Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbagliante

Numero di risultati: 58 in 2 pagine

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La storia dell'arte

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Pinelli, Antonio 2 occorrenze

Nella cupola di San Giovanni Evangelista la cerchia di apostoli in basso funge da quinta ombrosa, che rende ancor più abbagliante lo squarcio tra le nubi inondato di luce verso cui s’invola la figura di Cristo nel suo moto ascensionale. Nella cupola Fig. 121. Antonio Allegri detto il Correggio, La visione di San Giovanni Evangelista a Patmos, 1526-30, Parma, chiesa di San Giovanni Evangelista. del Duomo, non diversamente, ma con un’orchestrazione ancor più complessa e polifonica, la Madonna è assunta in cielo in un apoteos fra gli svolazzi festanti degli angeli. Le cerchie celesti e i nastri gonfi si dispongono in modo da dar vita ad un gigantesco moto a spirale, avvita fino a culminare nell’audace scorcio del Cristo che, in un gorgo di luce, nuota scompostamente nel cielo mulinando le gambe e aprendo le braccia come per attrarre a sé la Vergine in ascesa.

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Pagina 208

Le tre vie della pittura

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Caroli, Flavio 1 occorrenze

La schiena della donna al centro del quadro di Monet è dipinta come un’ombra colorata che fa sì che risuoni l’arancio bellissimo della cintura, l’erba si divide fra la parte in luce e la parte in ombra, che possiede anch’essa una propria quantità di colore e di luce, e negli alberi ogni foglia è costruita di luce, abbagliante dove la luce è piena, e attenuata dove invece c’è ombra. La figura dell’uomo è esemplare per il modo con cui la luce si disegna per tacche colorate, nel passaggio fra la manica, il polsino e la mano. Il risultato è inebriante, una entità panica di chiarore che domina la visione, riposante, felice, del pomeriggio d’estate in cui vive questo quadro, anzi del minuto, dell’attimo nel quale tutto questo viene colto. Colui che capisce immediatamente la novità dell’intuizione di Monet è Renoir, il quale è solito andare a dipingere con lui durante i primi anni della propria storia. Vediamo il Ballo al Moulin de la Gaiette (fig. 29), dipinto nel momento chiave dell’impressionismo, e troviamo esemplarmente attuati i principi di cui abbiamo parlato: anche il suolo ha una propria tonalità, un colore blu che rimarca le ombre, e gli alberi lasciano trapelare tra le foglie macchie di luce, e macchie di luce si accendono sul dorso dell’uomo appoggiato alla seggiola, e sul bellissimo abito rigato di rosa e grigio-azzurro della donna. L’attimo luminoso e le ombre colorate sono il volto stesso della figura femminile in primo piano, che ha la parte 29. Pierre-Auguste Renoir, Ballo al Moulin de la Galette. Parigi, Musée d'Orsay. alta del viso in ombra (ma in un’ombra che ha una sua specifica tonalità colorata) e ha invece il resto del viso in piena luce.

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Leggere un'opera d'arte

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Chelli, Maurizio 2 occorrenze
  • 2010
  • Edup I Delfini
  • Roma
  • critica d'arte
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Dopo averli condotti in cima al monte Tabor egli si trasfigurò: il suo volto cominciò a splendere e i suoi abiti divennero di un candore abbagliante, mentre i profeti Mosè ed Elia apparvero al suo fianco.

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Il primo presenta il Cristo in piedi su una piccola altura, con ai lati i due profeti, mentre gli apostoli sono distesi in terra e cercano di ripararsi gli occhi dalla luce abbagliante.

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Manuale Seicento-Settecento

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Argan, Giulio 2 occorrenze

All’estremità opposta all’ingresso, quasi a suggerire un esito in cielo, collocherà (1657-66) la «macchina» della cattedra: un’immensa raggiera abbagliante, brulicante di angeli, che riversa nell'abside un fiume di luce dorata. Ed è un esempio sorprendente, ma all'origine ancora correggesco, di trasformazione di una struttura prospettica in struttura luministica.

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La luce non estrae dalle tenebre l’historia senza azione, il flagrante dramma della realtà che la coscienza rivela; rende incandescente, abbagliante, il bianco della veste dell’angelo, fa brillare l’elmo del soldato, suscita un'ombra che serve a tornire i volumi, a renderli turgidi, quasi scultorei, come nelle contemporanee nature morte di Luca Forte. Si spiega: non esiste a Napoli una tensione tra la tradizione manierista e le correnti rinnovatrici, e il Caravaggio stesso, nel 1607, aveva da tempo superato la fase della polemica antimanieristica. L'incontro con il Caravaggio non determina dunque, nel Battistello, una brusca conversione, ma un approfondimento e un arricchimento della sua cultura essenzialmente disegnativa. Un segno incisivo, analitico, seguita a spezzare i contorni, a precisare l’andamento dei piani. La luce caravaggesca si rifrange così ai limiti delle forme, lungo le diverse pendenze del modellato; ed alle sue variazioni corrispondono quelle delle ombre. Non rivela la cruda, incontestabile presenza del reale; anzi dà alla figurazione, con la singolarità dei suoi effetti, un senso di mistero, di vita sospesa. E dunque l’iniziatore di una tendenza poetica, che non contraddice neanche quando, come negli affreschi più tardi, quasi ritorna alla sua prima educazione manierista, sia pure rinforzata dalla conoscenza della «riformata» pittura fiorentina e dei carracceschi.

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Personaggi e vicende dell'arte moderna

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Venturoli, Marcello 1 occorrenze
  • 1965
  • Nistri-Lischi
  • Pisa
  • critica d'arte
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Una materia che cola e si sfalda, sul punto di uscire dal mondo della plastica per entrare in quello della pittura, sembra raggiunta e dominata da tagli, scavi, compressioni, schiacciamenti, come un antro cui pervenga all’improvviso una serie di voci, che venga frugato da fasci luminosi; ed ecco allora la vecchiezza e la fragilità di quelle forme slombate assumere una vitalità impreveduta, per quelle campiture di seguito e dentro le superfici grame e sfatte, per quella fusione tra cieca e abbagliante della cera con l’acciaio, per quell’attitudine misteriosa e quasi panica, di riflettere come in uno specchio la immagine plastica di un sentimento. Lo scultore non è nato adulto, ovviamente; già nella sua recente mostra personale alla Galleria «Odyssia» (dove alcuni «martiri» alludevano a una sorta di forma crocifissa, solidificazioni palpitanti di un dolore non elegiaco e non recitato) Somaini metteva in luce la sua partenza plastica e «purista», la sua carriera di scultore.

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Pop art

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Boatto, Alberto 1 occorrenze

Le foto prima e poi il cinema, a cui si è aggiunta la televisione, doppiando la vita, le hanno imposto anche il loro ritmo specifico: sicché la luce abbagliante che ritaglia in Segal una scena abituale della strada non è molto distante dal colpo di forbici del montatore che ritaglia un fotogramma da una sequenza cinematografica.

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Scritti giovanili 1912-1922

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Longhi, Roberto 1 occorrenze

Ma non fermiamoci su ciò che ci condurrebbe ad esaminare donde provengano primamente tanti altri paesaggi veneziani - l'alta pace rurale di Cima, o la solarità abbagliante di Lattanzio a Piazza Brembana - che ci fanno sognare naturalmente d'Umbria; e lasciamo ormai la Trasfigurazione di Napoli dove Bellini, salvo pochissimi scarti, ha trovato finalmente la via nuova fornitagli dal sintetismo prospettico di forma-colore creato da Piero. Forma a piani, colorismo caldo nell'intonazione solare, che non muterà.

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Senso

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Boito, Camillo 1 occorrenze

La mattina era allegra d'un sole abbagliante; alla sinistra spiccavano sull'aria turchina gli alti fumaiuoli a campana capovolta e le cornici candide e i tetti rossi, mentre sulla destra correva il lungo muraglione dei Cantieri, severo e chiuso. Gli occhi abbacinati riposavano in certe ombre cupe, lì dove si affondava un sottoportico o si stringeva una calle; e l'acqua brillava di tutti i verdi, rifletteva tutti i colori, si perdeva qua e là in buchi e striscie di un nero denso. Correvano e saltavano sulla fondamenta, la quale dalla parte del canale non aveva nessun riparo, dieci o dodici monelli, vociando a squarciagola. Ve n'erano di piccini e di grandetti. Uno dei piccoli, quasi nudo, grassotto, con i riccioletti biondi, che gli coronavano la faccia rosea e paffutella, faceva un chiasso da indemoniato, dando scappellotti, pizzicando i compagni e poi scappando via come un fulmine. Mi fermai a guardare, mentre Remigio mi raccontava le sue grandezze passate. A un tratto quel diavoletto di bimbo, non potendo in una corsa precipitosa fermare il piede al ciglio della fondamenta, volò nel canale. S'udì uno strido ed un tonfo, poi subito intronarono l'aria le grida di tutti quanti i ragazzi e di tutte quante le donne, le quali prima se la discorrevano nella via o guardavano dalla finestra; ma in quel clamore dominava lo strillo acuto, disperato, straziante della giovine madre, che, slanciatasi ai piedi di Remigio, unico uomo presente a quella scena, urlava: - Me lo salvi, per carità, me lo salvi! - Remigio, freddo, ghiacciato, rispose alla donna: - Non so nuotare -. Intanto uno dei fanciulli più grandi s'era buttato in acqua, aveva pigliato per i ricci biondi il piccino e lo aveva tirato a riva. Fu un attimo. Lo stridìo si mutò in applauso frenetico; donne e ragazzi piangevano di gioia; la gente correva da tutte le parti a vedere, e il putto biondo guardava intorno con i suoi occhioni celesti, maravigliato di tanto baccano. Remigio con uno strappo violento mi cavò dalla folla. L'altra volta che un poco il mio amante mi spiacque fu per questa cagione. S'era fatto udire nel caffè Quadri, ciarlando in tedesco a voce alta con alcuni impiegati tirolesi, a dir male dei Veneziani. Un signore, che stava in un canto, s'alzò di sbalzo, e piantandosi di contro a lui, che era in uniforme, gridò: - Vigliacco d'un militare - e gli buttò in faccia tre o quattro de' suoi biglietti da visita. Ne nacque un parapiglia. Il dì seguente i padrini dovevano combinare il duello; ma Remigio, avendo notato che il suo avversario era piccolo, mingherlino e gracilissimo, rifiutò la pistola, rifiutò la spada, e, benché la scelta delle armi spettasse allo sfidato, volle ad ogni costo la sciabola, sicuro com'egli era della forza del proprio braccio. Il Veneziano si piegò alla prepotenza; ma, prima del duello, era già in carcere, ed a Remigio veniva trasmesso l'ordine di andare immediatamente ad una nuova destinazione in Croazia. Quando seppi la cosa mi disperai: senza quell'uomo io non potevo vivere. Tanto feci presso la moglie del Luogotenente, e tanto si adoperò mio marito, sollecitato da me, presso il Governatore ed i Generali, che Remigio ottenne di venire mandato a Trento, dove io ed il conte dovevamo tornare appunto in quei giorni. Tutto fino allora era andato a seconda della mia cieca passione. * * * Da tre mesi non vedo questo mio scartafaccio. Non mi sono attentata di portarlo in viaggio, e mi doleva, confesso, di averlo lasciato a Trento. Riandando nella memoria i casi di tanti anni or sono, il cuore torna a palpitare e sento un'aura calda di gioventù, che mi spira d'intorno. Il manoscritto è rimasto serrato a tripla chiave nel mio scrigno segreto, dietro all'alcova della mia camera; e stava chiuso con cinque suggelli in una grande busta, su cui, prima di partire, avevo scritto a grossi caratteri: "Affido all'onore di mio marito il segreto di queste carte, ch'egli, dopo la mia morte, brucierà senza dissuggellarle". Me ne andai tranquillissima: ero certa che il conte, anche sospettando, avrebbe religiosamente adempiuto la volontà di sua moglie. Ho avuto adess'adesso dalla cameriera una notizia, che mi ha disgustata: l'avvocatino Gino prende moglie. Ecco la costanza degli uomini, ecco la saldezza delle passioni! - Contessa Livia, muoio, mi uccido; la sua immagine sparirà dal mio petto con l'ultima goccia del mio sangue; mi calpesti come uno schiavo, ma mi permetta di adorarla come una Dea -. Frasi da melodramma. Pochi mesi, e tutto svanisce. Amore, furore, giuramenti, lagrime, singhiozzi, non c'è più nulla! Schifosa natura umana. E a vedere quegli occhi neri in quella faccia smorta si sarebbe detto che vi lampeggiasse la sincerità profonda dell'anima appassionata. Come balbettavano le labbra e pulsavano le arterie e tremavano le mani e la persona tutta strisciava umile sotto a' miei piedi. L'avvocatino scrofoloso e miserabile meritò davvero il calcio che ricevette da me. Bifolco. E chi sposa? Una scioccherella di diciotto anni, che i suoi parenti non hanno voluto condurre in casa mia, perché la contessa Livia, si sa, è donna troppo galante; una scipita con due mele ingranate per guance, le mani corte, grasse e rosse, i piedi da stalliere, e un'aria impertinentina da santarella, che consola. E l'uomo il quale piglia una tale bamboccia ha osato amarmi e dirmelo! Sento le brace sul viso ... * * * Il mio ufficiale di sedici anni addietro, se non era un grand'uomo, era almeno un vero uomo. Mi stringeva alla vita in modo da stritolarmi, e mi mordeva le spalle facendomele sanguinare. Cominciavano a diffondersi delle vaghe voci di guerra, poi le solite notizie contradditorie e le consuete smentite: armano, non armano, sì, no; intanto un certo movimento insieme febbrile e misterioso si propagava dai militari ai civili, i treni della ferrovia principiavano a ritardare, a portare giù nuovi soldati e cavalli e carriaggi e cannoni, mentre i giornali non ismettevano di negare pur l'ombra dell'armamento. Io, senza badare agli occhi miei, credevo ai giornali, tanto il pensiero di una guerra mi spaventava. Temevo per la vita dell'amante; ma temevo anche più il distacco lungo, inevitabile, che avrebbe dovuto seguire tra noi due. A Remigio, in fatti, l'ultimo dì di marzo fu ordinato di recarsi a Verona. Ottenne, innanzi di partire, due giorni di permesso, che passammo insieme, senza lasciarci mai un minuto, nella misera camera di un'osteria sul laghetto di Cavedine; ed egli mi giurava di venire presto a vedermi, ed io gli giuravo di andare a Verona quando non avesse potuto muoversi di lì. Nel dargli l'ultimo abbraccio gli gettai nella tasca un borsellino con cinquanta marenghi. Il conte, ritornando dalla campagna, mi trovò, dieci o dodici giorni dopo la partenza di Remigio, smagrita e pallida. Soffrivo in realtà moltissimo. Di quando in quando sentivo delle accensioni alla testa e mi venivano dei capogiri, tanto che tre o quattro volte, barcollando, dovetti appoggiarmi alla parete o ad un mobile per non cadere. I medici, che mio marito, premuroso ed inquieto, volle consultare, ripetevano, stringendosi nelle spalle: - Affare di nervi -; mi raccomandarono di far moto, di mangiare, di dormire e di stare allegra. Eravamo alla metà dell'aprile ed oramai gli apprestamenti si facevano senza maschera: militari d'ogni sorta ingombravano le vie; marciavano i battaglioni al suono delle bande e dei tamburi; volavano sui loro cavalli gli aiutanti di campo; i vecchi generali, un po' curvi sulla sella, passavano al trotto seguiti dallo Stato maggiore, baldo, brillante, caracollante. Quei preparativi mi riempivano di paure fantastiche. L'Italia voleva passare a fil di spada tutti quanti gli Austriaci; Garibaldi, con le sue orde di demonii rossi, voleva scannare tutti quelli che gli sarebbero capitati in mano: si presagiva un'ecatombe. Avevo le furie in corpo: da Verona in sei settimane m'erano capitate quattro lettere sole. La posta si può dire che non esistesse più; bisognava consegnare, pregando e pagando, i fogli a qualcuno che, disposto ad affrontare gli ostacoli e gli interminabili ritardi del viaggio, avesse necessità e ardire di recarsi da un luogo all'altro. Io, non potendo più vivere nelle angoscie, in cui mi teneva notte e giorno il silenzio o volontario o innocente di Remigio, m'ero risoluta di tentare il viaggio; ma come fare senza che mio marito ne sapesse nulla? come fare io donna e sola e giovane e bella in mezzo alla brutalità dei soldati, resi più audaci dalla disciplina allentata e dal pensiero degli stessi pericoli a cui andavano incontro? Una mattina, all'alba, dopo una eterna notte di smanie, m'ero addormentata, quando a un tratto un romore mi sveglia; apro gli occhi e mi vedo accanto Remigio. Mi parve un sogno. L'aurora illuminava già di luce lieve e rossastra la camera; scesi con un balzo dal letto per chiudere le tende dell'alcova, e si cominciò sotto voce a discorrere. Ero inquieta; il conte, che dormiva a due stanze d'intervallo, poteva sentire, poteva venire; i domestici potevano avere visto il mio amante entrare furtivamente a quell'ora. Egli mi rassicurò con poche parole impazienti: aveva picchiato, come altre volte, ai vetri della finestra terrena, dove la cameriera dormiva; ella pian piano gli aveva aperto il portone, ed era entrato senza che nessuno sospettasse di nulla. Della cameriera m'importava poco, giacché sapeva ogni cosa; ma il peggio stava nell'uscire: bisognava spicciarsi. Tornai a sbalzare dal letto; andai ad origliare all'uscio della stanza di mio marito: russava. - Ti fermi a Trento, non è vero? - Sei matta. - Qualche giorno almeno? - È impossibile. - Uno? - Parto fra un'ora. Rimasi accasciata; il mio cuore, pieno un minuto prima di gaie speranze, si riempì d'affanni e di paure. - E non tentare di trattenermi. In tempo di guerra non si scherza. - Guerra maledetta! - Maledetta sì. Dovrà essere terribile, a quanto pare. - Senti, non potresti fuggire, non potresti nasconderti? Ti aiuterò. Non voglio che la tua vita sia messa in pericolo. - Fanciullaggini. Mi scoprirebbero, mi piglierebbero, e sarei fucilato per disertore. - Fucilato! - Ho bisogno di te. - La mia vita, tutto. - No. Duemilacinquecento fiorini. - Dio, come faccio? - Vuoi salvarmi? - Ad ogni costo. - Senti dunque. Con duemilacinquecento fiorini i due medici dell'ospedale e i due della brigata mi fanno un certificato di malattia, e vengono a visitarmi ogni tanto per confermare presso il Comando una mia infermità qualunque, la quale mi renda inabile affatto al servizio. Non perdo il mio grado, non perdo il mio soldo, scanso ogni pericolo e rimango a casa tranquillo, zoppicando un poco, è vero, per una sciatica maligna o per una lesione all'osso della gamba, ma quieto e beato. Troverò qualche impiegatuzzo con cui giuocare a briscola; berrò, mangierò, farò le lunghe dormite; avrò la noia di stare a casa nel giorno, ma la notte, sempre zoppicando un poco per prudenza, mi potrò sfogare. Ti piace? - Mi piacerebbe, se tu fossi a Trento. Verrei da te ogni giorno, due volte al giorno. Già quando ti credono malato, stare a Verona o a Trento non è lo stesso? - No, i regolamenti vogliono che il militare malato stia nella sede del Comando, sotto la continua e coscienziosa vigilanza dei medici. Ma, appena finita la guerra, tornerò qua. La guerra sarà fiera, ma breve. - Mi amerai sempre, mi sarai sempre fedele, non guarderai nessun'altra donna? Me lo giuri? - Sì, sì, te lo giuro; ma l'ora passa, e i duemilacinquecento fiorini mi occorrono. - Subito? - Sicuro, devo portarli con me. - Ma nello scrignetto credo di avere appena una cinquantina di napoleoni d'oro. Tengo sempre poco denaro. - Insomma, trovali. - Come vuoi ch'io li trovi? Posso chiederli a mio marito a quest'ora, così, con quale pretesto, per darli a chi? - L'amore si conosce dai sacrifizii. Non mi ami. - Non ti amo? io che ti darei volentieri tutto il mio sangue. - Queste sono parole. Se non hai denaro, dammi i gioielli. Non risposi e mi sentii impallidire. Accortosi della impressione che mi avevano fatto le sue ultime parole, Remigio mi serrò tra le braccia di ferro, e mutato tono, ripeté più volte: - Sai che ti amo infinitamente, Livia mia, e ti amerò finché avrò un soffio di vita; ma questa vita salvamela, te ne scongiuro, salvala per te, se mi vuoi bene. Mi prendeva le mani, e le baciava. Ero già vinta. Andai alla scrivania a prendere le tre piccole chiavi dello scrignetto: temevo di far romore; camminavo in punta di piedi, benché avessi i piedi nudi. Remigio mi accompagnò nel gabinetto dietro l'alcova; serrai l'uscio, perché il conte non potesse udire, ed aperto lo scrigno con qualche difficoltà, tanto ero agitata, ne trassi un fornimento intiero di brillanti, mormorando: - Ecco, prendi. Costò quasi dodicimila lire. Troverai da venderlo? Remigio mi tolse di mano l'astuccio; guardò i gioielli e disse: - Usurai ce n'è dappertutto. - Sarebbe un peccato il darlo via per poco. Cerca modo di poterlo ricuperare. Mi piangeva il cuore. Il diadema specialmente mi stava tanto bene. - E i denari me li dai? - chiese Remigio, - mi farebbero comodo. Cercai nello scrigno i napoleoni d'oro, che avevo messi in un mucchietto, e, senza contarli, glieli diedi. Mi baciò e, frettolosamente, fece per uscire. Lo trattenni. Con un atto d'impazienza mi respinse, dicendo: - Se ti preme la mia vita, lasciami andare. - Fa piano, non senti che gli stivali scricchiolano? E poi, aspetta. Voglio vedere se c'è la cameriera; bisogna ch'ella venga ad accompagnarti. La cameriera, infatti, attendeva in una stanza vicina. - Mi scriverai subito? - Sì. - Ogni due giorni? Volevo dare un ultimo bacio all'amante mio, che amavo tanto: era già sparito. Aperte le invetriate, guardai nella via. Il sole indorava le alte cime dei monti. Innanzi al portone stavano discorrendo fra loro il mozzo di stalla ed il guattero. Alzarono gli occhi e mi videro; poi videro uscire dal palazzo Remigio, che camminava in fretta con le tasche dell'abito rigonfie. Tornai a letto e piansi tutto il giorno: l'energia della mia natura era fiaccata. Il medico la mattina appresso trovò che bruciavo e che avevo una gran febbre; ordinò il chinino, che non presi: avrei voluto morire. Una settimana intiera dopo la visita di Remigio la cameriera mi portò con la sua solita placidezza una lettera, che, appena vista, le strappai di mano rabbiosamente: avevo indovinato, era di lui, la prima dopo la sua partenza, e mi posi a leggerla con sì furiosa avidità che, giunta alla fine, dovetti ricominciare: non ne avevo capito nulla. Me la ricordo ancora oggi parola per parola, tante volte la lessi e tante volte i casi terribili, che la seguirono, me ne fecero risovvenire: "Livia adorata, M'hai salvato la vita. Ho venduto l'astuccio a un Salomone qualunque, per poco, a dire il vero, ma in queste circostanze di trambusti e di spaventi non si poteva esigere di più, duemila fiorini, i quali sono bastati a riempire la vorace pancia dei medici. Prima di dovermi ammalare ho trovato una bella stanza verso l'Adige in via Santo Stefano al numero 147 (scrivimi a questo indirizzo), grande, pulita, con una anticamera tutta per me, da cui si esce direttamente sulla scala; mi sono provvisto di tabacco, di rum, di carte da giuoco e di tutti i volumi di Paolo di Koch e di Alessandro Dumas. Non manco di compagnia piacevole, tutti maschi (non ti agitare), tutti scrocconi, e se non fosse che devo parere zoppo e che di giorno non posso uscire di casa, mi direi l'uomo più felice del mondo. Certo, mi manca una cosa, la tua persona, cara Livia, che adoro e che vorrei avere il dì e la notte fra le mie braccia. Dunque non ti dar pensiero di nulla. Io leggerò le notizie della guerra fumando; e quanti più Italiani e Austriaci se ne andranno all'inferno tanto più ci avrò gusto. Amami sempre come io t'amo; appena la guerra sarà finita e questi cani di dottori, i quali mi costano un occhio della testa, m'avranno lasciato in pace, correrà ad abbracciarti, più ardente che mai, il tuo REMIGIO". La lettera mi lasciò sconcertata e disgustata, così mi parve volgare; ma poi, nel tornarvi su, a poco a poco mi persuasi che il tono in cui era scritta fosse affettatamente leggiero e gaio, e che l'amante avesse fatto un crudele, ma nobilissimo sforzo nel contenere l'impeto del suo cuore, tanto per non gettare nuova esca nella mia passione, che era già un incendio, e per quietarmi un poco l'animo, ch'egli sapeva terribilmente ansioso. Ristudiai la lettera in ogni frase, in ogni sillaba. Avevo bruciate tutte le altre quasi appena ricevute; serbai questa in un taschino del portamonete, per cavarnela spesso quando ero sola, dopo avere serrato a chiave gli usci della stanza. Tutto mi confermava nella mia credenza benevola: quelle espressioni d'affetto mi apparivano tanto più potenti quanto più erano rapide, e quei periodi grossolani e cinici mi si presentavano alla fantasia sublimi di generoso sacrifizio. Avevo tanto bisogno di credere che la mia smania trovasse una scusa nella smania dell'altro; e la viltà di lui mi riempiva il seno d'entusiasmo, purché io credessi di esserne la cagione. Ma il mio cervello galoppante non si fermava qui. Chi sa, pensavo tra me, chi sa che questa lettera sia tutta un magnanimo inganno! Forse egli è già partito per il campo, forse egli sta di contro al nemico; ma, più curante di me che di lui, non volendo farmi morire negli sbigottimenti e nei terrori, m'addormenta con la menzogna pietosa. Appena un tale pensiero si fece adito nel mio spirito, me ne sentii tutta invasa. Le insonnie, l'avversione al mangiare, i disturbi fisici contribuivano ad una vera esaltazione mentale. Vivevo quasi nella solitudine. Già la mia società s'era andata via via restringendo, poiché le famiglie nobili trentine, avverse alle opinioni politiche del conte, avevano da un pezzo lasciato con bel garbo lui e me affatto in disparte; i giovani, frementi d'italianismo, ci sfuggivano senza riguardi e ci odiavano; gl'impiegati del paese, non sapendo come la guerra sarebbe andata a finire, per non rischiare di compromettersi né in un modo né in un altro, oramai si astenevano dal mettere piede in casa nostra: vedevamo, in somma, qualche nobile austriacante, spiantato e parassita, qualche alto funzionario tirolese, duro, testardo, puzzolente di birra e di cattivo tabacco. I militari non trovavano più l'agio né la voglia di occuparsi di me. La mia relazione col tenente Remigio, conosciuta da tutti, eccetto che da mio marito, aveva accresciuto il mio isolamento, il quale, del resto, m'era gradito, anzi necessario nello stato d'animo in cui da un po' di tempo vivevo. Remigio, dopo la lettera famosa, non aveva più scritto. Sognavo per lui de' pericoli, che mi apparivano tanto più orrendi quanto più erano incerti. Avrei potuto sopportare forse la sicurezza dei rischi d'una battaglia; ma il non sapere se il mio amante andasse alla guerra o no, era un dubbio che mi faceva impazzire. Scrissi a Verona ad un generale che conoscevo, a due colonnelli, poi a qualcuno di quegli ufficialetti, i quali mi avevano tanto corteggiato a Venezia: nessuno rispose. Tempestavo Remigio di lettere; niente. Intanto le ostilità principiarono: la vita civile era soppressa; la ferrovia, le strade non servivano ad altro che ai carriaggi delle munizioni, delle ambulanze, delle proviande, agli squadroni di cavalleria, che passavano in mezzo a nuvoli di polvere, alle batterie, che facevano tremare le case, ai reggimenti di fanteria, che si svolgevano l'uno dopo l'altro interminabili, sinuosi, striscianti come un verme, il quale volesse abbracciare nelle sue enormi spire tutta quanta la terra. Una mattina calda, affannosa, il 26 del giugno, capitarono le prime notizie di una battaglia orribile: l'Austria era disfatta, diecimila morti, ventimila feriti, le bandiere perdute, Verona ancora nostra, ma vicina a cedere, come le altre fortezze, all'impeto infernale degli Italiani. Mio marito era in villa, e doveva starci una settimana. Suonai con furia; la cameriera non veniva; tornai a suonare; si presentò all'uscio il domestico. - Dormite tutti? maledetti poltroni. Fammi venire subito il cocchiere, ma subito, intendi? Qualche minuto dopo entrò Giacomo sbigottito, abbottonandosi la livrea. - Da qui a Verona quante miglia ci sono? Stette un poco a pensare. - Dunque? - ripresi stizzita. Giacomo faceva i suoi conti: - Da qui a Roveredo circa quattordici; da Roveredo a Verona dovrebbero essere ... non saprei ... ci si mette con due buoni cavalli dieci ore, poco più, poco meno, senza contare le fermate. - Ci sei mai stato con i cavalli da Trento a Verona? - No, signora contessa; andai da Roveredo a Verona. - Fa lo stesso. Da qui a Roveredo so bene anch'io che occorrono due ore. - Due ore e mezzo, scusi, signora contessa. - Dunque due e dieci fanno dodici in tutto. - Mettiamo tredici, signora contessa, e di buon trotto. - Quanti cavalli ha preso con sé il padrone? - La sua solita cavallina morella. - Ne restano quattro in scuderia. - Sì, signora padrona: Fanny, Candida, Lampo e lo stallone. - Potresti attaccarli tutti quattro? - Insieme? - Sì, insieme. Giacomo sorrise con una cert'aria di benevola compassione: - Scusi, signora contessa, non è possibile. Lo stallone ... - Ebbene, attacca gli altri tre. - Lampo ha una sciancatura, povero Lampo, non può neanche trascinarsi al passo. - Attacca dunque come al solito Fanny e Candida, in nome di Dio - gridai, pestando i piedi, e soggiunsi: - Domattina alle quattro. - Sarà servita, signora padrona; e, scusi, per regolarmi nella biada da portar via, dove si va? - A Verona. - A Verona, misericordia! In quanti giorni? - Dalla mattina alla sera. - Signora padrona, scusi, ma questo proprio non si può. - Ed io lo voglio, hai capito? - replicai con accento così imperioso che il pover'uomo trovò appena il coraggio di balbettare: - Abbia compassione di me. Accopperemo le due cavalle, e il padrone mi caccerà sulla strada. - La responsabilità è mia. Obbedisci e non pensare ad altro - e gli diedi quattro marenghi. - Ti darò il doppio quando saremo tornati, ad un patto per altro, che tu non dica niente a nessuno. - Per questo non c'è pericolo; ma gl'ingombri della strada, carri, i cannoni, le prepotenze dei soldati, le seccature dei gendarmi? - Ci penso io. Giacomo piegò il capo, rassegnato, ma non persuaso. - A che ora giungeremo a Verona? - Quando vorrà il cielo, signora padrona; e sarà un miracolo se ci arriveremo vivi, lei, signora padrona, io e le due povere bestie. Per me poco importa, ma per lei e per le bestie! - Bene, alle quattro dunque, e silenzio. Se taci avrai quello che ti ho promesso, se parli ti licenzio sui due piedi e senza salario. Hai inteso? Bada che tutti, anche la cameriera, devono credere che andiamo a San Michele, dalla marchesa Giulia. Giacomo, rannuvolato, s'inchinò ed uscì dalla stanza. All'alba ero in carrozza, e via. Avevo chiuso le tendine degli sportelli, e guardavo da un angolo ai fantaccini trafelati e polverosi, i quali credendo che nel cocchio stesse un qualche gran personaggio, si schieravano lungo i fossati; alcuni facevano il saluto militare. Di quando in quando bisognava rallentare la corsa con mio fiero dispetto, o a dirittura fermarsi alcuni minuti per aspettare che i pesanti e cigolanti carri avessero lasciato libero il passo: le cose per altro andavano assai meglio di quello che avesse predetto Giacomo. Una pattuglia di gendarmi a cavallo fermò la carrozza, ma il sergente, vedendo che c'era dentro una signora, si contentò di gridare cavallerescamente: - Buon viaggio -. Più giù di Roveredo, a Pieve, ci si trattenne a rinfrescare un poco; poi a Borghetto, staccate le giumente, che non ne potevano più, passammo tre ore buone, che mi parvero tre anni, rannicchiata com'ero nella carrozza, udendo i lamenti e le bestemmie dei soldati, i quali si lasciavano cascare in terra a squadre per pochi istanti vicino all'osteria, sotto la scarsa ombra degli alberi magri, e mangiavano un tozzo di pagnotta e bevevano un sorso d'acqua. Avrò chiamato dieci volte Giacomo, il quale veniva allo sportello con tanto di grugno, sforzandosi di parere composto, e si toglieva il cappello, e ripeteva: - Signora contessa, ancora dieci minuti -. Si ripigliò, quando Dio volle, il cammino. L'Adige, che costeggiavamo, era quasi asciutto, i campi sembravano arsi, la strada brillava d'un candore abbagliante, non si vedeva una macchia nel cielo azzurro, le pareti della carrozza bruciavano, e in quell'afa grave, in quella densa polvere, io mi sentivo soffocare. La fronte mi gocciolava e battevo i piedi per l'impazienza. Non badai alla Chiusa: ascoltavo lo scoppiettìo della frusta di Giacomo. A Pescantina si tornò a rinfrescare: le buone bestie camminavano a stento, e a giungere a Verona ci volevano ancora dieci lunghe miglia. Il sole era scomparso in un nimbo di fuoco. Sempre carri e soldati, ronde di gendarmi, polvere, e a momenti un frastuono assordante e uno stridore acuto di ferramenta, a momenti un mormorio confuso e pauroso, nel quale si distinguevano gemiti e imprecazioni e le strofe di qualche canzonaccia oscena, cantata da voci strozzate. Fino ad ora eravamo scesi con la corrente degli uomini e dei veicoli, ora ci s'incontrava in qualche vettura d'ambulanza, in qualche compagnia pedestre di militari leggermente feriti, col braccio al collo, una fasciatura alla testa, verdi in volto, curvi, zoppicanti, laceri. E Remigio, Remigio! Gridavo a Giacomo di battere le bestie col manico della frusta. Cominciava a far notte. S'arrivò alle mura di Verona verso le nove; e tanto era il timor panico, tanto il trambusto, che nessuno badò alla carrozza, e si poté giungere all'albergo della Torre di Londra senz'altri intoppi. Non c'era più una camera, non c'era un buco dove poter dormire, né in quell'albergo, né, per quanto mi assicurarono, in nessuna altra locanda della città: tutto era stato requisito per gli ufficiali. I cavalli, morti di stanchezza, vennero legati nel cortile; Giacomo doveva attendere ad essi; io finalmente sbalzai a terra. Mi feci accompagnare a piedi da un ragazzaccio nella via Santo Stefano al numero 147. Si dovette camminare più volte su e giù nella strada, guardando all'alto delle porte, innanzi di distinguere nel barlume dei rari fanali il numero della casa. Se Remigio c'era, volevo fargli una improvvisata: le mie membra tremavano tutte d'impazienza e di desiderio, ma poteva essere a letto, poteva stare in compagnia di qualcuno, e, sebbene volessi ad ogni costo vederlo subito, pure mi sembrò di dover mandare il ragazzo avanti in esplorazione. Era furbo e capì al volo: doveva suonare, chiedere del tenente per una faccenda urgentissima, insistere perché gli aprissero, salire, dirgli una fandonia qualunque, per esempio che un signore, del quale s'era scordato il nome e che alloggiava all'albergo della Torre di Londra, bramava, senza ritardo, avere notizie della sua salute. Il fanciullo nel venir fuori aveva da lasciare aperti l'uscio del quartiere e la porta di strada. Io mi nascosi sul fianco della casa, in un chiassuolo tra la via ed il fiume. Il fanciullo suonò. S'udì una voce rabbiosa dall'ultimo piano: - Chi è? - Sta qui il tenente Remigio Ruz? - L'altro campanello, quello di mezzo: alla malora. Il fanciullo suonò all'altro campanello. Passò un minuto, che mi sembrò interminabile, e nessuno comparve; il ragazzo tornò a suonare; allora dal secondo piano una voce di donna chiese: - Chi è? - Sta qui il tenente Remigio Ruz? - Sì, ma non riceve nessuno. - Ho bisogno di parlargli. - Domattina dopo le nove. - No, questa sera. Hanno paura dei ladri? Passò un altro minuto e finalmente la porta si aprì. Remigio c'era! la gioia mi spezzava il cuore: mi si offuscò la vista e, non potendo reggermi sulle gambe, m'appoggiai alla muraglia. Poco dopo il fanciullo tornò: s'era fatto mandare al diavolo, ma aveva potuto lasciare l'uscio e la porta socchiusi. Mi tornarono le forze, diedi qualche moneta all'astuto monello, e, strisciando, entrai nella casa. Avevo previsto che mi sarebbero occorsi i fiammiferi; al pianerottolo del secondo piano v'erano due usci, sopra uno dei quali stava appiccato il biglietto da visita di Remigio; spinsi l'imposta, che cedette, ed entrai senza romore in una stanza quasi buia. Toccavo la cima delle mie speranze, sentivo già le braccia dell'amante mio, per il quale avrei dato senza esitare tutto quello ch'io avevo e la mia vita insieme, schiacciarmi impetuosamente sopra il suo largo torace, sentivo i suoi denti incidere la mia pelle, e pregustavo un mondo inenarrabile di allegrezze furiose. La consolazione mi fiaccava: dovetti sedermi sopra una seggiola, che stava accanto all'ingresso. Udivo e vedevo come se fossi immersa in un sogno: avevo perso il senso della realtà. Ma qualcuno lì d'appresso rideva rideva: era un riso di donna stridulo, sguaiato, sgangherato, che a poco a poco mi destò. Ascoltai, mi rizzai e, trattenendo il respiro, m'avvicinai ad un uscio spalancato, dal quale si vedeva in una vasta camera illuminata. Io stavo nell'ombra, né mi si poteva scorgere. Oh, perché in quel punto Dio non mi accecò! V'era una tavola, co' resti d'una cena; v'era, dietro alla tavola, un largo canapè verde su cui Remigio, sdraiato, faceva per gioco il solletico sotto l'ascella ad una ragazza, la quale sghignazzava, si sbellicava, si dimenava, si contorceva tutta, sforzandosi invano di svincolarsi dalle mani dell'uomo, che le dava baci sulle braccia, sul collo, sulla nuca, dove capitava. Io non mi potevo più muovere; ero inchiodata al mio posto, con gli occhi fissi, le orecchie tese, la gola arsa. L'uomo, stufo della burla, afferrò alla vita la ragazza, mettendosela a sedere sulle ginocchia. Allora cominciarono i discorsi, interrotti spesso da scherzi e da carezze. Sentivo le parole, il senso mi sfuggiva. A un tratto la donna pronunciò il mio nome. - Mostrami i ritratti della contessa Livia. - Li hai visti tante volte. - Mostrameli, te ne prego. L'uomo, rimanendo disteso sul canapè, alzò un lembo della tovaglia, aperse il cassetto della tavola e ne cavò delle carte. La ragazza, diventata seria, cercò fra quelle i ritratti e li guardò lungamente, poi: - È bella la contessa Livia? - Lo vedi. - Non mi capisci: voglio sapere se ti par più bella di me. - Nessuna donna mi può parer più bella di te. - Vedi, in questa fotografia il vestito da ballo lascia scoperte le braccia intiere e le spalle giù giù - e la fanciulla s'accomodava la camicia, confrontando con il ritratto: - Guarda, ti sembro più bella? L'uomo la baciò in mezzo al petto, esclamando: - Mille volte più bella. La fanciulla, accanto alla lucerna, fissando negli occhi l'uomo, che sorrideva, pigliò ad uno ad uno i quattro ritratti, e lenta lenta li lacerò ciascuno in quattro pezzi; e lasciava cadere quei brani sulla tavola in mezzo ai tondi e ai bicchieri. L'uomo continuava a sorridere. - Ma tu, cattivo, le dici pure di volerle bene. - Sai che glielo dico il meno possibile; ma ho bisogno di lei, e non saremmo qui insieme, cara, se non m'avesse dato il danaro che sai. Quei maledetti medici me l'hanno fatta pagar salata la vita. - Quanto t'è rimasto? - Cinquecento fiorini, che sono già in parte sfumati. Bisogna scrivere a Trento alla cassa: ogni parola dolce, un marengo. - Eppure - disse la donna con gli occhi pieni di lagrime - eppure mi pesa. L'uomo se la tirò vicina vicina sul canapè verde, mormorando: - Lagrime non ne voglio. In quel punto il cuore mi si rivoltolò dentro: l'amore era diventato esecrazione. Mi trovai nella strada. Andavo senza sapere dove; mi passavano accanto nella oscurità, urtandomi, gruppi di soldati, barelle, da cui venivano gemiti lunghi o strilli di dolore, qualche cittadino frettoloso, qualche contadino spaurito; nessuno badava a me, che scivolavo lungo i muri delle case ed ero vestita tutta di nero con un fitto velo sul volto. Riescii ad un largo viale piantato di alberi cupi, dove il fiume, corrente alla mia destra, rinfrescava un poco l'aria affannosa. L'acqua si perdeva quasi nelle tenebre; ma non mi venne, neanche per un attimo, la tentazione del suicidio. Era già nato in me, senza ch'io neppure me ne fossi avveduta, un pensiero bieco, ancora indeterminato, ancora annebbiato, il quale m'invadeva adagio adagio l'anima intiera e la mente, il pensiero della vendetta. Avevo offerto tutto a quell'uomo, ero vissuta per lui, senza di lui m'ero sentita morire, con lui ero salita in cielo; ed il suo cuore, i suoi baci egli li dava ad un'altra! La scena a cui avevo assistito, mi si dipingeva tutta dinanzi; vedevo ancora sotto a' miei occhi quelle lascivie. Infame! Corro per lui, superando ogni ostacolo, sprezzando ogni pericolo, gettando nel fango il mio nome: corro ad aiutarlo, corro a confortarlo, e lo trovo sano, più bello che mai e nelle braccia di una donna! E lui, che mi deve tutto, e la sua ganza, calpestano insieme la mia dignità ed il mio affetto e mi scherniscono e mi vituperano. E sono io che pago le loro orgie; e quella donna bionda si vanta, nuda, di essere più bella di me; e lui, lui (m'era serbato questo supremo obbrobrio) la proclama lui stesso più bella! Tante emozioni m'avevano affranto: l'ira, che bolliva dentro di me, aveva messo in tutto il mio corpo una febbre ardente, che mi faceva tremare le gambe. Non sapevo dove fossi; non volevo, né potevo farmi accompagnare da un passante fino all'albergo per chiudermi di nuovo nella carrozza; mi posi a sedere sulla sponda del fiume, fissando gli occhi nel cielo nero. Non trovavo requie; rientrai nelle vie della città; impazzivo; cascavo di fatica; da diciotto ore non avevo mangiato. Mi trovai per caso di contro ad una modesta bottega da caffè, e, dopo avere più volte girato innanzi alla vetrina, parendomi che non ci fosse nessuno, andai a pormi nel canto più lontano e scuro, ordinando qualcosa. Nell'angolo opposto, sdraiati sullo stesso sofà rosso, che circondava la sala vasta, bassa, umida e mezza buia, stavano due militari, fumando e sbadigliando. Poco dopo entrarono due altri ufficiali; un giovinetto, che poteva avere diciannove anni, lungo, smilzo, con i baffetti sottili, ed un uomo sui quaranta, tozzo, pesante, con il muso pavonazzo a bitorzoli ed a bernoccoli, le larghe sopracciglia nere come il carbone e due mustacchi sotto il naso grosso così folti ed irti che parevano setole; aveva in bocca una pipa boema, corta nel cannello, ma enorme nel camino, dalla quale uscivano ampie nubi di fumo, che andavano l'una dopo l'altra ad annerire il soppalco. Il giovinetto andò dritto a salutare gli ufficiali nell'angolo. Sentii che diceva: - Ne ho visti morire quaranta in due ore nella sala delle operazioni sotto i ferri dei chirurghi, i quali buttavano via braccia e gambe come se giuocassero al pallone, e trapanavano e aggiustavano teste ... - Bisognerebbe che aggiustassero quelle dei nostri generali - brontolò il Boemo, ghignando. Nessuno badava a me. Entrò, sola, una ragazza, pareva una crestaia, e si pose a sedere a lato dell'ufficialetto magro, chiedendogli ad alta voce: - Me lo paghi un caffè? Dopo alcuni discorsi, ai quali non posi attenzione, uno dei militari sdraiati disse alla ragazza, senza muoversi: - Sai, Costanza, ho visto il tuo tenente Remigio - Quando? - chiese la femmina. - Oggi. Sono andato da lui. Era insieme con Giustina. La conosci Giustina? - Sì, quella biondona, che ha tre denti rimessi. - Non me ne sono accorto. - Guardala bene. E come sta Remigio? - Qualche doloretto alla gamba, che lo fa guaire ogni tanto, e zoppica un poco, ecco tutto. È stata proprio una malattia provvidenziale quella. Gli altri arrischiano la pelle, si logorano nelle fatiche, nei calori d'inferno, nella fame, in tutte le maledizioni di questa guerra, e lui mangia, beve e sta allegro e trova chi lo mantiene. - Chi vuoi che lo mantenga quel buon mobile? - Una signora. - Una vecchia bavosa. - No, mia cara, una signora bella, giovane e, per giunta, milionaria e contessa e innamorata matta di lui. - E paga le bellezze del tenente? - Gli dà del danaro, e molto. - Povera sciocca! - Remigio la chiama la sua Messalina. Non me ne ha detto il casato, ma mi ha confidato ch'è di Trento e che ha nome Livia. C'è nessuno qui che sia pratico di Trento? L'ufficialetto smilzo disse: - M'informerò io e vi riferirò ogni cosa domani a sera, se saremo a Verona. Contessa Silvia, non è vero? - Contessa Livia, Livia, ricordatelo bene - gridò l'ufficiale sdraiato. Costanza riprese: - Ma Remigio è malato per davvero? - Oh per questo poi sì. Capisci bene che non la si dà a bere a quattro medici: uno del reggimento di Remigio, un altro scelto dal generale in un altro reggimento e due dell'ospedale militare. Ogni tre giorni vanno a visitarlo; palpano la gamba - e picchiano e tirano e lo fanno strillare. Una volta svenne. Ora sta meglio. - Finita la guerra, guarita la gamba insistette la Costanza. - Non lo dite neanche per ischerzo - osservò il secondo ufficiale sdraiato, il quale fino allora non aveva fatto sentir la sua voce. - Sai che per il solo sospetto di un inganno il tenente ed i medici verrebbero fucilati in ventiquattt'ore, l'uno come disertore dal campo di battaglia, gli altri come complici e manutengoli? - E se la meriterebbero, per Dio - esclamò ruggendo il Boemo senza cavarsi la pipa di bocca. L'ufficialetto aggiunse: - Il generale Hauptmann non aspetterebbe neanche ventiquattr'ore. A queste parole l'idea, che già mi stava in nebbia nel cervello, splendette di vivissima luce; avevo trovato, avevo risoluto. - Il generale Hauptmann! - ripetevo tra me. Le vampe, che mi salivano al capo, m'obbligarono a togliere del tutto il velo dalla faccia; bruciavo: chiamai perché mi portassero dell'acqua. Gli ufficiali, che allora s'accorsero di me, mi furono tutti attorno. - O la bella donna! - Ha bisogno di qualcosa? - Vuole un bicchierino di Marsala? - Possiamo tenerle compagnia? - Aspetta qualcuno? - Occhi stupendi! - Labbra da baci! - L'ufficialetto magro mi si era cacciato accanto sul sofà: essendo il più giovane voleva mostrarsi il più ardito. Mi svincolai dalle sue mani e cercai di alzarmi per fuggire, ma due altri mi trattenevano; il Boemo sudicio guardava e fumava. Mi rivolsi a lui gridando: - Signore, sono una gentildonna, m'aiuti e mi accompagni a casa, alla Torre di Londra -. Il Boemo si fece largo, dando degli spintoni di qua e di là e mandando quasi con le gambe all'aria l'ufficialetto novello; poi, duro, serio, mettendo in tasca la pipa, m'offerse il braccio. Uscii con lui. Durante la via, che non era lunga, mi disse poche e rispettose parole. Io gli chiesi chi fosse il generale Hauptmann, dove avesse il suo uffizio e altre notizie, le quali mi premevano per le mie buone ragioni. Seppi come il generale del Comando stesse in Castel San Pietro. Il portone dell'albergo rimaneva spalancato, benché il tocco dopo mezzanotte fosse suonato da un pezzo: c'era un grande andirivieni di militari e di borghesi. Ringraziai l'ufficiale, che puzzava di maledetto tabacco, e m'accomodai alla meglio sui cuscini della mia carrozza, posta in un angolo del cortile. Stracca morta com'ero, m'assopii tosto; ma mi destò in sussulto il picchiare forte di una mano sullo sportello. La voce rauca e volgare del Boemo ripeteva: - Sono io, signora contessa, io che vorrei dirle, col debito ossequio, una sola parola. Abbassai il cristallo, e l'ufficiale mi porse qualcosa: era il mio portamonete, dimenticato sulla tavola della bottega da caffè, mentre stavo per pagare e successe il tafferuglio. Lo avevano trovato e riportato i tre compagni di lui, il quale disse con gravità solenne: - Non manca né una carta, né un soldo. - Ma le carte sono state lette? - e pensavo alla lettera di Remigio, l'unica serbata da me e che non avrei voluto per cosa al mondo vedermi uscire di mano. - No, signora contessa. Sono stati visti i suoi biglietti da visita e il ritratto del tenente Remigio: niente altro, lo dichiaro sul mio onore. La mattina seguente, prima delle nove, mi feci condurre nella mia carrozza al Comando della fortezza. L'erta mi pareva interminabile: gridavo a Giacomo di frustare i cavalli. Una folla di militari d'ogni colore, di feriti, di popolani, ingombrava il piazzale innanzi al Castello; ma giunsi senza ostacoli all'anticamera degli uffizii, dove un vecchio invalido pigliò il mio biglietto da visita. Dopo qualche minuto ritornò, dicendomi che il generale Hauptmann mi pregava di passare nel suo quartiere privato, e che appena sbrigati certi affari urgentissimi, sarebbe venuto a presentarmi il suo omaggio. Fui condotta attraverso logge, corridoi e terrazze in una sala, che dominava dalle tre larghe finestre la città intiera. L'Adige, interrotto da' suoi ponti, si torceva in una S, avente la prima delle sue pancie a' piedi del monticello su cui sorge Castel San Pietro, e la seconda a' piedi di un altro bruno castello merlato; e sorgevano dalle case i culmini e le torri delle vecchie basiliche; e in un largo spazio si vedeva l'ovale enorme dell'Arena antica. Il sole mattutino rallegrava l'abitato ed i colli, e dall'una parte indorava le montagne, dall'altra gettava una luce placida sulla interminabile pianura verde, sparsa di villaggi bianchi, di case, di chiese, di campanili. Entrarono nella sala con fracasso di risa e salti due bimbe, le quali avevano il volto color di rosa e i capelli biondi paglierini. Vedendomi, di primo botto rimasero impacciate, ma poi subito si fecero coraggio e mi vennero accanto. La più grandicella disse: - Signora, s'accomodi. Vuole che vada a chiamare la mamma? - No, fanciulla mia, aspetto il tuo babbo. - Il babbo non l'abbiamo ancora visto stamane. Ha tanto da fare. - Lo voglio vedere io il babbo - gridò la più piccina. - Gli voglio tanto bene io al babbo. In quella entrò il generale, e le bimbe gli corsero incontro, gli si avviticchiarono alle gambe, tentavano di saltargli sulle spalle; egli prendeva l'una e l'alzava e le dava un bacio, poi prendeva l'altra; e le due pazzerelle ridevano, e negli occhi del generale spuntavano due lagrime di tenerezza beate. Si volse a me, dicendo: - Scusi, signora; s'ella ha figliuoli mi compatirà -. Si mise a sedere in faccia a me, e soggiunse: - Conosco di nome il signor conte, e sarei lieto se potessi servire in qualcosa la signora contessa. Feci un cenno al generale perché allontanasse le bambine, ed egli disse loro con voce piena di dolcezza: - Andate, figliuole mie, andate, dobbiamo parlare con la signora. Le bambine fecero un passo verso di me come per darmi un bacio; voltai la testa; se ne andarono finalmente un poco mortificate. - Generale - mormorai - vengo a compiere un dovere di suddita fedele. - La signora contessa è tedesca? - No, sono trentina. - Ah, va bene - esclamò, guardandomi con una cert'aria di stupore e d'impazienza. - Legga - e gli porsi in atto risoluto la lettera di Remigio, quella che avevo ritrovata nel taschino del portamonete. Il generale, dopo avere letto: - Non capisco; la lettera è indirizzata a lei? - Sì, generale. - Dunque l'uomo che scrive è il suo amante. Non risposi. Il generale cavò di tasca un sigaro e lo accese, s'alzò da sedere e si pose a camminare su e giù per la sala; tutt'a un tratto mi si piantò innanzi e, ficcandomi gli occhi in volto, disse: - Dunque, ho fretta, si sbrighi. - La lettera è di Remigio Ruz, luogotenente del terzo reggimento granatieri. - E poi? - La lettera parla chiaro. S'è fatto credere malato, pagando i quattro medici - e aggiunsi con l'accento rapido dell'odio: - È disertore dal campo di battaglia. - Ho inteso. Il tenente era l'amante suo e l'ha piantata. Ella si vendica facendolo fucilare, e insieme con lui facendo fucilare i medici. È vero? - Dei medici non m'importa. Il generale stette un poco meditabondo con le ciglia aggrottate, poi mi stese la lettera, che gli avevo data: - Signora, ci pensi: la delazione è un'infamia e l'opera sua è un assassinio. - Signor generale - esclamai, alzando il viso e guardandolo altera - compia il suo dovere. La sera, verso le nove, un soldato portò all'albergo della Torre di Londra, dove finalmente mi avevano trovato una camera, un biglietto, che diceva così: "Domattina alle quattro e mezzo precise verranno fucilati nel secondo cortile di Castel San Pietro il tenente Remigio Ruz ed il medico del suo reggimento. Questo foglio servirà per assistere alla esecuzione. Il sottoscritto chiede scusa alla signora contessa di non poterle offrire anche lo spettacolo della fucilazione degli altri medici, i quali, per ragioni che qui è inutile riferire, vennero rimandati ad un altro Consiglio di guerra. GENERALE HAUPTMANN". Alle tre e mezzo nella notte buia uscivo a piedi dall'albergo, accompagnata da Giacomo. Al basso del colle di Castel San Pietro gli ordinai che mi lasciasse, e cominciai sola a salire la strada erta; avevo caldo, soffocavo; non volevo togliermi il velo dalla faccia, bensì, sciolti i primi bottoni dell'abito, rivoltai i lembi dello scollo al di dentro; quel po' d'aria sul seno mi faceva respirare meglio. Le stelle impallidivano, si diffondeva intorno un albore giallastro. Seguii de' soldati, che girando il fianco del Castello, entrarono in un cortile chiuso dagli alti e cupi muri di cinta. Vi stavano già schierate due squadre di granatieri, immobili. Nessuno badava a me in quel brulichìo silenzioso di militari e in quelle mezze tenebre. Si sentivano le campane suonare giù nella città, dalla quale salivano mille romori confusi. Cigolò una porta bassa del Castello, e ne uscirono due uomini con le mani legate dietro la schiena; l'uno magro, bruno, camminava innanzi ritto, sicuro, con la fronte alta; l'altro, fiancheggiato da due soldati, che lo reggevano con molta fatica alle ascelle, si strascinava singhiozzando. Non so che cosa seguisse; leggevano, credo; poi udii un gran frastuono, e vidi il giovane bruno cadere, e nello stesso punto mi accorsi che Remigio era nudo fino alla cintura, e quelle braccia, quelle spalle, quel collo, tutte quelle membra, che avevo tanto amato, m'abbagliarono. Mi volò nella fantasia l'immagine del mio amante, quando a Venezia, nella Sirena, pieno di ardore e di gioia, m'aveva stretta per la prima volta fra le sue braccia d'acciaio. Un secondo frastuono mi scosse: sul torace ancora palpitante e bianco più del marmo s'era slanciata una donna bionda, cui schizzavano addosso i zampilli di sangue. Alla vista di quella femmina turpe si ridestò in me tutto lo sdegno, e con lo sdegno la dignità e la forza. Avevo la coscienza del mio diritto, m'avviai per uscire, tranquilla nell'orgoglio di un difficile dovere compiuto. Alla soglia del cancello mi sentii strappare il velo dal volto; mi girai e vidi innanzi a me il grugno sporco dell'ufficiale Boemo. Cavò dalla bocca enorme il cannello della sua pipa, e, avvicinando al mio viso il suo mustacchio, mi sputò sulla guancia ... * * * L'avevo detto io che l'avvocatino Gino sarebbe tornato. Bastò una riga: Venite, faremo la pace perché capitasse a precipizio. Ha piantato quella bamboccia della sua sposa una settimana innanzi al giorno destinato pel matrimonio; e va ripetendo ogni tanto, stringendomi quasi con la vigoria del tenente Remigio: - Livia, sei un angelo!

