Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Nanà a Milano

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Arrighi, Cletto 1 occorrenze

Il di lui modo di esprimersi, quantunque scevro di malizia o di ironia, era sempre così vivo e così sentito, che gli amici di casa, gente avvezza a tutte le ipocrisie, a tutte le smorzature, a tutte le banalità delle solite conversazioni, ne restavano scossi e abbagliati. Perfino Aldo Rubieri, che era pur un artista di vaglia, non approvava sempre certe uscite della Elisa, quantunque ammirasse in lei l'ingegno originale e coraggioso, che gliele suggeriva. Suo padre, non pargliamone! Suo padre, in cuor suo, deplorava di avere contribuito a dar in luce una pazzarella di quel carattere, dal quale, secondo lui, un marito non avrebbe cavato nulla di buono. "Figuratevi! - pensava - alludendo all'antico progetto - Testa falsa lei, testa falsa lui. No, no, no; cento volte no! Non c'erano che l'Enrico e il marchese d'Arco, i quali la capissero pel suo verso e l'applaudissero. Essi davano sempre ragione alla Elisa, il che talvolta faceva arrabbiare il notaio fino all'escandescenza. Sua madre taceva e ne gioiva in segreto. Spieghiamoci bene però anche su questo punto. S'intende acqua e non tempesta! Quella facoltà molto decisa di dir sempre le cose schiette e senza smorzature, non escludeva però nella Luisa un'altra facoltà, senza della quale essa avrebbe potuto qualche volta sembrar una scema in faccia a chi non l'apprezzava. Essa aveva molta schiettezza in cuore, ma aveva pur anche molto criterio e molta finezza in cervello, e sapeva a suo tempo e quando le conveniva, metter in pratica tutte le graziose astuzie della diplomazia femminile. Giacchè altra cosa è saper simulare e altra cosa è saper dissimulare. La Elisa, incapace di simulazione, era forse a tempo e luogo maestra di dissimulazione. Tanto è vero che se le avesser dato un segreto da serbare, si sarebbe lasciata uccidere prima di svelarlo. Tutte le arti, le grazie, le disinvolture, le furberie, le moinerie, le capestrerie che il cuore detta istintivamente alle ragazze d'ingegno, essa le possedeva per istinto. Poche fanciulle, pur senza scuola materna e senza buon esempio in casa, sapevano acconciarsi stupendamente, mostrar, senza farsi scorgere, il piede e la mano bellissimi, muovere il ventaglio, dar il colpetto di mano allo strascico della veste, guardar in viso agli uomini con un sorriso modesto, alzarsi e sedersi, comparire e scomparire, quanto lei. Il fatto è che a dieciott'anni l'Elisa era considerata da tutti come la testa più forte della famiglia. L'era una idea codesta che stava nell'aria. La si capiva chiaramente senza che nessuno l'avesse mai notata o lasciata supporre. Se qualcuno, a tavola o seduto in circolo, diceva qualche cosa d'insolito o di bello, guardava in faccia alla Elisa. Il sorriso di lei era il premio certissimo al buon senso o allo spirito spiegato. Ella, dal canto suo, senza far mostra di accorgersi d'essere stata consultata o preferita, dava uno sguardo repentino a sua madre, e se questa non le diceva col cipiglio di tacere, si era certi di udirla esprimere la sua opinione talvolta perfino tagliente e frizzante, come quella di un piccolo Tayllerand in gonnella. Alcuni allora ridevano e commentavano l'arguzia della fanciulla; altri tacevano, come sopraffatti, e si trovavano quasi a disagio nel nuovo ambiente, che l'idea spiritosa dell'Elisa aveva formato intorno ad essi. Un leggero, un lontano, un vago sospetto li prendeva: quello di poter sembrare per avventura un pochino imbecilli in faccia a lei. Un giorno, tra gli altri, il babbo notaio ricevette la lettera d'un pretendente alla mano di lei; un giovinetto della buona società, un conoscente di casa che da più mesi faceva una corte tacita e modesta alla fanciulla, senza aver avuto da lei la benchè minima lusinga. Costui aveva sentito dire che ogni idea di matrimonio fra l'Elisa e il conte Enrico O'Stiary era andata in fumo. La dote e le speranze in fieri avevangli dunque dato il coraggio di chiedere la mano della vergine bellezza. La lettera giunse dopo pranzo, mentre don Ignazio, colle due donne e il marchese d'Arco, stavano aspettando il caffè nel salotto. Il notaio, dopo aver letto il foglio, lo depose sulla tavola con un'aria fra il serio e il soddisfatto, ed espose ai presenti l'inaspettata domanda. - Diamine! - sclamò la madre. - Non si usa, mi pare, a domandar la mano di una fanciulla per lettera. Si manda un amico a far la proposta. - Non ne avrà! - osservò la Elisa. - C'è della gente che, temendo il rifiuto, non ama che altri lo sappiano osservò il marchese. La Elisa intanto aveva messo, da lontano, lo sguardo sulla lettera, quasi per indovinare chi potesse essere quel pover'uomo, che veniva a chiederla in moglie, e aveva veduto in testa di quella lettera una cosa che l'aveva fatta sorridere; e foggiò subito in testa la risposta che avrebbe data a suo padre, se fosse stata interrogata sulla sua intenzione. In mancanza di un'arma gentilizia, lo scrivente usava dei fogli di carta, che portavano per cifra un ferro di cavallo. - Che ne dici tu, Elisa? - le domandò suo padre. - Ma, io dico la verità - rispose coll'accento più umile che potè trovare nella voce armoniosa la fanciulla - io non mi sento voglia di sposare un maniscalco. Il babbo, il marchese e la signora Eugenia ruppero a ridere saporitamente. Supposero che ella credesse sul serio che quella lettera col ferro di cavallo venisse da un maniscalco. La disingannarono.... Elisa li lasciò dire. - Ma - riprese ella, che sapeva benissimo il fatto suo - perchè dunque questo signore mette in testa delle sue lettere quell'insegna di maniscalco? - È la moda del giorno - disse la madre. - L'insegna dei maniscalchi non è così. È un ferro contornato da un'aureola di chiodi - osservò il marchese. - E questa invece che cosa esprime? - domandò la Elisa. - È un mezzo qualunque per esprimere la propria passione pei cavalli soggiunse il marchese. - Ah, se è così - disse la Elisa - io temerei ch'egli dovesse amare più i cavalli di sua moglie. Quel motto del maniscalco fece il giro delle conversazioni milanesi. Per qualche tempo i cartolai che tenevano della carta da lettera col ferro di cavallo per cifra, stupirono di non vedersene più cercata da nessuno. Oggi la voga ripiglia. Fortunati cartolai! Fra le convinzioni più ferme di Elisa, quella che sovrastava a tutte, la dominante, la sovrana, la inespugnabile nel suo cuore, era quella di non poter essere felice al mondo che unita al suo Enrico. L'affetto della impubere si era mutato, nei tre anni, in sentimento gagliardo ora ch'ella s'era fatta donna. Già fin da bambina, del resto, quand'essa aveva inteso per la prima volta il grido di Roma o Morte, si ricordava che per associazione di idee nella sua testolina era risuonato un altro grido consimile, essa aveva balbettato in cuor suo: Enrico o morte. La Elisa aveva anch'essa, come Madame Aubray le sue idee, innate od acquisite, poco importa. Diversamente della maggior parte delle nostre fanciulle di buona famiglia, dacchè aveva cominciato a pensare al mistero della vita, non era rimasta indifferente agli innumerevoli quesiti, che le si presentavano alla curiosità della mente. Voleva saper tutto continuamente e tormentava sua madre, che talvolta, messa tra l'uscio e il muro, le rispondeva frottole da non dirsi. Quanto più essa la pregava di non farle certe domande, tanto più la Elisa si sentiva presa dalla smania di fargliene un sacco. Su molti punti, specialmente del mistero immenso, essa dubitava ancora; era scettica, non incredula; su altri, essa si era formata un'opinione tutta propria ed incrollabile. In fondo, ell'era socialista senza saperlo. Nè quelle sue verginali certezze erano frutto di lunghi pensamenti fra sè stessa o di ragionamenti con altri; erano intuizioni lucide, portate dal buon senso e dal criterio, che la inducevano a pensare certi veri nobilissimi, da nessuno rivelati, ma dai quali le pareva che non si sarebbe scostata, ancorchè le avessero inflitto il martirio. Fanciulle siffatte sono rare a Milano. Non tanto quanto si potrebbe credere, ma rare. Certo, e forse a ragione, si dice che un'Eulalia romana, al giorno d'oggi, non sia più possibile. Pure la Elisa era proprio della stoffa di Eulalia romana. Eulalia, sapete bene, fattasi cristiana a sedici anni, quando fu accusata e trascinata dinanzi al pretore, avrebbe potuto avere salva la vita, soltanto che avesse consentito a metter un granello d'incenso sul tripode, che ardeva dinanzi all'abiurato idolo pagano. Ella era così giovinetta e così bella, che il pretore, estasiato, avrebbe voluto, forse a suo malcosto, salvarla. Egli le offerse lo scampo. Eulalia diede uno schiaffo all'idolo, sputò in faccia al pretore e fu mandata alla croce, il patibolo dei cristiani. La Elisa teneva di questa tempra diamantina. Per una di quelle inesplicabili contraddizioni femminili, che formano la disperazione dei fisiologi, ella era timidissima e arrossiva tutta e quasi tremava se si trattava di mettersi in vista, di presentarsi in un salone a spalle nude, vestita da ballo, o di entrare in un caffè affollato di gente, che al suo apparire spalancavano gli occhi e la mangiavano cogli sguardi, sussurrandosi all'orecchio le ammirazioni desiose e le frasi procaci. Ma se si trattava di un pericolo serio, fosse pur stato imminente e misterioso, dinanzi al quale tanti uomini smarriscono il sangue freddo, ella si mostrava calma ed intrepida. Suo padre le aveva severamente proibito - non se ne parla - di leggere romanzi. - Neppure i Promessi Sposi e il Marco Visconti - aveva domandato lei. - No, neppur quelli! Questa proibizione le aveva messo indosso una smania cocentissima di leggerne assai più di quello che ne avrebbe letti naturalmente, se suo padre non avesse parlato. Enrico era il di lei complice, che le forniva nascostamente il pasto desiato. Nondimeno spesso la Elisa trovava molto noiosi i romanzi troppo morali che Enrico le portava. Egli era assai puritano in questo; aveva escluso tutti i moderni realisti, e, de' vecchi, anche il Balzac. Una sera l'Elisa mostrò a Enrico desiderio di leggere l' Assommoir Assommoirdi Zola. Enrico si rifiutò di portarglielo. - Ho già fatto troppo - disse - a concederti l'altro giorno: L'homme qui rit rit- Gran che! - sclamò la Elisa. E la terribile fanciulla si mise a sparlare di Vittor Hugo. Enrico la pregò di non farsi sentire da altri. Era come dire a un usignuolo di non cantar in primavera. - Avrò torto - diceva la Elisa al conte - ma a me Vittor Hugo qualche volta fa l'effetto di un uomo che sia lì lì per diventar pazzo. Il marchese mi disse un giorno che questo è il carattere del genio. Sarà! lo sfido a non ridere qualche volta di certe frasi di Vittor Hugo. Per esempio mi ricordo questa: "Un profondo rumore soffiava nella regione inaccessibile." Se invece di essere Vittor Hugo che ha scritto questa frase fossi io, a quest'ora mi avrebbero condotta al manicomio. Un profondo rumore che soffia? E nella regione inaccessibile? Ma cosa vuol dire? La si capisce così a occhio e croce; ma è genio codesto? Il genio, mi pare a me, dovrebbe consistere nel dir chiaramente le cose più difficili ad essere pensate da altri, non nel paccucchiare delle frasi con delle parole assurde. Il Rubieri per spiegarmi la cosa mi diceva che i romanzi di Vittor Hugo vogliono essere tutti poemi cosmici, e che egli crede in buona fede di essere il nuovo Cristo delle miserie umane; ma se è così egli è un Cristo che ritiene i suoi discepoli e i suoi lettori altrettanti badaux, che lo devono capire a lume di naso. La Elisa a dicianove anni era dunque riuscita una piccola enciclopedia ambulante. Si guardava bene dal farne sfoggio, ma lo era. Tutte le arti graziose essa le aveva imparate con una rapidità sorprendente, quantunque sentisse che tutto questo attiraglio di cognizioni superflue non le avrebbe servito a nulla nei suoi rapporti col giovane al quale la si era votata. Quanto agli altri che cosa importava a lei di comparire più o meno istrutta? Sciaguratamente l'Enrico diceva di amarla, ma non l'apprezzava. Egli era freddo, preoccupato, distratto, sviato. Egli era altrove co' suoi pensieri, co' suoi desideri, coll'anima, e pur troppo spesso anche col corpo. Elisa capiva tutto questo, e ne soffriva, pur dissimulando con dignità il suo dolore. L'allegria del conte quand'era con lei era forzata. Le sue stesse espansioni, i ricordi, le tenerezze erano tutte superficiali. Si capiva che dopo un'ora che era stato con lei il giovinetto cominciava a trovarsi sulle spine, e desideroso di prender il volo. Altre passioni, altre illusioni lo chiamavano altrove. Egli aveva veduta Nanà. La Elisa ne era mortificatissima; ma non lasciava trapelar nulla neppur a sua madre. Al marchese una volta aveva lasciato capire qualche cosa del suo cordoglio. Ne era stata consolata con una frase francese: " Il faut que jeunesse se passe" passe"Stavano dunque radunati nel salotto attiguo alla sala da pranzo il notaio, le due donne e il marchese, che era venuto come il solito, verso le otto a far la sua visita per trovarsi fra gli amici di casa e per vedere l'Enrico. Il babbo schiacciava un sonnellino. Il marchese parlava colle due donne di cose indifferenti. Elisa era distratta. La Elisa quel giorno s'era levata con un grande progetto in testa. Un progetto che le si era presentato come un'enormità, ma che sentiva esser diventato necessario. Lo aveva pensato la notte dopo avere sparso sul vergine origliere alquante lagrime di dolore, al solo pensiero di trovarsi obbligata a metterlo in pratica, l'aveva covato tutto il giorno, l'aveva rifiutato e riaccettato venti volte. Il progetto era di mostrarsi molto gentile con Aldo Rubieri, per vedere se Enrico se ne risentisse, per scuotere quella mortale indifferenza in cui egli era immerso e che la faceva morire di segreto cordoglio; per suscitare insomma nel suo amante un poco di gelosia. Ella sapeva bene che questa piccola commedia le sarebbe costato un grandissimo sforzo. Fingere? Lei? Eppure non le rimaneva altra speranza che quella. Se l'Enrico si fosse mostrato insensibile anche a quel tratto, ella sarebbe andata a farsi suora di carità. È lecito pensare che lo sforzo del far un po' la civettuola con Aldo Rubieri non fosse poi tanto sovrumano, neppure per lei. Aldo non era un uomo ordinario; ed era bello, forse più bello del conte. E poi la donna ha in sè un istinto di civetteria così spontaneo, che nulla nulla se ne immischi il bisogno o se ne presenti il pretesto, essa lo mette in opera quasi senza addarsene, forse suo malgrado. C'è nella donna come un fuoco sacro, che non si spegne mai, ed è quello sopratutto di piacere a tutti, per piacere di più ad un solo. Quando Aldo si presentò - prima del conte - la Elisa stava passeggiando al braccio del marchese il quale era beato anche lui di sentire il braccio della giovinetta che doveva formare la felicità del suo Enrico, pesare sul suo. Ella gli stava parlando appunto del conte. Il marchese a dir vero - uomo di studio che aveva il capo ne' suoi incurabili e nelle sue medaglie - non sapeva nulla della vita di Enrico. Questi per coprire ai di lui occhi i suoi errori, gli aveva restituiti dopo pochi mesi i tremila franchi che il marchese gli aveva prestati, dicendogli una piccola bugia per giunta. Vedendo dunque entrare lo scultore, la Elisa premette sul braccio del marchese e gli fece fare una mezza girivolta. - Come va la vostra Venere contemporanea domandò a Rubieri andandogli incontro. - La creta o la creatura? - domandò Rubieri. - Ma la creta! - rispose la Elisa - di una modella che non conosco io non mi curo certamente. Ella non sapeva la povera Elisa, che a quella modella di cui non si voleva curare, il suo Enrico aveva scritta una lettera di fuoco. Ella non sapeva d'essere tradita per colei. - La creta è quasi diventata una creatura - rispose Aldo Rubieri. - Ne sono contento. Egli andò poi a salutare donna Eugenia e il notaio che s'era messo a leggere il Corriere della Sera crollando spesso il capo, e dichiarando che alla fine del trimestre avrebbe lasciato l'abbonamento, perchè quel foglio da qualche tempo tirava al liberale. Aldo ritornò verso la Elisa che lo aspettava. Ella lo fece sedere accanto, per domandargli se era vero ciò che le aveva contato la mattina suo padre... - Cioè? Che il sindaco gli avesse annunciata la sua nomina ad assessore municipale. Aldo annuì. La Elisa sostenne la conversazione variata, saltellante, frivola fino al momento in cui dal campanello capì che chi entrava era il suo Enrico. Allora ell'ebbe un movimento sublime di civetteria; disse tutt'a un tratto a Rubieri: - Lei non s'è neppur accorta che quest'oggi io ho cambiata pettinatura. - Altro che me ne sono accorto - rispondeva Rubieri mentre il conte si presentava sulla soglia dell'uscio della sala. - Come la mi trova dunque? Le piaccio così? - Ah, Elisa, lei è adorabile ancora più del solito - rispose Aldo che volgeva le spalle all'uscio e non poteva accorgersi che Enrico era entrato. Infatti la Elisa quella mattina s'era fatta tagliar i capelli alla Vallière, sulla fronte, e stava superbamente bene. Aldo se n'era accorto, ma la fanciulla lo aveva talmente coperto di domande nel frattempo che egli non aveva avuto neppur l'agio di muoverle un complimento. Ora trovandosi così interrogato con voce più viva del solito aveva risposto: - Oh, Elisa, lei è adorabile più del solito. Era tutto quello che la fanciulla potesse desiderare. Mentre l'Aldo diceva questa frase Enrico gli passava rasente e la udiva. La Elisa non guardò in viso al conte. Finse di essere tutta intenta a quello che le diceva Rubieri. Il conte passò fingendo di non udire le parole di costui. La Elisa ne fu piccata in modo che raddoppiò i graziosi atteggiamenti in faccia allo scultore, e la più glaciale indifferenza pel suo adorato. Era la prima volta che a Rubieri succedesse di veder una cosa simile. Enrico, salutata la madre e il notaio, venne a stringer la mano a Elisa e ad Aldo Rubieri. - Buona sera, Enrico - disse la Elisa sorridente disinvolta. Poi senz'altro si volse a parlare di nuovo allo scultore, che nel frattempo aveva corrisposto alla stretta di mano di Enrico. Il quale, per non aver l'aria di ascoltare il colloquio fra la Elisa e Aldo, si ritrasse colpito dal nuovissimo contegno della fanciulla. Il marchese in quella lo abbordò parlandogli di cose indifferenti. Egli lo ascoltava e gli rispondeva macchinalmente, ma colla coda dell'occhio andava spiando le mosse di Elisa che proseguiva con Rubieri la sua piccola manovra da figlia di Eva. Ella si accorse di avere destato in Enrico qualche cosa di insolito, senza mai far mostra di accorgersi di lui; ma pur strisciando, collo sguardo girante, sullo sguardo del conte, s'accorse ch'egli la studiava ed era sorpreso. Essa continuò ripromettendosi il trionfo finale. Ma per quella sera non vi fu spiegazione alcuna fra loro.

