Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbagliato

Numero di risultati: 1 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Vietato ai minori

656608
Bonanni, Laudomia 1 occorrenze

Il ragazzo è rimasto come abbagliato a occhi stretti. Gl'indicano la panca, si siede, viene fatto rialzare. Sulla stessa panca siede il minore del riformatorio, giudicato poco prima per furto, e in piedi accanto al termosifone l'agente in borghese che l'accompagna. Entrambi guardano il novellino, è l'agente ad accennargli di risedersi. Manca la difesa. Uno dopo l'altro sono usciti l'ufficiale giudiziario e il cancelliere in cerca di un avvocato. Non si occupano di lui per il momento e Risdonne Nicola con veloci occhiate sembra prendere cognizione del luogo. Dalla panca, sistemata a metà parete dove si entra per la porta piccola, guarda di sbieco all'emiciclo sulla pedana. Negli scanni di quercia sono sopraelevati i giudici, tré in toga uno senza. Lo scanno a sinistra è separato, a sé come un trono. Lo ha quasi di fronte e ci guarda diritto. In basso due tavoli vuoti, poi quella che deve parergli una staccionata da ovile. Taglia in due l'aula e di là s'apre l'altra porta. Lo spazio è deserto. Il ragazzo torna a mostrare il bianco dell'occhio volgendosi di nuovo al Tribunale assise in silenzio, si sofferma sul posto di centro con la spalliera più alta, riabbassa le palpebre e prende a mangiarsi un labbro. In atteggiamento ne spaventato ne umile (il ladruncolo al suo fianco è compunto e sornione) si tiene con le membra raccolte incrociando le lunghe gambe piegate al di sotto della panca. I quattordici o quindici anni, malgrado la carnagione di quel bruno smorto che non ha mai la freschezza dell'età, gli si attribuiscono per l'intensa pubescenza della faccia. L'alone al labbro quasi inverecondo, macchie alle guance, quella peluria diffusa che imbruttisce i ragazzi e li sporca, lo rendono sgradevole. Preceduto dal cancelliere, giunge l'avvocato dal bavero di pelliccia, cappello in mano, inchinandosi. Dal cappotto aperto si vede una sostanziosa giacca di tweed e le cosce grasse strette. Ossequiosamente comunica di essere impegnato alla Corte, chiede licenza. Avutala, si ritira con un duplice inchino. La faccia calma e cortese del presidente s'è corrugata. Volto ai colleghi: "C'è penuria oggi." E il pubblico ministero, piccolo irrequieto impaziente sul suo scannetto: "II foro cittadino teme i rigori dell'inverno. Via, se ne trovi uno." Il cancelliere allarga le braccia. "Nemmeno l'avvocato Lucrese? Si faccia il giro, si frughi nelle adiacenze dei termosifoni." Serpeggia un'ilarità discreta. Poco dopo fa il suo ingresso, a tentoni, guidato dal miope ufficiale, un vecchio basso e obeso, con lenti doppie sul naso minuscolo. In un paltoncino nero striminzito, privo di sciarpa, mostra anche da lontano sfilacci alla camicia e le punte del colletto storte. È l'avvocato senza più cause, assiduo frequentatore delle aule di giustizia. Ma saluta il Tribunale con dignità e tono curialesco ancora sonoro. Condotto al tavolo più vicino, tastando l'aria dietro di sé cade a sedere. Come capita ai minori, ha dimenticato di togliersi il cappello; lo posa sul tavolo, con visibili chiazze di grasso intorno al nastro. I capelli castani non sono da vecchio e le pieghe di carne accesa alla nuca ancora lisce. II presidente da inizio. "Imputato alzatevi." Risdonne stava sbirciando il suo difensore d'ufficio e non capisce, l'altro imputato lo spinge. Allora si tira su come a fatica sulle lunghe gambe, curvando il busto nella posizione di spalle della crescita improvvisa. "Sei tu Risdonne Nicola." Non è una domanda e non risponde, fa un passo avanti. "Risdonne Nicola, sei tu?" Accenna con la testa. Il sissignore gli viene suggerito dall'agente in borghese. Sì signore, risponde correttamente. Neppure un'ombra del suo impaccio fisico è passata nella voce che suona perfino troppo sicura. "Sai di che ti si accusa?" "Sì signore, ma non l'ho fatto." "Devi rispondere solo alle domande," ammonisce pacato il presidente. "Una notevole improntitudine," osserva il pubblico ministero rigirandosi sul sedile. È il piccolo sostituto Platonico, incredibilmente mingherlino benché porti la toga sul cappotto. "Ehi," strilla all'improvviso, "fuori il pubblico, qui non si accede." Sta entrando un individuo scheletrico in un impermeabile bianchiccio corto al ginocchio, che si fa avanti senza aver capito e gira la testa evidentemente in cerca di qualcuno. Orientatosi, l'ufficiale giudiziario lo rincorre. Dopo un breve parlottamento comunica che è il padre, accompagnandolo alle transenne. Solo allora l'uomo vede suo figlio là in piedi. È emaciato, con tristi occhi azzurri, inghiotte ripetutamente il pomo d'Adamo aguzzo attraverso la pelle del collo. Si mette dietro la transenna dalla parte dell'avvocato e appoggia al legno due grandi mani tutt'ossa. Si può finalmente cominciare. Aperto il fascicolo, e rivolgendosi ora al collega a latere ora al componente privato, sommesso e monotono, evitando ogni accentuazione, il presidente contesta il reato e ragguaglia per sommi capi sui fatti del processo. Presiede Toma, signorile distaccato, la sua faccia è composta ed equanime ma tutti sanno come certe cose lo indignino. Ha cinque bambini. Un uomo singolarmente onesto e un padre geloso. Dice forte "incensurato", con la stessa forza ma asciutta pronuncia l'imputazione : " violenza carnale ". All'avvocato d'ufficio non occorre altro. Insacca la corta testa senza collo e sembra appisolarsi, in attesa che si arrivi alla fine per poter chiedere con la consueta formula sbrigativa il perdono giudiziale. Ma una nuova interruzione sopraggiunge. Si è aperto l'uscio in fondo e un nugolo di ragazze invade l'aula. Con cappucci e sciarpe multicolori, ciuffi imbrillantati di neve, il rossetto vivido alle labbra e l'aria saltellante che hanno le donne sui tacchi troppo alti, appaiono disdicevoli. Lo si legge in faccia al pubblico ministero, voltatesi di scatto al trepestio dell'intrusione. Ma è solo una scolaresca femminile, allieve del corso per assistenti sociali, debitamente autorizzate e accompagnate. Le accompagna un uomo. Fra le udienze del mese la scelta era caduta a caso su quella giornata e su