Racconti 1

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Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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- E continuò a vedere quell'uomo fra un nimbo abbagliante; e, accostandoglisi con la delirante adorazione di donna che amava per la prima volta, le pareva d'elevarsi, materialmente, e non sentiva piú il terreno sotto i piedi. Perciò fu atterrita e sentí crollarsi il mondo addosso la mattina in cui ricevette una lettera di lui - imprudente! ... - che le chiedeva di poterla vedere da vicino, di parlarle; lettera breve, quasi imperiosa col suo carezzante tono di preghiera. - Imprudente! ... - Per fortuna, in quel momento neppure la persona di servizio era in casa. E alla vecchia mendicante, che attendeva la carità e la risposta, restituí la lettera con sotto poche parole tracciate in fretta in fretta: "Impossibile! Se mi amate, non mi scrivete piú!" Lo disse anche a quella donna, mettendole in mano un pugno di monete: - Non venite piú, buona donna. Se mio marito vi vedesse! ... E lo ripeté a lui dalla finestra, coi gesti, supplicandolo trambasciata, piú e piú giorni di seguito. - E insiste! ... E non sa persuadersi! ... - Vuoi dunque che venga io? ... Son deciso ... sí, sí ... E subito ... Comincio a vestirmi. - Ah! N'è capace. Bisogna impedirglielo, a ogni costo! - La forza del terrore le offuscò il cervello, quasi non fosse peggio ancora quel ch'ella stava per fare. Non riusciva a infilarsi le maniche della mantelletta, a annodarsi i nastri del cappellino. - Torno subito - disse alla serva che la guardava meravigliata. - Non dire alla bimba che vo fuori -. Aveva negli occhi il bacio di ringraziamento scoccatole da colui al cenno che gli rispose: - Aspettatemi, vengo io. - E scendendo le scale, ripeteva mentalmente: - No, no! ... - Era andata per romperla, per dirgli ch'era impossibile, per persuaderlo con le preghiere, facendogli capire le difficoltà del proprio stato ... E appena colui la ricevette su l'uscio, prendendola per una mano, sorridente, da persona abituata a simili avventure; e appena si vide in quell'elegante appartamentino da le imposte socchiuse in penombra tentatrice ... gli cadde tra le braccia, senza dir motto, quasi vi fosse andata a posta e per nient'altro! Da qualche mese il marito la osservava, chiuso nel suo silenzio d'itterico, intrigato da quel raggiare d'una seconda giovinezza che le scoppiava dal colorito del viso ridiventato piú fresco, da quel fosforeggiare di lampi mal rattenuti negli occhi ... - Doveva credere a un inatteso mutamento? Il tempo, l'abitudine potevano produrre anche quel miracolo. Perché no? - Invece, ora ritrovava in lei la stessa resistenza che nei primi giorni del loro matrimonio, quando la giovinezza e la novità del legame potevano in qualche modo scusarla; invece scopriva in lei rapidi movimenti d'impazienza, d'alterigia, quasi di ribellione! ... E lo ferirono peggio d'una pugnalata le parole che la bimba disse una sera alla mamma: - Mamma, perché non canti come questa mattina? - Egli non fece un gesto, né batté palpebra; ma vide l'occhiataccia lanciata dalla mamma a la bambina. - Ah! Dunque cantava? ... Dunque cantava? - Tutta la nottata non ruminò altro. E il giorno dopo, mentre i testimoni facevano le loro deposizioni, mentre gli avvocati declamavano dinanzi ai giurati dando colpi di pugno sui tavolini, egli tendeva l'orecchio, col capo rovesciato sulla spalliera della sedia a bracciuoli, gli occhi chiusi, terribilmente pallido nella toga nera; tendeva l'orecchio per afferrare da lontano una nota di quell'insolito cantare di sua moglie nell'assenza di lui: - Perché cantava, ella che non aveva cantato mai! ... - E, in casa, gli occhi grigi gli si scurivano, perduti dietro questa ricerca, quasi avesse voluto trovarne la traccia su pei vecchi mobili, o nell'aria di quelle stanze che doveano certamente saperne qualcosa. Carmelina non gli badava, ingannata dall'apparenza, con la cieca temerità di chi non sa valutare il pericolo e con la fierezza di chi è deliberato, in ogni caso, a sfidarlo. Non voleva riflettere, non voleva ragionare. Il terrore dei primi giorni, quando le pareva che avrebbe visto sprofondarsi il pavimento sotto i piedi se la serva, inavvertitamente, avesse accennato al padrone che la signora era stata fuori; lo sbalordimento di quant'era accaduto quella mattina, senza che la sua volontà vi avesse concorso - anzi! ... anzi! ... - tutto era stato trascinato via dalla piena irrompente della passione che diveniva piú minacciosa di giorno in giorno. Appena un mese dopo, ella garriva il suo amante: - Come? Ora hai paura tu? E mi chiami imprudente? ... - Penso a le conseguenze; uno scandalo, forse un processo! ... - Ella alzava le spalle, irritata che colui riflettesse troppo, mentr'ella avrebbe affrontata anche la morte per venire a trovarlo un momento, per dargli un solo bacio. Invece sentiva domandarsi: - E ... lui, lui non sospetta ancora nulla? - No -. Un giorno, rimettendosi in furia il cappellino, ella gli disse: - Che vita! ... Vedersi soltanto per pochi minuti! ... Se venissi a stare con te, nascosta in quella stanza in fondo dove nessuno potrebbe vedermi? - E tua figlia? ... - aveva risposto l'amante, fissandola per osservare l'effetto delle sue parole. - Mia figlia? ... È figlia di lui! ... Ne avrò un'altra ... tua, sai? - E gli buttò le braccia al collo, senz'accorgersi che l'amante era diventato freddo freddo, e aveva aggrottato le sopracciglia, impensierito. Però il sospetto di qualcosa d'indegno cominciò a turbarla, dopo che i pretesti per evitare le sue visite divennero piú frequenti. Ai rimproveri, egli rispondeva sorridendo con tranquillità d'uomo sazio e annoiato, negando fiaccamente, in maniera da far capire che negava per mera cortesia di persona bene educata ... Un giorno, sul tardi, pochi momenti prima che suo marito rientrasse in casa, ricomparve la vecchia mendicante, con un'altra lettera e per la carità. Anche quella volta la fortuna l'aveva aiutata. Sentendo picchiare all'uscio, era andata ad aprire; la serva trovavasi in cucina. Quella lettera non potuta leggere, cacciata in fondo a la tasca del vestito col cuore abbuiato da terribili presentimenti, era stata una lunga tortura durante il pranzo, per tutta la serata, mentr'ella ricamava e suo marito leggeva un giornale, e la bimba, mezza stesa bocconi sul tavolino, coi capelli scuri che le cascavano dietro gli orecchi, ritagliava un vecchio figurino di mode sotto il lume, accompagnando al movimento delle forbici uguale movimento di labbra. Aveva indugiato fino alla mattina del giorno dopo - fino a che suo marito non andò fuori di casa - masticando il tossico dell'incertezza, tastando di tanto in tanto la busta in fondo alla tasca, quasi avesse potuto, palpando, indovinarne il contenuto. Poi aveva letto febbrilmente, abbracciando con l'occhio due, tre righe in una volta ... e s'era sentita lanciare nel vuoto da immensurabile altezza, giú, giú, giú, in quell'abisso che la lettera le spalancava sotto, abisso senza luce che se la inghiottiva v ivente! Colui aveva detto alla vecchia serva: - Se venisse quella signora ... starò fuori di casa fino a notte. Se volesse aspettare, metti alla finestra il solito segnale, finché non sarà andata via -. E la vecchia aveva messo il segnale. La povera signora aspettava da piú di due ore, ostinandosi, quantunque la vecchia s'affacciasse di tratto in tratto sull'uscio per ripeterle: - Non tornerà prima di notte; mi ha detto cosí. - Sí, sí; aspetterò. Chi sa? Potrebbe tornare anche prima -. E ricascava, abbandonata, nell'angolo di canapé dove s'era buttata arrivando. Si sentiva precipitare tuttavia giú, giú, giú, in fondo all'abisso senza luce; e non aveva altra sensazione. Quella vertigine della testa, del cuore, di tutta la persona, le impediva di pensare, d'accorgersi degli oggetti circostanti, di formarsi un'idea netta del tempo che passava, e dell'enorme pazzia ch'ella commetteva restando là. A intervalli, la nebbia fosca della sua mente veniva solcata da un chiarore; un quadretto dalla cornice dorata, un oggetto di porcellana con una punta di luce viva, un'impugna tura di fioretto appariva su la parete in un canto del salottino, e le spariva sotto gli occhi appena ella tentava fissarli. Soltanto allorché sentí domandarsi: - Vuole che accenda il lume? - soltanto allora si riscosse, atterrita: - Ditegli che ho aspettato finora e che ... non tornerò piú! ... Soffocava. E andò via, ritta su la persona, come fantasma, mentre la vecchia le faceva lume. Cosí montò le scale di casa; e cosí, come fantasma, senza esitare, passò davanti al marito che le aperse e non ebbe la forza di dirle nulla, e richiuse lentamente l'uscio dietro il quale era stato ad attenderla da parecchie ore, bevendo le lagrime che gli irrigavano il viso sconvolto, in agguato per scannarla, com'era suo diritto, come si meritava questa sgualdrina, ora ch'egli sapeva tutto! ... - Oggi la signora ritarda ... - Rientrando, gli era parso d'aver capito male. Il suo istinto geloso s'era subito svegliato: - Oggi? ... - Credevo che il signorino sapesse ... - disse la serva, spaventata dal tono di quella domanda. - So, so: le altre volte però è tornata sempre piú presto ... - Sempre. - Tutti i giorni? ... - Nossignore; una, due volte la settimana. - E ... da quando? ... Da quando? - Ma, se il signorino lo sa ... - Rispondi! Da quando? - Da quattro mesi, forse ... Non ricordo bene ... Oh, vergine santa! - Da quattro mesi! ... Da quattro mesi! Una, due volte la settimana! ... - Ogni esclamazione, era lampo di vivissima luce che gli rischiarava il cervello; era scoppio di fiamme avvolgentisi al corpo che intanto sudava diaccio ... - Da quattro mesí! ... Due, tre volte la settimana! ... - E i minuti passavano, e i quarti d'ora passavano, via via, sul quadrante dell'orologio a pendolo dov'egli teneva fissi gli occhi; e le ore squillavano pel salotto lentamente nell'attesa mortale, quasi annunziassero un'immensa catastrofe! ... - Meglio per lei, se il mondo finisse prima di rimettere il piede in casa, in questa casa insozzata dalla sua infame persona! ... Ecco perché rifioriva! ... Ecco perché cantava! ... E la gelosia non mi ha servito a niente! ... Balordo! Balordo! - E i minuti passavano, eterni come quarti d'ora! E passavano, via via, gl'interminabili quarti d'ora che sembravano secoli! La serva aveva sentito suonare con violenza ... - Prendi il tuo fagotto ed esci da questa casa, subito, subito, ruffiana! - Vergine santa! Che dite mai, signorino! - Esci! Esci, ruffiana! - E spintala con un urtone fuori dell'uscio, facendole sbalzare in terra il fagotto, aspettò. S'aggirava dietro l'uscio, simile a tigre pronta a slanciarsi, assetato del sangue della infame. La bimba, accorsa con la serva, non avendo mai visto il babbo cosí infuriato, era andata a rincantucciarsi nel salotto, impaurita; e, poco dopo, s'era addormentata su la seggiola, con le gambette spenzolanti e la testina cascata sul petto. Carmelina la guardò, ebete; e sbarazzatasi convulsamente dello scialle e del cappellino, si rovesciò su la poltrona. Gli orecchi le rintronavano d'un sinistro rumore di case crollanti. - Dove sei stata? Dove sei stata? ... - Alla stretta di quelle mani piú fredde e piú forti dell'acciaio e che le stritolavano i polsi, ella cacciò un grido: - Ammazzatemi! ... Avete ragione! ... Ammazzatemi! - E fissava con avida angoscia qualcosa che gli aveva visto luccicare fra lo sparato del panciotto. Le tardava di morire. Per che doveva piú vivere? Ma colui si strappava i capelli, ma colui le si rotolava ai piedi, mugolando il nome di lei. E quand'ella credette alfine che le si slanciava addosso per ucciderla, si sentí brancicare, amorosamente, su i capelli, su la faccia, per tutta la persona; e si sentí furiosamente baciare e ribaciare, fra singhiozzi e lagrime irrompenti, quas'egli avesse voluto riprendere quel che gli era stato rubato: la sua vita, il suo sole, la sua donna adorata! - Come hai potuto, infame? ... Come hai potuto? ... - Non lo so ... Non lo so ... - Alle incalzanti domande ripeteva sempre: - Non lo so ... - Ma pensava a quello sguardo diaccio diaccio, di persona malefica, incontrato per le scale della sua casa, a Catanzaro. A un tratto Lupi si rizzò in piedi: - Lisa, Lisa! - La bimba, riscossa piú dall'urto del braccio che da la voce soffocata del babbo, spalancò gli occhi e saltò giú mal desta, lasciandosi trascinare. In quel punto l'istinto della vita scattò nel seno della madre disgraziata, quasi voce che gridava aiuto dalle viscere sussultanti; e vedendo il marito che trascinava quell'altra creatura, dicendo con voce cavernosa: - Guarda; dovrai ricordartene; guarda! - gli si levò incontro, tendendo le braccia supplicanti. - Per quest'innocente che ho nel seno! La bimba vide luccicare una lama e poi sua madre ripiombare, stravolgendo gli occhi fino al bianco ... - Mamma! Mamma! - gridò senza comprendere niente in quel momento. Mineo, 10@ 10 novembre 1883@. 1883.

ARABELLA

663072
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Non ben desto gli parve di vedere la signora Arabella attingere dell'acqua a una fontana che scaturiva lì presso, nella luce abbagliante d'una lucerna, e curvarsi verso di lui a refrigerargli la bocca e la fronte abbruciata. Capì ch'eran sogni di febbre e voltò il capo con espressione dolente, chiudendo di nuovo gli occhi. "È meno arso di stamattina" disse sottovoce la donna. "L'occhio lo trovo limpido." "Ora non delira più, ma ieri faceva pietà. Ha nominato anche lei." "Povero giovane!" "Vuol scrivere? sul tavolino c'è tutto. Non guardi il disordine. Sono i libri di questo figliuolo che, quando può, ama leggere e scrivere. Fa qualche volta anche dei sonetti che il padre Barca trova mica male. Io mi accomodo nella stretta e appoggio un poco la testa ai piedi del letto." La Colomba collocò la lucernetta sulla scrivania, tirò davanti un vecchio paravento per togliere la luce dagli occhi del malato e andò a sedersi su un cuscino in terra per poter appoggiare la testa piena di sonno e di dolori al materasso. Arabella, segregata tra le finestra e il muro, si tolse il mantello dalle spalle, collocò il berretto sul tavolino, e scelto un foglio tra quelli ch'erano sparsi tra i libri, cominciò a scrivere d'impeto: "Caro zio Demetrio, la sua povera Arabella, dopo aver inutilmente sperato nell'aiuto di Dio, non ha altri a chi ricorrere che al suo buon zio, che fu sempre per lei come un padre. Immagini in quale abisso io son caduta da queste parole: ho abbandonata stasera la casa di mio marito, disposta a morir di fame piuttosto che ritornarvi. Ho schiaffeggiata una donna... O mio caro zio, lei conosce quasi giorno per giorno la mia vita, i miei sentimenti, la mia religione, la mia forza di resistenza al male e all'ingiustizia: quindi non ho bisogno di dimostrarle che se ho potuto venire a questa risoluzione, è proprio perché non ne posso più, non ne posso più. Avrei a scrivere troppo se soltanto accennassi alle vicende dolorose che mi hanno condotta a poco a poco a questo passo. Mi hanno strappato alla mia vocazione, hanno fatto di me una specie di cambiale che doveva riparare a un disastro di famiglia: mi hanno circondata di un fasto senza amore; e quando cominciavo a vivere de' miei affetti di madre, hanno insultato me e la mia creatura per odio al nome che porto; ora che mi pareva di aver tutto perdonato mi insultano nella più sacra mia dignità di donna, mescolandomi ad avventure di trivio... "Io mi domando se non ho insultato anch'io al mio dovere, credendo che il dovere di una donna onesta possa arrivare fin qui. Questa non è vita, è una condanna che sento di non meritare. Dovessi lavorare venti ore al giorno, logorarmi gli occhi e le mani per un boccon di pane, sarà sempre una condizione più degna di questa quiescenza e quasi complicità a un sistema di cose che viola ogni legge di onestà, di delicatezza, di rispetto. "Immagino il suo stupore, povero zio, nel leggere queste parole. Ella chiederà se io impazzisca; non crederà possibile che la sua Arabella osi scrivere a questo modo. Si meraviglierà anche perché io non le ho scritto mai nulla di questo stato di cose e che aspetti a gridare aiuto quando l'acqua mi arriva alla gola. Sì, è vero: non ho osato prima di quest'oggi dolermi con nessuno e invocare l'aiuto di nessuno, perché ho sempre creduto che avrei vinta da sola l'iniquità della mia sorte; perché non volevo coi miei lamenti accusare la buona fede di nessuno; perché speravo ancora nell'aiuto di Dio e, superba come sono, speravo nella forza del bene. Dio forse mi punisce, o almeno mi abbandona. Il male è più forte del bene nel mondo, dove, per un cuore che si sacrifica in olocausto sull'altare della virtù, cento egoismi vigliacchi e potenti trionfano incoronati della loro sfrontatezza. Il bene è un sole luminoso ma troppo in alto, mentre di male è seminata la terra che non dà altro frutto e di questo bisogna mangiare per vivere. Mentre scrivo colla febbre indosso, mi pare che anche l'inchiostro abbia color di fango. Zio, o io sono per impazzire o sono molto malata. Non frapponga indugio: venga, non mi lasci naufragare in quest'oceano di amarezze... intendo di chiedere la separazione legale, subito, senza esitazioni, senza restrizioni. Intendo restituire a quella gente tutto ciò che potrò restituire e di partirmene più povera di prima. Nessuno compenserà il male che questa gente mi ha fatto, ma io perdonerò tutto, se ciò può muovere la misericordia di Dio ad aver compassione di me. La fede non basta, lei forse lo sa, che ha sofferto anche lei la sua parte nel mondo. Sopraggiungono pensieri che per poco non spingono alla disperazione. Venga subito a Milano, mio buon zio, e faccia valere per partir subito, la ragione che una sua povera nipote è sull'orlo del sepolcro. Più malata di me non si può essere e la morte dev'essere una cosa ben terribile, se per morire si deve soffrire di più. Mi telegrafi il suo arrivo qui a Milano in casa..." La mano fu arrestata nella ricerca d'un indirizzo. Arabella alzò la testa, come se si svegliasse da un lungo sonno, si guardò intorno con occhio smarrito, impaurendosi di trovarsi a un tratto sola, in casa altrui, di notte, ospite di gente quasi sconosciuta. Che cosa era venuta a fare in questa casa non sua? La Colomba, rotta dalla fatica, s'era addormentata col capo appoggiato al letto. Il suo respiro lungo e oppresso era l'unico rumore che rompesse il gelido silenzio della stanza, mentre di fuori la furia d'un vento primaverile faceva stormir la pianta. Qualche stella scintillava sul nero sfondo dei vetri. Sentì sonare alcune ore che il vento portò via senza lasciarle contare. Coi gomiti appoggiati al tavolino, reggendo la testa coi palmi, rabbrividendo ai soffi freddi che entravan per le fessure, Arabella si abbandonò alla vertigine de' suoi pensieri, che la travolsero di ombra in ombra fino all'orlo di un assopimento che ha del sonno tutti i fantasmi ma non l'oblio. E poiché tutti i dolori si conoscono tra loro, il suo patimento presente la menò a risentire le angoscie provate al letto del povero Bertino, a confondere nel rilassamento delle sensazioni se stessa col povero piccino agonizzante, a compassionare se stessa in lui, a combattere confusamente contro la morte, che voleva portarsi via il caro biondino. Rivide lo squallore delle Cascine, lo smarrimento della sua povera mamma divenuta vecchia vecchia. E allora cercava di dimostrarle che il malato non era il bimbo, ma un'altra creatura, che perdeva la vita col sangue negli spasimi mortali di un aborto: finché sopraggiungeva anche lo zio Demetrio a fare un discorso lungo e confuso sul conto del signor Tognino... Si risvegliò a una voce che chiamava lì presso. In principio credette che fosse ancora lo zio Demetrio, ma quando riconobbe il luogo, la scrivania, la lettera rimasta tronca, capì che aveva fatto un sogno. "Ho sete..." ripeté ancora la voce di poco prima, La Colomba dormiva pesantemente sdraiata sul tappetino. Arabella, riconosciuta la voce del malato, si alzò, pose la lucernetta sul cassettone e si mosse a dargli da bere. Ferruccio s'era un poco levato sul cuscino per togliersi il sacchetto del ghiaccio, che gli scivolava dietro il collo. Vedendo venire verso di lui la signora Arabella, socchiuse gli occhi e dondolò un poco la testa, come chi si accorge di vaneggiare sempre e mostra di compiangere se stesso. Arabella versò dell'acqua nella tazza e l'accostò alla bocca del malato, che riaprì gli occhi e bevette quasi fino al fondo. "Come si sente?" Il giovine fissò gli occhi in faccia alla sua visione e interrogò ancora una volta colla pupilla immobile: "È proprio lei?" balbettò. "Vuol bere ancora?" "No, no..." disse Ferruccio, senza mai distaccare gli occhi dalla sua visione. "Vuol ancora il ghiaccio sulla testa?" "No, no..." e allungò la mano per prendere quella del suo fantasma. Sentì veramente una mano viva e calda. E, come se da quel calore irradiasse la vita, la faccia dell'infermo arrossì, la pupilla si illuminò, e dopo aver chiusi gli occhi per sottrarsi a un acuto tormento, li riaprì velati di lagrime. "Perché è qui?" interrogò sommessamente. "Lo saprà: ora stia tranquillo e lasci riposare la povera zia." Ferruccio si tirò sotto obbediente. Non era ben sicuro che non fosse un sogno. Cominciò ad albeggiare. Il cielo prese a schiarirsi dietro i ricami del castagno amaro, in cui svegliavasi il bisbiglio degli uccelli. La lucernetta non avendo più olio, Arabella la portò in cucina e la spense: poi ritornò nello stanzino, coprì le spalle col dolman, si rannicchiò di nuovo davanti alla scrivania, la faccia nelle mani, tutta raccapricciante nei brividi mattutini, mezza istupidita dal sonno e dalle emozioni. A San Barnaba suonò l'avemaria, e ad ogni rintocco della campanella il cielo seguitò a schiarirsi, come se obbedisse ad un comando, finché una pennellata di carminio venne ad illuminare i comignoli e le gronde dei tetti. Il vento, spazzate le nuvole, aveva preparata una splendida giornata alle miserie umane. Ferruccio raccolse l'armonia di quel risveglio e cercò inutilmente intorno a sé la dolce immagine, che era venuta a porgere ristoro alle sue fauci infocate. Vide invece la zia Colomba, che, riscossa dal suono della campana, saltava in piedi tutta agitata. "Hai dormito?" "Sì." "Tu sei più fresco, mio cuore. Ho dormito anch'io un pezzo." Ferruccio si persuase ch'egli aveva proprio sognata la dolce consolatrice e sospirò. La zia Colomba nel suo dormire fitto e pesante aveva dimenticata interamente la povera creatura che era venuta a cercare ospitalità in casa sua e fu per trasalire di paura, quando vide un corpo mezzo abbandonato sul tavolino nella luce crepuscolare. Si accostò, posò la mano sulla testina fredda, e presa da quell'impeto di carità umana, che nel cuore della povera gente non è ancora guasto dalle definizioni, si abbassò su quel corpo irrigidito, strinse la testina nelle mani, vi accostò il viso per riscaldarla e seguendo i suggerimenti della buona madre natura, prese a dire sommessamente: "O la mia povera figliuola, o il mio caro angelo, che ho abbandonato qui solo a patire. O il mio povero faccino freddo, le mie povere manine... Il sonno ha tradito anche me..." A questa voce che la compassionava, come se in lei si spezzasse un edificio di ghiaccio che l'aveva sorretta nella sua rigida lotta contro gli uomini, nella debolezza in cui è sempre la coscienza mescolata alle ombre dei sogni, Arabella fu presa da un tal delirio di pianto, che una bambina schiacciata dalle ruote di un carro non avrebbe potuto gridare di più. Quel gran mucchio di mali, che da otto mesi era andato accumulandosi a fuscellini, divampava in una fiammata. Oh avete un bel dire che la donna è nata pel sacrificio, che può colla grazia e colla sua forza morale vincere e abbellire la tristezza d'ogni destino, assurgere al disopra del fango che la circonda, compiere anche in mezzo alle abbiezioni la sua missione d'amore e di pazienza! Avete un bel dire che a lei la fede è sostegno incrollabile: non è vero. La donna ha bisogno d'amare e d'essere amata, come il fiore ha bisogno d'aria e di luce. Quando la violenza delle cose, la debolezza dei giusti, la tirannia dei tristi costringono una debole creatura a respirare aria corrotta, e voi non date a una povera donna che amarezze, oltraggi e fango, null'altro che fango, lasciate almeno che essa gridi del male che le fate... Coi pugni dentro i capelli scarmigliati dalla veglia, Arabella Pianelli gridava veramente in un pianto lamentoso senza lagrime, dilaniata dalla coscienza del suo stato, avvilita dopo una notte di falsa e morbosa resistenza, assiderata dal freddo della febbre e della notte. "Non così, non così la mia creatura...." prese a dirle all'orecchio la Colomba, serrandola alla vita colle braccia e posando la sua testa grigia sui capelli morbidi e biondi della tribolata. "Non così, per amor di Dio. Ciò può far male anche a questo figliuolo malato. Crede che non ci sia un Signore anche per noi? Io capisco e compatisco, angeli custodi, ma non bisogna mai disperare della Provvidenza. Questo è un piangere che rompe il cuore e del nostro cuore dobbiamo rendere conto come di un vasetto d'oro che Dio ci ha dato in custodia. Ti hanno maltrattata, il mio angelo; ti hanno venduto, avvilito, insultato nel tuo sentimento di sposa e di madre, e so che certi mali fan perdere la testa. Tu non hai meritato questi castighi, è vero; ma sappiamo noi se non soffriamo per il bene di qualcuno? Nostro Signore aveva meritata la sua passione? E tante povere mamme che non han da dare da mangiare ai loro figliuoli, meritano di soffrir tanto? Noi non sappiamo nulla dei misteri del mondo, cara Arabella; ma dobbiamo tener dacconto il nostro cuore, perché gli è come il tabernacolo del Santissimo. Se non ci vorranno bene gli uomini, ci vorranno bene gli angeli, ma noi dobbiamo aver sempre pronto il cuore a ricevere il bene che ci vorranno dare o presto o tardi. Su dunque, alza la testa, mio caro angiolo, e vieni fuori con me, un momento. C'è qui la chiesa vicina: noi abbiamo bisogno di essere aiutate a patire..." La Colomba ricondusse la figliuola di nuovo nell'altra stanza. Le ravviò un poco le vesti; fece un po' di fuoco ancora e versò quel resto di caffè che era rimasto in fondo al bricco. La persuase a non mandare per ora la lettera allo zio Demetrio e a cercar invece di quella sua amica di collegio, l'Arundelli, a cui poteva confidare il suo segreto. Meglio di tutto poi sarebbe stato di andare alle Cascine in cerca della mamma. La mamma è il miglior dottore per certi mali...

Demetrio Pianelli

663147
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Le belle campane della badia annunciano ai popoli il lieto avvenimento e mettono una nota allegra nell'aria fredda ed abbagliante delle campagne coperte di neve. Non manca un raggio di sole sul celebre campanile, che torreggia dignitosamente coi suoi archi bruni, colle sue colonnine, colla sua svelta piramide, sotto un pittoresco cappuccio bianco. Arrivano tre o quattro carrozze, in mezzo a un rumoroso tintinnare di campanelli, tra gli evviva dei ragazzi e gli spari dei fucili da caccia. La buona Carolina, che non sa covare risentimenti, finisce di dare l'ultimo tocco ai capelli della sposa, mentre l'Elisa, fatta venire apposta da Milano, aggiusta le pieghe del vestito. I maschietti Mario e Naldo, vestiti come sposini essi pure, saltano, gridano cogli altri ragazzi sotto il portichetto. Dalle Cascine sono accorse tutte le ragazze curiose che hanno potuto scappar via, e fanno colle vecchie spettinate una siepe, un muro di gente innanzi alla casa. Beatrice sente che gli occhi le si gonfiano di pianto. In certi momenti le par di sognare, in certi altri le tornano in mente le circostanze che accompagnarono il suo primo matrimonio, e a volte non sa distinguere tra adesso e allora. Lo stesso chiasso, lo stesso tintinnare di campanelli, e sopra ogni altro rumore la stessa voce stridente del babbo, che predica, che ride, che comanda. Ogni momento le pare di vedere il suo Cesarino spuntare in cima alla scala, bello, elegante, nell'abito fresco, col cravattino bianco ... Asciugati gli occhi e ricomposto l'animo, pallida e ancora palpitante, scende, passa tra una doppia fila di persone, che gridano: "Viva la sposa!" Le ragazze curiose, le vecchie spettinate, i vecchi massai, che stanno sulla porta, fanno ressa, sporgono il capo, e, congiungendo le mani in orazione, esclamano con la sincera ammirazione della povera gente: " Gesus, se l'è bèla! " Le carrozze partono tutte insieme verso la chiesa. Solamente Arabella, indugiando sulla scala, s'è fermata a casa. Ritta dietro i vetri della finestra, essa stende il suo sguardo molle e afflitto sulla pianura tutta coperta di neve, pensa ai morti, pensa ai lontani e riempie l'avvenire colle ombre del suo passato.

Giacomo l'idealista

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Socchiuse anch'essa gli occhi un istante per non vedere questa abbagliante seduzione di una virtú, che si eleva fino alla divina aristocrazia della bontà e del sacrificio, e ricompensò la carità della giovine collo stringerle a lungo la mano ardente tra le sue mani inguantate, come se volesse con quel lungo contatto comunicarle la sua tenerezza, e farle sentire con quell'atto materno tutta la forza di una promessa che non aveva parole per parlare. Col cuore immiserito, cogli occhi immobili verso le siepi, donna Cristina cercò di asciugare, con un battere frequente delle palpebre nell'aria viva, il velo di lagrime che le coprí le pupille. Un dolore crudele e duro la strozzava alla gola e al petto. Un quarto d'ora dopo, Giosuè arrestò i cavalli sopra un piazzaletto erboso ombreggiato da antichi platani, che stava davanti alla vecchia chiesa della Madonnina. Il Rebecchino venne ad aprire la portiera. - Siete qui? - chiese la contessa - chi c'è? - Donna Adelasia aspetta in chiesa. La contessa andò avanti, e aspettò Celestina sulla porta. Entrarono nella chiesetta tutta parata a festoncini bianchi, azzurri, con frangie d'oro, mentre un prete stava celebrando la messa davanti a molte donnicciole. Donna Adelasia dal suo banco riservato fece un segno, e si ritirò per lasciar loro il posto sulla predella. Celestina si trovò in mezzo alle due signore nel momento che le quattro monache del coro intonavano un'orazione flebile e lamentevole, su cui la voce grossa del prete correva col rumore d'un carro incorsa. Celestina girò gli occhi intorno e si sentí una gran voglia di gridare. Che avevano fatto di lei? che luogo era questo? che cosa dicevano queste voci lamentose? La contessa, che in questo supremo istante non cessava mai dal sorvegliarla, volle che sedesse e le passò con una soave carezza una mano sui capelli. E quando sonò il campanello dell'elevazione la signora e la cameriera, inginocchiate sulla stessa predella, accostarono la testa a pregare insieme fervorosamente. Quindi donna Cristina le disse piano: - Non voglio far pensare male a casa. Ti lascio con donna Adelasia. Verrò a trovarti presto, appena gli avrò parlato. Coraggio e fiducia nel Signore . Celestina strinse con la mano convulsa e irritata un lembo del vestito della contessa, e, fissandola con occhio spaventato, la supplicò di restare ancora. La signora aspettò ancora un istante: e quando donna Adelasia voltò il viso dalla sua parte, le fece capire che il momento doloroso era venuto. La vecchia dama circondò col braccio la vita della giovine, come se l'invitasse a ripetere una preghiera, e lasciò in tal modo alla contessa agio di sciogliere il vestito dalle dita tenaci. Il corpo di Celestina quasi si sfasciò sul banco. Donna Cristina uscí dal tiepore e dalla religiosa penombra della chiesuola nell'aria cruda e viva, fece un segno quasi marziale col guanto a Giosuè, che si accostò alla carrozza. Essa vi entrò, il Rebecchino chiuse la portiera e i cavalli partirono a corsa. L'emozione, acerba come un rimorso, le impediva di piangere, e gli occhi, quanto fu lungo il viaggio, restarono immobili in una stupefazione insensibile, coperti di un velo di lagrime cristallizzate.