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GIACINTA

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

E intanto che finiva di spogliarsi, i suoi occhi neri e grandi, luccicanti d'avidità, erano abbagliati da una confusa fantasmagoria di carte febbrilmente rimescolate, di mucchi di biglietti di banca e di monete d'oro, che apparivano e sparivano sopra un tappeto verde, continuamente.

Il cappello del prete

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Si tenevano vicini e abbracciati, in mezzo a una montagna di valigette, di canestrini, di scialli, di ombrelli, colla spalla appoggiata alla spalla, le mani in mano, gli occhi perduti nell'infinito splendore del mare, abbagliati da quella luce che si rinforzava nel crepuscolo, mormorando paroline in cui si sentiva tutta la dolcezza del germanico "Liebe". Essa era bionda, colle guancie soffuse di rosa, gli occhi azzurri, pieni d'innocenza e di verginità. L'anima di quella romantica creatura non aveva una macchia, e Dio vi si specchiava come in un cristallo. "U barone" buttando un mozzicone dallo sportello, volse le spalle alla coppia felice e sputò sulla terra. Si attaccò colle due mani alla finestrella del vagone, vi appoggiò la faccia, sorreggendosi come un uomo stracco stracco, mentre gli occhi vuoti e gonfi guardavano di fuori senza vedere altro che un grande bagliore di colori fuggenti. Finché il treno in ritardo sforzò la sua corsa, il rombo, le scosse, il fischio, la fuga delle cose, l'affanno stesso della corsa fatta per arrivare a tempo, il battimento dei polsi, il palpito precipitoso del cuore già affetto d'ipertrofia, non gli lasciarono il tempo di riflettere. Anzi per un quarto d'ora si obliò perfettamente, quasi assorbito dalle sue stesse emozioni fisiche. Man mano che il treno rallentava, egli cominciò a ricuperarsi, e trovò tutto sé stesso, entrando in stazione. E si meravigliò di sentirsi cosí sicuro e quieto. Scese e s'incamminò verso la città col passo di un uomo "convinto". Man mano che rivedeva le case, le botteghe, la gente, i soliti amici, andava ricuperando anche il senso della sua vita solita. Prima di andare a casa, abbottonato bene l'abito fino al collo, volle fermarsi da Compariello, il liquorista frequentato dagli eleganti buontemponi di via Toledo, a bere un vermutte col seltz in ghiaccio. Rimase un pezzo ad ascoltare le allegre cicalate del marchesino d'Usilli, direttore del veloceclub, grande maestro di barzellette. L'Usilli, sapendo che il club della Fenice aveva pubblicato il nome del barone, lo trasse in disparte e gli disse sottovoce: - Mi rincresce, Santa, che siano venuti a questo eccesso. Io ti ho difeso, ma hai avuto ventitré palle nere contro dodici bianche. - Vuoi un po' di denaro per ritentare la sorte? fino a ventimila potrei trovartele e con poco interesse. - Ecco gli animali! tutti mi offrono denaro, quando non ne ho piú bisogno - gridò Santafusca. - Tu non avrai scoperta una miniera: so che ti trovi in seri imbarazzi, Santa. Abbi confidenza con un amico. È vero quel che si dice di te? - Che cosa? - domandò "u barone" con voce alterata. - Che non puoi restituire quindicimila lire al Sacro Monte delle Orfanelle? - Spero di ottenere una dilazione... - mormorò il barone, chinando gli occhi. - Ma parliamo di Marinella. Che fa questa scellerata? dopo che la fortuna mi ha voltate le spalle, dice ch'io sono un brutto peloso. E Lellina è ancora fedele a di Spiano? O di Spiano paga e tu... - Che cosa dici, Santa? Non farei un peccato di desiderio per Lellina... Bevi un assenzio? - Marinella mi vuol bene! - esclamò il barone, mentre ingoiava é'un fiato un bicchiere di assenzio verde come lo smeraldo, che riscaldò la sua voce. - Marinella non odia che la mia sfortuna. Ma voglio fare un patto col diavolo come il vecchio Faust. L'anima mia gliela cedo tutta per un buon asso di picche, su cui abbia puntato centomila per tre volte. Ti pare che faccia pagare troppo cara l'anima di un peccatore di spirito? Vuoi provare intanto chi di noi due deve pagare l'assenzio? Aspetta, lasciami invocare il mio diavolo protettore. I due signori si accostarono alla piccola roletta posta sul banco. Il marchesino d'Usilli mosse la roletta e fece tre. "U barone" fece diecimila. - Vedi se non ho il diavolo con me? - È un caso, si sa. Ecco, vedrai ora che il mio angelo custode mi dà... Una grande risata tenne dietro a queste parole. Usilli fece uno. Santafusca toccò col mignolo e fece centomila! - Ciò avviene sempre quando si giuoca per baia. Ma se tu avessi cento lire in tasca, Santafusca, vedresti che il tuo diavolo te le ruba tosto. - Chi mi dà cento lire sulle corna del mio diavolo? - chiese "u barone", guardandosi intorno. - Io te le do, Santa, giuoca, - disse il marchese di Spìano, che, entrato in quella aveva assistito al giuoco. - Bravo, Vico. Giuochiamo queste cento lire. Usilli fece tre. "U barone" fece cinquecentomila. Nuove risa e nuovi clamori. - Non voglio il tuo denaro adesso - disse il fortunato vincitore. - Ma promettimi di giocare almeno una volta per cento lire stasera, in una partita di picchetto o a scopa. Usilli si tenne obbligato per la sera. Santafusca bevve ancora una volta, e animato dalle ciarle, dal liquore, dalla fortuna, ritrovava al di sotto delle macerie le grazie del suo vecchio spirito di gentiluomo. E si stordí tanto bene che, uscendo e scendendo per Toledo in mezzo al via- vai delle carrozzelle e della gente, riuscí quasi a dimenticare il suo prete. Non fu che rientrando in casa che riprovo un senso di pena. Era quasi notte quando la Maddalena venne ad aprire. - O eccellenza, ben tornato. Quale fortuna? - Porta il lume nella mia stanza, - brontolò il padrone. E mentre la Maddalena correva ad accendere il lume, egli rimase un istante ad ascoltare le sue sensazioni, che si dibattevano coi fantasmi dell'alcool. - Bestia! - esclamò a fior di labbro, forse contro l'Usilli; ma non era certo. - Il lume è acceso. Maddalena dalla faccia del padrone arguí che anche questa volta egli aveva perduto, e andò a rannicchiarsi nella sua seggiola dì legno, dove per ore ed ore sedeva a ingannare il tempo e la fame, guardando le case e sonnecchiando a intervalli. "U barone" chiuse colle spalle le portine della sua stanza e girò anche la chiavetta. Era solo, al sicuro, e poteva finalmente mettere le mani sul tesoro. Ma ebbe bisogno di raccogliere ancora un poco di forza. Gli pareva di tornare da un lunghissimo viaggio, al di là dei mari, dopo tre o quattro anni di assenza, e non erano trascorse che ventiquattro o trenta ore dalla sua partenza. Lasciò che passassero anche queste sensazioni, e, acceso un sigaro, si abbandonò nelle braccia di una poltrona, dopo aver posto sulla scrivania il fascio delle sue carte. Era tempo - pensava - ch'egli si facesse una ragione. Se avesse creduto di ritrovare, tornando in casa, il fantasma del morto seduto su una sedia, non avrebbe accettato quella brutta speculazione. Ma era soltanto un uomo che il caso aveva trascinato ad una violenza. Gli rincresceva per il povero diavolo che ci aveva lasciata la vita: ma d'altra parte, pelle contro pelle, anche la sua valeva qualche cosa. Era naturale ch'egli provasse nei primi giorni qualche spavento. Non si ammazza un uomo senza che il sangue non dia un tuffo. La natura vuol la sua parte, ma non piú che una parte, cioè una certa nausea che il barone era pronto a sopportare, finché fosse passata a poco a poco da sé. Prete Cirillo era una carcassa già sacra alla morte. Il tempo avrebbe distrutto a poco a, poco ciò che la forza di un uomo distrusse subito. Era dunque questione di mesi e di giorni, che scompariscono in un numero grande di anni e sono un nulla nel tempo senza fine. - Se al di là vi fosse veramente un Dio, - pensava a suo dispetto il barone, - il quale dal suo trono di cartone d'oro giudicasse di queste faccende, capisco ch'io starei fresco il giorno del giudizio; e nonavrei gusto di veder risorgere il mio prete dalla sua cisterna. Ma poiché io sono convinto che al di là non c'è nulla e che il cielo non è che una soffitta dove collochiamo le idee che non usiamo piú, di chi, di che avrò paura? delle ombre? dei sogni? del diavolo? delle baie dei preti? Dunque, da questa parte possiamo vivere in pace. Prete Cirillo non ha fatto che pagare un poco prima del tempo il suo debito alla natura, e se lo meritava un poco, perché egli era avaro, una sanguisuga dei poveri e in fondo non cercava che di strozzar me, pigliandomi per la gola nelle strette del bisogno. "U barone" aveva bisogno di ripetere queste cose per inchiodarsele indosso. - Tra me e lui si è combattuta la grande lotta per la vita. La vittoria, come sempre, fu del piú forte, vedi Carlo Darwin. "U barone" voltava la testa e pensava ancora: - Il pericolo, la paura, lo spavento terribile, il castigo eterno è che la faccenda caschi nelle mani della Polizia. La società ha troppo interesse nel rispetto del diritto, perché nonperseguiti con accanimento coloro che lo violano. Nel rispetto dei diritti e delle leggi ogni debole trova la sua difesa e la sua protezione, e l'egoismo di ciascuno viene a creare questo grande egoismo sociale che si chiama la legge. Ed egli cercava di inchiodarsi addosso anche questo: - È un morto pericoloso. Ma tu, - pensava soffiando il fumo verso il soffitto - tu hai provveduto con tutti i riguardi, e il signor commissario, i signori giornalisti, i signori gendarmi e il signor pubblico non saranno disturbati da te. La società è come le donne tradite, "occhio non vede, cuore non duole". E mentre la sua mente girava in questo circolo, sentiva a poco a poco il sangue scorrere piú regolarmente, il cuore battere con maggior pace e le idee diventare sempre piú lucide e precise. Quante altre paure e superstizioni non meno vane e inutili avevano turbata la sua infanzia, quando la Maddalena gli contava le storie dei maghi, dei folletti e dei morti che ballano nel cimitero! Noi siamo sempre un po' bambini sulle ginocchia della superstizione. - Animo! Vediamo il nostro conto. Scosse la testa, scosse la persona, si fregò la fronte ed incominciò a sciogliere il pacco dei denari. Il prete aveva portato, oltre al denaro per il contratto (circa quarantamila lire), molti titoli di rendita, e una lunga lista di numeri e d'indicazioni d'altre cartelle al portatore rappresentate da una polizza. - "U barone" non aveva che a presentarsi allo sportello del Banco, gettare la polizza e ritirare i titoli. Trovò insieme ai valori anche la ricevuta lasciata dal presidente del Sacro Monte a don Cirillo per saldo delle quindicimila lire che Santafusca doveva all'istituto. Il prete gli aveva anche risparmiato l'incomodo dì recarsi egli stesso dagli amministratori, e piú che l'incomodo, il fastidio di dover giustificare l'origine del denaro. Trovò anche una lettera di Vico Spiano che diceva: "Il mio amministratore mi ha parlato ieri della S.V., la quale sarebbe pronta a rilevare una ipoteca di lire diecimila che vanto sulla villa di Santafusca. Per conto mio non ho difficoltà a concederlo, ma ne parli col signor barone e col ragioniere Omboni..." Il barone pensò che questa circostanza poteva dar luogo a qualche indagine. Il marchese di Spiano era un uomo troppo distratto per occuparsi di affari, ma non doveva essere contrario a pigliare dei denari pronti e sicuri contro una ipoteca che non rendeva nulla. Se il prete gli aveva parlato dell'ipoteca e del suo desiderio di comperare la villa, nulla di piú naturale e di piú semplice che il marchese cercasse un giorno o l'altro di questo don Cirillo. Non trovandolo in Napoli (sulla lettera c'era l'indirizzo dei prete) avrebbe potuto pensare che Santafusca ne sapesse egli qualche cosa, e quindi gliene parlasse alla prima occasione. Era un forellino che bisognava otturare per rendere l'edificio della sua coscienza piú solido e piú sicuro. Come doveva fare? Due colpi secchi, che risonarono nell'uscio, lo fecero tutto a un tratto trasalire. - Chi è? - gridò con voce strozzata, stendendo le mani istintivamente sulle carte. - Volevo dire, eccellenza, che mezz'ora fa è stato a cercare di vossignoria un prete. Cosí la voce flebile e tremante di Maddalena dietro l'uscio. - Che prete? io non conosco preti... - gridò esagerando la voce "u barone". - Ha detto che tornerà. Successe a queste parole un gran silenzio. Maddalena si allontanò, strascinando le pianelle. Il barone era rimasto irrigidito colle dieci dita aperte e curve sul denaro. Chiuse le cartelle e i denari in un cassetto della scrivania, tranne qualche centinaio di lire che prese con sé per tentare la fortuna. Si vestí con pazienza, come soleva fare nelle grandi occasioni, avendo la cura di chiudere gli abiti da viaggio in un cassettone, dal quale levò la chiave. Chiuse l'uscio della camera, e mettendosi la chiave in tasca, disse a Maddalena: - Stanotte non torno a casa. - Non sprechi la sua salute, eccellenza - disse la buona vecchietta colla sua voce piagnucolosa. - Lascia fare a me. Domani ti porterò del denaro. E soffermatosi sulla soglia, dopo un istante di silenzio, soggiunse: - Non ti ha detto che cosa voleva quel prete? - Nulla mi ha detto. Il barone uscii. Erano le sette quando egli si accorse ancora di aver fame. Non aveva toccato cibo tutto il giorno, e ora si sentiva quasi le vertigini, le gambe e le braccia stracche... le braccia specialmente. Pensò di pranzare al caffè dell'Europa. Dieci minuti dopo un cameriere, lindo e lucido come un lord, attendeva i suoi comandi in una bella sala piena di specchi e rilucente di oro. Molti stranieri e qualche diplomatico finivano di pranzare a una tavola comune. In un vicino salotto i due sposini tedeschi susurravano parole dolci a una melarancia che stavano sbucciando, toccandosi fronte a fronte. L'assassino entrò con passo risoluto, coll'occhio altiero dell'uomo abituato a vincere, e andò a sedersi a un tavolino, accolto con rispettosa premura dal cameriere, azzimato anche lui come uno sposino. Il barone era conosciuto anche all'Europa come un uomo sempre piú splendido coi camerieri, quanto piú era grosso il debito ch'egli aveva col padrone. Scorse la lista dei piatti, segnò tre o quattro cose colla punta dei coltello e disse solamente: - Vino! L'aria calda, pregna di succhi odoranti, la bellezza del luogo, il bagliore dei cristalli e i primi fumi di un eccellente Médoc, finirono col trasportare "u barone" lontano dal suo prete. I pensieri cominciavano a uscire dalla loro fissazione e la "faccenda" si annebbiava nella memoria, come un sogno confuso all'entrare del mattino chiaro nella stanza. Alle dieci, dopo aver data un'occhiata al San Carlo, dove si rappresentava una discreta "Aida", si ricordò che l'Usilli l'attendeva al club. Fu ricevuto freddamente e quasi sdegnosamente dai pochi che sedevano ai tavolini; ma l'Usilli, che l'aveva preso sotto la sua protezione, disse a voce alta: - Amici, Santafusca è uomo onesto ed è venuto per vincere cento lire a me e per tentare ancora una volta la fortuna. Dice che ha il diavolo dalla sua... - Un diavolino... l'ultimo - disse il barone ridendo con isforzo, e suscitando l'ilarità di chi vinceva. Alle undici egli vinceva già diecimila lire. L'Usilli stuzzicato, caldo di smania, puntava come un matto e perdeva sempre. Davvero, c'era da credere alla leggenda del vecchio Faust. A un'ora dopo mezzanotte "u barone" giocava ancora... e vinceva.

