Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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IL RACCONTAFIABE - Seguito al "C'era una volta …"

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Il pescatore rimase abbagliato; e portò una mano alla tasca, senza guardar in viso la figliuola: - Da' qua. Eccoti Bambolina. - Non le manca neppure un capello? - Neppure un capello. Egli tacque della ciocca tagliatele poco prima, temendo che la donna-pesce non volesse fare più il negozio, saputo che a Bambolina mancava qualcosa. La donna-pesce si accostò allo scoglio, porse il mucchio d'oro al pescatore, prese in cambio Bambolina e si allontanò dalla spiaggia: - Bada, pescatore! Chi inganna è ingannato. Si rituffò in mare e disparve con Bambolina tra le braccia. La moglie, vedendo tornare il marito, gli domandò premurosa: - Bambolina dov'è? - Eccola qui. E trasse di tasca il panierino col mucchietto delle monete d'oro. A quella vista, la povera madre cominciò a strapparsi i capelli, a piangere e a gridare: - Ah, figliolina mia! L'ha venduta, lo scellerato! Ah, Bambolina mia! - Zitta, o ti torco il collo. L'ho venduta per cagion tua. Dicevi sempre: É una bocca inutile! É la nostra disgrazia! Questa è una ciocca dei suoi capelli; te la manda per ricordo. - Tienti l'oro per te; a me i suoi capelli mi bastano. Li baciava, li ribaciava, li bagnava di lagrime. - E alla gente che dirai? - Dirò che Bambolina è caduta in mare e se la son mangiata i pesci. Il pescatore, riposto il suo tesoro in un cassettone, ne prese soltanto una manciata, per andare a far delle compere nei negozi più ricchi. Intendeva subito godersi la vita e sfoggiare. - Quanto lo Fate questo qui? - Cento lire. - Uh! Una miseria! Tenete. - A chi li date cotesti gusci di telline? Qui non si fa la burletta. Il pescatore diventò smorto come un cadavere. Mettendo le mani in tasca, sentiva di avervi una manciata di monete d'oro; cavandole fuori, si trovava in pugno tanti gusci di telline. Gli pareva impossibile; non si sapeva persuadere. E va in un altro negozio. - Quanto lo Fate questo qui? - Trecento lire. - Uh! Una miseria! Tenete. - Qui non si fa la burletta. A chi li date cotesti gusci di telline? Se ne tornò a casa sconsolato. Aveva perduto la figliolina e sarebbe morto di fame lo stesso! La Donna-pesce gliel'aveva detto: "Bada, pescatore! Chi inganna è ingannato". E già si trovava bell'e ingannato con quei gusci di telline. - Moglie mia, come faremo? - Faremo la volontà di Dio. - La gente, non vedendo più la bimbetta, domandava: - E la vostra Bambolina? - Cadde in mare e se la mangiarono i pesci. Il marito rispondeva così; e la moglie stava zitta e piangeva. Come mai nessuno aveva saputo niente di quel caso? La gente cominciò a sospettare e a ciarlare. - Chi sa che n'hanno fatto, povera creaturina! L'hanno ammazzata per levarsi di torno una bocca inutile. Scellerati! Le ciarle giunsero all'orecchio del Re. Il Re spedì le sue guardie e si fece condurre dinanzi marito e moglie ammanettati. - Che n'è di Bambolina? - Cadde in mare e se la mangiarono i pesci. La donna scoppiò in pianto: - Maestà, non è vero! L'ha venduta alla donna-pesce! - Ti do tempo un mese. Se fra un mese non avrai recuperata Bambolina, avrai accarezzato il collo dal boia. Il pescatore corse allo scoglio e si mise a chiamare: - Donna-pesce! ... O donna-pesce! La donna-pesce comparve a fior d'acqua tutta grondante. - Che cosa vuoi da me? - Se mi ridai Bambolina, ti restituisco il tuo oro con qualcosa per giunta, quel che tu vorrai. - Portami in cambio il Reuccio e la cosa è fatta. Il pescatore si tastò il collo, gli pareva di averci attorno la corda del boia che doveva strozzarlo. Quel cambio col Reuccio