quell'ora, un'ora di lezione pratica. Disinvolte le ragazze prendono posto al tavolo libero e alle panche _una terza viene subito trasportata dentro _ occupando il lato vuoto al di qua della transenna. Vi fanno mazzo. Anche l'uomo ha un foulard chiaro al collo, i capelli ricci e la bocca tumida. Dietro, la neve infittita fa un brulichio ai vetri dei finestroni. Il presidente ha ripreso il fascicolo, lo tiene in mano soprappensiero, quindi da qualche spiegazione sul funzionamento di un tribunale minorile, in tono didattico, con lunghe pause come se esitasse o temporeggiasse. Mentre parla, gli sguardi irrequieti delle ragazze deviano alla sua destra sul giudice a latere. (Funziona Oliva.) È un giovane dai lineamenti perfetti, nobili e dolci, di bellezza inconsueta nella professione. Sia che qualcuna lo conosca, o più probabilmente che lo assomiglino a un attore, stanno indicandoselo con segni impercettibili. (La faccia di Platonico segnala: elemento perturbatore.) Intanto allentano le sciarpe, respingono i cappucci, liberano i capelli lucidi. Una, bionda, scoprendosi sfavilla. Perfino la massa torpida dell'avvocato deve risentirsi di qualche stimolo visivo se tenta di ruotare il busto in quella direzione. Il presidente ha terminato. Sarebbe necessario presentare i fatti del dibattimento in corso, ma si limita a designare il reato coi numeri degli articoli di legge. Senza trapasso, con la stessa intonazione, rivolge la parola all'imputato rimasto in piedi fra la panca e la pedana. "Venite avanti." Tutti gli occhi convergono sul ragazzo. "Avanti." Quando Risdonne Nicola capisce di dover salire sulla pedana, ha un urto alla spalla come un tic. Camminando si fa sbilenco. Sotto i passi il legno emette scricchiolii da vecchio palcoscenico. Si sentono poco le voci, bassa quella del presidente, più chiara quella dell'imputato benché di schiena. Nuca piena di capelli fin dentro il colletto, spalle strette in una giacca che tira alzando in fondo un becco e le lunghe gambe nella stazzonatura dei calzoni in posa disagiata a compasso. Non viene invitato a sedere. Si intuiscono le domande più che altro dalle risposte. Il nome sfugge al pubblico, lo raggiunge una dichiarazione, "studente", che suscita mormorio fra le studentesse. "Apprendista ciabattino," specifica il pubblico ministero. Ha la voce acuta curiosamente immatura. Il ragazzo si gira. "Mi preparo privatamente." Risulta dal fascicolo che possiede la licenza elementare, che è stato messo a bottega ma ci va poco, che un frate del locale convento gli da qualche lezione di grammatica latino e "metrica", che gli impresta libri "di autore". Le informazioni, anche dei frati, sono buone: si recava spesso da loro, cercava libri, leggeva molto, "letture edificanti". Non fa lega con gli altri ragazzi, non ama il gioco. Tipo risentito non però violento, temperamento chiuso, solitario. Nel rapporto dei carabinieri si definisce cupo. Cattiva situazione familiare, condizioni economiche misere. Nessuna tara. La tbc paterna è di guerra. Con una dizione stimbrata, a occhi chini o sollevandoli verso l'aula, il presidente legge a sbalzi, col meccanismo procedurale che non tiene conto della presenza del soggetto. Sviluppo normale con qualche carattere di precocità sessuale. Quando commise il delitto tornava dall'aver riportato al convento i sandali di padre Alessio. Allora Toma lo guarda. "Era lui a darti le lezioni e i libri?" "Sì signore." La domanda seguente si perde. Risposta: "Non l'ho fatto." La voce è pienamente formata e controllata. "Che impudenza," dice stridulo il pubblico ministero. Come si gira da quella parte, il ragazzo è investito dall'ingiunzione di rivolgersi al presidente e rià il piccolo urto alla spalla sinistra. "Ah dunque spalluccia," grida Platonico. Il ragazzo spalluccia di nuovo. Sopravviene un silenzio. La sfilata dei testimoni, nonostante l'ingresso circospetto, le esitazioni e le impuntature, la difficoltà a capire e la renitenza nel rispondere, si esaurisce rapidamente. Sono contadini le cui grosse scarpe toccando il legno della pedana fanno un tonfo sordo. Portano addosso indescrivibili assortimenti di vestiario, dal terraiuolo di panno rustico blu, ancora usato dai vecchi, al residuo militare, il grigioverde da truppa ritinto o no, fino al blusotto americano a quadroni. Gente mai entrata in un'aula di tribunale. Al "dì lo giuro" di rito s'insospettiscono o s'imbrogliano, i vecchi tentando di cavare tutt'e due le braccia dalla ruota del mantello come per accingersi a una fatica manuale e per lo più rispondono "dilogiuro" in un'unica parola senza senso. Malgrado la pazienza e gentilezza del presidente, essi non intendono il linguaggio della giustizia. Alla costante richiesta se confermano le dichiarazioni rese, rispondono subito no. Si tratta di testimonianze irrilevanti, vicini di casa, semplici conoscenze, parenti alla lontana, capitati in mezzo ai litigi donneschi o a discussioni di famiglia, coinvolti senza volerlo. Improvviso e secco interviene di tanto in tanto il pubblico ministero e come fanno per voltarsi a lui li redarguisce. Evidentemente non riescono a capire perché, interpellati da una parte, debbano rispondere dall'altra. Superate le frasi oscure confermano la deposizione, scritta là nelle carte con la firma o il crocesegno (ma non l'hanno riconosciuta) e tornano sui propri passi andando a rimettersi alla staccionata. L'ultimo, un pastore col pelo di pecora al bavero militare, reso esperto da qualche denunzia per pascolo abusivo, spontaneamente conferma le deposizioni d'istruttoria. È l'unico testimone diretto essendosi incontrato a passare per la straduccia, e viene trattenuto dal pubblico ministero. "Che ha visto?" La domanda è rivolta al seggio presidenziale. "Stavano dritti al muro," risponde il pastore guardando il presidente muto. "Che facevano?" Risulta che non aveva propriamente visto, solo, insospettitesi e tirato un sasso _ "come si fa ai cani", spiega _ il ragazzo, Nicola, quello _ e lo indica _era fuggito. Al primo equivoco verbale dei testi contadini, quasi a una barzelletta le studentesse avevano riso e con inattesa durezza il presidente minacciava di far sgombrare l'aula. Ora anche esse guardano a lui, come si guarda un docente noioso, con