Demetrio Pianelli

663144
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Melchisedecco sognava cogli occhi aperti e abbagliati un giorno di rivoluzione. Gli pareva che dalle cento finestre del carcere uscissero i malviventi, armati di coltelli e di sbarre, torma cenciosa e bruta, che andava a bruciare e rovinare Milano. Il buon negoziante dal temperamento acquoso oggi capiva anche l'incendio e la rovina. Egli che predicava tanto sugli scioperi e sulla prepotenza del signor operaio, oggi si sarebbe messo alla testa di un esercito di malfattori per punire i galantuomini del male che gli faceva soffrire una donna. Egli, sí, egli, colle sue mani avrebbe gettato petrolio e fuoco nel Teatro della Scala, per il gusto di abbruciare un covo di ladri eleganti, che non ti rubano, no, la borsa, ma ti rubano la pace, l'onore, la stima della gente. Sonava mezzodí a tutti i campanili della città, quando fu scosso dal rumore di una carrozza che passava a corsa dietro di lui, sollevando una nuvola di polvere. Il legno scendeva verso Porta Genova al trotto di due cavalli, ma, quando parve al Pardi di riconoscerlo, era già troppo lontano. A un certo punto la carrozza si fermò. Un signore discese, strinse una mano che uscí dal finestrino e uomo e carrozza scomparvero nella nuvola di polvere. Pareva un sogno d'uomo infermo che ha preso molto sole sul capo. Secco si restrinse in un gruppo, e finí di soffrire quel che è dato di poter soffrire a un uomo. Poi si mosse come se fosse ad un tratto guarito. La sua risoluzione era presa. Si volse ancora una volta verso il carcere e, parlando cogli occhi, gli disse qualche cosa, forse un arrivederci. Palmira non rientrava a Milano senza qualche batticuore. Strada facendo l'aveva assalita il sospetto che suo marito, preso a un laccio cosí volgare e teatrale, riflettendo sulla cosa, non la trovasse naturale, o sentisse qualche notizia in contrario, o s'incontrasse per caso in qualche persona che sbadatamente tradisse la verità. Perciò prima di entrare in città si era fatta condurre alle Cascine per poter dire di esserci stata, per prendere cognizione esatta della posizione, per parlare a Beatrice e mettersi d'accordo con lei, per avere in lei una difesa e una testimonianza qualora ce ne fosse bisogno. Alle Cascine sentí che la Pianelli era a Milano per gli esami di Arabella e che il matrimonio non si sarebbe celebrato cosí presto. Questa scoperta fu un primo colpo di fulmine. I casi son mille e Secco poteva incontrarla per via. Si fece portare rapidamente a Milano coll'ansia d'un capitano che teme di aver perduta una battaglia, e che si affretta, in mancanza d'altro, a coprire la ritirata. Le parve lieta la musica del tric-trac che l'accolse all'entrare in casa sua. Avrebbe voluto che Secco uscisse subito a salutarla per leggergli negli occhi. Non era uomo che sapesse nascondere un pensiero. Ella capiva subito al suo grosso respiro quando c'era in aria una tempesta. In quel momento si sentiva il coraggio di mentire fino alla perdizione dell'anima, senza battere palpebra, sicura già in cuor suo di poter compensare il tradimento e la bugia con un entusiasmo nuovo e straordinario di bene. La coscienza formulava già un caldo e sincero proponimento di penitenza e di ravvedimento, appoggiato al giuramento di non tentar piú in nessun modo la pazienza di Dio e quella del piú buono dei mariti, di non uscire piú col pensiero dal suo guscio, di espiare insomma con una vita raccolta le aspre e terribili sfrenatezze della colpa. Pensando queste cose in un fascio, per quanto si possa pensare col cervello in fiamme, salí a corsa le scale. "Non c'è lui?" chiese alla donna, entrando colla furia di una gazzella inseguita. "L'aspettava a colazione. Vedendo che non veniva, sarà andato alla trattoria." "Mi aspettava stamattina?" "Gli ho detto che probabilmente sarebbe tornata stasera." "Non v'è stato nessuno?" tornò a chiedere Palmira, mentre si strappava i guanti rovesciandone la pelle sulle dita. "Nessuno." "Ieri sera è uscito." "Fino alle undici stette fuori." "Era di buon umore? non ti ha parlato di ... di un fallimento?" Palmira, a cui crescevano le astuzie in bocca, cercava ogni mezzo per scandagliare senza farsi scorgere. "È andato a dormire: non ha detto nulla." In questi discorsi Palmira entrò nella stanza da letto. Trovò sul tavolino alcune lettere, dei manifesti e la famosa lettera di Beatrice. Questa si ricordò d'averla chiusa nel cassettone. Come si trovava ancora intorno? Nel cassetto non trovò la chiave. La cercò lí vicino, sotto il mobile, e chiamò di nuovo la Cherubina. La donna non sentí, come al solito. Allora colla punta delle forbici provò a movere il cassetto, facendo leva nella serratura e trovò i fazzoletti, i pizzi, le gioie in gran disordine. Anche il letto era rimasto intatto come si prepara la sera, colla coltre rimboccata e il cuscino da notte. Cherubina, che non aspettava la sua padrona prima di sera, non era ancora entrata in camera. A ognuna di queste scoperte il suo cuore si faceva stretto di spavento. Pardi mandò a dire che non lo aspettassero a pranzo, perché doveva trovarsi alla Camera di Commercio con un suo corrispondente. Palmira rimase in una penosa incertezza. Mangiò poco e di mala voglia, concentrata, inquieta, nervosa, sforzandosi di preparare un sistema di risposte che potessero in ogni eventualità confondere, se non persuadere, il suo giudice. Il contegno di suo marito e le traccie di disordine che trovò nella sua roba parlavano già come una minaccia. Secco non rientrò che verso le nove, tranquillo in apparenza, ma con una faccia che non era la sua. Passò direttamente in fabbrica, senza chiedere di sua moglie, e si chiuse nello stanzino che serviva di studio. Aspettò che l'uomo della fabbrica, chiusi gli usci e spento il fuoco della motrice, passasse a consegnargli le chiavi. "Di' alla Cherubina" soggiunse, "che venga un momento da me." "Buona sera, signor padrone" disse quell'uomo nero. "Sta bene ... " rispose Secco con voce coperta, e stava per soggiungere qualche altra cosa che alludesse al suo destino e all'avvenire dei suoi buoni operai, ma non gli riuscí di formulare una parola. Prese invece a riordinare le sue carte, ne fece molti pacchi, come se si preparasse a sloggiare di lí. Al lume di una piccola bugia, ch'egli collocò sullo scrittoio, sigillò alcune lettere, vi scrisse sopra il nome di alcuni suoi vecchi amici, coi quali s'era trovato nella giornata per regolare le varie partite dei suoi interessi, distrusse molte carte inutili, come se obbedisse a una interna suggestione piú forte e piú prepotente della volontà e della ragione. L'unica frase chiara che gli tornava di tempo in tempo nella mente, e ch'egli leggeva piú che non scrivesse sopra una specie di cartello, era la grande profezia di sua madre: "Mangerai il pane che ti meriti!" Era un pane ben duro, scottante come carbone acceso: ma le profezie dei morti vanno diritte al loro scopo. "Mangerai il pane che ti meriti!" La Cherubina, con un lumicino a petrolio in mano venne per la lunga corsía, mandando fasci di luce nelle viscere e nelle trame dei meccanismi, che, dopo aver strillato tutto il giorno l'interesse del signor Melchisedecco Pardi, parevano dormire in una rotta stanchezza. Chi avrebbe mosso dimani quei duecento rocchetti e quei duecento pettini? La mano che soleva tutte le mattine dar vita e moto alla materia sarebbe stata lorda di sangue: e col sangue non si fabbrica il pane della gente onesta. Erano larve, frantumi di pensiero che lo accompagnavano nel lavoro materiale della sua liquidazione. "Mi rincresce mandarti fuori a quest'ora" disse alla Cherubina "ma avrei bisogno che tu recapitassi subito questa lettera all'avvocato Piazza, che sta fino in via della Stella. Sai dov'è?" Era un pretesto per mandare lontano la donna di servizio. "Farò una passeggiata. Si sente male, signor padrone?" "Perché?" "Ha una certa faccia." "Ho mangiato male, al solito ... Dov'è la signora?" "S'è ritirata nella sua stanza. Aveva una forte emicrania anche lei. Avrà preso del sole." "Già, è la stagione. To', va e torna." Pardi stette ad ascoltare finché gli parve che la Cherubina fosse partita. La casa era tutta occupata, parte dalla fabbrica, parte dall'appartamento civile e, una volta uscita la Cherubina, non restarono che i padroni. Il macchinista, che dormiva in un bugigattolo lontano dall'appartamento, fino a mezzanotte soleva smaltire la polvere del carbone all'osteria. Quando il portello si rinchiuse dietro la Cherubina, Secco trasse dal di sotto di un vecchio stipo una cassa di ferri che servivano per le aggiustature. Erano lime, scalpelli, punteruoli nuovi e frusti, in mezzo a una minutaglia di chiavi e di chiodi rugginosi. Chiuse gli occhi, prese a caso un arnese coll'impugnatura di legno, lo ficcò nella tasca della giacca, soffiò sul lume e, al debole riverbero dei lampioni di strada, discese lentamente, col corpo pesante, colle vene chiuse, il passaggio tra i telai, che gli parve interminabile, uscí sul pianerottolo buio, fissò gli occhi nel buio perfetto della scala e, sospinto da una forza che non era già piú sua, entrò in casa. Nel salotto da pranzo non c'era nessuno. Sul tavolo in mezzo alla stanza splendeva una lampada con grosso globo di vetro. Buttati sul tappeto del tavolo, i guanti di Palmira, coi diti arrovesciati in un gesto d'irritazione, attirarono subito la sua attenzione. Palmira era nella stanza da letto, divisa dal salotto da due piccole portine di vetro, attraverso alle quali egli vide chiaro. "Sei tu, Secco?" chiese la sua voce acuta e carezzevole. Non rispose. Come avrebbe potuto? Nel momento che seguí, il piú gran rumore lo fece il pendolo dell'orologio a sveglia posto sul caminetto. "Ah sei tu!.." esclamò Palmira, aprendo un pochino le imposte e rinchiudendo subito dopo aver spiato nel salotto. "Vengo subito." Pardi vide qualche cosa di molto bianco e voltò le spalle. Barcollando, andò