UNA SERENATA AI MORTI

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Faldella, Giovanni 1 occorrenze

Eppure in altri tempi s'era fatta anche la guerra al gaz, che si trovava anch'esso troppo abbagliante... Ma, guarda, moglie mia, come si può leggere magnificamente un giornale!... No, per carità! non leggere niente, ché sarebbe un insulto alla tua qualità di sindachessa ammodo... - Sai, che cosa dovremmo fare, mio caro Pino? Raccogliere e poi depositare una collezione di questi giornali nell'archivio municipale di Monticella... I nostri posteri non vorranno credere, che persone pulite e di garbo abbiano esercitato così pubblicamente il lenocinio, in buona fede, sicuro, quel che è peggio, in buona fede. Quando si vive continuamente in un mondo artificiale, si desina ogni giorno alla trattoria, e non si parla con altre donne fuorché con la fioraia, con la guantaia, con la padrona di casa, con la mercantessa di sedie al teatro e ai giardini pubblici, e con le abitatrici delle sedie limitrofe, si perde ogni sentore di famiglia; e la si schernisce, la si distrugge, senza farlo apposta, anzi senza accorgersi... La comitiva si fermò davanti la bacheca di un libraio. La signora Geromino loda la felice scioltezza dei titoli; per esempio Giornale di un giornalista... Pino Goldi la interrompe per gridare: - Per Dio! Fiori di Bitume... Avevamo già i Fiori del male, che erano un passo molto innanzi sui Fioretti di S. Francesco. Fra qualche mese mi aspetto un libro di poesie intitolato Fiori di Water?closet... A proposito, Geromino, mio signor sindaco, non ti pare che qui il popolo... delle insegne pecchi di anglomania o di tedescomania, come da noi si pecca di gallomania? Qui i cabinets... intimi ed idraulici si chiamano Water?closets; un bicchiere di birra bock; i biglietti d'ingresso alla Esposizione tickets... Che ne dici, signor avvocato, filosofo mio?... - Io ti dico e ti insegno, Pino discepolo mio, che una parola, la quale abbia nella sua lingua una significazione generale, trasportata poi in una lingua straniera acquista il vantaggio di esibire la ricchezza di una significazione speciale. Così wagon in inglese vuol dire semplicemente e genericamente carro; e vagone, fatto italiano, vuol dire il carrozzone speciale dei treni della strada ferrata. - Quanto si impara per istrada, - disse con ostentazione adulatoria il Goldi - quando si ha il benefizio di aver in compagnia un filosofo peripatetico della tua forza! - Si impara anche questa conferma stradale che i parigini sacrificano ogni sentimento al contegno delle forme - soggiunse la signora Angelica Geromino. - Ti ricordi, sindaco! quando il cappellano-fattore?segretario del marchese di Monticella nel fare stampare la lettera di morte della signora marchesa ci mise dentro: "L'illustrissimo marchese ecc. HA L'ONORE di partecipare a V. S. l'irreparabile perdita..."? Il marchese, avvertito dagli amici, andò in collera; e l'onore posto in vece del dolore negli annunzi di morte divenne nel nostro paese una baia proverbiale, con cui i proprietari si consolano malamente del rammarico di aver perduto una vitella. Invece qui a Parigi l'onore pel dolore nella morte dei più cari sembra una cosa naturale... Infatti si era davanti un gran negozio di pompe funebri che annunziava all'ingrosso e al minuto: - Convogli mortuari, interramenti, medici necroscopici, servizi religiosi, lettere di partecipazione filettate di nero ed altre imprese e merci dello stesso colore... frangiate di giallo e bianco. E la signora Geromino lesse forte il modello d'una lettera di annunzio mortuario, che campeggiava nel bel mezzo di quella bottega di Caronte: - La signora Emilia..., religiosa del Sacro Cuore, e la signora Hoenig nata ecc., ONT L'HONNEUR de vous fair part de la perte, qu'ils viennent de faire en la personne etc. - Il gran Galateo delle forme pubbliche - riprese Geromino - si rivela sopratutto negli avvisi delle autorità costituite. Degnatevi di ammirare quest'Ordonnance concernant les chiens. Nous Prefet de Police etc. Vu la loi etc... Sembra che il senatore, prefetto di polizia, si sia messo i guanti per discorrere coi cani e dica loro: "Favorite di portare la museruola; se no, i nostri ufficiali, gli accalappiacani, vi pigliano e vi ammazzano, S'il vous plait...". Ah! io non faccio tanti complimenti ai signori cani di Monticella. Oh! niuna pubblicazione all'Albo Pretorio! Comando semplicemente ai miei sparafucili, guardie campestri: "Uccidetemi quel cane irregolare e infesto...". E di lì a mezz'ora il cane proscritto ha terminato di far male... Un'altra nota della letteratura parigina, ambulante, spicciola, giornaliera, sia essa parlata o sia scritta, si è la disinvoltura nelle inesattezze, a cui il parigino si abbandona per semplice estro di frivolezza e di burla o per scopo di tirar gente. Non fu raro il caso, che sull'imperiale dell'omnibus un parigino, conoscendo il nostro sindaco per forestiero, lo abbia toccato nel gomito con un gesto di carità fraterna e gli abbia indicato il maresciallo Mac- Mahon, che passava. Anzi Geromino assicura che gli additarono sette Mac?Mahon di fisionomia affatto diversa, ed invano il segretario volle spiegare l'arcano al suo superiore, dicendogli che una volta sarà stato l'eroe di Magenta, un'altra volta il Mac?Mahon delle batoste del 1870, a cui il popolazzo parigino in quei giorni perigliosi voleva imporre le orecchie d'asino; una terza volta il debellatore della Comune, una quarta l'uomo del 16 maggio, una quinta il presidente dal dilemma cornuto di Gambetta: dimettersi o sottomettersi; una sesta il presidente in voce di pigliarsi ambedue le corna, oltre la intimazione di Gambetta, cioè in voce di dimettersi, dopo di essersi sottomesso; una settima il possibile presidente destituito dalle vicine elezioni senatoriali. Nello stesso modo facile, con cui i parigini danno ad intendere personalmente a Geromino un uomo per un altro, e una via per l'altra, essi non hanno, come disse con un arcaismo il povero sindaco, essi non hanno alcun respitto nel litografare e nel vendere un album delle facciate delle Nazioni all'Esposizione, facciate, fors'anche migliori, ma affatto diverse da quelle che esistono in realtà. Alcuni grandi magazzini o semplici negozi regalano ai loro avventori e anche a chi non compra niente, una pianta di Parigi e dell'Esposizione. Or bene Geromino verificò, che in una pianta dell'Esposizione il Campo di Marte era capovolto rimpetto al Trocadero, e ciò per poter collocare meglio negli angoli del disegno la raccomandazione dell'Acqua di Melissa o della broda Boudier o della sartoria Voltaire, che per 21 lira dà un vestiario completo, oltre al ritratto dell'autore dell'Enriade. Nella pianta di Parigi poi isoleggia, fuori di ogni squadro, il magazzino, che l'ha fatta stampare; cosicché ad un forestiere meno ingenuo di Geromino parrebbe che il negozio, di cui si tratta, fosse cosa più notevole e più grande del Louvre, delle Tuileries, del Lussemburgo, della Maddalena, del Pantheon e degli Invalidi riuniti insieme. A un certo punto la nostra brigata, passando davanti a un padiglione illuminato a vetri colorati, fu tutta intagliata dalla proiezione degli annunzi. La signora Giacomina aveva sulle spalle la raccomandazione di un romanzo; il sindaco aveva nella faccia il disegno di un cappello; il segretario era attraversato da un Gran Ristorante; e la signora Clitennestra portava sul naso la strombazzata della Compagnia Nazionale del lucido da scarpe francese. Eglino erano diventati tante caricature di Cham, e come se ciò non bastasse, di sopra li percotevano alcuni paroloni di gaz illuminante da disgradarne Ottino, che predicavano le extra ultime mantiglie al primo piano; l'asfalto si spingeva, sotto i loro piedi, a cantare in lettere bianche le pantofole più morbide dell'universo, e i tavolini da caffè loro sorridevano mosaici di avvisi benevoli e stuzzicanti. Da quella ridda di reclami, i nostri quattro viaggiatori si involarono, riparandosi nella loro umile casetta di rue du Bac, mobile come un vecchio armadio in riparazione davanti la bottega di un falegname. Goldi disse a Geromino: - Ho fatto incetta qui di parecchi giornali scostumati; ma prima di leggerli rinserriamo le nostre consorti nei loro appartamenti. Certi giornali non potrebbe leggerli neppure... mia moglie. Quando fu ben sicuro, che il gentil sesso era rientrato nelle sue tende, il segretario, con il più buffo secretume da Consiglio dei Dieci, offerse un fascio di giornali alla lettura del suo sindaco. Questi, dopo averli esaminati, stette un po' pensieroso e poi ragionò: - Una volta la letteratura francese commetteva qualsiasi bricconata con buon gusto; tanto è vero che il maledico Heine poteva scrivere di Victor Hugo, che questi godeva appunto di una fama singolare, perché egli era l'unico che sconfinasse dal buon gusto fra i suoi connazionali. Ora invece la bricconata letteraria francese viene fuori con la frase più tecnica e più brutale. In questo giornaletto c'è una lettera di uno zio padrino alla nipote Giovannina cucitrice di nero a Montmartre, per i casi occorsile, onde ebbe origine un trovatello, ed è una lettera di cui si potrebbe tradurre il senso ma non la parola cinica. E questa poesia? La vita di un Gaudente, Ninna Nanna. "Quattro anni per dire mamma e papà, amare gli zuccherini, le immagini, e farcela addosso, è la gran bella età! - Dieci anni! per andare in collegio, intraprendere un tirocinio, è la gran bella età! - Diciotto, vent'anni! - Per fare all'amore, per diteggiare i vaghi corsetti, i giocondi visini, le gambe fatte al tornio, ecc.". Per un tratto non si può più continuare nella traduzione in prosa... "Cinquant'anni! Per essere scornato e ricevere un calcio nel sedere dall'uomo che vi disonora. È la gran bella età! - Sessant'anni. - Per crepare di quattrini, divenire un personaggio immondo, gesuita, putrido, classe dirigente, è la gran bella età! - Ottant'anni! Per essere completamente imbecille, avere la testa che dondola, e farsela nuovamente addosso, è la gran bella età...". - A me quello che piace di più è il seguente avviso - interruppe Goldi prendendo il giornale di mano al sindaco. - La comparsa del libro di Paolo Makalin, LE LEGGIADRE ATTRICI DI PARIGI, ha testè suggerito ad uno dei nostri più avveduti uomini di finanza il proposito di fondare una società in accomandita per l'estrazione del mercurio dai corpi di ballo e simili... - Questo è niente - rispose Geromino: - è il n. 11, anno I, di un giornale che morrà presto, come un fungo... il grido di disperazione corbellatrice degli ingegni abortiti o disgraziati e delle vocazioni spostate, che si incollano confondendosi in questo oceano di glutine parigino, dove nella calca mostruosa l'individuo è isolato, e il parroco smesso può fare senza rossore il vetturino, e l'avvocato e l'ingegnere, in mancanza di meglio, possono adattarsi tranquillamente a fare il cameriere d'albergo. Direi che c'è qualche cosa di nobile e di positivo, di forte, o per parlare più difficile, c'è qualche sentore d'aurora, d'ideale e di avvenire in questo orribile muoversi dei diseredati e dei calpestati, che mordono le calcagna a coloro che passano di sopra... Ma io trovo molto più lercio e più rivoltante il linguaggio di alcuni fra gli ingegni riusciti costituiti e dominanti. Prendiamo questo giornale illustrato, che ha sedici anni di vita fiorente, è l'organo della gente ammodo, è pieno di brio, di arguzia e di utilità pratica, e in una pagina sola di disegni ci fornisce un mondo di storia vera, istruttiva e divertente, la storia di una famiglia nobile dalle Crociate alla Esposizione dei formaggi. Orbene vediamo in quale prosa casca questo ammirabile giornale. Ecco qui a pag. 462: Consigli pratici ai forestieri. Ci descrive i quartieri delle disgraziate creature che pigliano addirittura il nome dal mondo intiero, loro clientela; ed esse non sono più le allegre Lisette di Béranger, le matte studentesse, le peccatrici dal cuore leggiero, le grisettes dall'anima di cardellino; ma sono le avide, le truculente, le mascherate cocottes, entomati, vibrioni, mangiatrici di denaro. Ci descrive il Quartier de l'Europe e poi le Quartier des Martyrs e dice: "Le castellane di questo quartiere si compiacciono estremamente del respirare aria fresca; e perciò fanno in accappatoio bianco delle lunghe pose alle finestre dei loro alloggi. Sarebbe perfettamente inutile l'accingersi ad una serenata per commuoverle... Non vi getterebbero di certo la scala di seta. Il meglio si è rivolgersi al portinaio. D'ordinario si trova la chiave sotto l'uscio; se non c'è, è meglio non insistere: - Chiuso per causa di occupazione...". - E questo birbone di giornalista, seguita in un modo, che ho rossore di seguitare a tradurre io... Ci descrive la sacerdotessa nella sacristia del suo abbigliatoio, e poi meglio ancora, quando la porta si apre, la tenda si solleva; e la sacerdotessa compare nel tempio fresca, fragorosa e olezzante; la soave capigliatura sparsa; e la grande persona drappeggiata in un vago velo di China, celeste o rosa, allacciato da capo a fondo da piccoli nodi di setino. Qui quel briccone di giornalista, che si potrebbe chiamare dantescamente galeotto, ci dà persino il manuale di conversazione con la solita traduzione inglese per i viaggiatori che sono stimati più danarosi: "Quelle étoffe soyeuse! - Ce peignoir s'agrafe jusqu'en haut. Ce sont des noeuds. Est?ce qu'ils peuvent se défaire? - ...Cette jarretière ne vous serre pas trop. En êtes?vous sûre? - Vos petits pieds sortant de ces pantoufles ont l'air de sortir d'un nid". E concede persino degli scherni placidi alla morale e alla filosofia: "Le moraliste s'en etonne. Le philosophe s'en afflige. Mais qu'y faire? (The moralist is astonished - The philosopher is sorrow. Can you help it?)". A questo punto il sindaco si rizzò in piedi, fregandosi il pugno negli occhi, quindi proruppe: - Ma se vi sono dei giornali che si intitolano dai Grandi Matrimoni, se vi è Le Trait d'union. Organo dei celibatarii e delle famiglie; domando io, perché questa prosa non potrà entrare in un Giornale Ufficiale delle Mondane, delle generose Morelliane...? Poi l'adirato Geromino si sedette nascondendo la faccia nelle mani. Pensò al suo villaggio, alla sua famiglia, alla sua sposa; pensò, che lo scrittore di quelle righe forse aveva anche lui una famiglia illibata in una città di provincia o in un castello, dentro la strombatura di una montagna. - Sì! Ed avrà una nonna bianca, veneranda, che sprofondata in un seggiolone a bracciuoli, con gli occhiali verdi sul naso, leggerà al chiarore casalingo dell'olio d'uliva i giornali dell'ultima posta cercandovi la notizia dei successi teatrali del figlio drammaturgo... Ed il figliuolo venuto qui, dove la foga della grande città annichila nella vita pubblica esterna i morali e santi ripostigli della divina famiglia, venuto qui, vittima inconscia del putridume, che lo ingoia, serve da letterario mezzano... Il sindaco fu di nuovo in piedi e agguantò pei bottoni il segretario vociandogli con una efferatezza di voce soffocata: - Ma vi sono dunque due leggi morali, e due razze d'uomini...? E una mia figlia potrà appartenere al sesso di quella sciagurata!... Una delle due: o noi siamo minchioni, o quelli non sono uomini, sono compagni di Sant'Antonio. Geromino era ricaduto sulla seggiola spossato; e si sarebbe detto che piangesse tacitamente. Pino Goldi si appigliò al solito partito da lui praticato, quando vede alcuno a piangere; accende il sigaro, perché, dice lui, non si vedano le sue lacrime di richiamo. Ma il sindaco non piangeva; onde Pino Goldi gli disse: - Caro mio, impara a conoscere il mondo, e piglialo come viene. E per istruirci di più, domani sera dobbiamo andare tutti al Mabille.

Malombra

670409
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Si rivide nella lancia Saetta, fra le grandi onde accorrenti, in faccia a Marina che gli piegava incontro il viso, disegnandosi sul chiarore abbagliante del lago sfolgorato dietro a lei dai lampi. Ne sentì i picco li piedi appoggiati a' suoi. La fredda chiesa piena di tedio s'intepidiva, si ravvivava; era un acre piacere fissare le pietre ascetiche, trarne questa luce, questo calore dei sensi, conoscer la voce dolce e forte del tentatore; abbandonarsi a lei. La fantasia correva ad altre imagini febbrili. Marina era con lui, non più fra le onde, ma nella sua stanza del Palazzo, gli diceva "finalmente!", gli prendeva la mano, lo traeva a sé sorridendo con un dito alle labbra, nella notte profonda... Si alzò e uscì di c hiesa, vacillando. Dio gli aveva risposto.

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676088
Ghislanzoni, Antonio 3 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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La illuminazione è abbagliante. La cupola gigantesca dell'ottagono sfolgora come un sole. Duecento serpentelli di bronzo stillano dalle fauci una pioggia fosforescente; lagrime di fuoco, che cadendo nella sottoposta piscina, formano l'onda letale destinata a dissolvere il suicida(29).

Riempite l'universo di meraviglie industriali; create, a mezzo dell'elettricità o della condensazione radiale, una luce abbagliante che faccia impallidire il sole; inventate dei mezzi di locomozione più rapidi del baleno, ecc., ecc., qual grado di felicità potrà attendersi da tali parvenze di bene l'uomo estenuato, l'uomo deperito e quasi consunto da' suoi abusi vitali? Non vi ha godimento possibile quando non sussistano in noi le condizioni che ci rendano atti a godere. L'individuo malato non gode; ed oggimai l'umanità tutta intera è peggio che malata, è quasi agonizzante. Tali erano le teorie del Virey, e su queste si aggiravano incessantemente le vivaci polemiche dei due primati. Frattanto nell'agro regnava una grande agitazione. Da una parte, i preparativi per l'ultima solennità bacchica, la quale doveva vincere in sontuosità e sfrenatezza tutte le feste antecedenti; dall'altra, i tumulti della lotta elettorale, omai prossima a chiudersi. I mistificatori della città erano venuti a inondare l'agro di proclami e di giornali. Tutti si accaloravano nella discussione; la maggioranza dei coscritti parteggiava pei candidati equilibristi, i quali miravano a distruggere ogni supremazia, fosse pur quella delle alte facoltà intellettuali e morali. Fra questi ed i naturalisti caldeggiati dal Virey esistevano delle affinità; ma gli uni dissentivano dagli altri nella scelta dei mezzi. Gli equilibristi volevano la rivoluzione immediata, micidiale, inesorabile; i naturalisti miravano a combattere gli abusi della intelligenza e della attività umana colla abolizione progressiva di ogni legge derivata dallo spiritualismo. Questi pretendevano di riformare l'umanità riconducendola ai principii naturali ed agli esercizii moderati della energia organica; quelli, allucinati ancora da un fatuo idealismo, si illudevano di poter raggiungere il benessere pubblico colla esagerazione delle utopie più fallaci. Sì gli uni che gli altri si vantavano progressisti. Gli equilibristi procedevano sulla via dell'errore! i naturalisti recedevano verso il bene. Quale era il più savio dei partiti? In sull'albeggiare del 18 ottobre, un grande strepito di tube egizie destò gli abitatori dell'agro. Era il giorno della grande, dell'ultima solennità bacchica. Al tripudio che ordinariamente si produce in un centro popoloso dall'aspettazione di grandiosi spettacoli, si univano questa volta le inquietudini e le ansie più che mai eccitate della passione politica. La lotta era finita il giorno precedente; si attendevano da un'ora all'altra i telegrammi annunzianti i nomi degli eletti. L'impazienza era febbrile. Milano, al quarto ed ultimo scrutinio generale, aveva eletto la sua triade definitiva rappresentata dall'Albani (spiritualista), dal Virey (naturalista) e da Antonio Casanova (equilibrista). A quale dei tre verrà deliberata la carica di Gran Proposto dell'Olona? Gli è ciò che i telegrammi annunzieranno fra poche ore. Le belle pigianti al levar del sole son balzate dai loro letti di piume di cigno per gettarsi nella folla chiassosa che invade tutte le aree di spettacolo. Fanfare da trecento, da quattrocento e più suonatori irrompono dalle colline, riempiendo l'aria di musiche esilaranti. Dapertutto si erigono baracche, si improvvisano eleganti casupole di guttaperca per dar alloggio ai forestieri, avidi di sollazzo e di baccano. I ciarlatani sostano coi loro carri sulle piazze d'industria, mettendo in mostra i loro apparati chirurgici. Ohimè! Non vi sono più denti da estirpare, ma in compenso, quanto lavoro, e qual lauto guadagno dalla applicazione dei denti, delle chiome, dalle sferoidi posticce! Commetteremo noi l'indiscretezza di rivelare un segreto che accusa inesorabilmente la donna del secolo decorrente? A che gioverebbe il nostro silenzio? I ciarlatani lo vanno gridando sulle pubbliche vie dalle loro bigonce rotabili. La donna del secolo ventesimo ha quasi cessato di appartenere alla classe zoologica dei mammiferi. Le pillole Raspail ed altri surrogati di allattamento insensibilmente hanno quasi atrofizzato ciò che costituiva nell'organismo del sesso muliebre un soave agente della maternità, ed un gentile, attraentissimo accessorio della bellezza. Cento anni prima, il gran Darvin avea lasciato sospettare questo pericolo, ma pur troppo le divinazioni della scienza passano in ogni tempo inavvertite. Ciò che attirava sull'area massima la più gran folla dei curiosi era un mostruoso cartellone stampato a lettere cubitali. Il Virey e l'Albani, che passeggiavano in mezzo alla moltitudine irrequieta, calmi e sereni, poco o nulla preoccupati del voto che in quel giorno poteva elevare l'uno o l'altro ad uno dei più onorifici seggi della rappresentanza europea, si soffermavano dinanzi a quello strano reclamo. - Mo'! vedete dove si arriva! - sclamò il Virey; - e in verità non v'è ragione da stupirne! Io stesso, nella mia prima giovinezza avevo concepito la possibilità di costruire l'uomo. L'Albani leggeva come trasognato, facendo spiccare le sillabe: «Elettori, Coscritti, Pigianti d'ambo i sessi «Leggete!!! «Vi si annunzia che oggi, alle ore 6 pomeridiane, il sottoscritto Primate di Scienza Naturale, esporrà alla ammirazione del rispettabile pubblico il suo Gigante chimico-automatico- animalesco, da lui costruito coll'impiego di tutte le sostanze omogenee all'organismo umano sin qui conosciute. Sarà un Uomo dieci volte più grande del comune, perfettamente costituito e dotato di vitalità a mezzo di una immissione adeguata di sangue taurino. Chi bramasse assistere a quest'ultima operazione della trasmissione del sangue vivo e dell'applicazione delle pile animatrici, potrà, mediante sborso di trentamila lussi, accedere al Padiglione numero 10, via De-Pretis, dove il sottoscritto da oltre venti anni sta elaborando alla confezione dello stupendo meccanismo. Ai serii cultori della scienza, ai veri amici del progresso non parrà soverchio lo spendere trentamila lussi per rendersi edotti di tutti i congegni imaginati e messi in opera ad ottenere un fenomeno che fra poche ore farà stupire l'universo. Il padiglione sarà aperto a mezzodì. SECONDO PIRIA Primate di Scienze naturali Professore di chimica applicata e di Antropologia». - E tu credi - esclamò l'Albani volgendosi al Virey - che questo signor Piria non sia un matto o un ciarlatano? - Perdona - rispose il Virey con severità; - or fanno pochi mesi, parecchi scienziati di Europa si facevano la stessa domanda all'udire che un Albani si riprometteva di produrre la pioggia artificiale. Vi è del pazzo in ogni uomo di genio; e tutte le audacie dello spirito inventivo provocarono in ogni tempo, prima del fatto compiuto, diffidenza e derisione. L'Albani arrossì leggermente. - Io ritengo - proseguì l'altro mutando intonazione di voce, - che il gigante del Primate Piria riuscirà ad agitarsi, a camminare, a compiere fors'anche le funzioni più essenziali alla vitalità, non mai a pensare e ad agire con riflessione. - Dobbiamo noi -domandò l'Albani colla sua impazienza generosa da scienziato, - spendere bravamente i nostri trentamila lussi per entrare nel Padiglione? - Serbiamo i nostri capitali per miglior impiego - rispose il Virey. - A sei ore, constateremo l'effetto; a più tardi la diagnosi delle cause.

Quella parete non era che un grandioso ventaglio di taffetà americano, il quale, disteso, formava un abbagliante sipario azzurro dorato come il lapislazzulì. Le quattro volonterose, premendo i bottoni che lo tenevano dispiegato, ottennero che immediatamente si contraesse, formando di tal modo una colonna quadrata per cui la vasta scena veniva a dividersi in due grandi scompartimenti. Al di là di quella colonna si apriva un mondo incantevole, che offriva allo sguardo tutte le seduzioni della natura, e non era di fatto che un meraviglioso accordo di tutte le industrie, di tutte le arti umane. Fidelia e Speranza rimasero alcun tempo assorte nella contemplazione di quel nuovo spettacolo, mentre l'anziana con affettuosa compiacenza descriveva alle due fanciulle le bellezze del quadro. - Da quella parte ... al lato destro - accennava l'anziana - voi vedete una collina di facile pendìo, dei praticelli, delle grotte, dei chioschi, dei cespugli di fiori. Sono altrettante camere, altrettanti ricoveri copiati fedelmente dalla natura. L'architetto, nel costruire quei nidi di velluto, quei chioschi di bambagia, quelle nuvole di guttaperga, era ispirato dall'amore, come il Dio della Genesi nella creazione del paradiso terrestre. Il primo palazzo di Eva, ideato dall'architetto divino, non poteva essere più confortevole e più delizioso. Voi stupite, o gentile Fidelia! ... Voi non credevate che un pensatore di case potesse elevarsi a tanta sublimità di concetti ... Quella nuvola che vedete agitarsi mollemente al di sopra della collina è la stanza che deve accogliervi fanciulla per iniziarvi ai misteri deliziosi dell'amore ... Osservate quella grotta! ... Da quelle stalattiti bianche trasudano gli unguenti più odorosi, i balsami più delicati. È il vostro gabinetto di acconciatura. Attraversandolo, ne uscirete profumata e vivificata. A poca distanza da quella grotta, una magnolia gigantesca distende i suoi rami di un bel verde opaco ... Quella è la vostra biblioteca. I libri stanno raccolti nel tronco dell'albero, e le eleganti legature formano intorno a quel tronco una corteccia di oro e di gemme. Abbassate lo sguardo a quella pianura lucente ... a sinistra della colonna! Non vi sembra che quel tappeto imiti perfettamente le onde tremolanti di un lago? È un tappeto di mercurio bianco imprigionato in una tela di vetro elastico. Voi sentite il mercurio agitarsi sotto il vostro piede, e la illusione di passeggiare sulle acque è tanto verosimile, che quasi vi meravigliate di poterne uscire a piede asciutto. Come vedete, due gondole eleganti galleggiano su quel piccolo lago artifiziale. Una di quelle gondole è destinata ad essere il vostro gabinetto musicale. Noi vi abbiamo collocato un pianoforte a corde di cigno, ed un'arpa magnetica. Assisa al pianoforte, per la rifrazione dei vari specchi mirabilmente congegnati, vi parrà di trovarvi isolata in mezzo ad un lago senza confini. I vostri canti, i vostri suoni si ispireranno nella poesia della solitudine e delle onde ... Quel pianoforte ha due pedali, per cui potrete modificare a grado vostro la calma e le procelle del piccolo oceano. Il tappeto mercuriale, sotto la pressione del vostro piede, potrà fingere tutti i commovimenti della marina. L'altra gondola è una sala di refezione; e questa, a piacere dei naviganti, può scivolare fino alla estremità della pianura, dove, per una porticiuola che da questo luogo non si scorge, essa uscirà dal lago artifiziale per islanciarsi nel lago vero. Qual sorpresa per voi, qual gioconda sensazione, al finire di una cena iniziata nel palazzo fra le carezze ed i baci dello sposo, uscire sulla prora della gondola, e veder sfilare le cento ville del Lario, una meravigliosa fantasmagoria di palazzi e di giardini emergenti dalle onde! Ma basti! ... Gli è un vero peccato quello che io sto commettendo, un peccato di indiscrezione che il vostro sposo non saprebbe perdonarmi. A che buono svelarvi tutti i misteri di questo meraviglioso palazzo? ... Che altro è la gioia se non la sorpresa del nuovo, dell'inaspettato? ... Ma pure io mi ravvedo in tempo ... Io non vi ho palesato che la millesima parte delle delizie che qui vi attendono. L'ho fatto a fine di bene; per serenare l'animo vostro, per alleviare colle promesse dell'avvenire le crudeli impazienze del presente. Ho tracciato il cammino alla vostra fantasia di fanciulla e di amante. Se in questi giorni di dilazione che ancora vi rimangono, il vostro spirito verrà a spaziare su questi prati di seta, fra questi alberi a foglie di piume che stillano rugiade di diamante, fra queste onde di metallo animato; voi troverete una distrazione soave alle cure che vi opprimono. Io però mi tengo sicuro che voi non riescirete mai ad indovinare la centesima parte delle meraviglie qui adunate da quei due creatori sublimi di poesia che sono il vostro Albani e Regolo Mengoni pensatori di edifizii Poiché l'anziana ebbe finito di parlare, la fidanzata dell'Albani, nell'ingenuità della sua anima innamorata, si lasciò sfuggire una esclamazione che rivelava tutto il suo cuore: - Ma egli! ... il mio sposo! ... - Comprendo il vostro pensiero - affrettossi a dire l'anziana. - Egli ... il vostro Albani non verrà a dimorare in questa villa, che tutta vi appartiene. Vi spiegherò il suo concetto come io credo di averlo compreso. Dell'Albani voi non dovete conoscere che l'amante e lo sposo. Egli verrà in questo luogo per portarvi il suo amore, per cogliervi il vostro, per godere dei vostri tripudii, per consolare le vostre afflizioni, per chiedere a sua volta il diletto e la forza a sostenere i dolori della vita. I vostri rapporti, in una parola, non devon essere che rapporti d'amore. Perché riesca feconda di bene, l'unione coniugale vuol essere circondata di poesia. In altri tempi, quando era obbligatorio agli sposi convivere sotto il medesimo tetto, vedersi a tutte l'ore del giorno e della notte, dividere le cure disaggradevoli e qualche volta un po' volgari del regime di famiglia, avveniva sovente una rilassatezza di affetti, che a lungo andare degenerava in fastidio, in avversione. C'è molta differenza fra il vedersi spesso e il vedersi sempre. L'augello che rinnova così frequenti i trasporti dell'amore, si allontana dalla sua compagna dopo l'ebbrezza vivace del connubio, e si perde negli spazi finché quella non lo richiami co' suoi gorgheggi, finché quella non gli dica coi suoi gemiti melodiosi: ritorna! ho bisogno delle tue carezze, dei tuoi baci! Desideriamoci, se vogliamo amarci eternamente! Il vostro Albani, ispirandosi a questo concetto, verrà in questa casa come un ospite. Egli vi apparirà inaspettato - egli giungerà fino a voi per cento vie misteriose. Lo vedrete uscire da questa gondola, lo troverete adagiato in quella grotta, udrete la sua voce carezzante rispondervi da quella nube, Quando i vostri due cuori si chiameranno per quella voce arcana che esala dall'amore, vi sentirete allacciati da soavissimo amplesso. Io credo, Fidelia, che il vostro animo gentile avrà compreso il delicato pensiero che io ho tentato di esprimervi. Lo sguardo di Fidelia splendeva di angelica luce. Quell'anima giovane era inebbriata di felicità. Si levò in piedi, e con timida voce, qual di fanciullo che non osa manifestare un capriccio per paura di vedersi contrariato, disse all'anziana: - Vi par egli che io sia troppo indiscreta nel domandarvi una concessione? ... Amerei di attraversare quel lago ... di salire in quella gondola ... di provare, sull'istromento che dovrà essere l'interprete dei miei pensieri, una canzone che ho composta per ... lui! Sarà la canzone di richiamo. E tu, mia buona Speranza, tu l'ascolterai da questo luogo, e mi dirai qual effetto essa avrà prodotto sull'animo tuo! ... E poi! ... ho in mente un pensiero ... Mi pare che i suoni di quel cembalo debbano attraversare gli spazii immensi ... e giungere fino a lui. - Non vi è ragione perché io mi opponga a così onesto desiderio - rispose l'anziana - venite! La fanciulla, dopo essersi congedata con un bacio dalla sorella di amore sorvolò con piede leggerissimo al mobile tappeto, salì nella gondola, e disparve colla sua guida. L'anziana, per un sentimento di deferenza e di rispetto che erale imposto dalla sua condizione, non si intrattenne con Fidelia nel piccolo gabinetto. D'altronde, ella aveva l'obbligo di far gli onori del palazzo, e in quel momento suonava l'ora di refezione, e le amiche della fidanzata, giusta il patto convenuto, entravano nel vestibolo. - Rilasciate il gran ventaglio! rilevate le mense! - ordinò l'anziana alle volonterose - prima che le ospiti fanciulle fossero entrate nella sala. E subito la scena mutò di aspetto, e l'incantevole panorama scomparve dietro il velario ondulato, che formava una muraglia di lapislazzulì. Nel momento in cui le fanciulle entravano nella sala, dalla sua gondola invisibile Fidelia sciolse la voce. Speranza portò il dito alle labbra, e le fanciulle ristettero ad ascoltare coll'estasi in volto. Erano le più dolci note che mai si modulassero pel labbro di una vergine innamorata. Quelle note, attraversando l'azzurro padiglione, parevano il canto di un cherubino smarrito negli spazii del firmamento. E davvero Fidelia aveva dimenticato la terra. Ella si sentiva isolata nel suo piccolo gabinetto come una sirena sugli scogli dell'oceano. Immersa negli elementi più vergini del creato, nell'aria e nelle acque, la sua anima possedeva le ali bianche e il melodioso sospiro del cigno. Le parole della sua canzone esprimevano questi pensieri gentili: «Iddio ha creato la terra, ma l'amore soltanto ha creato il paradiso. «No! questo non è il paradiso, dacché, aggirandomi fra i miracoli della creazione, io sento che il creatore è lontano. «Quando il creatore sarà tornato, quando l'aria di questo giardino sarà l'alito della sua bocca o il dolce fremito del suo cuore, allora io potrò dire: egli mi ha riportato il mio paradiso. «Oh venga presto colui che può creare il paradiso, perché il paradiso è in lui, soltanto in lui!» Il canto di Fidelia era una estasi voluttuosa. Mentre il labbro scioglieva le note, mentre il cuore modulava gli accenti, lo sguardo della fanciulla errava nelle illusioni di un mondo fantastico. Questo mondo fantastico si creava dinnanzi a lei per una combinazione di specchi metallici, i quali ritraevano perfettamente un cielo di zaffiro, un lago placido e sereno. Gli occhi di Fidelia aspettavano che quella solitudine di spazio e di acque si animasse improvvisamente di una figura umana, di una figura che per lei, per la fanciulla innamorata, avrebbe rappresentato il Dio animatore. Era delirio? ... Era sogno? ... La fanciulla sentì mancarle le forze, la sua voce si spense, un tremito le invase tutte le membra ... Quella vasta solitudine si era davvero animata: l'uomo dell'amore, il Dio era comparso ... Fidelia non osava li volgere il capo, ma lo specchio inesorabile che le stava dinanzi riproduceva una figura umana, riproduceva un essere vagheggiato e invocato, che per lei aveva nome di Redento Albani. Quell'uomo, ritto ed immobile dietro il seggio della fanciulla, pareva assorto nel contemplare le forme perfette di lei. La fronte di quell'uomo era calma; i tratti del volto non rivelavano veruna commozione; ma l'occhio irrequieto, iniettato di viva luce, aveva una espressione quasi sinistra. Fidelia ne fu atterrita più che sorpresa. Dalla sua fronte sgocciolava il sudore a grosse stille, pure non aveva forza di portarvi la mano ad asciugarle. Come si spiega questo terrore della fanciulla alla vista di un amante, di un fidanzato, di lui che era l'oggetto de' suoi ardenti desiderii, delle sue invocazioni? Se quell'uomo fosse stato l'Albani, Fidelia non avrebbe esitato un momento a levarsi dal seggio, ad avvincerlo tra le sue braccia, a inondarlo di baci. Ella esitava ... tremava ... Erano le sembianze ben note; la sua statura, i suoi capelli ondeggianti e fosforici, il suo labbro perfettamente delineato, i suoi denti pieni di sorriso. Ma pure, qualche cosa mancava a quell'uomo per essere l'amante, il fidanzato di Fidelia. Mancava la magnetica corrente che si espande dai cuori innamorati, il flusso che non si può suscitare dai nervi e dal sangue, se questi nervi, se questo sangue non sieno agitati da una vera passione. La fanciulla non poteva penetrare l'orribile inganno di quella apparizione. Ella fissava quella larva con occhio attonito; meditava quelle sembianze come si medita un sinistro problema. Quella contemplazione, quella meditazione angosciosa doveva risolversi per lei in un giudizio altrettanto erroneo che tremendo: «Egli è ben desso, ma egli ha cessato di amarmi». Era la logica più naturale che il cuore della fanciulla innamorata potesse seguire, la sola spiegazione che ella potesse ammettere dello strano turbamento che l'invadeva. A sì triste convincimento, Fidelia nascose il volto fra le mani e proruppe in dirotto pianto. Ma il Casanova (noi gli daremo il suo vero nome) non era uomo da smarrirsi di coraggio per quella fredda accoglienza. Magnetista di prima potenza, egli contava sulla forza del proprio volere per dominare quella gracile fanciulla estenuata dalle commozioni dell'amore e della paura. Egli stese la mano sul capo di Fidelia, e accarezzando le chiome odorose per innondarle del suo fluido irresistibile, parlò con accento animato: - Fidelia! ... mia buona ... mia bella Fidelia! ... non era mestieri che tu mi chiamassi ... . Sarei venuto ugualmente ... . Anch'io numerava i giorni e le ore. Avevo bisogno di vederti. Un bacio, un solo tuo bacio potrà darmi la forza per reggere a questi ultimi giorni di prova ... . Fidelia! ... I momenti sono contati. Nessuno mi ha veduto entrare, nessuno mi vedrà uscire da questo luogo ... . Non c'è a temere di nulla! ... Oh! la mia bella Fidelia! Abbandonati agli istinti del cuore ... . Poichè mi ami ... poichè hai giurato di esser mia ... . Mia sorella ... mia sposa ... . Tu mi ami: Io sapeva bene che tu non avresti negato questa gioia! ... Le tue fibre sono commosse ... . Allacciami il collo colle tue braccia di neve ... . Che io respiri il fresco alito della tua bocca! ... Le mie labbra erano arse, e la sete di amore mi avrebbe consumato, senza il refrigerio di un tuo ... bacio divino! Così parlando, il Casanova si era impadronito della fanciulla attraendola al proprio petto colla potenza affascinante della volontà. Fidelia, inebbriata da quelle parole, da quelle carezze, si abbandonò a lui come un corpo morto. I dubbi, i terrori erano svaniti. La sua faccia inondata di lacrime era divenuta radiante. In quel momento di suprema illusione, la fanciulla sognava il paradiso. Quel sogno fu un lampo. Nell'amplesso di quella larva adorata, Fidelia si attendeva una inondazione di delizie. Ma appena le labbra dell'avventuriero ebbero sfiorate le sue, la fanciulla arretrò con ribrezzo, mandò dal petto un grido affannoso, e cadde al suolo tramortita. Il bacio di quell'uomo, o piuttosto di quella maschera umana, le era sembrato gelido come il bacio di un morto. Tutta questa scena era passata rapidamente, mentre le sorelle del Circolo, nel compartimento anteriore del palazzo, attendevano che Fidelia ripigliasse la canzone, ovvero ritornasse nella sala per prendere parte al convito. Il grido della fanciulla destò lo sgomento nella piccola comitiva. L'anziana fece allentare il gran ventaglio, e le amiche di Fidelia accorsero tutte verso la gondola. Quand'esse posero il piede nel gabinetto musicale, il Casanova era già scomparso; nessun indizio, nessuna traccia di lui. Fidelia giaceva a terra coll'abbandono della morte. Le sue chiome, le sue vesti scomposte davano a supporre che ella avesse dovuto soccombere ad un assalto violento. Le fanciulle non si perdettero in vane esclamazioni. Improvvisarono una catena magnetica, e scaricando il loro fluido sulla giacente, in men che non si pensi, la ridonarono alla vita. Fidelia si levò in piedi, girò intorno gli occhi smarriti come chi, risvegliandosi da un orribile sogno, tremi di rivedere una larva. Poi sorrise alle amiche, e appoggiandosi al braccio di Speranza uscì con quella dal gabinetto. - Domani ti dirò tutto - disse Fidelia alla sua prediletta. E per quella serata non si tenne più parola del misterioso avvenimento. Durante la cena, le fanciulle ripresero insensibilmente la loro abituale gaiezza. Fidelia sorrideva alle amiche, e pareva dividere i loro ingenui tripudii. Di tratto in tratto ella trasaliva, portava la mano agli occhi come a rimuovere un velo, a dissipare una nube. E subito, dopo quel gesto, la sua fronte tornava serena, e l'occhio riacquistava la sua luce. Ai primi squilli del richiamo delle vergini quella gioconda comitiva uscì dalla villa Paradiso per disperdersi nei varii compartimenti della città. Fidelia baciò le amiche ad una ad una, e salita in una gondola volante si fece ricondurre al palazzo di famiglia. Quella sera, il Gran Proposto era di umore assai lieto. Quell'inesorabile partigiano delle antiche discipline, che non poteva tollerare nella propria famiglia ciò che egli chiamava insubordinazione legale agli ordini della natura; quel padre severo che non aveva mai perdonato a Fidelia le lunghe assenze notturne, mosse ad incontrarla con volto radiante, l'accolse con insolita profusione di amorevolezze. C'era qualche cosa di misterioso, qualche cosa di sinistro nella bonomia di quel vecchio. Le sue carezze parvero a Fidelia una affettazione di cattivo augurio, ond'ella, per sottrarsi a quell'impeto di tenerezza paterna, pose in campo un pretesto e ritirossi nel suo appartamento. Il Gran Proposto, dopo averla accompagnata com'era suo costume, e salutata col bacio del buon sogno rientrò nel suo gabinetto. Sullo scrittoio del primo funzionario dell'Olona stava spiegato un dispaccio portante il timbro del Ministero di Sorveglianza pubblica. Erano poche linee di scrittura, ma il vecchio non si saziava di rileggerle, e pareva che da quel foglio uscisse un riflesso di beatitudine ad irradiargli tutto il volto. Il dispaccio era così concepito: «Onorevole Gran Proposto, «Ho la soddisfazione di annunziarvi che il nostro zelo, le nostre sollecitudini, la nostra pertinacia hanno trionfato di ogni difficoltà. Redento Albani ha violato la legge di dilazione. Questa notte egli era a Milano, ha visitato la Villa Paradiso si è intrattenuto col Custode-direttore, ed ebbe anche un segreto colloquio con vostra figlia nel piccolo gabinetto musicale addetto alla villa stessa. Non è mestieri che io vi aggiunga altre parole; vostra onorevolezza sa troppo bene ciò che le resta a fare. Aggradite, onorandissimo Gran Proposto, gli umili ossequi del vostro subordinato devotissimo, e comandatemi in ogni occasione. «Dato dal primo gabinetto di Sorveglianza pubblica la notte del ventisette settembre 19 ... «TORRESANI DEGLI EX-BARONI.»

L'ALTARE DEL PASSATO

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Gozzano, Guido 3 occorrenze

E la prima campana era suonata da un pezzo e sul divano attendevano, esanimi, l'abito nero, la camicia abbagliante, le altre spoglie che servono a costrurre un uomo per bene. Cruda legge, che segue i mortali anche nell'alto Oceano Indiano, a tre gradi sopra l'Equatore! Cruda legge! Ecco la Camicia rigida - quanto più rigida dopo la diurna libertà del pigiama - la camicia nella quale si penetra trattenendo il respiro, umiliati, contriti come una farfalla condannata a rientrare nella sua crisalide (suona la seconda campana! ... ), ecco il solino che strozza, i bottoni inconciliabili col solino, la cravatta volubile, ribelle come una cosa viva, le bretelle mai allentate o raccorciate abbastanza, la giubba che si cosparge nei risvolti di polvere di riso ... Poi, con il cuore in tumulto, dover scendere nella sala da pranzo, doversi comporre per i duecento passeggeri, chè tutti si volgono verso il ritardatario, una maschera di calma disinvoltura, dover subire le peregrine arguzie del capitano: "Ecco il nostro caro avvocato ridotto all'estrema bellezza", con un tono che significa " ... poteva levigarsi un po' meno e non costringere gli stewards a ripassare due portate per lei ... ", e dover sorridere come un collegiale riverente; all'estrema bellezza! Veramente le febbri del Malabar mi avevano lasciato un volto scialbo, emaciato, nasuto ... Che importa? Ero amato, ero desiderato - direbbe l'eroe russo-napolitano di non so quale pochade - dalla più desiderabile creatura che ospitasse il Sumatra Non illividiscano i teneri amici d'Italia: saranno rivendicati alla fine della più spaventosa catastrofe che la mia civetteria maschile abbia patito mai ...