attenzione da alunne, le mani in grembo, senza accavalcare le gambe. Torcendo i piedi sui tacchetti aguzzi si chinano a osservarseli o si danno aggiustatine ai capelli _tranne la bionda immobile come se portasse in testa una raggiera _e così avvengono tutte le piccole manovre scolastiche per comunicare. Quando l'accompagnatore piega sul foulard la guancia grassoccia in atto di sorveglianza, stanno sempre chete. Non si capisce se si siano rese conto dei fatti del processo. Il gruppo dei ragazzini entra timorosamente spalla a spalla, l'ufficiale deve spingerli sulla pedana e strappargli i berretti dal capo. Raggiungono l'orlo del banco presidenziale coi menti puntati alla fontanella della gola. In principio le voci ristagnano nell'emiciclo. Curvatesi sul piano il presidente raccoglie mugolii e monosillabi; alle brevi risposte negative "no, non è vero, io no", si comincia a sentire l'accento spaventato; infine le accuse reciproche, "è stato lui", col tono dello strillo. "Lui chi," dice il pubblico ministero. Ripetuta la domanda, due indicano con la mano tra di loro, ma nel muoversi, visto il compaesano, quello accusato da tutti, dicono in coro: "È stato Nicolino." "Li facciamo arrestare?" celia il pubblico ministero provocando una esplosione di pianti. Nessuno è imputabile per l'età. All'invito di riprendersi i figli _ e con l'ammonizione che badino d'ora in poi a sorvegliarli _ un uomo lascia la transenna ricevendoli a braccia larghe alla discesa del gradino, sconvolti, impiastricciati dalle lacrime. Ma uno schiocco di sandali polarizza l'attenzione sull'ingresso del frate che avanza velocemente. Un frate di grande corporatura segnata dal cordone nel punto più ampio, in contrasto con l'asciuttezza dei piedi nudi quasi spolpati alle dita e alle caviglie. Al di sopra della barba nerissima che sale crespa fino alle tempie, due occhi lampeggianti, prima di riabbassarsi, fanno un'istantanea ricognizione dell'aula sostando un attimo sull'insolito pubblico femminile. Vi si confonde per l'aspetto anche l'accompagnatore. Il religioso sembra adeguarsi alla maniera coperta com'è condotto il dibattimento, la lunga deposizione a voce bassa risulta inafferrabile. Alzatesi e lanciato uno dei suoi sguardi precipitosi, va a raggiungere il padre dell'imputato. Si direbbe una nuova divisione delle parti. Essi due soli, alle spalle dell'avvocato, verso la panca dei colpevoli. Un lato vuoto dove persiste la sensazione dell'ambiente gelido. Mentre gli altri stanno ammucchiati alla transenna dall'altro lato in una zona piena. Ai finestroni, che ancora non s'appannano, viene giù neve pesante e sazia. Ma la luce si è scaldata, sulle guance rosse dei ragazzetti, sul colorito fresco delle giovani, nell'accozzaglia variopinta del vestiario. Al centro la chioma bionda, ossigenata o no, emana sfolgorii come se ci battesse il sole. Continua a udirsi, dalla porticina rimasta socchiusa, la voce dell'ufficiale giudiziario chiamare ripetutamente nel corridoio lo stesso nome. Affannata, con colpi di tacco tumultuosi, trascinandosi appresso le gambette infantili nelle lunghe calze nere, la donna che si presenta rompe quanto meno il silenzio. "Oh oh, su su, essù." Incita la creatura alle sue sottane. I modi sfrontati, una certa sguaiataggine nella voce e l'abito corto non sono da contadina. Grassa e sfatta, le mammelle gonfie alla vita, porta i capelli sparsi sulla schiena come una fanciulla. " Ha paura, " si lagna con le mani premute al petto. "Oh se me la debbono pagare." Vede il ragazzo. "Tu, faccia gialla..." Le si intima il silenzio. Immobilizzatasi un istante, gratifica il Tribunale di un sorriso. Ha le labbra sbafiate di rossetto e due vuoti ai canini. Stacca da sé la piccola forma con le smilze gambette nere e la spinge avanti. È un maschio. Si vede questo maschietto di sei o sette anni, messo un po' da femmina, la testa rotonda nel passamontagna come una cuffia. Il cappottello scopre un dito di brachina e un pezzo di coscia nuda sopra la calza. Le curiose calze di lana nera, tenute all'antica da una fettuccia che tira su di lato annodandosi a un'altra fettuccia interna. Lasciato solo, e per nulla impaurilo, il maschietto si svaga a bocca aperta. La madre è rimasta con una mano tesa, come additando in lui al Tribunale lo scempio commesso. Si gira perfino alle ragazze. Il cenno del presidente la fa accorrere sulla pedana, smuove tutta la carne. S'incrociano le domande e arrestata a mezza strada dalla voce del pubblico ministero si rivolge a lui senza essere ripresa. "Signore mio bello," gli dice, evidentemente divertendolo. Segue un flusso di parole, gesticolate disordinate, piene di contraddizioni. Glielo aveva raccontato il figlio piangendo e disperandosi, povera creatura, quello che gli faceva il mascalzone; poi invece era stato Nunzio (il pastore) ad avvertirla. Be', non può ricordarsi se prima o dopo, ma compa' Nunzio ha visto con gli occhi suoi per la straduccia. Una volta sola eh! chi lo può sapere, il bambino non si spiega. "È un innocente," confida, e intende alla maniera popolana dolce di sale. Quindi ammette che anche gli altri, si sa l'esempio, ragazzini incoscienti, ma lui faccia gialla pietra dello scandalo, è lui che deve pagare. Essa vuole giustizia. Bellicosamente si rigira puntando un dito non verso il ragazzo bensì sul padre. L'uomo scheletrico dagli occhi tristi, con quell'impermeabiluccio da cui sporge un collo sottile, i polsi ossuti e le mani livide. È stato detto che esce dal sanatorio. Per l'occasione, o dimesso, sembra esserne uscito coi panni che portava entrandovi in una stagione più clemente. "Tentiamo una speculazioncella eh?" Sorride il pubblico ministero. "E con che pagherebbero." "Hanno ancora la casa." "Ah, la casa." "M'hanno rovinato la creatura. M'hanno messa la gente contro. Voglio giustizia." "Basta," strilla improvvisamente quell'omino mellifluo nel seggio. Calmatasi di botto lei gli sorride, il suo sorriso senza canini, adescatore. "M'hanno insultata, Eccellenza, m'hanno provocata." Flauta la voce ora dando civettuole scosse alla chioma untuosa fluente. "Vado a lagnarmi, a protestare e nemmeno mi aprono la porta di casa. Grido le mie ragioni in mezzo alla strada, li ho svergognati, sissignore, allora