ad appoggiarsi colle due mani al marmo del caminetto e vi si attaccò colla paura di un sonnambulo che si accorge, dopo lungo camminare, d'essere sopra il colmo di un tetto. Era egli venuto proprio per ucciderla? Possibile che un uomo diventi di punto in bianco il carnefice della donna che ama? Quella voce acuta e carezzevole avviliva il suo coraggio. Egli la aveva già troppo uccisa col pensiero perché avesse a insanguinarsi anche le mani. Essere ammazzati non è sempre il piú crudele dei castighi. Alzati gli occhi al muro, s'incontrò nella faccia asciutta e severa di sua madre, che stava a guardarlo dal mezzo d'una cornice ovale colla tinta slavata e giallastra che pigliano le vecchie fotografie. Colle labbra sottili e taglienti, nell'atteggiamento di chi mastica amaro, la vecchia devota pareva ripetere la sua profezia: "Mangerai il pane che ti meriti ... ." Anzi gli parve nella grossezza del sangue che i due zigomi angolosi della vecchia si colorissero. Palmira non uscí subito. Egli sentí che si agitava nella stanza, movendo roba, chiudendo e aprendo cassettoni, gorgheggiando sottovoce come nei momenti allegri. Cantava? si può cantare cosí vicini alla morte? era venuto egli proprio per uccidere? Le discussioni ostinate, le feroci accuse, le maledizioni, le condanne, le prove che da ventiquattro ore era andato raccogliendo e accumulando sul capo di quella donna, ciò che aveva visto, ciò che aveva patito consciamente e inconsciamente, tutto ciò, in una parola, che in ventiquattro ore era andato a precipitare nel fondo senza luce della sua esistenza si coagulò in un nodo, e credette d'essere lui il morente. Quel Lassú è buono e qualche volta toglie la forza e la ragione: qualche volta nella sua misericordia fa morire a tempo. Palmira lo provocava col suo insolente gorgheggio di mascherina. Qualche cosa di spaventevole stava per accadere nella casa di suo padre. Si può cantare cosí quando si torna dalle braccia d’un amante col tradimento in corpo? ch'ella fosse innocente? che tutto fosse un terribile inganno del sangue, un gioco falso della gelosa passione? "Ebbene, come va, il mio vecchio?" chiese Palmira entrando e accostando le portine. Pardi si appoggiò col gomito alla pietra e si voltò di sbieco a guardarla. Essa indossava un abito da notte tutto bianco, fatto di pizzi leggeri con in testa una cuffia alla brettone, pure tutta bianca e di pizzo, da cui le trecce nere d'ebano uscivano attorcigliate sulle spalle un po' scoperte e sul collo. Palmira con uno sguardo buttato là capí subito che il tempo era grosso. Venne piú presso la tavola e ridendo, come se nulla fosse, soggiunse: "Ho da contarti una bella commedia. Sai che sono andata per nulla alle Cascine? Il matrimonio non ha potuto aver luogo stamattina, perché all'ultimo momento s'è scoperto che si opponeva un articolo del Codice civile. (Erano le poche notizie che aveva potuto raccogliere alle Cascine). Sicché figurati la disperazione di Beatrice. Essa è partita subito e dev'essere ancora a Milano. Povero signor Paolino! ... " Palmira afferrò un guanto e cominciò a stracciarlo colle unghie, mentre ripeteva il suo elettrico gorgheggio di mascherina. Il cuore di Pardone si sollevò come una marea. Non si aspettava questa coincidenza colla verità. Era lí invece in attesa della bugia piú sfrontata che dovesse far traboccare il vaso dell'ignominia e dargli il coraggio della vendetta. Palmira, accesa dalla luce lattea che s'irradiava dal globo, e ingentilita dalla nuvola bianca che la circondava, ridendo sempre per sostenere colla voce l'enorme fatica della sua parte scabrosa, seguitò: "Sicuro, un articolo di legge che non permette, pare, a una vedova di rimaritarsi prima che sia trascorso un dato tempo. È naturale. Il signor Paolino non può accettare un'eredità senza benefizio d'inventario." Pardone si voltò del tutto e si appoggiò colla schiena alla pietra del camino. Le due mani nelle tasche della giacca — con una delle quali stringeva sempre l'impugnatura — il capo un po' curvo avanti, affascinato da quella voce che diceva la verità, eccitato piú che dal risentimento, da una trepida speranza che il brutto sogno si dissipasse da sé, dopo un garbuglio di suoni, che egli trasse a stento dalla strozza, chiese appuntando un dito verso Palmira: "Tu hai dormito alle Cascine?" "Sí" disse Palmira, sollevando gli occhi, coll'estremo e freddo coraggio di chi lotta per la vita. "Sí, perché?" ebbe forza di ripetere, ingrandendo quei terribili occhi, con cui soleva vincere sempre. "In compagnia della signora Pianelli?" "No, se ti dico che era a Milano. Fu un pasticcio, ti dico." "Difatti l'ho trovata in istrada." "Chi?" "La Pianelli ... ." "Ah, sí?" Il povero cuore di Palmira batteva come un maglio: ma gli occhi parevano specchi pieni di lampi. "Mi ha parlato di questo articolo di legge ... ." Palmira ruppe in un gorgheggio nervoso, e finí di lacerare il suo guanto. "Ne capitano di belle alle Cascine, veh!" "E mi ha detto anche che ella non ti ha mai scritto." "Che cosa non mi ha scritto?" chiese affilando la punta dello sguardo. "Che non ha mai mandato carrozze a prenderti." "La bugiarda!.. Non è vero che tu l'hai trovata." "È vero, Palmira," declamò con enfasi il Pardi, sollevando la mano al ritratto "è vero com'è vero che questa è mia madre." A sentir nominare la vecchia suocera, Palmira ebbe un brivido quasi di ribrezzo e di paura: e cominciò a impallidire. "Beatrice ha voluto ingannarti per non dirti che aveva fatto una meschina figura. E veramente c'è da scrivere una farsetta tutta da ridere con Meneghino sindaco senza sapere il codice." Pardi ebbe ancora un momento di esitazione. O egli era un pazzo o quella donna era maestra di ogni iniquità. "Perché, signor mio?" saltò su ad un tratto Palmira, cambiando tono e pigliando l'offensiva con un cipiglio di falco stuzzicato "avrebbe forse dei dubbi che io sia andata alle Cascine? siamo alle solite?" "Palmira, per carità, lasciami parlare. Tu sei partita stamattina dalle Cascine?" "Sí, perché?" "Sola?" "Sola, in carrozza, s'intende, col carrozziere ... coi cavalli ... ." "Sei entrata sola in Milano?" "Sola ... ." Palmira corrugò la fronte e una piccola vena azzurra si gonfiò e palpitò nell'infossatura dei sopracigli. "Bene, sei una bugiarda! ... " Pardi si avanzò due passi, curvo, coll'occhio gonfio. "Secco, perché?.. ti giuro ... ." "Non giurare!.. Un uomo era con te." "Non è vero!" "L'ho visto io a Porta Genova. Tu hai passata la notte con lui ... ." "No, no, Secco ... Gesú e Maria! Cherubina!" "Grida, chiama i vivi e i morti. È finita: pagherai in una sola volta il conto delle tue sporche bugie." "Pardi, Pardi ... , perdonami per questa volta. Ti dirò tutto ... No, no…, ti hanno ingannato ... ." Palmira, quando ebbe capito che quell'uomo forte e inferocito non credeva piú alle sue parole, s'era messa in difesa, girando sempre intorno al tavolo facendo della lucerna una specie di scudo. Essa mirava a scivolargli e chiudersi con chiave nella camera da letto, prima ch'egli potesse inseguirla: di là avrebbe gridato al soccorso, avrebbe chiamato la gente e le guardie, di cui il buon Pardi aveva una grande soggezione. Se riusciva a porre tra lei e suo marito un uscio e qualche minuto di tempo era salva, perché le furie del toro non duravano di piú. Ma questa volta il giuoco non riuscí. Pardi ricevette in viso il colpo secco delle portine, ma lo strascico delle vesti impedí che i battenti si richiudessero. Pardi le sfondò. Nell'urto violento caddero i vetri con gran fracasso. Palmira capí che voleva ammazzarla: lo capí dagli occhi spiritati e rigati di sangue. "Pardi, Pardi ... che cosa fai? per la tua mamma ... ." Pardi, fuori di sé, andava dietro come un pazzo frenetico a quella figura bianca che scivolavagli davanti. Coi capelli sciolti, cogli occhi spaventati, pallida come una morta, Palmira guardò se era il caso di affrontare il nemico, di avviticchiarsi al suo collo, d'avvilirlo, come le altre volte, colle strette, coi baci, colle lagrime. Era tardi: non aveva piú davanti un uomo. "Pardi, tu vuoi ammazzarmi" continuò a strillare. "Ohimé l'anima mia! Aiuto ... Gente! ah brutto assassino!" Prese una seggioletta di paglia ch'era lí e la gettò nelle gambe del suo assalitore. Pardi scavalcò l'ostacolo e ridusse la donna tra il letto e il muro. Palmira non ebbe piú né uscita né scampo. Afferrò per ultima difesa un cuscino del letto e con questo affrontò il nemico, urlando parole dilaniate; ma il suo giudice era troppo forte, e aizzato da troppi demoni per ascoltare una confessione. Soffocò le strida, buttando la donna bocconi sul letto, premendola alla nuca colle dita e colle unghie dentro la bella massa di capelli neri, come farebbe un leopardo pien di fame sopra un agnello, e colla destra che trasse di tasca cominciò a menar colpi su quel gracile corpo, al fianco, alla testa, cieco, col sangue negli occhi, finché quel povero corpo si sfasciò quasi sotto la sua mano, scivolò dalla sponda e con un tonfo di roba morta andò a piombare nell'angolo della stretta. A quel tonfo Pardi si risvegliò come da una ossessione. Aprí gli occhi alla vista esteriore, si vide la mano e il braccio chiazzati di sangue, buttò via l'arnesaccio che aveva in pugno e, rantolando nell'affanno della respirazione, fuggí, passando per la scala buia, attraverso l'intricato labirinto della fabbrica, precipitò per l'angusta scaluccia nel sotterraneo della macchina, urtando due volte la testa nei travi di ferro, e senza cappello, colla testa ferita e sanguinolenta, col pugno stretto come se brandisse sempre lo strumento del delitto, mormorando meccanicamente la profezia della mamma, andò a consegnarsi alle guardie di via Lanzone. Chiamato in fretta il signor delegato Broglio, che, come al solito, faceva la partita ai Tre Scanni , Pardi, in uno stato da far pietà ai sassi, gli disse singhiozzando: "Mi mandi al Cellulare, ho ammazzato mia moglie."

