Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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LA DANZA DEGLI GNOMI E ALTRE FIABE

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Gozzano, Guido 4 occorrenze

Così che Piumadoro ebbe ben presto un corteo di farfalle variopinte, una nube di soffioni candidi e una falange abbagliante di cetonie smeraldine. Viaggia, viaggia, viaggia, la terra finì, e Piumadoro, guardando giù, vide una distesa azzurra ed infinita. Era il mare. Il vento si calmava e Piumadoro scendeva talvolta fino a sfiorare con la chioma le spume candide. E gettava un grido. Ma le diecimila farfalle e le diecimila cetonie la risollevavano in alto, col fremito delle loro piccole ali. Viaggiarono così sette giorni. All'alba dell'ottavo giorno apparvero sull'orizzonte i minareti d'oro e gli alti palmizi delle Isole Fortunate.

Il Re volle spiarlo; e una notte, entrando di subito nella scuderia, vide che la luce veniva dalla collana abbagliante, appesa ad una mangiatoia. Fece arrestare il giovane e convocò i saggi della capitale perché decifrassero una parola scritta sul fermaglio della collana. Uno studioso decrepito scoperse che il monile era della Bella dalle Chiome Verdi, la Principessa più sdegnosa del mondo. - Bisogna che tu mi conduca la Principessa dalle Chiome Verdi - disse il Sovrano - o non c'è che la morte per te. Nonsò era disperato. Andò a rifugiarsi dalla vecchia giumenta e piangeva sulla sua magra criniera. - Conosco la causa del tuo dolore - gli disse la bestia fedele, - è venuto il giorno del pentimento per la collana presa contro mio consiglio. Ma fa' cuore ed ascoltami. Chiedi al Re molta avena e molto danaro, e mettiamoci in viaggio. Il Re diede avena e danaro e Nonsò si mise in viaggio con la sua cavalla sparuta. Arrivarono al mare. Nonsò vide un pesce prigioniero fra le alghe. - Libera quel poveretto! - gli consigliò la cavalla. Nonsò ubbidì, e il pesce, emergendo con la testa sull'acqua, disse: - Tu mi hai salvata la vita e il tuo benefizio non sarà dimenticato. Se tu abbisognassi di me, chiamami e verrò. Poco dopo videro un uccello preso alla pania. - Libera quel poveretto! - gli consigliò la giumenta. Nonsò ubbidì e l'uccello disse: - Grazie, Nonsò; quando ti sia necessario, chiamami e saprò sdebitarmi. Giunsero dinanzi al castello della Principessa. - Entra - disse la giumenta - e non temere di nulla. Quando vedrai la Bella, invitala ad accompagnarti qui. Io danzerò per lei danze meravigliose. Nonsò bussò al palazzo. Aprì una dama bellissima, ch'egli prese per la Principessa in persona. - Principessa... - Non son io la Principessa. E l'accompagnò in un'altra sala dove l'attendeva una fanciulla più bella ancora. E questa a sua volta l'accompagnò in una sala attigua da una compagna più bella di lei; e così di sala in sala, da una dama all'altra, sempre più bella, per abituare gli occhi di Nonsò alla bellezza troppo abbagliante della Bella dalle Chiome Verdi. Questa lo accolse benevolmente, e dopo un giorno accondiscese a vedere la giumenta danzatrice. - Saltatele in groppa, Principessa, ed essa danzerà con voi danze meravigliose. La Bella, un poco esitante, ubbidì. Nonsò le balzò accanto, sciolse uno dei nodi della criniera e si trovarono di ritorno dinanzi al palazzo del Re. - M'avete ingannata - gridava la Principessa, - ma non mi do per vinta, e prima d'essere la sposa del Re vi farò piangere più d'una volta... Nonsò sorrideva soddisfatto. - Sire, eccovi la Bella dalle Chiome Verdi! Il Re fu abbagliato di tanta bellezza e voleva sposarla all'istante. Ma la Principessa chiese che le si portasse prima una forcella d'oro tempestata di gemme che aveva dimenticato nello spogliatoio del suo castello. E Nonsò fu incaricato dal Re della ricerca, pena la morte. Il giovane non osava ritornare al castello della Bella dalle Chiome Verdi, dopo il rapimento, e guardava la sua giumenta, accorato. - Ti ricordi - disse questa - d'aver salvata la vita all'uccello impaniato? Chiamalo e t'aiuterà. Nonsò chiamò e l'uccello