aizzano la marmaglia. Mi venivano appresso per tutto il paese con quella parola." "Che parola." La donna risponde prontamente, spiccando le sillabe, con una sorta di sfida: Puttana. L'innocente è rimasto dove l'ha lasciato ma rivolto all'aula, una mascherina di faccia nel buco del passamontagna, a bocca aperta. Chiamato dal presidente, per nome, con dolcezza, subito si muove docile come un cagnolino. Nell' arrampicarsi sulla pedana troppo alta gli si rompe una fettuccia e la calza va giù denudando una gambetta esile bianchissima. Afferrato dalla madre, con l'altra mano cerca a gobboni di ricoprirsi. "Su su, eh bisogna trascinarlo, che paura ha." Ma la segue obbediente preoccupato solo della calza. "Essù, che mamma poi ti ricuce la zaganella." Il bimbo lascia andare, alzando la testa tonda sotto le facce degli uomini sorridenti benevole. Anche lui sorride, ma non capisce che stanno dicendo _ di togliersi il copricapo _ lo sguscia d'un colpo la donna dal passamontagna. Luccicano brevi peluzzi come un polverio d'oro sulla cute. È quello che si dice un rossino, senza risalto alle ciglia, lattiginoso, tenerissimo. Posto sulla sedia, s'incanta. Quando si decide a rispondere bisbiglia con una pronunzia non del tutto formata, da tardivo o da anormale. Ci ci sono dei sì e il suo nome Zovannino, il resto non si percepisce. S'è alzato il pubblico ministero e a passetti laterali raggiunge da dietro il varco fra le poltrone del giudice a latere e del presidente, fermandosi con la toga aperta e una mano nella tasca del cappotto ad ascoltare. Il suo viso corto e piccoso, all'apparenza imberbe, acquista malizia per un ciuffetto separatesi dalla riga e ricadente attraverso la fronte. Qualche cosa, un'idea (che poi esprimerà) lo diverte. Alle domande inutilmente rivolte: chi è stato, lo riconosci, guarda se lo vedi, guarda là _ ma il bimbo non si muove nemmeno _ suggerisce di sostituire "chi t'ha fatto quelle brutte cose". Il profilino rimane in aria attonito con la boccuccia aperta. Ma quando gli si chiede se è stato Nicola, risponde distintamente no. "Come no come no, che dice," sfuria la donna. "Ma se lo sapeva così bene. Non capisce, compatitelo. Nini, racconta dal principio. Stupidino, non ti ricordi quello che devi dire. È idiota è ..." Il presidente cala la mano aperta sul piano di legno che rimbomba. "Via," da ordine a malapena contenendosi, "via di qui, allontanatevi." Lei si scansa senza più fiatare e senza riprovarsi al sorriso adescante. Per nulla intimorito il bimbo sta mordicchiando come un animaletto l'orlo del legno. "Su Giovannino," si addolcisce il presidente, "leva la boccuccia, è sporco. Vuoi rispondere a me?" Risponde, come se a un tratto la mente gli si schiarisse. Dice "i ragazzi" e si volta, li riconosce, col ditino li indica alla transenna fra i grandi oltre il gruppo femminile. Un momento di nuovo svaga con gli occhi, forse incontrando la capigliatura bionda che risalta. Su domanda formulata dal pubblico ministero _ che cosa gli avessero fatto _ ricomincia a parlare e si capisce. Il coltello, dice, il muro, dice cattivi. (Non si era mai menzionato un coltello.) Sono parole slegate, frasi monche, che riesce a cavargli l'annuire dell'uomo piccolo affacciato in mezzo agli altri uomini, quei bei signori gentili tutti curvi ad ascoltarlo. Vuole spiegarsi, s'invermiglia nello sforzo, in ultimo è quasi spedito. Lo mettevano contro il muro e piangeva e uno alla volta glielo tagliavano col coltello. (Fingevano di tagliare il membro con la lama alla rovescia, viene scritto a verbale dopo un rapido accertamento.) "E poi dietro e col zeppo," strilla il bambino eccitato, girandosi come se dettasse anche lui al cancelliere. SÌ chiama sulla pedana Risdonne, immediatamente riconosciuto. Nicoli Nicoli, dice il piccolo tutto giulivo. È un confronto e l'imputato lo sostiene con un certo disdegno, quasi non valga la pena di negare o non ci sia niente da nascondere. Tiene il labbro superiore fra i denti, l'altro sporge troppo per essere intenzionalmente sprezzante, una smorfia dimenticata sulla faccia. Ma è una smorfia e indispone. Le domande rivoltegli suonano brusche, risponde due volte no due sì: non stava coi ragazzini, coi ragazzini non ci andava mai, sì che col bimbo un giorno s'erano incontrati, sì che era al viottolo del convento. E con questo?, sembra significare. Poi tace, rovesciando il labbro bagnato arrossato di morsicatura. Fanno scendere dalla sedia Giovannino perché lo guardi meglio e subito si butta a raccattare la calza tirandola inutilmente. S'è estraniato. Ma come risolleva il faccino purpureo e all'istante dimentica la calza, guardato di sotto in su il ragazzo grande lungo le gambe, si ricorda la cosa che vogliono sapere e la dice. Lui Gli ha fatto la pipi in bocca. Durante dieci minuti di serrato interrogatorio, Risdonne nega. Per quelli che lo conoscono è stato evidente il senso delle ultime battute del sostituto procuratore Platonico: non il senso letterale, abbastanza ovvio, ma l'intenzione: inscena una delle sue maliziose trame. Domanda se l'imputato, al momento del delitto, tenesse le mani sugli omeri della vittima, insistendo sulla posizione, se l'aveva costretto a curvarsi. Al primo no del bimbo, viene usata dal presidente la parola abbassarsi. Il bimbo risponde ancora no, forse non capisce e si ricorre a un'altra espressione. "Ti ha costretto a piegarti?" "Nono." Il componente privato, un ispettore di scuola elementare, suggerisce in dialetto, accompagnandosi col movimento delle spalle: "Ti fece acciuccare, così?" Sempre no. Ottuso ostinato o veritiero, bisogna smetterla col bambino e mandarlo via. Anche Platonico, sulle mosse per tornare al proprio scanno di accusatore, ha sorriso. Appoggiandosi allo schienale della poltrona vuota sul passaggio, rivolto ai colleghi, in una maniera spicciola discorsiva _niente da mettere a verbale _e usando con naturalezza la voce, del resto poco virile, fa notare quelle che chiama le proporzioni. "Sette e quindici anni, due diverse grandezze," agita un dito come se scrivesse un'equazione, "ma non evidentemente l'uno la metà dell'altro..." Si tratta insomma dell'altezza, un'obiezione (da difensore) che chiarisce proponendo il confronto fisico, come dire di livello. "Magari