamenti si erano rilassati per un lungo interregno, nel quale la demagogia incominciava a difondere le sue dottrine rivoluzionarie, le cui leggi erano violate da un'anarchia impossibile ad arrestarsi. Io vi venni chiamato dal suffragio popolare, invitato da una rappresentanza della nazione, eletto dal voto di tutti i governi d'Europa. Io venni a governare questo popolo cieco e traviato che aveva bisogno di essere ricondotto sotto il regime della monarchia: vi venni per un puro istinto di umanità, per un semplice spirito di abnegazione. Affetti e interessi mi trattenevano in Europa. Il mio sangue, il sangue di mio padre, è uno dei più antichi e dei più nobili tra tutte le dinastie di quel gran continente incivilito. Io ho avuto pietà di voi; io era venuto ad apportarvi l'ordine e la felicità che regnano in molte capitali di quegli stati; mi era sacrificato a mutare il mio berretto di cotone europeo in un turbante di penne, a ricevere quaranta milioni di appannaggio, a comandare a quaranta milioni di sudditi, a vivere da monarca in questa reggia ... aveva fatto tutto questo per voi; quale è la ricompensa che mi avete accordata? Sdegno giustificarmi più oltre: la razza dei re è una razza speciale, e ogni re che si rispetti non può ammettere in voi il diritto di giudicarlo. Gli storiografi stipendiati, i sudditi devotissimi di cui non vi sarà mai deficienza nelle generazioni future mi giudicheranno. Ho detto. Uno scroscio di risa feroci accolse le mie parole, e delle voci si sollevarono dalla folla che gridavano: alla corda, alla corda. Fui condotto al luogo destinato ai supplizii. Quivi un abisso profondo, immenso, si apriva nel seno di una montagna: in fondo alla voragine, sulle punte di granito e di metallo taglienti come lame, roteavano stormi di astori e di aquile. Fui legato ad una corda annodata alla punta di un albero, il quale inclinandosi sull'abisso, ne guardava il mezzo colla cima. Prima che la corda abbandonata a sé, mi sospendesse perpendicolarmente sulla voragine, io diressi ancora alcune parole ai Denti bianchi: - Domando, io dissi, che la salma reale sia trasportata in Europa, per ricevere sepoltura nelle tombe de' miei padri. Che, ove non ottemperaste a questo desiderio, la mia nazione invierebbe immediatamente la sua flotta a bombardare i porti di Potikoros, e impadronirsi dell'isola. Né io pensava in quel momento che era impossibile tornar da quell'abisso, e che mi sarei fatto a brani cadendo sulle punte di granito che formavano il fondo. E comprendeva benissimo che la mia salma doveva aver nulla di più sacro della salma d'un zoccolante; poiché il corpo d'un re e quello d'un mendico producono la stessa specie di vermi; e, come aveva letto nel Amleto, si può gettar l'amo ad un pesce col verme che mangiò di un re, e un mendico può mangiare di quel pesce, per modo che il corpo di un re entri nelle viscere di un mendico. Nondimeno la mia vanità mi spinse a proferire quelle parole. Vanità inutile, poiché i Denti bianchi tornarono a sorridere di quel sorriso feroce che mi aveva poc'anzi agghiacciato il sangue nelle vene, e a contrarre le labbra a quella smorfia infernale, di cui non saprei darvi un'idea se non richiamandovi alla mente quello scoprirsi delle mandibole che osserviamo nei mastini e nelle fiere quando stanno per avventarsi, e che noi soliamo indicare col dire: mostrano i denti. Non si frappose più indugio alcuno al mio supplizio. Fui condotto sull'orlo della voragine, e spintovi in guisa che, essendo stato annodato alla corda, mi trovai sospeso perpendicolarmente sopra l'abisso. I cavalieri dei Denti bianchi, i miei stessi ministri, le persone più autorevoli dello Stato disposti in circolo sull'orlo della voragine, tentavano di tagliare a colpi di freccia la corda che mi teneva sospeso. Era un supplizio lungo, lento, crudele, atrocissimo. Ogni trecciolino della corda tagliato si arricciava da una parte e dall'altra, assottigliando sempre più il centro di essa, su cui erano dirette le freccie. Dopo due ore di patimenti infiniti, la corda rotta in più luoghi, non reggeva più che per un semplice filo al mio peso. Curvandomi e guardando sotto di me, io vedeva l'abisso nero e profondo che mi attendeva, gli uccelli di rapina che aspettavano il mio cadavere per divorarlo, e qua e là le ossa imbiancate degli infelici che avevano subito prima di me quel supplizio tremendo .... Un solo filo reggeva ancora la corda, le freccie passavano fischiando da tutte le parti e non la colpivano: io guardava la corda e l'abisso, poi la corda, poi ancora l'abisso, e mi contraeva, mi arricciava, mi aggomitolava, come avessi potuto con ciò sollevarmi dal fondo della voragine. Non so quanto durasse quell'agonia. A un tratto una freccia colpì nella corda, la ruppe, precipitai, innalzai un grido di orrore e ... oh mio Dio! .... mi svegliai, e mi trovai nel mio letto. - Che vergogna! mi disse Elettra appoggiata col gomito ai mio capezzale, è da jeri sera che tu dormi; sono ora ventiquattro ore .... - Ventiquattro ore! - Sì cotesta tua abitudine di bere ... io ti vegliava inquieta ... - Ventiquattro ore! ripetei tra me stesso stordito: un sogno di un giorno, perocché adesso ... - Siamo di sera. Hai, dormito un giorno intero. - Un giorno! Ed ora, miei lettori, dubiterete ancora che non sia questa la storia di un giorno della mia vita?

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Bestie

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Tozzi, Federigo 1 occorrenze

La luna che io non potevo vedere, la illuminava così bene di sotto che quasi abbagliava gli occhi; specie la sua punta; mentre il turchino del cielo s'era fatto più nero, senza stelle. Quando smisi di guardarla, e girai gli occhi intorno, mi sentii smarrito e per morire subito; ed avrei avuto bisogno di appoggiarmi: ma mentre così aspettavo che mi passasse il malessere e di tornare bene in me per andarmene, mi rasentò, come se fosse mandato da quella stesa di nebbia così alta, un vipistrello. * * * Dove vai tu ch'io sento parlare e perciò riconosco? Tu non esisti, ma io vedo lo stesso come sei vestita; ti vedo camminare, ti sento vicina; e scorgo bene il tuo viso. Allora, non mi rimane che mettermi a scrivere, perché ci sentiamo già d'accordo; ed io qualche volta suggerisco e finisco i tuoi pensieri, e qualche volta bisogna che ti ascolti. Tu sparirai come una bolla di sapone; anzi bisogna ch'io mi affretti perché tu mi giri intorno con troppa fretta, rapidamente. E se m'avvicinasse una persona di casa, ecco tu, o allucinazione, te ne andresti dietro la porta; ed è probabile che tu non tornassi. Potrei raccontare con precisione come sei pettinata, come tieni le mani. Ma ecco sento chiacchierare da vero; e un piccione, beccando a un vetro della finestra, ti strappa da me. * * * Per lo più i nomi di quelli che fanno parte d'una famiglia acquistano un'armonia che li riunisce, sembrano fatti d'una stessa materia, come i chicchi di un rosario. Già i nomi, che si tramandano da avo a nipote, completano questa fisionomia. Delle persone che amiamo, dei nostri parenti, non rimane nel tempo che il loro nome; quand'essi non sono né meno doventati fotografie sbiadite negli angoli meno visibili del nostro salotto. Siccome la mia zia era morta povera, non avevo mai più aperto l'armadio dove stavano ancora i suoi abiti. Soltanto dopo cinque anni, dovendo ripulire la casa per prendere moglie, untai con la penna e con l'olio la serratura prima di ficcarci la chiave piena di ruggine. Dunque dicevo che la mia zia aveva una voce che ricordava le pasticche biascicate senza che nessuno se ne avveda. Tutte le volte che veniva a cercarmi, ch'io l'avessi chiamata o no, teneva le mai, una dietro l'altra, nel grembo. Quando se ne andava, era certo che le moveva perché aveva intenzione di mettersi a qualche faccenda. Si chiamava Betta, ed aveva cinquant'anni quando morì di male nervoso. La sua vita ch'ella non mi confidava, il suo modo di parlare per nascondersi di più che fosse possibile; per me non era che una vecchia vestita male, con molte grinze, senza denti, senza sentimenti, affezionata, paziente, modesta. Accendeva i fiammiferi soltanto sull'impiantito, a mangiare ci metteva tre volte più di noi e mangiava meno, voleva essere l'ultima ad andare a letto, la prima ad alzarsi; quando non faceva niente, s'appoggiava sempre a qualche cosa, in cucina, alla madia; si confessava ogni mese; era di stomaco debole, non le piaceva l'agnello; non sapeva né leggere né scrivere; canticchiava quand'era sola. Tutte le cose che diceva riguardavano solo quelli della famiglia. Per solito cominciava così: "Il mio povero marito ...". Aveva tre figliole tutte sposate, che andava a trovare per le feste solenni. Era invecchiata tra cinque casupole, che chiamano Ferraiola, a ridosso d'una scorciatoia scavata sul galestro e le macchie di ginepro. Questa scorciatoia è l'ultima svoltata, dinanzi al lavatoio, che si trova per salire a Pari; e porta, passando da casale, fino a Paganico e poi a Grosseto. La prima figliola stava a Pari, ossia distante meno di mezzo chilometro da Ferraiola; ma la zia non si sarebbe mossa da casa senza mettersi il miglior vestito, e parlava di Pari come di un territorio straniero, a cui non s'appartiene e con il quale non c'è niente da vedere, dove non si va che di rado e il meno possibile e per qualche ragione speciale. Non importava che dalla sua finestra vedesse tutto il cocuzzolo del caseggiato! L'ultima volta che la mia zia venne da me, mi portò, dentro un fazzoletto, due conigli da razza che le graffiarono le mani. Bisognò disinfettargliele; ed ella non voleva e ci pianse. Nei grandi prati, che mi piacevano anche prima di leggere il Petrarca, torno per vedere i fiori che avrei offerto, molti anni fa, a qualche ragazza che me l'immaginavo come ora la vedo disegnata in qualche libro. Doveva esser soprattutto buona e sentimentale; e mi doveva amare sempre lo stesso quantunque l'avessi sposata. E, qualche volta, rileggendo le nostre lettere, dovevamo sospirare insieme. Ma i fiori ci sono anche quest'anno e forse di più, perché il tempo è stato meno secco; e allora mi vien voglia di correre verso l'orizzonte per vedere se mi riesce d'abbracciare questa donna che mi pare più viva di prima. Ma c'è soltanto una rondine che stride. * * * Le notti d'estate non dormivo: e, s'ero andato a letto piuttosto presto, mi rialzavo e uscivo.È strano come la notte mi sia impossibile pensare a quel che ho fatto il giorno! È per me un altro mattino che comincia. I miei sogni, allora, sapevano d'aceto od erano voluttuosi. E le strade solitarie dove i lampioni parevano acchiapparsi al muro per non cadere dalla stanchezza, svegliavano tutti i miei brividi, e cercavo per l'indomani gli amici e la donna da amare, che non avevo mai. Quando tirava vento, qualche manifesto staccato, sotto un arco, sbatteva al muro, e anche il mio cuore sbatteva. Quando amavo sempre la medesima, mi piacevano i tetti rossi e i geranei. Di primavera m'ostinavo a doventar cattolico e d'inverno sognavo di doventar ricco. Ah, non dimenticherò che ella si faceva togliere le calze da me perché le baciassi i piedi, si faceva sbucciare le frutta, mi bruciava il viso con la sua sigaretta! E perché, quand'ella mi teneva abbracciato, io guardavo noi due nello specchio e non sapevo se fossimo di qua o di là da esso? E perché dimenticavo perfino il mio nome? Ella mi aveva ingannato sempre, ma ero così abituato a lei che l'amavo egualmente. E per la stessa ragione che l'orsa la notte splendeva, così doveva esserci il mio amore; e mi pareva che la mia bocca fosse nata soltanto per baciare lei. Ah, sì! Mi piacevano i tetti rossi, i platani pieni di foglie, le acacie quando avevano messo i loro fiori, i muri delle strade e le finestre chiuse! Ma più di tutto, lo ripeto un'altra volta, mi piacevano le distese dei tetti rossi ch'erano una festa per la pioggia e per il chiaro di luna che mi faceva stare con la testa ai vetri. Pensavo, in vece a cose che avrebbero dovuto nascere l'indomani e che io stesso dimenticavo. Non so di che mi vergognassi. In campagna mi fermavo sotto un albero che aveva i rami troppo schiacciati, e gli offrivo di sorreggerli con la mia anima. E prima d'entrare in una strada io mi ci affidavo tutto. La stessa città mi pareva forse più di cento città; quella di quando avevo vent'anni non somigliava a quella di venticinque; la molta gente, che conoscevo, mi faceva lo stesso effetto di un pianoforte se si pigiassero insieme tutti i suoi tasti. Rientrato in casa, deliberavo di star con la finestra aperta e allora la notte aveva una dolcezza piena di estasi sovrapposte, come accordi, dal silenzio. Palpavo, con le braccia scosse da brividi, il mio letto dove m'aspettava il sonno come un compagno. Ma io ero certo di non aver mai dormito; e mentre la musica della notte entrava, quasi di corsa, dalla finestra, io ascoltavo in piedi nel mezzo della stanza: la mia giovinezza era una cosa sola con il tempo, che mi trasportava con sé. E respingevo da me l'ultima donna, la cui nullità mi faceva un poco ribrezzo. Ma perché, dunque, quando due briachi cantarono io non chiusi la finestra? Perché la loro voce mi dava una gioia irrefrenabile, una contentezza che non mi faceva star fermo? Sapevo forse spiegarmi quel che fosse avvenuto? Non potevo io aver ucciso molta gente? Di che cosa temei, all'improvviso? Perché non morii in quel momento di dolore? La voce dei due briachi divenne come un disperato singhiozzo lungo, una tristezza che mi faceva raccapriccio. E, quando, affievolita, fu per sparire, io mi sporsi dalla finestra: le stelle mi parvero più belle, e lì ad aspettarmi. E capii perché un gatto, accovacciato su la porta di casa mia, fosse scappato quando gli fui vicino. * * * Che primavera disperata e terribile! Avevo ancora da pagare il conto del fabbro, quello del falegname, quello del carraio, quello della spazzatura, dello zolfo, del maniscalco, e i soldi non c'erano. Il tepore dell'aria mi faceva girare la testa. Andavo per il mio campo, da un filare all'altro, quasi tutto il giorno, senza perché, come un cane che cerca un osso qualunque. La sera, prima di dormire, soffrivo anche di più; e mi sforzavo di non pensare a niente, ma di sognare subito. Una mattina mi alzai con la voglia di uccidermi: dalla finestra pareva che anche il mio campo si travolgesse come me, nel vento; come mi volesse portar via tutti gli olivi. I muri della camera si facevano sempre più stretti, accostandosi insieme, e il mio respiro si mescolava con il loro; sentivo il sapore della calcina. Sono certo che piangevo! Mi pareva di cadere con la testa in giù, senza aver niente a cui sorreggermi. Un tratto, proprio dinanzi alla mia bocca, io vidi un ragnolino, quasi trasparente, attaccato, come un peso, al suo filo. * * * Era dopo mezzanotte. Ogni passo che facevo verso la mia casa pareva che mi troncasse le gambe. E dovevo arrivare a tutti i costi! Io non amavo più la donna che mi aspettava; e perciò, qualche volta, mi soffermavo con gli occhi fissi alle stelle, sentendomi doventar pazzo e cattivo. E già vedevo il tetto della casa, nell'ombra di otto cipressi, più suoi che miei perché niente mi pareva mio all'infuori della donna che non amavo. La mattina dopo, avrei avuto la forza di andar via, perché il suo pessimo amore non corrompesse più il mio sangue? Per fortuna non l'avevo sposata, e non volevo più che la sua anima, falsa come due dei suoi denti, sebbene non m'avesse mai tradito, cercasse la mia quando sognavo l'amore che devastava tutta la mia anima. Mi pareva di durar fatica ad attraversare il chiaro di luna, così silenzioso, tra le ombre delle fronde e quelle delle cancellate dinanzi alle ville. Quando fui presso un pino, sentii un usignolo; io feci un grido, e poi gli tirai un sasso. Avessi avuto un fucile! * * * Una sera d'estate mi sedei a piè d'un greppo e cominciai a fumar sigarette l'una dopo l'altra. Era molto scuro, e le stelle parevano così piccole che certo avrebbero bucato. Avrei voluto con me un amico per parlare di qualche cosa, o meglio per ascoltarlo. Quando voglio bene ad un amico, mi piace di più star zitto fumando. Quasi annoiato e intristito a star lì, appuntellai le mani su l'erba e feci per alzarmi. Allora un grillo, così vicino che non raccapezzavo dove, cominciò a cantare. Era tra le mie ginocchia, forse? Era dietro di me? Né meno. M'era saltato addosso? Mi scossi tutto: no. Dovetti andarmene, e mi misi a piangere. * * * A diciannove anni mi venne l'idea che sarei morto tra qualche mese. Non so perché, tanto più che non ero ammalato né avevo mai tossito. Ma m'ero convinto, e basta. Con l'ebbrezza della mia adolescenza mi sentivo doventare amico di tutte le cose, ed io mi preparavo a salutarle, qualche sera, quando la luce del tramonto si stendeva sopra i tetti di quella parte della città che guardavo, seduto su la mia poltrona dove sarei certamente morto. E nel tempo delle vacanze, non mi voltavo né meno verso il mio scaffale pieno zeppo dinanzi alla scrivania inclinata; della quale avevo contato scrupolosamente, con angoscia, tutte le macchie d'inchiostro. Ma i tetti erano là, cominciando dal mio davanzale, come un pendio che volesse precipitare la mia anima nell'oscurità silenziosa e diaccia della campagna. Qualche sera, escivo e andavo fuori di porta fino a Pescaia dove stava un contadino che teneva sette mucche. La mia malinconia aumentava con la sera; e i lumi a olio, che vedevo dentro la stalla di quel contadino, perché per lo più l'uscio lo lasciava aperto, mi tormentavano come una dolcezza che non potevo spegnere con me. Dopo di me avrebbero bruciato ancora; e forse, qualcuno li avrebbe guardati volentieri. E siccome non potevo mangiare, perché digerivo male, dicevo al contadino che volevo bevere un bicchiere di latte a pena avesse munto. Quando l'avevo bevuto, sempre con due sorsate che cercavo di fare uguali, guardavo le mucche che avevano il muso dentro la mangiatoia. * * * Qualche mattina, anzi giorno, sono entrato nella Basilica di San Francesco, a Siena. I colori delle vetrate erano lividi, come pezzi di diaccio, con i santi e le sante intirizziti, dentro e attraverso. Cercavo di camminare in punta di piedi per non udire il mio passo, e m'avanzavo fin sotto l'altare maggiore; poi, tanto a destra che a sinistra, andavo da una cappella all'altra, cercando con superstizione di fermarmi, dentro ciascuna, più nel mezzo che mi fosse possibile ma senza troppo tempo a mesurare lo spazio con gli occhi e restandoci finché non avessi contato fino a cinquanta. Dopo ogni cappella la mia esaltazione mistica si faceva sempre più completa, e mi veniva in mente di non escire più dalla Basilica. Tutto il mondo, attorno alle sue alte mura, diveniva sempre più dolce e più religioso. Qualcuno faceva segni di croce che rimandavano indietro le folgori e arrestavano il vento. Gli organi cantavano insieme con la mia anima, che fruttificava come un miracolo fatto sopra una vigna. (Certo il ricordo di qualche leggenda manoscritta, letta alla Biblioteca Comunale). Le campane suonavano, le ore battevano; e tutto era musica. L'azzurro del soffitto di una cappella si moveva e si apriva; gli angioli venivano fuori come se fossero stati sospinti dall'infinito. Gli affreschi del Lorenzetti si animavano; tutto il medio evo era dinanzi a me; io mi sentivo una spada in mano, e dovevo per primo cominciare battaglie che duravano secoli. Io sorridevo guardando il sagrestano che zoppicando portava la scala da un punto all'altro delle lunghe pareti. I sacerdoti mi benedicevano, il papa m'invitava a trovarlo. Scricchiolò in una cappella, da un lato, una cassapanca antica: corse attraverso tutto l'impiantito, sparì, come il brivido dalla testa ai piedi, un topo. * * * Gli interessi tra mio padre e i miei fratelli ci facevano inasprire; e, a poco a poco, cominciammo a odiarci l'un l'altro come se fossimo i peggiori nemici. Evitavamo di parlarci, e quando non era possibile farne a meno, per quanto vivessimo tutti separati, le discussioni finivano sempre a pugni e a legnate; anzi una volta, ci mancò poco ch'io non ferissi, con una coltellata, mio padre. Quando li lasciavo, mi sentivo arso dall'odio; come se tutto il mio sangue doventasse veleno per loro, e le mie maledizioni attraversavano l'aria come quei lampi che vengono proprio sopra la testa. Un giorno o l'altro avrei minato le case! Me ne tornavo, una volta, così pieno d'ira e d'odio che ne subivo, quasi immediatamente, una stupefazione densa, molle, paniosa, che soddisfaceva la mia anima. Alla mia anima appiccavo i miei fratelli e mio padre; e mi sentivo il sangue più arido della terra screpolata dall'estate; fermandomi a rompere con i tacchi qualche zolla entro la quale s'eran perfino seccati i fili di gramigna, le cui punte bianche apparivano fuori. Se