era impossibile. Pure si risolse di tentare. Ogni mattina andava davanti al palazzo reale: se il Reuccio fosse uscito fuori solo a fare chiasso con gli altri bambini, egli con belle paroline l'avrebbe attirato in riva al mare e l'avrebbe dato alla donna-pesce in ricambio di Bambolina. I giorni passavano e il Reuccio non si vedeva; o se usciva fuori, c'era sempre qualche servitore che gli faceva la guardia. Un giorno finalmente si diè il caso che uscisse solo. - Reuccio, Reuccio, il mare è tranquillo e ci sono tanti bei pesci. - Conducimi. I pesci di chi sono? - Sono vostri, se li volete. Venitemi dietro, per non farvi scorgere. E lo menò su lo scoglio. - Donna-pesce! O donna-pesce! Ho menato il Reuccio. La donna-pesce comparve a fior d'acqua tutta grondante. Il Reuccio ebbe paura di quella donna dalla coda di pesce e si mise a strillare. Ma il pescatore lo afferrò e glielo porse, e prese in cambio Bambolina. Egli s'era avveduto che Bambolina aveva strappato al Reuccio una ciocca di capelli, mentre questi si dibatteva per non andare in braccio del mostro. - Non gli manca nulla? - Non gli manca nulla. - Bada pescatore! Chi inganna è ingannato. E la donna-pesce si rituffò in mare insieme col Reuccio e disparve. Il pescatore si mise in tasca Bambolina. Per via la interrogava. - Bambolina, che cosa hai veduto in fondo al mare? Bambolina, zitta. - Bambolina, che cosa hai mangiato in fondo al mare? Bambolina, zitta. - Bambolina, non avercela col tuo babbo. La fame fa fare delle brutte cose. E Bambolina, zitta. Il pescatore si presentò al Re: - Ecco Bambolina. - Ah! Ti fai anche beffa di me! Impiccatelo! Il povero pescatore rimase. Invece di Bambolina bella e viva, aveva in mano proprio una bambola di legno che le somigliava perfettamente. La donna-pesce l'aveva ingannato. - Chi t'ha fatto questa bambola? Il Re la voltava e rivoltava fra le mani, meravigliato della rassomiglianza. Nel tastarla, tocca una molla, e la bambola di legno si mette a parlare: - Bambolina è in fondo al mare, Il Reuccio dee sposare. Chi l'ha fatta e può disfarla Vada subito a cercarla. - Il Reuccio? Dov'è il Reuccio? Cercate il Reuccio! Il Re pareva impazzito dal dolore. Il Reuccio non si trovava; nessuno l'aveva veduto. - Che n'hai fatto del Reuccio? Il pescatore tremante di paura, raccontò ogni cosa. La bambola di legno non si chetava: - Bambolina è in fondo al mare, Il Reuccio dee sposare. Chi l'ha fatta e può disfarla Vada subito a cercarla. Il Re si diè un colpo alla fronte: - Questo è un incantesimo! Non ci ha colpa nessuno. Radunò il Consiglio della Corona per consultare i Ministri. - Che vuol dire: Chi l'ha fatta e può disfarla? Nessuno riusciva a capirlo. Chi l'ha fatta è sua madre; ma come mai può disfarla? Ci perdevano la testa. - Lasciatemi andare - disse la madre che smaniava di rivedere Bambolina. Prese con sé le ciocche dei capelli della figlia e del Reuccio, e sola sola se n'andò in un punto di spiaggia deserto. Migliaia di pesciolini formicolavano nell'acqua. - Pesciolini di Dio, datemi retta: dove si trova la donna-pesce? I pesciolini si dispersero e sparirono quasi atterriti da quel nome. Dopo poco, ecco centinaia di pesci più grossi che formicolavano nell'acqua. - Pesci, pesci di Dio, datemi retta: dove si trova la donna-pesce? Anche questi si dispersero e sparirono, quasi atterriti da quel nome. Poco dopo, ecco un pesce grosso come un vitello. Apriva e chiudeva una bocca quanto quella di un forno, con doppie file di dentacci acuti e una lingua rossa rossa. - Pesce, pesce di Dio, dammi retta: dove si trova la donna-pesce? - Vieni con me e lo saprai. La povera mamma non esitò un istante in faccia al pericolo d'annegarsi; e si tuffò in mare, tenendo stretti