non è il caso..." Con un risolino accenna all'insolito pubblico. Questo discorso del livello irrita il presidente Toma, lo scansa con un gesto in aria nel chiudere il fascicolo. È venuta meno la ritenutezza imposta dal suo contegno e si sa quanto in certe occasioni lo contrari. Da un colpo d'occhio severo all'aula. Le facce delle ragazze sono inespressive. L'imputato ha ripreso posto alla panca, imperterrito. La donna siede sull'unica sedia, rifiutata dal frate, col figlio davanti alle gambe. Può darsi che, così da lontano, Toma l'assomigli a uno dei suoi, la bambina bionda salita qualche volta da lui. Lo sguardo che posa sull'avvocato è di sollievo. Anche d'ufficio, se si fosse trattato di altra persona sarebbe stato imbarazzante, gli avvocati si dilungano nei particolari scabrosi. O poteva capitare un giovane, uno di quei pivelli che sistemano sul tavolo volumi giuridici e trattati di psicologia col segno fra le pagine e infliggono lunghe letture di brani, mai rinunciando all'arringa. Bisognava concludere al più presto l'incresciosa udienza prolungatasi già troppo, per di più avanti a delle fanciulle. Uno sguardo all'orologio: passata la mezza, si potrebbe terminare per l'una. "La parola al pubblico ministero." Stringendosi la toga sul cappotto, Platonico si rialza. Parlava malissimo e brevemente, ma appare subito chiaro che intende concedersi una delle sue rare puntigliose requisitorie. Ha posto un dubbio, col cavillo avvocatesco dell'altezza, incidente la sostanza se non la gravita dei fatti, il che lascia prevedere una richiesta alla quale si adeguerebbe senz'altro la difesa. Nondimeno vuole prima infliggere una lezione al ragazzo, il ragazzo non gli piace. Platonico è un lindo scapolo quarantenne, con certo infantilismo fisiologico, poco vitale, illibato e nervoso. Vive con la madre. "In questa abominevole parodia dell'amore," comincia, "oltre le ben note causali della vita promiscua di paese con la vicinanza dell'animale domestico che da spettacolo di natura, oltre gl'istinti dell'età ancora confusi, età di manifestazioni d'approccio deviate, e si badi alla genitrice qualificata da un epiteto irripetibile, il cui influsso potè in qualche modo riflettersi sul bambino e attirargli oscure brame, oltre la cosiddetta evoluzione del costume che allenta ogni freno, raggiungendo come una mortifera radiazione _ il confronto è attuale _ anche le pastorali contrade dei monti, oltre tutto questo, o Signori, c'è dinanzi a voi una natura particolarmente e sfrenatamente volta alla turpitudine. Guardatelo..." Le ragazze hanno smesso di dirigere la coda dell'occhio verso il giudice bello come per ritrovarvi le fattezze dell'attore preferito (ciò che realmente all'inizio facevano). A mano a mano, dal futile un po' vanesio armeggio di scolaresca femminile passando a un'attenzione sempre più sostenuta, avevano seguito l'avvicendarsi dei testi sulla pedana: i contadini, che a loro erano sembrati buffi, quei ragazzucci, e il frate, poi la donna e il bimbo. (Un bimbo da tirarselo una con l'altra esclamando com'è carino pare una femminuccia, non fosse stato per il luogo e se non avessero capito.) Dal fermento del principio finiscono per cessare ogni minimo moto, per ridursi a un'immobilità che tuttavia ha dell'intrepidezza. Così immobili fissano l'imputato. L'indagine che da mezz'ora il pubblico ministero conduce su di lui è punteggiata da continui "guardatelo" in falsetto. "Guardatelo," ripete puntando gli ossicini di un dito, "guardate che indifferenza, che cinismo..." Ma esse tenevano di mira il ragazzo fin da prima, prima che cominciasse "la predica" (e l'omino già tra loro se lo indicavano carne "la zitella"). Probabilmente non seguono la requisitoria, astnisa per le contorsioni di forma e l'arcaicità dello stile (sembra un classico scolastico). Può essere impudente, anzi lo è, un sopracciglio alto, la bocca in giù, il labbro rovesciato. E quel riprenderselo coi denti e masticarlo torcendo le guance gialle. È brutto, certo lo trovano ripugnante. Non si distolgono da lui neanche quando viene additata "la vittima della laida deflorazione, l'innocente". Contro le gambe grasse della donna, con le iridi d'un celeste velato sotto le ciglia bionde, il bimbo apre ignaro i labbrini rosa. Poi la visuale è parata, una volta dall'impermeabile un'altra dalla tonaca, distraendo l'attenzione su particolari, le mani ossute che gesticolano, il bianco marmoreo dei piedi nudi nei sandali. I due parlano all'orecchio dell'avvocato. E anche l'avvocato si muove annaspando con la mano indietro come se chiamasse. Il padre torna a curvarglisi all'orecchio. Contemporaneamente Platonico, per un moto consuetudinario verso il tavolo a cui d'abitudine siedono gli avvocati, o che intenda rivolgersi al pubblico ospite con una notazione psicologica, guarda da quella parte spiegando come la negativa pervicace sia caratteristica di certi reati. Indica la panca. Il ragazzo è di nuovo scoperto. Scoperto. Sembra considerarlo il giovane magistrato Oliva. È noto a qualcuno di certe sue vicende di famiglia. Penserà al fratello. Abbiamo tutti avuto un fratello. O noi stessi come uno sdoppiamento. Quando ancora si avevano i giochi in comune e a un tratto ci si stacca. Un fratello cresciuto da un giorno all'altro (magari davanti al proprio specchio) che sorprende con un grosso naso improvviso e fa trasalire con una voce gracchiante, che ha la bocca inspessita, i labbroni, e i capelli non gli si aggiustano non s'abbassano più. Alterato, in preda a un'innaturalezza così difficoltosa. A tavola siede sbieco, forastico perfino coi suoi. Oliva _ o chiunque altro _ potrebbe ricordarsi le celie del padre: fa il mascherone. Lo guardano e ridono. E viene questo momento che si capisce come anche alla tavola di casa il fratello _ o si tratta di se stessi? _ doveva sentirsi esposto, che si riparava mantrugiandosi di smorfie. Simile a uno che nasconda qualche cosa di vergognoso. È quando sorge l'insofferenza col padre, un antagonismo che rende irragionevolmente nemici, il ragazzo addirittura torvo. Non succede poi niente. Solo le fattezze di un uomo uscite da quell'impasto di faccia in lievitazione, un uomo normale, oggi padre a sua volta domani incapace di riconoscersi nel