qualcuno m'avesse raggiunto o m'avesse detto: "sono tutti morti" finalmente la mia anima si sarebbe riavuta. Ma no, no; mai! Voglia Dio che l'azzurro che respirate, così bello e limpido, divenga fiele o così duro che moriate subito a bocca aperta con i denti troncati in vano per roderlo! Che le vostre case entrino dentro la terra; e sopra ci verrò a ballare con un'intera banda di musicanti che pagherò quanto vogliano! Cada il veleno dal cielo, e stasera sappia che siete affogati in quel fiume che vi farei bere per forza! Quando fui in cima alla salita, vicino a un aratro, vidi una lucertola morta, con le gambe aperte all'insù, così sottile e pallida che singhiozzai. * * * Con mia madre che mi voleva molto bene, andavo da luglio ad ottobre, in villeggiatura. Mangiavo il pane dei contadini, che di nascosto mi facevano bere il loro vino anche a mezzi bicchieri per volta. Io stavo quasi tutto il giorno insieme con i loro ragazzi, a cui insegnavo a rotolarsi giù per le balze del tufo sodo, a fare gli archi con una frusta o con un laccio delle scarpe. Senza che ne avessimo bisogno, andavamo a rubare negli altri campi; e, così, mangiavo tante pesche, la maggior parte acerbe, che mi sentivo la pancia più dura di un muro. E noi ci divertivamo a picchiarci, vicendevolmente, cazzotti sopra. M'ero fatto scuro e grasso: bestemmiavo e cantavo lungo i borri in fondo alle vallate, camminando tra i roghi, le canne e i pioppi; che si sentivano tremare sotto le nostre mani. Qualche volta andavamo a pesticciare sui seminati, scappando a tempo con le scarpe che non si alzavano più da quanto fango c'era rimasto attaccato. Ma ero contento di non portare più il colletto e d'avere una giubba non meno rattoppata di quella dei miei amici. Ci sentivamo con un mezzo fischio, ci capivamo a volo storcendo a pena la bocca o alzando le sopracciglia e raggrinzando la fronte: certe nostre risate avevano significati impossibili agli altri; e, ormai, non c'era più nascondigli dentro i quali non fossimo stati. O zufoli di canne e di buccia di castagno! O fruste agili e flessibili, con le quali qualche volta ci segnavamo le gambe nude! O ginocchi incrostati di sudicio, piene di ferite e di lividi! O dormite fino alla mattina, finché non m'avevano chiamato due o tre volte! E chi dirà la mia gioia quando, grattandomi i capelli con le unghie, la mamma mi disse che mi avevano attaccato i pidocchi? * * * Io ho sempre avuto poco tempo di voler bene a qualcuno. Quell'estate era così calda che né meno in cielo c'era posto per lei. Pareva che il sole si levasse sempre più grande, ed era impossibile farsi un'idea di quando sarebbe tramontato. Siepi polverose, cipressi che parevano per seccarsi, alberi, morti, saggine e granturcheti doventati bianchi, fili di ragno così lucenti che parevano di metallo che tagliasse le mani, usci screpolati, botti sfasciate, la terra così dura che non la lavorava più nessuno, i letti dei torrenti senza libellule e con l'erba appassita, salci che non crescevano più, gelsi con la foglia piccola, vomeri lucenti, sassi che scottavano, nuvole rosse come fiamme, stelle cadenti! Una cicala, sopra il nocchio d'un olivo, canta: la vedo. Mi ci avvicino, in punta di piedi, stando in equilibrio dall'una zolla all'altra. La stringo. Le stacco la testa. * * * L'aria dava una sensazione di violenza. Nel cielo c'era una nuvola che pareva una fiamma; e vapori bianchicci e torbidi, quasi pigiati da tutto l'azzurro grande, un azzurro un poco violaceo e umido. Ma che m'importava, se io avevo perfino paura di guardare intorno a me? La notte innanzi, destato tra un sonno e l'altro, avevo sentito portar via le stelle e l'obbligo di non arrivare fino alla sera dell'indomani. Ed ecco, invece, ch'io m'ero messo ad aspettare questa sera! Ecco che io volevo vivere per forza ed inutilmente, quantunque tutte le cose rifuggissero da me. Ecco che per un tempo indefinibile, un anno forse, io mi esponevo a ritrovare i segni della mia sofferenza tutte le volte ch'io avessi voluto aprire gli occhi e il respiro. Ma io vi andavo incontro come ad un cadavere che avessi dovuto seppellire dopo aver desiderato di assomigliargli. Ecco che la mia tristezza veniva ad oscurare definitivamente la mia anima. Ma ora avrei voglia di scrivere una novella, i cui personaggi fossero burattini di legno. Io credo che essi possono meglio di noi godere della luce e delle altre cose belle. Chi non ha visto quanto piacere hanno quando sono mossi dai loro fili? Essi recitano volentieri; e sento tutto il baccano che fanno entro la trama della novella. Inoltre, Rosaura non m'ha ingannato mai; e il vestituccio se lo cambia pure che voglia io. Tutta la mia tristezza sentimentale non costa l'occhiata di vernice della mia dolce Rosaura. Vedo che nessuna donna vera è gelosa di lei; ma ha torto. Oggi (già passato un anno?) il cielo è in un modo che pare rosolio; e i calabroni se lo bevono tutto. * * * Ah, sì, ella mi ama tanto che mi viene da piangere! E, come se io non l'avessi amata mai, sento tutt'insieme la voglia di vederla e di mettere la testa sopra il suo petto. Ma perché soffro così e non vado a trovarla? Non c'è più la mia casa, i muri si spalancano, ed io mi metto fermo; così fermo da sembrare che le cose si muovano. Il mio alito fa appannare i vetri della finestra, ma lo specchio sembra un abisso che divora tutto. Una canzone che forse canterebbe qualcuno andandosene; il respiro del tempo, che io sento lo stesso quantunque tanto lontano che c'è da impazzirne; la mia giovinezza che non è più con me; quelle rose vere che, se doventassero grosse e larghe come le voglio io, ne proverei sollievo; e quella mosca che si move, sopra il tavolino! * * * Non ho mai guardato dentro un pozzo senza pensare alla morte. Quando la brocca, tirata su dalla contadina, la rivedevo dondolare al gancio della fune, mi pareva che fosse stata salvata. E, prima di beverci, mettendola piegata alla bocca, lo sguardo a quell'altra acqua dove i riflessi del cielo si spezzavano! Aprendo la finestra, la mattina, la prima occhiata era al pozzo; la sera, rientrando in casa, mi allontanavo in fretta dal pozzo. E i mendicanti che si fermavano a bere! E le loro lingue molli della sua acqua! E la bella pioggia, limpida e allegra, che v'andava dentro giù per le grondaie contorte, attorno alla mia casa! E l'annaffiatoio che non ne aveva paura! E la capra che, belando, vi s'arrampicava! * * * La strada dove non sono più stato è quella che m'era piaciuta tanto, forse più delle altre. Già non vi passava nessuno! L'erba v'era alta, con il muschio così verde che pareva una vernice a olio, sciolta. Sempre l'ombra del muro altissimo, scrostato, scalcinato; un'ombra che pareva più pesa del muro, fredda, silenziosa. E di là, a pochi metri di distanza, il sole chiaro e caldo, e le farfalle che quando si sono prese in mano bisogna ucciderle! * * * In fondo a un cassetto, che odora di stantio e di cose andate a male, quante bricciche ritrovo! Un pezzetto di canna, con la quale volevo fare uno zufolo, un giornale illustrato, un coltello che non taglia più, un manico di lesina, tre bottoni e poi un cartoccino, giallo, legato stretto stretto con un filo bianco. L'apro per vedere che c'è; semi di papavero. Quando sono per buttarli via dalla finestra, perché ormai non devono nascere più, vedo un piccolo insetto che non conosco: una specie di scarabeo verde e d'oro, quasi trasparente come un vetro prezioso. Mi dispiace. * * * Volerti dimenticare! E i discorsi che ti fo! E i miei sorrisi e la voglia di venirmi a inginocchiare, e la luce dei tuoi occhi! E il tempo con il quale riempio la distanza tra me e te! E qualche tua parola che par viva e sola! E il pensiero che, se t'amassi, sarei felice! E tu che non mi hai rimproverato mai! E i nostri ricordi! E il tempo che siamo stati insieme, così dolce, così bello! E il mio ostinato silenzio! E le mie strette di mano, quando le nostre mani sapevano tutto della mia anima! Sei ancora bella, o forse di più? Mi piaceresti lo stesso? Potrei tacere ancora, se ti rivedessi? Ti accorgeresti di niente? E questa rondine che corre dinanzi al suono della campana, per non farsi raggiungere! * * * Quante volte il freddo del mio cadavere fa le veci della mia anima! I monti mi paion la terra scavata attorno alla mia fossa, e il cielo mi fa tenere gli occhi chiusi come se fosse lo spruzzo dell'acqua benedetta che non potrò sentire. E il mio cuore non batte come le manciate di terra che mi getteranno addosso? O morte che sei bella nei fili alti dell'erba, tremolanti nel vento fresco, e rugiadosi! Morte che non mi farai udir più le rane quando è vicino a piovere! * * * Un poco di primavera entro l'acqua della fontana; ma pareva che i fiori le fossero ostili e non ne volessero sapere. Le violette malcontente, i peschi sfioriti presto, quasi per far piacere al vento, qualche usignolo stonato; e il chiù non si sentiva mai. Le mattinate accosto alle sere come se fossero state legate per una ghirlanda, e il mezzogiorno sempre breve e rapido, benché con qualche raccoglimento abbastanza intenso verso l'ora del pranzo. Ma nessuna vera voglia di vivere: piuttosto una specie di scontentezza piacevole, con la quale stavo bene anche a finestre chiuse. Anzi le cose, di là dalla finestra, parevano più belle, come se fossero state troppo lontane o quasi di un passato commemorativo. E i suoni delle campane s'attaccavano e non venivano via più dai campanili; ed ero curioso di sapere perché. Troppa luce e troppo sole, che però mi facevano dimenticare meno le mie giornate fredde e tristi quando non si riesce né meno a imaginarlo più il sole! Ma se guardavo l'acqua della fontana di marmo, a poligono, piena di alghe che si staccavano dal fondo per andare a galleggiare un poco alla volta, quasi salissero ad amoreggiare con il tepore del sole che combaciava con la superficie liquida, io vedevo e sentivo la primavera come forse mai più. E allora non comprendevo le violette: ma soltanto il loro odore come una serenata alla luce. E la mia anima sopra quell'odore s'ingrandiva fino a sentirmela dentro i miei occhi. Ma i miei occhi erano attaccati all'acqua, con l'anima tutta a riverso per prendere un poco di sole e di luce; e sentivo, allora, una primavera paziente, tutta dipinta di silenzi casalinghi, e non volevo convincermi di trovarmi sempre solo, come se fossi andato a spasso e non avessi più voglia di tornare a casa. Io sentivo che la mia faccia tentava in vano d'invecchiare la mia anima, e per questo io m'attaccavo all'anima. Ma tutto m'ero arso di me stesso, con una cenere che mi faceva lacrimare. Perché quel pesce rosso, nascondendosi sotto le alghe, guizzò? * * * La primavera è proprio da per tutto, anche dove non ce n'è bisogno. Anche tra i sassi del muro franato l'erba è voluta crescere. Per i sentieri più scoscesi, tra i tronchi degli alberi che furono abbattuti con l'ascia, con un'ambizione di farsi vedere che pare perfino ingenua. La primavera assomiglia, questa volta, un poco alla stanza che la nostra amica, aspettandoci, ha adornato di fiori comprati a posta. C'è uno sciupio di gemme e una voglia di fiorire che pare una di quelle accoglienze da segnare poi nel nostro calendario. La primavera in tutti gli stili, perfino roccocò; con certe manie di fare effetto per forza. E pensando a tutto questo lusso, ci si prova ad essere contenti. Le margherite bianche, quelle dei prati, fanno di tutto per darvi nell'occhio; e gli stessi prati si sono lisciati con la rugiada e il fresco che pare perfino bizzarria e voglia di divertirsi. I pini mettono fuori la loro resina come se volessero regalarvela a tutti i costi, e ci si avvicina a loro per guardarli meglio; mentre anche l'azzurro rimane lì per lì un poco rintontito, quasi non sapesse che fare, e, forse, vergognoso di non odorare né meno quanto una violetta. E c'è modo, del resto, per tutti di far qualche cosa. Ma perché, proprio ora, un maggiolino morto? * * * Sentirsi solo è un piacere che spaventa. Un'ora dopo la mezzanotte non avevo più sonno né stanchezza; e la conversazione fatta con un amico e un'amica, quantunque di poche ore innanzi, cominciando da quando avevamo cenato insieme, mi pareva già sì lontana che pensavo se l'indomani ambedue si ricordassero di conoscermi. Con il chiaro di luna in bocca, credevo di masticarlo, e c'era tutta la strada che voleva saltarmi addosso. Prima ancora di sapere perché, mi viene freddo e poi distinguo la voce della civetta. * * * Oggi sono rientrato nella chiesa della mia parrocchia. Lo scialbo bianco è uguale a quindici anni fa: ho creduto riconoscere, su una colonna, vicino a una panca, una scalcinatura che ogni domenica allargavo sempre più con le unghie. E mi son ricordato dei fiori finti, a mazzolini, portati al curato dalle due zitelle che andavano sempre insieme e facevano poca elemosina, e tutti dicevano che erano avare. Oggi mi dispiace di averle odiate con feroce avversione, quasi sempre inciampando se mi voltavo a perseguitarle con gli occhi. E tutte quelle ragazze, forse ora madri, e non le riconosco, di cui ero un poco innamorato! Ma quanto piansi quando mi confessai per la prima comunione! Ora non ho più paura quando suonano le campane, ma mi piace ch'io volessi mettere al collo di una di quelle ragazze un nastro uguale alla riga ch'era per margine a ogni pagina del libro di preghiere della mamma. La voce di quella ragazza mi faceva lo stesso effetto di quando mi guardava; ed io ridevo che la mamma sapesse a pena leggere, ma mi pentivo tanto d'aver ficcato pezzetti di cartasuga dentro il calamaio. Riesco fuori dalla chiesa, sicuro che il suo scialbo sia più fresco della primavera che inonda la piazzetta sbilenca di San Donato; e, scesi gli scaloni, mi volto a dietro, in su, a guardar le campane. Me ne vo con meno dispiacere, perché vedo che un branco di passerotti hanno il nido sul tetto. * * * Piove tanto che ormai i fichi sono sciapiti. Allora assaggio l'uva e, con un grappolo in mano, piglio attraverso la vigna. Qui c'è un palo da rialzare, là una vite da buttar via. Ma io sono il padrone: mi faccio ubbidire anche dal grano, e mi volto alla luce per dire: domani tornerai e seguiterai a maturarmi l'uva. Io assaggerò il mosto. Come odiai uno de' miei pavoni, che capii più orgoglioso di me! * * * La mia anima, per aver dovuto vivere a Siena, sarà triste per sempre: piange, pure ch'io abbia dimenticato le piazze dove il sole è peggio dell'acqua dentro un pozzo, e dove ci si tormenta fino alla disperazione. Ma i miei brividi al tremolio bianco degli olivi! E quando io stavo fermo, anche più di un'ora, senza saper perché, allo svolto di una strada, e la gente mi passava accanto e mi pareva di non vederla né meno! Città, dove la mia anima chiedeva l'elemosina, ma non alla gente! Città, il cui azzurro mi pareva sangue! Dal podere, le mie viti scendevano fino a una sua strada; e l'anima di quella che sarà per sempre la mia fidanzata mi teneva compagnia, nel silenzio folle; e qualche mia parola, che le scrivevo in fretta, era stata il mio respiro più di una lunga settimana. Siena, da sotto il mio ciliegio, pareva un arco che non si potesse aprire di più, e le sue case, giù per le sue strade a pendio, parevano frane che mi mettevano paura; con i tetti legati dall'edere cresciute su per le mura della cinta, le mura che non si apriranno mai. Ed io allora andavo a guardare la città da un'altra parte, quasi da quella opposta, dalla Porta Ovile. E vedevo i suoi orti squadrati entrare, con un angolo più alto degli altri, tra le case più rade; oppure, l'uno appresso all'altro, farsi largo e posto, ma fermati da una fila di cipressi la cui ombra oscurava il verde dell'erba; e qualche pesco fiorire e maturare accanto alle campane d'una chiesola, e qualche olivo chiamarsi dietro tutta la campagna soave, che impallidiva lontano, rasente i monti chiarissimi, talvolta più luminosa del sole; con una tenerezza che mi commoveva. E, se guardavo la città da un'altra altura, da Vignanone, le voci degli uccelli s'allargavano nell'azzurro come il vento. E tal'altra volta le campane tutte insieme mi parevano un'armonia discorde, e mi veniva voglia di morir subito. Le rose dei giardini, senza colore e senza profumo, la cingevano tutta: le finestre erano aperte. Da parecchie miglia lontano, io vedevo in vece le sue torri come tizzi ritti che si spegnevano ultimi nella cenere del crepuscolo. E i temporali con tutto il cielo addosso! Pareva che i lampi la dovessero schiantare; ma, dopo, l'aria era più fresca e si respirava meglio; gli uccelli la varcavano a frotte, e il sole la rasciugava. Perché, dunque, io vi soffrivo? Perché la mia anima non vi è mai voluta stare? Lo sapeva, forse, quella mia tartaruga che riuscii a tener chiusa in casa una sera, e la mattina dopo non la trovai più. * * * A Vico Alto i vecchi cipressi si fermano all'abside della chiesa di pietre. L'Osservanza non è lontana, e si vedono le strade prima sparire e poi ritornare verso Siena, quasi aspettate. Le strade sciupano i bei verdi simmetrici, ma l'erba riescirà a rinascerci un'altra volta sopra. Se di quassù si sentisse crosciare il torrente, che si tiene con sé i salici e i gelsi! Ma, siccome è domenica, la gente passa proprio per il viottolo che lo rasenta; gente vestita bene e che si sofferma di quando in quando, forse incuriosita, a guardare attorno. Alcuni merendano, con un giornale steso nel mezzo. Vengono, per quell'altra strada che fa il giro lungo, le sordomute e poi le convittrici. Un contadino, appoggiato a un cipresso, fuma. Oh, anch'io voglio fare all'amore e voglio passare lungo il torrente, perché m'annoio a guardare le salamandre che scendono e risalgono dentro questa fonte dove le alghe mollicce e viscide intasano l'acqua! * * * Era una mattina d'estate, calda e accecante. Camminavo piano, e sempre di più la natura mi pareva un sogno immenso della mia anima. Il cuore mi batteva di contentezza. I cipressi, uscenti dalle siepi dei poderi, attorno alle case tutte impergolate, in Toscana, parevano piantati lì dall'aria stessa. Odori di ginepri, di marruche, di sanguinelle, di mentastri! Sopra un muricciolo, vidi un ramarro. Mi fermai, perché non scappasse. Allora, guardando i suoi occhi paurosi e intelligenti, provai una delusione dolorosa: e feci il viso rosso di vergogna. * * * Chi non ricorda come si trascina una farfalla ferita, toccando la terra con le ali tremanti! Ma chi può vedere, ne' suoi occhi, l'espressione del suo dolore violento e improvviso? La farfalla va presto a rincantucciarsi, sapendo sparire dalla nostra curiosità. È come qualche cosa, allora, che riesce a non aver contatto con noi, ad evitarci. * * * Era di settembre, e l'uva cominciava a maturare, ma i chicchi parevano trasparenti quando i raggi del sole entravano tra i pampini. Ero in mezzo a una vallata, vicino ai pioppi, tutti contorti, di un borro. Mi pareva che la vallata si sollevasse su, attratta dalle due colline piene di oliveti e di vigne. Le pesche erano mature, e pensavo di mangiarne almeno una. Ma esitavo a muovermi. Tra due viti, vidi una ragnatela: era un poco umida, e mi venne voglia di toccarla con la punta di un dito, ma senza romperla. La peluria della prima donna ch'io ebbi non era così morbida. * * * Non so ancora spiegarmi, da otto anni, perché la mia amante, una volta, dopo aver bevuto la birra, chiudesse con il ventaglio aperto, dentro il suo bicchiere, una vespa che v'era entrata. Prima era entrata nel mio; ed ella l'aveva guardata sorridendo, divertendocisi quasi. Io cercai di farle muovere il braccio, ma ella, con tutta la sua forza, non mi dette retta. Mi disse: - Parliamo d'altro. * * * Al podere, che ora ho dovuto vendere, tenevo molte galline, insieme con alcuni tacchini e i loci. Quando non avevo voglia di far niente o quando soffrivo troppo non saprei di che, andavo nel pollaio e mi mettevo a guardare. Un locio, che pesava parecchi chili, dondolandosi tutto per camminare, saliva a ogni momento sopra la sua femmina. Vi restava, dopo un poco, come stordito; e poi cadeva svenuto, battendo il dorso, con le gambe per aria e immobili, con gli occhi velati come quando muoiono. Tutte le galline parevano spaventate, e non si avvicinavano. * * * M'era venuto il tifo, e la febbre cresceva sempre. La mamma non poteva tenermi compagnia a tutte l'ore e quanto avrebbe voluto: e io dovevo restarmene a letto solo solo, ad aspettarla. Vedevo, dalla finestra socchiusa, con i vetri non più lavati da quando stavo male, passare le nuvole e la cima d'un ciliegio che rabbrividiva come me quando sentivo la febbre. Una mattina avevo fame dopo aver preso la solita cucchiaiata di medicina. E non veniva nessuno. Avevo voglia d'alzarmi, ma più di piangere. Le coperte mi schiacciavano come le montagne; e mi pareva che tutte quelle nuvole me le facessero più grevi. C'era