Passando dalla luce abbagliante nei santuarî profondi si resta per alcuni attimi nella notte completa, poi si distinguono le lampade votive, i roghi fiammeggianti dinnanzi alle divinità, il luccichìo dell'oro e delle gemme sulle braccia multiple, sulle tiare, sui seni mostruosi, sulle trombe elefantine. Colonne, arcate monolitiche lavorate come trine, pendono nell'ombra all'infinito e dalle vôlte buie giunge uno squittire continuo, un aliare silenzioso d'immensi lembi di stoffa nera: sono i vampiri-rossetta, i pipistrelli larghi come braccia umane distese, che di giorno pendono a migliaia dalle vôlte tenebrose e a notte si lanciano in razzia di frutti sulle piantagioni. Riposiamo da forse mezz'ora, nell'ultimo santuario, alla sommità del tempio, seduti nella frescura semibuia, poichè di fuori il sole è già alto e terribile. Gli occhi si sono avvezzi alle tenebre. Vedo intorno le cripte delle divinità; ogni idolo è chiuso in una gabbia di ferro come un felino, e il braciere che arde dinnanzi, anima con il riverbero tremulo e sanguigno i volti spaventosi dei mostri. - I miei bagagli! I miei bagagli! Un uomo, un policeman indu ha sentito il mio gemito, m'ha visto con la fronte chiusa tra le mani, s'avvicina, ci interroga premuroso ... - I signori hanno ricevuto qualche torto? - No, nessun torto - e il mio amico parigino racconta i motivi delle mia desolazione. Mentre si parla, un brahamino, un vecchio ignudo dalla gran barba candida, si è alzato, si volge al policeman policemanche ci guarda e sorride: - Signori, l' High-Priest di Aparapandra il gran sacerdote della dea delle-cose-lontane-dalla-mano vi propone un voto pei vostri bagagli; la spesa è poca, una rupia, e il risultato certo! Il policeman si allontana ridendo. Un voto alla dea delle-cose-lontane-dalla-mano Ma subito! Dov'è questa signora? Quella? Offro la moneta e mi inchino all'orribile ceffo chiuso in una delle gabbie millenarie. Altri preti ci sono attorno nell'ombra, incuriositi da quei due impuri riverenti alle loro divinità. Ad uno ad uno s'avanzano, parlano profferendoci le loro grazie: "Un voto al Dio contro il veleno di cobra? Al Dio contro le disavventure del cammino? Alla Dea della Fecondità? Al Dio contro il malocchio? Alla Dea Tharata-Ku-Wha: la Dea-del-nemico-non-più?Oimè! che cosa ha fatto la folla del divino tesoro dei Veda! A quale turpe idolatria ha mai ridotto il sublime retaggio filosofico dell'Upanishad, l'essenza dell'Ineffabile, dell'Uno, dell'Assoluto! Un laido mercato dove ogni grazia ha il suo ciurmadore come quei grandi magazzini europei dove speciali commessi presiedono alle merci varie! - La Dea-del-nemico-non-più Che cosa significa? - La morte - rispose il sacerdote, calmo - o altra soppressione di chi vi molesta. L'immagine di Tito Vinadio mi balenò nella memoria, sogghignò di tra le fedine biondicce alla Camillo Cavour. Tacevo, ma l'amico parigino gridava entusiasta: - Mais très bien ça! Ho anch'io almeno una ventina di persone che desidero non più ritrovare in Francia! Ci avviciniamo al nuovo altare, ridendo forte. Il sacerdote, più decrepito e più sinistro del primo, taglia un rettangolo da una gran foglia di palma-palmira, me la porge con un pennello intinto, facendomi cenno di scrivere. Scrivo il nome Tito Vinadio e lo getto sulla brace che lo divora crepitando. Subito la mano ossuta mi porge un altro foglio. Un'altra vittima? Io non ho nemici. Chi sopprimere ancora? Ah sì! Don Fulgenzi, tormento della nostra casa. E il nome è scritto e divorato dal fuoco. La mano ossuta mi porge un altro foglio, cerco nelle mie antipatie ... Ah, sì, quel detestabile signore dal naso ricurvo: un jettatore certo, dacchè tutte le cose mi andavano a rovescio quando l'incontravo, e l'incontravo sovente in tram, in ferrovia, a teatro. Scrivo: "detestabile innominato dal naso ricurvo". Un quarto foglio. No! No! Basta. Rido, ma lo scherzo comincia a darmi non so che brivido pauroso, in quell'ombra, fra quegli idoli sinistri, fra lo stridìo dei vampiri. Il mio amico parigino invece è implacabile. Scrive e getta sul fuoco, foglio su foglio, dannando alla Dea tutta la parentela: - Ma tante Véronique! Mon oncle Alexis! Mon cousin Frédéric! Mon cousin Ciprien! Mon ami Chautel! Lo afferro, lo trascino all'aperto, nella luce del sole; scendiamo le scale ridendo: - Combien en avez-vous foutus? - Tre. - Seulement? Io mi sono liberato di quattordici persone, tra parenti e colleghi in diplomazia! A sera - il treno è già molto lontano da Lambahadam - il mio amico è chino all'angolo della tavola del Diningcar e scrive sul rovescio del menu una lista di nomi e di cifre; tace e ride: - Scusate, ho finito. Ho fatto l'elenco dei soppressi. Non calcolando i vantaggi morali e materiali per la scomparsa di cinque colleghi, io devo trovare in Francia, se la Dea Tharata-Ku-Wha mi esaudisce, un'eredità di quattro milioni e settecentomila lire ... *** Nella notte, non più distratto dal paesaggio e dallo scherzo, fui ripreso dall'angoscia dei miei tesori perduti. L'insonnia e la disperazione mi tormentarono al ritmo vertiginoso del treno fino all'alba. Dormivo da forse un'ora, quando mi svegliai alle grida gioiose del mio compagno. Si era alla stazione di Kahalla. - Mon ami! Presto! Uscite! Balzai fuori. A dieci passi da me, sotto la veranda fiorita, le mie nove casse, accumulate in bella piramide, scintillavano al sole del tropico con i tre colori d'Italia. Prima le toccai, le palpai a lungo, credendo di sognare, poi abbracciai lo chef-station sbigottito, abbracciai una vecchia indu che fuggì allibita, toccandosi gli amuleti, abbracciai il mio compagno frenetico più di me e cominciammo a girare tenendoci per le mani, congiungendo i piedi a poco a poco, facendo delle nostre due persone un arcolaio vertiginoso. - Viva la Francia! - Vive l'Italie! Lo chef-station ci divise, ci calmò prendendoci alle spalle, forzandoci con dolce violenza a salire in treno; ma io non risalii senza doppia garanzia di vigilanza e previo avviso telegrafico a tutta la linea fino a Bombay. E furono venti giorni di viaggio delizioso con quel parigino sempre gaio. Ma a Bombay - dovevamo lasciarci quel giorno e imbarcarci per le rispettive patrie su diversi piroscafi - lo vidi impallidire improvvisamente con una lettera che gli tremava, gli garriva tra le dita convulse. - Ah! les malheureux! - Ebbene? - Mes cousins ... - Ebbene! - ... precipitati dal monoplano di Guastin: ... mio zio impazzito ... nessuna speranza! Allibii. Riudii i tre nomi, rividi l'antro buio dei vampiri e il brahamino dal petto canuto, e la Dea sogghignante di tra le sbarre al riverbero del braciere sanguigno. Confortai l'amico, l'accompagnai sul battello che levò l'àncora nel pomeriggio. Io m'imbarcavo poco dopo per l'Italia con tutti i miei bagagli, felice. Ma dieci giorno dopo, ad Aden, mi era consegnata a bordo una lettera di mia madre, che mi diede un brivido di gelo: " ... dovrei scriverti su carta listata a lutto, ma sarebbe ipocrisia, tu lo sai ... Don Fulgenzi è mancato ai vivi tre giorni fa ... ". Tremavo. No! No! Ma che Dea! che tempio! che malefizio! Due ragazzi imprudenti precipitano da mille metri, il padre impazzisce, un vecchio maligno cessa di far soffrire: non è tutto placidamente naturale? Tremi? Diventi scemo o teosofo, anche tu? Suonava la campana di pranzo. La luce, i fiori, i cristalli, le belle spalle ignude, la gaiezza degli ufficiali mi ridiedero il senso della realtà. Arrossii e mi schermii. Volli dimenticare. E otto giorni dopo, toccando Genova, avevo tutto dimenticato. *** Passarono i mesi. A Venezia, l'autunno scorso, sedevo sul divano centrale della Sala Viennese, un po' per riposarmi, un po' per godere di lontano, ad occhi socchiusi, la bella sirena del Krawetz. Ma due visitatori vicinissimi alla tela mi toglievano d'un terzo il mio piacere: l'uno, alto e bruno, sorreggeva l'altro, piccolo, curvo, un vecchietto dalla nuca biondiccia. Quello bruno si volse, lo riconobbi, andai verso di lui con espansione affettuosa; era Claudio Girelli, il pittore. Guardai il vecchio: non era un vecchio, era un malato. - Tu lo conosci, il nostro buon Tito Vinadio. L'infermo mi diede la sinistra attraverso il braccio dell'altro: - La destl ... la destla non gliela posso dale che così ... E ridendo e piangendo si tolse con la sinistra la mano destra che teneva nella tasca, me la porse inerte, pendula come una cosa non sua. Rideva e piangeva. Ma solo una metà dei muscoli facciali obbediva al riso e al pianto; l'altra metà del volto restava immobile o si torceva in un rictus asimmetrico che ricordava certe maschere antiche. - Questo calo Gilelli, - proseguiva con un sorriso lagrimoso, -mi accompagna all'esposizione, mi accompagna allo stabilimento eletl ... eletl ... - Elettroterapico del prof. Gaudenzi - concluse l'altro - il quale guarirà in pochi giorni il nostro buon Vinadio. È tardi, bisogna andare. Pietosamente Girelli gli sollevò il braccio pendulo, gli rimise la destra in tasca, lo riprese a braccetto sorreggendolo all'ascella. Ma prima di avviarsi guardò me che ero ricaduto sul divano senza parola. - Non affaticarti in queste stupide sale ... Devi essere ancora stanco del viaggio; hai una cera poco buona anche tu. Impazzisco? No, non ancora. Impazzirò forse il giorno ch'io sappia la morte certa della mia terza vittima, il signore detestabile dal naso ricurvo Non l'ho più rivisto. Ma da qualche tempo una cosa terribile avviene. Ho riconosciuto in tram, a teatro, un signore con il quale si accompagnava sovente quell'innominato; e a stento resisto alla tentazione di presentarmi a lui, di chiedergli in bella forma che è mai avvenuto di quel suo amico così e così ... E se allora l'altro mi rispondesse: - Ma non sa nulla? Non sa che è morto un anno fa? - io balzerei dal tram, fuggirei dal teatro, irromperei in questura per rifugiare il mio rimorso, tre volte assassino, sotto il castigo dell'umana giustizia. Ma sono certo che il buon giudice, dopo aver ascoltata la mia confessione convulsa, considerando che il codice umano non contempla ancora gli omicidi per ex-voto alla Dea Tharata-Ku-Wha, mi consolerebbe con paterne parole, poi, fatto un cenno d'intesa ai due custodi amorevoli, mi farebbe tradurre non al carcere dell'espiazione, ma al frenocomio ...

La cognata, che presiede da parigina esperta, le ha tolto lo specchio di mano: - Ti vedrai dopo, mignonne, quand le rêve sera achevé Maria Carolina è una visione abbagliante di neve e d'argento. Bianco il ciuffo di penne che le adorna l'alta acconciatura incipriata, bianco il viso passato alla cerussa bianca, la veste di raso splendente dal guardinfante mostruoso, bianche le scarpette, le ghirlande, il cagnolino, il ventaglio. In tanto candore spicca il rosso delle labbra e delle gote, il nero degli occhi e dei sopraccigli. La cognata stessa Adelaide di Francia, nipote di Luigi XV, ha dipinto il volto della bimba diciottenne secondo che l'ultimo dettame di Parigi consiglia: le ha cancellato col cosmetico i delicati sopraccigli biondi e due altri ne ha disegnato a mezzo della fronte, nerissimi, arcuati, imperiosi. Molto s'è discusso sull'acconciatura; il parrucchiere di Corte, De Regault, voleva riprodurre con gl'immensi capelli biondi il Palazzo Madama o la galera capitana degli Stati Sardi; ma la Regina, la Principessa, si sono opposte e l'artista ha costrutto con la chioma densa un edificio a tre piani coronato da un nido dove una colomba cova, teneramente assistita dal compagno. - Ravissante! Ravissante! - mormora la cognata che le sta alle spalle puntandole di sua mano un fiore o una piega del guardinfante. Ma ad un tratto vede le gracili spalle adolescenti scosse da un sussulto, si china, guarda: il volto dipinto con tanta cura è inondato di pianto. - Ah, mon Dieu, tu vas te ravager! ma per carità! Vieni, vieni a vederti e non piangerai più. Prende la sposa per mano, la conduce dinnanzi al grande specchio ovale della parete. Le lacrime s'arrestano d'improvviso. La bimba, che ieri ancora giocava alle dame in visita, sbigottisce d'essere oggi una dama davvero e non pensava di vedersi così bella. Sorride tra gli ultimi singhiozzi, sorride a se stessa, alla cognata, alle cameriere, cancella col batuffolo della polvere l'ultima traccia di lagrime. - Sua Maestà la Regina! - annunzia un servo. Camerieri, parrucchieri, servi balzano in piedi, rigidi, addossati alle pareti. La madre sosta sulla soglia, sorride, tende le braccia alla figlia, l'abbraccia, la bacia, ma con delicatezza trepidante, come si odora un fiore troppo fragile. - Un rêve, vraiment un rêve! *** ... Da già ch'a l'è cusì, da già ch'a l'è destin faruma la girada anturn a tüt Türin ... Oh, l'interminabile fila di berline, le berline di Casa Reale simili ad altissimi triangoli capovolti, sculpite, dorate, sovraccariche di tutta la mitologia e di tutto il simbolismo pazzesco del barocco; così goffe ed aggraziate, così snelle e tozze ad un tempo! Berline a quattro, a sei, a dieci cavalli gualdrappati, frangiati, impennacchiati, con non altro di libero che le zampe e la coda prolissa, cocchieri e staffieri a codino rigidi come automi tolti da un armadio centenario! ... Il corteo fantastico si svolge interminabile come in una fiaba dei Perrault, ma non reca il marchese di Carabattole, non il gatto dagli stivali, non Cenerentola fatta regina, ma tutte le belle dame della nobiltà subalpina, la Marchesa di San Damiano, la Marchesa d'Ormea, la Contessa Morozzo, la Contessa Della Rocca, la Marchesa di San Germano, la Marchesa di Cinzano, la Contessa di Salmour, la Marchesa di Verolengo ... E fra tutte, bellissima, come la Principessa della favola, come la Figlia del Re, leggendaria, è la sposa tutta bianca, tutta d'argento ... - La bela Carôlin! La folla che stipa Piazza Castello, i portici, i colonnati, che brulica sugli alberi, sulle ringhiere, sui tetti, acclama la sposa con un fremito che parte dal cuore. Il popolo ama quell'ultimogenita del Re, l'ama come una delicata bimbetta sua, la bela Carôlin è popolare ovunque, dai parchi della Venaria ai parchi del Valentino, dai bastioni della Cittadella ai bastioni della Dora, dove non sdegna di interrompere i suoi giochi per rivolgere la parola a un giardiniere che pota, a una lavandaia che piange. - Madama Carôlin! la bela Carôlin! Mai il popolo ha sentito così forte la sua tenerezza commossa come in quest'ora dell'ultimo addio. Il bel fiore sabaudo sta per essere còlto da altre mani per un giardino d'oltr'Alpe. ... Da già ch'a l'è cusì, da già ch'a l'è destin faruma la girada anturn a tüt Türin ... Il lungo corteo d'equipaggi passa da Via Dora Grossa a Porta Segusina, da Porta Segusina ai bastioni della Cittadella. Sono quivi schierate tutte le truppe: spiccano i Granatieri e i Guastatori dalla veste di scarlatto guarnita d'argento, con cappotto frangiato e banda intarsiata pure d'argento e d'azzurro, spicca la Compagnia Colonnella con le Corporazioni dei Mercanti e dei Droghieri a divise vivacissime. Lungo Via Santa Teresa e Piazza San Carlo, lungo Via Nuova, sono tutti gli altri Corpi della città: gli studenti della Regia Università col loro Sindaco, i Cavalieri dell'Ordine della SS. SS.Annunziata e dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. Tutti formano tra la folla varia un disegno ordinato a colori vivacissimi dove il corteo passa come tra una doppia siepe di divise smaglianti. La sposa diciassettenne non ha mai visto tanto fasto nella sua vita breve e raccolta e pensa che tutta quella gioia di colori e di suoni è per lei e s'alza e batte le mani come ad un bel gioco. Dai bastioni della Cittadella ai bastioni di Po rombano i cannoni di salve, strepitano i mortai e i mortaretti, accompagnando senza tregua con un rombo guerresco il clangore esultante di tutte le campane di tutte le chiese: la Metropolitana, Santa Teresa, la Consolata, i Santi Martiri Tebei, tutti i provincialeschi templi torinesi. Il corteo regale s'avanza. Dame, cavalieri gettano di continuo a piene mani le dragées nuziali, i grossi confetti settecenteschi detti giüraje E la folla s'accalca, fluttua, acclama. La sposa protende le mani e mille mani si protendono affettuose in una stretta d'ultimo addio. - La bela Carôlin! La piazza San Carlo è convertita in una sala immensa: "sta una tavola ivi disposta la quale fa vedere un corpo di bacili di confetti canditi e di molte sorta di paste zuccherate e frutti molto lontani dalla stagione. I bacili suddetti, guarniti a piramidi nella sommità dei quali vagamente pompeggiano stendardi con armi e cifre, il tutto regalato di fiori con una piramide sostenuta da quattro tori argentati carichi di confetture. Per finimento godono le Altezze Reali dell'apparato più con gli occhi che con la bocca e prendono gran piacere in vedere a dare il sacco di detta tavola e dare la scalata alla piramide fruttata e inzuccherata". La sposa giovinetta ride a quel gioco, ride fino alle lagrime della folla che corre, sale, rotola, schiamazza. La sposa ha tutto dimenticato e pensa che la vita prosegua così in un corteo dorato e infiorato tra una moltitudine gaia e plaudente. L'allegrezza dell'ora è per lei come quell'orlo di miele che si mette sul calice della medicina troppo amara. Fuori di Porta Nuova la folla si estende fino al Parco del Valentino. Dinnanzi al Castello, "passatempo delle Dame", il corteo si ferma ancora una volta per un altro rinfresco e per ricevere il complimento del poeta Pancrazio da Bra, arcade di bella fama nell'Accademia degli Incolti. S'avanza costui in sembianza del fiume Po, seminudo, con manto di drappo d'oro e capelli a guisa d'alga ed è seguito dalla Dora fanciulla vestita a guisa di ninfa con le chiome sparse e incominciano un dialogo in versi dove il Po dimostra alla Dora sconsolata per la dipartita della Principessa la necessità che lo splendore della Casa Sabauda s'estenda oltre ogni confine ... Di che bell'astro il nostro ciel si priva! La bela Carôlin s'annoia mortalmente alle interminabili ottave accademiche, sbadiglia, s'abbuia, guarda altrove, s'alza impaziente, invano trattenuta dalla madre e dalla cognata. E l'amarezza del distacco, la realtà dell'ora triste la riprendono ancora e le stringono il cuore distratto per poco ... Il suo volto si vela d'angoscia quando il corteo riesce alla Porta di Po. Là sotto le arcate imbandierate e infiorate attendono le quattro berline di viaggio sulle quali bisogna salire fra pochi secondi; non più graziose berline dorate, ma grandi carrozze fosche e disadorne. Il corteo s'arresta presso la Porta. Bisogna scendere con la Marchesa di Cinzano, con la Contessa di Salmour, con il Marchese di Bianzé, bisogna passare con i compagni di viaggio nei tristi veicoli non più di gala. Un tappeto infiorato segna il breve percorso ... Ma la bela Carôlin che tormenta da mezz'ora la mano della Regina, s'è ora afferrata al braccio di lei e quando il Conte Lamarmora apre lo sportello e l'invita a scendere, la piccola si getta al collo della madre, disperata, folle. Il fratello è costretto a sciogliere le braccia di lei a forza come si spezza una catena; a forza la fanno scendere, le fanno attraversare il breve spazio giuncato di fiori, reggendola alle spalle, costringendola al passo, portandola quasi di peso nella carrozza da viaggio. E là dentro la bimba si vede perduta. - Maman! maman! - grida protendendosi dagli sportelli mentre le quattro carrozze s'aprono il varco tra la folla. - Maman! maman! Oimè, la madre, gli amici restano indietro, ritornano nelle berline dorate verso la Reggia, ch'ella ha dovuto lasciare per sempre. Allora la piccola è presa dal panico folle come chi è trascinato alla morte. Ha di fronte la severa Marchesa di Salmour, l'arcigno Ambasciatore di Sassonia. Si vede sola, perduta, si protende forsennata verso la folla invocando soccorso. - Maman! maman! E nella folla l'hanno udita le madri: molte donne s'accalcano tra le ruote, impediscono quasi alle carrozze di procedere, stringono le piccole bianche mani convulse. - Povra masnà! - Che Dio at giüta! - Fate courâge! - Arvëdse ancoura! - Arvëdse prest! Ma i cocchieri sferzano i cavalli: il convoglio s'affretta, fende la folla, procede di corsa, è sul ponte, è oltre il fiume, dispare ... *** Il Duca di Sassonia fu ottimo sposo per la bela Carôlin Il 17 marzo scriveva alla Regina ringraziandola del dato consenso e della conseguita felicità. "Aussi tous mes désirs ne tendront-ils qu'à me rendre dighe des bontés d'une princesse qui réunit aux charmes de la plus aimable figure, toutes les vertus de ses augustes parents". Il 28 dicembre 1782 la bela Carôlin moriva in Dresda, poco più di un anno dopo le nozze e a diciannove anni non ancora compiuti. Tuchè-me'n po' la man, me cari sitadin, Për vive che mi viva vëdrö mai pi Türin!

LA DANZA DEGLI GNOMI E ALTRE FIABE

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Gozzano, Guido 4 occorrenze

Così che Piumadoro ebbe ben presto un corteo di farfalle variopinte, una nube di soffioni candidi e una falange abbagliante di cetonie smeraldine. Viaggia, viaggia, viaggia, la terra finì, e Piumadoro, guardando giù, vide una distesa azzurra ed infinita. Era il mare. Il vento si calmava e Piumadoro scendeva talvolta fino a sfiorare con la chioma le spume candide. E gettava un grido. Ma le diecimila farfalle e le diecimila cetonie la risollevavano in alto, col fremito delle loro piccole ali. Viaggiarono così sette giorni. All'alba dell'ottavo giorno apparvero sull'orizzonte i minareti d'oro e gli alti palmizi delle Isole Fortunate.

Il Re volle spiarlo; e una notte, entrando di subito nella scuderia, vide che la luce veniva dalla collana abbagliante, appesa ad una mangiatoia. Fece arrestare il giovane e convocò i saggi della capitale perché decifrassero una parola scritta sul fermaglio della collana. Uno studioso decrepito scoperse che il monile era della Bella dalle Chiome Verdi, la Principessa più sdegnosa del mondo. - Bisogna che tu mi conduca la Principessa dalle Chiome Verdi - disse il Sovrano - o non c'è che la morte per te. Nonsò era disperato. Andò a rifugiarsi dalla vecchia giumenta e piangeva sulla sua magra criniera. - Conosco la causa del tuo dolore - gli disse la bestia fedele, - è venuto il giorno del pentimento per la collana presa contro mio consiglio. Ma fa' cuore ed ascoltami. Chiedi al Re molta avena e molto danaro, e mettiamoci in viaggio. Il Re diede avena e danaro e Nonsò si mise in viaggio con la sua cavalla sparuta. Arrivarono al mare. Nonsò vide un pesce prigioniero fra le alghe. - Libera quel poveretto! - gli consigliò la cavalla. Nonsò ubbidì, e il pesce, emergendo con la testa sull'acqua, disse: - Tu mi hai salvata la vita e il tuo benefizio non sarà dimenticato. Se tu abbisognassi di me, chiamami e verrò. Poco dopo videro un uccello preso alla pania. - Libera quel poveretto! - gli consigliò la giumenta. Nonsò ubbidì e l'uccello disse: - Grazie, Nonsò; quando ti sia necessario, chiamami e saprò sdebitarmi. Giunsero dinanzi al castello della Principessa. - Entra - disse la giumenta - e non temere di nulla. Quando vedrai la Bella, invitala ad accompagnarti qui. Io danzerò per lei danze meravigliose. Nonsò bussò al palazzo. Aprì una dama bellissima, ch'egli prese per la Principessa in persona. - Principessa... - Non son io la Principessa. E l'accompagnò in un'altra sala dove l'attendeva una fanciulla più bella ancora. E questa a sua volta l'accompagnò in una sala attigua da una compagna più bella di lei; e così di sala in sala, da una dama all'altra, sempre più bella, per abituare gli occhi di Nonsò alla bellezza troppo abbagliante della Bella dalle Chiome Verdi. Questa lo accolse benevolmente, e dopo un giorno accondiscese a vedere la giumenta danzatrice. - Saltatele in groppa, Principessa, ed essa danzerà con voi danze meravigliose. La Bella, un poco esitante, ubbidì. Nonsò le balzò accanto, sciolse uno dei nodi della criniera e si trovarono di ritorno dinanzi al palazzo del Re. - M'avete ingannata - gridava la Principessa, - ma non mi do per vinta, e prima d'essere la sposa del Re vi farò piangere più d'una volta... Nonsò sorrideva soddisfatto. - Sire, eccovi la Bella dalle Chiome Verdi! Il Re fu abbagliato di tanta bellezza e voleva sposarla all'istante. Ma la Principessa chiese che le si portasse prima una forcella d'oro tempestata di gemme che aveva dimenticato nello spogliatoio del suo castello. E Nonsò fu incaricato dal Re della ricerca, pena la morte. Il giovane non osava ritornare al castello della Bella dalle Chiome Verdi, dopo il rapimento, e guardava la sua giumenta, accorato. - Ti ricordi - disse questa - d'aver salvata la vita all'uccello impaniato? Chiamalo e t'aiuterà. Nonsò chiamò e l'uccello comparve. - Tranquillati, Nonsò! La forcella ti sarà portata. E adunò tutti gli uccelli conosciuti, chiamandoli a nome. Comparvero tutti, ma nessuno era abbastanza piccolo per entrare dalla serratura nello spogliatoio della Bella. Vi riuscì finalmente il reattino, perdendovi quasi tutte le penne, e portò la forcella al desolato Nonsò. Nonsò presentò la forcella alla Principessa. - Al presente - disse il Re - voi non avete più motivo per ritardare le nozze. - Sire, una cosa mi manca ancora e senza di essa non vi sposerò mai. - Parlate, Principessa, e ciò che vorrete sarà fatto. - Un anello mi manca, un anello che mi cadde in mare, venendo qui... Venne ingiunto a Nonsò di ritrovare l'anello, e quegli si mise in viaggio con la giumenta fedele. Giunto in riva al mare chiamò il pesce e questo comparve. - Ritroveremo l'anello, fatti cuore! E il pesce avvertì i compagni; la notizia si sparse in un attimo per tutto il mare e l'anello venne ritrovato poco dopo, tra i rami d'un corallo. La Principessa dovette acconsentire alle nozze. Il giorno stabilito s'avviarono alla cattedrale con gran pompa e cerimonia. Nonsò e la cavalla seguivano il corteo regale ed entrarono in chiesa con grave scandalo dei presenti. Ma quando la cerimonia fu terminata, la pelle della giumenta cadde in terra e lasciò vedere una Principessa più bella della Bella dalle Chiome Verdi. Essa prese Nonsò per mano: - Sono la figlia del re di Tartaria. Vieni con me nel regno di mio Padre e sarò la tua sposa. Nonsò e la Principessa presero congedo dagli astanti stupefatti, né più se n'ebbe novella.

Lassù, nel candore perpetuo, abbagliante, inaccessibile agli uomini, il Re Gennaio preparava la neve con una chimica nota a lui solo; Nevina la modellava su piccole forme tolte dagli astri e dagli edelweiss, poi, quando la cornucopia era piena, la vuotava secondo il comando del Padre ai quattro punti dell'orizzonte. E la neve si diffondeva sul mondo. Nevina era pallida e diafana, bella come le dee che non sono più: le sue chiome erano appena bionde, d'un biondo imitato dalla Stella Polare, il suo volto, le sue mani avevano il candore della neve non ancora caduta, l'occhio era cerulo come l'azzurro dei ghiacciai. Nevina era triste. Nelle ore di tregua, quando la notte era Serena e stellata e il Padre Gennaio sospendeva l'opera per dormire nell'immensa barba fluente, Nevina s'appoggiava ai balaustri di ghiaccio, chiudeva il mento tra le mani e fissava l'orizzonte lontano, sognando. Una rondine ferita che valicava le montagne, per recarsi nelle terre del sole, era caduta nelle sue mani, che avevano tentato invano di confortarla; nei brividi dell'agonia la rondine aveva delirato, sospirando il mare, i fiori, i palmizi, la primavera senza fine. E Nevina da quel giorno sognava le terre non viste. Una notte decise di partire. Passò cauta sulla barba fluente di Gennaio, lasciò il ghiaccio e la neve eterna, prese la via della valle, si trovò fra gli abeti. Gli gnomi che la vedevano passare diafana, fosforescente nelle tenebre della foresta, interrompevano le danze, sostavano cavalcioni sui rami, fissandola con occhi curiosi e ridarelli. - Nevina! - Nevina! Dove vai? - Nevina, danza con noi! - Nevina, non ci lasciare! E gli Spiritelli benigni le facevano ressa intorno, tentavano di arrestarle il passo abbracciandole con tutta forza la caviglia, cercavano di imprigionarle i piedi leggeri entro rami d'edera e di felce morta. Nevina sorrideva, sorda ai richiami affettuosi, toglieva dalla cornucopia d'argento una falda di neve, la diffondeva intorno, liberandosi dei piccoli compagni di gioco. E proseguiva il cammino diafana, silenziosa, leggera come le dee che non sono più. Giunse a valle, fu sulla grande strada. L'aria si mitigava. Un senso d'affanno opprimeva il cuore di Nevina; per respirare toglieva dalla cornucopia una falda di neve, la diffondeva intorno, ritrovava le forze e il respiro nell'aria fatta gelida subitamente. Proseguì rapida, percorse gran tratto di strada. Ad un crocevia sostò in estasi, con gli occhi abbagliati. Le si apriva dinnanzi uno spazio ignoto, una distesa azzurra e senza fine, come un altro cielo tolto alla volta celeste, disteso in terra, trattenuto, agitato ai lembi da mani invisibili. Nevina proseguì sbigottita. La terra intorno mutava. Anemoni, garofani, mimose, violette, reseda, narcisi, giacinti, giunchiglie, gelsomini, tuberose, fin dove l'occhio giungeva, dal colle al mare, mal frenati dai muri e dalle siepi dei giardini, i fiori straripavano come un fiume di petali dove emergevano le case e gli alberi. Gli ulivi distendevano il loro velo d'argento, i palmizi svettavano diritti, eccelsi come dardi scagliati nell'azzurro. Nevina volgeva gli occhi estasiati sulle cose mai viste, dimenticava di diffondere la neve; poi l'affanno la riprendeva, toglieva una falda, si formava intorno una zona di fiocchi candidi e d'aria gelida che le ridava il respiro. E i fiori, gli ulivi, le palme guardavano pur essi con meraviglia la giovinetta diafana che trasvolava in un turbine niveo e rabbrividivano al suo passaggio. Un giovane bellissimo, dal giustacuore verde e violetto, apparve innanzi a Nevina, fissandola con occhi inquieti, vietandole il passo: - Chi sei? - Nevina sono. Figlia di Gennaio. - Ma non sai, dunque, che questo non è il regno di tuo Padre? Io sono Fiordaprile, e non t'è lecito avanzare sulle mie terre. Ritorna al tuo ghiacciaio, pel bene tuo e pel mio! Nevina fissava il Principe con occhi tanto supplici e dolci che Fiordaprile si sentì commosso. - Fiordaprile, lasciami avanzare! Mi fermerò poco. Voglio toccare quella neve azzurra, verde, rossa, violetta che chiamate fiori, voglio immergere le mie dita in quel cielo capovolto che è il mare! Fiordaprile la guardò sorridendo; assentì col capo: - Andiamo, dunque. Ti farò vedere tutto il mio regno. Proseguirono insieme, tenendosi per mano, fissandosi negli occhi, estasiati e felici. Ma via via che Nevina avanzava, una zona bigia offuscava l'azzurro del cielo, un turbine di fiocchi candidi copriva i giardini meravigliosi. Passarono in un villaggio festante; contadini e contadine danzavano sotto i mandorli in fiore. Nevina volle che Fiordaprile la facesse danzare: entrarono in ballo; ma la brigata si disperse con un brivido, i suoni cessarono, l'aria si fece di gelo; e dal cielo fatto bigio cominciarono a scendere, con la neve odorosa dei mandorli, i petali gelidi della neve, la vera neve che Nevina diffondeva al suo passaggio. I due dovettero fuggire tra le querele irose della brigata. Giunti poco lungi, volsero il capo e videro il paese di nuovo festante sotto il cielo rifatto sereno... - Nevina, ti voglio sposare! - I tuoi sudditi non vorranno una Regina che diffonde il gelo. - Non importa. La mia volontà sarà fatta. Avanzarono ancora, tenendosi per mano, fissandosi negli occhi, immemori e felici... Ma ad un tratto Nevina s'arrestò coprendosi di un pallore più diafano. - Fiordaprile! Fiordaprile! ... Non ho più neve! E tentava con le dita - invano - il fondo della cornucopia. - Fiordaprile! ... Mi sento morire! ... Portami al confine... Fiordaprile!... Non reggo più!... Nevina si piegava, veniva meno. Fiordaprile tentò di sorreggerla, la prese fra le braccia, la portò di peso, correndo verso la valle. - Nevina! Nevina! Nevina non rispondeva. Si faceva diafana più ancora. Il suo volto prendeva la trasparenza iridata della bolla che sta per dileguare. - Nevina! Rispondi! Fiordaprile la coprì col mantello di seta per difenderla dal sole ardente, proseguì correndo, arrivò nella valle, per affidarla al vento di tramontana. Ma quando sollevò il mantello Nevina non c'era più. Fiordaprile si guardò intorno smarrito, pallido, tremante. Dov'era? L'aveva perduta per via? Alzò le mani al volto, in atto disperato; poi il suo sguardo s'illuminò. Vide Nevina dall'altra parte della valle che salutava con la mano protesa in un addio sorridente. Un suo vecchio precettore, il vento di tramontana, la sospingeva pei sentieri nevosi, verso il ghiaccio eterno, verso il regno inaccessibile del Padre Gennaio.

La corteccia cigolò, s'aprì a due battenti, e al Principe sbigottito apparve una scala abbagliante. Egli salì i primi scalini, trasognato, udì il colpo della porta che si chiudeva. Il palazzo era immenso. Le scale, gli atrii, i corridoi, le logge, le sale si succedevano senza fine, ricche di marmi, di porfido, di diaspro, di gemme. Aquilino s'avanzava trasognato. Si faceva notte e nessuno appariva nel palazzo incantato. Solo due mani lo precedevano: l'una recando una lucerna, l'altra facendogli segno di seguirla. Giunsero così in una sala vastissima da pranzo; Aquilino si sedette a tavola. E le due mani cominciarono a recar cibi e vini prelibati. Egli guardava quelle due mani isolate, volanti, cercava di afferrarle quando le aveva vicine, ma quelle deponevano i piatti e guizzavano via come farfalle. Mangiò, poi si sentì prendere dal sonno, s'alzò per andare a dormire. Le due mani lo precedettero in una camera di damasco vermiglio, gli fecero un gesto d'addio e d'augurio, disparvero. Egli si cacciò fra le lenzuola fini, e si addormentò. Sognava di riveder la Principessa Nazzarena, non quella condotta dal gobbo barbuto, ma quale gli era apparsa nel quadro, bellissima e bionda. Quand'ecco uno schiamazzo lo svegliò. Socchiuse gli occhi. La stanza era illuminata e molte paia di mani, eguali a quelle della sera prima, guizzavano, s'intrecciavano, accennando verso di lui. - A che giuoco si gioca? - Alla palla. - Giochiamo alla palla con quel tale che dorme? - Chi dorme? - Là, nel letto, non lo vedete? E attraverso le ciglia socchiuse, il Principe vide le mani avvicinarsi. Afferrarono le lenzuola e, tenendole tese agli orli, cominciarono a farlo sbalzare con risa rauche e sibili acuti. Egli teneva le ciglia chiuse, fingendo di dormire. - Non vuole svegliarsi! - Lo sveglieremo! Lo sveglieremo! E raddoppiarono la foga del gioco crudele. Al primo canto del gallo le mani lo sbalzarono nel letto e disparvero. Aquilino si palpava le ossa indolenzite, quando udì un fruscio e si vide accanto la lepre d'argento. Invece delle quattro zampe aveva due piedi e due mani bianchissime di donna. - Principe Aquilino, io sono la Principessa Nazzarena, quella che il vostro cuore scelse per compagna. Quando giunsi col mio corteo nel bosco, un mago mi trasformò, imprigionandomi con la mia gente in questo castello. Sarò salva se passerete qui dentro tre notti simili a questa. Il mago è quegli stesso che si presentò al vostro cospetto tentando di farvi sposare la sua nanerottola. La lepre disparve. Aquilino attese ansioso la seconda sera. Mangiò, servito dalle due mani volanti, andò a letto, s'addormentò. Si svegliò allo schiamazzo: molte mani lo ripresero dal letto, sollevarono le lenzuola, cominciarono il gioco, più furenti della sera innanzi. - Non vuole svegliarsi! - Se non si sveglia siamo perduti!... Allora le mani lo sbalzarono un'ultima volta, appiccandolo a un chiodo delle travi. E disparvero sibilando. Aquilino aprì gli occhi, vide la lepre d'argento. Aveva ormai tutto il corpo di donna; solo la testa restava di lepre e lo guardava con dolci occhi umani. - Povero Principe! Soffrite per amor mio ancora una notte e saremo salvi. Giunse la terza notte. Riapparvero le mani più furiose che mai. - Si gioca? - Giochiamo! - Ma questa notte dobbiamo finirlo! - Dobbiamo finirlo! E cominciò il rimbalzello crudele. Aquilino giungeva al soffitto, picchiava, restava aderente come una tartina di pasta, ricadeva nel lenzuolo teso, rimbalzava ancora tra le risa infernali. E non apriva gli occhi per amor di Nazzarena. - Non si sveglia! Siamo perduti! - Siamo perduti! - É l'alba! Siamo perduti! Le mani furibonde s'appressarono alla finestra, tesero le lenzuola, sbalzarono Aquilino ad un'altezza vertiginosa. Egli salì, salì, cadde per dieci minuti, picchiò sull'erba, si tastò le ossa peste, aprì gli occhi, ancora vivo. Si trovava ai piedi dell'albero incantato. Presso di lui stava la sua vera fidanzata Nazzarena, bella di una bellezza mai più vista. E aveva il suo seguito di carrozze, di dame, di cavalieri liberati con lei dal malefizio del mago. Il Principe li condusse al suo castello, adunò tutta la Corte nella sala del Gran Consiglio, fece condurre il gobbo barbuto e la figliuola laida, e rivoltosi ai ministri disse: - Avevo ordinato un cofano d'oro e di gemme; un malandrino me lo tolse strada facendo e lo sostituì con un altro di legno tarlato. Fortuna vuole che io ritrovi il primo. A quale darò la preferenza? - Al primo! - sentenziò la Corte. - E del ladro e del cofano tarlato che dovrò farne? - Bruciarli sulla stessa catasta! Così fu fatto. E la sentenza e le nozze ebbero luogo fra gli applausi di tutto il popolo.

Teresa

678607
Neera 2 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Non poteva soffermarsi a lungo su questo pensiero, tanto la prospettiva era abbagliante. Moglie di Orlandi, col suo nome, col diritto di amarlo, colla sicurezza di essere amata, e per sempre! Ella portava nell'amore l'esaltazione fatidica dei santi per la loro fede; si sentiva chiamata, guidata da una mano invisibile. Accordi celesti risuonavano dietro di lei; sognava la sua unione con Egidio, come le vergini, chiuse nei chiostri, sognano di unirsi al Signore, misticamente, nell'elevamento dell'anima che assorbe la materia, e la trascina; arse dal bisogno di trasfondersi, arse dallo struggimento femminile che le spinge tutte, religiose ed amanti, a donarsi sopra un altare; a farsi schiave dell'uomo o schiave di Dio. Questo profondo desiderio delle catene che tormenta le belle anime di donna, ha in sé una voluttà straordinaria; esse attingono nella debolezza quelle gioie medesime che vengono all'uomo dalla forza, e trovano nel cedere una ebbrezza ancor maggiore che gli altri non trovino nel conquistare. Un altro sentimento, germogliato dall'amore, Teresina lo provava in una specie di rispetto nuovo per la propria persona. Si lavava con saponi odorosi, curava le mani con una attenzione minuta, accorgendosi per la prima volta di avere delle belle manine, volendo renderle ancor piú belle, piú morbide ai baci. - Non capisco, - diceva la signora Soave - spariscono i limoni dalla dispensa come fossero panetti. E le gemelle, ad una voce: - Teresina li adopera tutti per le sue unghie. Nel suo innocente desiderio di piacere, diventava raffinata. Non toccava né aglio, né cipolle, i giorni in cui sapeva di dover parlare con Egidio; oppure, temendo di portar con sé qualche odore di cucina, coglieva delle foglie di geranio, e se le metteva in petto. Non si trovava mai pulita abbastanza; avrebbe voluto olezzare come un fiore, per lui. La maggiore delle Portalupi si faceva sposa, non col sotto-prefetto, con un impiegatuccio di Cremona. Le orfanelle cucivano il corredo, e Teresina, che conosceva la direttrice del pio ospizio, andò un giorno a vederlo insieme alla pretora. La sola parola "nozze" le faceva battere il cuore. Si sentiva trascinata con una curiosità ardente verso quel corredo che le orfane eseguivano sopra modelli fatti venire appositamente da Milano. Le povere ragazze, un po' stupide, molte ignoranti, tutte brutte, spiegavano la biancheria, mostrando i ricami di una pazienza inaudita. La direttrice, vecchia zitella, coi peli sul mento, colla faccia indurita nell'ascetismo, toccava colle sue mani scarne la batista pieghevole, passando il lembo del grembiale sotto i trafori, per dar loro maggior risalto. - Questa ghirlandina di viole - disse la pretora. - E questo punto di Venezia - soggiunse Teresina, indicando una camicia, la cui metà superiore era tutta di trine trasparenti. La direttrice la spiegò interamente, volendo mostrare la diligenza delle sue allieve. In fondo alla camicia, dopo l'orlo, correva una gala di trine arricciate, di una leggerezza ideale. Teresina interrogò cogli occhi la sua amica. - Sono bizzarrie ... sai, in alcune circostanze. La direttrice, rigida, non comprendendo nulla all'infuori del lavoro, teneva la camicia alta, spiegata come una bandiera. Intorno a lei, le orfane cogli occhi imbambolati, le bocche aperte, guardavano in silenzio. - E tutte le camicie senza maniche? - esclamò Teresina. - Oh! - fece la direttrice con accento pudibondo - quelle per la notte no. - Quelle non si portano - mormorò la pretora. - Che dici? - sussurrò Teresina a bassa voce, sgranando gli occhi. - Dico che quelle orribili camicie alte fino alle orecchie, colle maniche lunghe, tutte a pieghe sul petto, coi manichini ed il collo rivoltati, grazie a Dio, rimangono sempre come mostra nei corredi. In pratica servono meglio le altre. La direttrice si morse le labbra, dura e corretta, prendendo un pacco di fazzoletti bianchi, e poi un altro a colori assortiti; crema, roseo, azzurrino, lilla pallido. Tutte quelle tinte giovanili, messe insieme, sembravano un mazzo di fiori, e rallegravano la bianchezza uniforme della tela, ricomparendo nei nastri delle cuffiette, negli sbuffi delle camiciuole da mattina. La fanciulla osservava tutto minutamente, colla testa bassa, attenta, volendo ritenere i disegni dei ricami, per copiarli, pensando con un po' di rammarico che ella non avrebbe mai tutte quelle meraviglie. - Abbiamo anche un corredo da bambini già pronto; desiderano vederlo? - Di chi è? - Della signora Luzzi. - Oh! la sorella. - Appunto. - È dunque vero? ... Si è fatta aspettare alquanto, eh? La direttrice non rispose. Ella non aveva l'obbligo di conoscere queste cose. La pretora diede un'occhiata superficiale al corredino. Ne erano già passati tanti per le sue mani! ed alla fanciulla che lo andava esaminando disse: - Per questo hai tempo. Teresina arrossì. - Ne facciamo dei piú semplici all'occorrenza, - soggiunse la direttrice, la quale seguiva il filo delle sue idee, impassibile - e prendiamo tutto dalle nostre clienti, la tela, i merletti ... - Bene, bene. - Si fa per queste povere ragazze che non hanno né padre né madre. Teresina guardò le orfane schierate in fila, e le parvero tutte così brutte che ne provò una compassione grandissima. Certo, nessuna fra esse avrebbe conosciuto l'amore; e, senza amore, a che cosa si riduce la vita di una donna? - Poverine! La direttrice, credendo quella parola pietosa fosse diretta alla povertà delle sue allieve, si affrettò a soggiungere: - Qui però stanno bene; il cibo è sano, il lavoro non eccessivo. Quando escono, se hanno imparata un'arte, è tutto vantaggio loro. La pretora approvò in silenzio, col capo. Teresina non era convinta di quella fortuna. Pensava ad Egidio, a' suoi sguardi di fuoco, alla stretta appassionata delle sue mani. A poco a poco si staccò dall'ambiente in cui si trovava. La sua amica parlava, in piedi, colla direttrice, ed ella, interrogata, diceva: sì, no, bello sorridendo o crollando il capo, come una macchina, senza capire. Dentro a lei, intorno a lei, un'onda di pensieri la cingeva al pari di una nube, isolandola. Erano frasi tronche, un moto delle labbra, un guizzo, un silenzio, un sospiro ... L'ultima volta che si erano trovati insieme, egli aveva detto "le mie manine" baciandole; e, ripensando a quella sera, Teresina ripeteva "le mie manine" cogli occhi socchiusi, le braccia lente, stringendosi da se stessa la mano. Si scosse quando la direttrice la salutò, ed a quel saluto fecero eco le orfanelle, in coro. Ma fuori, nell'ampiezza delle vie deserte, nel verdeggiamento degli alberi, sotto il cielo digradante in pallori da opale, la seguì quell'onda dolcemente incalzante, quell'assorbimento in un pensiero unico che tiranneggiava tutti gli altri. Alla sera, intanto che si stava spogliando, rivide la fantasmagoria delle trine, della batista ricamata, dei nastri cerulei e color di rosa. Sospirò lievemente, con un'ombra di malinconia sulla fronte, e provò ad arrotolare le maniche della sua camicia, in alto sulle spalle, per giudicare l'effetto delle camicie senza manica. Concluse ch'ella non avrebbe mai osato portarle; ma si pose a letto turbata, assalita da tentazioni che la tennero desta per molto tempo. Aveva ventidue anni, si trovava nel pieno rigoglio della giovinezza; pura, non insensibile. Il mistero della vita incominciava a farsi strada nel suo cervello; ma non avendo ancora avuta una rivelazione brutale, il fatto restava sempre soggetto all'idea. Sentiva, non sapeva; e queste sue sensazioni tentava nascondere come una colpa, appunto perché ignorava che fossero le sensazioni di tutto il mondo. Non le passava neppure per la mente che sua madre avesse potuto amare così, neanche la sua amica, né alcuna delle persone di sua conoscenza. A tutti costoro, che amava da anni, cui era legata per vincoli d'abitudine e di confidenza, non avrebbe palesato uno solo de' suoi ardori. Un pensiero che l'assaliva ogni sera, nella solitudine del suo lettuccio, nella infinita dolcezza del buio, era questo: Che cosa avrebbe fatto Egidio appena si fossero sposati? subito, il primo momento? Ella non dubitava punto che l'avrebbe abbracciata. Aveva letto qua e là, di amplessi amorosi, ricordava certe frasi, certi lembi di conversazione e le sembrava che l'abbraccio, senza l'inferriata di mezzo, dovesse essere la maggior delizia dell'amore. Chiudeva gli occhi, e si sentiva scorrere un brivido per tutto il corpo. Però, se il curato di San Francesco tuonava qualche volta contro le passioni peccaminose, se nel suo libro da messa leggeva gli anatemi scagliati contro la carne, era assalita dagli scrupoli. Si credeva allora una grande colpevole, e arrossiva nel suo lettuccio, al buio, raggomitolandosi tutta nella camicia con un pudore bizzarro. Un altro pudore strano, inesplicabile, le era venuto ne' suoi rapporti col fratello. Aspettava le visite di Carlino con ansia grandissima, per avere notizie di Orlandi, per sentirne parlare; ma non correva piú a' suoi baci; non cercava le sue carezze; non gli si metteva vicino vicino, come una volta, per fiutare l'odore del sigaro o per sfiorargli la barba nascente. Se egli la prendeva per la vita, scherzando, si scioglieva come sotto l'impressione di un malessere, quasi di una ripugnanza fisica. Si affrettava poi a correggerla con una parola affettuosa, ma una specie di acredine le restava nel sangue. In una di queste occasioni, Carlino le disse: - Come sei selvaggia! Se fai sempre così non potrai piacere molto agli uomini. Ella rimase un po' mortificata, temendo di non avere grazie sufficienti. Tuttavia sapeva bene che con Egidio non sarebbe stata selvaggia; al contrario, era sempre tormentata dal desiderio di accarezzarlo, ed uno de' suoi piaceri piú intensi, quando sarebbero maritati, doveva essere quello di abbracciarlo e baciarlo come faceva coll'Ida. L'Ida se la prendeva sui ginocchi e, incominciando dai capelli, le baciava ridendo tutto il volto, fino al mento, fino al collo, fin dietro nella nuca dove spuntavano i riccioli ribelli. Egidio però non lo poteva prendere sui ginocchi, e l'idea che si potessero invertire le parti, le procurò una delle veglie piú agitate.