La Colonia felice: utopia lirica (terza edizione)

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Dossi, Carlo 1 occorrenze
  • 1879
  • Stab. Tip. Italiano DIRETTO A L. PERELLI - Ditta Libraria di NATALE BATTEZZATI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Si ripèscan dal sonno i più al fondo, e da ogni parte vedi occhi abbagliati, bocche oscitanti, andature allacciate. Si squarcia il vergine suolo; colà, piantoni, ramoruti e frondosi, rovìnano sotto la scure, e quà si riàlzano nudi; ecco, in brev'ora, un gran tetto, e sotto al tetto, accatastata ogni roba. E, intanto, si ripigliàvano i fuggiti buòi dal tintinnante sonaglio e gli agnelli dal lamentoso belìo, sparsi per la campagna, o meglio, tornàvano essi spontaneamente al lor laccio; chè abitùdine lunga fà dello stesso servire un bisogno. Naque, allora, un bisbiglio, che propagàndosi divenne grido: la divisione, la divisione! - E la divisione incominciò e compissi con meno litigi di quanti ne preannunziava. Dal mangiaticcio all'infuori, che si trovò di serbare in comune, il rimanente, armi, àbiti, attrezzi, tutto fu scompartito. Le idèe di mio e di tuo, confuse assài in que' capi, rispetto alla roba degli altri, facèvansi, rispetto alla propria, di una maravigliosa chiarezza. E la concordia parèa ristabilirsi. Quand'ecco, Giorgio il Rampina, un grassoccio dalla cute rosea e splendente, dalla testa calva e dagli occhi libidinosi, dire con una mòrbida voce: non è ancor tutto diviso ... - e accarezzarsi coll'ìndice e il pòllice il mento. Ma Tecla la Nera, piantàndogli in faccia due sguardi, che èrano stilettate, e accennando a sè stessa, esclamò: noi non siam roba! - Rispose con acrèdine Aronne: tu sarài, o sfrontata, quanto vorremo noi ... o piuttosto ... io. - Tu? ... perchè tu? - Perchè sono uomo io, e tu donna; perchè io comando e tu devi obedire. - Comandi? - entrò a chièdere Gualdo sardonicamente - comandi a chi? - A lei ... a tè ... - fe' il Letterato, sbilurciando ai compagni; e con audacia: a tutti. - E chi lo dice? - tornò a dimandare il Beccajo, strascicando la voce. Saltàrono in piedi otto o dieci ribaldi, battendo i calci delle lor carabine, e gridando: noi! - E allora ... all'inferno voi ... lui ... tutti! - eruppe il Beccajo - Tu il capo? tu? ... Soppiattone! - Io sono il più forte ... - Pah! - sclamò Gualdo con un scoppio di risa - il più forte! ... Vedi là! - e snudò, distendèndolo, un braccio in cui guizzàvano mùscoli, che gli avrèbber concesso di fare alle pugna col michelangiolesco Mosè. Ma il Letterato sorrise beffardamente: - La forza dell'uomo è questa - disse, e toccossi la fronte. - Sei un aristòcrata! - fece il Beccajo, sputando a terra con sprezzo. - E tu un mascalzone! - ribattè l'altro. - E, se vuòi, te lo scrivo ... Scrivi tu, se lo puòi. - Carta sporca non val la pulita - sentenziò arrogante il Beccajo. - Vale - rimbeccò il Letterato - quando è sporca di un mille. Chè io non ho mai fatto la birba per meno. Non come tè, stolto. Tu che scannavi un cristiano per guadagnarti un grappino ... Poh! - Ma almanco scannavo. Il sangue lava lo schifo dal furto. Tu non avesti mai tanto cuore ... - Cuore? ... Gran che per averne! ... Ma un uomo io lo stimo quanto insaccoccia. L'ànima umana stà nella borsa. Vuota la borsa, addìo ànima! ... - Non dottorare! - avvertì, minaccioso, il Beccajo. - Ed io - continuò a gonfie vele Aronne, fastoso di sua goffìssima astuzia, ch'ei reputava sapienza - tal quale mi vedi, la ho accoccata ai meglio avveduti. - Gli è fra le quattro pareti, non sulle strade postali, che sfavilla l'ingegno. Io non ho mai stesa la mano che in guanti ... - Ma paurosamente, l'hai stesa - Gualdo ritorse - come avessi creduto di fare del male! ... Mendicante ladro, che non avevi coraggio di mètter la firma alle tue lìvide azioni e lavoravi alla muta e tremavi nell'ombra! Di tè non si seppe che quando fosti in bujosa. Mè, invece, conoscèvano tutti. Il mio nome stava, tant'alto, in ogni crocicchio, sotto quello del Rè. Chi lo leggeva, imbiancava ... - Bravo, ma e intanto? Intanto che il figliuol di mia madre era onorato, ringraziato, baciato da quelli stessi ch'egli tingèa, tu fuggivi chi ti fuggìa, arso di rabbia e di fame ... - Ma spargendo il terrore - interruppe il Beccajo - Io stancài la sbirraglia. I zaffi perdèvano volontieri le traccie mie. Dietro a me si sguinzagliò un reggimento; non, come a tè, fu informaggiata una tràppola. Nè, come tè, mi arresi a un pezzo di carta. Non mi arresi a nessuno, io: mi si pigliò, grondante del mosto mio e del loro. Dillo tu, Nera, se mento! Ed io non ho cantato compagni, come tè. Non mi si avrebbe potuto strappare un sol nome colle tanaglie! ... Nè ho fatto gli occhietti umidicci ai giurati, nè ho chiesto perdono ... Tutti li ho stramaledetti, io, tutti! ... Vedi là! - e Gualdo atteggiossi superbamente, e lo sguardo di lui esigeva l'applàuso. Umanità vanitosa, che, non potendo della virtù, ti glorii del vizio! Senonchè, Aronne, ghignando: - Vera ricetta, la tua, per raddoppiarsi la pena! - Che tu temevi, e non io! - ripicchiò inviperito il Beccajo. - Al boja, con tè, non era d'uopo la raspa! ... E voi - (ciò, alla sospesa ciurmaglia) - obedireste a quel vile? ... Chiodra Non vi fidate! Io lo conosco da lunga mano. Non vi fidate di quel suo obliquo pezzuolo inzuccherato di adulazione ... V'imbroglierà tutti quanti. Io no. Io vi potrèi anche freddare, ma intrappolarvi, giuraddìo! mai. - E Gualdo taque, attendendo; ma, come non venne risposta: tutti degni di lui! - disse - Non vi temo. Il leone non teme la volpe. Chi stà colla volpe? ... Chi stà col leone? ... - Col leone! - gridò entusiasta la Nera, e gli gittò al collo le braccia. - Col leone! - ripetè Mario il Nebbioso, e gli strinse la mano. Era Mario un giòvane diciassettenne, pàllido, dai negri, lunghi e ondati capelli e dal profilo purìssimo, ma aggrondato le ciglia, schernitore le labbra. - Ed io! ed io! - acclamàrono quattro o cinque altri fra i più scapigliati, e due o tre donne meno scarse di sangue, attruppàndosegli intorno. Anche il mastino passò dalla sua. Ma la più parte continuava a tenere dal Letterato. La maggioranza stà colla paura, e siccome il diritto segue la maggioranza, il diritto, stavolta, dovèa dirsi di Aronne. - Avanti! - sbraitava la Nera, per niente atterrita, alto-brandendo un'accetta - Quà, baldracche, coraggiose sui letti! ... Avanti, tu, Smorta! annegatrice del bimbo per vendicarti dell'uomo ... Mè pure hanno tradita, ed uccisi, ma avessi avuto dal traditore un figliuolo, vivrebbe ancora col padre. Avanti, Maga! biascia-castagne e schiaccia-limoni, che santocciavi su e giù per le chiese a canzonare il Signore e a spogliar la Madonna degli ori ... quelli ori che io, invece, le ho appesi dal collo di una rivale strozzata ... Avanti, tu, Arciduchessa! maestra d'aborti, che furavi alla vita chi non era ancor nato ... Anch'io ne ho gelati, e parecchi, ma èrano uòmini e forti. Avanti, tu, Serva! che vendevi i tuòi baci per denaro e per schiaffi ... Io pure ne prodigài, ma, ai baci i baci, e agli schiaffi le pugnalate. Con tutte voi, è fin troppo una pantòfola smessa. Avanti, zambracche! - Avanti! - urlò Gualdo, afferrando il suo vuoto fucile e volteggiàndolo in aria come un randello - A cui puzza la vita, avanti! -