a capo del letto il campanello elettrico, ma non lo suonavo perché il suo squillo mi faceva peggio. Ero proprio per gridare, spaventato delle coperte alzate dai miei ginocchi, con l'illusione che si alzassero fino al soffitto, per soffocarmi. Entrò un'ape. Mossi la testa per guardarla meglio. Sbattendo contro i vetri, cominciò a ronzare; ma con un ronzio così dolce che mi fece subito un effetto di benessere. Allora, mi ricordai dei fichi maturi e di tutte le altre frutta. Chi sa quale odore giù nei campi! Mi pareva, perfino, di sentir sapore in bocca! L'ape girò da un travicello all'altro, e poi tornò alla finestra! Non piangevo più, assorto in quel suo rumore uguale, che allora mi pareva una specie di musica, a cui avrei dovuto trovar le parole. Quando venne la mamma, facendola fuggire, mi dispiacque; e ci pensai tutto il giorno, sorpreso di non pensare ad altro. * * * Era stato un temporale orribile, dopo mezzogiorno, d'agosto. I lampi erano così fitti che non si faceva a tempo a respirare e a segnarsi. La mamma s'era seduta nella sua poltrona, io m'ero messo in ginocchio con la testa sopra a lei. Le sue mani mi tappavano gli orecchi. Ma non avevo il coraggio di chiudere gli occhi, e, piangendo, senza muovermi da quella posizione, mi segnavo, cominciavo l'avemaria, senza mai finirla. Il bosco, vicinissimo alla casa, quasi sopra il tetto, crosciava con il vento e la grandine. Si era fatto così oscuro, che la donna aveva acceso la lucernina d'ottone, mettendola nel mezzo della tavola. Diceva la mamma: - Se avessi un poco d'olivo benedetto, per bruciarlo! Fa tanto bene! Due fulmini caddero nel bosco e io li vidi. La pioggia luccicava; la grandine, sempre più grossa, empiva il davanzale della finestra, e la campagna pareva tutta bianca. Finalmente i tuoni si fecero sempre più lontani; l'aria tornò serena. Lampeggiava ancora sopra la città; ma, dalla parte opposta, era apparso l'arcobaleno così dolce! Riaprimmo le finestre e poi le porte, per escire. Allora, un contadino, venendo dalla strada, ci fece vedere una rondine, ancor viva, che il temporale aveva abbattuta. Le sue penne eran bagnate e lucide: pareva stordita, e stava da sé nel cavo della mano, palpitando, ma quasi rassegnata. Provai tanta gioia che battei le mani. * * * Con la mia moglie era un affar serio, ogni giorno di più! Bastava un pretesto qualunque per leticare parecchie ore. Una volta, la minestra mi parve sciocca; anzi, era certamente. Glielo dissi. Mi rispose: - Perché non vai a trattoria? - Se fossi più furbo! - Vai dunque. - Me lo vorresti proibire tu? E la guardai con tutto il mio odio; ed ella altrettanto. Ma io non glielo volevo permettere. Allora, feci l'atto di darle uno scapaccione. Si alzò, rigida come uno stecco; e si mise a guardarmi fisso. Pareva che i suoi occhi si allargassero sempre di più; ma mi sentivo tanto più forte di lei che non pensavo né meno a offenderla. Mi disse: - Vuoi scommettere che io vado dal procuratore del re? - E perché no? Potevi esserci andata. Così mi sarei fatto fare la minestra più salata, se non c'eri in casa! Si slanciò; io mi riparai con un braccio piegato. In questo mentre, vedemmo, tutti e due insieme, non so come, una formica che dall'orlo del fiasco stava per scender dentro e cadervi. La rabbia finì subito. Ella la prese con le dita e la scaraventò lontano. Io dissi: - Per fortuna l'hai vista! Avremmo dovuto buttar via tutto il vino! E il pranzo finì bene quella volta. * * * Alla dottrina cristiana ci sarei andato volentieri, ma da quel prete, no da vero! Quando entravo nel suo studio, siccome, avendo cominciato più tardi degli altri comunicandi, dovevo rimettermi in pari, sentivo una specie di freddo che m'agguantava l'anima come uno per la giubba. C'era un tavolino con un tappeto rosso, forse rovesciato; il ritratto del papa, quattro o cinque seggiole che parevano tutte nere come le loro spalliere; e un odore tra l'intingolo e l'incenso o la cera bruciata. C'era poca luce, perché la finestra dava in un piccolo orto sotto certe mura antiche ricoperte di edere; e mi veniva sempre la voglia di andarmene prima che il prete fosse venuto. E quella zoppa che m'apriva l'uscio! Certi occhi che mi facevano pensare alla panna inacidita! Ma tra le tende, tutte polverose e sbiadite, c'era una gabbia appesa, con un canarino così giallo che pensavo fosse colorito con i tuorli dell'uova che si davano al prete quando veniva a benedire le case. Saltellando, faceva oscillare la gabbia e anche un poco le tende, e a motivo delle quali mi scansavo in fretta; quasi per paura. Io mi vergognavo di lui, che mi vedesse con il mio libricciolo sotto il braccio lì ad aspettare. Ed ecco perché l'osservavo sempre, quando il prete m'interrogava, prima di rispondere! Un giorno glielo portai via; e, piuttosto che ritrovarlo in quella gabbia, lo schiacciai con il tacco delle scarpe. * * * Un mio amico era in agonia. Caduto da una scala aveva battuto l'occipite, non riprendendo più i sensi. Siccome non l'aveva potuto comunicare, il prete gli lasciò la stola sopra i piedi dopo aver detto molte preghiere. La mamma del moribondo stava nella stanza accanto, con l'uscio aperto, a piangere; io, stringendo i ferri a piè del letto, lo guardavo. Il suo volto acceso dalla febbre, aveva, di quando in quando, una contrazione lunga e lenta; ma gli occhi restavano chiusi, sempre più in dentro. Una ragazza, dall'altra parte della strada, cominciò a cantare; io la feci star zitta. Il rantolo diveniva sempre più forte, alternandosi con un sibilo così dolce che mi ricordava, con terrore, tutte le nostre allegrie. La febbre gli aveva seccato le labbra. Io pensavo come bagnargliele, quando entrò una delle sue due tortore. Prima che io facessi in tempo a rimandarla in dietro, era già volata sul letto, proprio sopra il guanciale molle di sudore. Allora, perché non si mettesse a svolazzare, buttando in terra qualcosa, aspettai che tornasse via da sé, come credevo che avrebbe fatto. Gli montò su la fronte, che s'increspò; e, allungando tutto il collo, gli diede una beccata tra le labbra. Egli era uso a farsi prendere di bocca i chicchi di granturco o di granella. Allora, troppo tardi, la scacciai. Ma, dal labbro di sotto, dovetti asciugare con il cotone idrofilo le gocce di sangue, che smisero soltanto all'ultimo respiro. * * * So che una vipera ha morso uno che m'odia. Pari e patta. * * * Ricordo sempre queste sensazioni: dopo la scuola attraversare il corridoio del seminario, fresco ed annaffiato allora; l'attesa d'un rimprovero; la prima comunione: parole alla fidanzata; un campo troppo verde; un'ape che esce da un fiore senza che mi fossi avvisto che c'era. * * * O ciliegie, sapore del maggio! Farei ridere se raccontassi quanto le amo, ora che non ho altro da amare. Ed io per poco non mi crederei sciocco. Ma la mia bocca è cieca; e non è fatta che per mangiare. Mettete un piatto grande di ciliegie sopra la mia anima: non le lasciate troppo maturare, perché le passere le beccano tutte. * * * E quella finestra che vedevo dal mio podere scintillare tutte le mattine quando il sole si levava; una finestra che è delle prime case di Porta Camollia. Non ho mai saputo chi ci sta; del resto, mi sarebbe stato difficile, perché quell'abitazione è dalla parte degli orti tra le mura e la chiesa di Fontegiusta; un orto dopo un altro che non finiscono mai. A entrar lì dentro bisognava anche attraversare un andito sempre buio, con l'impiantito sempre molle; perché, in fondo, c'è un pozzo e le donne vi vanno ad attingere l'acqua con le brocche e le sbattono ai muri troppo stretti. Le scale da una parte, tutte a pianerottoli, sudicie e sciupate. Ho pensato che fosse di quella vecchia che tiene in casa il nipote cieco che fa l'impagliatore di seggiole; poi, di quella fruttivendola sorda; oppure della tabaccaia tisica o di quel maestro impazzito. E pure, quando sento cantare, e bisogna che il vento tiri da Siena, specie la sera, e non so chi è, credo che sia dentro quella stanza; e allora me la immagino con quei mobili vecchi ma riverniciati di verdolino e con le righe attorno alle serrature e alle maniglie di ottone, rosse e fatte a mano: più larghe e più strette, brutte. E, a una parete di fianco, un gran crocifisso doventato leggiero come una galla perché i tarli l'hanno tutto vuotato; e, infilato tra i piedi, un ramicello di olivo che si è seccato e che non si può smovere perché le foglie, color tabacco, cadrebbero subito e sporcherebbero il pavimento; che dev'essere spazzato ogni giorno e annaffiato con l'acqua a pisciolo, facendoci quei disegni tutti intrecciati che si allargano da sé. E questo farfallino grigio scommetto viene di là; perché ha le ali tinte di polvere. * * * Quel melo è il più bell'albero del mio campo, lo saluto tutti i giorni dalla finestra. So che l'ha piantato il mio zio Pellegro. Ma lo avevo visto la prima volta quando mio padre dovette tagliare i legacci di salcio perché lo stringevano troppo; e il fusto, ingrossando, s'era quasi reciso. Allora gli cambiarono il palo. L'anno dopo fece tre mele: e mezza mi fu data ad assaggiare. Per altri tre o quattro anni non lo vidi più. Ma quando ripassai di lì, s'era fatto irriconoscibile: una buccia lucida e tenera che veniva via a toccarla con l'unghia; tanti rami e così alto che lo guardai rovesciando la testa in dietro. Vidi che era cresciuto prima di me e che mio padre ne faceva gran conto. Gli avevano zappato la terra attorno come agli olivi; ma siccome era autunno, gli erano rimaste poche foglie sbiadite; e nelle punte dei suoi fuscelli i segni dove stavano le mele: una sola, anzi, gialla e grinzosa. La guardai meglio, prima di staccarla con una zollata; ma raccattatala, m'accorsi che dalla parte di sotto c'era il buco di un bacherozzolo. Allora la tirai lontano. L'anno dopo, a primavera, lo ritrovai fiorito, tutto bianco, come una gran festa. L'avevano potato e i suoi rami facevano una specie di circonferenza un poco vuota nel mezzo. Ma uno dei suoi quattro rami che venivano su dal gambano era gobbo e un poco più corto perciò. Quasi tutti i contadini, passando sotto, ci ficcavano la punta della falce per cercar meglio con tutte e due le mani nelle saccocce del panciotto la cicca e i fiammiferi. L'anno dopo ebbe la prima disgrazia: ogni fronda fu fasciata da centinaia di ragnatele piene di bruchi, che gli mangiarono in meno di una settimana i fiori e le foglioline. A maggio era già per seccarsi. E per due anni non fiorì né meno più. Allora mio padre lo fece scapitozzare e dentro una rigonfiatura, a metà del gambano, lo trovarono pieno di bachi carnosi duri e grossi più delle dita; ed avevano capocchie tonde e rosse più del sangue. Furono uccisi con il coltello, a pezzi, e la pianta si riebbe. Ma di mele ne ha fatte sempre meno. Ora, cinque o sei sole, che se le mangiano gli uccelli e le vespe. * * * La mattinata è fresca come le rose umide; ma tuttavia non riesce a convincermi che io posso odorarla. Tutti questi tetti attraventati addosso alla collina di Ovile si abituano a farsi guardare di quassù, di sbieco, da questo muricciolo così scalcinato che tra mattone e mattone c'entra un dito. Se la primavera ci fosse già, potrei divertirmi a guardare gli alberi fioriti; ma son venuto troppo presto, in vano, impaziente. Scommetto che quando la primavera ci sarà da vero, io non ci verrò né meno. Ma finalmente capisco perché mi ci prenda questa dolcezza con la quale voglio prepararmi a scrivere alla mia fidanzata. Là, da una parte della piazza, dove la ghiaia è più consumata, c'è la porta del Seminario, verde e sbiadita, con l'architrave di marmo doventato quasi giallo, contenta di essere accanto a San Francesco, quasi sotto il campanile. Mi pare ancora di entrarci per andare a scuola. Ma c'entra il sole, con una striscia che va a ritrovarsi con quella di dentro il chiostro. Ed io resto nella piazza. Giù la Porta Ovile, poi campi di olivi e viti; e, su in alto, la piccola stazione con i vagoni carichi di sacchi e di legname; con una strada, per salirci, che gira più di un esse fatto per ridere sopra un muro da qualche ragazzo. È una dolcezza che, se qualche volta pare stanca, tuttavia si sente anche lontano lontano, tra le pieghe verdi dei colli dove non sono stato mai. Il campanile con i grappoli delle campane che fanno escire per la piazza i rondoni! Ed i tetti hanno la pazienza di stare lì e l'abilità di non lasciarsi andare per riposarsi un poco! Qui, pensando alla fidanzata, ritrovo molta della mia vita, anche quando andavo, d'estate, all'ombra, sotto il muraglione delle Figlie di Maria ad imparare la chitarra, e dove m'ebbi un pugno e riescii a non piangere; e ricordo il cavallo che scappò dalla caserma dei carabinieri. * * * La siepe, addirittura, tagliava le spiazzate dei campi verdi o arati, l'uno accanto all'altro, l'uno addosso all'altro. Gli uccelli volavano con un volo sempre più basso, tremolando un poco, impauriti delle quattro nuvole, quasi quadrate, che avevano coperto il tramonto: le quattro carte da gioco. Nel Pian del Lago, c'era nebbia, a strisce sempre più sovrapposte e larghe; Montemaggio e la Montagnola di un verde più nero della siepe, e voli di colombacci che a stento proseguivano, randelloni, con le ali appiccicate nel cielo d'un turchino che voleva smettere. * * * Per tornare a casa, ci sono sempre nel mezzo della strada quelle sette stelle dell'Orsa, che me l'hanno buttata là chi sa perché. Il vento, che batte la faccia, viene di lì. E tutta la bellezza della sera vorrebbe entrare dopo di me e spinge in qua l'uscio, sì che duro fatica a richiuderlo. Perché la gatta miagola e si spenzola dalla grondaia? * * * All'ombra il carraio verniciava di cinabro mescolato al minio le ruote dei carri da contadini; e poi, con un fusello infilato nel mozzo e tenuto tra ambedue le palme, le portava al sole, appoggiate al muro. Qualche volta andava a levare con il manico del pennello una mosca che c'era rimasta attaccata. Tutte le mattine passavo il tempo così, senza parlar mai al carraio, sedendomi sopra un mucchio di breccia che lo stradino teneva già pronta per l'inverno. Mattinate dolci di sole, quando cominciavo a sbadigliare di fame; e io ne provavo un senso indefinito, quasi di sonnolenza e di piacere! Pensavo, allora, che da grande avrei scritto un libro differente a tutti quelli che io conoscevo: qualche storia ingenua e tragica che pareva uno di quei pampini che il vento mi faceva cadere tra le ginocchia; ecco; come c'è questo pampino, ci sarà il mio libro. E sentivo un fremito. Il carraio seguitava a verniciare; e, talvolta, m'illudevo che anch'egli vedesse riempirsi la distanza tra me e lui, delle persone che mi pareva di vedere. Egli è buono, pensavo; egli non dice niente né a me né a loro perché io non creda che gli si dia noia. Tutta la strada era piena di persone, come un incubo trasparente e leggero, che si movesse anche ad un alitare di vento; come si moveva la mia anima. Alla fine dovevo supplicare questa gente che mi desse un poco di tregua: la sentivo attorno alla mia giovinezza come insetti attorno ad un lume acceso allora allora. Qualcuno mi perseguitava e mi faceva venire i brividi; un altro voleva stare in casa con me, ed io non potevo mandarlo via. Ecco che il mio libro doventava la vita stessa, la gente cioè che conoscevo! Ma soffrivo e sentivo una specie di malessere vertiginoso; e m'invogliavo di pigliare a sassate, per scherzare. In vece, i moscerini m'entravano negli occhi; e mi venivano le lacrime. * * * Una strada scende, anche un'altra scende e le viene incontro: si fermano insieme. Dalla prima, a metà, se ne parte un'altra che scende per un altro verso e ne trova subito un'altra, più bassa che fa lo stesso. Su la prima se ne butta un'altra; poi la prima e la seconda, dopo la fermata, se ne vanno giù insieme e a un certo punto incontrano quella più bassa di tutte. Altre strade le tagliano e scendono. Le case hanno paura a stare ritte tra questi precipizi e si toccano con i tetti pendenti. Ma anche i tetti, a pendere così, non potrebbero cadere tutti giù? Le case, per fortuna, sono soltanto a due o tre piani; e la gente, alle finestre, ha l'aria di far loro da contropeso; perché non seguitino ad andare più in giù, tutte insieme, verso la Porta Fontebranda, da dove certo non passerebbero essendo così stretta. Le vie della città guardano queste quasi per scendere loro addosso; con la Cattedrale nel mezzo e con San Domenico sopra il tufo giallo. Ma la Fontebranda è ficcata giù sotto terra, e i Macelli se ne stanno stretti stretti, rasente la balza che regge metà di Siena. La vasca natatoria è verdastra dietro le punte nere e taglienti del suo cancello; i lavatoi hanno l'acqua saponata; gli archi delle conce piene di cuoia ad asciugare. Quanta solitudine e quanto silenzio anche con il vocio delle donne e dei ragazzi! Quando le donne di Fontebranda cantano, con quelle cadenze d'una stanchezza tanto dolce! È un silenzio che sta lì come le case; quasi assurdo. E perché quel cadere perpetuo dei tetti insieme con le strade? Non si ha, al contrario, il senso che le strade salgano; si sente soltanto la discesa fatta in fretta, con ansia; e, dal punto più basso, anche il meriggio è così lontano che resta soltanto per gli altri rioni di Siena. Cominciano le strida dei porci scannati, ognuno basta ad empire di sangue due secchi. * * * Quel che vedo e penso è come se lo leggessi. Leggerò, forse, fino a stasera; ma il libro non lo chiuderò; resterà aperto tutta la notte e troverò i sogni su le pagine come se fossero figure. In vece, no. Allora percepisco solo le cose, che stanno vicino a me: e, perché sono seduto sotto la mia pergola, mi metto a guardare un pampino: forse, uno dei più larghi. Perché non capisco quel che fo, lo strappo dal tralcio e lo butto dietro di me, di là dal pancone verniciato di verde. Il sole, tra gli altri pampini, taglia gli occhi con i suoi pezzetti di vetro. Una cavalletta mi salta su una mano. Nel bosco cerco l'albero che, tagliato a bara, imputridirà sotto terra con me. Gli voglio tanto bene: forse, è quello dove ora c'è sopra un merlo. * * * Quando ci sono io, tutto ciò che è nella mia casa vive con me. Io stesso ho insegnato a tutte le cose, scegliendole, come dovevano fare per piacermi e perché io le amassi. Queste pareti riconoscono la mia voce, e la loro fedeltà è profonda. Ma guardando, dalle mie finestre, chiuse o aperte, la fila degli orfani che escono a prendere aria, capisco che i miei occhi non vedono tutto. Mentre, se guardo lavorare i contadini, mi farei aprire il cuore dai loro vomeri, per dar loro la gioia di doventare anch'io terra da semina. E se guardo i cavalli che tirano i barrocci, riparo in vano le sferzate. Se sento cantare i vagabondi e gli ubriachi, io mi rattristo; se guardo gli orti mi piacciono le campane che fanno finta di annaffiarli; e cambierei di posto volentieri con le stelle. Ma la luce della luna si diverte a farmi sentire le civette. * * * Io m'ero messo in testa di trovare il violoncello che udivo tra gli alberi del bosco: quando tira vento, non sta più zitto niente! Credevo che fosse a pochi passi da me; e, allora, andavo là, quasi di corsa. Non c'era più; più lontano ora, ma distante da me quanto prima. Andavo lo stesso. Né meno! Sempre, sempre vicino a me; ma non dovevo vederlo né trovarlo mai! Così, sul fiume, il riflesso del sole camminava sempre avanti a me; e, dove era stato prima, l'acqua tornava ombra turchina, senza che vi fosse nessuna traccia di quell'incendio finto. Così i monti non erano più azzurri quando, dopo mezza giornata di strada, vi ero giunto; ed allora vedevo altri monti; ma era inutile che io camminassi a posta per questo! Così le onde che il vento faceva sopra il prato: dov'ero io, attorno alle mie gambe, tutto era fermo come me. Così i miei sogni quando mi sono destato. Né, da vicino, ho mai potuto guardare la trasparenza violacea che aveva un piccolo padule del fiume: non c'era più. Così, da ragazzo, l'eco della mia voce: un'altra voce, ma senz'anima. Così i pappi di certi fiori, quando volevo portarli in mano. Il violoncello del bosco l'avrei voluto comprare, per darmi l'aria di essere ricco. E suonarlo i giorni di festa della mia anima; ammaestrando un liocorno, color di carta bianca, che prenderei da qualche favola vecchia. * * * Dieci anni che abito nella mia casa, comincio soltanto da oggi a sentirne la realtà. Tutto quel che vi avviene è la compilazione d'una storia che riguarda me. Ma quando io stesso non saprò dirla, nessuno ci penserà più. Così come quella fonte che ho ritrovato morta, ed io non lo sapevo. Morta da due mesi, e nessuno me lo aveva detto. Ma l'aria, oggi, è gaia; e mi sento bene. Forse, vivrò parecchio tempo ancora; ché di me non sento nessun segno di morte; e tutto quel che vedo fa parte della mia esistenza. Il limone già