comparve. - Tranquillati, Nonsò! La forcella ti sarà portata. E adunò tutti gli uccelli conosciuti, chiamandoli a nome. Comparvero tutti, ma nessuno era abbastanza piccolo per entrare dalla serratura nello spogliatoio della Bella. Vi riuscì finalmente il reattino, perdendovi quasi tutte le penne, e portò la forcella al desolato Nonsò. Nonsò presentò la forcella alla Principessa. - Al presente - disse il Re - voi non avete più motivo per ritardare le nozze. - Sire, una cosa mi manca ancora e senza di essa non vi sposerò mai. - Parlate, Principessa, e ciò che vorrete sarà fatto. - Un anello mi manca, un anello che mi cadde in mare, venendo qui... Venne ingiunto a Nonsò di ritrovare l'anello, e quegli si mise in viaggio con la giumenta fedele. Giunto in riva al mare chiamò il pesce e questo comparve. - Ritroveremo l'anello, fatti cuore! E il pesce avvertì i compagni; la notizia si sparse in un attimo per tutto il mare e l'anello venne ritrovato poco dopo, tra i rami d'un corallo. La Principessa dovette acconsentire alle nozze. Il giorno stabilito s'avviarono alla cattedrale con gran pompa e cerimonia. Nonsò e la cavalla seguivano il corteo regale ed entrarono in chiesa con grave scandalo dei presenti. Ma quando la cerimonia fu terminata, la pelle della giumenta cadde in terra e lasciò vedere una Principessa più bella della Bella dalle Chiome Verdi. Essa prese Nonsò per mano: - Sono la figlia del re di Tartaria. Vieni con me nel regno di mio Padre e sarò la tua sposa. Nonsò e la Principessa presero congedo dagli astanti stupefatti, né più se n'ebbe novella.

Lassù, nel candore perpetuo, abbagliante, inaccessibile agli uomini, il Re Gennaio preparava la neve con una chimica nota a lui solo; Nevina la modellava su piccole forme tolte dagli astri e dagli edelweiss, poi, quando la cornucopia era piena, la vuotava secondo il comando del Padre ai quattro punti dell'orizzonte. E la neve si diffondeva sul mondo. Nevina era pallida e diafana, bella come le dee che non sono più: le sue chiome erano appena bionde, d'un biondo imitato dalla Stella Polare, il suo volto, le sue mani avevano il candore della neve non ancora caduta, l'occhio era cerulo come l'azzurro dei ghiacciai. Nevina era triste. Nelle ore di tregua, quando la notte era Serena e stellata e il Padre Gennaio sospendeva l'opera per dormire nell'immensa barba fluente, Nevina s'appoggiava ai balaustri di ghiaccio, chiudeva il mento tra le mani e fissava l'orizzonte lontano, sognando. Una rondine ferita che valicava le montagne, per recarsi nelle terre del sole, era caduta nelle sue mani, che avevano tentato invano di confortarla; nei brividi dell'agonia la rondine aveva delirato, sospirando il mare, i fiori, i palmizi, la primavera senza fine. E Nevina da quel giorno sognava le terre non viste. Una notte decise di partire. Passò cauta sulla barba fluente di Gennaio, lasciò il ghiaccio e la neve eterna, prese la via della valle, si trovò fra gli abeti. Gli gnomi che la vedevano passare diafana, fosforescente nelle tenebre della foresta, interrompevano le danze, sostavano cavalcioni sui rami, fissandola con occhi curiosi e ridarelli. - Nevina! - Nevina! Dove vai? - Nevina, danza con noi! - Nevina, non ci lasciare! E gli Spiritelli benigni le facevano ressa intorno, tentavano di arrestarle il passo abbracciandole con tutta forza la caviglia, cercavano di imprigionarle i piedi leggeri entro rami d'edera e di felce morta. Nevina sorrideva, sorda ai richiami affettuosi, toglieva dalla cornucopia d'argento una falda di neve, la diffondeva intorno, liberandosi dei piccoli compagni di gioco. E proseguiva il cammino diafana, silenziosa, leggera come le dee che non sono più. Giunse a valle, fu sulla grande strada. L'aria si mitigava. Un senso d'affanno opprimeva il cuore di Nevina; per respirare toglieva dalla cornucopia una falda di neve, la diffondeva intorno, ritrovava le forze e il respiro nell'aria fatta gelida subitamente. Proseguì rapida, percorse gran tratto di strada. Ad un crocevia sostò in estasi, con gli