LA DANZA DEGLI GNOMI E ALTRE FIABE

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Gozzano, Guido 1 occorrenze

Ad un crocevia sostò in estasi, con gli occhi abbagliati. Le si apriva dinnanzi uno spazio ignoto, una distesa azzurra e senza fine, come un altro cielo tolto alla volta celeste, disteso in terra, trattenuto, agitato ai lembi da mani invisibili. Nevina proseguì sbigottita. La terra intorno mutava. Anemoni, garofani, mimose, violette, reseda, narcisi, giacinti, giunchiglie, gelsomini, tuberose, fin dove l'occhio giungeva, dal colle al mare, mal frenati dai muri e dalle siepi dei giardini, i fiori straripavano come un fiume di petali dove emergevano le case e gli alberi. Gli ulivi distendevano il loro velo d'argento, i palmizi svettavano diritti, eccelsi come dardi scagliati nell'azzurro. Nevina volgeva gli occhi estasiati sulle cose mai viste, dimenticava di diffondere la neve; poi l'affanno la riprendeva, toglieva una falda, si formava intorno una zona di fiocchi candidi e d'aria gelida che le ridava il respiro. E i fiori, gli ulivi, le palme guardavano pur essi con meraviglia la giovinetta diafana che trasvolava in un turbine niveo e rabbrividivano al suo passaggio. Un giovane bellissimo, dal giustacuore verde e violetto, apparve innanzi a Nevina, fissandola con occhi inquieti, vietandole il passo: - Chi sei? - Nevina sono. Figlia di Gennaio. - Ma non sai, dunque, che questo non è il regno di tuo Padre? Io sono Fiordaprile, e non t'è lecito avanzare sulle mie terre. Ritorna al tuo ghiacciaio, pel bene tuo e pel mio! Nevina fissava il Principe con occhi tanto supplici e dolci che Fiordaprile si sentì commosso. - Fiordaprile, lasciami avanzare! Mi fermerò poco. Voglio toccare quella neve azzurra, verde, rossa, violetta che chiamate fiori, voglio immergere le mie dita in quel cielo capovolto che è il mare! Fiordaprile la guardò sorridendo; assentì col capo: - Andiamo, dunque. Ti farò vedere tutto il mio regno. Proseguirono insieme, tenendosi per mano, fissandosi negli occhi, estasiati e felici. Ma via via che Nevina avanzava, una zona bigia offuscava l'azzurro del cielo, un turbine di fiocchi candidi copriva i giardini meravigliosi. Passarono in un villaggio festante; contadini e contadine danzavano sotto i mandorli in fiore. Nevina volle che Fiordaprile la facesse danzare: entrarono in ballo; ma la brigata si disperse con un brivido, i suoni cessarono, l'aria si fece di gelo; e dal cielo fatto bigio cominciarono a scendere, con la neve odorosa dei mandorli, i petali gelidi della neve, la vera neve che Nevina diffondeva al suo passaggio. I due dovettero fuggire tra le querele irose della brigata. Giunti poco lungi, volsero il capo e videro il paese di nuovo festante sotto il cielo rifatto sereno... - Nevina, ti voglio sposare! - I tuoi sudditi non vorranno una Regina che diffonde il gelo. - Non importa. La mia volontà sarà fatta. Avanzarono ancora, tenendosi per mano, fissandosi negli occhi, immemori e felici... Ma ad un tratto Nevina s'arrestò coprendosi di un pallore più diafano. - Fiordaprile! Fiordaprile! ... Non ho più neve! E tentava con le dita - invano - il fondo della cornucopia. - Fiordaprile! ... Mi sento morire! ... Portami al confine... Fiordaprile!... Non reggo più!... Nevina si piegava, veniva meno. Fiordaprile tentò di sorreggerla, la prese fra le braccia, la portò di peso, correndo verso la valle. - Nevina! Nevina! Nevina non rispondeva. Si faceva diafana più ancora. Il suo volto prendeva la trasparenza iridata della bolla che sta per dileguare. - Nevina! Rispondi! Fiordaprile la coprì col mantello di seta per difenderla dal sole ardente, proseguì correndo, arrivò nella valle, per affidarla al vento di tramontana. Ma quando sollevò il mantello Nevina non c'era più. Fiordaprile si guardò intorno smarrito, pallido, tremante. Dov'era? L'aveva perduta per via? Alzò le mani al volto, in atto disperato; poi il suo sguardo s'illuminò. Vide Nevina dall'altra parte della valle che salutava con la mano protesa in un addio sorridente. Un suo vecchio precettore, il vento di tramontana, la sospingeva pei sentieri nevosi, verso il ghiaccio eterno, verso il regno inaccessibile del Padre Gennaio.

L'ANNO 3000

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Mantegazza, Paolo 1 occorrenze

"E i poveri giurati davanti a così sfacciate contraddizioni, abbagliati e confusi dal cozzo dell'eloquenza avvocatesca, dalle liriche invettive dei giudici, sballottati fra la scienza che negava da sè stessa la propria efficacia colle flagranti contraddizioni e perduti nel labirinto dei sofismi, dei paradossi, della dialettica, che cadevano sulle loro spalle come tanti proiettili in un dì di battaglia, finivano per abbandonarsi alla suggestione del sentimento; il più infido dei giudici nel campo della giustizia, e sentenziavano col cuore, invece che colla ragione. "E in ultima analisi, non era la scienza giuridica, non la scienza dei periti che dava il supremo giudizio, ma era l'egoismo o la compassione. "Il primo diceva ai giurati: "Quell'uomo ha rubato: lasciato libero, potrà rubare ancora e mettere le sue mani anche nelle tue tasche. "Dunque in prigione, alla galera. "Quella donna, bella e giovane ha peccato in amore. Quanto volentieri avrei diviso il peccato con lei! "Poveretta! Le sia data la libertà. "E quando invece la compassione compariva o scuoteva le fibre sensibili dei giurati, era assolto il colpevole, quando la compassione per lui era più forte che per la vittima. Era invece condannato, quando gli avvocati eran riusciti, a far sentire più forte la compassione per la vittima. "Come vedete, - diceva il professore, - era un problema di affinità elettiva, era una lotta del sentimento colla ragione e la povera giustizia andava sommersa troppo spesso in queste lotte molto disuguali. "Ecco che cosa era la giustizia dieci secoli or sono. Ma non vogliamo essere troppo superbi noi altri uomini del secolo XXXI, perchè anche noi non sappiamo sempre disgiungere e separare nettamente il cuore dal pensiero, nei nostri giudizii." La lezione, spesso interrotta da risate di approvazione, fu fragorosamente applaudita al suo fine e i nostri, viaggiatori lasciarono il Palazzo della Scuola, molto contenti della loro visita.

La stampa terza pagina 1986

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Levi, Primo 1 occorrenze

Kafka comprende il mondo (il suo, e anche meglio il nostro d' oggi) con una chiaroveggenza che stupisce, e che ferisce come una luce troppo intensa: spesso si è tentati di interporre uno schermo, di mettersi al riparo; altre volte si cede alla tentazione di fissarlo, e allora si rimane abbagliati. Come quando si guarda il disco del sole, e lo si continua poi a vedere a lungo, sovrapposto agli oggetti che ci circondano, così, letto questo "Processo", ci accorgiamo a un tratto di essere circondati, assediati da processi insulsi, iniqui, e spesso mortali. Il processo intentato contro il diligente e gretto funzionario di banca Josef K. si conclude infatti con una condanna a morte; mai pronunciata, mai scritta, e l' esecuzione avviene nell' ambiente più squallido e disadorno, senza apparato e senza collera, con meticolosità burocratica, per mano di due giustizieri-fantocci che adempiono al loro ufficio macchinalmente, senza pronunciare una parola, scambiandosi sciocchi complimenti. È una pagina che mozza il fiato. Io reduce da Auschwitz non l' avrei scritta mai, o mai così: per incapacità e insufficienza di fantasia, certo, ma anche per un pudore davanti alla morte che Kafka non conosceva, o se sì, rifiutava; o forse per mancanza di coraggio. La famosa e commentatissima frase che chiude il libro come una pietra tombale ("... e fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere") non mi pare affatto enigmatica. Di che cosa si deve vergognare Josef K., quello stesso che aveva deciso di combattere fino alla morte, e che in tutte le svolte del libro si proclama innocente? Si vergogna di molte cose contraddittorie, perché non è coerente, e la sua essenza (come quella di quasi tutti) consiste nell' essere incoerente, non uguale a se stesso nel corso del tempo, instabile, erratico, o anche diviso nello stesso istante, spaccato in due o più individualità che non combaciano. Si vergogna di aver conteso con il tribunale del duomo, e insieme di non aver resistito con energia sufficiente al tribunale delle soffitte. Di aver sprecato la vita in meschine gelosie di ufficio, in falsi amori, in timidezze malate, in adempimenti statici e ossessivi. Di esistere quando ormai non avrebbe più dovuto esistere: di non aver trovato la forza di sopprimersi di sua mano quando tutto era perduto, prima che i due goffi portatori di morte lo visitassero. Ma sento, in questa vergogna, un' altra componente che conosco: Josef K., alla fine del suo angoscioso itinerario, prova vergogna perché esiste questo tribunale occulto e corrotto, che pervade tutto quanto lo circonda, e a cui appartengono anche il cappellano delle carceri e le bambine precocemente viziose che importunano il pittore Titorelli. È finalmente un tribunale umano, non divino: è fatto di uomini e dagli uomini, e Josef, col coltello già piantato nel cuore, prova vergogna di essere un uomo.