tagliato, i bicchieri puliti, la tovaglia di bucato; e la voglia di mangiare. Sono impaziente; mi guardo le mani, mi specchio ai vetri della finestra. Nessuna stanza è bella come questa; e la mia anima è anche più gaia dell'aria: il limone, i bicchieri, i piatti sono belli perché miei. Il senso di averli e loro stessi sono una cosa sola. Ed è una sola realtà. Ma, a pena mi sono seduto a tavola per il pranzo, sento cantare, da un ragazzo, una canzone che io conosco senza averla ancora imparata. Mi vengono i brividi. Portava gli agnelli a vendere. Vorrei leggere come un ragazzo, vorrei capire come un ragazzo. Là giù nel bosco fresco di verde e di ombre, ho lasciato il giocattolo del mio passato, perché si sono rotti i fili. Ma io mi metto a guardare fisso il turchino perché me ne venga un altro; magari fatto come una nuvola. Anche la pioggia è il giocattolo con il quale ruzzano le fontane del giardino; anche il mio sorriso è un giocattolo, come il mio cuore che batte. E la mia ombra è il giocattolo del sole; la mia voce è quello della mia anima. Quando siamo morti non si parla, e allora quel che s'è detto lo ripetono gli altri. Anche la bara è il giocattolo, che si mette sotto terra. E, s'io fossi un ragazzo, vorrei chiedere a Dio che questa fresca erba bella la lasciassero in pace; e mi scriverei da me il mio libro di lettura. Farei doventar buone anche le vipere. * * * Ecco la sera, quando le cose della stanza doventano pugnali che affondano nella mia anima; maniche che mi attendono. Qualche altra volta, mi erano sembrate - libri, tavoli, sedie, tagliacarte, cuscini, lampade, pareti - poemi immensi. Mai, in nessun modo, sono riescito ad essere indipendente dinanzi a loro. Ma questa sera hanno atteso tutte d'accordo. Siete sicure di essere sincere? Ormai vi lascio. La mia anima, se qualche volta si ricorderà di voi, crederà di mettersi a suonare un organetto di Barberia per fare ridere le serve e piangere chi non c'è. Il cardellino morirà di fame: il pane intinto non glielo darà più nessuno. * * * Il cielo sta per doventare uno specchio; è già impossibile guardarlo. Qualche uccello, che di rado vedo entrare in una boscaglia di pini, fa credere che sia disseccato come quelli imbalsamati; e la sua ombra affonda passando nella polvere della strada. C'è una piccola sorgente che a pena è buona ad escire di tra i ciuffi dell'erba verde, sotto l'ombra di una quercia. L'acqua, al buco della sorgente, un ago che si spezza sempre, scintilla e poi sparisce. In giro c'è nata questi dieci metri quadri di erba che lustra, e basta. Il luogo è così silenzioso che par di udire l'erba. E la fonte, con lunghi rigagnoli, che non smettono più, va giù per il prato a fare la calligrafia. Quando ritorno nella strada, la polvere scotta; e io cammino adagio, per non sudare. * * * Anch'io ho avuto due carri verniciati di rosso, che mi destavano la mattina, quando i contadini li portavano con i bovi nel campo.Carri di concime o di uva, di granturco o di grano, di saggine o di pomodori. Li ebbi da mio padre, ed io li vendei perché avevo da pagare un debito. Io non avevo mai posseduto niente, che mi fosse durato molto. Mi ci ero tanto abituato che anche i miei sentimenti, scambiandoli per balocchi da pochi centesimi, li ascoltavo sempre con malevola e giusta ironia. Non era, forse, l'unico modo per non ingannarmi più? Impazzito per aver pensato subito che io potevo finalmente credere; effetto del mio bisogno di credere. Dopo tanto tempo, ecco che in vece di altre cose innumerevoli, di ogni genere, io ripenso ai due miei carri. E alla mia vita quale avrebbe dovuto essere. A me non era lecito escire dal mio paese. Ascoltare là le musiche della domenica, passeggiare con tutti gli altri le mezze giornate intere per la strada che gira attorno alle case, amare quache ricca fantoccia. E, sopra a tutto, avere ancora i due carri verniciati di rosso. Il gallo che la mattina fa tremare il cuore di gioia; le noci mangiate con il pane, ancora in maniche di camicia; le cipolle strofinate sul sale tenuto nel palmo della mano. La dolcissima aia costruita bene e spazzata! Fedeltà ed amicizia dei campi verdi! Le prime pesche vendute, i vitelli comprati alla fiera, il vino assaggiato dai tini, ancora caldo e torbido; e il suo afrore! Gli acquazzoni che fanno ridere; la terra che sporca le mani! E le feste di campagna con gli organetti briachi, a singhiozzare lontano tra i campi; e fanno venir voglia di andarci anche noi, dietro; le feste che restano per sempre nell'anima con i fuochi artificiali e i palloni di carta che vanno a cadere quando pigliano fuoco. E la cometa che fa paura! E il temporale livido, con la grandine bianca bianca; con i lampi che accecano! E tutte queste case del paese, che ci sono non si sa perché; con le strade lontane per la maremma di Grosseto e verso Siena; e si sperdono, giù nelle vallate, dopo dieci o quindici chilometri; le strade che aspettano. In vece, non l'ho né meno più visto questo bernoccolo di case! I miei carri non mi destano più; e il gallo, benché duro, l'ho mangiato. * * * Mi piacciono quelle persone che adoprano, parlando, modi di dire differenti a tutti gli altri. Mi sembrano, le loro conversazioni, riconoscibili, amicizie a cui ci si possa affidare di più. E, così , ho imparato che le cose hanno per ogni persona una fisionomia differente. Una persona si distingue più profondamente dal suo modo di parlare che dal suo viso. Con quale voce, per esempio, dovrei parlare di un bel prato verde? E con quale altra di questa crocetta d'oro ritrovata per caso e che la mia mamma portava? Ed io ho la certezza che sia viva da vero, la mia mamma! Sono venti anni che è morta? No; non è vero. È viva ancora. Ecco ancora le sue vesti, ch'ella si metterà. Ecco il suo armadio, le bottiglie dei profumi, il suo cappello. La porta della mia camera l'ha lasciata aperta lei; stasera non mangerò, se non c'è lei insieme con me. Le farò trovare un grande piatto di fichi maturi; ne è ghiotta. Il pane fresco; e lo metterò al suo posto, su la tavola. Il suo bicchiere alto e scannellato, di vetro un poco verde e con il fondo rossiccio di vino che non si può lavare più. Ho imparato a vivere con la mia anima! Ora devo imparare a vivere con la mia mamma. Non abiterò più nessuna casa dove non sia anche lei; io la seguirò con un'obbedienza che i fanciulli non hanno. Io non parlerò che alla mia mamma. Ed ella mi ricomprerà un paio di piccioni a cui taglierà le ali, perché non volino via. * * * Tutti quei fiori che ho sognato! La mia anima , dunque, sapeva di qualche funerale che io non so. La mia anima è stata a qualche funerale. Infatti, tutt'oggi nella mia casa, vuota e deserta, c'era un senso di cose tragiche, nascoste a me. Quand'io aprivo gli occhi avevo paura, e la carta delle pareti aveva un'aria di silenzio quasi timido; non canzonatore o vispo, come altre volte. Tra le stanze c'era un'intesa e un accordo di non dirmi niente; qualche parola che se la passavano quand'io voltavo le spalle. I miei libri facevano di tutto perché io non li prendessi in mano; le stoviglie nel salottino da pranzo erano mute e così tristi che io non mi sarei arrischiato ad adoperarle né meno una; perché mi sarebbero cadute. E ricordandomi in vece, nettamente, qualche altra giornata quand'ero stato tanto bene in casa mia, quando non me n'ero né meno accorto di esserci! Io, dopo tanto tempo, devo domandarmi ancora per chi erano quei fiori. Ma le tortore hanno fame; e dico che comprino il miglio perché mangino. * * * Ci si sta così bene a piangere con la faccia su l'erba fresca che arriva fino all'anima! L'allodola! Piglia la mia anima!

Eva

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Verga, Giovanni 1 occorrenze

Poi ella compariva, sorridente, inebbriante - la luce si faceva e mi abbagliava. Ella trovava cento pretesti per venire a stare con me due o tre volte durante quelle visite, e in quei due minuti in cui ella mi saltava sulle ginocchia aveva tali carezze, tali baci, tali parole da farmi impazzire. Sembrava che gli ostacoli irritassero il suo amore e gli dessero mille nuove attrattive. Noi ci dicevamo delle cose futili, sciocche, senza significato, sottovoce, tremanti, estatici. - Poi ella mi lasciava con un bacio e scappava via. *** Una volta mi trovò che ridevo. "Che hai che ridi così?" mi domandò. "Penso alla bella figura che ci fanno quei tuoi amici di là, mentre tu sei qui con me ..." "Oh, mio Dio!... ma ne ridi in un certo modo!..." *** Un altro giorno le dissi: "Senti Eva, delle volte mi assale la tentazione di entrare all'improvviso in quel salotto, e schiaffeggiare tutti quei bei signori." "Sei matto?..." "Lo so anch'io. È una pazzia; ma ci avrei gusto, ecco!" *** Una sera ebbi la tentazione di origliare dietro l'uscio e di guardare dal buco della serratura. Lo feci con un gran battito di cuore - non di vergogna, ma di paura. Quand'ella venne da me, mi trovò così pallido e corrucciato che mi domandò dolcemente che cosa avessi. Io le dissi con amaro sorriso: "Che persone sono quelle, Eva?" "Oh, della migliore società." "Infatti sembrava che si tenessero molto al di sopra di voi. Vi fumavano in faccia!" "Hai visto?" "Sì!" esclamai con un sogghigno dove cercai di mettere tutto il fiele che avevo in cuore. Ella non mi rimproverò la mia indiscrezione. "Hai fatto male" mi disse semplicemente facendosi triste. "Ho avuto torto, lo so." "Non dico ciò per me, ma per te." "Oh, per me!" "Non ridere così, Enrico! Ascoltami; se vuoi essere felice contentati di amarmi e di essere amato come io ti amo. Tu hai il cuore caldo e la mente esaltata. Certe curiosità a mio avviso ti farebbero male." "Ah! voi lo sapete!" "Sì," rispose tranquillamente, guardandomi con tutta franchezza. "Ma che vuoi farci? Tu sai che cosa sono: mi hai amato appunto per questo. Ora per essere quella che sono bisogna che io mi rassegni a siffatte visite, anche quando mi annoiano." "Soltanto questo?" "Soltanto questo." "Oh! non basterà!" "Basterà ... perché ti amo!... Hai torto a lagnarti!" Mi guardò a lungo negli occhi con tanto amore che avrei giurato fosse sincero; mi prese entrambe le mani, e mi disse con serietà - ella che non era mai seria: "Ti amo ancora e voglio che tu mi ami. Mi prometti una cosa?" "Di'." "Giurami che non starai ad origliare dietro quell'uscio." "Ah!" mormorai amaramente con un riso ch'era una contrazione dolorosa del cuore. "Oh, mio Dio!" esclamò torcendosi le mani "Che timore potrei avere di essere spiata se volessi ingannarti?" "Perché non volete dunque che io ascolti?" "Perché ... tu l'hai visto ... Perché quelle familiarità insolenti che per me sono soltanto una mortificazione d'amor proprio, per te sarebbero morsi acuti di gelosia ... Per risparmiarti dispiaceri ..." "Che m'importa se questi non mi vengono da voi!" Ella lesse nei miei sguardi tutta l'amarezza che non c'era nelle mie parole, chinò gli occhi e mi disse solamente: "Come siete ingiusto!" C'era tal suono di verità nella sua voce, e così schietta e dignitosa franchezza nelle sue parole, nei suoi occhi, e nel suo gesto, che mi facevano soffrire orribilmente per tutte le sciagurate contraddizioni della vita. "Sì, lo sento che sono ingiusto!" esclamai. "Ma soffro orribilmente! sono geloso, Eva! Son geloso di te, di tutti quelli che ti vedono in teatro perché tutti ti desiderano; son geloso di tutti quelli che ti parlano, perché ti parlano per averti ..." "Oh!" esclamò Eva con uno scoppio di risa schiette e gaie "se sapeste come dovrebbero invidiarvi quei signori di cui siete geloso!" "Non importa; essi vi fanno la corte!" "Oh, non tutti! Ci sono quelli che vengono per prendere il mio thè, gli altri per trovare gli amici, altri perché la mia casa è di moda, altri pur di far sapere che ci vengono." "Io vorrei che non foste obbligata a ricevere tutte quelle persone, Eva." "Sono tutti abbonati, giovanotti chic, di quelli che dispongono dell'esito di uno spettacolo, ed io appartengo al teatro." "Io intendo che la donna che mi ama appartenga a me anzitutto!" "Allora non avresti dovuto innamorarti di una ballerina." "Oh, io mi innamorai della donna, perdio!" Ella sorrise tristamente. "La donna la vedesti un momento, nel dietro scena ... e scappasti via." "Ma io vi amo così, come siete!" "Lo sai tu come sono? Una donna non è che come vuol essere. Sai tu che cosa sarei senza la mia gonnellina corta e le mie scarpine di raso? Sarei una modesta operaia colle dita punzecchiate dall'ago, e con un vecchio ombrello sotto il braccio; una ragazza che potrebbe dirsi bellina se non avesse gli stivalini rotti e il cappellino di traverso - che andrebbe al mercato, farebbe la cucina, e se avesse fortuna sposerebbe un cuoco o un cocchiere. Ecco che cosa sarei, mio caro; invece ecco che cosa sono: faccio fare anticamera a tanti signori che sarebbero gelosi di te - e tu che non mi avresti neanche guardato se m'avessi vista andare attorno colle scarpe rotte, tu hai fatto delle pazzie per me. Oh! lo so bene ch'è assai meglio non esser costretti a far buon viso a quelli che ci sono uggiosi, e a soffrire delle galanterie insolenti. Ma che vuoi farci? Non son nata duchessa!" Venne a sedermi sulle ginocchia; mi cinse il collo delle sue braccia, e mi baciò a più riprese. "Andiamo, via! non piangere, bambino mio! amor mio! non piangere! mi fai male! Io ti amo davvero, sai! Non ho nulla da sperare da te, anzi potresti nuocermi, vedi che son sincera! Mi credi dunque che ti amo?" "Se tu non mi amassi così io farei una cosa semplicissima, mi ucciderei." "Ah! no!" esclamò essa con quel riso da bambina, tenendosi appesa al mio collo colle mani intrecciate, e dondolandosi sulle mie ginocchia. "Non voglio che tu ti uccida perché sei il mio amore, il mio amore bello! il mio amore bello!" e nella voce aveva la dolce cantilena con cui si cullano i bimbi. *** Alcune sere quelle visite si prolungavano molto innanzi nella notte. Era un giuoco di scherma fra quei signori a chi dovesse rimaner padrone del campo. Una volta Eva entrò improvvisamente e come se fuggisse. Era rossa in viso, e avea le narici dilatate. Chiuse l'uscio a chiave, si gettò su di me con passione, e nascose il mio viso sul suo seno, baciandomi sui capelli, come per impedirmi di uscire, o per nascondermi qualche cosa. "Che hai?" le chiesi svincolandomi dalle sue braccia, vedendola tutta turbata e colle lagrime agli occhi. "Nulla!" rispose. Io impallidii, e non osai domandarle altro. *** Il giorno dopo ella mi vide così cambiato che mi domandò anche lei. "Che hai?" E stavolta fui io che risposi: "Nulla!" Ella si fece pensierosa e parlò d'altro. Passammo quella notte come le altre, soffocando le ciarle infantili sotto i guanciali e scambiandoci i sorrisi nelle dolci ombre dei cortinaggi; però sentivamo che fra noi due c'era qualche cosa che ci faceva morire il bacio sulle labbra ed il riso in cuore. Ella mi guardava con quei suoi grand'occhi spalancati, col gomito sul guanciale, il mento sulla mano, il braccio trasparente attraverso la nebbia dei merletti, e i capelli che gettavano onde dorate sui candidi lini. - Aveva degli accessi quasi tristi e paurosi di tenerezza; mi gettava al collo le braccia nude, e mi nascondeva in petto la sua bionda testolina. - Poi mi stava di nuovo a guardare fisso senza dir parola, colla testa affondata nella tela batista, ed il braccio disteso, mentre le sue piccole dita giocherellavano colla trina della coperta. Una volta, mentre si parlava d'altro, esclamò: "Come son pazza ad amarti così!" E più tardi, dopo uno scoppio di risa tanto allegre e matte che mi facevano un senso di pena: "Come farò quando non mi amerai più?" Poi, senza badare a quel che rispondessi, mi parlò della sua sarta, delle sue vesti, dei suoi cavalli, dei suoi fiori, del teatro, di musica, di balli, mi parlò della mia arte, di me, del mio paese - giammai ella non mi aveva parlato della mia famiglia; era una circostanza che incominciava a sorprendermi. Era delicatezza? era istinto di gelosia? Allorché partivo, sull'alba, ella mi richiamò, mi attirò sui guanciali, allacciandosi tenacemente al mio collo, e mi domandò collo stesso tono della prima volta, come se fra la prima domanda e la seconda non ci fossero passate tutte quelle ore e quelle follie. "Che hai?" "Nulla." "Oh, non partire così!" esclamò colle lagrime nella voce. "Perché me lo domandi? Non mi ami? Non ti amo? Non siamo felici?" Ella appoggiava la testa sul cuscino, rivolta dalla mia parte, e mi fissava senza parlare, coi suoi grandi occhi pieni di lagrime. "Credimi," soggiunsi, "la nostra curiosità è funesta. Io l'ho capito, e non ti ho domandato altro, quando l'altra sera mi hai risposto: nulla." Mi prese le mani e le baciò - le sentii umide di lagrime. "Non mi ami più!" disse. "Dio lo volesse!" esclamai con un'esplosione di tutte quelle angosce che mi rodevano da due giorni. Ella si rizzò a sedere di botto, splendida di bellezza, sotto la fine batista, come una statua greca, e mi si buttò al collo, coprendomi di lagrime e di baci. "Si, tu mi ami! tu mi ami!" singhiozzò "ed io pure ti amo come una pazza!" Poscia, tenendosi allacciata a me come l'edera, nascondendo il suo capo nel mio seno, e parlandomi sottovoce, come vergognosa per quello che doveva dirmi: "Non credi che ti amo?" "Sì!" "Temi che io possa ingannarti per un altro?" "Oh, no!" E chinando maggiormente la testa, e abbassando di più la voce, e abbracciandomi più strettamente: "Perché quella domanda adunque?" "Perché ti amo! Perché son geloso ... in un altro modo." "Come?" "Oh!... non lo so!... non te lo dirò mai!" Tuttavia sembrò aver compreso, poiché allentò le braccia, non disse molto, e ricadde sul guanciale, nascondendovi il viso. "Ascolta!" mi disse vivamente, afferrandomi per le mani, mentre era per partire. "Piuttosto che cessare di amarmi ... quando lo vorrai ... domandami quello che vuoi ... Ti giuro che lo farò!" *** "Non voglio che tu venga a teatro" mi avea detto altre volte. "Perché?" "Perché ... perché ... È una fanciullaggine, lo so ... ma se ti sapessi là ... in mezzo a quella folla ... ciò mi farebbe pena." Io le fui grato di cotesta delicatezza, e promisi, e un giorno, la sera della sua beneficiata, con la logica così strana del cuore umano, le domandai di sciogliermi dalla mia promessa. Ella mi guardò sorpresa. "Perché?" "Voglio vederti." "Non mi vedi adesso?" "No! vederti là ... a quel modo!..." "Mi vestirò qui per te." "Oh, è tutt'altro!..." Ella sorrise e mi disse: "Orgoglioso!" "Orgoglioso?" "Si, vuoi godere del tuo trionfo, e dire: Quella donna che tutti desiderano mi appartiene!" "È vero ... sì!" "Ebbene," soggiunse semplicemente, "dillo pure giacché è la verità." La sua cameriera l'attendeva per pettinarla; prima di lasciarmi ella mi disse, come risovvenendosi: "Però mi prometterai di non essere geloso!" Ahimè! prevedeva forse che avrei dovuto esserlo? Non l'avevo più vista sul palcoscenico, e quando la rividi mi parve tutt'altra! Io comprendo come si possano fare quelle cose che si dicono pazzie - e sono brani di cuore strappato da penose voluttà, brani di ragione torturati dal delirio - per coteste donne che hanno un pubblico per amante, che ci sbattono sul viso tutte le seduzioni, inchiodandoci ad una poltrona d'orchestra, e che ci abbruciano gli occhi col lampo della loro bellezza, costringendoci ad affissarle avidamente. - Cotesta voluttà che s'inebbria di suoni, che abbaglia di luce, che sollecita con acri profumi, che vi fa ondeggiare dei veli dinanzi alla curiosità spasmodica, che ha il sorriso sfacciato, e la nudità pudica, che idealizza tutte le vostre più sensuali passioni, è mostruosa del pari, con tutte le cecità, con tutte le frenesie - e lo spasimo di sguazzarci dentro, le mani, i piedi, il petto, i capelli, di abbeverarsene, di affogarvi la coscienza, il cuore, il sentimento della vita, ha le medesime estasi inenarrabili, i medesimi splendori, le stesse torture, le stesse infamie ... Se si potesse vedere in cuore ad uno di quei felici mortali, su cui passa il turbine di una tal passione, e che va invidiato dalla moltitudine!... Quella donna per cui gli applausi avevano fremiti di desiderio era mia, avea posato la testa sul mio guanciale; ma io non ci pensai che per essere geloso delle sue spalle nude, della trasparenza dei suoi veli, di quei cannocchiali che sembravano baciarla con lingue di fuoco, di quelle mani inguantate che mi sembrava accarezzassero le sue spalle. Partii come un pazzo, assai prima che fosse terminato il ballo, ed andai ad attenderla in casa sua, arso di gelosia, di corruccio, di desiderio - spiegami tu questo contrasto. E allorché udii il suo passo leggiero per le scale, allorché me la vidi comparire dinanzi ancora ansante, allegra, ridente, colle guance rosse e gli occhi brillanti di giubilo, me le gettai al collo, stringendola freneticamente come se temessi di