in pugno i capelli di Bambolina e del Reuccio. Camminava sott'acqua come in terraferma; il pesce spaventoso avanti e lei dietro, fra torme di pesci di ogni sorta, che si scansavano per lasciarla passare. Cammina, cammina, scendi, scendi sempre più in fondo, non s'arrivava. E ad ogni lato, sotto, sopra, torme di pesci senza fine, di ogni forma e di ogni grandezza, che nessuno aveva pescato mai. Ella, che ne aveva veduti tanti e ne sapeva i nomi, di questi qui non ne aveva idea, e stupiva che ce ne potessero essere un sì gran numero. Scendi, scendi, scendi, finalmente ecco un bosco di piante strane che parevano vive e si movevano, e grotte in fila, tutte ornate di fiori che si aprivano e si chiudevano, e sembrava nuotassero anch'essi. - La donna-pesce abita lì. - Grazie, buon pesce. Che posso darti in compenso? - Mi basta il buon cuore. La povera donna picchia e chiama: - Donna-pesce! O donna-pesce! - Chi mi vuole? Chi sei? - Sono la madre di Bambolina. - Che sei venuta a fare? - Apri e te lo dirò. La donna-pesce aprì l'uscio e la fece entrare. La grotta era uno splendore, tutta di argento e d'oro e di perle e diamanti. - Tua figlia sta bene qui; lasciala stare. Senti? Fa il chiasso col Reuccio nella grotta accanto. - Fammela almeno vedere. - Non posso, non posso. - La bambola di legno ha detto: Chi l'ha fatta e può disfarla Venga subito a pigliarla. - E tu avresti cuore di disfarla? L'afflitta mamma fu imbarazzata. Pure disse franca: - Sì, sì! Le ciocche dei capelli, tenute strette nel pugno, le avevano suggerito di rispondere a quel modo. La donna-pesce si contorse tutta, e brontolando andò di là a prendere Bambolina. Figuratevi la povera mamma a quella vista! - Bambolina mia! Bambolina mia! Non finiva di baciarla; e se la divorava dai baci. - Basta, basta! Vediamo se sei buona a disfarla. La donna-pesce si contorceva tutta. La mamma strinse forte la ciocca dei capelli e si sentì suggerire: - Tirale le gambe. Afferrò Bambolina e le tirò le gambe. - Ahi! Ahi! Ahi! La donna-pesce si contorceva, quasi colei le avesse invece tirata la coda. E le gambine di Bambolina si allungavano quanto le gambe di una bella ragazzina di otto anni. La mamma le tirò le braccia. - Ahi! Ahi! Ahi! La,donna-pesce si contorceva, quasi colei le avesse tirate le sue. E, le braccia di Bambolina, si allungarono quanto le braccia d'una bella ragazzina di otto anni. La mamma le,tirò il busto, e poi il collo. - Ahi! Ahi! Ahi! La donna-pesce, si contorce più di prima, quasi colei le avesse tirato il busto e il collo, e casca morta per terra. La donna prese Bambolina per una mano e il Reuccio per l'altra e uscì dalla grotta. Fuori c'erano milioni di pesci che stavano ad aspettarli, facendo guizzi in mezzo all'acqua, quasi ammattiti dalla gioia di saper morta la donna-pesce. E salirono su, accompagnati da questo strano corteggio. Quei pesci erano così allegri, che non vedevano neppure le reti tese dai pescatori e v'incappavano a migliaia. Uscendo fuori dal mare, la mamma, Bambolina e il Reuccio trovarono su la spiaggia una gran festa. Le ceste dei pescatori rigurgitavano. L'arena della riva era ingombra di pesci mezzi vivi; ne prendeva chi voleva. Gli stessi pescatori li davano in regalo; non sapevano che farsene. Alla notizia corsero il Re, la Corte, il popolo tutto, e tra essi il povero pescatore che s'era già pentito del suo mal fatto. Al vedere Bambolina, diventata così bella che pareva un sole, il Re esclamò: - É proprio una Reginotta! Infatti, alcuni anni dopo, Bambolina e il Reuccio si sposarono. E quel giorno il Re volle che, in ricordo del caso, in tutto il suo regno non si mangiasse altro che pesce. Chi l'allunga e chi l'accorcia, La mia è detta; ora, la vostra.