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- Disse così, sorridendo a se stessa nello specchio, per l'idea buffa ch'ella potesse stimarsi, e restò immobile, colpita dallo scintillio che vide davanti a sé su quelle labbra rosse, tumide, e su quei denti di una candidezza abbagliante. Tornò a sorridere. Che cosa bizzarra! Tutto il suo viso cambiava. Faceva dunque quell'effetto lì, lei, quando rideva? E si sentí invasa da una allegria curiosissima; continuava a ridere, saltellando per la camera, con una voglia di cantare, di ballare, di abbracciare qualcuno. Ad un tratto si fermò, dandosi della scioccherella. Scese nel cortile, grave, composta, prendendo delle arie da signorina, guardando benignamente il bracco che sonnecchiava lungo disteso nel canile; fece qualche passo nel giardino, chinandosi per fiutare i rosai, seria, come persona che se ne intende. - Cogli le rose - le gridò a tergo la voce dello zio. Il vecchione la osservava, affacciato alla finestra del tinello, colle mani scarne appoggiate allo stipite. Ella colse le rose, scegliendole; lasciando da parte i piccoli boccioli non ancora dischiusi; preferendo le rose piene, carnose, dal grembo cupo e fortemente odoroso; le fiutava ad una ad una prima di riunirle in mazzo; le fiutò ancora tutte insieme, a lungo, colla faccia sprofondata in mezzo alle foglie fresche, umettandosi le guancie di rugiada. - Sono belle, nevvero? - Bellissime. Ritornò sui suoi passi, lentamente, cercando ancora fra i cespugli, stringendosi al petto tutte quelle rose che le scappavano dalle dita. - Fammele vedere Teresina si accostò alla finestra, dove il vecchione faceva oramai sforzi incredibili per sostenersi ritto, e gli presentò le rose, sporgendosi avanti, sfiorandogli colle mani le mani agghiacciate. Egli barcollò un momento, odorando le rose sul seno della fanciulla, e poi cadde sfinito nel seggiolone, col capo ciondolante sovra una spalla. La fanciulla si spaventò; lasciò cadere tutti i fiori sul davanzale, e corse in cerca della zia. - Un po' di sfinitezza, niente altro - disse la zia sollevando con braccio esperto la testa del marito. Un brodo caldo lo rimise del tutto, e quando al brodo fu aggiunto un bicchierino di Malaga, gli occhi del vecchio presero a scintillare, a sprazzi, finché restarono immobili, rapidamente attratti dalle rose sparse intorno a lui. Mezz'ora dopo dormiva. - Gli uomini - disse placidamente la zia Rosa, infilando le maglie di un pedule - sono molto piú deboli di noi. - Sì? - fece Teresina, incredula. - Sì. La zia non aggiunse altro. Quella sillaba racchiudeva un'esperienza lunga, multiforme, sicura. In quella asserzione che sintetizzava la debolezza del sesso forte, c'era tutto quanto il frutto della sua vita trascorsa osservando; osservando, calma, dietro il banco del negozio, accanto ai lettini dei suoi sedici figli, nelle ore lente e pazienti della solitudine femminile. Teresina non poteva comprendere e non comprese; ma rimase sotto l'impressione di un pensiero grave, indeterminato, guardando quei due vecchi: l'uno, decrepito, attaccato rabbiosamente alla vita; l'altra, serena, nel suo indifferentismo; bella, nella calma marmorea delle forme che nessun soffio di passione aveva alterate mai. Lo zio le faceva un po' soggezione, e, segretamente, le ispirava un certo disgusto; ma non poteva saziarsi dal rimirare la zia Rosa, seduta coll'imponenza di una romana antica, agitando i ferri, moderatamente, colle mani pienotte, alzando tratto tratto lo sguardo cristallino, di una limpidezza d'acqua. Scrisse alla mamma "la zia Rosa è tanto buona quanto bella". Ma chi era il giovinetto lungo e magro, coi calzoni color cannella, che passava alla mattina sotto la sua finestra, proprio nel momento ch'ella schiudeva le gelosie? Lo seppe un giorno, a tavola, poiché la zia scodellando i tagliarini, disse: - Non so cos'abbia Cecchino, che lo vedo passare di qui cinque o sei volte al giorno, Cecchino del mastro di Posta. Sapeva il nome, sapeva che era figlio dell'impiegato postale. Osservandolo meglio, seppe anche che non era un brutto ragazzo, un po' patito, con certi occhi grandi a fior di testa, che sembravano voler pigliare le persone come in una tanaglia. Era un divertimento vederlo passare tutte le mattine, ed era comodo per l'ora: Cecchino significava le sette e mezzo in punto. La zia Rosa, che conosceva la famiglia del mastro di Posta, non disse di no, una sera quando vennero a chiederle Teresina per fare quattro salti, al suono dell'organetto; e Teresina, che non aveva mai ballato in vita sua, si sentì dare un tuffo nel sangue. Certamente era felice, ma avrebbe voluto nascondersi a tutti gli sguardi, sì poca aveva sicurezza in sé, e tanto timore di comparire goffa e screanzata. All'entrare in sala, con tutte quelle sedie allineate lungo le pareti, il pavimento spruzzato di acqua fresca, e quattro candele conficcate davanti a quattro specchietti, ella provò un momento di vertigine. Non vide nessuno, non guardò niente; a passi da sonnambula raggiunse l'angolo piú buio; c'era una seggiolina umile, dimenticata nel vano della finestra, dove aveva servito per appendere una coperta bianca a guisa di cortinaggio. Teresina sedette là, e vi rimase come inchiodata. Vedeva, confusamente, due o tre coppie che giravano, e le parve che la zia Rosa, dall'altro lato della sala, la invitasse col gesto ad uscire di quel cantuccio, a muoversi anche lei come le altre. Ma c'era una nebbia davanti alle sue pupille, non percepiva nettamente i contorni; e la nebbia crebbe, diventò tenebra folta, dopo che le si era fermato proprio davanti qualche cosa color cannella. - Posso? Che cosa si voleva da lei? Che cosa le offrivano? Chi parlava? Ella rispose vivamente no, no, respingendo un cartoccino, tutta tremante. - La prego, favorisca, solamente un confetto. Erano veramente confetti? Non la si voleva burlare? Non erano piuttosto sassolini o mollica di pane? Suo fratello le aveva fatto tante volte quello scherzo. La voce insistette così, che Teresina si decise di allungare la mano, e prese un grosso confetto. - Non balla? A poco a poco Teresina rinveniva dal suo stupore, e gli occhi riprendevano a veder chiaro. Il signor Cecchino aveva un modo di parlare mellifluo, le stava chino davanti con tanto rispetto, ch'ella ebbe una lontana intuizione di fargli piacere ad accettare le sue cortesie. Rispose dolcemente: - Non ho mai ballato. - Non sa ballare? - Oh! a scuola ... oppure colle mie sorelline ... - Ma è la stessa cosa. Mi favorisca un giro; sono persuaso che lei balla divinamente. Ripose i confetti in una tasca del giubbetto, e le porse galantemente la mano. - Temo m'abbia a girare la testa ... - Niente paura; ho il braccio saldo, con me non può cadere. E per darle subito una prova della sua forza, le recinse la vita stretta. Teresina ripiombò nel buio. Non aveva piú coscienza di se stessa, girava, girava, acciecata dalle quattro candele che le sembravano girandole abbaglianti, sentendo nel fianco il cartoccio di confetti che Cecchino aveva in tasca, non osando dirgli di tenerla meno serrata. - È stanca? Moriva; ma non ebbe il coraggio di confessarlo, inebbriata dal moto, dalla musica saltellante, dal calore di quel corpo stretto al suo, e dall'odore di gelsomini, acutissimo, che emanavano i capelli del suo ballerino. - Lei balla da angelo. Per fortuna l'organetto cessò di suonare; Teresina cadde sulla prima sedia, rossa in viso come una brace. La seconda, la terza volta che ballò con Cecchino, non aveva piú tanta suggezione; ma il turbamento cresceva. In fine della serata era giunta al punto da non potergli parlare senza che le tremasse la voce; e quand'egli disse, strisciando le parole, facendo gli occhi espressivi: - Come mi dispiace che passino queste ore! Ella, rapita, fuori di sé, chiese: - Perché? Cecchino non aspettava altro. - Per dovermi separare da una persona tanto simpatica. La sala girava come un arcolaio; girava l'organetto col suonatore; girava la zia Rosa; girava lei, Teresina, stretta fra le braccia di Cecchino. E chi girava realmente erano lor due soli, alle battute finali dell'ultimo galoppo. - Ti sei divertita? - interrogò la zia Rosa, quando furono a casa. - Moltissimo - rispose Teresina con una convinzione che le trapelava dagli occhi. Una volta chiusa nella sua camera, per poco fu felice, riandando col pensiero ogni frase di quel memorabile ballo, ricordando sillaba per sillaba tutto quello che le aveva detto Cecchino: "Posso? La prego, favorisca almeno un confetto. Non balla?", tutto, tutto, fino alle parole "una persona simpatica". Queste, solamente a pensarci, le sconvolgevano il cuore. Guardò amorosamente il confettone, divisa fra il desiderio di mangiarlo, e quello di conservarlo eternamente. Il letto le parve duro, troppo pesanti le coperte. Era stanca, ma non le riusciva di chiudere occhio; se appena le si appesantivano le palpebre, scattava, sembrandole di udire mormorare lì sul guanciale: una persona tanto simpatica E poi le venivano in mente i ritornelli dell'organetto, e si stringeva al materasso, col braccio sinistro arrotondato in alto, il braccio destro teso, nell'illusione di ballare ancora. All'alba si addormentò. Il primo pensiero, svegliandosi, fu per lui; ma invece di essere un pensiero gaio e sorridente, le si affacciò quasi come un dolore, come una spina acutissima passata nella pelle. Inoltrando il giorno, la sua malinconia cresceva. Non aveva mai provato una simile tristezza. Si sentiva cambiata, come se un gran numero d'anni le si fosse aggravato sopra; aveva pensieri mesti di morte, di malattie, uno sconforto, un vuoto. Si toccava l'abito qui, lì, dove lo aveva toccato lui; e le veniva una gran voglia di piangere. All'ora del pranzo aveva il cuore così oppresso, che non poté quasi ingoiare cibo. - Va' a coricarti, poverina, sei stanca. Teresina non se lo fece dire due volte; penava troppo a doversi frenare davanti gli zii; sentiva il bisogno della solitudine, per trovarsi libera col novo ospite che albergava in lei, per poter chiudere gli occhi, e pensare al signor Cecchino. La seconda notte non fu migliore, né il giorno seguente. Il mattino, dalla sua finestra, lo aveva veduto passare, e lo sguardo prolungato che egli le diede, l'aveva, per un istante, resa beata; ma poi la malinconia la riprese, insistente, tormentosa. - Questa ragazza è ammalata, - disse la zia Rosa, accarezzandola con dolcezza - forse le fa male l'aria. - No, zia, non mi fa male. - Sei pallida, inquieta; lasciami sentire il polso. Ti duole il capo? - Un po'. - Lasciala in pace - interruppe il vecchio, gettandole alla sfuggita una delle sue occhiate penetranti. - Non è nulla. - Lo credo che non è nulla, ma la gioventù ha bisogno tratto tratto di qualche rinfrescante; ai miei figli, quando stavano poco bene, davo un cucchiaio di manna. Lo vuoi Teresina, un cucchiaio di manna? È dolce. E poiché Teresina, girellando per la camera, si era allontanata alquanto, il vecchio fece trombetta colle mani alla bocca, in direzione di sua moglie. - È innamorata! E ghignò, crollando la testa sulla dabbenaggine della buona donna, la quale non fu capace di aggiungere altro, restando cogli occhi fissi; quei chiari occhi cristallini, limpidi, che avevano visto molte cose nella vita, ma l'amore mai.

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Oro Incenso e Mirra

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Oriani, Alfredo 1 occorrenze

Poi la mascherina ripassò gettandogli dagli occhi verdi un rapido sguardo abbagliante. Il circolo si era diradato intorno al caminetto. - La conosce quella mascherina? - chiese il giovane deputato a Lelio Fornari. - Ho appena qualche sospetto. - Io credo di averla riconosciuta. Lelio già ricomposto aspettò la rivelazione, ma l'altro, che voleva essere pregato, tacque. - Vuoi fare un giro con me, cattivo? - arrivò saltellando quella mascherina, la brunetta del maggiore, che aveva tentato di turbargli il primo incontro colla principessa. Allora Lelio ridiventò amabile. - Temo di attirarmi troppi odi. - Vieni egualmente, sono io che ti difenderò. - Avresti il coraggio di comprometterti per così poco? - Ella ebbe un grazioso movimento di testa, prendendogli il braccio per trascinarlo dietro la principessa, della quale si vedeva lo scialle bianco riflesso nell'ultimo specchio in fondo all'appartamento. - Tu ami la principessa. - No. - Provamelo. - Non vi è che un modo. - Quale? - Provare invece che ti amo, lo accetteresti? - Prima che mi sia offerto? È vero che non sono una signora, me lo hai detto dianzi: tratti così con tutte le altre donne? - Senti, mascherina, in questo momento tu mi abbomini: vorresti vendicarti di tutto il male che non ti ho fatto. La principessa tornava indietro; Lelio ebbe un fremito, sul suo viso apparve come uno sdegno di noia. - Me ne vado, me ne vado, non voglio rendere altri geloso - gli urlò sul viso la mascherina piantandolo improvvisamente in mezzo alla stanza così che la principessa udisse; e fuggì con un grande svolazzo di sottane tutta contenta di aver potuto compiere quella piccola malignità. Allora Lelio scioccamente si mise dietro alla principessa rimproverandosi di fare una così magra figura, e pensando a quale degli amici avrebbe chiesto il favore di quella presentazione. Ma il cotillon tardava. Nell'allegria crescente delle sale passavano dei soffi di follia e di passione; l'aria troppo riscaldata da quell'eccesso d'illuminazione a gas si era riempita di profumi e di una polvere sollevata dallo scalpiccio di tutti quei piedi, che turbinava sulle larghe fiamme dei becchi dorati; tutti i visi si erano animati, i gesti parevano febbrili, le voci salivano sino alle urla più squarrate per ridiscendere ad un murmure sommesso nella stretta dei colloqui ostinati, fra lo stridore vitreo delle malignità e le tentazioni di tutte quelle carezze arrischiate o sopportate. Persino molti vecchi si erano lasciati vincere dall'orgasmo generale, e passavano a braccetto di qualche maschera affettando di satireggiare sè medesimi nell'esagerazione del portamento, ma in fondo trepidanti di una tale ripresa di giovinezza, che li rituffava nell'onda inebriante della vita dopo tanti anni trascorsi in secco sull'ultimo lido. Solo la processione delle mamme e delle zie, ammantellate di nero, seguitava colla stessa lentezza annoiata, riposandosi a grandi distanze da un divano all'altro, o nel passare davanti ad una pendola la consultavano con lunghe occhiate, mentre la ressa fuggente delle mascherine le urtava momentaneamente, e qualcuna affannata, saltellante, nell'iride dei propri colori, stringeva all'improvviso una di esse al collo, le sussurrava fra il nero del cappuccio qualche parola, e scappava furbescamente prima di ricevere la risposta. Quindi le ombre proseguivano crollando il capo con una rassegnazione contenta della gioia altrui. I più annoiati erano i pochi provinciali, perché anche Bologna come tutte le capitali per quanto piccole ha questa categoria alle proprie feste, e i giovanetti di primo carnevale, cui la confidente facilità degli altri eleganti faceva soffrire nell'amor proprio; quindi si raggruppavano qua e là per riunire tutte le loro debolezze in un assalto di maldicenza, o isolati sopra una poltrona tentavano tratto tratto di ostentare la noia. Alcuni bevevano. Lelio Fornari si riconobbe ridicolo. Tutto il suo orgoglio era prostrato da quelle poche scherzose parole della principessa, che dicendogli di farsi presentare aveva risposto così repentinamente al suo urlo inconsapevole. - Irma! Girellò ancora pel vasto appartamento seguendola da lontano per attendere almeno qualche gesto, ma ella sembrava averlo dimenticato. Benché riconosciuta già da tutti, seguitava a tenere la maschera per divertirsi di quel frastuono senza prendervi troppa parte, barattando qualche stretta di mano colle più intime conoscenze, che le si inchinavano ossequiosamente come se fosse già smascherata. E a poco a poco il suo codazzo si era ingrossato, molte signore in toeletta da ballo venivano a complimentarla, altre l'avevano invitata a cena. - E Giulio, tuo marito? - È a Roma. Le sale per la cena erano al pianterreno, ma un piccolo gruppo di signore con quella prepotenza aristocratica, cui i circoli borghesi non sanno mai resistere, si era fatta apparecchiare una tavola nell'ultimo gabinetto presso il botteghino del caffè, malgrado il tintinnìo dei bacili e dei bicchieri, che ne usciva come da uno sbocco di officina. Lelio a poca distanza dalla principessa in quel momento, avrebbe dato un anno della propria superba giovinezza per essere fra quegli invitati, ma tutto il suo ingegno e la sua educazione non potevano meritargli simile onore. Il conte Turolla invece, capitando in quel punto, offrì il braccio alla principessa, che lo pregò di trarle il mascherino. Egli levò prima delicatamente i due lunghi spilloni, che le fissavano lo scialle sul mazzo dei capelli, quindi tirando al disopra di questo la fettuccia elastica le liberò il viso. La principessa apparve rossa, cogli occhi gonfi, tutta in sudore: la sottile peluria delle sue gote pareva brinata. - Oh! - esclamò scherzosamente - chissà come sono! E si avviò la prima senza degnare Lelio Fornari nemmeno di uno sguardo. Questa indifferenza, che qualunque altro di quel piccolo mondo aristocratico avrebbe preso per una necessità dell'etichetta, ferì profondamente l'amor proprio del giovane romanziere. Tutti gli odi malati della sua vanità proruppero come una muta di cani al primo allentare dei guinzagli dietro le orme fuggenti di una volpe. Nessuno degli eleganti invitati a quella breve cena olimpica valeva quanto lui, che senza titoli sapeva di discendere da un'antica famiglia feudale, forse con poco lustro nelle cronache, ma di un sangue più puro, se mai sangue puro poté conservarsi nelle famiglie, che quello medesimo dei Montalto. Sciaguratamente una stessa decadenza economica aveva forzato tutti i suoi parenti a destreggiarsi nelle professioni: alcuni erano rimasti in campagna, mutati in piccoli proprietari, economi ed incolti senza più alcun orgoglio di tradizione. Suo padre era fra questi. Egli invece aveva studiato legge, ma non ne avrebbe mai esercitato il mestiere subdolo e proficuo, meno ancora per una ripugnanza dell'ingegno che per la nativa alterezza del carattere. Viveva quindi parcamente colla pensione assegnatagli dal vecchio padre sulla dote materna la prima metà dell'anno a Bologna, e nella estate si ritirava sui monti ad una villa assai malandata col nobile pretesto di comporvi qualche libro. Tutto ciò gli sembrava ancora di un grande tono aristocratico, sebbene quella vita a Bologna gl'infliggesse tratto tratto dolorose umiliazioni. Infatti dal grosso club cittadino avendo voluto passare all'altro dei nobili frammezzato anch'esso di borghesi importanti, benché un qualche arricchito troppo presto venisse periodicamente escluso, si era urtato a parecchie difficoltà di antipatie. Non vi si giuocava e non vi si faceva grande lusso, ma la poca pensione ve lo esponeva egualmente ad amari riserbi nell'evitare certe partite di piacere o nell'accettare certi inviti. Infatti egli rimproverava sovente a se medesimo questa debolezza. La sua larga cultura filosofica, gli istinti ribelli, che nella prima giovinezza, quando in Italia il socialismo non era ancora partito, lo avevano tratto passionatamente nel campo dei novatori più rivoluzionari, e un buon senso sicuro, cui doveva le migliori osservazioni ne' suoi romanzi ancora saturi di vecchio romanticismo, gli mettevano facilmente a nudo l'inane vanità di tale pretensione. E non pertanto l'alterigia inguaribile dello spirito, esagerata ancora dalla finezza del suo gusto, lo condannava inesorabilmente a cercare l'eletta compagnia mondana fra gente, alla quale gli sarebbe stato impossibile comunicare le proprie idee, e che giudicava i suoi libri un semplice dilettantismo. Quindi tale noncuranza della principessa lo sferzò a sangue sul cuore. "Una civetta come tutte le altre!" mormorò poco dopo mentalmente rituffandosi nel veglione. Ma lo spettacolo gli parve allora anche più volgare. Nessuna maschera era elegante, nessun costume rivelava un'idea o almeno una sufficiente cultura nell'imitazione: poco lusso e non molta grazia. Oramai tutte le signore erano discese a cena; rimanevano le figlie e le mogli degli impiegati, che profittando dell'intervallo cominciavano a ballare senza più soggezione degli altri, in un allegro oblio della propria meschinità. Qualche coppia vagava a braccetto, assorta, beata momentaneamente di una intimità chissà da quanto tempo sospirata. Egli non volle ballare: alcune fra quelle ragazze senza maschera lo ammirarono sinceramente. "Che buffonata!" pensò all'improvviso insolentendo tristamente contro quel sollazzo di una piccola gente curvata tutto l'anno sotto il peso della economia domestica. Tuttavia una vanità anche più piccola lo attirava irresistibilmente verso quell'ultimo gabinetto, nel quale cenava la principessa. Resistette, poi colla solita sofistica di tutte le passioni si persuase di vincere una falsa paura coll'andarvi, e traversò il vasto appartamento fino allo stanzino del caffè per chiedere delle sigarette. Nel passare per quell'ultimo gabinetto, ove non sedevano a tavola che quattro uomini e quattro donne, nessuno gli badò; egli ripassò altero, senza guardare, avendo già rinunciato internamente a quella presentazione. - To'! non ceni? - gli chiese gaiamente un maestro di pianoforte, allegro giullare torinese non senza qualche piccola qualità di artista, che divertiva tutte le signore di Bologna. - Non ho fame. - Sei innamorato? Ah! tu no, me lo ero scordato. - E tu dove ceni? - Dalla contessa Ghigi, la divina; dev'essere laggiù nell'ultima saletta colla principessa Montalto, la marchesa Ruffoni e la signorina Antici. Me lo hanno detto. Tu non conosci alcuna di loro? - Alcuna. - Vuoi che ti presenti?... fra noi artisti.... Lelio Fornari frenò a stento un sorriso di albagia. - Come vorrai. - Allora vieni con me. - Alla loro tavola? - C'inviteranno: ci vado a posta. - Tu puoi farlo, io no; non le conosco. L'altro s'ingannò sul tono sardonico delle parole. - Dopo, non mancherà tempo. Quale ti piace di più? - Nessuna veramente. - Io preferirei la principessa come donna. E il giullare commentò questa preferenza con un gesto lubrico. - Allora presentami a lei. - Ciao. Lelio Fornari tornò nella sala del caminetto. Il giovane deputato, in colloquio grave col prefetto, parlava dell'ultima crisi ministeriale così incostituzionalmente risolta dal presidente Agostino Depretis; il prefetto andava guardingo, mentre l'altro ripeteva con una certa enfasi i soliti luoghi comuni dei giornali. Egli si mescolò alla conversazione. Più colto e perspicace d'entrambi si mise a difendere Depretis, disegnando un po' confusamente la sua complessa figura di vecchio parlamentare. Naturalmente la discussione si rinfocolò, ma egli otteneva così di trattenerli finché ripassasse tutto quel gruppo di signore colla principessa, e allora il prefetto le avrebbe indubbiamente fermate fornendo al maestro Armandi un momento opportuno per la presentazione. Poi non gli spiaceva di farsi vedere da lei in tale compagnia semi-diplomatica. Quindi il suo spirito aizzato trovò qualche paradosso originale: Agostino Depretis, così profondamente scettico dopo essere stato così caldo rivoluzionario, era la più viva espressione del momento politico in Italia. - Chi può credere adesso fra l'epopea, che si dissolve, e la commedia, che riannoda la vita suscitata dall'epopea? È l'ora dei volteggiatori politici: la sinistra arrivata al potere ne impara le difficoltà tradendo tutto il proprio programma. Agostino Depretis è forse ancora il solo fra tutti quelli che gli mutano intorno, il quale conservi alto il sentimento della grandezza nazionale. - Egli inizia una nuova êra di corruzione - proruppe il deputato. - L'avrà dominata. - È certamente un uomo superiore - replicò il prefetto contento dell'aiuto imprevedibile, che gli veniva dal giovane romanziere. - Ah! ecco un gruppo di signore. Infatti la principessa si avanzava prima fra il conte Turolla ed Armandi; questi affettava grottescamente delle arie da domestico. Il prefetto e il deputato s'inoltrarono per salutarle, si formò crocchio: Lelio rimaneva un po' dietro al prefetto. Allora Armandi lo presentò: la principessa ricevette il suo inchino, gli tese la mano colla solita cortesia, e passò oltre senza parlare. Lelio e il deputato rimasero addietro, soli. - La più bella è sempre la contessa Ghigi: la principessa non è che piccante. Lelio Fornari sollevò bruscamente la testa come sotto la puntura di una ironia, ma quando tornò nel salone gli dissero che la contessa Ghigi e la principessa Montalto se n'erano già andate.

Il sistema periodico

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Levi, Primo 1 occorrenze

Il mantello di lava, da giallo ed abbagliante, è diventato rossastro come brace, e a giorno era spento. La mia preoccupazione erano i maiali. Ho detto a Maggie che andasse a dormire, e ai quattro che venissero con me: volevo vedere che cosa era cambiato nell' isola. Ai maiali non era successo niente, però ci sono corsi incontro come a dei fratelli (io non sopporto chi parla male dei maiali: sono bestie che hanno cognizione, e mi fa pena quando li devo scannare). Si sono aperti diversi crepacci, due grandi che non se ne vede il fondo, sul pendìo nord-ovest. Il lembo sud-ovest della Foresta che Piange è stato sepolto, e la fascia accanto, per una larghezza di duecento piedi, si è seccata e ha preso fuoco; la terra doveva essere più calda del cielo, perché il fuoco ha inseguito i tronchi fino dentro alle radici, scavando cunicoli dove erano queste. Il mantello di lava è tutto costellato di bolle scoppiate dai margini taglienti come schegge di vetro, e sembra una gigantesca grattugia da formaggio: esce dal margine sud del cratere, che è crollato, mentre il margine nord, che costituisce la cima del monte, è adesso una cresta arrotondata che sembra molto più alta di prima. Quando ci siamo affacciati alla grotta del Pozzosanto siamo rimasti impietriti dallo stupore. Era un' altra grotta, tutta diversa, come quando si rimescola un mazzo di carte, stretta dove prima era larga, alta dove era bassa: in un punto la volta era crollata, e le stalattiti invece che verso il basso erano puntate di lato, come becchi di cicogne. In fondo, dove prima era il Cranio del Diavolo, c' era adesso una enorme camera, come la cupola di una chiesa, ancora piena di fumo e di scricchiolii, tanto che Andrea e Gaetano volevano a tutti i costi tornare indietro. Io li ho spediti a chiamare Maggie, che venisse anche lei a vedere la sua caverna, e, come prevedevo, Maggie è arrivata ansimando per la corsa e l' emozione, e i due sono rimasti fuori, presumibilmente a pregare i loro santi e a dire le litanie. Dentro la grotta Maggie correva avanti e indietro come i cani da caccia, come se la chiamassero quelle voci che lei diceva di sentire: ad un tratto ha cacciato un urlo che ci ha fatto arricciare tutti i peli. C' era nel cielo della cupola una fenditura, e ne cadevano gocce, ma non d' acqua: gocce lucenti e pesanti, che piombavano sul pavimento di roccia e scoppiavano in mille goccioline che rotolavano lontano. Un po' più in basso si era formata una pozza, e allora abbiamo capito che quello era mercurio: Hendrik l' ha toccata, e poi anch' io; era una materia fredda e viva, che si muoveva in piccole onde come irritate e frenetiche. Hendrik sembrava trasfigurato. Scambiava con Maggie occhiate svelte di cui non capivo il significato, e diceva a noi delle cose oscure e pasticciate, che però lei aveva l' aria di intendere; che era tempo di iniziare la Grande Opera: che, come il cielo, anche la terra ha la sua rugiada; che la caverna era piena dello spiritus mundi; poi si è rivolto apertamente a Maggie, e le ha detto: "Vieni qui stasera, faremo la bestia con due schiene". Si è tolta dal collo una catenina con una croce di bronzo, e ce l' ha fatta vedere: sulla croce era crocifisso un serpente, e lui ha gettato la croce sul mercurio della pozza, e la croce galleggiava. A guardarsi bene intorno, il mercurio gemeva da tutte le crepe della nuova grotta, come la birra dai tini nuovi. A porgere l' orecchio, si sentiva come un mormorio sonoro, fatto dalle mille gocce metalliche che si staccavano dalla volta per spiaccicarsi al suolo, e dalla voce dei rivoletti che scorrevano vibrando, come argento fuso, e si inabissavano nelle fenditure del pavimento. A dire il vero, Hendrik non mi era mai piaciuto: dei quattro, era quello che mi piaceva di meno; ma in quei momenti mi faceva anche paura, rabbia e ribrezzo. Aveva negli occhi una luce sbieca e mobile, come quella del mercurio stesso; sembrava diventato mercurio, che gli corresse per le vene e gli trapelasse dagli occhi. Andava per la caverna come un furetto, trascinando Maggie per il polso, tuffava le mani nelle pozze di mercurio, se lo spruzzava addosso e se lo versava sul capo, come un assetato farebbe con l' acqua: poco mancava che non lo bevesse. Maggie lo seguiva come incantata. Ho resistito un poco, poi ho aperto il coltello, l' ho afferrato per il petto e l' ho premuto contro la parete di roccia: sono molto più forte di lui, e si è afflosciato come le vele quando cade il vento. Volevo sapere chi era, cosa voleva da noi e dall' isola, e quella storia della bestia con due schiene. Sembrava uno che si svegli da un sogno, e non si è fatto pregare. Ha confessato che la faccenda del quartiermastro accoppato era una bugia, ma non così quella della forca che lo aspettava in Olanda: aveva proposto agli Stati Generali di trasformare in oro la sabbia delle dune, aveva ottenuto uno stanziamento di centomila fiorini, ne aveva spesi pochi in esperimenti e il resto in gozzoviglie, poi era stato invitato ad eseguire davanti ai probiviri quello che lui chiama l' experimentum crucis; ma da mille libbre di sabbia non era riuscito a cavare che due pagliuzze d' oro, e allora era balzato dalla finestra, si era nascosto in casa della sua ganza, e poi si era imbarcato di soppiatto sulla prima nave in partenza per il Capo: aveva nel baule tutto il suo armamentario di alchimista. Quanto alla bestia, mi ha detto che non è una cosa da spiegarsi in due parole. Il mercurio, per la loro opera, sarebbe indispensabile, perché è spirito fisso volatile, ossia principio femminino, e combinato con lo zolfo, che è terra ardente mascolina, permette di ottenere l' Uovo Filosofico, che è appunto la Bestia con due Dossi, perché in essa sono uniti e commisti il maschio e la femmina. Un bel discorso, non è vero? Un parlare limpido e diritto, veramente da alchimista, di cui non ho creduto una parola. Loro due, erano la bestia a due dossi, lui e Maggie: lui grigio e peloso, lei bianca e liscia, dentro la caverna o chissà dove, o magari nel nostro stesso letto, mentre io badavo ai maiali; si apprestavano a farla, ubriachi di mercurio com' erano, se pure non l' avevano già fatta. Forse anche a me già girava il mercurio nelle vene, perché in quel momento vedevo veramente rosso. Dopo vent' anni di matrimonio, a me di Maggie non me ne importa poi tanto, ma in quel momento ero acceso di desiderio per lei, e avrei fatto una strage. Tuttavia mi sono padroneggiato; anzi, stavo ancora tenendo Hendrik bene stretto contro la parete quando m' è venuta in mente un' idea, e gli ho chiesto quanto valeva il mercurio: lui, col suo mestiere, doveva pure saperlo. _ Dodici sterline alla libbra, _ mi ha risposto con un filo di voce. _ Giura! _ Giuro! _ ha risposto lui, levando i due pollici e sputando a terra frammezzo; forse era il loro giuramento, di loro trasmutatori di metalli: ma aveva il mio coltello così vicino alla gola che certamente diceva la verità. L' ho lasciato andare, e lui, ancora tutto spaurito, mi ha spiegato che il mercurio greggio, come il nostro, non vale molto, ma che lo si può purificare distillandolo, come il whisky, in storte di ghisa o di terracotta: poi si rompe la storta, e nel residuo si trova piombo, spesso argento, e qualche volta oro; che questo era un loro segreto; ma che lo avrebbe fatto per me, se gli promettevo salva la vita. Io non gli ho promesso proprio niente, e invece gli ho detto che col mercurio volevo pagare le quattro mogli. Fare storte e vasi di coccio doveva essere più facile che mutare in oro la sabbia d' Olanda: che si desse da fare, s' avvicinava Pasqua e la visita di Burton, per Pasqua volevo pronti quaranta barattoli da una pinta di mercurio purificato, tutti uguali, col loro bravo coperchio, lisci e rotondi, perché anche l' occhio vuole la sua parte. Si facesse pure aiutare dagli altri tre, e anch' io gli avrei dato una mano. Per cuocere storte e barattoli, non si preoccupasse: c' era già la fornace dove Andrea faceva cuocere i suoi santi. A distillare ho imparato subito, e in dieci giorni i barattoli erano pronti: erano da una sola pinta, ma di mercurio ce ne stavano diciassette libbre abbondanti, tanto che si stentava a sollevarli a braccio teso, e a scuoterli sembrava che dentro ci si dimenasse un animale vivo. Quanto a trovare il mercurio greggio, non ci voleva niente: nella caverna si sguazzava nel mercurio, gocciolava sulla testa e sulle spalle, e tornati a casa lo si trovava nelle tasche, negli stivali, perfino nel letto, e dava alla testa un po' a tutti, tanto che cominciava a sembrarci naturale che lo si dovesse scambiare con delle donne. È veramente una sostanza bizzarra: è freddo e fuggitivo, sempre inquieto, ma quando è ben fermo ci si specchia meglio che in uno specchio. Se lo si fa girare in una scodella, continua a girare per quasi mezz' ora. Non soltanto ci galleggia sopra il crocifisso sacrilego di Hendrik, ma anche i sassi, e Perfino il piombo. L' oro no: Maggie ha provato con il suo anello, ma è subito andato a fondo, e quando lo abbiamo ripescato era diventato di stagno. Insomma, è una materia che non mi piace, e avevo fretta di concludere l' affare e liberarmene. A Pasqua è arrivato Burton, ha ritirato i quaranta barattoli ben sigillati con cera e argilla ed è ripartito senza fare promesse. Una sera, verso la fine dell' autunno, abbiamo visto la sua vela delinearsi nella pioggia, ingrandire, e poi sparire nell' aria fosca e nell' oscurità. Pensavamo che aspettasse la luce per entrare nel porticciolo, come faceva di solito, ma al mattino non c' era più traccia di Burton né della sua baleniera. C' erano invece, in piedi sulla spiaggia, fradice e intirizzite, le quattro donne con in più due bambini, strette fra loro in un mucchio per il freddo e la timidezza; una di loro mi ha porto in silenzio una lettera di Burton. Erano poche righe: che, per trovare quattro donne per quattro sconosciuti in un' isola desolata, aveva dovuto cedere tutto il mercurio, e non gli era rimasto nulla per la senseria; che ce l' avrebbe richiesta, in mercurio o in lardo, in misura del 10 per cento, nella sua prossima visita; che non erano donne di prima scelta, ma non aveva trovato niente di meglio; che preferiva sbarcarle alla svelta e tornare alle sue balene per non assistere a risse disgustose, e perché non era un mezzano né un ruffiano, e neppure un prete per celebrare le nozze; che tuttavia ci raccomandava di celebrarle noi stessi, meglio che potevamo, per la salute delle nostre anime, che riteneva comunque già un po' compromessa. Ho chiamato fuori i quattro, e volevo proporgli di tirare a sorte, ma ho subito visto che non ce n' era bisogno. C' era una mulatta di mezza età, grassetta, con una cicatrice sulla fronte, che guardava Willem con insistenza, e Willem guardava lei con curiosità: la donna avrebbe potuto essere sua madre. Ho detto a Willem: "La vuoi? Prendila!", lui se l' è presa, ed io li ho sposati così alla meglio; cioè, ho chiesto a lei se voleva lui e a lui se voleva lei, ma il discorsino "nella prosperità e nella miseria, nella salute e nella malattia" non lo ricordavo con precisione, e così l' ho inventato sul momento, finendo con "fino a che morte sopraggiunga", che mi pareva suonasse bene. Stavo appunto terminando con questi due quando mi sono accorto che Gaetano si era scelta una ragazzina guercia, o forse lei aveva scelto lui, e se ne stavano andando via di corsa in mezzo alla pioggia, tenendosi per mano, tanto che ho dovuto inseguirli e sposarli da lontano correndo anch' io. Delle due che restavano, Andrea si è presa una negra sulla trentina, graziosa e perfino elegante, col cappello di piume e un boa di struzzo bagnato fradicio, ma con un' aria piuttosto equivoca, e ho sposato anche loro, benché avessi ancora il fiato corto per la corsa che avevo fatta prima. Rimaneva Hendrik, e una ragazza piccola e magra che era appunto la madre dei due bambini: aveva gli occhi grigi, e si guardava intorno come se la scena non la riguardasse ma la divertisse. Non guardava Hendrik, ma guardava me; Hendrik guardava Maggie che era appena uscita dalla baracca e non si era ancora tolti i bigodini, e Maggie guardava Hendrik. Allora mi è venuto in mente che i due bambini avrebbero potuto aiutarmi a guardare i maiali; che Maggie non mi avrebbe certamente dato figli; che Hendrik e Maggie sarebbero stati benissimo insieme, a fare le loro bestie a due dossi e le loro distillazioni; e che la ragazza dagli occhi grigi non mi dispiaceva, anche se era molto più giovane di me: anzi, mi dava un' impressione allegra e leggera, come un solletico, e mi faceva venire in mente l' idea di acchiapparla al volo come una farfalla. Così le ho domandato come si chiamava, e poi mi sono chiesto ad alta voce, in presenza dei testimoni: "Vuoi tu, caporale Daniel K. Abrahams, prendere in moglie la qui presente Rebecca Johnson?", mi sono risposto di sì, e poiché anche la ragazza era d' accordo, ci siamo sposati.