vedermela strappare dalle braccia. Ella credette che fosse l'entusiasmo destatomi dal suo trionfo! "Oh! come son contenta che tu sia stato lì!" mi disse senza scorgere il male orribile che mi facevano quelle parole. "Fu un vero entusiasmo, non è vero? Vedi quanti fiori!" E si pavoneggiava ingenuamente in mezzo agli enormi mazzi che il domestico aveva portato in sala. Io dovevo avere l'aria orribilmente stralunata; ma ella era così compresa della gioia del suo trionfo che non se ne avvide. Si aggirava intorno alla stanza con movimenti bruschi, vivi, quasi serpentini. Si mirava nello specchio, mi abbracciava e mi baciava, come baciava quei fiori, per sfogare la sua contentezza. "Quanto sono felice, mio Dio!" esclamava, senza avvedersi che egoismo c'era nella sua felicità. Suonarono il campanello. Eravamo nel salotto; ella mi prese per mano, e mi fece entrare nella sua camera. "Aspettami qui" mi disse. "È inutile, giacché me ne vado." "Te ne vai! E perché?" "Avrete molte visite ... È la vostra festa ..." "È vero!" disse tutta giuliva. "Vedete che mi rassegno anch'io ..." Ella mi guardò in volto con sorpresa. "Fai il broncio alla mia contentezza? Uh, brutto!" "No." "Davvero?" "Davvero." "Domani dunque?" "A domani." "Buona sera" Io non risposi; ella non se ne accorse. Era impaziente, tutta commossa di gioia, si contentava facilmente della mia affermazione, e non mi leggeva nulla in cuore. *** Partii con tal corruccio in cuore che mi sembrava di odiarla. Quando fui istrada piansi come un bambino. E il giorno appresso, dopo una notte di collera, di gelosia, e d'amore, appena furono le dieci corsi da lei. Avevo bisogno di vederla, di vedere i suoi occhi chiusi, di vederla dormire, e di sognare ancora le dolci notti di abbandono e d'amore. Avevo bisogno di schiudere le sue cortine, e di vedere il sorriso incerto di quelle labbra vermiglie ancora tiepide del respiro notturno, e quegli occhi ancora socchiusi che cercavano i miei. Entrai nella sua camera in punta di piedi, ma trovai ch'era già alzata, e che leggeva una lettera accanto al caminetto. Vedendomi entrare all'improvviso, si scosse bruscamente, come sorpresa, e fece un movimento istintivo e impercettibile quasi per nascondere la lettera che stava leggendo. Non fu che un lampo, ma bastò al mio occhio acutamente sospettoso. Si alzò, venne a gettarmi le braccia al collo, e mi disse con effusione: "Ah! bravo! Mi hai fatto un gran bene!" E gettò la lettera con tutta naturalezza sul marmo del caminetto. "Perché?" io le dissi. "Ieri sera mi lasciasti in tal modo! Vedi, ero così commossa che non mi avvidi che partivi in collera. Tu sei più buono di me ... Ci ho pensato tutta la notte ... Sei ancora in collera?" "Oh, no!" "Ma perché eri in collera? che ti avevo fatto?" Io chinai la testa senza rispondere. "Vedi", soggiunse, "se io avevo ragione di temere quello ch'è avvenuto! Ho più giudizio di te, io, o piuttosto t'amo di più." Mi prese per mano e mi fece sedere accanto al fuoco. "Come sei pallido!" mi disse. "Non hai dormito stanotte?" "No." "Caro! caro! caro!" esclamò con trasporto infantile baciandomi in fronte. Indi con improvvisa e ingenua vivacità: "Vedi, io t'amo per questo! T'amo perché mi ami così, perché sei matto, perché sei geloso, perché sei ingiusto e cattivo. Mi piaci così, ecco!" In questo momento sorprese i miei occhi che involontariamente si fissavano sulla lettera, e credette forse che la mia curiosità fosse rivolta a un braccialetto ch'era anch'esso sul marmo del camino, accanto alla lettera. "Ti piace quel braccialetto?" mi disse prendendolo in mano onde prevenire i sospetti che credeva scorgere in me. "Non l'avevo visto." "Ah!" esclamò come sconcertata. Aprì e richiuse due o tre volte la busta di velluto, facendo scintillare i raggi delle gemme, e soggiunse per riprendere un certo contegno, o per disarmarmi colla franchezza: "È un regalo per la mia beneficiata." "Oh!" "È bello, non è vero?" Io, che avevo la testa a tutt'altro, risposi: "Bellissimo." "È di gran valore." "Varrà per lo meno duecento lire." "Oh!" esclamò Eva, dimenticando a quella mia ingenua scappata tutte le sue preoccupazioni in una schietta risata. "Ne vale almeno duemila!" Ebbene, francamente, io fui umiliato della mia ignoranza sul valore delle gemme. "A che pensi?" ella domandò con una certa inquietudine. "Penso che sono ben fortunati coloro che possono offrire regali di duemila lire." "Tu mi dai il tuo amore che vale assai di più!" Io sorrisi amaramente. Si parlò un po' di tutto, ora serii, ora innamorati, ora quasi giulivi. Ad un tratto, le gettai fra i piedi questa domanda, che la fece trasalire, tanto era fatta bruscamente: "Chi t'ha regalato quel gioiello?" Ella rispose con la maggior franchezza. "Il conte Silvani. Saresti geloso di lui?" soggiunse vedendo che m'ero fatto serio. "Oh, avrei torto!" "E avresti torto davvero!" esclamò essa con tale accento dignitoso che mi umiliò. "Oh, Eva, perdonami!" esclamai quasi fuori di me, "Io m'avvengo che sono ingiusto e cattivo! Faccio dispetto a me stesso!... Ma son geloso! orribilmente geloso!" Per tutta risposta ella mi dette un bacio. "Perché non hai rimandato quel braccialetto?" le domandai dolcemente. Ella mi guardò con tanto d'occhi spalancati, come se stentasse a capire il significato delle mie parole. "Come, rimandarlo? Ma vuol dire rifiutarlo!" "Sì, rifiutarlo." Quel rifiuto sconcertava tutti i suoi principii sinceramente e francamente accettati da tanto tempo. "Ma non si usa in teatro!" mi disse sorridendomi come si fa ad un bambino che ha detto una sciocchezza. "Ah!" sogghignai. "Credevo che ci fosse della dignità anche fra le persone del teatro!" "Ma, mio caro, è un altro genere di dignità. C'è l'uso di far dei regali agli artisti in occasione delle loro beneficiate, e ciò non ha nulla di umiliante pel loro amor proprio. Perché ridi?" "Rido perché sono uno sciocco, un provincialetto, perché non so tutte coteste cose, e soprattutto perché non oserei mai offrire un regalo simile ad una signora per bene ... senza temere di farmi rosso in viso, o di farmi gettar dalla finestra dai suoi domestici." "Ma un'artista non è una duchessa, mio caro! te l'ho già detto." E ci metteva tanto candore che avrebbe disarmato tutt'altro risentimento che non fosse stato il mio. Andavo su e giù per la stanza, ed ella mi teneva dietro con gli occhi, tenera, amorosa, quasi timida - ella che era così orgogliosa! Io sentivo quello sguardo attaccato su di me, e sentivo che cercava il mio, che vinceva la mia collera, e m'irritava. Improvvisamente mi arrestai dinanzi al camino, soverchiato dal fascino mordente che quella lettera esercitava da un'ora su di me, e la presi in mano. Ella trasalì, ma non si mosse. "Entrando ho interrotto la tua lettura"; le dissi, e le porsi la lettera. Ella la prese vivamente. "Oh, nulla d'importante." "Ebbene, leggila pure." "L'avevo già letta", e con un gesto naturalissimo la buttò nel camino. Io non seppi dominare un movimento come per buttarmi sul fuoco. "Chi ti scrive?" le domandai facendomi rosso in volto. "Il conte Silvani." "Ah!" "Mi pare che la mia franchezza dovrebbe disarmare i tuoi pazzi sospetti!" "Tanto più che adesso devo contentarmi della franchezza!" le dissi amaramente, additando il foglio che ardeva. "Oh!" esclamò ella celandosi il viso fra le mani. "Oh!" Sentivo montarmi alla testa dei caldi soffi di collera selvaggia. Ella rimase un istante in silenzio, col viso rosso di vergogna, poi esclamò: "Siete pazzo!" "Avete ragione!" le dissi mettendo tutta la mia amarezza in un sorriso; e aspettai che mi rispondesse qualche cosa per sfogarmi di tutti i sarcasmi che mi bollivano in seno. Ella non mi diceva più nulla; attizzava il fuoco colle molle e aveva l'aria severa. "Quella lettera naturalmente accompagnava quel gioiello!" ripresi dopo un lungo silenzio, poiché sentivo il bisogno ch'ella dicesse qualcosa. "Sì" rispose seccamente. Allora, irritato di tanta calma, le domandai bruscamente: "Perché l'avete bruciata?" "Perché non vi riguardava." Perdei la testa: "È vero;" le dissi, "io non posso farvi dei regali di duemila lire!" Ella si rizzò come se l'avessi morsa al cuore, pallida, con certe lagrime ardenti negli occhi, e mi disse con un accento che non dimenticherò giammai: "Adesso siete più che ingiusto e più che cattivo!" C'era tanta collera nel mio cuore che non ne fui scosso. Rimasi com'ero, appoggiato al caminetto, duro, pallido, fosco. Ella fece due o tre giri per la camera, asciugandosi dispettosamente le lagrime; poi venne a me all'improvviso; prese le mie mani, e mi fissò in volto i suoi occhi lagrimosi. "M'avete fatto molto male!" mi disse. "M'avete detto quello che nessuno m'ha detto; mi avete rinfacciata la mia condizione come io sentivo di meritarmi, ma come nessuno osava dirmelo ... Ora che volete che io faccia?" "Scacciatemi." "Oh, no! ti amo troppo!" "Tu vedi come ti amo, come son geloso, giacché ti faccio piangere, e non fai nulla per togliermi da quest'inferno!" "Che cosa vuoi che io faccia? tutto quello che posso fare per provarti il mio amore non l'ho fatto? Tutto ciò che posso dissimularti per risparmiarti dei dispiaceri non te lo dissimulo? E tu me ne ringrazi con un aumento di sospetti ingiuriosi e d'insulti! La mia sincerità dovrebbe rassicurarti e t'irrita! Gli stessi fastidi che mi prendo per nasconderti quelle cose che possono ferire il tuo amore o il tuo orgoglio dovrebbero provarti che io ti amo tanto, sino a mentire per te!" Io la guardai in viso coll'occhio freddo e scintillante di collera come una lama di acciaio, e le piantai in faccia queste parole, come una pistolettata a bruciapelo: "Non vi credo!" Ella si celò il viso tra le mani, e si lasciò cadere sulla poltrona, come se quelle parole le avessero schiantato il cuore. Poscia levò verso di me il viso tutto bagnato di lagrime, e i singhiozzi le soffocavano la parola: "Perché?" balbettava "perché?" "Perché ti ho visto fingere allo stesso modo sul palcoscenico; perché il tuo volto è una maschera; perché dubiterò sempre che tu mentisca; giacché la tua arte è una menzogna!" gridai fuori di me, sputandole in faccia tutta la mia rabbia, tutta la mia gelosia e tutto il mio amore. Mi attendevo un'esplosione di collera. - Ella si alzò, pallidissima, si tenne ritta in faccia a me, piangendo silenziosamente e cogli occhi come attoniti per tanto dolore. Le labbra le tremarono due o tre volte prima di poter parlare. "Non mi credi!" balbettò. "E che dovrei fare perché tu mi creda? Dillo." "Dovresti abbandonare il teatro." "Oh!" "Dovresti romperla con tutto il mondo." "Oh!" "Dovresti venire a vivere con me." "Oh, no! non lo farò mai, perché ti amo!" mi rispose con uno scoppio di pianto. "Ah! è una ragione singolare!" "Si! Tu pel primo te ne pentiresti, tu!... No! no! no!" Allora, due o tre volte, feci per precipitarmi su di lei, e strangolarla; le gettai in faccia un sorriso che valeva uno schiaffo, e scappai via. Quando la notte tornai a casa, con tutte le smanie, tutte le frenesie, tutte le più pazze risoluzioni in cuore, trovai Eva, sulla soglia della porta, che mi aspettava. "L'hai voluto:" mi disse semplicemente, "ecco che t'ho obbedito." *** Credetti di esser felice. Ella mi apparteneva intieramente; non aveva che me. Mi pareva di avere avvinto più solidamente la sua esistenza alla mia, rompendo tutti i legami che l'attaccavano al mondo esteriore. Io più non sarei stato geloso di tutta Firenze, e avrei potuto uccidere come un cane colui che avesse osato stendere la mano verso la mia felicità. Mille volte avevo fatto quel sogno senza sperare di realizzarlo giammai, e l'avevo abbellito con seducenti particolari. L'idea sola di avere Eva accanto a me, ad ogni ora della mia vita, sotto il mio medesimo tetto, mi avea creato altre volte delle estasi di paradiso. Avevo sognato le ridenti follie di una eterna luna di miele, le passeggiate in campagna, la fiamma del caminetto, la lucerna della sera, i giuochi infantili, e i dolci silenzi. Avevo pensato a tutte le parole più comuni che ella avrebbe potuto dirmi nelle più insignificanti congiunture. L'avevo vista come un raggio di sole in tutti gli angoli della mia camera. Ahimè! il domani, allorché la vidi sotto le povere cortine del mio letto, allorché ebbe freddo e non ebbi altro da metterle sui piedi che il mio paletò, allorché accese il fuoco del mio camino e si tinse le mani - quelle candide manine - e tossì due o tre volte pel fumo, allorché dovette trascurare i suoi capelli per fare il caffè, provai un dolore nuovo e come una spaventosa sorpresa; mi parve che la fata fosse svanita, e non rimanesse più che una bella donnina - di quelle che piacciono - ma io avevo bisogno di adorarla! Un demone maligno si assise sogghignando al capezzale del mio letto sin dalla prima notte, per trascinare nel volgare e nel ridicolo tutte le mie illusioni. La realizzazione dei miei castelli in aria era diventata la sorgente di mille fastidi, di mille sorprese, ed anche di mille dolori. Ero costretto a starmi fuor di casa la maggior parte del tempo per non spoetarmi intieramente l'anima alla vista di lei che, con un'abnegazione senza pari, affaccendavasi nelle cure domestiche. Mi era parso che lo starle sempre vicino dovesse essere una felicità sovrumana, e quella felicità, vista da vicino, aveva particolari così volgari che mi facevano chiudere gli occhi e sanguinare il cuore. Delle notti intiere, col gomito sul guanciale, vedendola dormire accanto a me, bella, serena, quasi felice anche nel sonno - lei che mi aveva tutto sacrificato - domandavo a me stesso se ella soffocasse, come me, le medesime dolorose impressioni, oppure se non le provasse nemmeno perché mi amava di più, o in un altro modo, o se nella donna ci fosse, come un istinto provvidenziale, l'affetto del focolare domestico ... oppure se la sua condizione, l'educazione ricevuta, i suoi sentimenti, la tenessero molto al di sotto della mia ombrosa e delicata suscettibilità ... E finivo per darle torto - a lei! di non aver la delicatezza di risparmiarmi certi particolari volgarissimi che mi sembrava affrontasse con la più volgare disinvoltura ... Non cerco di spiegarti cotesto mostruoso mistero che chiamasi cuore. Non mi sono mai sognato di giustificarlo. Ti faccio osservare un fatto. Cotesta disillusione, cotesta amarezza intima, m'invadeva tutto, la mente come il cuore. L'arte mi negava anch'essa le sue ispirazioni; era forse gelosa, o la vita mi assorbiva troppo per potermi sollevare sino ad essa. Però fu un altro gran dolore per me. Provare la febbre e l'impotenza di creare! L'hai tu provato? Ero stato delle ore intere dinanzi a quel cavalletto, accanto a quella donna che mi aveva riempita l'anima di tanta luce e di tanti colori, che adesso attaccava i bottoni ai miei vestiti, e mi rendeva ebete; e qualche volta mi ero strappato i capelli, qualche altra volta avevo pianto di rabbia, o avevo tirato giù linee o pennellate che il giorno dopo scancellavo. Ella mi guardava con sorpresa, mi stringeva le mani, mi diceva delle parole affettuose. Io le rispondevo sgarbatamente, infastidito, quasi iroso, e delle volte, trovandomi l'anima così vuota, piangevo tutt'altre lagrime. Intanto i bisogni materiali della vita si facevano sentire più che mai. Quel pochissimo di cui potevo disporre era stato dissipato in un lampo; ero indebitato fin sopra ai capelli coll'oste, col padrone di casa, con tutti i miei amici, ed anche coi semplici conoscenti, poiché la necessità mi aveva reso sfacciato. Avevo momenti di preoccupazione tale che le carezze di Eva mi avrebbero fatto montare in collera. Non osavo più scrivere ai miei genitori perché avevo l'orgoglio del mio fallo, ed il mio amore sciagurato non era abbastanza potente per assorbire anche e soffocare il rimorso di strappare il pane di bocca alla mia famiglia onde prolungare la mia dolorosa follia. Ero troppo orgoglioso per far trapelare ad Eva la menoma mia preoccupazione; e allorché ella si mostrava più affettuosa, più sommessa, e cercava timidamente di prender parte alle mie angustie e di venirmi in aiuto, avevo per lei modi aspri e parole dure. Per vivere alla meglio avevo accettato una delle più umili occupazioni - dipingevo ad oleografia; il mio cervello si atrofizzava, ma si tirava innanzi. *** Il verno era ritornato, e rigidissimo. Io andavo al caffè tutte le sere a bere il ponce e a leggere il giornale, mentre Eva mi aspettava a casa. Mi occupavo delle quistioni internazionali e tenevo dietro al corso dei valori pubblici con interesse! Leggevo sino alla quarta pagina; poi facevo quattro chiacchiere coi vicini, e tornavo a casa sbadigliando. Una sera avevo trovato il ponce freddo; la politica volgevasi contraria al mio colore - poiché avevo già un colore politico! - il mio vicino era stato sgarbato; fioccava maledettamente, e tornando a casa avevo trovato il camino spento. "Perdio!" dissi ad Eva aspramente; ella lavorava presso il lume. "Non vien certamente la voglia di tornare a casa." Essa levò su me i suoi occhi sempre dolci e sereni, e non rispose. "Con una notte come questa farmi trovare una ghiacciaia!" ripresi. Vedevo che ella avea il viso livido, che tremava dal freddo sotto il suo scialle, e non pensai che in quella ghiacciaia ella avea dovuto pur starci tutto quel tempo in cui io avevo acconciato l'Europa a modo mio, seduto in un angolo ben riscaldato del caffè. "Non è freddo" rispose. "Perdio, s'è freddo, si gela." "Non c'è più legna", soggiunse timidamente. "Non ce n'è più in Firenze?" Ella chinò il capo sul lavoro e stette zitta. "Non hai danari?" domandai. Era la prima volta che quella parola mi veniva sulle labbra, e malgrado fossi tanto cambiato, mi fece una singolare impressione, come se avesse suonato altrimenti della mia intenzione. "No", rispose Eva dolcemente. "Come! non hai danari?" replicai, senza che la parola quella volta mi ripugnasse. "Hai fatto delle spese straordinarie?" "No." "Ma non siamo che ai venti del mese." "È vero." Malgrado il mio abbrutimento un raggio di luce si fece nella mia mente, e mi parve che attraversasse la parte più sensibile del mio cuore come uno stile di acciaio. "Vuol dire ..." esclamai, sentendo che la voce mi tremava, "vuol dire che i danari che ti ho dato ciascun mese ... non bastavano!" "Che importa?" mi diss'ella sorridendomi con la stessa dolcezza. "Ma allora ... come hai fatto?..." "Avevo del danaro." "Tu!!!" e mi nascosi il volto fra le mani. Il mio orgoglio si contorceva dolorosamente, poiché il mio cuore non si commoveva più. "Sì." "Tu non avevi nulla quando venisti." "Avevo quei pochi gioielli." "Li hai venduti?" "Sì." "Ah!" Ella venne a me dolcemente; mi rialzò il capo, e mi baciò in fronte. "Non mi ami più?" disse. "Perché?" "Perché quello che io ho fatto ti dispiace." "No." "Ti fa arrossire." "Sì." "Non mi ami più! Io non mi son vergognata di quello che hai fatto per me." "È tutt'altra cosa; io sono un uomo." "È lo stesso quando si ama!" Io le baciai le mani, e la guardai con occhi che avevano le migliori intenzioni di adorarla. Ella aveva una cuffietta assai modesta; alcune ciocche di biondi capelli le scappavano attraverso i nastri scoloriti; sul suo seno s'incrociava un leggiero scialletto; aveva le labbra pallide e le mani livide. Le prime parole che mi vennero in bocca furono: "Ed ora come si fa?" "Bisogna aver coraggio!" "Oh, se potessimo contentarci delle belle parole!" le dissi aspramente. "Mio Dio!" rispose ella timidamente, come per rabbonirmi, "non sono stata mai ricca, tu lo sai; quella bella casa e quei bei mobili non mi appartenevano, e, pur troppo, tutto il mio danaro lo spendevo malamente per vivere in un certo lusso; sicché quando gli ho voltato le spalle possedevo ben poco. Ho fatto tutto quello che ho potuto, e te l'ho nascosto per risparmiarti un dispiacere di più. Adesso non ho più nulla." "Io non vi ho chiesto nulla!" le dissi amaramente. "Oh!" "E se l'avessi saputo non vi avrei permesso di infliggermi questa umiliazione che adesso mi rinfacciate!" "Oh!" ripeté Eva con un raddoppiamento di dolore. Io non ebbi cuore per prendere le sue mani, con le quali si celava il viso, e asciugarle le lagrime che vedevo scorrerle fra le dita. "Enrico!" mi disse ella dolcemente come nei nostri più bei giorni d'amore, "vedi come sei diventato? Vedi se m'ingannavo presagendo quel ch'è successo? Tu te ne sei pentito pel primo!" L'abbassamento morale, direi, era così pronunziato in me che non pensai nemmeno di protestare per illuderla; e non pensai che quel mio lugubre silenzio doveva pesarle sul cuore come piombo fuso. Poi, quando me ne avvidi, dopo un lungo e mortale indugio, non trovai di meglio per consolarla che sciorinare un'imprecazione. "Arte pitocca e bugiarda!" esclamai stendendo il pugno verso il cavalletto "che vai tronfia d'orgoglio e non dai pane da sfamare!" Eva mi guardò sorpresa, quasi