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Lilit

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Levi, Primo 2 occorrenze

Come Rumkowski, anche noi siamo così abbagliati dal potere e dal denaro da dimenticare la nostra fragilità essenziale: da dimenticare che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori del recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno.

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Gli uccelli si levano in volo stridendo, si aggirano in cerchi, puntano verso il cielo come impazziti e poi si lasciano precipitare come sassi; i topi saltatori, che di norma è solo possibile intravvedere nelle notti di luna, minuscole ombre inafferrabili, escono allo scoperto, abbagliati ed inetti nello splendore del sole, e si possono acchiappare con le mani; perfino le serpi sgusciano come allucinate dalle loro tane, si ergono sugli ultimi anelli e sulle code, e dimenano le teste come se seguissero un ritmo. Anche noi, nelle brevi notti che interrompevano quei giorni, abbiamo sperimentato sonni irrequieti, gremiti di sogni variopinti ed indecifrabili. Non siamo riusciti a stabilire se quest' odore che pervade l' isola promani direttamente dai maschi, o se invece venga secreto dalle ghiandole inguinali delle nacunu. La loro gravidanza dura circa trentacinque giorni. Il parto e l' allattamento non presentano nulla di notevole; i nidi, costruiti con sterpi al riparo di qualche roccia, vengono apprestati dai maschi, e rivestiti all' interno con muschio, foglie, talora con sabbia: ogni maschio ne prepara più d' uno. Le femmine prossime al parto si scelgono ciascuna il suo nido, esaminandone diversi con attenzione ed esitazione, ma senza controversie. I "figli del vento" che nascono, da cinque a otto per figliata, sono minuscoli ma precoci: poche ore dopo il parto escono già nel sole, i maschi imparano subito a presentare il dorso al vento come i loro padri, e le femmine, benché ancora sprovviste di livrea, si esibiscono in una comica parodia della danza delle madri. Dopo soli cinque mesi, atoùla e nacunu sono sessualmente maturi, e già vivono in branchi separati, in attesa che la prossima stagione di vento prepari le loro nozze aeree e lontane.

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I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Fedoro e Rokoff, ancora abbagliati dalla magnificenza di quel monastero, si erano decisi a scendere da cavallo e a salire la gradinata, passando fra due ali di monaci che si curvavano fino a terra. Dinanzi alla porta dell'edificio, circondato da altri monaci, un uomo dalla lunga barba nera, che gli scendeva fino a metà del petto, coperto d'un'ampia tonaca rossa e che aveva al collo grossi monili d'oro, pareva che li aspettasse per dare loro il benvenuto. - Che sia il capo del monastero? - chiese Rokoff, che si sentiva scombussolato da quel ricevimento che sorpassava tutte le sue previsioni. - È la Perla dei sapienti, il Bogdo-Lama - rispose Fedoro. - Come ci accoglierà? Mi sento indosso un certo malessere che si direbbe paura. Se indovinasse in noi degli europei? - Taci, Rokoff; mi fai venire la pelle d'oca. - Non perderti d'animo e dalle da bere grosse, a quella Perla dei sapienti. Se potessi parlare correntemente il cinese, improvviserei un discorso tale da farlo piangere, mentre ... - Zitto. Erano giunti sulla cima della gradinata. - Fa come faccio io - disse Fedoro, rapidamente. Il Bogdo-Lama e i due europei si guardarono per parecchi istanti in silenzio, mentre tutti i monaci cadevano al suolo toccando le pietre colla fronte e sporgendo, più che potevano, le loro lingue, poi il grande sacerdote fece alcuni passi, inchinandosi profondamente. Fedoro ritenne opportuno rispondere con un altro inchino, meno deferente però nella sua qualità di figlio di Buddha, subito imitato da Rokoff. Poi il Lama prese per mano i due europei e li introdusse nel tempio, fermandosi dinanzi a una gigantesca statua del Dio, simile a quella che già avevano veduto nell'altro monastero e pronunciò delle parole che né Fedoro, né Rokoff riuscirono a comprendere. Ciò fatto li condusse attraverso una galleria le cui pareti erano coperte da paraventi ricamati in seta e oro, d'una finitezza e d'una bellezza meravigliosa, ed entrò in un'immensa sala illuminata da una specie di lucerna di talco e circondata da divani di seta azzurra e bianca, ricamati in argento. Anche le pareti erano coperte da arazzi di manifattura cinese e il pavimento di tappeti del Kascemir a mille colori. Tutti i monaci si erano arrestati sulla porta, continuando gl'inchini e salmodiando, a mezza voce, delle preghiere. Fedoro e Rokoff, quantunque facessero sforzi sovrumani per apparire tranquilli, si sentivano tremare non solo il cuore, ma anche le gambe e si chiedevano ansiosamente come sarebbe andato a finire quel ricevimento e come avrebbero potuto sostenere dinanzi alla Perla dei sapienti, di essere veramente degli esseri superiori, dei figli della grande divinità. Si guardavano l'un l'altro con occhi smarriti, maledicendo in loro cuore quell'uragano che li aveva precipitati nel lago sacro, invece che in qualche bacino deserto. Il Bogdo-Lama lasciò che i monaci sfilassero dinanzi alla porta, poi, quando se ne furono andati, fece sedere i due europei su un divano, pronunciando alcune parole che Fedoro non riuscì a capire. Non ricevendo risposta, il Lama si lasciò sfuggire un gesto di sorpresa. E infatti il sapiente doveva ben stupirsi di non farsi capire dai figli di Buddha. Trovava certo strano che non parlassero il tibetano. Fortunatamente Fedoro non aveva perduto completamente il suo sangue freddo. Comprendendo che stava per tradirsi, giocò risolutamente d'audacia. - La Perla dei sapienti ha parlato una lingua che noi non possiamo capire - disse in cinese. - Non deve stupirsi, perché noi eravamo stati incaricati dallo spirito divino che regna nel nirvana, di visitare i monasteri buddisti della Mongolia e non già quelli del Tibet. In quattro siamo discesi dal cielo con diverse missioni e quello che doveva qui venire, non è ancora giunto. - E perché vi siete spinti fino qui? - chiese il Bogdo-Lama rispondendo nell'eguale lingua. - Volevamo venire a vedere il lago sacro e ritemprarci nelle sue acque, prima di riguadagnare la Mongolia. - Voi siete scesi dal cielo sul dorso d'un immenso uccello, è vero? - Sì - rispose Fedoro. - Una grande aquila, che era prima la guardiana del nirvana, un uccello terribile che è stato incaricato di difenderci dalle insidie e dalle offese di coloro che non credono in Buddha e che sono i nemici della nostra religione. - Quanto desidererei vedere anch'io quel volatile! - esclamò la Perla dei sapienti. - M'hanno narrato meraviglie della potenza di quel mostro alato; m'hanno detto che turbinava sulle ali della tempesta, lasciandosi dietro una striscia di fuoco. Solo il grande Buddha poteva creare un simile uccello. Verrà qui? - Lo aspettiamo. - E condurrà l'essere divino incaricato di rimanere fra di noi? - Nostro fratello verrà. - Ha eguale potenza di voi? - - Siamo tutti eguali. - È bianco come voi? - Sì. - E perché il grande Buddha che era bronzeo al pari degli indiani, ha creato dei figli dalla pelle bianca? - Tutti nel nirvana sono bianchi, perché la luce intensa che regna lassù, scolorisce presto gli uomini che hanno la pelle nera o bronzina. - Buddha è grande! - esclamò il Lama battendo il petto con ambo le mani. - È contento di noi? - Se non lo fosse, non ci avrebbe mandati sulla terra a visitare i suoi fedeli - rispose Fedoro. - Egli però vorrebbe che la sua religione si estendesse maggiormente e che si diffondesse in tutto il mondo. - Siamo in molti. - Non basta. - Abbiamo monasteri nell'India, in Cina, nel Siam e anche nella Birmania e persino nel Turchestan. - Ne vorrebbe di più. - Ne costruiremo degli altri e manderemo i nostri monaci in altre regioni a fare nuovi proseliti. - Ecco quel che desidera da voi il grande Illuminato. - L'avete finita? - chiese Rokoff, che cominciava a perdere la pazienza. - Riprenderei volentieri il sonno così inopportunamente interrotto; manda a dormire quest'uomo barbuto e fagli comprendere che ci ha seccati abbastanza col suo Buddha. - Il vostro compagno parla un'altra lingua! - esclamò il Lama. - Non andrà nella Mongolia? - No - rispose prontamente Fedoro. - Egli è destinato a recarsi presso le tribù dei Calmucchi e dei Kirghisi, presso le quali la religione buddista non è rigorosamente osservata; ecco perché non parla il cinese. - E il vostro quarto fratello dove andrà? - Nella Siberia. - Un paese che non ho mai udito nominare, ma il mondo è così vasto! E poi noi non usciamo mai dai confini del Tibet. Stette un momento silenzioso, guardando ora Fedoro e ora Rokoff con una cert'aria imbarazzata. Pareva che volesse fare una domanda, ma che non osasse. - Fedoro - disse Rokoff a mezza voce - sta in guardia. Mi pare che questo monaco rimugini qualche cosa di pericoloso nel suo cervello. Bada di non farti cogliere in fallo. - Me ne sono accorto anch'io - rispose il russo. Il Lama, dopo aver scosso più volte la testa ed essersi lisciata ripetutamente la lunga barba, disse con una certa timidezza. - Vorrei rivolgere una preghiera ai figli del grande Illuminato. - Parlate - rispose Fedoro - quantunque, prevedendo un grave pericolo, si sentisse accapponare la pelle. - La voce del vostro arrivo deve essersi sparsa fra tutti gli abitanti e i monasteri del Tengri-Nor e domani i pellegrini accorreranno in folla a vedere gl'inviati del nostro Dio. - Non abbiamo alcuna difficoltà a mostrarci alle turbe dei fedeli - rispose Fedoro, credendo che tutto si limitasse a quella domanda. - Il nostro monastero organizzerà una grande cerimonia religiosa per rendere grazie all'Illuminato d'essersi degnato di mandare qui i suoi figli. - Diavolo, dove andrà a finire costui? - pensò Fedoro. - Vorrei pregarvi di tenere una conferenza sui doveri dei buoni buddisti, per ispirare maggior zelo nei nostri pellegrini. Sarà un avvenimento pel nostro monastero, il quale acquisterà una maggior celebrità tale da oscurare per sempre quella di Tascilumpo. Altro che pelle d'oca! Fedoro sudava a freddo. - Hai capito nulla? - chiese a Rokoff. - Affatto - rispose questi. - Domanda a me di fare un discorso. - Trovi difficile il farlo? - Non conosco che vagamente la religione buddista. Che cosa potrei dire? Che racconti delle frottole? Non dobbiamo scherzare colla Perla dei sapienti. - Come vuoi cavartela? Se ti rifiuti chissà che cosa potrà nascere. Per ora acconsenti, tanto per guadagnare tempo, poi vedremo. - Il figlio del grande Illuminato accetta? - chiese il Lama. - Sì - rispose Fedoro, a denti stretti. - Quale onore pel nostro monastero! - esclamò il Lama. - Poi sospirò a lungo, guardando Fedoro. - Si prepara a darti un altro pugno - disse Rokoff. - Lo vedo; prepara la difesa, Fedoro. - Potessi prepararla almeno tu, questa volta! - Io non so il cinese; non parlo che il calmucco e il kirghiso - rispose il cosacco che rideva sotto i baffi. - Ah! Se voi voleste! - disse finalmente il Lama con un altro sospiro più lungo del primo. - Quale sarebbe l'onore pel nostro monastero! ... Più nessun pellegrino si recherebbe a quello di Tascilumpo e nemmeno a quello di Lhassa. - Con tutti questi onori chissà in quale ginepraio finirà per cacciarmi - mormorò il povero russo, le cui inquietudini aumentavano. Nondimeno si fece animo, dicendo: - Parlate, spiegatevi meglio. - Rimanete sempre qui con me - disse il Lama. - Faremo di voi, due Buddha viventi, due vere incarnazioni del Dio. - È impossibile! - esclamò Fedoro, spaventato. - E perché? - Siamo attesi in Mongolia e in Siberia. - I mongoli e i siberiani potranno farne a meno di voi - rispose il Lama, con una certa durezza che sconcertò il russo. - La vera religione buddista è qui, non fra quei selvaggi, ed è sulle sacre rive del Tengri-Nor che viene più scrupolosamente osservata. - E se nostro padre non lo permettesse? - Buddha è grande e ama i suoi adoratori, potrebbe lui scontentarli? Noi raddoppieremo le preghiere e i sacrifici e sarà contento. - Ciò che voi ci chiedete non sarà mai possibile - rispose Fedoro, con voce recisa. - Noi dobbiamo compiere la nostra missione. - E se i montanari si opponessero alla vostra partenza? - chiese il Lama. - Come potrei io impedirlo? Non ne avrei l'autorità. - Voi, un Bogdo-Lama! - esclamò Fedoro. - Un pontefice della religione a cui tutti i fedeli debbono obbedienza? - Sono molti e quando vogliono una cosa nessuno potrebbe più domarli. Pensate che io non ho forze da opporre loro. - Minacciate di scomunicarli e di scatenare tutti i fulmini del grande Buddha. Un sorriso un po' beffardo spuntò sulle labbra del Bogdo-Lama. - Vedremo - disse poi - spero che non spingeranno le cose fino a tal punto. Però vi dico che sarebbero orgogliosi di avere, sulle sponde del lago sacro, due Buddha viventi. Si era alzato. - Sarete stanchi - disse. - Molto - rispose Fedoro, che non desiderava altro che tagliare corto quel dialogo, che diventava di momento in momento più imbarazzante. - Gli esseri celesti saranno miei ospiti e nulla mancherà loro, finché si fermeranno nel mio monastero. Fin da questo istante verranno trattati cogli onori dovuti ai Buddha viventi. - Il grande Illuminato sarà riconoscente ai suoi fedeli adoratori del Tengri- Nor, dell'accoglienza fatta ai suoi figli. Il Bogdo-Lama s'accostò a un piccolo tavolo e scosse un campanello d'argento. Quattro monaci, che dovevano essersi fermati al di fuori, in attesa dei suoi ordini, entrarono. Il Lama rivolse loro alcune parole, poi s'inchinò dinanzi ai due europei, facendo quindi segno di seguire i religiosi. - Siamo finalmente liberi? - chiese Rokoff. - Se la durava ancora un po', perdevo la pazienza e prendevo quel monaco per la barba. - Avresti compromesso gravemente la nostra posizione di Buddha viventi - rispose Fedoro, asciugandosi il sudore che gli bagnava la fronte. - Di Buddha viventi? Che cosa dici, Fedoro? - Taci per ora. Restituirono al pontefice di Dorkia il saluto e uscirono preceduti dai quattro monaci, i quali a ogni istante si volgevano verso i due europei inchinandosi fino al suolo e balbettando delle preghiere incomprensibili. - Come sono cerimoniose queste persone - brontolò il cosacco - comincio ad averne fino ai capelli. Percorsero parecchi corridoi sempre tappezzati di meravigliosi paraventi, salirono parecchie gradinate e finalmente furono introdotti in una sala immensa, colle pareti coperte di seta gialla fregiata da iscrizioni tibetane, ammobiliata con divani d'eguale stoffa e colla volta a cupola la quale, essendo composta di lastre di talco, lasciava trapelare un debole chiarore. All'estremità s'aprivano due porte che pareva mettessero in altre sale o in altre stanze. Un dolce tepore regnava là dentro, nonostante la vastità dell'ambiente. - Il vostro appartamento - disse uno dei quattro monaci, in lingua cinese. - Tutto quello che potrete desiderare vi sarà recato; basta battere il gong sospeso alla porta. - Una bella prigione - disse Fedoro, volgendosi verso Rokoff, mentre i monaci uscivano. - Una prigione! - esclamò il cosacco. - Come! Questi bricconi osano mettere in gabbia degli uomini scesi dal cielo? - Faranno di più, mio povero Rokoff. - Che cosa vuoi dire? - Che noi stiamo per diventare dei Buddha viventi. - Ne so meno di prima. - Non hai mai udito parlare dei Buddha che vivono? - Niente affatto, Fedoro. Mi spiegherai ciò dopo colazione. L'aria del lago mi ha messo indosso un appetito indiavolato. Non so più dove sia andata a finire la cena che ci ha offerto l'altro monaco. - Tu scherzi? - Vorresti vedermi piangere? - Rokoff la va male. - Perché vogliono fare di noi dei Buddha viventi? Se così fa piacere a loro, lasciali fare amico mio. Purché non ci impalino o non ci gettino in qualche cantina piena di scorpioni, non vi è motivo di spaventarci. - Non sai tu che cosa sono i Buddha ... ? - Persone che mangiano e bevono al pari di tutti gli altri mortali, a quanto suppongo. - Se non vengono strangolati. - Eh! Che cosa dici, Fedoro? Vuoi guastarmi l'appetito? - Non ne ho alcun desiderio. E poi, come me la caverò colla predica che devo tenere ai fedeli? Io che conosco così poco la religione buddista! Sarà una catastrofe completa. - Dimmi, Fedoro, credi tu che quel monaco barbuto abbia prestato cieca fede a quanto noi abbiamo narrato? - Uhm! Ho i miei dubbi. Non deve essere così sciocco la Perla dei sapienti. - E perché non ci ha scacciati come impostori? - Non avrebbe guadagnato nulla, mentre presentandoci come figli del cielo attirerà al suo monastero migliaia e migliaia di pellegrini. - E gli abitanti? - Sono così idioti da credere a tutte le panzane che smerciano i loro Lama. - E come te la sbrigherai colla predica? - Non lo so, Rokoff. - Chi è, innanzi tutto, questo signor Buddha? - Un saggio, un illuminato nato a Ceylon che creò una nuova religione, non so precisamente se per convinzione o per detronizzare la triade indiana di Brahma, Siva e Visnù. - Un brav'uomo? - Certo, perché predicò la pietà verso il prossimo non solo, bensì anche verso gli animali. - Allora dirai che il paradiso di Buddha è pieno d'asini, di cavalli, d'insetti, di balene ... un vero serraglio. - Ah! Rokoff. - Non preoccuparti. Facciamo colazione e vedrai che dopo riempito il ventre le idee scaturiranno in tale abbondanza da fare un predicone. Ah! se conoscessi il cinese vorrei far stupire perfino la Perla dei sapienti. Ci metterei perfino dentro il Don e i cosacchi delle steppe. Combineremo tutto insieme e ... - Ci farai prendere a legnate. - E noi risponderemo a calci. Rokoff s'alzò e percosse furiosamente il gong, gridando: - La colazione pei figli di Buddha e per oggi non seccateci più le tasche. Siamo occupati a pregare Domeneddio, cioè no, l'Illuminato.