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Vizio di forma

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Levi, Primo 3 occorrenze

Era una villa, o forse una minuscola fortezza, di un bianco abbagliante, immersa nel folto di un bosco secolare: i muri esterni non avevano finestre, e terminavano in alto con un contorno frastagliato che poteva essere una merlatura. _ Vista dall' esterno dice poco, ma dovrebbe vedere dentro. Io ci sono stato per certi lavoretti (gliel' ho detto che qui gli idraulici sono scarsi: così io m' arrangio), e gliene potrei raccontare delle belle. Sa che erano seicento anni che la Direzione cercava di accontentare la proprietaria senza riuscirci? Soltanto adesso, con la tecnica moderna .... _ Scusi, _ interruppe Antonio un po' seccato, _ ma se mi dicesse chi è, la proprietaria, non crede che gusterei di più il suo discorso? _ Oh, mi pareva proprio di averglielo detto. È Beatrice, che diamine. L' angelica, mostruosa Beatrice, che vuole tutti al suo servizio, non esce mai, non parla con nessuno, non mangia che ambrosia e nettare surgelati, e che, con le protezioni di cui gode, non c' è speranza di togliercela di torno, né ora né in un prevedibile futuro. Le stavo appunto dicendo che solo adesso, con l' avvento delle materie plastiche e dell' elettronica, i gestori sono riusciti a soddisfare qualcuna delle sue fisime. Vedesse dentro: è un concentrato della Fiera di Milano, a meno del fracasso, naturalmente. Lei cammina solo su poliuretano espanso, spesso un metro, come un saltatore con l' asta: scalza, beninteso, e avvolta in veli di nylon. Niente luce diurna: solo tubi a catodo freddo, rosa viola e celesti; un' orgia di falsi cieli di metacrilato, false stelle fisse di hastelloy, falsa musica delle sfere fatta sull' organo elettronico, false visioni TV in circuito chiuso, false estasi farmacologiche, e un Primo Mobile di pyrex che è costato tre milioni al metro quadrato. È insopportabile, insomma: ma quando uno è personaggio di Dante, qui è tabù. A mio parere, è una situazione tipicamente mafiosa: perché Paolo e Francesca devono continuare a fare all' amore indisturbati (e mica solo nel turbine, mi creda), mentre i Poveri Amanti hanno un mucchio di difficoltà coi guardaparco? Perché Cacciaguida nello chalet in cima alla collina, e Somacal, che già ne ha viste tante, giù nella baracca che non prende mai il sole? A furia di parlare, James aveva perso il fiato, e insieme la strada. _ Bisognerà domandare a qualcuno. _ Lei conosce tutti, qui? _ Quasi tutti ci conosciamo fra noi: in fondo, non siamo poi tanti. Bussò alla porta di una capanna di legno: dal camino usciva fumo, e dalle pareti un canto marziale fortemente ritmato, ma si ritrasse poco dopo. _ Sono gentili, ma non si muovono mai di casa, e non hanno saputo darmi indicazioni: sono anche un po' timidi. Chi sono? I tedescotti di "Niente di nuovo a occidente": Tjaden, Kat, Leer e tutti gli altri; anche Paul Bäumer, naturalmente. Vado spesso a trovarli: che bravi ragazzi! Hanno avuto fortuna a venire qui da giovani, se no, chissà quanti di loro avrebbero dovuto riprendere le armi vent' anni dopo, e rimetterci la pelle o l' anima. Fortunatamente, incontrarono poco dopo Babalaci, che sapeva tutto: dov' era lo chalet di Franc6ois, che c' era in effetti un letto libero, da quanto tempo era libero, il perché e il percome, tutti quelli con cui Franc6ois aveva fatto questione di recente, e tutte le donne che aveva ricevuto. Da quelle parti il cielo era color del piombo, tirava un vento umido e rabbioso che ululava come un lupo attorno alle cantonate, ed anzi, quando lo chalet fu in vista, incominciò addirittura a nevicare: neve sporca, grigia di fuliggine, che scendeva di traverso, entrava negli occhi e toglieva il respiro. Antonio non vedeva l' ora di trovarsi al riparo, ma James gli disse che era meglio se lo aspettava fuori, un po' discosto: Franc6ois era un tipo lunatico, e lui preferiva bussare alla porta da solo, che non si vedessero facce nuove. Antonio si riparò alla meglio: c' era lì accanto un cumulo di botti sfasciate, entrò in un tino, e aspettò accovacciato che James tornasse. Lo vide bussare, aspettare due buoni minuti, bussare nuovamente: le tendine erano chiuse, ma dal comignolo usciva fumo abbondante, e quindi qualcuno in casa ci doveva pur essere. James bussò una terza volta, e finalmente la porta fu aperta. James sparì all' interno, e Antonio si accorse di essere molto stanco, e cominciò a domandarsi se sarebbe stato possibile fare un bagno caldo: in riva al Congo aveva sudato parecchio, la polvere gli si era appiccicata sotto gli abiti, e adesso il sudore gli si stava raffreddando addosso in modo sgradevole. Ma non ebbe molto da attendere: la porta si spalancò come se in casa un cannone avesse sparato, e subito dopo il dignitoso e composto James fu proiettato fuori come un bolide, e venne ad approdare fra le doghe, poco lontano dal provvisorio domicilio di Antonio. Si rialzò e si rassettò rapidamente: _ Non ... non gradisce di essere disturbato. Poi sono capitato in un brutto momento, stava con alcuni amici da prendere con le molle: c' era anche Marion l' Ydolle, la Grosse Margot, Jehanne de Bretaigne e due o tre altre ragazze; una mi è parsa la Pulzella d' Orléans. Senta, per l' avvenire vedremo, ma per stanotte venga a dormire con me: non c' è molto spazio, ma le cedo volentieri il lettino, e per me un materasso in terra va benissimo. Antonio si ambientò nel Parco con sorprendente facilità. Entro poche settimane, già aveva stretto amicizia coi suoi vicini, tutta gente cordiale, o per lo meno varia ed interessante: Kim col suo Lama, Ifigenia in Aulide, Ettore Fieramosca, Tommasino Puzzilli che si era fidanzato con Moll Flanders, il giovane Holden, il commissario Ingravallo, Aljosa con La Pia, il sergente Grisa con Lilian Aldwinkle, Bel Ami, Alberto da Giussano che stava con la Vergine Cammilla, il professor Unrat con l' Angelo Azzurro, Leopold Bloom, Mordo Nahum, Justine con Dracula, sant' Agostino con la Suora Giovane, i due cani Flush e Buck, Baldus che non passava per le porte, Benito Cereno, Lesbia accasata con Paolo il Caldo, Tristram Shandy che pure aveva solo due anni e mezzo, Teresa Raquin e Barbablù. Alla fine del mese arrivò Portnoy, lamentoso e crasso: nessuno lo poteva sopportare, ma nel giro di pochi giorni prese domicilio nella casa di Semiramide, e subito corse voce che le cose fra loro andavano a gonfie vele. Antonio si era accasato con Orazio, e ci si trovava bene: questi aveva abitudini ed orari diversi dai suoi, ma era pulito, discreto e ordinato, e lo aveva accolto con gioia; inoltre, aveva una quantità di storie curiose da raccontare, e le raccontava con un brio da incantare. A sua volta, poi, Orazio pareva non fosse mai sazio di ascoltare Antonio: gli interessava tutto, ed era al corrente anche dei fatti più recenti. Era un ottimo ascoltatore: interrompeva di rado, e solo con domande intelligenti. Tre anni circa dopo il suo ingresso, Antonio notò un fatto sorprendente. Quando casualmente levava le mani contro il sole, o anche contro una lampada forte, la luce le attraversava come se fossero di cera; poco dopo, osservò che si svegliava più presto dell' usato al mattino, e si accorse che ciò avveniva perché anche le palpebre erano più trasparenti; anzi, entro pochi giorni divennero trasparenti in misura tale che Antonio distingueva i contorni degli oggetti anche ad occhi chiusi. Lì per lì non diede peso alla cosa, ma verso la fine di maggio notò che l' intera scatola cranica gli si stava facendo diafana. Era una sensazione bizzarra ed inquietante: come se il suo campo visivo si stesse allargando, non solo lateralmente, ma anche in alto, in basso e all' indietro. Percepiva ormai la luce da qualunque direzione provenisse, e presto fu in grado di distinguere ciò che avveniva alle sue spalle. Quando, a metà giugno, si accorse che vedeva la sedia su cui era seduto, e l' erba sotto i suoi piedi, Antonio comprese che il suo tempo era giunto, la sua memoria estinta e la sua testimonianza compiuta. Provava tristezza, ma non spavento né angoscia. Si congedò da James e dai nuovi amici, e sedette sotto una quercia ad attendere che la sua carne e il suo spirito si risolvessero in luce e in vento.

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In cielo non c' era una nuvola, ma ristagnava una foschia abbagliante: non c' era vento (non c' era mai vento), e l' aria era umida e calda come in un forno da pane. Proseguirono per il sentiero, superarono il costone che delimitava la valle, e videro il mare, velato di bruma, lucido fermo e lontano. Era un mare senza pesci, buono solo per il sale: la salina era abbandonata ormai da dieci anni, ma sale se ne poteva ancora cavare, benché misto a sabbia. Sinda c' era stato una volta, con suo padre, molti anni prima; poi suo padre era partito a caccia e non era più ritornato. Il sale, adesso, lo portavano qualche volta i mercanti, ma poiché nel villaggio non c' era nulla con cui scambiarlo, venivano sempre più di rado. Sinda vide nel mare qualcosa che non aveva mai visto. Vide dapprima, proprio sulla linea dell' orizzonte, una piccola gobba luminosa, rotonda e bianca; come una minuscola luna, ma non poteva essere la luna: quella vera, quasi piena e coi margini netti, l' aveva vista tramontare solo un' ora prima. La mostrò a Diuka, ma senza molto interesse: nel mare ci sono tante cose, che entrambi avevano sentite descrivere attorno al fuoco; navi, balene, mostri, piante che crescono dal fondo, pesci feroci, anche anime di morti annegati. Cose che vengono e vanno e non ci riguardano, perché il mare è vanità e apparenza maligna: è un' immensa radura che sembra porti dappertutto e non porta in nessun luogo; sembra liscio e solido come una corazza d' acciaio, e invece non regge il piede, e se ti ci avventuri affondi. È acqua e non la puoi bere. Proseguirono il cammino: ormai la salita era finita, e il pascolo era in vista, poco più alto di loro, a un' ora di cammino. I due ragazzi e le capre avanzavano per un tratturo ben battuto, in mezzo a una nuvola di polvere gialla, di tafani e di odore ammoniacale. A intervalli, Sinda osservava il mare, alla sua sinistra, e si accorse che quella cosa stava cambiando aspetto. Adesso era tutta fuori dell' orizzonte, era più vicina, e sembrava uno di quei funghi globosi che si incontrano ai margini dei sentieri, e a toccarli si squarciano e soffiano un fiato di polvere bruna; ma in realtà doveva essere molto grossa, e a guardarla bene si vedeva che i suoi contorni erano sfumati come quelli delle nuvole. Pareva anzi che ribollisse, che cambiasse continuamente forma, come la schiuma del latte quando sta per traboccare; e diventava sempre più grossa e più vicina. Poco prima che raggiungessero il pascolo, e quando già le capre si sbandavano per brucare certi cardi fioriti, Sinda si rese conto che la cosa viaggiava diretta verso di loro. Allora gli vennero in mente certi racconti che aveva sentiti dai vecchi, e creduti solo a mezzo come si credono le favole: raccomandò le capre a Diuka, le promise che, lui o altri, sarebbero venuti prima di sera a riprenderle, e si avviò di corsa verso il villaggio. Dal villaggio, infatti, il mare non si vedeva: ne era separato da una catena di balze scoscese, e Sinda correva perché sperava-temeva che la cosa fosse la Nutrice, che viene ogni cento anni e porta la sazietà e la strage; voleva dirlo a tutti, che si preparassero, e voleva anche essere stato il primo a portare l' annuncio. C' era una scorciatoia, nota a lui solo, ma non la prese perché gli avrebbe tolto la vista del mare troppo presto. Poco prima che Sinda raggiungesse il costone, la cosa appariva enorme, da togliere il respiro: la cima era alta fino al cielo, e dalla cima pioveva acqua a torrenti verso la base, e altra acqua si avventava verso la cima. Si sentiva come un tuono continuo, un rombo-fischio-scroscio da gelare il sangue nelle vene. Sinda si arrestò un attimo, e provò il bisogno di gettarsi a terra e adorare; ma si fece forza, e si precipitò giù per la discesa, sgraffiandosi fra i rovi, inciampando nei sassi, cadendo e rialzandosi. Adesso non si vedeva più niente, ma il rombo si sentiva, e quando Sinda giunse al villaggio tutti lo sentivano, ma non sapevano cos' era, e lui Sinda invece lo sapeva, e stette in mezzo alla piazza ebbro e insanguinato accennando con le braccia che tutti venissero e ascoltassero, perché la Nutrice stava arrivando. Vennero prima pochi, poi tutti. Vennero i molti, troppi bambini, ma non era di loro che c' era bisogno. Vennero le vecchie, e le giovani che parevano vecchie, sulle soglie delle loro capanne. Vennero gli uomini dagli orti e dai campi, col passo lento e slombato di chi non conosce che la zappa e l' aratro; e venne infine anche Daiapi, quello che Sinda più attendeva. Ma Daiapi stesso, che pure era il più vecchio del villaggio, non aveva che cinquant' anni, e perciò non poteva sapere per esperienza propria che cosa si deve fare quando la Nutrice viene. Non aveva che ricordi vaghi, ricavati dai ricordi appena meno vaghi trasmessi a lui da chissà quale altro Daiapi, e poi consolidati, cementati e distorti da innumerevoli ripetizioni accanto al fuoco. La Nutrice, di questo era certo, era già venuta altre volte al villaggio: due volte, o forse anche tre o più, ma delle visite più antiche, se pure ve n' erano state, ogni memoria si era perduta. Ma di certo Daiapi sapeva, e con lui tutti sapevano, che quando viene viene così, all' improvviso, dal mare, in mezzo a un turbine, e non si ferma che pochi istanti, e getta cibo dall' alto, e bisogna essere pronti in qualche modo perché il cibo non vada disperso. Sapeva ancora, o gli pareva di sapere, che essa varca i monti e i mari come un lampo, attratta verso là dove si ha fame. Per questo non si ferma mai: perché il mondo è sconfinato, e la fame è in molti luoghi fra loro lontani, e appena saziata rinasce come i germogli delle male piante. Daiapi aveva poche forze e poca voce, ma anche se avesse avuto la voce del monsone non avrebbe potuto farla sentire per entro il fracasso che veniva dal mare, e che ormai aveva riempito la valle, tanto che ad ognuno pareva di essere sordo. Con l' esempio e coi gesti, fece sì che tutti portassero all' aperto tutti i recipienti di cui disponevano, piccoli e grandi; poi, mentre già il cielo si oscurava, e la pianura era spazzata da un vento mai visto, prese un piccone e una pala e cominciò a scavare febbrilmente, subito imitato da molti. Scavarono con tutte le loro forze, con gli occhi pieni di sudore e gli orecchi pieni di tuono: ma erano riusciti a malapena a scavare sulla piazza una fossa grande come una tomba, quando la Nutrice superò le colline come una nuvola di ferro e di fragore, e rimase librata a picco sopra le loro teste. Era più grande dell' intero villaggio, e lo coprì con la sua ombra. Sei trombe d' acciaio, rivolte verso il basso, vomitavano sei uragani sui quali la macchina si sosteneva, quasi immobile; ma l' aria scaraventata a terra travolgeva la polvere, i sassi, le foglie, gli steccati, i tetti delle capanne, e li disperdeva in alto e lontano. I bambini fuggirono, o furono soffiati via come la pula; gli uomini resistettero, avvinghiati agli alberi ed ai muri. Videro la macchina scendere lentamente; in mezzo ai turbini di polvere giallastra, qualcuno sostenne di aver intravvisto figure umane sporgersi dall' alto a guardare: chi disse due, chi tre. Una donna affermò di aver udito voci, ma non umane: erano metalliche e nasali, e così forti che superavano lo strepito. Quando le sei trombe furono a pochi metri dai culmini delle capanne, dal ventre della macchina uscirono sei tubi bianchi, che rimasero penzoloni nel vuoto: ed ecco, a un tratto dai tubi scaturì in bianchi getti l' alimento, il latte celeste. I due tubi centrali gettavano entro la fossa, ma intanto un diluvio di alimento cadeva a casaccio su tutto il villaggio, ed anche al di fuori, trascinato e polverizzato dal vento delle trombe. Sinda, in mezzo al trambusto, aveva trovato un truogolo, che aveva servito un tempo come abbeveratoio per le bestie: lo trascinò sotto uno dei tubi, ma fu pieno in un attimo, e il liquido traboccò a terra imbrattandogli i piedi. Sinda lo assaggiò: sembrava latte, anzi crema, ma non era. Era denso e insipido, e saziava in un momento: Sinda vide che tutti lo ingoiavano avidamente, raccogliendolo da terra con le mani, con le pale, con foglie di palma. Risuonò dal cielo un rumore, forse un suono di corno, o forse un ordine pronunciato da quella fredda voce meccanica, ed il flusso cessò di colpo. Subito dopo, il rombo e il vento si gonfiarono oltre misura, e Sinda fu soffiato via a rotoloni in mezzo alle pozze vischiose; la macchina si sollevò, dapprima a perpendicolo, poi obliquamente, e in pochi minuti si nascose dietro le montagne. Sinda si rimise in piedi e si guardò intorno: il villaggio non sembrava più il suo villaggio. Non solo la fossa traboccava, ma il latte colava denso per tutti i vicoli in pendio, e grondava dai pochi tetti che avevano resistito. La parte bassa del villaggio era allagata: due donne erano affogate, e così pure molti conigli e cani, e tutti i polli. A galla sul liquido furono trovati centinaia di fogli di carta stampata, tutti uguali: portavano in alto a sinistra un segno rotondo, che forse rappresentava il mondo, e poi seguiva un testo diviso in articoli, e ripetuto in diversi caratteri e in diverse lingue, ma nessuno del villaggio sapeva leggere. Sul rovescio del foglio era una ridicola serie di disegni: un uomo nudo e magro, accanto un bicchiere, ancora accanto l' uomo che beveva il bicchiere, e infine lo stesso uomo, ma non più magro; più sotto, un altro uomo magro, accanto un secchio, poi l' uomo che beveva dal secchio, e infine lo stesso uomo coricato a terra, con gli occhi sbarrati, la bocca spalancata e il ventre esploso. Daiapi comprese subito il significato dei disegni, e convocò gli uomini sulla piazza, ma era troppo tardi: nei due giorni successivi otto uomini e due donne morirono, lividi e gonfi. Fu fatto un inventario, e si vide che, senza contare il latte che era andato perduto o si era mescolato con la terra o col letame, ne rimaneva ancora abbastanza per nutrire l' intero villaggio per un anno. Daiapi dispose che al più presto si cuocessero giare e si cucissero otri di pelle di capra, perché temeva che il latte della fossa si corrompesse a contatto con il terreno. Solo quando fu notte, Sinda, stordito da tutte le cose viste e fatte, e intorpidito dal latte bevuto, si ricordò di Diuka rimasta all' alpeggio con le capre. Partì all' alba dell' indomani, portando con sé una zucca colma di cibo, ma trovò le capre disperse, e quattro ne mancavano, e anche Diuka mancava. La ritrovò poco dopo, ferita e spaventata, ai piedi di un dirupo, insieme con le quattro bestie morte: le aveva soffiate giù il vento della Nutrice, quando aveva sorvolato il pascolo. Qualche giorno dopo, una vecchia, ripulendo il suo cortile dalle croste di latte seccato dal sole, rinvenne un oggetto mai visto prima. Era lucido come l' argento, più duro della selce, lungo un piede, stretto ed appiattito; ad una estremità era arrotondato a formare un disco con un grosso intacco esagonale; l' altra estremità costituiva come un anello, il cui foro, largo due dita, aveva la forma di una stella a dodici punte ottuse. Daiapi ordinò che si costruisse un tabernacolo di pietra sul masso erratico che stava presso il villaggio, e che l' oggetto vi fosse conservato per sempre, a ricordo del giorno della visita della Nutrice.

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Una ragazza in camice bianco pennellò loro sulla fronte un liquido dall' odore pungente, li espose per pochi minuti alla luce azzurra ed abbagliante di una lampada, e stampigliò ad entrambi, verticalmente al di sopra del naso, un giglio stilizzato; poi, sulla fronte di Laura, scrisse in elegante corsivo: "Lilywhite, per lei", e sulla fronte di Enrico, "Lilybrown, per lui". Si sposarono dopo due mesi, che per Enrico furono piuttosto duri. In ufficio, dovette dare un buon numero di spiegazioni, e non trovò nulla di meglio che esporre la pura verità; anzi, la verità quasi pura, perché non fece parola di Laura, e attribuì alla propria fronte tutti i nove milioni: la cifra non la tacque, perché temeva che gli rimproverassero di essersi venduto per poco. Alcuni lo approvarono, altri lo disapprovarono; non gli parve di riscuotere simpatia, e tanto meno gli parve che riscuotesse attenzione il profumo che la sua fronte vantava. Era combattuto da due spinte contrastanti: spiattellare a tutti l' indirizzo dell' agenzia, per non essere solo; o invece tenerlo segreto, per non deprezzarsi. Il suo imbarazzo si attenuò parecchio qualche settimana dopo, quando vide il Molinari, serio e intento come sempre dietro al suo tecnigrafo, che portava scritto in fronte: "Denti sani con Alnovol". Laura aveva, o si faceva, meno problemi. In casa, nessuno aveva trovato nulla a ridire, anzi, sua madre si era affrettata a presentarsi all' agenzia, ma l' avevano rifiutata dicendole apertamente che la sua fronte aveva troppe rughe per essere utilizzabile. Laura aveva poche amiche, non studiava più e non lavorava ancora, così non le era difficile tenersi in disparte. Girava i negozi per via del corredo e dei mobili, e si sentiva guardata, ma nessuno le faceva domande. Decisero di fare il viaggio di nozze in auto, con la tenda, ma evitando i camping organizzati, ed anche dopo che furono tornati si trovarono d' accordo nel presentarsi in pubblico il meno possibile: cosa non molto gravosa per due giovani sposi, per di più indaffarati a mettere su casa. Tuttavia, entro pochi mesi il loro disagio era quasi scomparso: l' agenzia doveva aver fatto un buon lavoro, o forse altre agenzie l' avevano imitata, poiché non era ormai più raro incontrare per strada o sul filobus individui dalla fronte segnata. Per lo più erano giovani o ragazze attraenti, molti erano visibilmente degli immigrati: nella loro scala, un' altra giovane coppia, i Massafra, portava scritto in fronte, in due versioni gemelle, l' invito a frequentare una certa scuola professionale per corrispondenza. Fecero presto amicizia, e presero l' abitudine di andare insieme al cinema, e a cena in trattoria alla domenica sera: un tavolo era riservato per loro quattro, sempre lo stesso, in fondo a destra entrando. Si accorsero in breve che anche un altro tavolo, contiguo al loro, era frequentato abitualmente da gente segnata, e venne loro naturale di attaccare discorso e di scambiarsi confidenze sui rispettivi contratti, sulle esperienze precedenti, sui rapporti col pubblico, e sui piani per l' avvenire. Anche al cinematografo, quando era possibile, prendevano posto nelle poltrone che stavano a destra entrando, perché avevano notato che diversi altri segnati, uomini e donne, usavano sedersi di preferenza in quei posti. Verso novembre, Enrico calcolò che un cittadino su trenta portava qualcosa scritto sulla fronte. Per lo più erano inviti pubblicitari come i loro, ma si incontravano talvolta sollecitazioni o dichiarazioni diverse. Videro in Galleria una giovane elegante che recava scritto in viso "Johnson boia"; in via Larga, un ragazzo dal naso rincagnato come i pugili che recava "Ordine : Civiltà"; fermo ad un semaforo, al volante di una Minimorris, un trentenne con le basette che recava "Scheda bianca!"; sul filobus numero 20 due graziose gemelle, appena adolescenti, che portavano scritto in fronte, rispettivamente, "Viva il Milan" e "Forza Zilioli". All' uscita di un liceo, un' intera classe di ragazzi recava scritto "Sullo go home"; incontrarono una sera, in mezzo alla nebbia, un personaggio indefinibile, vestito con vistosa pacchianeria, che sembrava ubriaco o drogato, e sotto la luce di un lampione rivelò la scritta "INTERNO AFFANNO". Era poi diventato comunissimo trovare per strada bambini che portavano in fronte, scarabocchiati con una penna a sfera, viva e abbassi, ingiurie e parole sporche. Enrico e Laura si sentivano dunque meno soli, ed anzi, incominciavano a provare fierezza, perché si sentivano in certa misura dei pionieri e dei capostipiti: erano anche venuti a sapere che le offerte delle agenzie erano addirittura precipitate. Nell' ambiente dei vecchi segnati correva voce che, per una scritta normale, su di una sola riga e per tre anni, ormai non si offrissero più di 300000 lire, e il doppio per un testo fino a trenta parole con un marchio d' impresa. A febbraio ricevettero in omaggio il primo numero della "Gazzetta dei Frontali". Non si capiva bene chi la pubblicasse: per i tre quarti, naturalmente, era zeppa di pubblicità, e anche il quarto residuo era sospetto. Un ristorante, un campeggio e vari negozi offrivano ai Frontali modesti sconti sui prezzi; si rivelava l' esistenza di un club, in una viuzza di periferia; si invitavano i Frontali a frequentare la loro cappella, dedicata a san Sebastiano. Enrico e Laura ci andarono una domenica mattina, per curiosità: dietro l' altare era un grande crocifisso di plastica, e il Cristo portava scritto JNRI sulla fronte anziché sul cartiglio. Press' a poco allo scadere del terzo anno del contratto, Laura si accorse di aspettare un bambino, e ne fu lieta, benché, con i recenti aumenti del costo della vita, la loro situazione finanziaria non fosse brillante. Andarono dal Rovati a proporre un rinnovo, ma lo trovarono assai meno gioviale di un tempo: offerse loro una cifra irrisoria per un testo lungo ed ambiguo in cui si vantavano certe filmine danesi. Rifiutarono, di comune accordo, e scesero al centro grafico per la cancellatura; tuttavia, a dispetto delle assicurazioni della ragazza in camice bianco, la fronte di Laura rimase ruvida e granulosa come per una scottatura, e poi, guardando bene, il giglio stilizzato si distingueva ancora, come le scritte del Fascio sui muri di campagna. Il bambino nacque a termine, regolarmente: era robusto e bello, ma, inesplicabilmente, portava scritto sulla fronte "OMOGENEIZZATI CAVICCHIOLI". Lo portarono all' agenzia, ed il Rovati, fatte le opportune ricerche, dichiarò loro che quella ragione sociale non esisteva in alcun annuario, ed era sconosciuta alla Camera di Commercio: perciò non poteva offrire loro proprio niente, neppure a titolo di indennizzo. Gli fece ugualmente un buono per il centro grafico, affinché la fronte del piccolo fosse cancellata gratuitamente.

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Lilit

681945
Levi, Primo 2 occorrenze

Uscimmo nella luce del pomeriggio, che ci parve abbagliante. La signora Torres ci fece notare che nelle fenditure delle pietre si annidavano molte lucertole grigio-brune, squamose; altre stavano immobili al sole velato, come minuscoli bronzi. Se disturbate, fuggivano fulminee a rintanarsi, oppure si avvolgevano su se stesse come gli armadilli, e in quella forma, ridotte a piccoli dischi compatti, si lasciavano cadere nel vuoto. Fuori del tempio si era radunata una folla di mendicanti scarni, uomini e donne, dall' aspetto minaccioso. Alcuni avevano eretto poco lontano delle basse tende nere, e vi stavano accovacciati al riparo dal sole. Ci guardavano con curiosità insolente ed insistente, ma non ci rivolsero la parola. _ Aspettano la bestia, _ disse Agustìn: _ aspettano che esca. Vengono tutte le sere, da sempre; passano la notte qui, e nelle tende hanno i coltelli. Aspettano da quando esiste il tempio. Quando uscirà, la uccideranno e la mangeranno, e allora il mondo sarà risanato: ma la bestia non uscirà mai.

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Poco dopo la porta fu aperta tra clamori incomprensibili, ed Achtiti fece loro cenno di uscire nella luce abbagliante del giorno: la lancia era arrivata. Il congedo non fu lungo né cerimonioso. Achtiti si era subito allontanato dalla porta della prigione; si accovacciò sui talloni voltando loro la schiena, e rimase immobile, come pietrificato, mentre i guerrieri Siriono conducevano i due alla sponda. Due o tre donne, ridendo e strillando, si scoprirono il ventre verso di loro; tutti gli altri del villaggio, anche i bambini, dondolavano il capo cantando "luu, luu", e mostravano loro le due mani molli e come disarticolate, lasciandole ciondolare dai polsi come frutti troppo maturi. Wilkins e Goldbaum non avevano bagaglio. Salirono sulla lancia, che era pilotata da Suarez in persona, e lo pregarono di partire più presto che poteva. I Siriono non sono inventati. Esistono veramente, o almeno esistevano fin verso il 1945, ma quanto si sa di loro fa pensare che, almeno come popolo, non sopravvivranno a lungo. Sono stati descritti da Allan R. Holmberg in una recente monografia ("The Siriono of Eastern Bolivia"): conducono un' esistenza minimale, che oscilla fra il nomadismo ed un' agricoltura primitiva. Non conoscono i metalli, non posseggono termini per i numeri superiori al tre, e, benché debbano sovente attraversare paludi e fiumi, non sanno costruire imbarcazioni; sanno però che un tempo le sapevano costruire, e si tramanda fra loro la notizia di un eroe, il cui nome era quello della Luna, che aveva insegnato al loro popolo (allora molto più numeroso) tre arti: accendere il fuoco, scavare piroghe e fabbricare archi. Di queste, oggi solo l' ultima sopravvive: anche il modo di fare il fuoco lo hanno dimenticato. Hanno raccontato a Holmberg che in un tempo non troppo lontano (due, tre generazioni addietro: press' a poco all' epoca in cui fra noi nascevano i primi motori a combustione interna, si diffondeva l' illuminazione elettrica e si cominciava a comprendere la fine struttura dell' atomo) alcuni fra loro sapevano fare il fuoco frullando uno stecco nel foro di un' assicella; ma a quel tempo i Siriono vivevano in un altro territorio, dal clima quasi desertico, in cui era facile trovare legna secca ed esca. Ora vivono fra paludi e foreste, in perpetua umidità: non trovando più legna secca, il metodo dell' assicella non è più stato praticato, ed è stato dimenticato. Il fuoco, però, l' hanno conservato. In ognuno dei loro villaggi o delle loro bande vaganti c' è almeno una donna anziana, il cui compito è di mantenere vivo il fuoco in un braciere di tufo. Quest' arte non è così difficile come quella di accendere il fuoco per strofinio, ma non è neppure elementare: specialmente nella stagione delle piogge occorre alimentare la fiammella coi fiori di una palma, che vengono fatti essiccare al calore della fiamma stessa. Queste vecchie vestali sono molto diligenti, perché se il loro fuoco muore anch' esse vengono messe a morte: non per punizione, ma perché vengono giudicate inutili. Tutti i Siriono che sono giudicati inutili perché incapaci di cacciare, di generare e di arare con l' aratro a piolo sono lasciati morire. Un Siriono è vecchio a quarant' anni. Ripeto, non sono notizie inventate. Sono state riportate dallo "Scientific American" nell' ottobre 1969, ed hanno un suono sinistro: insegnano che non dappertutto e non in ogni tempo l' umanità è destinata a progredire.

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ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Quasi nel medesimo istante un lampo abbagliante ruppe le tenebre e un sordo tuono echeggiò fra le tempestose nubi, perdendosi nei lontani orizzonti con un lungo rullo.

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 4 occorrenze

Più che nebbie erano banchi di nuvole di spessore straordinario, a strati sovrapposti e di una bianchezza abbagliante, gravide però di pioggia. Sulla valle l'acqua doveva cadere in gran copia, udendosi sotto l'aerotreno un crepitio incessante. Lo "Sparviero", che si manteneva a un'altezza di settecento metri, ben presto si trovò in mezzo ai banchi, tuffando gli aereonauti fra le masse vaporose ed ora uscendone, non avendo quegli strati dovunque un eguale spessore. Non si deve credere che le nuvole formino sempre delle masse compatte, come appaiono agli sguardi delle persone che si trovano in terra. Sovente formano dei veri banchi, di lunghezza e di larghezza considerevole, separati da leggeri strati d'aria più o meno vasti che lasciano cadere la pioggia sugli strati inferiori, senza lasciarla cadere fino a terra. Se ne trovano a tremilacinquecento metri d'altezza e a millecinquecento, e perfino a soli duecento metri dalla superficie della terra. Lo "Sparviero", dopo essere scivolato fra quei banchi, tornò a rivedere il sole, passando sopra un nuovo gruppo di montagne che si dirigevano verso il sud-ovest. I villaggi ricominciavano a comparire, circondati da campi coltivati con gran cura e da risaie sconfinate che terminavano in mezzo a paludi. Essendosi lo "Sparviero" abbassato fino a duecento metri, gli aeronauti scorgevano sovente dei contadini, i quali, come in altri luoghi, vedendo quel gigantesco uccello solcare l'atmosfera, fuggivano a rompicollo e si gettavano nei solchi; coprendosi perfino colle erbe e colla terra per paura di venire divorati da quella bestia che dovevano scambiare sempre per un terrribile drago. Intanto, panorami meravigliosi e sempre nuovi, si svolgevano dinanzi agli sguardi degli aereonauti. Ora erano smaglianti praterie dove pascolavano miriadi di montoni; ora catene di colline coi fianchi coperti da foreste più che secolari e interrotte da valloni e da burroni dove scrosciavano o muggivano impetuosi corsi d'acqua; ora piantagioni superbe, divise in grandi quadri con cura meticolosa, dove crescevano gelsi, piante di cotone ed indaco; ora immense ortaglie che circondavano graziosi villaggi; di quando in quando qualche torre lanciava i suoi tetti arcuati e adorni di campanelli al di sopra d'un fortino perduto sulle creste di qualche altura. Al sud, a una grande distanza, si vedeva giganteggiare sempre la grande muraglia, che seguiva le capricciose curve e le salite d'una catena di monti. Al nord invece, seminascosta dalla nebbia, appariva una pianura sconfinata, che scintillava vivamente sotto i raggi del sole, era la steppa od il deserto di Gobi, o meglio lo Sciamo, come lo chiamano i tartari. A mezzodì un gran nastro d'argento si delineò verso l'ovest, tagliando tutto l'orizzonte. - Il Fiume Giallo - disse il capitano, dopo averlo osservato attentamente con un buon cannocchiale. - Siamo sui confini dell'antico impero cinese; al di là vi è la Mongolia. - Andremo a vederlo? - chiese Fedoro. - Anzi, seguiremo per qualche tratto il suo corso, prima di slanciarci attraverso il deserto. - E perché volete attraversarlo, mentre la nostra rotta per andare in Europa sarebbe il sud-ovest? - chiese Rokoff. Il capitano guardò il cosacco per qualche minuto, ma non rispose, anzi si allontanò raggiungendo il macchinista che teneva la ruota del timone. - Che strano uomo! - esclamò Rokoff. - Che abbia tutt'altra intenzione che di condurci in Europa? Comprendi qualche cosa tu Fedoro? - No, Rokoff. - Quale scopo può avere per condurci attraverso lo Sciamo? - Non riesco a indovinarlo. - Che voglia invece condurci in Siberia? - - A fare che cosa? - Ho pensato che quest'uomo potesse essere ... indovina chi, Fedoro. - Non saprei. - Un agente segreto della polizia russa, incaricato di scoprire gli esiliati che fuggono dalle miniere siberiane. - In tal caso, imbarcando noi sul suo "Sparviero", avrebbe preso un granchio colossale - disse il russo, ridendo. - Io credo invece che sia uno scienziato. - Appartenente a quale nazione? Vorrei sapere perché non ce lo dice - disse Rokoff. - Forse un giorno ce lo dirà. D'altronde noi non possiamo lamentarci della sua ospitalità, quindi non c'importa di sapere se sia americano o russo o inglese o italiano ... Italiano! Ha un accento così dolce che lo riterre per tale, Rokoff. Non te ne sei accorto? - Infatti la sua pronuncia mi pare che non abbia la ruvidezza della lingua inglese, né tedesca, né ... - Signori, l'Hoang-ho - disse il capitano avvicinandosi bruscamente. - Ci terreste a una partita di caccia sui suoi isolotti o sulle sue rive? Si dice che i fagiani dorati ed argentati abbondino fra i canneti. - Farei volentieri alcune fucilate, capitano - disse Rokoff, prontamente. - Ho dei buonissimi fucili da caccia che metto a vostra disposizione. Quando giungeremo in un luogo deserto scenderemo. L'Hoang-ho, o Fiume Giallo, si svolgeva dinanzi agli sguardi degli aeronauti, aprendosi il passo fra due rive coperte da giganteschi pini e da numerose capanne. Questo fiume, chiamato giallo perché le sue acque, scorrendo su un letto d'argilla giallastro ne assumono il colore, è uno dei più importanti della Cina, raggiungendo una lunghezza di ben tremilanovecentonovanta chilometri. Nasce nella Mongolia - fra le aspre montagne del Kulkum, dove viene chiamato dagli indigeni Haro-mu-ren. Dopo immensi serpeggiamenti va a bagnare le terre delle provincie cinesi di Kan-Suhe, di Scen-Si e del Sian-Si, entra fra quelle dell'Ho-Nam e del Kiang-Su e va a scaricarsi nel Mar Giallo duecentoventi chilometri al nord dell'Yang-tse-Kiang, l'altro gigantesco fiume della Cina. È un corso d'acqua rapidissimo, molto largo, irto di bassi fondi che ne rendono la navigazione difficile e sommamente pericolosa per le sue piene. Disastri enormi ha prodotto in tutti i tempi, subissando molte città ed ingoiando migliaia e migliaia di abitanti, nonostante le gigantesche dighe costruite dai primi imperatori cinesi e continuate fino ai nostri giorni. Nel momento in cui lo "Sparviero" giungeva, numerosi pescatori si trovavano disseminati attorno agli isolotti, montati su sha-ting, specie di barche piatte, e alcune giunche dalle forme tozze, colle immense vele formate da giunchi intrecciati, solcavano il fiume. Vedendo apparire quel mostro volante, che procedeva con velocità fulminea e con un rombo sonoro, uno spavento indicibile si era sparso fra i cinesi. Le giunche si affrettavano a dirigersi verso le rive, mentre i pescatori, pazzi di terrore, balzavano in acqua, abbandonando le loro barche alla corrente. - Un drago! Un drago! - urlavano tutti. Gli abitanti delle sponde, udendo quei clamori, si precipitavano fuori delle capanne, ma, appena scorto il mostro volante, s'affrettavano a rientrare, gridando e facendo gesti disperati. Rokoff e Fedoro si divertivano immensamente del terrore dei cinesi e anche il capitano pareva che si compiacesse dell'effetto che produceva la sua macchina volante, la quale seguiva le capricciose curve del fiume, tenendosi a un'altezza di soli cento metri. A un tratto però le loro risa si tramutarono improvvisamente in un'esclamazione di sorpresa e anche d'angoscia. Lo "Sparviero" aveva superato una curva, quando d'un tratto un colpo di cannone rimbombò sulla riva destra, in mezzo ad un folto gruppo di pini seguito subito dal ben noto ronfo metallico d'un grosso proiettile. Un fortino, nascosto fino allora dalle piante, si era improvvisamente delineato all'estremità d'un piccolo promontorio dominante il corso del fiume ed alcuni artiglieri, che occupavano una bastionata, avevano fatto fuoco contro il mostro, scaricando un grosso pezzo d'artiglieria. La palla, di grosso calibro di certo, era passata pochi metri sopra il fuso, perdendosi poi fra le boscaglie della riva opposta. Un po' più abbasso e forse la macchina sarebbe stata fracassata. - In alto! In alto! - aveva gridato il capitano, slanciandosi verso il macchinista. Rokoff e Fedoro avevano staccato rapidamente due fucili che si trovavano sospesi alla balaustrata armandoli precipitosamente. In quell'istante un secondo sparo rimbombava all'estremità del bastione, dietro un terrapieno. Altri soldati, dei manciù, avevano smascherato un secondo pezzo e credendo in buona fede d'aver a che fare con qualche mostro, avevano fatto fuoco. Un momento dopo l'ala di babordo, troncata a metà, quasi nel centro dell'armatura, si ripiegava bruscamente, spostando il fuso. Il capitano aveva mandato un grido di furore. - Canaglie! Ci rovinano! Rokoff e Fedoro avevano risposto con due colpi di fucile, abbattendo uno degli artiglieri. Gli altri, vedendo cadere il loro compagno, si erano precipitati all'impazzata verso una casamatta, abbandonando il pezzo. Fortunatamente, anche i manciù che si trovavano all'opposta estremità del bastione, ne avevano seguito l'esempio, rifugiandosi entro il fortino. - Signore! - gridò Rokoff. - Cadiamo? - No, - rispose il capitano, che aveva ricuperato prontamente il suo sangue freddo. - I piani inclinati ci sostengono e pel momento non v'è alcun pericolo. È un'avaria che ripareremo. Il fuso infatti si manteneva all'altezza primitiva, però aveva rallentato la sua corsa e si era inclinato verso l'ala ferita. Le eliche orizzontali e quella di rimorchio funzionavano con velocità vertiginosa sostenendo l'apparecchio, ma le ali non agivano più, per non guastare interamente quella che era stata colpita dal proiettile. - Resisteremo? - chiese Rokoff che s'aspettava di vedere, da un momento all'altro, lo "Sparviero" precipitare nelle acque profonde e vorticose del fiume. - Sì, - rispose il capitano che cercava di dare alle eliche la maggior rapidità possibile. - Non approdiamo? - chiese Fedoro. - La riva destra è vicina. - Non ho alcun desiderio di farmi assassinare dai manciù! Se ci vedessero scendere qui verrebbero a scovarci. Bisogna che ci allontaniamo fino a trovare qualche isola o qualche sponda deserta. - E se cadiamo prima di giungervi? - chiese Rokoff, che non si sentiva affatto tranquillo. - Il vento che soffia dietro di noi ci porta e agisce a meraviglia sui piani inclinati. Guardate: non discendiamo nemmeno d'un centimetro. - Maledetti cinesi! ... - Ci hanno scambiato per demoni. - E l'ala? - L'accomoderemo - rispose il capitano. - Non si tratta che di fare una solida saldatura e una rilegatura all'asta, e io, in previsione di possibili accidenti, ho portato con me tutto il necessario per le riparazioni. Il mio macchinista s'incaricherà di guarire la nostra povera ala. Si vede ancora il fortino? - No, signore, è nascosto da una curva del fiume - rispose Fedoro. - E io scorgo dinanzi a due o tre miglia di distanza, un'isola che fa per noi. Sono deserte le rive? - Non vedo che boschi di pini e canneti. - Speriamo di calare inosservati. Lo "Sparviero", sempre sorretto dai suoi piani inclinati e rimorchiato dall'elica prodiera, s'avanzava lentamente sull'Hoang-ho, spinto anche dal vento che era, fortunatamente, favorevolissimo. Era però sempre un po' sbandato dal lato dell'ala spezzata, tuttavia pareva evitato il pericolo d'un capitombolo improvviso. L'isola ingrandiva a vista d'occhio. Era un bel pezzo di terra, di forma allungata, situato proprio in mezzo al fiume, in un punto dove questo aveva una larghezza di oltre due chilometri. Folti canneti circondavano l'isolotto e sulle rive crescevano numerose piante, per la maggior parte pini, querce e giuggioli. Numerosi uccelli acquatici, gru, oche, schiavi d'acqua, alcedi e marangoni svolazzavano in mezzo ai canneti, formando, colle loro grida rauche, un baccano assordante. - Bell'isolotto, - disse Rokoff che lo guardava attentamente. - E non vi è alcun abitante - disse Fedoro. - Ne prenderemo possesso senza contrasti e spiegheremo la bandiera dello "Sparviero", se ne ha una. - L'ha, ma non si espone, almeno per ora - disse il capitano che lo aveva udito. - Ehi, macchinista, rallenta e lasciamoci cadere dolcemente. I piani inclinati basteranno. L'isola, che aveva un circuito d'oltre un miglio, si prestava magnificamente alla discesa dello "Sparviero" poiché, mentre le rive erano coperte di folti alberi, l'interno invece era solamente ingombro di sterpi e di piccoli cespugli. Arrestato il movimento turbinoso delle tre eliche, l'aerotreno che aveva già raggiunto la punta estrema dell'isolotto, cominciò ad abbassarsi lentamente, sorretto dai piani inclinati, i quali agivano come due immensi aquiloni. Passò sopra i primi alberi sfiorandone le cime, poi calò dolcemente proprio in mezzo a quel brano di terra, coricandosi fra i cespugli. Le due ali, con un mezzo giro dell'albero motore, si erano distese orizzontalmente, in modo da rimanere perfettamente nascoste a qualunque navigante che scendesse o salisse il fiume. - Che cosa ne dite di questa discesa? - chiese il capitano con voce assai lieta. - Che non poteva riuscire migliore - rispose Rokoff. - Potete andare superbo della vostra macchina, signore. Eppure io avrei giurato che saremmo precipitati in mezzo al fiume. - Sì, se il mio "Sparviero" non fosse stato munito dei suoi piani inclinati - disse il capitano. - Andiamo a vedere l'avaria prodotta da quella maledetta palla. Sbarcarono balzando fra gli sterpi, sotto i quali si udivano pigolare numerosi uccelli e si vedevano fuggire bande di piccoli rosicchianti, ed esaminarono l'ala. Il proiettile aveva spezzato nettamente l'asta principale, a circa metà altezza, asportandone un pezzo lungo trenta centimetri e forando la seta, sicché le nervature superiori, non più sorrette, si erano ripiegate. Era una mutilazione grave, ma non irreparabile. - Quanto tempo ti è necessario? - chiese il capitano al macchinista. - Non meno di dodici ore - disse l'interrogato. - Rispondi della saldatura? - Sarete soddisfatto. Abbiamo una buona scorta d'aste d'alluminio e la fucina. - Ti possiamo essere utili? - Farò tutto da me. - Portami dei fucili da caccia. Poi volgendosi verso Rokoff e Fedoro, disse: - Signori, facciamo una battuta fra i canneti della nostra possessione. Un po' di carne fresca spero che l'accoglierete bene. I fagiani dorati e argentati non devono mancare fra questi cespugli. - Una passeggiata la faccio volentieri - rispose Rokoff. - E poi mi preme di sapere se i manciù del fortino sono rimasti sui loro bastioni. - Temete che vengano a disturbarci? Non credo che ci abbiano veduti calare su questo isolotto. - Non abbiamo percorso molte miglia, capitano. - Una mezza dozzina. - Siamo ancora troppo vicini. - Li consiglierei a non venire qui - disse il capitano. - Abbiamo una mitragliera che tira stupendamente. Signori, in caccia!