figlio quindicenne. Malgrado l'esperienza professionale, o forse perché ne ha ancora poca, perché è ancora giovane, può succedere a Oliva di ritrovarselo davanti _ un fratello, se stesso? _ sulla panca degli imputati (e credere di vederlo ponendosi nella dirczione di tutti quegli occhi femminili). È Risdonne Nicola. Riunisce le sopracciglia, gonfia la bocca, curva il collo addensando la peluria in pieghe nere, ha un che di losco. E colpisce come su quella panca, a quell'età, così facilmente somiglino a degenerati. Riscuote la voce del pubblico ministero nella cadenza inconfondibile delle conclusioni. Platonico modifica il reato in atti libidinosi violenti in luogo pubblico, dando adito alla concessione del perdono. Non resta alla difesa che la normale procedura di alzarsi e far sue le richieste dell'accusa. L'avvocato Lucrese si alza con stento. A coprirlo della toga provvede l'ufficiale giudiziario posandogliela a cappa sulle spalle. "Signori del Tribunale," dice Lucrese. Incespica leggermente con la lingua contro i denti. "Signori del Tribunale," ripete come per provare la voce. Sta già scivolandogli la toga dalle spalle. "Tutti noi abbiamo avuto... tutti noi a quell'età..." "Parli per sé, avvocato," ritorce Platonico. È solito interrompere la difesa, come movimenta platealmente le udienze, con le sue battute di uomo suscettibile, qualche volta mordace. Non ottiene successo presso i colleghi. Sorride l'ispettore di scuola, il cancelliere si copre la bocca con una mano e il miope ufficiale rimane a ridere solo stolidamente. Si conosce Lucrese come un vecchio dongiovanni finito nelle mani di una serva scorbutica che apre l'uscio ai rari clienti squattrinati e li avvia borbottando allo stanzino polveroso che funge da studio legale. Dopo un lungo silenzio, la voce dell'avvocato esce dall'insaccatura del grasso con imprevedibile pienezza. "La vostra sensibilità di dabbenuomini è stata offesa," dice senza impuntature. Il tono è vagamente aggressivo e la frase può suonare sarcastica. "La sua no?" s'impermalisce difatti Platonico. Cortesemente Toma rivolge un generico prego. "Diciamo allora che vi sono state delle sensibilità offese, ma se le elencassi vi sembrerebbero alla rovescia," prosegue l'avvocato dando una penosa impressione d'incocrenza. "Non le elencherò, o Signori. È la carne che offende e bisognerà pure parlarne." S'interrompe, abbozza un gesto. "Dirò solo di un ragazzo, quello che avete dimenticato là sulla panca, un semplice ladruncolo al quale è stato dato modo di erudirsi in un'eretta in materia assai diversa dal furto." Il presidente si scuote. "Che cosa... Perché non è stato portato via?" E all'agente che fa segno verso le carte del cancelliere per giustificarsi; "Fuori. Si attenda fuori." Toma non ha alzato la voce, ma un leggero rossore gli sale alle guance. Nessuno si sarebbe aspettato da Lucrese il piccolo colpo di scena forense. E ha colto nel segno. Ora se ne sta vacuo, la toga penzoloni da una spalla, l'ufficiale giudiziario va a rimettergliela a posto. Girando il capo incerto come un cieco, dirige la parola al seggio isolato del pubblico ministero. " Poiché l'illustre rappresentante dell'accusa ha voluto compiere un'indagine psicologica, o forse patologica, della personalità del minore... dovremmo chiamarlo in conseguenza quanto meno lo stupratore... io devo riportarla alle sue reali proporzioni." Evidentemente si accinge anche lui a un'arringa in piena regola. Platonica ostenta di consultare l'orologio. È l'una e mezzo e sta affacciandosi qualche avvocato che risale dalla corte d'appello, giù dev'essere tutto finito. Il presidente, che teneva nelle mani l'incartamento come in atto d'alzarsi, compie un affabile tentativo rammentando le miti richieste dell'accusa che possono essere condivise. Il giudice Oliva si. è spinto avanti col busto. "Rivendico il mio diritto e l'imprescindibile dovere... il dovere..." Affannando un po' Lucrese alza il braccio e gli cade la toga. Questa volta, all'ufficiale subito accorso, da segno agitandosi maldestramente di volerla infilare. Appena se la sente addosso rialza il braccio. "Non abuserò del vostro tempo, signor Presidente, signori del Tribunale. E se volessi usare di certi motivi... abusati... in voga..." Gli occorre una ripresa di fiato. "Potrei presentarvelo come un figlio del tempo. La guerra, gioventù bruciata eccetera eccetera... Potrei additarvi il padre. O risalire ancora più indietro, oltre i limiti, ragionevoli certo, dell'istruttoria, che non sembra farne cenno (un'istruttoria si sa non è un romanzo) risalire cioè ai primi mesi di vita del ragazzo. Non dico per ridere, Onorevoli Signori, esigo anzi la massima serietà. Anche il paesetto di..." Non trova il nome che ignora non avendo avuto il fascicolo. "Anche il paesetto sperduto di questa povera gente servì da bersaglio. Un solo spezzone, all'ultima ora. Ed ebbe una vittima. Una donna caduta nei campi. Allattava sotto un albero il bambino e glielo trovarono appeso alla mammella già fredda. Eccolo, quel bambino." L'avvocato Lucrese allunga il braccio in dirczione della panca. Platonico, stridulo: "Stiamo giudicando, alla distanza di quindici anni, un atto di libidine." "Come... è possibile... Ma se anche un trauma prenatale..." "Veniamo al sodo, avvocato." L'indignazione strozza a Lucrese la parola. Gli s'inturgidiscono le voluminose guance e le pieghe del collo, accendendosi fino alle orecchie d'un rosso denso apoplettico. Lentamente si decongestiona, rimangono scure le orecchie. S'impunta in un balbettio, ma poi dice fluidamente: "Bene, allora parliamo della carne." C'era stato fino a quel momento un vago imbarazzo, sopravviene il disagio. (Più tardi si penserà ai due ponce bollenti che i colleghi avevano offerto al vecchio intirizzito nel bar di fronte al tribunale poco prima di salire.) Il pubblico non ha inteso. Tutto di sghimbescio sulla panca, il ragazzo si tiene con una spalla alzata come per pararsi. "Ma bisogna prima tornare al bambino," riattacca Lucrese indicando l'imputato. "Consentitemi, Signori, di rintracciarlo e di presentarvelo. Bisogna sempre andare in cerca del bambino per poter perdonare un uomo. O un ragazzo... O anche uno... uno come me..." Con la mano corta e grassa si batte