occhi abbagliati. Le si apriva dinnanzi uno spazio ignoto, una distesa azzurra e senza fine, come un altro cielo tolto alla volta celeste, disteso in terra, trattenuto, agitato ai lembi da mani invisibili. Nevina proseguì sbigottita. La terra intorno mutava. Anemoni, garofani, mimose, violette, reseda, narcisi, giacinti, giunchiglie, gelsomini, tuberose, fin dove l'occhio giungeva, dal colle al mare, mal frenati dai muri e dalle siepi dei giardini, i fiori straripavano come un fiume di petali dove emergevano le case e gli alberi. Gli ulivi distendevano il loro velo d'argento, i palmizi svettavano diritti, eccelsi come dardi scagliati nell'azzurro. Nevina volgeva gli occhi estasiati sulle cose mai viste, dimenticava di diffondere la neve; poi l'affanno la riprendeva, toglieva una falda, si formava intorno una zona di fiocchi candidi e d'aria gelida che le ridava il respiro. E i fiori, gli ulivi, le palme guardavano pur essi con meraviglia la giovinetta diafana che trasvolava in un turbine niveo e rabbrividivano al suo passaggio. Un giovane bellissimo, dal giustacuore verde e violetto, apparve innanzi a Nevina, fissandola con occhi inquieti, vietandole il passo: - Chi sei? - Nevina sono. Figlia di Gennaio. - Ma non sai, dunque, che questo non è il regno di tuo Padre? Io sono Fiordaprile, e non t'è lecito avanzare sulle mie terre. Ritorna al tuo ghiacciaio, pel bene tuo e pel mio! Nevina fissava il Principe con occhi tanto supplici e dolci che Fiordaprile si sentì commosso. - Fiordaprile, lasciami avanzare! Mi fermerò poco. Voglio toccare quella neve azzurra, verde, rossa, violetta che chiamate fiori, voglio immergere le mie dita in quel cielo capovolto che è il mare! Fiordaprile la guardò sorridendo; assentì col capo: - Andiamo, dunque. Ti farò vedere tutto il mio regno. Proseguirono insieme, tenendosi per mano, fissandosi negli occhi, estasiati e felici. Ma via via che Nevina avanzava, una zona bigia offuscava l'azzurro del cielo, un turbine di fiocchi candidi copriva i giardini meravigliosi. Passarono in un villaggio festante; contadini e contadine danzavano sotto i mandorli in fiore. Nevina volle che Fiordaprile la facesse danzare: entrarono in ballo; ma la brigata si disperse con un brivido, i suoni cessarono, l'aria si fece di gelo; e dal cielo fatto bigio cominciarono a scendere, con la neve odorosa dei mandorli, i petali gelidi della neve, la vera neve che Nevina diffondeva al suo passaggio. I due dovettero fuggire tra le querele irose della brigata. Giunti poco lungi, volsero il capo e videro il paese di nuovo festante sotto il cielo rifatto sereno... - Nevina, ti voglio sposare! - I tuoi sudditi non vorranno una Regina che diffonde il gelo. - Non importa. La mia volontà sarà fatta. Avanzarono ancora, tenendosi per mano, fissandosi negli occhi, immemori e felici... Ma ad un tratto Nevina s'arrestò coprendosi di un pallore più diafano. - Fiordaprile! Fiordaprile! ... Non ho più neve! E tentava con le dita - invano - il fondo della cornucopia. - Fiordaprile! ... Mi sento morire! ... Portami al confine... Fiordaprile!... Non reggo più!... Nevina si piegava, veniva meno. Fiordaprile tentò di sorreggerla, la prese fra le braccia, la portò di peso, correndo verso la valle. - Nevina! Nevina! Nevina non rispondeva. Si faceva diafana più ancora. Il suo volto prendeva la trasparenza iridata della bolla che sta per dileguare. - Nevina! Rispondi! Fiordaprile la coprì col mantello di seta per difenderla dal sole ardente, proseguì correndo, arrivò nella valle, per affidarla al vento di tramontana. Ma quando sollevò il mantello Nevina non c'era più. Fiordaprile si guardò intorno smarrito, pallido, tremante. Dov'era? L'aveva perduta per via? Alzò le mani al volto, in atto disperato; poi il suo sguardo s'illuminò. Vide Nevina dall'altra parte della valle che salutava con la mano protesa in un addio sorridente. Un suo vecchio precettore, il vento di tramontana, la sospingeva pei sentieri nevosi, verso il ghiaccio eterno, verso il regno inaccessibile del Padre Gennaio.