A un tratto però a quell'oscurità successe una luce intensa, abbagliante, seguita da tuoni formidabili che sembravano scoppi di mine colossali o di polveriere. Linee di fuoco correvano a destra e a sinistra degli aeronauti atterriti, facendo scintillare il fuso, il quale pareva che fosse diventato incandescente. Erano folgori che passavano a pochi metri e che subito scomparivano in mezzo alle masse di vapore che il vento travolgeva burrascosamente. Un odore acuto, che pareva di zolfo, si espandeva all'intorno soffocando gli aeronauti. Tutto era in fuoco. Migliaia di scintille correvano sulle ali, sui piani inclinati, sulle eliche, sul ponte, sulle vesti stesse degli uomini. Perfino la barba di Rokoff era piena. - Capitano! - gridò il cosacco cercando di dominare, colla sua robusta voce, quei rombi e quegli scoppi. - Che cosa succede? - Siamo in mezzo alla meteora - rispose il comandante, con voce soffocata. D'improvviso quelle luci si spensero, i tuoni cessarono bruscamente, i ruggiti del vento si quietarono. Non si udiva altro che un continuo crepitio, come se della grandine minuta percuotesse i fianchi del fuso. Una calma profonda era successa a tutto quel tramestio. Lo "Sparviero" aveva cessato di roteare e s'abbassava lentamente verso il lago, sempre avvolto fra una fitta nebbia che impediva di vedere a due o tre passi di distanza. - Signore, cadiamo - disse Fedoro, slanciandosi verso il capitano. - Ho fermato le ali e le eliche - rispose questi. - Il lago sta sotto di noi. Non udite le onde muggire? - A suo tempo arresteremo la discesa. Cerchiamo per ora di uscire da queste nubi o verremo tutti fulminati. Non spaventatevi, signor Fedoro, e nemmeno voi, signor Rokoff. Credo che il momento più terribile sia passato. - Ma questa calma? - chiese Rokoff. - Scendiamo nel centro della tromba. Ecco il vento che riprende il suo movimento circolare; tentiamo di spezzare le sue spire. Macchinista! A tutta velocità! I ruggiti del vento ricominciavano e lo "Sparviero" tornava a roteare su se stesso. Le ali ben presto si rimisero a battere a colpi vigorosi, precipitati e il fuso, forando con uno slancio irresistibile la colonna d'aria, sfuggì alla stretta della formidabile tromba. Ma anche fuori da quella meteora, l'uragano imperversava con furia incredibile. Lo "Sparviero", dopo qualche istante, veniva trascinato verso settentrione, senza essere più capace di tenere testa alle raffiche. Correva all'impazzata, travolto, sbattuto in tutti i sensi, ora salendo e ora abbassandosi fino quasi a sfiorare i cavalloni del lago. Vibravano le ali, incurvavansi i piani, fremevano i fianchi del fuso. Certi momenti pareva che fosse lì lì per rovesciarsi e precipitare, fra le acque spumeggianti, gli aeronauti. Quanto durò quella corsa? Venti minuti o un'ora? Nessuno sarebbe stato capace di dirlo. Delle grida strapparono Rokoff dal suo sbalordimento. Guardò giù. Un promontorio si prolungava sul lago e su un'alta rupe scorse, alla luce dei lampi, un vasto edificio a tetti arcuati. Su una specie di terrazzo, degli esseri umani si dimenavano, alzando le braccia verso lo "Sparviero", che l'uragano trascinava in una corsa vertiginosa. - Signore! - gridò. - Una casa ... un convento ... una fortezza ... non so ... là ... guardate ... guar ... Non poté proseguire. Un lampo abbagliante aveva avvolto il fuso, mentre una linea di fuoco piombava in mezzo al ponte. Fece per aggrapparsi alla balaustrata, ma prima che l'avesse toccata si sentì scaraventare nel vuoto, mentre un rombo formidabile scuoteva l'atmosfera. Erano scoppiati i serbatoi dell'aria liquida o la macchina? Non poté saperlo. Udì vagamente un tonfo seguito da un grido, poi si sentì sprofondare e coprire da un'onda spumeggiante. Quando, ancora stordito da quell'improvviso capitombolo e ancora abbagliato da quella luce che per poco non gli aveva abbruciato gli occhi, tornò alla superficie, lo "Sparviero" era scomparso! - Per le steppe del Don! - esclamò. - È saltato in aria o l'uragano l'ha trascinato entro la nube nera? Un'onda che lo investì impetuosamente, riempiendogli la bocca d'acqua amara e salata, gli tolse, almeno pel momento, l'idea di occuparsi dei compagni. - Pensiamo a salvare la pelle, per ora - disse. - Poi vedremo di sapere che cosa è avvenuto dello "Sparviero". Dove sono caduto? Sarà lontana la riva? Avrò molto da lottare per uscire vivo da questo lago. Le onde si succedevano alle onde, ora spingendolo in alto, ora precipitandolo negli abissi mobili e ora coprendolo e sballonzolandolo in tutti i versi. Anche il lago era in tempesta e non era cosa facile sottrarsi ai suoi assalti. Rokoff era però un valente nuotatore. Si lasciò portare dalle onde e come poté si sbarazzò della sua lunga casacca, che gl'impediva di muoversi liberamente. Era rimontato a galla, quando sentì sotto mano qualche cosa che le onde trastullavano. Credendo che fosse qualche albero o qualche oggetto caduto dallo e Sparviero", allungò le braccia e strinse un corpo umano che pareva privo di vita. - Mille steppe! - gridò, rabbrividendo. - Qualcuno dello "Sparviero"? Con uno sforzo supremo sollevò il capo dell'annegato, cercando di ravvisarlo. Proprio in quel momento un lampo vivissimo illuminò le acque del lago. Un urlo di disperazione gli sfuggì. - Fedoro! È morto forse? Gran Dio! No ... non è possibile! Pur continuando a nuotare con suprema energia per non venire subissato dalle onde che lo incalzavano da tutte le parti, col braccio sinistro si strinse al petto l'amico, cercando di tenergli la testa fuori dell'acqua. Nel fare quell'atto gli parve che un tremito avesse scosso quel corpo che poco prima aveva creduto inerte. - No ... non è morto! - gridò. - Salviamolo! La cosa però era tutt'altro che facile, perché non sapeva dove si trovasse, quantunque si rammentasse vagamente di aver scorto, poco prima della caduta, un promontorio e una vasta costruzione. E poi le onde erano ben lungi dal calmarsi e aveva da sostenere l'amico. - Se non potrò salvarlo, almeno morremo insieme - pensò il bravo cosacco. - Ah! Se ci fosse qui anche il capitano ad aiutarmi? Ma chissà se sarà ancora vivo. Nuotava con furore, facendo sforzi prodigiosi per non venire travolto dai marosi, girando gli sguardi in tutte le direzioni per vedere se scopriva la riva. I muggiti delle onde e i fischi acuti del vento lo stordivano, eppure continuava a lottare coll'energia che infonde la disperazione. No, non voleva morire. Nuotava da dieci minuti, quando gli parve, fra le urla del vento e lo scrosciare delle acque, di udire delle grida umane. Alzò gli occhi e distinse confusamente su una rupe la medesima costruzione che aveva veduto poco prima di venire precipitato nel lago. - La costa è vicina - pensò. - Cerchiamo di raggiungerla e badiamo soprattutto di non venire sfracellati contro le rocce. Si lasciava portare dalle onde, nuotando solamente coi piedi, per tema che la violenza della risacca gli strappasse dalle braccia Fedoro. A un certo momento si trovò dinanzi una superficie spumeggiante, quasi calma. Non più marosi e non più controndate. Era entrato in qualche piccola baia difesa da uno o più promontori o da qualche linea di scogliere? Almeno lo suppose. Comunque fosse, colà l'acqua era tranquilla e se vi era una terra vicina, l'approdo non doveva essere né difficile, né pericoloso. - Ecco una fortuna insperata - disse Rokoff. - Se ... Non proseguì. Le sue gambe avevano toccato un fondo duro, probabilmente roccioso, irto di punte. Si rizzò e s'accorse d'aver l'acqua solamente fino al petto. - Siamo salvi! - esclamò. A cinquanta o sessanta passi si estendeva un breve tratto di costa, una specie di punta abbastanza bassa per potervi approdare senza fatica. Più oltre, invece, s'alzava una rupe gigantesca sulla quale Rokoff aveva scorto, alla luce dei lampi, quella massiccia costruzione che gli era sembrata un monastero o una fortezza. Le onde, in causa d'una ripiegatura della costa e d'una scogliera altissima, non potevano giungere fino al luogo dove trovavasi il cosacco. Si frangevano con mille muggiti contro quegli ostacoli che non potevano rovesciare, provocando, in quella specie di baia o di cala, solamente una certa ondulazione. Tenendo sempre alto Fedoro, il quale non dava ancor segno di tornare in sé, Rokoff attraversò velocemente l'ultimo tratto e raggiunse la spiaggia, arrestandosi sotto la gigantesca rupe che cadeva a piombo. - Se vi fosse qualche rifugio - mormorò, gettando un rapido sguardo verso la parete. L'oscurità era però così fitta da non poter vedere a dieci passi di distanza, essendo ormai calata la notte e il cielo sempre coperto da quell'immensa nuvola nera che il vento non era ancora riuscito a disgregare e lacerare. - Lo cercherò più tardi - pensò. - Ora occupiamoci di Fedoro. Depose l'amico su uno strato di sabbia fine e lo spogliò della casacca e del panciotto, mettendogli una mano sul petto. - Il cuore batte - disse con voce giuliva. - Quale fortuna averlo trovato subito! Se le onde mi spingevano pochi passi lontano, era finita per questo povero Fedoro. Gli aprì la bocca, prese la lingua e si mise a tirarla con movimenti lenti e eguali per riattivare il funzionamento dei polmoni. Coll'altra mano intanto gli alzava ora l'uno ora l'altro braccio. La pioggia cadeva a torrenti e il vento spazzava rabbiosamente la spiaggia, ma Rokoff non se ne preoccupava e continuava a operare quelle trazioni con delicatezza. A un tratto un profondo sospiro sfuggì dalle labbra del russo. - La respirazione è riattivata - disse Rokoff - tutto va bene. Lasciò la lingua e si mise a strofinargli vigorosamente il petto con un pezzo di lana strappata dalla fodera della giubba. Fedoro tornava rapidamente in sé, rigettando di quando in quando, sotto quelle pressioni, delle boccate d'acqua. Finalmente anche i suoi occhi si aprirono. - Dove ... sono ... io? - chiese con voce debole. - Rokoff ... capitano ... - Eccomi, sono presso di te - rispose il cosacco, coprendogli il petto. - Tu ... amico ... Rokoff ... che cos'è accaduto? - Una catastrofe, un accidente, non lo so nemmeno io. Siamo stati scaraventati entrambi nel lago, forse dalla folgore e ti ho trovato per puro caso, nel momento in cui stavi per andare a tenere compagnia ai pesci. - Ah! Sì ... mi ricordo ... quella luce ... quel rombo ... poi le onde ... E mi hai salvato? - Ti ho portato qui. - E il capitano? - Non ne so più nulla. - E lo "Sparviero"? - Scomparso, forse caduto nel lago, fracassato dalla folgore o dallo scoppio dei serbatoi d'aria liquida o della macchina. - No ... no! ... - esclamò Fedoro. - No, caduto. - Come lo sai tu? - chiese Rokoff sorpreso. - Quando le onde mi hanno portato a galla, io l'ho veduto ... sì ... me lo ricordo ... il vento lo trascinava verso il nord ... rapidamente ... - Non è scoppiato? - No, Rokoff. - Quanto mi sarebbe rincresciuto che quel meraviglioso treno-aereo fosse stato annientato e che quel valoroso capitano fosse stato ucciso. Sei certo d'averlo veduto fuggire, Fedoro? - Sì, Rokoff, il vento lo travolgeva. - E non bruciava? - No. - Allora non sono i suoi serbatoi che sono saltati? - È stata la folgore che è piombata sul ponte e che ci ha precipitati nel lago. - Ah! Respiro! ... - esclamò il cosacco. - Allora lo rivedremo tornare dopo cessato l'uragano. - Ma noi dove ci troviamo? - Presso un monastero o una fortezza. - Non facciamoci scoprire, Rokoff - disse Fedoro. - Rimaniamo nascosti fino al ritorno dello "Sparviero". Il capitano verrà a raccoglierci, ne sono certo. - Non lo dubito nemmeno io. Sarà però necessario cercarci un nascondiglio; il monastero sta sulla cima di questa rupe e domani potremmo venire scoperti. Rimani qui, vado a vedere se posso trovare qualche crepaccio o qualche caverna. Mi pare che questa parete sia tutta screpolata. - Tu sei senza casacca! - esclamò Fedoro. - Indossa la mia. - Ho dovuto abbandonarla alle onde per poterci salvare entrambi, tuttavia non preoccuparti di me. Ho la pelle dura io e il freddo non ha presa sulle mie carni. Non muoverti e aspetta il mio ritorno. Il cosacco s'allontanò seguendo la rupe che appariva tutta screpolata alla sua base. Essendo i lampi cessati, era costretto a procedere a tentoni e cercare il rifugio colle mani. La burrasca, lungi dal calmarsi, imperversava con rabbia estrema. Onde gigantesche correvano pel lago, frangendosi furiosamente contro le coste con boati e muggiti formidabili e dalle nevose vette dei monti scendevano raffiche gelate e d'una tale violenza, che talvolta il cosacco si sentiva mancare perfino il respiro. - Sarà impossibile allo "Sparviero" poter tornare finché dura quest'uragano - pensava Rokoff, senza cessare di perlustrare. - Il vento soffia sempre dal sud e chissà dove lo avrà trascinato. A un tratto si fermò, mandando una imprecazione. Fra le tenebre aveva scorto dei punti luminosi gialli, verdi, rossi e azzurri che s'avanzavano seguendo la parete. Parevano lanterne cinesi, o qualche cosa di simile. - Che i monaci ci abbiano veduto approdare e vengano a cercarci? - si chiese. - O che ci abbiano anche veduto a cadere nel lago? Mi ricordo d'aver notato degli uomini, un momento prima che la folgore avvolgesse lo "Sparviero". Gridavano e alzavano le braccia verso di noi. Cosa fare? Attenderli o fuggire? Fuggire? E dove, se questa parete è tagliata a picco? Stette un momento esitante, non sapendo a quale partito appigliarsi, poi decise di raggiungere Fedoro, onde avvertirlo del pericolo che li minacciava. - Lui conoscerà i tibetani meglio di me - disse. I punti luminosi o meglio le lanterne continuavano ad avanzarsi, seguendo ora la parete rocciosa e ora la spiaggia. Pareva che gli uomini che le portavano cercassero qualche cosa, perché ora si fermavano e abbassavano le lampade, ora si disperdevano e ora si raggruppavano di nuovo. - Fedoro - disse Rokoff, quando fu vicino all'amico. - Stiamo per venire scoperti e non sono riuscito a trovare alcun nascondiglio. - Ho notato anch'io quei punti luminosi - rispose il russo. - Che quegli uomini cerchino noi? - Non ho alcun dubbio. Siamo stati veduti cadere dallo "Sparviero" o approdare. - Chi saranno costoro? - Dei monaci, suppongo. Mi hai detto d'aver veduto un'enorme costruzione. - Sì, Fedoro, ma poteva essere anche una fortezza. - Non ne esistono su questo lago; qui non vi sono che monasteri. - Sono cattivi i preti di questo paese? - Non credo, però avrei preferito non essere scoperto. - Bah! Se sono monaci, non ci faranno paura - disse Rokoff, mostrando i suoi pugni. - Mi sento in forza per affrontarne cinquanta. - Non vi è alcun modo di fuggire? - Ricacciarci nel lago. - Non pensiamoci; la tempesta invece di scemare aumenta sempre e le onde cominciano a giungere anche qui. Vediamo quale accoglienza ci faranno questi buddisti; se si mostrano ostili daremo battaglia. - Le mie braccia sono pronte a grandinare pugni santissimi che faranno loro vedere le stelle e anche il sole. Fedoro si era alzato. I monaci non erano lontani che cinquanta o sessanta passi e continuavano ad esplorare la spiaggia. Erano una mezza dozzina, non vi era quindi da temere con un uomo della forza di Rokoff. - Andiamo ad incontrarli - disse Fedoro risolutamente. - Anche rimanendo qui ci troverebbero egualmente. - Ti seguo - disse il cosacco, rimboccandosi le maniche della camicia. Avevano percorso mezza distanza, quando videro le lanterne fermarsi, proiettando la luce innanzi. Delle esclamazioni che parevano di stupore, sfuggirono agli uomini che le portavano. - Ci hanno veduto - disse Fedoro. - Chi sono, dunque? - chiese Rokoff. - Monaci, che portano delle tonache di grosso feltro con un manto bianco? - Sì, e che dà loro l'aspetto di fantasmi, specialmente fra questa oscurità. Fedoro mosse incontro a loro alzando le mani e dicendo in cinese: - Pace! ... Pace! ... I sei monaci stettero un momento immobili, col più vivo stupore impresso sui loro volti giallognoli, poi deposero le lanterne e si inginocchiarono dinanzi ai due naufraghi coi segni del più profondo rispetto, pronunciando delle parole che né il russo, né il cosacco riuscivano a comprendere. - Eh! che cosa ne dici, Fedoro? - chiese Rokoff. - Che questi uomini ci adorano. - Che ci prendano per figli della luna o delle tempeste? - Per i figli del grande Buddha, amico mio. Devono averci veduto cadere dallo "Sparviero". - Per le steppe del Don! Sapremo approfittare della loro ignoranza per farci regalare almeno una buona cena e un comodo letto. Spero che non saranno poi così stupidi da credere che i figlioli di Buddha vivano d'aria. Alzatevi, reverendi, basta colle adorazioni: abbiamo fame ed anche freddo. E siccome i monaci non accennavano a levare la fronte che tenevano posata al suolo, ne prese uno e lo sollevò come fosse un pupattolo, mettendolo in piedi. Gli altri s'affrettarono a rialzarsi, cacciando fuori le lingue lunghe una buona spanna e dimenandole in tutti i sensi. - Abbiamo capito, ci salutate - disse Rokoff. - Ma basta; conduceteci con voi. I monaci si guardarono l'un l'altro cercando probabilmente di comprendere ciò che chiedeva il cosacco, poi uno di loro, che portava al collo un grosso monile formato di pietruzze traforate e molto trasparenti, fece alcuni segni, indicando replicatamente la cima della roccia. - Che c'invitino a salire lassù? - chiese Rokoff. - Mi sembra - rispose Fedoro. - Non puoi farti capire da costoro? - Non comprendono il cinese. Nel loro monastero ci sarà, spero, qualcuno che lo parlerà, essendo i tibetani tributari della Cina. Sì, Rokoff, c'invitano a seguirli. - Andiamo - rispose il cosacco. - Mi sento gelare il sangue e desidererei un buon fuoco. Tre monaci si misero dinanzi, illuminando la spiaggia colle loro lampade e levando i ciottoli che potevano far cadere i due aeronauti, gli altri seguivano. - Molto gentili - disse Rokoff. - Mi pare che questa avventura debba finire meglio di quello che credevo. Purché lo "Sparviero" torni presto! ... Non si sa mai quello che può accadere, anche ai figli di Buddha, in questo paese che gode poco buona fama. Seguirono la parete per tre o quattrocento passi, poi salirono una stretta gradinata e raggiunsero il piano superiore, su cui giganteggiava una enorme costruzione, con alti tetti arcuati e doppi e due torri di stile cinese. - Che siamo caduti presso il monastero di Dorkia? - disse Fedoro. - È uno dei più belli? - chiese Rokoff. - Non solo, ma anche il più celebre del Tengri-Nor, visitato ogni anno da migliaia e migliaia di pellegrini e perfino dal Dalai-Lama. - Saranno ricchissimi questi monaci? - Prodigiosamente, Rokoff. - Allora siamo certi di trovare una buona tavola.

E poi è anche pur là che sorge il Kalas degl'indiani, l'enorme piramide che ha la forma d'una pagoda rovinata, la dimora del Mahabeo o Gran Dio, il primo e il più fiero degli Olimpi; la montagna sacra che ha veduto risplendere per la prima la luce abbagliante della divinità e che secondo la leggenda ha quattro facce: una d'oro, la seconda d'argento, la terza di rubini e la quarta di lapislazzuli e dove fu costruito il primo tempio buddista due secoli innanzi l'era cristiana. Montagna divina, dai cui fianchi scendono i più sacri fiumi dell'India: il Gange, l'Indo, il Tsangbo e il Satlegi e dalle cui caverne sono usciti i quattro animali più famosi e più venerati: l'elefante, la vacca, il leone e il cavallo, simbolo dei quattro corsi d'acqua reputati sacri. Il cosacco, il russo e anche il capitano, nel vedere stendersi dinanzi a loro quella misteriosa regione e quegli altipiani che pareva non avessero più fine, avevano provato una viva commozione. - Non so se sia quest'aria fredda o lo squallore di questo deserto, mi sento scombussolato - aveva detto Rokoff. - Che sia la rarefazione dell'aria? - Può essere - aveva risposto il capitano. - Noi ci troviamo già a quattromila metri sul livello del mare e continuiamo ad innalzarci. Non sarei sorpreso, se procedendo, vi cogliessero delle nausee. - Che paese orribile! Non si vedono che montagne, neve e ghiacciai: burroni e gole e abissi che sembrano senza fondo. Buddha non doveva trovarsi troppo bene in questi luoghi e doveva rimpiangere sovente la dolce temperatura della sua verdeggiante Ceylon. - E gli abitanti, dove sono? Non vedo una capanna, né una tenda in alcun luogo. - Non ne vedremo tanto presto, signor Rokoff. Chi potrebbe vivere in questo orribile deserto? Solamente nel cuore dell'estate, delle bande di briganti si radunano nelle gole in attesa del passaggio dei pellegrini mongoli che si recano a visitare i monasteri del lago Tengri-Nor per gettare in quelle acque, ritenute sacre, le ceneri dei loro più celebri capi. - Perché vadano più presto nel nirvana di Buddha? - chiese Fedoro. - Tale è la loro credenza - rispose il capitano. - Gl'indiani le gettano nel Gange ed i tibetani nel Tengri-Nor. - Sì, signor Fedoro. Qui d'altronde la religione di Brahma e di Budda si fondono, perché anche gl'indiani intraprendono dei lunghi pellegrinaggi nel Tibet essendovi qui il loro monte sacro, il Merù dei loro antichi, che riguardano come il pistillo del simbolico fiore del loto che per loro rappresenta il mondo. - Ma cos'è quel cono immenso che si rizza laggiù tutto bianco e coi fianchi coperti di ghiacciai? - chiese Rokoff, additando un'immensa piramide che spiccava vivamente sul purissimo orizzonte. - Il Kremli, un masso di seimila metri d'altezza che serve per le sepolture celesti - rispose il capitano. - Portano lassù i morti? - No, le sole ossa dei più famosi capi reputati degni della sepoltura celeste, invece di quella terrestre. Quelle ossa devono prima venire polverizzate, quindi convertite in pillole per darle da mangiare alle aquile. - Le quali devono portarle in cielo, secondo la credenza dei tibetani. - Sì, signor Rokoff. - E la sepoltura terrestre in che consiste allora? - chiese Fedoro. - È un po' diversa e meno onorifica, dovendo avere per feretro il ventre dei cani e dei lupi. Il morto, dopo essere stato lasciato sospeso per sette giorni ad un angolo della sua casa, rinchiuso in un sacco di pelle, si taglia a pezzi e si porta su una cima qualunque a pasto dei cani. - E se invece lo mangiano gli avvoltoi? - chiese Rokoff, ridendo. - Tanto meglio perché, a dispetto dei Lama, andrà più presto in paradiso. - Che strane cose - disse Fedoro. - Sono cose da pazzi - soggiunse Rokoff. - Capitano, andremo a visitare anche la capitale del Tibet. - Vi passeremo sopra senza fermarci. I Tibetani non amano gli stranieri e, se ci prendessero, sarebbero capaci di farci fare una brutta fine, in fondo a qualche sotterraneo pieno di scorpioni. Lo "Sparviero" si librava su quegli sterminati e spaventevoli altipiani ... - Che cosa dite? - chiese Fedoro. - È così che fanno morire i loro prigionieri, quando non preferiscono invece squartarli e darli da mangiare ai selvaggi di U. - Speriamo di non lasciarci prendere. - Non ci abbasseremo che nei luoghi assolutamente deserti. Qui non corriamo alcun pericolo, essendo questi altipiani spopolati, ma al sud, nella regione dei laghi, nelle profonde valli dello Tschans-tschu, dovremo usare molta prudenza. I Lama non scherzano e non tollerano gli europei nel loro paese. Ecco il grande altipiano. - E il freddo che aumenta - disse Fedoro. - E crescerà sempre più - aggiunse il capitano. - Indossiamo i nostri vestiti d'inverno e riscaldiamo il fuso. L'aria liquida è buona nei paesi caldi, non qui. Lo "Sparviero" che s'innalzava sempre, aveva raggiunto una altezza di cinquemila metri sul livello del mare, per poter raggiungere il margine dell'immenso altipiano e non bastava ancora perché più al sud si vedevano delinearsi catene di montagne ben più alte, che formavano una barriera gigantesca. Il panorama che s'offriva agli sguardi degli aeronauti era d'una bellezza selvaggia e insieme spaventevole. Pareva che da un momento all'altro fossero piombati sulle sterminate pianure della Groenlandia o fra le orribili montagne dell'Islanda. Era un caos di pianure che s'alzavano in forma di gradinate mostruose, intersecate da abissi, da spaccature, da gole o da piramidi colossali che pareva dovessero toccare il cielo. Tutto era bianco per la neve caduta, d'un candore immacolato, che feriva crudelmente gli occhi i quali non potevano sopportare tutto quello splendore. Qua e là dei ghiacciai giganteschi, scintillavano come diamanti di dimensioni esagerate, rovesciando lentamente i loro fiumi di ghiaccio nei profondi burroni dove si scioglievano a poco a poco, alimentando torrenti che più tardi dovevano tramutarsi in corsi d'acqua d'una mole e d'una lunghezza infinita e riversarsi verso l'India, verso la Mongolia, verso il Turkestan e nelle fertili vallate dell'impero cinese. Un vento freddissimo, che faceva vibrare le ali dello "Sparviero" e che fischiava e ruggiva fra i piani inclinati, soffiava tratto tratto, imprimendo all'aerotreno delle brusche scosse. Era così secco che le carni degli aeronauti si raggrinzivano e che le labbra si screpolavano. Quando le raffiche diventavano più impetuose, sollevavano gli strati nevosi, scombussolandoli, alzandoli ed abbattendoli, facendoli turbinare in mille guise e formando talvolta delle vere trombe di neve che raggiungevano anche lo "Sparviero", facendolo roteare su se stesso, nonostante le battute precipitose delle ali. Poi d'un tratto i fischi ed i muggiti cessavano, le nevi ricadevano, il silenzio tornava sull'immenso altipiano, un silenzio pauroso che produceva una profonda impressione sugli animi degli aeronauti, come se fosse foriero di qualche improvvisa catastrofe. D'un tratto sordi fragori si propagavano nelle vallate e negli abissi, fragori che aumentavano rapidamente d'intensità. Erano valanghe che si staccavano dalle cime dei picchi, che rotolavano di scaglione in scaglione per poi inabissarsi, con orrendo frastuono, nelle profonde spaccature che s'aprivano in tutte le direzioni. - Che paese orribile! - esclamò Rokoff, il quale, dopo essersi ben coperto con pellicce dategli dal capitano, aveva ripreso il suo posto a prora del fuso. - Non credevo che ne esistesse uno simile. E quanto durerà? - Non meno di tre giorni - rispose il capitano. - Ho impresso al mio "Sparviero" la maggior rapidità possibile, ma la distanza da attraversare è enorme e poi questo vento ci ostacola la corsa. - Non finirà per produrre qualche guasto alle nostre ali? - Si riaccomoderanno - rispose il capitano. - Che brutto momento se la vostra macchina si dovesse immobilizzare in mezzo a questi altipiani. - È d'una robustezza eccezionale e non si guasterà, signor Rokoff. Noi compiremo felicemente la traversata del Tibet e caleremo nell'India. - Nell'India? - esclamarono a una voce Rokoff e Fedoro. - Non andremo più verso l'oriente? - No, signori - rispose il capitano, mentre la sua fronte si abbuiava. - In seguito a circostanze impreviste, sono costretto a mancare alla mia promessa. La nostra rotta sarà il Bengala, dove voi potrete trovare subito qualche nave in partenza per l'Europa. In una ventina di giorni sarete a Odessa. - Avete comunicato con qualcuno durante il nostro viaggio? - chiese Fedoro. - No, non avendo amici nell'Asia centrale. La mia presenza è reclamata in altri paesi dove voi non potrete seguirmi, quantunque con molto rincrescimento da parte mia, avendo imparato ad apprezzarvi e stimarvi come due veri amici. - Questa vostra improvvisa risoluzione mi stupisce, capitano. - Non dipende da me, bensì da quell'uomo che voi avete trovato a bordo del mio "Sparviero" dopo la pesca delle famose trote del Caracorum. Egli non può seguirmi in Europa. - Per quale motivo? - Vi prego di non chiedermi alcuna spiegazione su ciò. Ah! Guardate come la catena dei Fschong-kum-kul scintilla! È meravigliosa! E dietro vi sta il lago, un bel bacino che fra poco vedremo. Macchinista, alziamoci ancora o andremo a infrangerci contro quei picchi. Come soleva far sempre, quando non desiderava dare spiegazioni, il capitano aveva bruscamente cambiato discorso, approfittando della comparsa di quelle montagne che parevano sorte improvvisamente sull'altipiano. Fedoro e Rokoff ritennero inopportuno insistere su quel discorso, rivolgendo tutta la loro attenzione sull'imponente panorama che si estendeva dinanzi ai loro sguardi stupiti. L'altipiano cambiava, alzandosi rapidamente in scaglioni sempre più giganteschi, i quali andavano ad addossarsi agli Fschong-kum-kul. Non vi erano più né spaccature, né burroni, né gole, ma il terreno appariva tormentato come se un formidabile terremoto lo avesse sconvolto. Si vedevano enormi rupi rovesciate e spezzate, ammassi sterminati di macigni, crateri di antichi vulcani coi margini franati, avvallamenti strani, poi bacini coperti di ghiacciai, veri mari di luce che abbagliavano gli occhi con tale intensità, da non poterli guardare più d'un minuto. Al sud, la catena ingigantiva rapidamente. Era un caos di piramidi e di guglie, bianche di neve, che si slanciavano arditamente verso il cielo come se volessero traforarlo, solcate qua e là da spaccature che dovevano avere delle dimensioni straordinarie. Lo "Sparviero" aveva incominciato a risalire, potentemente aiutato dalle eliche orizzontali, le quali funzionavano vertiginosamente intanto che le due immense ali battevano colpi precipitati. La respirazione cominciava a diventare penosa per tutti, anche pel capitano, che pur doveva essere abituato alle grandi altezze. Provavano dei capogiri, delle nausee, dei ronzii agli orecchi e un'estrema debolezza. Era il male delle montagne, prodotto dalla estrema rarefazione dell'aria, ben noto agli alpinisti e soprattutto agli abitanti della catena delle Ande, che lo chiamano il puna. - Capitano - disse Rokoff - che cosa succede? Mi sembra di essere ubriaco e che il mio stomaco provi il mal di mare. - E a me pare di soffocare - disse Fedoro - sento il cuore e le tempie battere precipitosamente, mentre invece la testa mi sembra che venga stretta da un cerchio di ferro. - Siamo a settemilacinquecento metri, signori miei - rispose il capitano dopo aver osservato i barometri sospesi alla balaustrata. - A simili altezze l'aria è quasi irrespirabile, però le vostre nausee cesseranno subito appena avremo varcato quella catena di monti e torneremo ad abbassarci. - Soffrono anche gli animali portati a simile elevazione? - Più degli uomini, signor Rokoff, e infatti su questi altipiani non vedete né cammelli, né montoni e nemmeno jacks. Si gonfiano, perdono le forze, la loro respirazione diventa affannosa e bruciante e sovente cadono al suolo fulminati. - Ci innalzeremo ancora? - No, non sarebbe prudente; l'asfissia potrebbe manifestarsi, o per lo meno avvenire delle emorragie al naso e agli orecchi, che è meglio evitare. - Avete mai superato queste altezze? - chiese Fedoro. - Ho potuto raggiungere i diecimila metri, facendo uso di serbatoi d'ossigeno, eppure non ritenterei la prova. Volevo provare ad attraversare tutto lo strato d'aria che circonda il nostro globo. - Per giungere alla luna? - chiese Rokoff, ridendo. - No, per vedere il sole violetto. - Violetto! ... Che dite mai, signore? - E che, anche voi credete che il sole sia giallo come noi lo vediamo ora? - Io non l'ho mai veduto cambiare colore, capitano. - Nemmeno io, eppure non è giallo e se non esistesse intorno al nostro globo la massa d'aria, tutto il mondo diventerebbe, almeno di giorno, violetto. - Questa è grossa! - Può sembrarvi tale; eppure, dopo gli ultimi studi e le ultime e più diligenti osservazioni fatte dagli scienziati europei ed americani, non vi è più da dubitare, signor Rokoff, per quanto la cosa possa parervi inverosimile. Se si squarciasse la nostra atmosfera, che è un velo ingannevole che fa ostacolo alla vista vera, si vedrebbero delle cose spettacolose che prima non si supponevano esistere. Togliete l'aria e con vostro grande stupore vi apparirebbe il cielo, anche in pieno meriggio, non più azzurro come lo vedete ora, bensì nero come il fondo d'una botte di catrame e al sommo di quell'abisso tenebroso vedreste fiammeggiare un. grande astro del più bel violetto e che altro non è se non il nostro sole. - Il cielo nero? - Sì, signor Rokoff. - E perché ci appare invece azzurro? - In causa delle rifrazioni della nostra atmosfera, la quale è satura ormai di luce, di vapori, di miriadi di germi erranti e di polveri impalpabili. Langley, il segretario dell'Istituto Smithsoniano degli Stati Uniti, e Su, il famoso astronomo dell'osservatorio di Washington, l'hanno ormai luminosamente provato. - E come mai i raggi del sole ci appaiono gialli? - Perché oltre alle fiamme violette, ne ha pure di gialle e siccome queste sono le più lunghe e hanno una maggiore estensione ci giungono prima. Quando le violette arrivano, le prime hanno già saturata la nostra atmosfera. - Sicché anche gli altri astri, che a noi sembrano d'oro più o meno giallo o rossiccio, avranno invece tinte diverse. - Sì, signor Rokoff. La stella Scorpione, per esempio, è d'un rosso fiammeggiante, mentre la sua vicina, che le tiene compagnia, è un piccolo sole verde pallido! Sirio invece è d'un viola oscuro; la Beta della costellazione del Cigno è pure violetta, mentre la sua compagna è giallo-pallido. - Deve essere però enorme il nostro sole per sprigionare tanto calore. - Un milione e duecentocinquantamila volte più grosso della terra, signor Rokoff. - Che meschina figura farebbe il nostro globo. - E altrettanto meschina la farebbe il sole messo a fianco di Acturus, il re dei soli, che espande pel cielo cinquemila volte più luce e calore dell'astro che ci illumina - disse il capitano. - Eppure anche il nostro sole deve produrre del calore in quantità enorme - disse Fedoro. - Tanto che nel solo spazio d'un secondo potrebbe, se accumulato, portare al grado di ebollizione cinquecento milioni di chilometri cubi di ghiaccio. - Misericordia! - esclamò Rokoff. - Mi pare di sentirmi cucinare malgrado quest'aria gelata che mi fa scoppiare la pelle del viso. - Ma allora il nostro globo non deve ricevere che una piccola parte del calore che irradia il sole - disse Fedoro. - Una quantità infinitesimale - rispose il capitano. - Diversamente, la nostra terra da migliaia d'anni sarebbe stata abbruciata e ora non sarebbe più che un semplice carbone. - Capitano, non vi è pericolo che il sole possa aumentare la massa di calore che ci manda? - Se si deve credere agli scienziati, il calore del sole non ha ancora raggiunto il suo massimo sviluppo, anzi continuerebbe ad aumentare per sette od ottocentomila anni, poi dovrebbe succedere un periodo di ristagno e quindi di decadenza, perché l'astro finirà col consumarsi. - E che cosa avverrà, quando comincerà a raffreddarsi, per la nostra umanità? - chiese Rokoff. - Se non l'avrà abbruciata prima di giungere a quel periodo, tristi giorni dovranno passare gli abitanti del nostro globo. La terra, non più riscaldata, diverrà infeconda, anche in causa del continuo ritirarsi dei fuochi centrali; le sue estremità si copriranno di ghiaccio e i poli invaderanno a poco a poco l'America e l'Australia. I popoli saranno costretti a radunarsi sotto l'equatore, finché suonerà anche per quelle regioni l'ora fatale. - Capitano, ora mi fate rabbrividire pel freddo - disse Rokoff. - Mi pare di trovarmi rinchiuso in un monte di ghiaccio. Mi sento venire la pelle d'oca pensando a quei giorni. - Serbate i vostri brividi per altre occasioni - disse il capitano ridendo. - Fra dieci, o venti, o centomila secoli non vi saremo più, state sicuro. Lasciate quindi che tremino i nostri tardi pronipoti. Signori, passiamo la catena! Badate alle nausee!