I FIGLI DELL'ARIA

682313
Salgari, Emilio 2 occorrenze

Il cosacco, ancora abbagliato dalla luce della lampada, non poté subito sapere con quale avversario aveva a che fare. Tuttavia puntò risolutamente la rivoltella e scaricò, uno dietro l'altro, tre colpi. L'ombra mandò un urlo rauco, poi, con un balzo, varcò la balaustrata, precipitando giù dal fuso. - Colpito? - chiese Fedoro, che si era prontamente risollevato e che si preparava, a sua volta, a far fuoco. - Ferito, forse - rispose il cosacco, slanciandosi verso la balaustrata. L'ombra si era subito rialzata e galoppava fra i cespugli, cercando di guadagnare un folto gruppo di betulle. In quel momento il capitano e il macchinista comparvero sul ponte, entrambi armati di carabine. - Che cosa fate qui, signori? - chiese. - Contro chi avete fatto fuoco? - Ho sparato contro un animale che passeggiava sul cassero - rispose Rokoff. - L'avete veduto bene? - Vagamente. - Qualche leopardo delle nevi? - Mi parve piuttosto un orso, capitano - disse Fedoro. - È fuggito? - Sì - disse Rokoff. - Perché non avvertirci? Potevano essere più d'uno e assalirci. - Avevamo dodici colpi. - Signori miei, ammiro il vostro coraggio e sono ben lieto d'aver preso con me due uomini senza paura. Ha guastato qualche cosa quell'animale? - Non mi pare. - E come vi siete accorti che il ponte era stato invaso? - Ero ancora sveglio e ho udito qualcuno che cercava di arrampicarsi - disse Rokoff. - Gli orsi non sono rari nel Gobi, quantunque non molto pericolosi, se soli. Doveva essere un melanoleco, un plantigrado che si trova solamente nel Tibet e nella Mongolia. Domani cercheremo di scovarlo. Andiamo a riprendere il nostro sonno; ritengo che dopo simile accoglienza non gli salterà più il ticchio di venire a passeggiare sul nostro "Sparviero".