addolorata. Io le risposi quel ritornello che riepilogava tutte le mie abbiezioni: "Ed ora come si fa?" Non rispose. "Se tu tornassi al teatro?" le dissi con tutta naturalezza, compiacendomi, direi, della mia vigliaccheria. "È impossibile;" rispose colla stessa calma rassegnata; "non è la sola abilità che forma l'artista; ma la carriera fatta, il palcoscenico, il pubblico, i giornali teatrali, i cartelloni degli spettacoli, gli agenti, gli impresari. Bisogna vivere in questo mondo per appartenervi. Io ne sono uscita, e nessuno più mi conosce. Per rientrarvi bisognerebbe che incominciassi da capo." Allora soltanto mi balenò dinanzi agli occhi tutta l'estensione del sacrificio che ella avea fatto alle mie folli esigenze. "E tu sapevi tutto questo?" le dissi. "Sì" rispose tranquillamente "e sapevo anche che doveva arrivare questo giorno." "Ti giuro," esclamai, "che ti renderò tutto quello che mi hai sacrificato, o mi ucciderò!" Ella mi guardò in modo singolare con quei suoi occhi mesti e dolci, e mi disse quasi con un soffio di voce: "Io non me ne sono mai lagnata, e tu non mi avevi mai promesso di ucciderti." *** Passai la notte in magnanime risoluzioni, e appena fu giorno cominciai a darmi le mani attorno per cercare altre occupazioni che mi fruttassero qualcosa. Ma le magnanime risoluzioni non riuscirono che a procurarmi un modesto impiego, presso un fotografo. Di meglio in meglio, dalle nebulose altezze della grande arte io ero arrivato a stendere i colori dietro le fotominiature che si vendevano a dodici lire l'una. E neanche questo bastava. Io ero inquieto, irascibile, dispettoso. Ella trascurava il suo vestire, era triste, e qualche volta stizzosa; aveva certi suoni di voce aspri, certi sorrisi che non la rendevano bella. Io credevo coscienziosamente di farle dei veri sacrifici andando a casa la sera invece di andare al caffè, e fumando la pipa accanto a lei, leggendo il giornale, mentre ella lavorava. Ambedue senza dire una parola, sentendoci gravare quel silenzio sul petto come un peso enorme. Dopo alcuni giorni osservai in lei un cambiamento che mi avrebbe sorpreso se il mio cuore fosse stato più all'erta. Ella cantava per la camera, sembrava allegra, aveva comperata una veste di seta e degli stivalini nuovi coi suoi risparmi - faceva già dei risparmi! - Aveva dei guanti e si abbigliava con cura! Quell'aria di festa si era stesa anche al mio focolare e sulla mia mensa - ed io ne godevo come un parassita! Mi accadde due o tre volte di non trovarla in casa, e non le domandai dove fosse stata. Una sera trovai la chiave nella serratura. La camera era buia. La chiamai e non rispose. Accesi il lume e vidi la camera vuota; sul camino, appoggiata allo specchio, e messa con cura in evidenza, c'era una lettera aperta; era per me - ecco che cosa lessi: " Mio caro Enrico, tu non mi ami più, io non ti amo più nemmeno - e siamo pari. Te l'avevo predetto! Tu mi hai visto attizzare il fuoco, e far la calza; io ti ho visto stendere tranquillamente i colori sulle tue stupide fotografie, senza ispirazione e senza entusiasmo; ecco perché non ci amiamo più. Le asprezze, i diverbi, le amarezze, son degli accessori. Domani forse saremmo arrivati a picchiarci! Ti lascio, e credo fare del bene anche a te. Tu hai bisogno di sognare per buscarti gloria e quattrini; io non ho che la mia giovinezza, e bisogna che ne approfitti se non voglio andare a finire all'ospedale. Tu hai il cuore buono; ti ho parlato con franchezza, e credo perciò di non lasciarti in collera. Io ti voglio sempre del bene, e te lo proverò, quando potrò. Eccoti 500 lire. " *** Devo confessare che la prima impressione destatami da quella lettera fu di sollievo. Tutto quello che c'è di falso e di malsano in tali legami si scorge al sentimento inesplicabile di soddisfazione che si prova rompendoli, anche quando il romperli costi qualche lagrime. Poi, quando la tempesta è passata rimangono qualche volta nei bassi fondi limacciosi le serpi che si sono avviticchiate più strettamente al cuore, e che hanno più tenace vitalità: - il dispetto, l'amor proprio ferito, la vanità schiaffeggiata. Trovandomi solo in quella camera ove m'aveva aspettato tante volte, non pensai ad altro che al modo con cui ella l'aveva abbandonata; e quando mi avvicinai a quei guanciali che conservavano ancora l'impressione del suo capo non pensai a quell'altro letto dove ella forse dormiva, se non perché non era il mio. Non pensai a quei baci che più non desideravo se non perché un altro li aveva. E al nuovo giorno il raggio di sole che veniva dalla finestra era così allegro, diceva tante belle cose della giovinezza, dell'arte, dell'avvenire, della mia famiglia, cui non avevo rivolto il pensiero prima senza una spina nel cuore, che mi trovai con sorpresa l'animo in festa: esso non voleva rammaricarsi ad ogni costo dell'abbandono di Eva. Scrissi ai miei genitori, fumai la mia pipa, riordinai tutti i miei utensili da dipingere, come se non dovessi che ritornare all'arte perché l'arte mi sorridesse, e non pensai ad Eva che pel dispetto di aver trovato fra la cenere del caminetto una busta mezzo arsa, ove l'indirizzo di lei era scritto con quello stesso carattere elegante della lettera che accompagnava il braccialetto del conte Silvani - e per quel biglietto di cinquecento lire che, tutto sdegnato, misi nel portafogli, col fermo proposito di buttarglielo in volto quando l'avessi vista. Ahimè! io non la rividi! non le buttai nulla in viso! Il vuoto che si era fatto nel mio cuore, a furia di vivere soltanto per esso, mi avea prostrato intieramente, e aveva isterilito il mio ingegno. Tutte le orride lingue della miseria del cuore, dell'intelletto e della borsa, lambivano la mia esistenza. L'avvilimento mi snervava, e logorava la mia vita nell'ozio, sulle panche di un bigliardo o di un caffè. I debiti, l'inerzia, e la miseria mi affogavano; tutta l'attività del mio spirito non aveva altra mira che di farmi acconciare alla meglio in quel fango - ed io mangiai tranquillamente il biglietto di cinquecento lire. *** Poi anche questo finì. E allora incominciai un'altra lotta più bassa, più accanita, più dolorosa, la lotta degli espedienti, delle transazioni d'amor proprio, delle viltà, contro un desinare. Dopo aver venduto tutto quello che era vendibile, le tele, i disegni, le scatole, i colori, gli abiti, le scarpe, tutto, mi trovai senza pane, quasi senza vesti, alloggiato come in ostaggio del mio debito, con cinque lire in tasca, e certe allucinazioni come quelle che si devono provare al momento di smarrire la ragione. *** Mi venne in mente di giocare. Mi ricordai di tutte quelle storielle e di tutti quei bei romanzi ove si parla di guadagni enormi fatti con un nulla, e mi parve d'esser ricco possedendo cinque lire e quella bella idea. Salii senza esitare le scale di una casa ove gli artisti e gli studenti poveri andavano a disputarsi l'un l'altro il pane quotidiano; arrischiai una lira, poi l'altra, poi l'altra, poi l'ultima. Vedevo delle fiamme abbaglianti passarmi dinanzi agli occhi, e provavo degli improvvisi sbalordimenti. Mi parve che si facesse un gran vuoto nel mio cuore e ne sentii tutta la penosa sensazione, nel momento in cui si voltava la carta che doveva decidere dell'ultima mia lira. Tu non sai quel che voglia dire l'ultima lira; vuol dire il pane dell'indomani, e si ha lo stomaco vuoto! e i fantasmi dei tuoi bisogni ti attraversano in un lampo lo spirito!... Poi sentii una gran calma improvvisa, come una specie di benessere, una terribile lucidità d'idee. Avevo perduto. Almeno non avevo più nulla! Scesi le scale con passo fermo. Avevo la vista chiara e la mente tranquilla. Passeggiai per le vie più frequentate; lessi gli annunzi degli spettacoli; passai dinanzi alle vetrine di parecchi caffè provando una strana soddisfazione a veder la gente che vi era; andai pel Lungarno alla Pescaia, e stetti una mezz'ora a guardare i bizzarri riflessi del gas sulle acque del fiume, senza pensare un istante che sarebbe stato anche più bello trovarvisi in mezzo. Poi, quando suonò la mezzanotte, mi trovai come per abitudine nella mia strada. Avevo freddo, e mi ricordai che non avevo meglio da fare che andare a letto. *** Il giorno dopo pensai che era naturalissimo di andare a chiedere qualche cosa in prestito al solo amico che non mi voltasse ancora le spalle, come tutti gli altri, Giorgio, e mi meravigliai come quell'idea non mi fosse venuta prima. Quell'idea non mi fruttò che una lunga corsa, ed io non ero molto in forze. Giorgio non era in Firenze. Domandai quando sarebbe ritornato; mi risposero, fra dieci o quindici giorni. - Dieci o quindici giorni! Quella risposta mi lasciò come istupidito; tornai indietro colle mani nelle tasche, e zufolando un'arietta fra i denti. Mi venne in mente di fumare. Cercai in tutte le mie tasche, e non vi trovai che uno scatolino di fiammiferi; era pieno. "Se potessi cambiarlo con un sigaro!..." pensai, "o con un pezzo di pane!" E credo anche che scappai a ridere! Avevo una preoccupazione insistente; quella di ammazzare il tempo come se aspettassi qualche avvenimento e l'indugio mi pesasse. Pensai di trastullarmi colle mie fantasticherie, giacché non avevo più fiducia nell'ispirazione, e di andare alle Cascine per cercarvi la solitudine. Ahimè! la mia mente era vuota, come il mio cuore, come il mio stomaco. Andavo baloccandomi come un imbecille pei viali, ora guardando correre le nuvole più basse e brune su di un cielo di piombo, attraverso gli incrociamenti dei rami nudi, ora tenendo dietro con grande curiosità ai passeri che correvano sull'erba riarsa dal gelo in cerca di cibo - anch'essi avevano fame. Tutt'a un tratto udii uno scalpito accelerato e un grido "guarda!" e mi gettai sul ciglione, tutto sossopra, come se ne valesse la pena! E vidi passare come frecce due cavalieri, anzi un cavaliere e un'amazzone. L'amazzone era lei, Eva! - la riconobbi al riso, rideva allegramente, e alla persona: ma non la vidi in faccia; era rivolta verso il suo compagno, gli parlava e non mi vide - credo almeno che non mi abbia visto. Il suo cavallo era coperto di sudore, aveva le narici rosse e mandava nugoli di fumo. Ella era leggermente inclinata sulla sella; acconsentiva la mano alle redini e tutta la persona ai bruschi movimenti del cavallo, con grazia ardita e sicura. Si udivano stridere il cuoio e le cinghie della sella; il velo le svolazzava dietro coi biondi capelli, e la lunga veste ondeggiava come un prolungamento della sua persona. Il giovane che l'accompagnava aveva la sigaretta fra le labbra, il brio spensierato, e nel sorriso, nel gesto, nel guanto, aveva come l'insolenza di tutte le ricchezze, della gioventù, della salute, dell'avvenenza, della condizione e del danaro. Non so se Eva mi vide; so che vedendola così bella e accanto a quel bel giovane mi parve tutt'altra donna; mi parve che non avrei giammai osato di stringerle la punta di un dito. Più non sentivo il menomo desiderio di lei. C'era come un abisso fra di noi. Ella era così lontana, così in alto, che non provavo né desiderio, né memorie - o erano di tutt'altro genere. - Se mi avesse gettato un pezzo da cinque lire, non l'avrei preso, ma se mi avesse buttato un pezzo di pane, chissà ... quando ella avesse svoltato l'angolo del viale!... *** Verso le sei mi trovai senza avvedermene dinanzi all'osteria dove solevo desinare. Mi sentivo stanco, e mi rammentai che non avevo mangiato dal giorno innanzi. Allora provai una paura improvvisa, rapida come un lampo. "Dio mio!" balbettai, "se lo sapesse mia madre!" Mi aggirai tutta la sera per le vie come un fantasma, senza direzione, senza sapere che fare, guardando stupidamente tutti quelli che incontravo, non per altro che per cercar d'indovinare se avessero desinato. *** Il freddo mi arrecava le convulsioni; avevo le vertigini; la mia camera era gelata, e le coltri della padrona erano povere come il mio vestito. Tutta la notte non potei chiuder occhio: provavo degli stiramenti convulsivi di stomaco, delle nausee che mi facevano assai soffrire. Mi rammentai di Eva, di averla incontrata alle Cascine, e quel ricordo fu come di persona che avessi conosciuto molto tempo addietro. Nella mia mente c'era un penoso sonnambolismo che faceva correre incessantemente il mio pensiero stanco dietro certe larve senza forme precise, o dietro le memorie del passato. Mi ricordavo di tutti i particolari del mio amore per Eva, anzi una forza che non era nella mia volontà vi costringeva quasi ostinatamente il mio pensiero, e parevami che mi ricordassi di un fatto accaduto ad altra persona, o narratomi molto tempo addietro. Non mi sorprendevo nemmeno di non esserne geloso. Prima di tutto l'amore sta in un complesso di circostanze, e in me allora non c'erano che circostanze negative. L'avevo amata quando la mia immaginazione e il mio cuore sarebbero stati ricchi. Quanto alla gelosia, essa richiede, se non un grande amore, almeno una certa dose di amor proprio che renda possibile un parallelo anche ipotetico fra due rivali. - Io avevo fame! *** Avevo anche preoccupazioni lugubri. Pensavo alle ore che mi rimanevano ancora di vita e alle sofferenze che dovevano accompagnare tal genere di morte, come per conciliarmi con quell'idea. Non osavo uscir di casa, non ne avrei avuto la forza, e sembravami che tutti dovessero leggermi in viso la fame. Avevo ancora dell'orgoglio! L'aria era frizzante. Dalla finestra vedevo la gente andar lesta, certuni avevano la cera sorridente: molti una tranquilla spensieratezza; tutti erano certi di trovare a casa il desinare. Vedevo i camini che fumavano, e, attraverso i vetri delle finestre di faccia alla mia, donne affaccendate e fumo di vivande. Vedevo tutto ciò con una dolorosa lucidità di mente, e fermavo il mio pensiero in mezzo a tante domestiche felicità, che vedevo o che indovinavo, con una penosa voluttà; e domandavo a me stesso, con immenso sconforto, se fosse possibile che tutta quella gente felice potesse credere che a venti passi c'era un uomo che moriva di fame. *** La sera le mie sofferenze si fecero insopportabili. Uscii come un pazzo. Mi trascinai dinanzi a tutti i caffè e a tutti i teatri, nascondendomi fra i monelli, cercando il buio, esitando lungamente. Poi, tutt'a un tratto, mi trovai abbietto, rassegnato, contento di esserlo. Vidi uscire una coppia di giovani eleganti dalla Pergola; la donna bella, coperta di pellicce e sorridente; l'uomo con la cravatta bianca, e guardava lei con occhi innamorati. Ella montò in una bella carrozza, gli strinse la mano e gli sorrise. Egli la vide partire, col cappello in mano e gli occhi intenti; allo svolto della via un guanto bianco si affacciò allo sportello del legno, e il giovane salutò nuovamente quel guanto; poi si avvicinò al gas e lesse un piccolo bigliettino che aveva in mano; - gli occhi gli raggiavano, sembrava felice, doveva esser buono. Me gli avvicinai col cappello in mano e gli dissi: "Ho fame." Cotesta terribile verità doveva leggersi chiaramente sul mio volto, poiché quel giovane mi guardò sorpreso, senza parlare, e mi diede un biglietto da cinque lire. Dovette accorgersi delle lagrime che avevo negli occhi febbrili; si fermò a guardarmi e mi disse: "Voi siete giovane, e sembrate sano; come va che avete fame?" Però non attese altra risposta da me - io non avevo alcuna da dargliene - e soggiunse: "Se volete occuparvi venite a questo recapito domani alle undici." *** Era giovane, amato, ricco, felice, aveva del cuore, e quel ch'è più raro, la delicatezza del cuore. Egli mi fece fare il suo ritratto, me lo pagò benissimo, non solo, ma risparmiò anche il mio amor proprio comprendendo le cinque lire che mi aveva anticipato nel prezzo del lavoro. Egli mi aiutò in tutti i modi, col danaro, con le raccomandazioni, cogli incoraggiamenti, ed anche, posso dirlo, colla sua amicizia. Mercè sua entrai in un'altra vita, nella vita operosa, lauta e onorata. Povero giovane! aveva il cuore pieno e l'espandeva! Un bel giorno la sua felicità si esaurì – egli avea creduto che fosse inesauribile. - La sua amante era una gran dama, portava un bel nome, e cambiava spesso d'abiti e d'amiche intime. - Egli ebbe un duello, per una quistione di giuoco, con un capitano di cavalleria, e fu ucciso - il marito fece da secondo del capitano. - I suoi migliori amici gli diedero torto; dissero che egli spingeva le cose sino al romanticismo, che aveva mancato di delicatezza e di saper vivere che l'avea ricompensata di tutti i sacrifici ch'ella gli avea fatti pel passato, e della felicità che gli avea regalato, compromettendola; che era ridicolo mostrarsi più geloso del marito. Egli pagò con la vita. *** Perché ti ho narrato anche questo episodio estraneo al mio racconto? Tant'è, acciò serva a qualche cosa, ti dirò che, non so perché, pensai ad Eva che non era ricca, che non era gran dama, che non aveva un bel nome, e che era nella condizione di dover smungere borsa dai suoi amanti, come la gran dama smungeva i cuori dei suoi. *** Io avevo vissuto vent'anni in dieci mesi, e mi sentivo forte, pieno di vita, di cuore, di memorie e d'immaginazione. Se non avessi tanto goduto e tanto sofferto credo che non avrei mai avuto tanta vigoria di mente e d'anima, tanta felicità di trasmettere nelle mie opere cotesta sovrabbondanza di vita. Avevo una bella riputazione, ero quasi ricco, e godevo la vita - io che avevo avuto l'anima piena di sogni luminosi e di aspirazioni ideali, e l'avevo ancora qualche volta! La contraddizione che c'era nella mia esistenza fra le passioni e i sentimenti, si rivelava nelle mie opere. Ero falso nell'arte com'ero fuori del vero nella vita - e il pubblico mi batteva le mani. Quegli applausi, delle volte, mi umiliavano agli occhi miei stessi, ma sovente mi ubbriacavano. Sembravami che andassi tentoni in cerca di non so che; mi sentivo isolato, e spesso ridicolo; avevo una menzogna per l'arte che avvilivo e per la società che ingannavo; mi inebbriavo di tutti i piaceri, e di tanto in tanto sentivo il bisogno di uscir fuori da quell'atmosfera come un nuotatore che annega. Non mi rimanevano che le passioni più sterili, e le arricchivo di tutte le esuberanze del mio cuore, poiché sentivo il bisogno di avere delle passioni ad ogni costo. Non credevo più nell'amore, dopo averne fatto lo sciagurato esperimento, e dopo aver veduto nelle braccia del grosso capitano di cavalleria quella donna per la quale il mio benefattore avea dato sorridendo i suoi venticinque anni, quella donna così elegante, così delicata, così poetica - e mi sbramavo nel capriccio. Non avevo un caldo sentimento religioso; il sentimento civile lo vedevo sciupato nelle lotte dei partiti, e intorbidato dalle dispute di giornali, rare volte convinti di aver ragione. Vivevo lontano dalla famiglia, in mezzo ad un mondo di usurai e di egoisti e di gaudenti; l'atmosfera era calda di effluvi giovanili. - Come vuoi che io potessi comprender l'arte in tali condizioni?... mettendomela sotto i piedi! Arrossivo delle mie illusioni di una volta, e per non ridere di me che mi ostinavo ancora a sognare in mezzo a tanti che tenevano gli occhi aperti, risi di quella buffonesca serietà, e di quella sordida preoccupazione generale. Risi del contegno ipocrita per nascondere il marcio, della frase elegantemente vaporosa che conteneva desideri volgari, del pudore del velo, e dell'innocenza dello sguardo. Ero ricco di giovinezza, di gloria e di fiducia in me. Più di uno stivalino altiero, di quelli che avevo sognati, avea toccato per me il lastrico della via, e si era posato furtivo sul tappeto della mia scala. Più di un guanto profumato era stato dimenticato sul mio canapè. Ti giuro che i miei sogni valevano assai più della realtà! Ah! le mie duchesse di via Santo Spirito! Se avessi saputo che la scienza della vita dovea costarmi tante e sì care illusioni, io avrei preferito la miseria, l'oscurità e i miei castelli in aria. Non ti dirò di chi fosse il torto, anzi probabilmente era il mio, perch'ero sognatore, perch'ero ombroso e diffidente, perch'ero divenuto scettico, perché amavo da osservatore, e mettevo sempre del riserbo, direi della restrizione mentale, nelle espansioni del cuore. Quando nei trasporti amorosi non si mette lo stesso abbandono dalle due parti, una delle due è ridicola di certo - Non so quale. *** Nei crocchi eleganti che frequentavo sentivo spesso parlare di Eva come si parla del miglior cavallo da corsa, dell'opera in voga, e della più bella pariglia. Era un'appendice necessaria a quella vita di lusso e di piaceri. Io avevo buttato dalla finestra le poche memorie che mi rimanessero di lei - i suoi nastri scoloriti, i suoi stivalini rotti, i suoi guanti scompagnati. - Avevo lasciato da molto tempo quella cameretta dov'ella aveva dormito tanti sonni - ed ora, a volte, sentivo un ardente desiderio di rivederla, d'incontrarla, di