ripetutamente il petto. "Il bambino... Che cos'è un bambino? Dicono le donne del mio paese che è un chicco di malvasia. Quell'uvetta piccola, sapete, chiara e zuccherina, a goccia di miele. Ogni chicco è così trasparente nella sua pellicola che si vedono dentro i semini schietti. Un'uva delicata e soda, ha un sapore... di profumo... È uva da vino. Non so se... Ma del resto comunemente si paragonano agli angeli. Il bambino di ciascuno di noi... di ciascuno... insisto... fu un essere meraviglioso. Dicono... le donne del mio paese... che se gli guardi la schiena scopri le ali. O almeno un'impronta... un indizio... in quelle scapolette, sapete... Esseri meravigliosi di purezza. L'ir...irr... l'irrefragabile purezza dell'infanzia, che abbiamo visto per nulla ombrata e nemmeno lievemente offuscata in un'altra creaturina proprio nel corso di questo dibattimento." Senza vederci, Lucrese tenta di girare il collo dove siede la donna col figlio. "E così era, non molto tempo fa, colui che dovete giudicare. Ho domandato al padre come era da piccolo Nicolino. Dice: era riccio e timido. Sapete, certe risposte semplici che vengono su spontanee. Riccio e timido. Un bambino senza madre, senza nemmeno una madre come questa che si è presentata dinanzi a voi, da farselo attaccare alle gonne e ricucirgli la zaganella. Lei gli rimetterà la zaganella, l'avete sentito che in fondo era dolce. "E lasciamo stare il trauma, la guerra è passata, quindici anni per cancellare tutto, va bene. Era riccio. In campagna li tosano presto, ma il padre se n'è ricordato. Un segno di bellezza di grazia, brunetto coi ricciolini. Adesso è ispido. È scontroso fino a mostrarsi bieco. L'età ingrata, ne riparleremo. Ma per carità non esigete da loro le manifestazioni del pentimento, la compunzione, l'umiliazione, le lacrime. Esposto al ludibrio generale non batte ciglio. Indigna? È dietro la maschera del cinismo, a ogni modo una maschera, che si nascondono le più conturbate sensibilità dei ragazzi. "Signori, io non ho figli." Alla inopinata dichiarazione, segue una pausa. "È un vantaggio?" domanda Lucrese come tra sé. Sembra riflettere. "Ho la memoria diretta del... senza interferenze... ho memoria..." SÌ tocca in fronte. Raddrizzando la bassa statura assume un atteggiamento togato. "Non impazientitevi, Signori, e non temiate che divaghi. Al contrario, vengo al sodo, come ha detto così efficacemente l'illustre Pubblico Ministero. Ciò che voglio è che non gli si butti il perdono. Non per procedura. È colpevole. Ne sono convinto io stesso suo difensore, difensore d'ufficio, sì, il che non cambia nulla. È colpevole. Fino a che punto, fisiologicamente e giuridicamente, crea il dubbio di cui beneficierà per concessione dell'accusa medesima. Ma è il modo..." Una voce interrompe. "Nicoli," chiama il padre dalla transenna, "Nicoli l'hai fatto?" È rauco. Guardandolo negli occhi per essere senza meno creduto, il ragazzo risponde con forza rabbiosa: No. "... il modo, Signori. Non bisogna avere repugnanza, il perdono evangelico non la prevede. Quello evangelico, certo, obiezione accolta. L'età ingrata. Oh se siamo brutti, infelicemente brutti. Nella piena coscienza di esserlo e sempre in un acuto rendersi conto del proprio corpo. La spontaneità ci è preclusa. Eravamo fluidi sciolti leggeri, eccoci legati, materia dura e greve. Eravamo soavi, eccoci aspri. Il mosto ribollendo si fa aspro. E fangoso. Siamo sporchi. Poi il torbido riposando si fa chiaro. Ma non è questo. O meglio, per quanto mi sforzi non riesco a rimanere sul piano realistico. Ciò d'altronde significa che vi è del lirismo nella cosa." "In quale cosa," si sdegna Platonico. "È intollerabile." Lucrese non sente. "Vediamo un po', che gli è successo? Domandateglielo, e non lo sa. È una metamorfosi. Le metamorfosi sono dolorose... dolorosamente oscure... se ne esce come da una febbre altissima. Oltretutto una metamorfosi alla rovescia. Si ripiegano le ali dell'infanzia in un bozzolo di carne e può capitare di uscirne strisciando. Dopodiché bisogna mettersi in ginocchio e che ci sia permesso di rialzarci all'impiedi. Eh! "La carne, Signori. A un tratto cresce addosso al bambino... era tale ancora poco fa ieri era ancora un cherubino... e lo copre... l'ottunde... lo tarpa... Ci si trova chiusi, separati dal mondo della puerizia, rinserrati in una morsa. Eccolo, guardatelo, il ragazzo: è l'età in cui deve farsi strada attraverso la carne, questo avviluppamento, questa opaca pesantezza. E questo accrescimento. Domani, se tutto andrà bene, sarà la crescita... oppure..." Il vecchio sembra di colpo mimetizzarsi lui stesso a quell'età, nello stadio di plasmazione, col minuscolo naso aperto, la testa incassata, il corpo informe, un grosso abbozzo di creta umida. Suda. "Per uscirne bisogna dibattersi e premere. Ciò che spinge, che sollecita, che urge... qui è il mistero... ciò che spacca riaprendo alla vita... che è? da dove viene? Succede a volte così bestialmente male. Eppure non si tratta di mera bestialità, sappiatelo. C'è una pienezza, un traboccamento di sé irreprimibile. Qualche cosa di erompente e inarticolato, come un muto che sta per mettersi a parlare. È la carne che deve rompersi. Come il legno di un albero da cui si sprigiona il virgulto. Una cosa che scocca da noi, dal nostro essere più profondo, come un'ispirazione e come un delitto." Nella foga il vecchio si è scomposto, gli tremano le labbra, trema tutta la sua massa gelatinosa. Da l'impressione di vederci bene dietro le lenti doppie che gl'ingrandiscono l'occhio e che scruti la carne degli altri. Con una faticosa torsione di lato punta sulla donna flaccida, poi i contadini duri e scuri, la carne pallida dei giudici, quella arida livorosa di Platonico. Accusatore, probabilmente senza volerlo. C'è un po' di suggestione. Il frate ha addosso più carne di tutti ma la regge sui piedi nudi. Riprende la parola con l'impuntatura. "D... d... dicono le donne del mio paese che ognuno serba dentro il suo chicco di malvasia. Ben custodito nella lucida pellicola, la perla dell'infanzia. Ogni uomo, il più brutale che ci sia, la possiede nascosta. E se anche il marito le picchia, esse credono che è il suo bambino che gioca. Hanno una grande facoltà di perdono. Si. è dato il