Quando, ancora stordito da quell'improvviso capitombolo e ancora abbagliato da quella luce che per poco non gli aveva abbruciato gli occhi, tornò alla superficie, lo "Sparviero" era scomparso! - Per le steppe del Don! - esclamò. - È saltato in aria o l'uragano l'ha trascinato entro la nube nera? Un'onda che lo investì impetuosamente, riempiendogli la bocca d'acqua amara e salata, gli tolse, almeno pel momento, l'idea di occuparsi dei compagni. - Pensiamo a salvare la pelle, per ora - disse. - Poi vedremo di sapere che cosa è avvenuto dello "Sparviero". Dove sono caduto? Sarà lontana la riva? Avrò molto da lottare per uscire vivo da questo lago. Le onde si succedevano alle onde, ora spingendolo in alto, ora precipitandolo negli abissi mobili e ora coprendolo e sballonzolandolo in tutti i versi. Anche il lago era in tempesta e non era cosa facile sottrarsi ai suoi assalti. Rokoff era però un valente nuotatore. Si lasciò portare dalle onde e come poté si sbarazzò della sua lunga casacca, che gl'impediva di muoversi liberamente. Era rimontato a galla, quando sentì sotto mano qualche cosa che le onde trastullavano. Credendo che fosse qualche albero o qualche oggetto caduto dallo e Sparviero", allungò le braccia e strinse un corpo umano che pareva privo di vita. - Mille steppe! - gridò, rabbrividendo. - Qualcuno dello "Sparviero"? Con uno sforzo supremo sollevò il capo dell'annegato, cercando di ravvisarlo. Proprio in quel momento un lampo vivissimo illuminò le acque del lago. Un urlo di disperazione gli sfuggì. - Fedoro! È morto forse? Gran Dio! No ... non è possibile! Pur continuando a nuotare con suprema energia per non venire subissato dalle onde che lo incalzavano da tutte le parti, col braccio sinistro si strinse al petto l'amico, cercando di tenergli la testa fuori dell'acqua. Nel fare quell'atto gli parve che un tremito avesse scosso quel corpo che poco prima aveva creduto inerte. - No ... non è morto! - gridò. - Salviamolo! La cosa però era tutt'altro che facile, perché non sapeva dove si trovasse, quantunque si rammentasse vagamente di aver scorto, poco prima della caduta, un promontorio e una vasta costruzione. E poi le onde erano ben lungi dal calmarsi e aveva da sostenere l'amico. - Se non potrò salvarlo, almeno morremo insieme - pensò il bravo cosacco. - Ah! Se ci fosse qui anche il capitano ad aiutarmi? Ma chissà se sarà ancora vivo. Nuotava con furore, facendo sforzi prodigiosi per non venire travolto dai marosi, girando gli sguardi in tutte le direzioni per vedere se scopriva la riva. I muggiti delle onde e i fischi acuti del vento lo stordivano, eppure continuava a lottare coll'energia che infonde la disperazione. No, non voleva morire. Nuotava da dieci minuti, quando gli parve, fra le urla del vento e lo scrosciare delle acque, di udire delle grida umane. Alzò gli occhi e distinse confusamente su una rupe la medesima costruzione che aveva veduto poco prima di venire precipitato nel lago. - La costa è vicina - pensò. - Cerchiamo di raggiungerla e badiamo soprattutto di non venire sfracellati contro le rocce. Si lasciava portare dalle onde, nuotando solamente coi piedi, per tema che la violenza della risacca gli strappasse dalle braccia Fedoro. A un certo momento si trovò dinanzi una superficie spumeggiante, quasi calma. Non più marosi e non più controndate. Era entrato in qualche piccola baia difesa da uno o più promontori o da qualche linea di scogliere? Almeno lo suppose. Comunque fosse, colà l'acqua era tranquilla e se vi era una terra vicina, l'approdo non doveva essere né difficile, né pericoloso. - Ecco una fortuna insperata - disse Rokoff. - Se ... Non proseguì. Le sue gambe avevano toccato un fondo duro, probabilmente roccioso, irto