La corteccia cigolò, s'aprì a due battenti, e al Principe sbigottito apparve una scala abbagliante. Egli salì i primi scalini, trasognato, udì il colpo della porta che si chiudeva. Il palazzo era immenso. Le scale, gli atrii, i corridoi, le logge, le sale si succedevano senza fine, ricche di marmi, di porfido, di diaspro, di gemme. Aquilino s'avanzava trasognato. Si faceva notte e nessuno appariva nel palazzo incantato. Solo due mani lo precedevano: l'una recando una lucerna, l'altra facendogli segno di seguirla. Giunsero così in una sala vastissima da pranzo; Aquilino si sedette a tavola. E le due mani cominciarono a recar cibi e vini prelibati. Egli guardava quelle due mani isolate, volanti, cercava di afferrarle quando le aveva vicine, ma quelle deponevano i piatti e guizzavano via come farfalle. Mangiò, poi si sentì prendere dal sonno, s'alzò per andare a dormire. Le due mani lo precedettero in una camera di damasco vermiglio, gli fecero un gesto d'addio e d'augurio, disparvero. Egli si cacciò fra le lenzuola fini, e si addormentò. Sognava di riveder la Principessa Nazzarena, non quella condotta dal gobbo barbuto, ma quale gli era apparsa nel quadro, bellissima e bionda. Quand'ecco uno schiamazzo lo svegliò. Socchiuse gli occhi. La stanza era illuminata e molte paia di mani, eguali a quelle della sera prima, guizzavano, s'intrecciavano, accennando verso di lui. - A che giuoco si gioca? - Alla palla. - Giochiamo alla palla con quel tale che dorme? - Chi dorme? - Là, nel letto, non lo vedete? E attraverso le ciglia socchiuse, il Principe vide le mani avvicinarsi. Afferrarono le lenzuola e, tenendole tese agli orli, cominciarono a farlo sbalzare con risa rauche e sibili acuti. Egli teneva le ciglia chiuse, fingendo di dormire. - Non vuole svegliarsi! - Lo sveglieremo! Lo sveglieremo! E raddoppiarono la foga del gioco crudele. Al primo canto del gallo le mani lo sbalzarono nel letto e disparvero. Aquilino si palpava le ossa indolenzite, quando udì un fruscio e si vide accanto la lepre d'argento. Invece delle quattro zampe aveva due piedi e due mani bianchissime di donna. - Principe Aquilino, io sono la Principessa Nazzarena, quella che il vostro cuore scelse per compagna. Quando giunsi col mio corteo nel bosco, un mago mi trasformò, imprigionandomi con la mia gente in questo castello. Sarò salva se passerete qui dentro tre notti simili a questa. Il mago è quegli stesso che si presentò al vostro cospetto tentando di farvi sposare la sua nanerottola. La lepre disparve. Aquilino attese ansioso la seconda sera. Mangiò, servito dalle due mani volanti, andò a letto, s'addormentò. Si svegliò allo schiamazzo: molte mani lo ripresero dal letto, sollevarono le lenzuola, cominciarono il gioco, più furenti della sera innanzi. - Non vuole svegliarsi! - Se non si sveglia siamo perduti!... Allora le mani lo sbalzarono un'ultima volta, appiccandolo a un chiodo delle travi. E disparvero sibilando. Aquilino aprì gli occhi, vide la lepre d'argento. Aveva ormai tutto il corpo di donna; solo la testa restava di lepre e lo guardava con dolci occhi umani. - Povero Principe! Soffrite per amor mio ancora una notte e saremo salvi. Giunse la terza notte. Riapparvero le mani più furiose che mai. - Si gioca? - Giochiamo! - Ma questa notte dobbiamo finirlo! - Dobbiamo finirlo! E cominciò il rimbalzello crudele. Aquilino giungeva al soffitto, picchiava, restava aderente come una tartina di pasta, ricadeva nel lenzuolo teso, rimbalzava ancora tra le risa infernali. E non apriva gli occhi per amor di Nazzarena. - Non si sveglia! Siamo perduti! - Siamo perduti! - É l'alba! Siamo perduti! Le mani furibonde s'appressarono alla finestra, tesero le lenzuola, sbalzarono Aquilino ad un'altezza vertiginosa. Egli salì, salì, cadde per dieci minuti, picchiò sull'erba, si tastò le ossa peste, aprì gli occhi, ancora vivo. Si trovava ai piedi dell'albero incantato. Presso di lui stava la sua vera fidanzata Nazzarena, bella di una bellezza mai più vista. E aveva il suo seguito di carrozze, di dame, di cavalieri liberati con lei dal malefizio del mago. Il Principe li condusse al suo castello, adunò tutta la Corte nella sala del Gran Consiglio, fece condurre il gobbo barbuto e la figliuola laida, e rivoltosi ai ministri disse: - Avevo ordinato un cofano d'oro e di gemme; un malandrino me lo tolse strada facendo e lo sostituì con un altro di legno tarlato. Fortuna vuole che io ritrovi il primo. A quale darò la preferenza? - Al primo! - sentenziò la Corte. - E del ladro e del cofano tarlato che dovrò farne? - Bruciarli sulla stessa catasta! Così fu fatto. E la sentenza e le nozze ebbero luogo fra gli applausi di tutto il popolo.

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