caso del brigante che andò a costituirsi nelle mani della propria moglie. Serbava ancora il suo chicco di malvasia. Si capisce che non bisogna andare a strizzarlo con le dita. E questa è una parabola. Ma noi... abbiamo parlato troppo... abbiamo sbagliato tutti... Noi ci siamo andati con le dita..." Rimane a guardarsele brancicando sul tavolo. Nell'aula non si sente che il respiro del vecchio avvocato stanco. Ansima. Gli è caduto lo sguardo e come se si alzasse allora per la sbrigativa difesa d'ufficio, improvvisamente spento, balbetta le richieste. Ha cessato di nevicare. I contadini, sempre in piedi alla transenna, specolano i vetri grigi forse tentando di ricavare l'ora da quella luce smorta. SÌ tengono alle gambe i ragazzucci che mangiano a testa sotto piccoli pezzi di pane, vergognosi dietro le signorine. Nessuna si è mossa. Gli atteggiamenti non tradiscono stanchezza o impazienza, neppure la preoccupazione femminile del proprio aspetto che spinge le mani ai capelli alla faccia al collo. Col trucco stinto e il rosso delle labbra succhiato, guardano davanti a sé. Le raggiunge qualche spira di fumo dalle sigarette che gli uomini hanno acceso non appena si è ritirato il Tribunale. Tre avvocati e il cancelliere circondano lo scanno del pubblico ministero, in conversazione. Si alza l'accompagnatore della scolaresca, benportante ma un pò molle, e dandosi un tocco al foulard va a unirsi al gruppo. Si tiene sul davanti a due mani i lembi del cappotto sovrapposti. "La gioventù di oggi è impavida," sta dicendo Platonico nel circolo. Si riferisce alle ragazze. Senza rispondere all'inchino del sopravvenuto ne alle sue parole di convenevole, gli guarda la bocca grassa. A lui forestiero non occorre sapere quello che nella città di provincia in passato fece scandalo e ormai si mormora, per catalogarlo. Docente, sposato con figli, ma sempre riconoscibile a un occhio esperto. Lo esamina con acume professionale quasi insolente, dai ricci nel collo fino alla posa donnesca delle mani. Nell'altro settore dell'aula Lucrese è rimasto infagottato contro il tavolo. Sulle enormi guance smunte le orecchie pendono come bargigli malati. Non ha fatto caso ai colleghi, benché il più giovane nel passare gli abbia teso la mano congratulandosi. Ora sembra intento a osservarsi le dita come se non le riconoscesse, muovendole con difficoltà. Alle sue spalle, a occhi bassi, le braccia incrociate dentro le maniche, il frate. Accanto l'uomo sparuto fissa i tristi occhi azzurri sul figlio. Il ragazzo sta per traverso, di schiena. Dietro gli si è andata a mettere la donna col figlio, abbracciando il termosifone e posandovi vezzosamente una guancia. Dallo scanno dell'accusa si voltano, ma in dirczione di Lucrese. Commentano l'arringa. Platonico ha dichiarato che detesta le piaggerie letterarie in dibattimento. "E dovunque," aggiunge tenendo la mano sulla rilegatura nera del codice. Un'arringa, è la sua opinione, che si potrebbe scambiare per un'autodifesa. Chioccia un risolino. Ridono anche gli altri, con discrezione. "Canto del cigno," suggerisce l'avvocato in auge dal bavero di pelliccia. Il collega anziano si pronuncia per l'influsso del biondo in aula, occhieggiando dalla parte delle ragazze. Ma il giovane è rimasto impressionato. Schiacciano le sigarette al suono del campanello, abbandonando la pedana. Il Tribunale rientra. Viene letta rapidamente la sentenza. Sono passate le due. Scomparsi i giudici, si muovono tutti insieme, i contadini affollandosi alla porta grande, le studentesse alla piccola. Il ragazzo, capitato in mezzo fra vestiti e capelli, arretra di nuovo contro la panca. Respira come se fiutasse o gli mancasse l'aria, sempre così giallo. Il padre lo raggiunge e insieme rimangono accantonati. Gli va quasi addosso la donna, che sorride conciliante. "Nicolì, eh?, t'hanno perdonato." Lui spalluccia. Scaturisce fra loro la testa del bimbo e se lo ritrova davanti col mento alzato e la bocchina aperta. Deve ricordarsi benissimo di avergli premuto le mani sulle spalle, anche se non ricorderà altro. Stringe gli occhi sforzandosi a qualche cosa, pare contargli i peli sulla testa con disgusto, forse non ricorda nemmeno che allora aveva i capelli lunghi a riccioli d'oro, vede solo un rossino tosato un po' deficiente. Nell'aula semivuota l'avvocato si rimette a sedere al suo posto. La gente s'è mescolata per il corridoio. Dalla porta a vetri cominciano a sfilare le studentesse, con le braccia sollevate per ricoprirsi la testa. I contadini s'accalcano intorno a frate Alessio che se li porta via. Arrivando sul pianerottolo, padre e figlio fanno in tempo a scorgerli per la gradinata sporca di poltiglia nerastra. Sotto si agitano le teste con cappucci e sciarpe. Quella bionda ancora scoperta. Vi corre l'occhio del ragazzo, sfuggente, come se ai capelli fosse connesso un senso di colpa. Lascia andare avanti il padre. Nel guardarsi alle spalle riconosce l'uomo miope che viene dal corridoio scuro accompagnando l'avvocato traballante a passettirii come un cieco. Ha l'aria di sentirsi aggricciare la carne. La carne la carne la carne. Odierà anche lui per tutto quello che ha detto, non voleva essere difeso. "Nicolì," chiama il padre rauco. È a mezza rampa, stringendosi al collo il bavero sottile dell'impermeabile. Dalla tromba sale un'aria gelata. "Nicolì." Lo spinge a muoversi il rumore di altri passi che sopraggiungono. Imbocca le scale a precipizio, ma poi rallenta dinoccolato. Si mette al muro, non può più nascondersi. Scendono i giudici. Platonico non vede il ragazzo, Toma non lo guarda. È il giovane Oliva a fermarsi. Sembra aver capito l'espressione della schiena, di uno che porti la vergogna addosso come una gobba. Forse rimuginava quel chicco di malvasia e si rende conto che lo rimandano punito per tutta la vita. In faccia lo trova protervo. Ma allunga una mano e lo tocca, gli dice qualche parola. Allora il ragazzo avvampa, violentemente, ingenuamente, si stacca dal muro con un impeto come se volesse uscirsene da se stesso. Mentre padre e figlio passano per ultimi il portone del tribunale, nella sala degli avvocati l'ufficiale giudiziario sta tentando di far parlare Lucrese, che si guarda le dita colpito da afasia.

Pagina 101

Cerca

Modifica ricerca