di punte. Si rizzò e s'accorse d'aver l'acqua solamente fino al petto. - Siamo salvi! - esclamò. A cinquanta o sessanta passi si estendeva un breve tratto di costa, una specie di punta abbastanza bassa per potervi approdare senza fatica. Più oltre, invece, s'alzava una rupe gigantesca sulla quale Rokoff aveva scorto, alla luce dei lampi, quella massiccia costruzione che gli era sembrata un monastero o una fortezza. Le onde, in causa d'una ripiegatura della costa e d'una scogliera altissima, non potevano giungere fino al luogo dove trovavasi il cosacco. Si frangevano con mille muggiti contro quegli ostacoli che non potevano rovesciare, provocando, in quella specie di baia o di cala, solamente una certa ondulazione. Tenendo sempre alto Fedoro, il quale non dava ancor segno di tornare in sé, Rokoff attraversò velocemente l'ultimo tratto e raggiunse la spiaggia, arrestandosi sotto la gigantesca rupe che cadeva a piombo. - Se vi fosse qualche rifugio - mormorò, gettando un rapido sguardo verso la parete. L'oscurità era però così fitta da non poter vedere a dieci passi di distanza, essendo ormai calata la notte e il cielo sempre coperto da quell'immensa nuvola nera che il vento non era ancora riuscito a disgregare e lacerare. - Lo cercherò più tardi - pensò. - Ora occupiamoci di Fedoro. Depose l'amico su uno strato di sabbia fine e lo spogliò della casacca e del panciotto, mettendogli una mano sul petto. - Il cuore batte - disse con voce giuliva. - Quale fortuna averlo trovato subito! Se le onde mi spingevano pochi passi lontano, era finita per questo povero Fedoro. Gli aprì la bocca, prese la lingua e si mise a tirarla con movimenti lenti e eguali per riattivare il funzionamento dei polmoni. Coll'altra mano intanto gli alzava ora l'uno ora l'altro braccio. La pioggia cadeva a torrenti e il vento spazzava rabbiosamente la spiaggia, ma Rokoff non se ne preoccupava e continuava a operare quelle trazioni con delicatezza. A un tratto un profondo sospiro sfuggì dalle labbra del russo. - La respirazione è riattivata - disse Rokoff - tutto va bene. Lasciò la lingua e si mise a strofinargli vigorosamente il petto con un pezzo di lana strappata dalla fodera della giubba. Fedoro tornava rapidamente in sé, rigettando di quando in quando, sotto quelle pressioni, delle boccate d'acqua. Finalmente anche i suoi occhi si aprirono. - Dove ... sono ... io? - chiese con voce debole. - Rokoff ... capitano ... - Eccomi, sono presso di te - rispose il cosacco, coprendogli il petto. - Tu ... amico ... Rokoff ... che cos'è accaduto? - Una catastrofe, un accidente, non lo so nemmeno io. Siamo stati scaraventati entrambi nel lago, forse dalla folgore e ti ho trovato per puro caso, nel momento in cui stavi per andare a tenere compagnia ai pesci. - Ah! Sì ... mi ricordo ... quella luce ... quel rombo ... poi le onde ... E mi hai salvato? - Ti ho portato qui. - E il capitano? - Non ne so più nulla. - E lo "Sparviero"? - Scomparso, forse caduto nel lago, fracassato dalla folgore o dallo scoppio dei serbatoi d'aria liquida o della macchina. - No ... no! ... - esclamò Fedoro. - No, caduto. - Come lo sai tu? - chiese Rokoff sorpreso. - Quando le onde mi hanno portato a galla, io l'ho veduto ... sì ... me lo ricordo ... il vento lo trascinava verso il nord ... rapidamente ... - Non è scoppiato? - No, Rokoff. - Quanto mi sarebbe rincresciuto che quel meraviglioso treno-aereo fosse stato annientato e che quel valoroso capitano fosse stato ucciso. Sei certo d'averlo veduto fuggire, Fedoro? - Sì, Rokoff, il vento lo travolgeva. - E non bruciava? - No. - Allora non sono i suoi serbatoi che sono saltati? - È stata la folgore che è piombata sul ponte e che ci ha precipitati nel