gettarle in faccia il lusso della mia felicità. - Non era più amore, ma era vanità. - Io non so quale dei due sentimenti sia più forte; certo spesso si scambiano l'uno per l'altro. Non l'avevo più vista. La dicevano bella come prima, elegante come un mazzo di fiori, e corteggiata come una regina. Molti entusiasmi giovanili si scaldavano parlando di cotesta donna che avevo visto attizzare il fuoco del mio camino; e non rammentai altro che la sua bellezza, la sua eleganza, e il suo sorriso - ricordi che mi montavano alla testa. - Ero dispettoso che la fosse così, e che sembrasse ancora così agli altri. *** Una sera ero al Pagliano, in uno di quei palchetti dove è favore distinto essere ammesso, dove i numi dell'olimpo fiorentino si pigiavano come ad una mostra, per scambiare un sorriso o una stretta di mano, in faccia ad un pubblico di gelosi, con la dea del santuario. Io le sedevo accanto, e la dea mi largiva parole e sorrisi. Tutt'a un tratto la vidi aggrottare il sopracciglio, da vera dea, prendere l'occhialetto, e dirigerlo bruscamente su di un palchetto di faccia - era uno di quei gesti espressivi che usano le gran dame quando non vogliono scendere alla parola - ma siccome non mi curavo di seguire il capriccio di lei, così mi contentai di guardare quel braccio nudo, tanto bello ch'era pudico, e si nascondeva nel guanto sino a metà. Però l'osservazione di lei era così insistente che, senza volerlo, seguii la direzione di quell'occhialetto, e ne vidi un altro che gli rispondeva come una pistola da duellante. La dea si stancò per la prima, e distese mollemente il braccio sul velluto del parapetto. Allora anche l'altro occhialetto scomparve, e riconobbi Eva - Eva sfolgorante di tutta la sua bellezza, colle spalle e le braccia nude, i diamanti fra i capelli, i merletti sul seno, la giovinezza, il brio, l'amore negli occhi - anzi, la voluttà - e il sorriso inebbriante - il sorriso che faceva luccicare come perle i suoi denti. "Chi c'è nel palco numero tre, in seconda fila?" domandò la dea con quell'accento inimitabile che hanno le dee quando parlano dei semplici mortali. L'officioso più lesto e più fortunato rispose: "Il conte Silvani." "È un pezzo che non si vede il conte!" "È stato in Germania." "E ha preso moglie?" "No." "Ah!" Nel vestibolo incontrai di nuovo Eva di faccia a faccia. Ella mi lanciò di bruciapelo uno di quei tali sguardi, come se mi desse un pugno al cuore. La dea aveva un altro genere di sguardi, quelli della lente che vi tiene a distanza poiché l'occhio non vi vuol riconoscere, e domandò, con quel muto linguaggio, all'insolente che osava fissare gli occhi su di lei, come non rimanesse abbagliata da tanto splendore. Eva si contentò di sorridere, levando il capo per dire qualche parola al suo compagno, mentre si appoggiava al suo braccio con un raddoppiamento di leggiadra civetteria; - il conte era alto e le dava il vantaggio di levare il capo verso di lui per parlargli, vantaggio grandissimo per le donne che sanno farlo in un certo modo! - Lasciò anche scivolare la mantiglia sulle spalle, e mi pare che osservasse con la coda dell'occhio se io facessi attenzione a tutta cotesta manovra. Quelle due donne che non si conoscevano nemmeno, che non si sarebbero incontrate giammai, dovevano odiarsi cordialmente. Io non potei dimenticare un momento quegli occhi che mi avevano dardeggiato, e che si erano volti sorridenti verso il conte. *** Un giorno all'improvviso Eva venne da me, leggiadra, pazzerella, sorridente come sempre, girando per tutte le stanze, toccando tutto, facendo frusciare gaiamente la sua veste sul tappeto, come se ci fossimo lasciati il giorno innanzi. Mi domandò se fossi in collera con lei, se avessi pensato a lei, se l'amassi ancora; mi disse che non mi aveva mai dimenticato, che era contenta di vedermi in quello stato, che era orgogliosa di avermi amato; mi disse cento cose seducenti come ella le sa dire, scaldandosi al fuoco, e sollevando la veste per posare i piedini sugli alari. È impossibile esprimerti tutto quello che c'era nelle sue parole, nel suo riso, nei suoi occhi e nei suoi gesti. Mi parlò del passato; mi domandò dei miei amori, e come amassi, e come fossi amato, e se amassi di più o in un altro modo, - e mi diede anche un bacio come mi avrebbe dato una stretta di mano. Poi, dopo ch'ebbe fatto ardere il mio sangue con quella grazia così calma e nello stesso tempo così spensierata, con quei suoi sguardi sorridenti come ad un fratello, col profumo del suo fazzoletto e coi tacchi degli stivalini, ella si alzò tranquillamente e mi stese la mano. - Se ne andava! erano le due, doveva andare dalla modista, dalla sarta, da Marchesini, a fare un giro alle Cascine. Alle sei poi davano in tavola - mille ragioni inoppugnabili! Io chiusi la porta e le presi le mani; ella me le strappò, e si mise a correre per le stanza, ridendo, folleggiando come una bambina, e poi mi si abbandonò tutta tremante, collo stesso sorriso, con un movimento infantile e inebbriante. *** "Matto! matto!" mi disse lisciandosi i capelli allo specchio. "Ed io più matta di te! A proposito, e la tua dea?" "Quale dea?" "Quella del Pagliano, la superbiosa. L'ami molto?" "Punto." "Ti credo. Siete così orgogliosi entrambi! Dovete bisticciarvi sempre. L'amerai per vanità." "Sono troppo orgoglioso per avere di coteste vanità." "Come sei diventato!" e mi guardava tutta sorpresa, con cert'aria ingenua che possedeva ancora. "Dimmi come amano le gran dame" e annodava i nastri del cappellino. "Come le piccole." "Adulatore! Ma io perdo il mio tempo con te! Addio." "Verrai a trovarmi?" "No." "Verrò io?" "No." "Come, no! Ma non capisci che ho bisogno di vederti!" Ella mi guardò e scoppiò a ridere. "Proprio?" mi disse. "Come dell'aria per respirare!" "Sei pur stato tanto tempo senza, e non sei morto!" "Perché sei venuta dunque, maliarda? perché mi hai fatto ardere il sangue colle stesse febbri?..." Ella mi guardò nello specchio, con quel sorriso! e mi disse: "Ero gelosa!" "Dunque mi ami!" "No. Tu non capisci coteste gelosie di donna, tu! e sei un uomo di spirito! Andiamo, via, non più sciocchezze!" riprese con dolcezza dopo alcuni istanti, accarezzandomi la mano per rabbonirmi. "Ti voglio ancora del bene, ma bisogna essere ragionevoli. Non scherziamo più col fuoco!" Ella seguitava ad accarezzarmi le mani, e vedendomi sempre accigliato soggiunse: "Ti giuro che se avessi prevista cotesta nuova follia non sarei venuta!" "Ah! non lo sapevi?" "No! Mi pareva di trovarti più ragionevole." "Ma adesso che vedi come non lo sono, e che son più pazzo di prima, e che son geloso non del tuo cuore, ma del tuo corpo, e che un lembo della tua veste se mi tocca mi fa perder la testa, perché non seguitare, se non ad amarmi, almeno a lasciarti amare?" Eva mi guardò in viso in modo singolare e mi disse tranquillamente: "Perché ho più giudizio di te." "Non mi ami più?" "No." "Perché sei venuta dunque? dimmelo, maledetta! maledetta! Fu un capriccio?..." "Sì ... e se durasse sarebbe una follia ... per te, e per me." Allora io andai all'uscio, senza far motto, e l'apersi. "Senza rancore!" diss'ella stendendomi la mano. E lasciandola cadere dopo aver aspettato inutilmente soggiunse: "È pure una gran disgrazia che siate fatto così." Uscì stringendosi nella veste per non toccarmi. Io corsi a nascondere il viso e le lagrime nei guanciali ancora odorosi del profumo dei suoi capelli. *** Quelle due ore avevano gettato sul mio cuore il soffio ardente delle tempeste del passato. Io l'adoravo, sì, l'adoravo così com'era, l'adoravo perch'era così! Avevo il desiderio frenetico dei suoi guanti che si lasciava strappare e lacerare ridendo, e dei suoi stivalini di cui la seta strideva fra le mie mani. Feci mille pazzie per lei, la cercai, implorai, piansi, passai le notti sotto le sue finestre, vidi l'ombra di lei accanto all'ombra di un uomo dietro le cortine, seguii di notte la sua carrozza per le vie e vidi il suo capo sull'omero di lui. - Ella mi ravvisò, e chiuse le imposte o si tirò vivamente indietro, o volse il capo dall'altra parte. - Sirena! maliarda! che mi aveva inebbriato coll'amore, ed ora mi intossicava con la gelosia! Le scrissi; le scrissi umile, delirante, minaccioso. Ella mi rimandò le mie lettere con un sol motto: " Una follia non si fa due volte o diventa sciocchezza ". - Una sera la rividi in teatro; ella non mi gettò che un'occhiata dal suo palchetto - a me che divoravo la sua bellezza con tutti i sensi e ne ero geloso! La vidi uscire raggiante, superba, colla testa alta, il cappuccio sugli occhi, e il braccio nudo appoggiato a quello di lui. Io feci stridere la seta della sua veste imprigionata sotto al mio piede; ella si volse vivamente e mi gettò in faccia un'occhiata di collera, forse senza riconoscermi. *** E così la seguo da mesi, con questo acre desiderio di lei ch'è memoria e gelosia mischiate insieme; e cerco di vederla; e frequento i luoghi dove spero incontrarla; e la riconosco al portamento, al posare del piede, al muover della testa; e stasera la riconobbi subito appena la vidi, sebbene mascherata, e quando potei farla parlare ed accertarmi ch'era proprio lei non la lasciai più, da lontano o da vicino, e so quel che ha fatto, quel che farà, l'ora in cui la carrozza verrà a prenderla, e poco fa, mentre era seduta nel ridotto, nel momento in cui vidi allontanare il conte per andare a comprarle dei dolci, sedetti accanto a lei e mi tolsi la maschera. "Voi!" esclamò. "Ancora!" "Sì! non tentate di sfuggirmi; voglio il tuo amore!" "Siete pazzo!" mi disse, gettandomi in faccia la doccia fredda della sua calma. "E voi senza cuore!" "Io! che vi ho sacrificato dieci mesi della mia giovinezza, i più belli! che vi ho sacrificato la mia carriera, e che avete messo alla porta quasi in cenci!" "Ah! e volete vendicarvi!..." "No, ve lo giuro. Non sono in collera con voi. Non lo sarei che ove vi ostinaste in questa follia. Noi ci siamo trastullati con una cosa pericolosa, abbiamo preso sul serio il romanzo del cuore; ecco il nostro torto, perché anch'io ci ho creduto per un istante. Ma non siamo abbastanza ricchi per permetterci questo lusso." "Non credete all'amore?" le dissi insolentemente. "non ci credete più?" "Oh, tutt'altro! È il ferro del mestiere. Ma credo a quello degli altri. Anche voi dovete crederci, ma in tutt'altro modo, per scaldare la vostra fantasia e farne risultare dei bei quadri che vi frutteranno onori e quattrini." "Oh, è un'infamia!" Ella si drizzò come una duchessa cui si fosse mancato di rispetto e mi disse seccamente: "Me l'avete insegnata voi! Ora andatevene, ché viene il conte." "Oh! tanto meglio! Voglio conoscerlo questo felice mortale che vi paga i baci e le menzogne!" "Ah!" esclamò con un sorriso che non avevo mai visto in lei "mi ricompensate così! Ma guardatevi! che il conte, oltre il pagarmi tutto questo, regala anche dei famosi colpi di spada!" "Pel nome di Dio!" mormorai ebbro di collera e di gelosia, "che egli non ti pagherà più nulla, e domani sarai sulla strada se non vorrai venire a chiedermi ospitalità!" "Tu sai che ho scommesso!" finì Enrico guardandomi con occhi sfavillanti. *** Enrico si passò la mano sugli occhi, per scacciarne la frenesia che vi lampeggiava, e riprese dopo alcuni istanti di silenzio: "Sono pazzo! lo so anch'io! Ma la ragione mi è insopportabile. Non ho più fede nell'arte, nella vita, di cui posso contare i giorni che ancora mi rimangono, nell'amore ... e son geloso!..." "Hai visto le sue braccia nude?" mi domandò dopo un istante con voce rauca, come se parlasse in sogno. "Ma la tua famiglia?" gli dissi. Non rispose. Poscia, dopo un lungo silenzio e asciugandosi gli occhi. "È il solo dolore che mi rimanga!" "Potrebbe anche essere un conforto, e tale da compensarti ampiamente." Enrico mi rise in faccia con un'ironia quasi insolente. "Mio caro, i sentimenti puri non sono che per le anime pure. Che cosa porterei in mezzo alla mia famiglia che ha sacrificato tutto al mio egoismo?... i miei infami sogni? i miei sozzi desideri? i miei disinganni colpevoli? Grazie a Dio, non sono arrivato così in basso da non comprendere che morrei di vergogna pensando ad Eva, nelle braccia di mia madre, e che profanerei vilmente le labbra di mia sorella, coi baci che ho dato a quella donna!" Si alzò bruscamente, come se temesse qualche altra osservazione. "Fra mezz'ora," mi disse, "al buffet; il conte vi ha dato appuntamento ad un suo amico che parte per Parigi col primo treno. Sono le quattro; hanno ordinato la carrozza per le cinque; sono certo di non mancare." Mi toccò appena la mano, ed uscì. *** Egli mi aveva rovesciata addosso quella narrazione come una valanga, tutta di un fiato, quasi fosse stato uno sfogo supremo e disperato, con parole rotte, con frasi smozzicate, con accenti che solo il cuore sa metter fuori, e cui solo lo sguardo sa dare un significato. Io non potrei accennare la millesima parte dell'impressione che faceva quella dolorosa frenesia, irrompente, concitata e febbrile di un uomo col piede diggià nella fossa, che gemeva, si contorceva ed urlava nel suono della voce, nel tremito delle labbra, nelle lagrime degli occhi, mentre la folla delle maschere urlava anch'essa ebbra di vino e di musica rimbombante. Tutto ciò mi saliva alla testa, mi ubbriacava. Ero rimasto attonito, quasi annichilito dinanzi a quella tempesta del cuore, come dinanzi ad una tempesta degli elementi. Uscii dal palco dopo di Enrico, e lo cercai inutilmente pei corridoi, in platea, sul palcoscenico, da per tutto. Dov'era andato? Vidi l'elegante coppia che aveva attirati tutti gli sguardi dirigersi verso il buffet, e la seguii. Quella strana avventura mi aveva gettato in una singolare preoccupazione. Il trovatore si tolse la maschera; era veramente il conte Silvani, bel giovane, ricco, prodigo, coraggioso. Era l'ora in cui la stanchezza, o il caldo, o il vino, o la follia, fanno cadere tutte le maschere, ed anche Eva si tolse la sua. Aveva il viso rosso, volse in giro un'occhiata quasi timida; poi si assise di faccia al suo compagno. Lo sciampagna spumeggiava nei bicchieri, gli occhi brillavano, e l'eguaglianza sociale regnava in un modo che mai democrazia al mondo ha sognato possibile. A poco a poco vidi radunarsi nella sala tutti quei giovanotti che si erano trovati impegnati, senza saper come, in quella bizzarra scommessa. Si guardavano attorno con curiosità, sorridevano, e si parlavano a bassa voce. Di quando in quando Eva volgeva uno sguardo sulla folla che andava e veniva dall'uscio, e poi tornava a ridere e a parlare col conte. La mezz'ora suonava. Io tenevo gli occhi fissi su di Eva, e tutt'a un tratto la vidi impallidire lievemente, chinarsi all'orecchio del conte e dirgli qualche parola; questi sorrise e accennò negativamente; prese il bicchiere di lei, e lo riempì di sciampagna. Seguii la direzione degli occhi della donna, straordinariamente spalancati, e vidi Enrico, che si teneva sulla soglia, senza maschera, con certa faccia pallida di malaugurio che gli dava l'aspetto di un cadavere. Non so perché - non conoscevo, direi, costui che da due ore - ma il cuore mi batté forte. Infatti vi dovea essere veramente qualcosa di straordinario nel suo aspetto, poiché tutti lo guardarono in un certo modo come di sorpresa. Anche il conte si volse a guardarlo, vedendo che tutti lo guardavano, e sorrise. "Tò! ancora quell'originale!" Enrico gli si avvicinò con tutta calma, e si tolse il berretto con comica serietà. "Ti diverti?" gli disse sorridendo il conte per dire qualche cosa, giacché quel saluto gli avea tirato addosso l'attenzione generale. "Sì! in fede mia, si! quando ti vedo mi diverto." "Mi conosci?" "Diavolo! Chi non ti conosce!" "Bevi alla mia salute, dunque", gli disse porgendogli il bicchiere spumeggiante. "In coscienza non posso; ché tu stai molto male!" "Ah! ah! una delle solite facezie!" sghignazzò il conte rivolto ad Eva. "Adesso ci dirà i nostri segreti!" Io guardai Eva e la vidi pallida come cera. "Oh! oh!" rispose Enrico ridendo come avrebbe potuto ridere uno spettro se gli spettri potessero ridere; "il segreto di pulcinella!" Il conte sembrò imbarazzato per un istante; ma non era uomo da darsi per vinto alla prima, e replicò: "Sapevo la tua risposta: è vecchia come il tuo travestimento." "Da arlecchino d'onore, no! Anzi, per provarti che non sono un ciarlatano, ti dirò quelli di lei" e accennò ad Eva. "Non i segreti del suo cuore, poiché non ne ha; ma posso dirti quelli della sua vita." Eva fece un movimento per alzarsi, quasi avesse perduta la testa, e agitò due o tre volte le labbra pallide senza poter parlare. Attorno a quel gruppo si era formato un cerchio di curiosi, di cui il centro era occupato da quei due uomini che sorridevano. Ci fu un istante di silenzio. Evidentemente il conte avrebbe fatto a meno di quella lotta di frizzi, ma come trarsi indietro? Enrico gli sorrideva sempre, col suo viso cadaverico e gli occhi luccicanti come quelli di un fantasma. "Ah! davvero? E come lo sai?" disse il conte con uno sforzo d'audacia, perché era imbarazzato egli medesimo del suo silenzio. Enrico appoggiò ambe le mani sul marmo del tavolino, si chinò verso di lui sin quasi a soffiargli in faccia le parole, e rispose lentamente: "Lo so, perché sono stato l'amante della tua amante." Nell'occhio del conte passò un lampo, e le sue labbra si contrassero sforzandosi di sorridere ancora. Sembrò ondeggiare un istante sul partito da prendere, e istintivamente volse attorno uno sguardo furtivo e lo fermò su di Eva. Ella era pallidissima, avea le labbra livide e l'occhio smarrito quasi stesse per svenire. Tutti quegli occhi che si fissavano sul conte sembrarono raddoppiare il sangue freddo di lui. Egli esitò un solo momento; poi alzò il bicchiere ricolmo all'altezza del naso di Enrico ed esclamò: "Alla salute dei tuoi amori passati dunque!" e vuotò il bicchiere d'un fiato. Ci fu uno scoppio di applausi. "Bravo!" disse anche Enrico. "Sei un uomo di spirito!" "Grazie!" "Io lo sapevo, e perciò ho fatto la scommessa." "Davvero?" "Sì, ho scommesso che avrei dato un bacio alla tua amante, e che tu non l'avresti avuta a male." "Eh, caro mio! Scommessa arrischiata!" rispose il conte che cominciava a farsi serio. "Ohibò! Sei un uomo ammodo! Guarda!..." E senza precipitazione, con quella calma che non l'aveva abbandonato un solo istante, si chinò su di Eva, la quale era quasi fuori di sé, e non si aspettava certamente quell'eccesso di follia, e la baciò sulla guancia. Il conte si rizzò come un fulmine, e gli applicò un sonoro schiaffo. "Oh, oh" esclamò Enrico senza scomporsi, sorridendo ancora del suo lugubre riso, e passandosi la manica sulla guancia rossa. "Vedi che avevo ragione di non bere alla tua salute." *** Le condizioni del duello furono stabilite quasi subito fra due amici del conte e due dei giovanotti che avevano impegnato la scommessa con Enrico. Silvani era partito. Io accompagnai il mio amico che sembrava diventato un altro, indifferente a tutto, anzi un po' inebetito come quando girava fra la calca del veglione. I suoi occhi luccicavano da pazzo: era la sola manifestazione di quello che dovea chiudersi in petto. Passando attraverso la ridda frenetica dei ballerini e delle maschere sorrideva in modo strano; e un momento si fermò a guardare come uno sfaccendato che si balocca con la sua spensieratezza. - Quella musica, quell'allegria scapigliata e quell'uomo che guardava sorridendo, mi stringevano il cuore. Allorché fummo in carrozza, m'accorsi che Enrico tremava come chi è colto da febbre. Volli dargli il mio paletò; lo rifiutò. "Non occorre;" mi disse, "fa caldo." "Hai la febbre!" "Lo so. Son parecchi mesi che l'ho tutte le sere ... Passerà." E rideva. Era ancora buio. Nella notte era caduta molta neve che imbiancava le strade e i tetti sicché la carrozza vi correva sopra senza far rumore, come se facessimo un viaggio fantastico. Lasciammo il legno al piazzale delle Cascine, e ci mettemmo a piedi per un lungo viale. L'aria era frizzante; i primi chiarori dell'alba imbiancavano debolmente il cielo attraverso l'incrociarsi dei rami inargentati dalla neve; una sfumatura opalina si disegnava in fondo al viale sull'orizzonte, e il viale stesso appariva come una lunga striscia candida su cui risaltava, ad una certa distanza, un'ombra indistinta che si avvicinava senza far rumore, facendo tremolare due fiammelle rossigne ai due lati. L'alba si era fatta più chiara quando il conte e i suoi testimoni ci raggiunsero. Erano avvolti nei loro mantelli e avevano il sigaro in bocca. Ci fu uno scambio generale di saluti fatti in silenzio. Quei due uomini si guardarono senza batter ciglio, quasi non si fossero conosciuti mai. Gli uccelli cominciavano a pispigliare, e un raggio indorato corse come una freccia sui rami più alti. Il conte accese un'altra sigaretta mentre si compivano le formalità