I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Essendo la persiana mezzo calata, ed avendo egli gli occhi ancora abbagliati dal sole, subito non distinse nulla. Dopo qualche istante però s'avvide di trovarsi in una bellissima sala col pavimento di mosaico e le pareti coperte da stoffe fiorate. Tutto all'intorno vi erano divani di marocchino rosso e nel mezzo una fontanella il cui getto manteneva là dentro una deliziosa frescura. In quel frattempo Rocco e Ben erano pure entrati. "Dov'è il colonnello?" chiese l'ebreo. "Eccomi," rispose una voce in lingua francese. Un uomo di alta statura, avvolto in un ampio caic che lo copriva tutto, e col capo coperto da un turbante che gli nascondeva quasi interamente il volto, era comparso sulla soglia d'una porta nascosta da una tenda. Il marchese stava per slanciarglisi contro colle braccia aperte, quando al di fuori si udì El-Haggar urlare "Tradimento! I kissuri." Poi risuonò un colpo di pistola seguito da un urlo di dolore. Contemporaneamente l'uomo che avevano creduto il colonnello si sbarazzava del caic ed impugnando un largo jatagan si scagliava sul marchese urlando: "Arrendetevi!" I due isolani e l'ebreo erano rimasti così stupiti da quell'inaspettato cambiamento di scena, che non pensarono subito a fuggire. D'altronde era ormai troppo tardi; al di fuori si udivano già le urla dei kissuri del sultano. Rocco, preso da un terribile impeto di rabbia, si era scagliato sul preteso colonnello. "Prendi canaglia!" urlò. Gli scaricò in pieno petto due palle, gettandolo a terra moribondo, poi spinse il marchese e Ben verso una porticina che s'apriva in un angolo delle pareti. "Fuggiamo per di là," disse. Nel medesimo momento alcuni kissuri armati di pistole e di jatagan irrompevano nella sala mandando urla furiose. I due isolani e l'ebreo chiusero rapidamente la porta e vedendo dinanzi a se stessi una scaletta, vi si slanciarono, montando i gradini a quattro a quattro. Quella scala, stretta e tortuosa, metteva sulla cima del minareto che già avevano osservato prima di entrare nel padiglione e che s'innalzava sull'angolo destro della piccola costruzione, dominando la kasbah del sultano e la piazza. Era una specie di torre, molto sottile, come sono tutti i minareti delle moschee mussulmane, e che a trenta metri dal suolo terminava in una cupoletta rotonda, dove il muezzin del sultano andava a lanciare la preghiera del mattino e della sera. La scaletta però invece di essere esterna era interna, una vera fortuna pei fuggiaschi, diversamente avrebbero corso il pericolo di venire subito moschettati dai kissuri che avevano invaso la piazza. Giunti alla cupoletta essi si trovarono dinanzi al marabuto che avevano già veduto affacciato pochi momenti prima. Il santone, vedendo comparire quei tre uomini armati di pugnali e di rivoltelle, e coi visi sconvolti, cadde in ginocchio, gridando "Grazia! Io sono un servo devoto di Allah! Non uccidete un santo uomo!" "Per le colonne d'Ercole!" esclamò il marchese. "Ecco un uomo che ci darà dei fastidi." "Anzi sarà per noi un prezioso ostaggio," disse Ben. "Cosa devo fare?" chiese Rocco. "Legarlo per bene e lasciarlo in pace." Il sardo si levò la larga fascia di lana rossa che gli cingeva i fianchi e legò strettamente il disgraziato senza che questi, mezzo morto dalla paura, osasse protestare. Il marchese e Ben si erano intanto affacciati al parapetto della cupola. Più di cinquanta kissuri armati di vecchi fucili a pietra, di lance, di pugnali e di scimitarre, si erano radunati dinanzi al padiglione, urlando e minacciando. Sotto la finestra giaceva un uomo colla testa fracassata: era l'arabo che aveva guidato il drappello promettendo la liberazione del disgraziato Flatters. "Che sia stato El-Haggar a ucciderlo?" chiese Ben. "Non lo so, né mi curo di saperlo, almeno per ora," rispose il marchese. "Occupiamoci invece di cercare un modo qualsiasi per salvare le nostre teste." "Signore," disse Rocco, "vengono!" "I kissuri?" "Sì, marchese, hanno atterrato la porta." "E quelli della piazza si preparano a fucilarci," disse Ben. "Ci hanno veduti." "Rocco, prendi il marabuto e minaccia di farlo cadere sulla piazza." "Subito, signore." L'ercole afferrò il santone, il quale mandava urla da far compassione anche ad una belva, lo sollevò fino al parapetto e poi lo spinse fuori tenendolo sospeso per un braccio, mentre il marchese gridava con voce tuonante: "Se fate fuoco, lo lasciamo cadere!" "Attenti alle vostre teste," aggiunse Rocco. "Il santone precipita e vi assicuro che nemmeno Maometto lo salverà."