lago. - Ah! Respiro! ... - esclamò il cosacco. - Allora lo rivedremo tornare dopo cessato l'uragano. - Ma noi dove ci troviamo? - Presso un monastero o una fortezza. - Non facciamoci scoprire, Rokoff - disse Fedoro. - Rimaniamo nascosti fino al ritorno dello "Sparviero". Il capitano verrà a raccoglierci, ne sono certo. - Non lo dubito nemmeno io. Sarà però necessario cercarci un nascondiglio; il monastero sta sulla cima di questa rupe e domani potremmo venire scoperti. Rimani qui, vado a vedere se posso trovare qualche crepaccio o qualche caverna. Mi pare che questa parete sia tutta screpolata. - Tu sei senza casacca! - esclamò Fedoro. - Indossa la mia. - Ho dovuto abbandonarla alle onde per poterci salvare entrambi, tuttavia non preoccuparti di me. Ho la pelle dura io e il freddo non ha presa sulle mie carni. Non muoverti e aspetta il mio ritorno. Il cosacco s'allontanò seguendo la rupe che appariva tutta screpolata alla sua base. Essendo i lampi cessati, era costretto a procedere a tentoni e cercare il rifugio colle mani. La burrasca, lungi dal calmarsi, imperversava con rabbia estrema. Onde gigantesche correvano pel lago, frangendosi furiosamente contro le coste con boati e muggiti formidabili e dalle nevose vette dei monti scendevano raffiche gelate e d'una tale violenza, che talvolta il cosacco si sentiva mancare perfino il respiro. - Sarà impossibile allo "Sparviero" poter tornare finché dura quest'uragano - pensava Rokoff, senza cessare di perlustrare. - Il vento soffia sempre dal sud e chissà dove lo avrà trascinato. A un tratto si fermò, mandando una imprecazione. Fra le tenebre aveva scorto dei punti luminosi gialli, verdi, rossi e azzurri che s'avanzavano seguendo la parete. Parevano lanterne cinesi, o qualche cosa di simile. - Che i monaci ci abbiano veduto approdare e vengano a cercarci? - si chiese. - O che ci abbiano anche veduto a cadere nel lago? Mi ricordo d'aver notato degli uomini, un momento prima che la folgore avvolgesse lo "Sparviero". Gridavano e alzavano le braccia verso di noi. Cosa fare? Attenderli o fuggire? Fuggire? E dove, se questa parete è tagliata a picco? Stette un momento esitante, non sapendo a quale partito appigliarsi, poi decise di raggiungere Fedoro, onde avvertirlo del pericolo che li minacciava. - Lui conoscerà i tibetani meglio di me - disse. I punti luminosi o meglio le lanterne continuavano ad avanzarsi, seguendo ora la parete rocciosa e ora la spiaggia. Pareva che gli uomini che le portavano cercassero qualche cosa, perché ora si fermavano e abbassavano le lampade, ora si disperdevano e ora si raggruppavano di nuovo. - Fedoro - disse Rokoff, quando fu vicino all'amico. - Stiamo per venire scoperti e non sono riuscito a trovare alcun nascondiglio. - Ho notato anch'io quei punti luminosi - rispose il russo. - Che quegli uomini cerchino noi? - Non ho alcun dubbio. Siamo stati veduti cadere dallo "Sparviero" o approdare. - Chi saranno costoro? - Dei monaci, suppongo. Mi hai detto d'aver veduto un'enorme costruzione. - Sì, Fedoro, ma poteva essere anche una fortezza. - Non ne esistono su questo lago; qui non vi sono che monasteri. - Sono cattivi i preti di questo paese? - Non credo, però avrei preferito non essere scoperto. - Bah! Se sono monaci, non ci faranno paura - disse Rokoff, mostrando i suoi pugni. - Mi sento in forza per affrontarne cinquanta. - Non vi è alcun modo di fuggire? - Ricacciarci nel lago. - Non pensiamoci; la tempesta invece di scemare aumenta sempre e le onde cominciano a giungere anche qui. Vediamo quale accoglienza ci faranno questi buddisti; se si mostrano ostili daremo battaglia. - Le mie braccia sono pronte a grandinare pugni santissimi che faranno loro vedere le stelle e anche il sole. Fedoro si era