preliminari, ed uno dei testimoni alzò il naso verso il cielo dicendo: "Sarà una bella giornata." Poscia tutti i sigari si spensero, e tutti i volti assunsero la maschera di circostanza. Enrico si tolse l'abito e lo piegò accuratamente; vi sovrappose il cappello, rimboccò le maniche della camicia sino al gomito, prese la spada che gli presentavano, la piegò in tutti i sensi sulla punta del piede, e frustò l'aria con essa. Successe un istante di silenzio. Poi si udì una voce: "A voi, signori!". E le due lame scintillarono. Ho ancora dinanzi agli occhi quel triste spettacolo. Enrico avea la guardia un po' spavalda, ma ferma come il bronzo, che gli spagnoli ci hanno lasciato a noi del mezzogiorno; sembrava tutto d'un pezzo dalla punta della spada alla punta del piede, e parava con un semplice movimento del pugno. Il conte era bravo spadaccino, snello, agile, nervoso; la spada gli guizzava fra le mani come un baleno, cavando e ricavando colla rapidità di un mulinello; si raccorciava, si nascondeva quasi sul fianco, e vibravasi improvvisamente come un giavellotto a spuntarsi su quei pochi centimetri di coccia, dietro alla quale Enrico riparavasi come dietro ad uno scudo che coprisse tutta la sua persona. Dopo alcuni istanti il conte ruppe di un passo, e si rimise in guardia come per vedere con chi avesse a che fare. Due o tre minuti rimasero immobili, con il ferro sul ferro, gli occhi negli occhi, l'odio che si scontrava con l'odio. Enrico ritirò la sua spada facendola strisciare lento lento su quella dell'avversario con un movimento felino. Parve che un fremito si fosse comunicato dal suo ferro a tutto il suo corpo, ed assaltò bruscamente. A un tratto si piegò come un arco colla rapidità del lampo, ed io che gli stavo alle spalle vidi luccicare la punta della spada nemica dall'altra parte del suo petto. "Alto!" gridarono i secondi, mettendo la spada fra i duellanti. "Non è nulla!" disse Enrico scoprendosi il petto. "È una scalfittura." Il ferro però aveva fatto quel che avea potuto, e aveva portato via quello che aveva incontrato. Una striscia di carne lacerata solcava il petto di Enrico e la camicia, ch'era stata meno lesta di lui, era stata bucata netta. Il chirurgo - un nostro carissimo amico, molto conosciuto a Mentana come il dottore dal cappello bianco - esaminò la ferita; era infatti orribile a vedersi, ma non era grave, e quei signori potevano ancora seguitare a bucarsi la pelle. "Diavolo!" esclamò Enrico. "Non credevo che ci fosse ancora tanta carne nelle mia ossa." Il dottore voleva fasciargli la ferita. "No," egli rispose; "il signore ha diritto di aver nudo il suo bersaglio." Il conte s'inchinò. Non c'era che dire, quei due bravi giovanotti si scannavano da perfetti gentiluomini Tornarono a mettersi in guardia; ma stavolta erano pallidi entrambi di un pallore sinistro. Lo scherzo di buona società cominciava a farsi serio. Enrico sentiva al certo che non aveva tempo da perdere, perché il sangue gli scorreva fra le dita della mano che si teneva sulla ferita, e la mano e la camicia gli si erano fatte rosse. Si vedeva una terribile tensione in tutta la sua persona, nell'occhio intento, nei movimenti nervosi, nel garretto saldo, nel corpo piegato all'indietro: sembrava una molla d'acciaio che stia per scattare. Il conte l'assaliva colla furia di chi capisce d'avere a che fare con un temibile avversario, e sente di dover uccidere per non essere ucciso. Tutt'a un tratto si vide una striscia di luce correre e serpeggiare come una biscia sulla spada del conte, Enrico andare a fondo tutto d'un pezzo, e saltare indietro levando in alto la spada. Il conte portò vivamente la sinistra sul petto, stralunò gli occhi, abbandonò la guardia e si appoggiò un istante alla spada che si piegò sotto il suo peso; poscia barcollò e cadde su un ginocchio. Tutti si precipitarono su di lui. Enrico si fece ancora più pallido, e lo guardò cogli occhi di un mentecatto. Il dottore dal cappello bianco s'inginocchiò presso del conte, mentre uno dei suoi secondi gli teneva il capo sui ginocchi, e gli aprì la camicia. La ferita non doveva essere grave; era appena visibile, fra la terza e la quarta costola, e mandava pochissimo sangue. Sembrava davvero una cosa da nulla. Il dottore non ebbe bisogno che di una sola occhiata, per ordinare, con quell'accento che hanno soltanto i medici in certe occasioni, rialzandosi bruscamente: "La carrozza! presto, la carrozza!" *** Passarono alcuni mesi senza che io più rivedessi Enrico Lanti. Ero tornato in Sicilia, ma non ne avevo avuto più notizia. Un mattino, verso gli ultimi di ottobre, mi fu recapitata da un contadino una lettera urgente in Sant'Agata-li-Battiati, ove mi trovavo. Il carattere di quella lettera che veniva a cercarmi con urgenza mi era assolutamente sconosciuto, e sembrava tracciato con mano tremante. Però non ci volle molto per correre alla firma, giacché la lettera era brevissima; era di Enrico Lanti e diceva: " Amico mio, vorrei vederti, e siccome me ne rimane pochissimo tempo ti prego di affrettarti, se vuoi rendermi quest'ultimo servigio. " Mi misi in viaggio immediatamente, facendomi guidare dal contadino che aveva recato la lettera. Fuori Aci Sant'Antonio, dopo un cinque minuti di corsa per quella bella strada che svolge agli occhi del viandante l'incantevole panorama della vallata di Aci, tutta seminata di ville e di villaggi, fra le vigne e i boschi di aranci, sino al mare, la mia guida mi additò una casetta elevata su di un ciglione. Bisognò lasciare la carrozza e metterci per una viottola attraverso i campi. Alla svolta del sentiero mi si presentò la casa ridente ed ariosa, ornata di viti e di rosai, con una bella spianata sul davanti, e due magnifici castagni che le facevano ombra. Sotto un di quegli alberi c'era una poltrona colla spalliera appoggiata al tronco; un mucchio di guanciali le dava l'aspetto doloroso che hanno le poltrone degli infermi. Vidi una scarna e pallida figura quasi sepolta fra quei guanciali, e accanto alla poltrona un'altra figura canuta e veneranda - la madre accanto al figliuolo che moriva. Corsi a lui con una commozione che non sapevo padroneggiare. Com'egli mi vide mi sorrise di quel riso così dolce degli infermi, e fece un movimento per levarsi. Si vedeva diggià il cadavere: il naso affilato, le labbra sottili e pallide, l'occhio incavernato. Lo tenni stretto fra le mie braccia, ed egli mi baciò più volte; quel bacio era caldo di febbre; tutta la sua epidermide era riarsa, e l'anelito frequente ed affannoso gli si sprigionava dal petto con un sibilo. Sedetti di faccia a lui. Egli non volle abbandonare le mie mani, e cercava di sorridermi ancora quantunque dovesse molto soffrire, a giudicarne dalla contrazione dei suoi lineamenti, che di tratto in tratto non poteva dissimulare. "Grazie!" mi disse tutto commosso. "Tu almeno non mi hai dimenticato!" Tacque subito, sopraffatto da un violento scoppio di tosse, che, ahimé!, non ebbe neanche la forza di prorompere, ma si contentò di lacerare quel povero petto, facendolo sobbalzare convulsivamente. Poi si abbandonò sui cuscini cogli occhi chiusi, sfinito. Quali occhi! Le palpebre nerastre si affondavano nell'occhiaia incavata, e quando si riaprivano scoprivano qualche cosa che parlava dell'altro mondo. Nell'impeto della tosse tutto quel poco sangue che gli rimaneva sembrava correre, con rossori fuggitivi, sulla mortale pallidezza delle gote; poscia quella pallidezza si faceva più mortale ancora. La madre teneva abbracciati i cuscini dove si perdeva quasi il corpo del figlio, e guardava quelle sembianze adorate, ove la morte sbatteva diggià la sua livida ala, con l'occhio asciutto, quasi il cuore avesse bevuto tutte le sue lagrime. Feci un movimento per alzarmi. Egli che possedeva la squisita percezione di tutto ciò che si faceva vicino a lui, come l'hanno i moribondi di quel male, mi strinse le mani, senza riaprir gli occhi, e mi fece cenno di non muovermi. Dopo qualche secondo volse lentamente il capo, e fissò un lungo sguardo negli occhi di sua madre. Negli occhi della madre e in quelli del figlio non c'erano lagrime: c'era un silenzio che spezzava il cuore. "Mamma!" disse Enrico, e la sua voce fioca vibrava come una carezza in quella dolce parola. "Ecco il mio amico. Tu gli vuoi bene, non è vero?" La povera donna mi stese la mano, ed io la baciai religiosamente. "Dove sono gli altri" domandò Enrico con la curiosità inquieta, particolare al suo stato. "Tuo padre è andato ad accompagnare il medico, e l'Agatina è andata a coglierti una manata di gelsomini che ti piacciono tanto." "Il medico!..." mormorò il moribondo con accento che stringeva il cuore. Nessuno di noi ebbe il coraggio di rispondere. "Ti ho disturbato forse?" mi domandò dopo alcuni istanti. "Oh, no!" "Avevo bisogno di vederti ... e di parlarti." Mi fissò col suo sguardo espressivo e lucidissimo, e soggiunse: "Noi non fummo mai intimi; ma ci siamo incontrati in una tal epoca della mia vita che mi pare di non avere altri amici che te. Eppoi" e sorrise dolorosamente "ho diritto alla tua indulgenza ... come tutti quelli che se ne vanno verso quelli che rimangono ..." "Enrico!" esclamai stringendogli le mani con dolce rimprovero, e rivolgendo involontariamente uno sguardo alla madre di lui. Anch'egli rivolse su di lei quegli occhi che dopo alcuni secondi di angosciosa contemplazione gli si riempirono di lagrime. "Mamma!" le disse dopo una qualche esitazione, "non vorresti dire all'Agatina di fare anche un mazzolino pel nostro amico?" La povera madre si levò in silenzio, e si allontanò. Rimasti soli ci guardammo senza aprir bocca. Nessuno di noi due trovava la prima parola, e quel suo sguardo mi trafiggeva il cuore. "Io muoio!..." diss'egli finalmente, con un accento che non potrò mai dimenticare. "Lo vedi!..." Non potei frenare le lagrime, e gli strinsi la mano con forza. "Coraggio, povero amico mio!" "Credi dunque che mi rincresca di morire?... Io non avrei bisogno di coraggio ... se non fosse per quei poveri vecchi che mi spezzano il cuore!" I suoi occhi, dove soltanto sembrava essersi raccolta la vita, luccicavano di lagrime, mentre li volgeva su tanto sorriso di cielo, su tanto azzurro di mare, su tanto verde di giardini che gli stava attorno. Il suo cuore d'artista, che possedeva la squisita suscettibilità d'idealizzare quelle impressioni dei sensi, doveva grondar sangue parlando di morte fra tante ricchezze di vita. Non ebbe più a lungo la forza di dissimulare l'angoscia che doveva lacerarlo a quelle parole, e mormorò con un sospiro a stento represso: "Com'è bello tutto ciò!... Io solo posso sentirlo in quest'ora ..." Rimanemmo qualche tempo in silenzio. "L'hai veduta?" mi domandò tutt'a un tratto, come se non ci vedessimo soltanto da pochi giorni, o come se seguitasse un discorso incominciato. "No!" risposi con ripugnanza, poiché il ricordo di tal donna mi pareva una profanazione in quel momento. Egli capì, e sorrise ironicamente. "Ah! voi altri puritani!... come siete sciocchi!" Aprì la camicia sul petto per cercarvi un pacchetto di carte. Le ossa sembravano forargli la pelle gialla e arida come cartapecora. "Guardala!" mi disse trionfante, svolgendo da quelle carte una piccola miniatura, "e dimmi se il vostro puritanismo vale il suo sorriso!" Quel disgraziato, diggià per tre quarti cadavere, faceva un ultimo sforzo onde delirare per quella donna che gli sorrideva ancora nel ritratto, e che non si ricordava più di averlo amato. "Quando sarai al punto in cui sono," mi disse Enrico, "o quando sarai vecchio, il che è peggio, maledirai la tua saviezza che ti ha fatto insensibile alla luce, ai profumi, alle dolcezze della giovinezza!..." E c'era tanto calore nel paradosso di quel moribondo che lo rendeva, direi, solenne. "Oh, povero amico mio! Interroga la tua coscienza, interrogala senza rimpianti e senza collera, e non dirai più così." "Che m'importa!" saltò su Enrico con tal impeto quasi un serpe l'avesse morsicato. "Che m'importa della coscienza, e di tutti quei fantasmi che voi altri avete creato a furia di paroloni! Che m'importa del vero e del falso!... Ho tempo di perderci la testa, io?... e neanche voi altri ce l'avete ... voi che m'isterilite il cuore mentre la giovinezza fugge come un lampo! Tu, vedi, sei giovane, sano, forte ... tu mi guardi forse con maggior sorpresa che compassione, e domandi a te stesso come mai sia possibile che la vitalità che senti in te rigogliosa e robusta possa giungere a tanta miseria di deperimento ... Eppure, vedi! Tutta cotesta robustezza, tutta cotesta forza ... un soffio ... e se ne vanno!... E l'uomo ... l'uomo che sente dentro di sé ancora tutto questo inesplicabile mistero di desideri, di speranze, di gioie e di dolori, che la malattia non ha né indebolito, né ucciso, l'uomo che lo sente più forte e tumultuoso per quanto più infiacchiscono le sue forze, domanderà a se stesso, come te, cosa sia dunque questa vita, e questa incognita che chiamano cuore!... Chi lo può dire?... Nessuno. E se nessuno lo sa, chi può dargli torto o ragione?" Tacque anelante, rifinito al pari di un uomo che abbia fatto una lunga corsa; e dopo un triste silenzio ripigliò con esaltazione morbosa: "Ho visto tante mostruosità rispettate, tante bassezze cui si fa di cappello, tante contraddizioni di quello che chiamate senso morale, che non so più dove stia la verità. Tu che mi parli di gioie false dimmi quali sieno le vere: quelle che costano più lagrime, o quelle che lasciano più rimorsi? - O perché rimorsi? – Qual è l'amor vero, quello che muore, o quello che uccide? - E qual è la donna più degna di amore, la più casta, o la più seducente? - dov'è l'infamia? nella donna che ama per vivere, o nell'uomo che vive per godere? - o che tiene il sacco dell'adulterio colla complicità del silenzio - o che gli s'inchina quando lo vede passare in carrozza? Chi sentenzia del bene e del male? Il mondo! Che cos'è? Quali sono i suoi diritti? - e non mentisce? - e non s'inganna? - e non è ipocrita? o non ha altra scienza che quella di negare? - e quell'altra di biasimare?" Si arrestava di quando in quando, e agitava la testa sul cuscino come se i pensieri che gli martellavano il cervello non potessero più irrompere. La parola gli usciva rotta, a sibili, a rantoli: era uno spettacolo straziante. "I pazzi son più felici di voi" e ripeté due o tre volte questa frase. "Se vivete di menzogne, se non avete di certo che le illusioni, perché le maledite quando son belle?... Voi altri savi ... che vi affannate dietro ad illusioni che non raggiungerete giammai ... o che sconfesserete quando le avrete raggiunte, chiamate pazzo colui che si vive beato nelle sue illusioni!... il pazzo come vi chiamerà, voi altri savi?" "E l'arte ..." soggiunse dopo poco, "Menzogna anch'essa!... Menzogna ... o illusione!" Dopo coteste parole stette a lungo in silenzio, cogli occhi chiusi come se la vita l'avesse abbandonato intieramente. Era un lugubre silenzio. Poscia fissandomi in volto uno sguardo relativamente calmo, e dove c'era una tinta di sorpresa: "È strano!" mormorò; "mi pareva che avessi bisogno di parlare di lei ... e che tu mi dicessi che ella ti ha parlato di me ... Ora non lo desidero più ... Ho pensato ad Eva ... e alla mia giovinezza ... e li ho veduti lontan lontano ... Sarà perché sono stanco!" E dopo un altro silenzio: "Posso contare le ore che mi restano di vita, posso dire: Domani ... fra due giorni ... quando quel bel sole farà scintillare l'immensa pianura d'acqua che si stende laggiù, e colorirà del suo bell'azzurro questo cielo ... quando lo stesso albero getterà la stessa ombra sulla mia povera casa, e quegli uccelli schiamazzeranno fra le foglie ... io sarò morto ... non vedrò e non sentirò più nulla ... nemmeno i pianti desolati dei miei genitori che mi chiameranno ... Che rimarrà di me? di tutta cotesta confusione di pensiero che sento in così fragile involucro?... Non lo so! nessuno me lo sa dire! Ciò è ben triste!... Non è vero?" Volse gli occhi lentamente, con stanchezza, su tutto l'orizzonte che lo circondava, e con una certa inesprimibile amarezza: "La vita!..." mormorò chiudendo gli occhi di nuovo, come se quella vista l'affaticasse, o gli lacerasse l'anima, e dopo una lunga esitazione: "Sì! sì ... c'è qualche cosa di vero nell'arte!..." Il dolore m'opprimeva. Non sapevo far altro che stringere fra le mie quelle povere mani scarne. "Tu non muori, tu!" mi disse egli con una sublime e lacerante ingenuità "e forse la vedrai! Prendi" soggiunse dopo qualche secondo d'esitazione consegnandomi quel pacchetto che non aveva abbandonato. "Se mai la rivedrai un giorno ... se si rammenterà di me ... dagliele ... Se no ... fanne quello che vuoi ... bruciale ... Domani forse sarò morto, e mia madre, e mia sorella ... non devono vederle ..." Ed esitò ancora lungamente prima di darmi il ritratto. In questo momento si udirono le voci dei suoi parenti che si avvicinavano. "Maledetta!" esclamò trasalendo e buttando il ritratto per terra. "Maledetta! Menzogna infame che mi hai rubato la felicità vera! Maledetta! E maledetta anche te, arte bugiarda che c'inebbrii con tutte le follie! Maledetta!" Un accesso di tosse sembrò soffocarlo; il corpo era troppo debole; ma lo spasimo lo faceva sollevare sulla poltrona, agitando le braccia smaniosamente; e tentava quasi colle mani contratte di strapparsi dalla bocca e dal petto quel dolore insoffribile. In quel momento temei sul serio che mi morisse tra le braccia. Allorché sopraggiunsero i suoi parenti era abbandonato sui cuscini, con un soffio di vita sulle labbra, cogli occhi fissi e le lagrime che gli rigavano le guance. Qual più doloroso spettacolo di persone che si adoperano, che hanno la terribile certezza di doversi separare per sempre, che hanno il cuore a brani pel dolore, e che devono nasconderselo reciprocamente! Nella madre quel dolore era sovrumano, ma rassegnato, quasi sacro; nel padre era cupo e profondo; nell'ingenua e candida giovinetta era meno dissimulato, ma anche meno vivo, forse perché a quell'età non si crede giammai intieramente alla sventura. "Eccoti i tuoi gelsomini, Enrico!" diss'ella scuotendo il suo grembialino sulle ginocchia del fratello. "Ed ecco per lei ..." aggiunse arrossendo con un grazioso sorriso e inchinandosi con bel garbo. La ringraziai, commosso al vivo. Il desolato genitore venne a stringermi la mano. Vidi la madre che si chinava sui cuscini del figliuolo e gli diceva qualche parola all'orecchio. Dal triste sorriso con cui il figlio rispose indovinai che gli aveva domandato come si sentisse - quella dolorosa domanda che si ripete più spesso quanto minori sono le speranze di avere una risposta rassicurante. Il padre che aveva lasciato il medico pochi momenti prima, non ebbe il coraggio di domandargli. Lo sguardo intelligente del moribondo si affissava con indefinibile espressione sui suoi cari, come se volesse saziarsi della felicità di vederseli accanto mentre sentiva l'angoscia di allontanarsene sempre più ogni secondo. "Perché mi lasci così spesso?" diss'egli al padre con accento che spezzava il cuore, stendendogli la mano che ricadde senza forza. "Accompagnai il dottore, figliuol mio ..." rispose il povero vecchio facendo sforzi sovrumani per dissimulare le sue lagrime. "Ah! ... il dottore!..." esclamò l'ammalato stringendosi nelle spalle. Nessuno osò aprir bocca. Mi alzai, poiché non mi sentivo le forze di assistere più a lungo a quello spettacolo, e perché mi sembrava di dover rispettare il pudore di quelle angosce. "Te ne vai diggià?" diss'egli stendendomi la mano. "Si." "Verrai domani?" "Verrò." Credeva ancora al domani! "Domani!..." esclamò quindi tristamente. "Chi lo sa?... Ad ogni modo," soggiunse stringendomi le mani, "baciamoci ... come due amici che si lasciano per lungo tempo ..." Quel bacio caldo, in cui si sentiva già l'anelito del moribondo, mi trafisse il cuore. Egli mi seguì con quello sguardo che strappava le lagrime finché svoltai l'angolo della viottola. Il padre suo insisteva per accompagnarmi sino allo stradale. Mi parve un delitto rapirgli quegli ultimi e solenni momenti che poteva passare ancora presso il figlio che la morte gli rapiva. Partii addolorato profondamente. Tutta la notte non potei dormire. Sembravami di sentire al mio capezzale il rantolo di quel moribondo, e di vedermi dinanzi agli occhi quello sguardo e quel sorriso nuotanti nell'agonia. Il giorno dopo, di buon mattino, ritornai ad Aci Sant'Antonio. Sulla strada di Valverde incontrai i contadino che mi avea recato la lettera di Enrico il giorno innanzi. Lessi tutta la verità nell'occhiata che egli mi volse, e l'interrogai col solo sguardo. "All'alba!" mi rispose levandosi il cappello e segnandosi. Ordinai al cocchiere di tornare indietro; mi buttai in fondo alla carrozza, e piansi. FINE.

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