alzato. I monaci non erano lontani che cinquanta o sessanta passi e continuavano ad esplorare la spiaggia. Erano una mezza dozzina, non vi era quindi da temere con un uomo della forza di Rokoff. - Andiamo ad incontrarli - disse Fedoro risolutamente. - Anche rimanendo qui ci troverebbero egualmente. - Ti seguo - disse il cosacco, rimboccandosi le maniche della camicia. Avevano percorso mezza distanza, quando videro le lanterne fermarsi, proiettando la luce innanzi. Delle esclamazioni che parevano di stupore, sfuggirono agli uomini che le portavano. - Ci hanno veduto - disse Fedoro. - Chi sono, dunque? - chiese Rokoff. - Monaci, che portano delle tonache di grosso feltro con un manto bianco? - Sì, e che dà loro l'aspetto di fantasmi, specialmente fra questa oscurità. Fedoro mosse incontro a loro alzando le mani e dicendo in cinese: - Pace! ... Pace! ... I sei monaci stettero un momento immobili, col più vivo stupore impresso sui loro volti giallognoli, poi deposero le lanterne e si inginocchiarono dinanzi ai due naufraghi coi segni del più profondo rispetto, pronunciando delle parole che né il russo, né il cosacco riuscivano a comprendere. - Eh! che cosa ne dici, Fedoro? - chiese Rokoff. - Che questi uomini ci adorano. - Che ci prendano per figli della luna o delle tempeste? - Per i figli del grande Buddha, amico mio. Devono averci veduto cadere dallo "Sparviero". - Per le steppe del Don! Sapremo approfittare della loro ignoranza per farci regalare almeno una buona cena e un comodo letto. Spero che non saranno poi così stupidi da credere che i figlioli di Buddha vivano d'aria. Alzatevi, reverendi, basta colle adorazioni: abbiamo fame ed anche freddo. E siccome i monaci non accennavano a levare la fronte che tenevano posata al suolo, ne prese uno e lo sollevò come fosse un pupattolo, mettendolo in piedi. Gli altri s'affrettarono a rialzarsi, cacciando fuori le lingue lunghe una buona spanna e dimenandole in tutti i sensi. - Abbiamo capito, ci salutate - disse Rokoff. - Ma basta; conduceteci con voi. I monaci si guardarono l'un l'altro cercando probabilmente di comprendere ciò che chiedeva il cosacco, poi uno di loro, che portava al collo un grosso monile formato di pietruzze traforate e molto trasparenti, fece alcuni segni, indicando replicatamente la cima della roccia. - Che c'invitino a salire lassù? - chiese Rokoff. - Mi sembra - rispose Fedoro. - Non puoi farti capire da costoro? - Non comprendono il cinese. Nel loro monastero ci sarà, spero, qualcuno che lo parlerà, essendo i tibetani tributari della Cina. Sì, Rokoff, c'invitano a seguirli. - Andiamo - rispose il cosacco. - Mi sento gelare il sangue e desidererei un buon fuoco. Tre monaci si misero dinanzi, illuminando la spiaggia colle loro lampade e levando i ciottoli che potevano far cadere i due aeronauti, gli altri seguivano. - Molto gentili - disse Rokoff. - Mi pare che questa avventura debba finire meglio di quello che credevo. Purché lo "Sparviero" torni presto! ... Non si sa mai quello che può accadere, anche ai figli di Buddha, in questo paese che gode poco buona fama. Seguirono la parete per tre o quattrocento passi, poi salirono una stretta gradinata e raggiunsero il piano superiore, su cui giganteggiava una enorme costruzione, con alti tetti arcuati e doppi e due torri di stile cinese. - Che siamo caduti presso il monastero di Dorkia? - disse Fedoro. - È uno dei più belli? - chiese Rokoff. - Non solo, ma anche il più celebre del Tengri-Nor, visitato ogni anno da migliaia e migliaia di pellegrini e perfino dal Dalai-Lama. - Saranno ricchissimi questi monaci? - Prodigiosamente, Rokoff. - Allora siamo certi di trovare una buona tavola.

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