. - Noi vi avevamo veduti ieri sera lottare contro la tempesta avvolti fra una luce intensa, abbagliante. Buddha illuminava il vostro grande uccello per guidarlo anche fra le tenebre. - È vero - disse Fedoro - ma il genio del male pareva che in quel momento fosse più forte di noi e chi sa dove ci avrebbe spinti se noi non ci fossimo lasciati cadere fra le onde del lago. - Voi non eravate soli. - No, avevamo altri due compagni. - Dove si sono recati costoro? - A visitare i monasteri del settentrione. - Andrete poi anche a Lhassa? - Dobbiamo visitare il Dalai-Lama - rispose Fedoro. - Siamo incaricati d'una missione per lui. - Da parte del grande Buddha? - Sì. - Si lagna dei suoi fedeli? - È anzi soddisfattissimo, ma desidererebbe che i pellegrinaggi diventassero più numerosi e più frequenti. - La colpa non è nostra, bensì dei briganti che infestano i passaggi degli altipiani. - Buddha li sterminerà certamente - disse Fedoro. - È già stanco delle innumerevoli scelleratezze che compiono quei miserabili e abbiamo anzi già ricevuto l'ordine di farli divorare, dove li incontreremo, dal nostro terribile uccello. - Deve essere terribile quel mostro - disse il Lama, mentre un brivido di terrore lo faceva sussultare. - Divora cento uomini cattivi al giorno e con pochi colpi delle sue ali abbatte dei villaggi interi. Quattro giorni or sono ha distrutto un covo di banditi, bruciandolo completamente. - Ha il fuoco nel ventre? - chiese il Lama stupito. - Vomita fiamme che nessuno può spegnere. - Quanta potenza vi ha dato Buddha! Dove risiede ora il nostro Dio? - Sta pregando sulla vetta del Tant-la. - E quando tornerà a mostrarsi ai suoi fedeli? - Deve compiere ancora molte incarnazioni, prima di tornare uomo - rispose Fedoro sempre imperturbabile. - Forse fra mille anni si degnerà di mostrarsi sulle acque del Tengri-Nor, montando un uccello simile al nostro, ma cento volte più grande. Tremino allora i cattivi, gli empi. Tutti verranno distrutti dal fuoco del suo mostro e dannati per tutta l'eternità a cucinare nel lago di Boracee sotto forma di scorpioni. - Basta, Fedoro - disse Rokoff, il quale non comprendeva nulla. - Domanda se ha una cena da offrirci e del fuoco per asciugarci. Questo monastero è freddo come una ghiacciaia. - Stiamo discutendo su Buddha. - Me ne infischio io del loro Dio color della terracotta. - Un po' di pazienza. Il Lama li lasciò parlare, poi riprese: - Non parla il cinese, il vostro compagno? - No - rispose Fedoro. - Egli non conosce che la lingua che si parla sulle montagne della luna, dove si trovano i Lama della Mongolia, che si sono guadagnati il nirvana. - Desidera qualche cosa? - Si lagna d'aver fame e freddo e di essere ancora bagnato. - Potevate dirlo prima. Tutto ciò che si trova nel mio monastero è a disposizione dei figli prediletti del grande Buddha. S'accostò a un piccolo tam-tam e fece vibrare due volte il disco metallico. Il monaco che aveva la collana entrò, inchinandosi fino a terra. Il Lama scambiò con lui alcune parole, poi si volse verso i due europei, dicendo: - Seguitelo e avrete cena, fuoco e da dormire. Io intanto approfitterò del vostro riposo per avvertire del vostro arrivo il Bogdo Lama del monastero di Dorkia. - Pare che non sia questo quello di Dorkia - pensò Fedoro. - Purché non ci invitino a recarci colà! Mi spiacerebbe che il capitano non ci trovasse più qui. S'inchinarono dinanzi alla statua di Buddha e seguirono il monaco che aveva staccato dalla volta una lanterna. Al di fuori li attendevano gli altri cinque monaci, pure muniti di lampade. Rifecero parte del corridoio, poi salirono una scala a chiocciola che doveva condurre ai piani superiori ed entrarono in un'altra stanza, più vasta di quella di prima, egualmente tappezzata e illuminata e fornita d'un caminetto dove ardeva un allegro fuoco. Nel mezzo vi era una tavola, molto bassa, e all'intorno dei comodi divani. I sei monaci, con cenni, invitarono i due europei a sedersi, poi uscirono per rientrare poco dopo portando dei vasi e dei tondi d'argento, finemente cesellati, e dei bricchi col collo assai lungo e molto artistici. - Che ci sia da mangiare, lì dentro? - chiese Rokoff. - Certo - rispose Fedoro. - Se questi monaci ci lasciassero ora soli! Non mi piace che vedano come mangiano i figli della luna o del cielo. - Li pregherò di andarsene, quantunque non capiscano una parola di cinese. - Mandali via con una spinta; capiranno meglio. - Oh! Rokoff! Dei figli di Buddha che maltrattano i loro adoratori! ... I monaci continuavano a portare vasi, tondi, recipienti, chicchere, bricchi, coprendo tutta la tavola. Fedoro li lasciò fare, poi con una mimica molto espressiva, indicò loro la porta. Fu subito compreso perché i monaci, dopo un altro e più profondo inchino, se ne andarono non senza manifestare però un certo stupore che non sfuggì al russo. - Probabilmente avevano ricevuto l'ordine di servirci - disse a Rokoff, il quale, per non venire più disturbato, aveva spinto un divano contro la porta. - Ne faremo senza - rispose il cosacco. - Quelle facce smorte m'avrebbero fatto perdere l'appetito. Sai che son ben brutti questi tibetani, specialmente quando caccian fuori le loro lingue d'appiccati? Ora che siamo soli, asciughiamoci un po'. Credo di avere dei pezzi di ghiaccio dentro la camicia. Stava per spogliarsi, quando Fedoro gli mostrò parecchie tonache di feltro pesantissimo, che parevano affatto nuove e che si scaldavano presso il caminetto. - Devono averle portate per noi - disse. - Getta via le tue vesti e indossa queste. Ti troverai meglio. - E tu? - Io faccio altrettanto. To'! Vi sono anche delle camicie di seta e delle calze. Questi bravi monaci hanno pensato a tutto. Vedo anche delle scarpe somiglianti a quelle dei cinesi. - Allora lascia i tuoi stivali, che spandono acqua da tutte le parti. - È il ghiaccio che si fonde. Ma ... per le steppe del Don! Che figura faremo noi vestiti da monaci! - Superba, Rokoff - disse Fedoro, ridendo. - Tu poi, colla tua statura e colla tua lunga barba rossa, diverrai maestoso. D'altronde, dei figli di Buddha vestiti all'europea non devono ispirare fiducia agli abitanti di questa regione. - Ah! Siamo figli di Buddha! - Non so ancora quale posizione veramente noi occupiamo, ma altissima di certo, al rispetto che ci dimostrano questi monaci. - Diventiamo allora buddisti - disse Rokoff. - Dopo tutto, una religione vale l'altra. Si riscaldò alla fiamma del caminetto, indossò una superba camicia di grossa seta cruda, infilò le calze e le scarpe e si cacciò dentro a una tonaca ben calda, mandando un lungo sospiro di soddisfazione. - Come ti sembro? - chiese a Fedoro, che faceva altrettanto. - Tu farai morire d'invidia tutti i Lama dei monasteri - disse il russo. - Che aspetto imponente! Sei un magnifico superiore, parola d'onore. - To'! un'idea! - Parla, Rokoff. - Se chiedessi un monastero? A un figlio, o segretario, o messo di Buddha non si dovrebbe negarlo. - Penseremo a questo dopo la cena. - Mille fulmini! Mi dimenticavo che ho il ventre vuoto. Speriamo di trovare in questi recipienti qualche pezzo di jack o un prosciutto d'orso. Ho udito narrare che i monaci mangiano bene. - Uhm! della carne! Non ne troverai, mio povero amico. - Eh! Forse che i Tibetani vivono d'erbe cotte? Rinuncio fin d'ora a diventare il superiore d'un convento. - Come vuoi che un buddista osi mangiare un animale? Mangeresti tu l'anima di tuo padre, o di tuo fratello, o di qualche caro amico? Qui la metempsicosi vive sovrana. - Non ti capisco, Fedoro - disse Rokoff. - Ignori dunque che i buddisti credono che l'anima d'un defunto s'incarni subito nel corpo d'un animale? Se ammazzi un bue, un cavallo, un orso, un cane, un gatto, magari un verme qualunque, potresti uccidere tuo padre incarnato in uno qualunque di quegli animali o insetti. - Sicché qui le bestie si lasciano vivere. - Finché muoiono di vecchiaia o per qualche accidente inatteso. Solo, allora, e non tutti i buddisti, osano ancora cibarsi di quelle carni. - Al diavolo i buddisti e le loro stupide superstizioni. Buon Dio, che cosa mangeremo noi? - Vediamo, Rokoff; sento sfuggire dei profumi che non mi sembrano sgradevoli. - Procediamo a una visita e facciamo la scelta. Alzarono i coperchi cacciando il naso dentro a quindici o venti recipienti d'argento e il cosacco dovette convincersi che non v'era nemmeno l'ombra d'una costoletta o tanto meno del sospirato pezzo d'arrosto. Vi erano invece delle salse di tutti i colori, dell'orzo bollito nel latte, dei pasticci pure d'orzo, delle erbe di varie specie, condite con certe poltiglie nere. In un grande piatto d'argento scoprirono però un magnifico pesce che nuotava in una certa materia trasparente e gommosa. - Che questo abitante delle acque non contenesse l'anima di nessun buddista? - chiese Rokoff. - Hanno fatto forse un'eccezione a noi - rispose Fedoro. - E noi mostreremo che i figli di Buddha non sdegnano i pesci. Che cosa sarà poi questa salsa? - Sarà impossibile saperlo. Assaggia, amico Rokoff. - Non è cattiva, almeno alla mia bocca. - Allora divoriamo, finché si scalda l'acqua del tè. Il pesce scompare ben presto, quantunque dovesse pesare almeno quattro chilogrammi, poi a poco a poco sparirono anche le focacce e l'orzo al latte e finalmente anche le salse. Otto o dieci chicchere di tè squisito, finirono quella cena che era meno cattiva di quanto dapprima i due europei avevano creduto. - Peccato non aver con me la mia pipa e la mia borsa di tabacco - disse Rokoff - Non si fa uso qui di tabacco - rispose Fedoro. - Avrebbero dovuto portarci almeno qualche bottiglia di vino. - Non si conosce qui il vino; fanno però molto uso d'acquavite d'orzo che bevono tiepida e non so davvero perché non ce l'abbiano portata. Bah! Quando verrà il capitano vuoteremo una bottiglia di più. - Chissà quando tornerà, Fedoro. Il vento deve averlo trascinato molto lontano; non poteva più resistere. - E che le ali non siano state spezzate, mio caro Rokoff. - Sarebbe stato meglio. In tal caso non sarebbe caduto molto lontano. Mi rincrescerebbe però assai che fosse toccata qualche disgrazia a quel valoroso aeronauta. - Io non ho alcun dubbio che abbia potuto raggiungere le spiagge settentrionali e prendere felicemente terra - rispose Fedoro. - Con una simile macchina e così perfetta, si può sfidare impunemente qualsiasi uragano. No, io sono completamente tranquillo e sono certo che appena cessato questo ventaccio furioso, lo vedremo ritornare a riprenderci. - Avrà osservato dove siamo caduti? - Come noi abbiamo veduto, il monastero non gli è sfuggito agli sguardi. Rokoff facciamo un buon sonno e aspettiamo domani. Questo tepore invita a chiudere gli occhi. - Seguo il tuo consiglio - rispose il cosacco. Si sdraiarono sui divani coprendosi con dei pesanti feltri e chiusero gli occhi, mentre gli ultimi tizzoni scoppiettavano nel caminetto. Il loro sonno fu cortissimo. Un colpo di tam-tam che fece rintronare la sala, li fece balzare in piedi. - Che sia già l'alba? - si chiese Rokoff, fregandosi gli occhi. - No, la fiamma non si è ancora spenta - disse Fedoro. - Che cosa vogliono da noi? Ci hanno chiamato, è vero? - Ci invitano ad aprire. - Che sia giunto il capitano? - Uhm! Non odi il vento ruggire al di fuori! - Allora li mando a quel paese. - No, non guastiamoci con questi monaci, Rokoff; non è prudente. Il cosacco allontanò il divano e aprì la porta. I sei monaci, ancora gli stessi che li avevano trovati sulla spiaggia, entrarono prosternandosi dinanzi ai due europei, poi fecero segno a loro di seguirli - Cominciano a diventare noiosi coi loro inchini - disse Rokoff. - Sarebbe stato meglio se ci avessero lasciato dormire fino a domani. Che cosa vogliono? - Non ne so più di te - rispose Fedoro. - Se ci pregano di seguirli, ci sarà qualche cosa di nuovo che ci riguarda. - Che ci conducano ancora da quella mummia vivente? - Lo vedremo, Rokoff. Seguirono i monaci che li attendevano nel corridoio e furono condotti nella sala dove vi era la statua di Buddha. Il vecchio Lama li aspettava pregando dinanzi al Dio. - Ci mancherebbe altro che ci facesse inginocchiare dinanzi a questo pezzo di terracotta - disse Rokoff, che era diventato di pessimo umore. - Che questi monaci invece di dormire passino le notti pregando? Il Lama, vedendoli entrare, si era alzato, poi, dopo un inchino, disse a Fedoro: - Preparatevi a partire. - A partire! - esclamò il russo, sorpreso. - E per dove? - Pel monastero di Dorkia. - A che cosa fare? - Il Bogdo-Lama di quel convento desidera vedervi. Fedoro aggrottò la fronte, fingendosi indignato. - Noi non siamo i servi del Lama di Dorkia - disse con voce acre. - Perché non viene lui qui? - Io non posso altro che obbedire - rispose il monaco. - È mio superiore, comanda a tutta la regione e se io volessi rifiutarmi, sarebbe capace di mandare qui i suoi guerrieri e farci tutti prigionieri. - Noi dobbiamo aspettare qui il nostro terribile uccello e anche i nostri compagni. - Se tornano, dirò loro che siete nel monastero di Dorkia - rispose il Lama. - Ce lo promettete? - Ve ne dò la mia parola. - Come andremo noi a quel convento? - Il Bogdo-Lama ha mandato dei cavalli e una numerosa scorta. - Chi l'ha avvertito che noi siamo scesi qui? - Su tutte le spiagge del lago si è sparsa la voce che dei figli del cielo percorrevano la regione montati su un'aquila di grandezza prodigiosa ed è giunta anche agli orecchi del Bogdo-Lama di Dorkia, il quale ha mandato messaggeri e scorte in tutti i conventi per condurre a lui i santi uomini, nel caso si fossero degnati di scendere sul Tengri-Nor. Non indugiate, la scorta vi attende. Fedoro tradusse a Rokoff l'esito di quel colloquio, non senza celargli le sue apprensioni. - Se ci rifiutassimo? - chiese il cosacco. - Il Lama di Dorkia, a quanto ho capito, è potentissimo e potrebbe ricorrere alla forza. Potremmo noi resistere a tutti i suoi guerrieri, che ascendono forse a delle migliaia? - Sicché non ci rimane che obbedire. - Purtroppo Rokoff. - Ah! Diavolo! Mi pare che quest'avventura s'imbrogli; non vedo chiaro in questa faccenda. Se al Lama di Dorkia saltasse il ticchio di tenerci prigionieri? - O fare di noi dei Buddha viventi? - disse Fedoro. - Prenderemo a pugni il Lama e i suoi monaci. - Dunque? - chiese il vecchio, con una certa ansietà. - Siamo pronti a seguire la scorta - rispose il russo. Avremmo però desiderato fermarci presso di voi alcuni giorni. - E io sarei stato orgoglioso di ospitarvi nel mio monastero - rispose il monaco, con un sospiro. - Avrei attirato, durante la buona stagione, migliaia e migliaia di pellegrini, colla vostra presenza. Accompagnò i due europei fino sulla porta del convento, sulla cui gradinata stavano schierati numerosi monaci, portando delle lanterne, poi baciò i lembi delle loro tonache, dicendo: - Spero di rivedervi presto: che il grande Buddha, vostro padre, vegli su di voi. - Vi promettiamo di tornare - rispose Fedoro. - Non dimenticatevi però di avvertire i nostri fratelli, se giungeranno, che siamo stati condotti a Dorkia. - Saranno miei ospiti. La scorta mandata dal possente Lama del celebre monastero si componeva di cinquanta uomini d'aspetto brigantesco, con ampie vesti di grosso feltro, armati di lunghi moschettoni a miccia e di larghe scimitarre e montati su piccoli cavalli colle groppe villose e le gambe secche come quelle dei cervi o degli stambecchi, animali senza dubbio impareggiabili, che non dovevano temere né gli aspri sentieri di quelle orribili montagne, né i freddi intensi degli altipiani. Due cavalli più robusti, col mantello bianco, con una lunga gualdrappa rossa che ricadeva fino a metà delle gambe e le criniere adorne di nastri, attendevano i due figli di Buddha. Il comandante della scorta, un montanaro d'aspetto imponente, con un barbone che gli saliva fino quasi agli occhi e che indossava il pittoresco costume dei Butani, si avanzò verso Fedoro e Rokoff, e dopo essersi inginocchiato tre volte dinanzi a loro, disse in cinese: - Ricevete fin d'ora i saluti del possente Bogdo-Lama di Dorkia, il quale sarà altamente onorato d'ospitarvi. Poi li condusse verso i cavalli, invitandoli a salire. I cavalieri intanto avevano acceso delle piccole lanterne cinesi appendendole alle canne dei loro moschettoni. - Decisamente noi stiamo per diventare personaggi celesti - disse Rokoff, accomodandosi sulla larga, ma anche molto dura sella del cavallo. La scorta si era messa in moto: dieci cavalcavano dinanzi ai due europei; gli altri dietro su due file. La notte era orribile, essendo l'uragano tutt'altro che cessato. Un vento impetuosissimo e così freddo da far tremare persino i cavalli, nonostante il loro villoso mantello, soffiava dalle montagne circostanti, cacciandosi entro le gole con ruggiti tremendi e in lontananza si udivano i boati delle valanghe, rotolanti dai ghiacciai. Il lago, che lambiva il sentiero percorso dalla scorta, presentava uno spettacolo terribile. Montagne d'acqua si rovesciavano contro le spiagge con fracasso spaventevole, rimbalzando e ricadendo, formando gorghi e colonne liquide e lanciando cortine di spuma fino addosso ai cavalieri. Sopra, l'immensa nuvola nera, in balìa dei venti che si incontravano in tutte le direzioni, roteava vertiginosamente, ora abbassandosi quasi fino a sfiorare le creste dei marosi e ora squarciandosi. I lampi però erano cessati. Solamente il tuono, di quando in quando, faceva udire la sua possente voce. - Bella notte, per farci fare un viaggio - disse Rokoff, che rialzava a ogni istante il bavero della sua tonaca. - Mi pare che questo vento mi strappi, pezzo a pezzo, tutta la carne del mio volto. - Non mi stupirei se ciò ti toccasse - rispose Fedoro. - Certe volte i venti acquistano una tale violenza, in queste regioni, e sono così secchi, da strappare perfino la carne delle braccia. Il capitano Gill, del corpo degli ingegneri reali inglesi, che ha visitato queste regioni, ha provato quei terribili morsi del vento tibetano. - Il Bogdo-Lama poteva ben attendere domani, invece di esporci di notte, a questo viaggio. Aveva paura che scappassimo? - Io sospetto invece qualche cosa d'altro. - Ossia? - Che temesse che il Lama che ci ha ospitati ci nascondesse, facendo poi spargere la voce che noi eravamo tornati in cielo. - Che questi signori monaci abbiano l'intenzione di tenerci prigionieri? - Lo temo, mio povero Rokoff. Saranno orgogliosi di possedere due figli di Buddha viventi. È ben vero che ne hanno degli altri, ma non discendono dal cielo, né sono mai stati veduti volare sul dorso d'un uccello. - E noi ci lasceremo sequestrare tranquillamente? - Pel momento ci conviene adattarci alle circostanze e fare buon viso alla cattiva fortuna. - Io mi ribellerò e farò un massacro di tutti i monaci di Dorkia - disse Rokoff. - Un figlio di Buddha che ammazza gli adoratori del padre! Tutto sarebbe finito e la nostra santità, che per ora ci protegge, sfumerebbe subito. Non scherziamo coi tibetani, Rokoff. Se avessero il più piccolo sospetto che noi siamo degli europei, chissà quanti orribili tormenti ci farebbero soffrire. No, manteniamoci tranquilli, fingiamo di essere veramente figli del cielo e aspettiamo il ritorno del capitano. - Che cosa potrà fare lui se i Lama ci tengono prigionieri? - Dispone di mezzi potenti colla sua aria liquida, lo hai già veduto. - E se fosse morto? Fedoro non osò rispondere. Il drappello intanto continuava a costeggiare il lago, galoppando rapidamente. La via era orribile, cosparsa di macigni, di crepacci, di pezzi di valanghe e saliva sempre fiancheggiando talora degli abissi spaventevoli, in fondo ai quali muggivano o scrosciavano le onde del Tengri-Nor. I cavalli però non si arrestavano un solo istante e superavano, con un'abilità e una sicurezza straordinaria, tutti quegli ostacoli. Non interrompevano la loro corsa nemmeno quando il sentiero diventava così stretto da permettere appena il passaggio a un solo cavaliere per volta. Eppure il vento, in certi passaggi, soffiava con tale furore, che Fedoro e Rokoff temevano di venire strappati dalla sella e scaraventati in fondo a quei paurosi baratri. Che magnifici cavalieri erano quei tibetani! Saldi sulle loro selle, pareva che formassero un solo corpo coi loro destrieri e non esitavano mai, anche quando dovevano scendere entro profondi avvallamenti o dovevano saltare dei crepacci che mettevano le vertigini. Quella corsa indiavolata fra abissi e burroni, fra i muggiti delle acque da un lato, i ruggiti del vento dall'altro, durò tre lunghe ore. Cominciavano a diradarsi le tenebre, quando il capo della scorta mandò un grido stridente. I cavalli s'arrestarono un momento, grondanti di sudore e di spuma, poi si cacciarono uno dietro l'altro su uno stretto ponte gettato sopra un profondo burrone. Giunti dall'altra parte, agli occhi di Fedoro e di Rokoff apparve un enorme edificio che s'innalzava maestosamente su una vasta piattaforma scendente verso il Tengri-Nor. - Dorkia - disse il capo della scorta, accostandosi ai due europei. - Il Bogdo- Lama vi attende.

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Un fascio di luce abbagliante l'avvolse, togliendola alla vista del cacciatore di serpenti che fu forzato a chiudere gli occhi. Quella fanciulla era coperta letteralmente d'oro e di pietre preziose d'inestimabile prezzo. Una corazza d'oro, tempestata dei più bei diamanti del Golconda e del Guzerate, decorata del misterioso serpente colla testa di donna, le racchiudeva tutto il seno e spariva in un largo scialle di cachemire trapunto d'argento, che cingevale i fianchi; molteplici collane di perle e di diamanti le pendevano dal collo, grossi come nocciuole; larghi braccialetti pur tempestati di pietre preziose le ornavano le nude braccia, ed i calzoncini larghi, di seta bianca, erano stretti sul collo dei piedi nudi e piccini, da cerchietti di corallo della più bella tinta rossa. Un raggio di sole, penetrato da uno stretto pertugio, battendo sopra quella profusione di ori e di gioie aveva per così dire immersa la giovanetta in un mare di luce d'un fulgore acciecante. - La visione! ... La visione! ... - ripeté per la seconda volta Tremal-Naik, tendendo le braccia verso di lei! - Oh! quanto è bella! ... La giovanetta si guardò attorno con smarrimento e portò un dito sulle labbra, come per invitarlo a tacere, poi camminò dritta verso di lui. - Sciagurato! - diss'ella con ispavento. - Cosa sei venuto a far qui? ... Qual follia ti trascinò in quest'orribile luogo? ... Il cacciatore di serpenti, senza volerlo, era caduto in ginocchio tendendo le mani verso di lei che indietreggiò con maggiore spavento. - Non toccarmi! - diss'ella, con un filo di voce. Tremal-Naik aveva emesso un sospiro: - Sei bella! esclamò egli con passione. - Taci, Tremal-Naik! - Sei bella! ... - ripeté il selvaggio figlio della jungla. Ella gli pose un dito sulle labbra. - Se non vuoi perdermi, non fare rumore, - disse la giovanetta con dolce rimprovero. - Tu non sai ancora, i tremendi pericoli che ci minacciano. - Io sono Tremal-Naik! Chi è quest'uomo che ti minaccia? Dimmelo ed io, il cacciatore di serpenti, ti giuro che domani questo nemico sarà scomparso dalla terra! ... - Non parlare così, Tremal-Naik! - Perché? ... Senti, fanciulla: non aveva mai veduto un volto di donna nella mia jungla popolata dalle sole tigri. Quand'io per la prima volta ti vidi, agli ultimi raggi del sole morente, là, dietro quel cespuglio di mussenda, mi sono sentito scuotere tutto. Mi parve che tu fossi una divinità scesa dal cielo e t'adorai. - Taci! taci! - ripeté con voce rotta la fanciulla, nascondendosi il volto fra le mani. - Non posso tacere, vago fiore della jungla! - esclamò Tremal-Naik con maggior passione. - Quando tu scomparisti, mi parve che qualche cosa si staccasse dal mio cuore. Ero come ubriaco, dinanzi agli occhi mi danzava la tua visione, nelle vene scorrevami più rapido il sangue e lingue di fuoco mi salivano in volto e più su fino al cervello. Si avrebbe detto che tu mi avevi stregato! - Tremal-Naik! - mormorò con ansia la fanciulla. - Quella notte non dormii, - proseguì il cacciatore di serpenti. - Avevo la febbre indosso e una smania furiosa di rivederti. Perché? Io l'ignorava, né sapeva capacitarmi come ciò accadesse. Era la prima volta in vita mia che provavo una tale emozione. Passarono quindici giorni. Tutte le sere, al calar del sole, io ti rivedeva dietro al mussenda ed io mi sentivo felice dinanzi a te; mi pareva di esser trasportato in un altro mondo mi pareva di essere diventato un altro uomo. Tu non mi parlavi, ma mi guardavi e per me era anche troppo; quei tuoi sguardi erano eloquenti e mi dicevano che tu ... S'arrestò ansante, guardando la fanciulla che teneva il volto nascosto fra le mani. - Ah! - esclamò egli con dolore. - Tu adunque non vuoi che parli. La fanciulla si scosse e lo fissò, con occhi umidi. - Perché parlare, - balbettò ella, - quando tra noi v'è un abisso? Perché sei venuto qui, sciagurato, a ridestare nel mio cuore una speranza vana? Non sai tu adunque, che questo luogo è maledetto, interdetto soprattutto a colui che io amo? - Che io amo! - esclamò Tremal-Naik, con gioia. Ripeti, ripeti questa parola, vago fiore della jungla! È vero adunque che tu mi ami? È vero dunque che tu venivi ogni sera dietro il mussenda perché mi amavi? - Non farmi morire, Tremal-Naik, - esclamò la fanciulla con angoscia. - Morire! Perché? Qual pericolo ti minaccia? Non sono qui io a difenderti? Che importa se questo luogo è maledetto? Che importa se fra noi due v'è un abisso? Io sono forte, tanto forte che per te scrollerei questo tempio e infrangerei quell'orribile mostro, dinanzi al quale tu versi dei profumi. - Come, tu sai questo? Chi te lo disse? - T'ho veduta questa notte. - Questa notte eri qui dunque? - Sì, ero qui, anzi lassù aggrappato a quella lampada, proprio sopra al tuo capo. - Ma chi ti condusse in questo tempio? - La sorte, o meglio il laccio degli uomini che abitano questa terra maledetta. - T'hanno dunque veduto? - M'hanno dato la caccia. - Ah! disgraziato, sei perduto! - esclamò la fanciulla con disperazione. Tremal-Naik si slanciò verso di lei. - Ma dimmi, qual mistero è questo? - chiese egli con furore, a gran pena frenato. - Perché tanto terrore? Che cosa vuol dire quella mostruosa figura che ha bisogno di profumi? Cos'è quel pesce dorato che nuota in quel bacino? Cosa significa quel serpente dalla testa di donna che tu hai impresso sulla corazza? Chi sono questi uomini che strangolano i loro simili e che vivono sotto terra? Io lo voglio sapere, o Ada, io lo voglio! - Non interrogarmi, Tremal-Naik. - Perché? - Ah! se tu sapessi qual terribile destino pesa su me! - Ma io son forte. - Che vale la forza contro questi uomini? - Farò a loro una guerra spietata. - T'infrangeranno come un giovane bambù. Non sfidano essi la possanza dell'Inghilterra? Sono forti, Tremal-Naik, e tremendi! Nulla resiste a loro: né le flotte, né gli eserciti. Tutto cade dinanzi al velenoso loro soffio. - Ma chi sono adunque essi? - Non posso dirlo. - E se io te lo comandassi? - Rifiuterei. - Dunque tu ... diffidi di me! - esclamò Tremal-Naik con rabbia. - Tremal-Naik! Tremal-Naik! - mormorò l'infelice giovanetta, con accento straziante. Il cacciatore di serpenti si torse le braccia. - Tremal-Naik, - proseguì la fanciulla, - una condanna pesa su di me, una condanna terribile, spaventevole, che non cesserà che colla mia morte. Io t'ho amato, prode figlio della jungla, t'amo sempre, ma ... - Ah! tu mi ami! - esclamò il cacciatore di serpenti. - Sì, ti amo, Tremal-Naik. - Giuralo su quel mostro che ci sta dappresso. - Lo giuro! - disse la giovanetta, tendendo la mano verso la statua di bronzo. - Giura che tu sarai mia sposa! ... Uno spasimo scompose i lineamenti della giovanetta. - Tremal-Naik, - mormorò ella con voce cupa, - sarò tua sposa, se pure sarà possibile! - Ah! ho forse un rivale. - No, né vi sarà alcuno tanto audace da fissare il suo sguardo su di me. Appartengo alla morte. Tremal-Naik aveva fatto due passi indietro colle mani strette al capo. - Alla morte! ... - esclamò. - Sì, Tremal-Naik, appartengo alla morte. Il giorno in cui un uomo poserà le sue mani su di me, il laccio dei vendicatori troncherà la mia vita. - Ma sogno io forse? - No, sei sveglio e colei che ti parla è la donna che ti ama. - Ah! tremendo mistero! - Sì, tremendo mistero, Tremal-Naik. Tra noi v'è un abisso che nessuno sarà capace di colmare ... Fatalità! Ma cosa ho fatto io per essere così disgraziata? Qual delitto ho commesso io, per essere maledetta? Uno scoppio di pianto soffocò la sua voce ed il suo volto s'irrigò di lagrime. Tremal-Naik emise un sordo ruggito e strinse le pugna con tale forza da far crocchiare le ossa. - Che posso fare per te? - chiese egli, commosso fino al fondo dell'anima. - Queste tue lagrime mi fanno male, vago fiore della jungla. Dimmi che devo fare, comanda ed io ti ubbidirò più d'uno schiavo. Vuoi che io ti tragga da questo luogo, io lo farò, dovessi lasciare la vita nel tentativo. - Oh! no, no! - esclamò la giovanetta, con ispavento. - Sarebbe la morte per entrambi. - Vuoi che io parta di qui? Senti, io ti amo assai, ma se la tua esistenza richiedesse la separazione eterna fra noi due, io infrangerò l'amore che nacque nel mio cuore. Sarò dannato, sarà un martirio continuo per me, ma lo farò. Parla, cosa devo fare? La giovanetta taceva e singhiozzava. Tremal-Naik l'attirò dolcemente a sé e stava per aprire le labbra, quando al di fuori echeggiò l'acuta nota del ramsinga. - Fuggi! fuggi, Tremal-Naik! - esclamò la giovanetta, fuori di sé pel terrore. - Fuggi o siamo perduti! - Ah! maledetta tromba! - urlò Tremal-Naik, digrignando i denti. - Essi arrivano, - proseguì la giovanetta con voce spezzata. - Se ci trovano, ci immoleranno alla loro spaventevole divinità. Fuggi! fuggi! - Oh giammai! - Ma vuoi tu adunque farmi morire! - Io ti difenderò! - Ma fuggi, disgraziato! fuggi! Tremal-Naik per tutta risposta raccolse da terra la carabina e l'armò. La giovanetta comprese che quell'uomo era irremovibile. - Abbi pietà di me! - diss'ella con angoscia. - Essi vengono. - Ebbene, io li aspetterò, - rispose Tremal-Naik.- Il primo uomo che ardirà alzare su di te la sua mano, giuro sul mio dio che lo ammazzo come una tigre della jungla. - Ebbene rimani, giacché sei irremovibile, prode figlio della jungla; io ti salverò. Ella raccolse il suo sari e si diresse verso la porta dalla quale era entrata. Tremal-Naik si slanciò verso di lei trattenendola. - Dove vai? - gli chiese. - A ricevere l'uomo che sta per arrivare ed impedirgli che qui entri. Questa sera, alla mezzanotte, io ritornerò da te. Allora si compirà la volontà dei numi e forse ... fuggiremo. - Il tuo nome? - Ada Corishant. - Ada Corishant! Ah! quanto è bello questo nome! Va', nobile creatura, a mezzanotte t'attendo! La giovanetta s'avvolse nel sari, guardò un'ultima volta, cogli occhi umidi, Tremal-Naik e uscì soffocando un singhiozzo.

Di quando in quando poi, un lampo livido, abbagliante, rompeva le tenebre, mostrando quel caos di vegetali contorti ed atterrati, seguito poco dopo da un formidabile scroscio che si ripercuoteva fino alle rive del golfo del Bengala. Non pioveva, ma le cateratte del cielo non dovevano tardare ad aprirsi. I due indiani e la tigre in pochi minuti guadagnarono la riva del Mangal, le cui acque, ingrossate da qualche acquazzone, scorrevano con maggiore rapidità, trascinando ammassi di bambù strappati probabilmente alle Sunderbunds del settentrione e gran numero di tronchi d'albero. Stettero alcuni minuti nascosti fra i canneti, aspettando che un lampo rischiarasse la riva opposta, poi, certi di non essere spiati, s'affrettarono a scendere la riva ed a spingere in acqua il canotto. - Padrone, - disse Kammamuri, mentre Tremal-Naik vi balzava dentro. - Credi tu che incontreremo degli indiani lungo il fiume o nei dintorni di Raimangal? - Ne sono certo ma cosa importa? Questa notte mi sento tanto forte da cozzare contro un esercito di mille uomini. La passione che m'arde in petto, mi darà la forza necessaria per vincere e superare ogni ostacolo. - Lo so, padrone, ma bisogna agire con prudenza. Se ci scorgono daranno l'allarme e ci impediranno di sbarcare. - E come vorresti fare? - Ingannarli. - Come? - Lascia fare a me; passeremo senz'essere veduti. Il maharatto riguadagnò la riva, abbatté un considerevole numero di bambù lunghi non meno di quindici metri e coprì accuratamente il canotto, in modo da farlo sembrare un ammasso di canne in balìa della corrente. - Fa oscuro, - diss'egli nascondendovisi sotto con Tremal-Naik e Darma. - Gl'indiani non sospetteranno che sotto le canne v'è un canotto e che il canotto porta due uomini ed una belva. - Presto, Kammamuri, spingiamoci al largo, - disse Tremal-Naik che fremeva d'impazienza. - Ogni minuto che scorre, è per me un colpo di pugnale al cuore ed io tremo tutto pensando al gran pericolo che corre Ada. Credi tu, maharatto, che noi arriveremo a salvarla? - Lo credo, padrone, - rispose Kammamuri, spingendo il canotto in mezzo alla corrente. - Forse quegli uomini sperano che il miserabile abbia compiuto il delitto. - E se noi arrivassimo tardi? ... Grande Siva, qual terribile colpo! Io non sopravviverei, lo sento, alla catastrofe. - Calma, padrone. Chissà, forse Manciadi ha esagerato. - Possa essere vero. Mia povera Ada, potessi ancora rivederti. - Zitto, padrone; parlare è imprudente. - È vero, Kammamuri: silenzio. Tremal-Naik si sdraiò a prua a fianco della tigre e Kammamuri a poppa, col remo in mano, cercando di dirigere il canotto. L'uragano allora raddoppiava di violenza e alla notte oscura era successa una notte di fuoco. Il vento ruggiva tremendamente nella jungla, curvando con mille gemiti e mille scricchiolii i giganteschi vegetali e torcendo in mille guise i cento tronchi dei banian, i rami dei palmizi tara, dei latania, dei pipal e dei giacchieri, e fra le nubi scrosciava incessantemente la folgore che veniva giù, descrivendo abbaglianti zig-zag. Il canotto trascinato dal vento e dalla corrente straordinariamente gonfia, filava come una freccia, dondolandosi spaventosamente fra i gorghi, cozzando e tornando a cozzare contro le molteplici isolette e contro la moltitudine d'alberi che andavano disordinatamente alla deriva. Kammamuri si sforzava, ma invano, di mantenerlo sulla buona via e Tremal-Naik cercava di calmare la tigre, la quale, spaventata da tutti quei fragori e da quell'abbagliante chiarore, ruggiva ferocemente, lanciandosi dall'uno all'altro bordo della imbarcazione con grande pericolo di rovesciarla. Alle dieci di sera Kammamuri segnalò un gran fuoco che ardeva sulla riva del fiume a meno di trecento passi dalla prua del canotto. Non aveva ancora terminato di parlare, che si udì il ramsinga suonare tre volte e su tre diversi toni. - Allerta, padrone! - gridò, dominando colla voce tutti quei formidabili fragori. - Scorgi nessuno? - chiese Tremal-Naik, tenendo stretta pel collo la tigre colla mano sinistra e impugnando colla destra una pistola. - No, padrone, ma il fuoco fu certamente acceso per vedere chi va o viene. Stiamo in guardia; il ramsinga ha segnalato qualche cosa. - Prendi la carabina. Forse daremo battaglia. Il canotto s'avvicinava rapidamente al fuoco, il quale bruciava un ammasso di bambù secchi, rischiarando come in pieno giorno le due rive del fiume. - Padrone, guarda! - disse d'un tratto Kammamuri. - Zitto! - bisbigliò Tremal-Naik, serrando la bocca alla tigre. Due indiani si erano improvvisamente lanciati fuori da un cespuglio di mussenda. Portavano il laccio attorno al corpo e tenevano una carabina in mano. Sui loro petti, si scorgeva distintamente il serpente azzurro colla testa di donna. - Guarda laggiù! - gridò uno di essi. - Vedi? - Sì, - rispose l'altro. - È un ammasso di canne che va alla deriva. - Lo credi? - E perché no? - Temo che nasconda qualche cosa. - Non vedo nulla sotto. - Taci! ... To'. Mi sembrò di avere udito ... - Un ruggito, vuoi dire? - Precisamente. Che ci sia una tigre là in mezzo? - Buon viaggio. - Adagio, Huka. L'uomo che Manciadi deve strangolare ha una tigre. - Questo non lo sapeva. E vuoi tu, che là sotto ci sia il nostro uomo colla sua bestia? - Potrebbe darsi. Quell'uomo è astuto ed audace. - Cosa conti di fare? - Scovarlo con un colpo di carabina. Mira molto basso. Kammamuri e Tremal-Naik avevano udito distintamente il dialogo. Vedendo i due indiani alzare le carabine, si gettarono prontamente nel fondo del canotto. - Non rispondere, padrone, - disse il maharatto, o siamo perduti. Due colpi di carabina rintronarono forando i bambù. La tigre fece un salto emettendo un furioso miagolìo. - Ferma, Darma! - disse Tremal-Naik, rovesciandola. - Che la dea mi fulmini! - gridò uno dei due indiani. - È lui. - Da' il segnale, Huka! - comandò l'altro. - Ah! miserabile! Qualche cosa di lampeggiante brillò al disopra del canotto seguito da uno scroscio formidabile che soffocò l'acuta nota del ramsinga. Tremal-Naik e Kammamuri, che si erano alzati, furono violentemente atterrati mentre la tigre gettava un secondo miagolìo ancor più furioso del primo. - Padrone! - esclamò Kammamuri. - La folgore! Tremal-Naik, ancora istupidito dall'influenza della scarica elettrica s'alzò ginocchioni. Un grido di rabbia gli sfuggì. - Maledizione! ... Abbruciamo! Infatti i bambù, percossi dalla folgore, avevano preso fuoco e abbruciavano rapidamente. - Siamo perduti! - esclamò Kammamuri. - Nel fiume! Nel fiume! - Non muoverti, se ti è cara la vita. Tremal-Naik prese fra le braccia l'ammasso di canne e con uno sforzo disperato le gettò nel fiume. - È lui! - gridò una voce.- Fuoco! Huka! ... Due altre detonazioni rimbombarono. Tremal-Naik udì le palle fischiare ai suoi orecchi. - Da' il segnale, Huka! - Siamo perduti, padrone! - gridò Kammamuri. - Non muoverti, - disse Tremal-Naik. - Afferra la tigre. Si slanciò a poppa e mirò l'indiano Huka che accostava alle labbra il ramsinga. Lo scoppio della carabina fu accompagnato da un tonfo e da un grido. Huka, colpito in fronte dall'infallibile palla del cacciatore di serpenti, era precipitato nel fiume. Il suo compagno esitò un momento, poi fuggì a rompicollo attraverso la jungla, suonando furiosamente il ramsinga che aveva raccolto da terra. Tremal-Naik gli sparò dietro una pistolettata, ma senza riuscire a colpirlo. - Fallito! - gridò egli, gettando con collera l'arma. - Siamo scoperti! - Cosa facciamo, padrone? - chiese Kammamuri. - Mi pare che ogni speranza di approdare a Raimangal sia perduta; il ramsinga metterà in allarme tutti gl'indiani. Maledetta folgore! ... - Andiamo innanzi lo stesso, Kammamuri. Questa notte non ci arresteranno tutti gl'indiani delle Sunderbunds. Da' mano ai remi ed arranca con quanta forza hai; forse arriveremo prima che i miserabili possano prepararsi a riceverci. Io terrò d'occhio le due rive del fiume e abbatterò quanti si mostrano a portata della mia carabina. Avanti! Kammamuri voleva aggiungere qualche parola, forse qualche consiglio, ma Tremal- Naik non gliene lasciò il tempo. - Se hai paura, sbarca, - gli disse. - Io e la tigre andremo innanzi. - Ti seguo, padrone, e Siva ci protegga. Afferrò i remi, si sedette a mezza barca e si mise a remigare con tutte le sue forze. Il canotto, sotto quella potente spinta, discese la fiumana con rapidità vertiginosa, balzando sulle onde. Tremal-Naik, caricata la carabina, si mise a poppa cogli occhi fissi sulle due rive. La tigre si era accovacciata ai suoi piedi e brontolava sordamente ad ogni baleno. Passarono dieci minuti. Le rive, che fuggivano rapidamente dinanzi agli occhi dei due indiani, erano coperte di bambù che tuffavansi nella corrente e da rade palme tara, la maggior parte delle quali abbattute o spezzate dalla furia dell'uragano. D'un tratto Tremal-Naik, che seguiva attentamente il corso del fiume scorse al sud un razzo elevarsi a grande altezza. Quantunque il vento continuasse a ruggire e la folgore a scrosciare, udì distintamente lo scoppio. - Un segnale forse? mormorò egli. - Arranca, arranca Kammamuri! Un secondo razzo si elevò sulla riva opposta descrivendo una lunga parabola. - Padrone? - interrogò Kammamuri. - Avanti, mio prode maharatto. - Siamo stati segnalati. - La mia Ada corre un pericolo: avanti! Attenta, Darma: l'ora della pugna s'avvicina. Il fiume allora correva più rapido restringendosi a mo' di collo di bottiglia; Tremal-Naik s'accorse di essere vicino al cimitero galleggiante. Senza sapere il perché, provò un fremito. - Adagio, Kammamuri. Sento che corriamo un pericolo. Il maharatto rallentò la battuta delle pagaie. Il canotto continuò a filare ed entrò in mezzo al bacino, coperto dalla fitta volta dei tamarindi e dei manghieri. L'oscurità divenne profonda, tanto che i due indiani non vedevano più lontano di cinque passi. Il canotto urtò contro la massa dei cadaveri, ed un tonfo, come di un corpo che s'inabissa, rispose al primo urto. - Padrone, hai udito? - chiese Kammamuri. - Sì, qualcuno si è gettato in acqua. Tremal-Naik si curvò sul fiume per vedere se qualcuno s'avvicinava al canotto, ma nulla scorse. Il canotto per la seconda volta urtò. - Qualcuno passa, - disse una voce che giunse fino ai due indiani. - Che sieno loro? - Oppure dei nostri? L'appuntamento è per la mezzanotte. Tremal-Naik a quella parola "mezzanotte" provò un colpo al cuore. - Mezzanotte! - mormorò, con voce tremante. - L'appuntamento per la mezzanotte! Quale sospetto! - Olà! - gridò una di quelle voci. - Chi passa? - Non rispondere, padrone, s'affrettò a dire Kammamuri. - Al contrario, risponderò. Bisogna che sappia tutto. - Ti perdi. - Chi parla? - chiese Tremal-Naik. - Chi passa? - domandò invece la voce. - Indiani di Raimangal. - Affrettate, che la mezzanotte non è lontana. - Cosa si farà a mezzanotte? - La vergine della sacra pagoda sale sul rogo. Tremal-Naik soffocò un urlo che stava per sfuggirgli dalle labbra. - Siva, Siva, abbi pietà di lei! mormorò. Poi, dominando la sua commozione, chiese: - Non è morto, adunque, Tremal-Naik? - No, fratello, poiché Manciadi non è ancora tornato. - E la Vergine verrà abbruciata? - Sì, alla mezzanotte. Il rogo è pronto e la fanciulla salirà nel paradiso di Kâlì. - Grazie, fratello, - rispose con voce soffocata Tremal-Naik. - Una parola ancora. Hai udito il ramsinga? - No. - Hai veduto Huka? - Sì, accanto al falò. - Sai dove si brucierà la Vergine? - Nei sotterranei, mi pare. - Sì, nella grande pagoda sotterranea. Affrettati che la mezzanotte non deve essere lontana. Addio, fratello. - Arranca, Kammamuri, arranca! - ruggì Tremal-Naik. - Ada! mia povera Ada! Un singhiozzo lacerò il suo petto e soffocò la sua voce. Kammamuri afferrò i remi e si mise ad arrancare con disperata energia. Il canotto sfondò violentemente la massa dei cadaveri ed uscì dalla parte opposta. - Presto! ... presto! - disse Tremal-Naik, fuori di sé. - A mezzanotte salirà il rogo ... Arranca, Kammamuri! Il maharatto non aveva bisogno di essere eccitato. Arrancava così furiosamente, che i muscoli minacciavano di fargli scoppiare la pelle. Il canotto attraversò il bacino ed entrò rapido come un dardo nel fiume. Tosto apparve l'estrema punta di Raimangal col suo gigantesco banian i cui smisurati rami si contorcevano in mille guise sotto i possenti soffi della burrasca. Un lampo ruppe le tenebre mostrando la riva completamente deserta. - Siva è con noi! - esclamò Kammamuri. - Avanti, maharatto, avanti! - disse Tremal-Naik, che s'era gettato a prora. Il canotto spinto innanzi a tutta velocità s'arenò sulla sponda, uscendo d'un buon terzo dall'acqua. Tremal-Naik, caricatosi in furia delle munizioni, Kammamuri e la tigre si slanciarono a terra, raggiungendo il tronco principale del banian sacro. - Odi nulla? - chiese Tremal-Naik. - Nulla, - disse Kammamuri. - Gl'indiani sono tutti nel sotterraneo. - Hai paura a seguirmi? - No, padrone, rispose con ferma voce il maharatto. - Quando è così, scendiamo anche noi. La mia Ada o la morte! S'aggrapparono ai colonnati e raggiunsero i rami superiori, avvicinandosi alla smezzata sommità del tronco. La tigre con un salto solo li raggiunse. Tremal-Naik guardò giù nella cavità. Al chiarore dei lampi scorse delle tacche, che permettevano di discendere. - Andiamo, mio prode maharatto. Io ti precedo. E si lasciò calare nel tronco, scendendo silenziosamente. Il maharatto e Darma lo seguirono da vicino. Cinque minuti dopo i due indiani e la tigre si trovavano nel sotterraneo, in una specie di pozzo semi-circolare scavato nella viva roccia, sei metri sotto il livello delle Sunderbunds.

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

Uno splendido sole brillava sull'orizzonte inondando quella deserta regione d'una luce abbagliante, e un fresco vento soffiava da nord. I due balenieri, chiusi per bene i magazzini nei quali lasciavano ancora una discreta quantità di provvigioni e dato un addio alla capanna che li aveva ricoverati durante il lungo inverno polare, si affrettarono a dirigersi verso la slitta, ansiosi di toccare la costa americana. Stavano per porvi il piede, quando entrambi si fermarono come se a tutti e due fosse istantaneamente venuto lo stesso pensiero. I loro occhi si portarono sul gran banco di ghiaccio risplendente di luce e si fermarono là dove circa quattro mesi prima, in una notte d'orrore, per effetto delle pressioni, il valoroso "Danebrog" sventrato, stritolato, era colato a fondo; là dove i loro sfortunati camerati erano stati inghiottiti in quella tremenda notte. - Riposate in pace! - disse il tenente con voce solenne e triste, scoprendosi il capo. - Riposate in pace voi infelici che non rivedrete giammai le lontane sponde della vostra patria, nè avrete sulle vostre tombe il conforto di un fiore sparso da mano amica, nè una lagrima versata dai vostri cari. Addio, capitano Weimar, addio, miei poveri camerati: noi non vi dimenticheremo. - Riposate in pace! - ripetè Koninson che era profondamente commosso. - I ghiacci del polo vi siano leggeri. - Ed ora partiamo! - disse il tenente. Balzarono nella slitta che pareva impaziente di allontanarsi da quei funebri luoghi e issarono la vela, che subito si gonfiò sotto i soffi del vento settentrionale. Il veicolo per un istante rimase immobile come fosse inchiodato al banco, poi cominciò a scivolare un pò indecisamente, indi si slanciò attraverso la liscia superficie colla velocità di un treno diretto, sollevando attorno a sè una nube di nevischio e di ghiacciuoli e lasciandosi dietro due striscie fiammeggianti che in pochi istanti si prolungarono indefinitamente. Il tenente e Koninson, quasi soffocati dalla rapida e gelida corrente d'aria, flagellati da una vera grandine di ghiacciuoli sottili come aghi, solidamente aggrappati alle traverse del celere veicolo, si sforzavano di guardare innanzi per tema di trovarsi improvvisamente sull'orlo di qualche spaccatura o di urtare contro qualche sporgenza. - Apri bene gli occhi, - ripeteva Hostrup al fiociniere - e sii pronto a lasciar cadere la vela. - Non temete, - rispondeva con voce soffocata il bravo giovanotto, che non abbandonava la prua del veicolo dove maggiore era la pioggia dei ghiacciuoli, taluno dei quali gli lacerava il viso - guardo sempre. E la slitta scivolava, scivolava sempre più senza scosse, senza sbandamenti, senza deviare d'un solo centimetro sotto la robusta mano del tenente che non abbandonava il timone, lasciandosi a destra e a sinistra "icebergs" e "hummocks" e mettendo in fuga volpi, lupi e uccelli. Ben presto la sua velocità divenne tale che il tenente cominciò ad avere delle inquietudini. Oramai filava come un vero uccello, percorrendo non meno di cinquanta chilometri all'ora. Guai se si fosse trovata dinanzi ad un ostacolo o dinanzi ad una spaccatura del ghiaccio; l'urto l'avrebbe mandata in mille pezzi e i due uomini che la montavano non se la sarebbero cavata senza ossa rotte. A mezzogiorno il tenente stimò la distanza percorsa a centosessanta miglia, ma la costa americana non era ancora in vista, quantunque non dovesse essere molto lontana. - Fermiamoci! - disse al fiociniere. - Ammaina la vela. Koninson obbedì. La slitta, trasportata dallo slancio, percorse un buon miglio ancora, poi si fermò di fianco ad un alto masso di ghiaccio. Accesero la lampada che avevano portato seco loro, si prepararono un modesto desinare che in un baleno divorarono, indi rimontarono nel veicolo che riprese la corsa ma con minor velocità, essendo il vento un po' scemato. Alle 4 pomeridiane, dopo essersi più volte fermati per girare dei crepacci che erano stati scorti a tempo e per trascinare la slitta attraverso a ghiacci sollevati dalle pressioni, Koninson segnalava un'alta costa che, quantunque fosse tutta coperta di neve, non pareva una catena di "icebergs", e un pò più tardi, ad una grande distanza, mezze avvolte fra un fitto nebbione, scopriva delle vette che sembravano montagne. - Signor Hostrup! - esclamò con voce commossa. - È la costa americana! - disse il tenente, non meno commosso. - Così presto? - Abbiamo percorso oltre duecento e cinquanta miglia da stamane. Presto, fiociniere, cala la vela o ci sfracelleremo. Koninson si affrettò ad ubbidire. Dieci minuti dopo la slitta si arrestava a solo mezzo chilometro dalle sponde dell'America settentrionale.

Un silenzio perfetto, strano, regnava sopra quell'immensa distesa di ghiacci, e due soli uccelli, due poveri gabbianelli, solcavano quella abbagliante atmosfera, mandando di quando in quando un triste grido. - Ventre di balena! - esclamò Koninson che, come il solito, si trovava vicino al signor Hostrup. - È' uno spettacolo superbo, tenente. - Non dico di no, ma sarei più contento se non l'avessi dinanzi agli occhi - rispose l'ufficiale. - Perchè, signore? - Perchè questi ghiacci finiranno coll'unirsi e, se ci prendono in mezzo, per il "Danebrog" sarà finita. - Il nostro vascello ha un solido sperone. - Ma i ghiacci avranno allora uno spessore tale da sfidare lo sperone di una fregata di cinquemila tonnellate. E poi, non conti tu le pressioni? - Le costole del "Danebrog" sono ancora salde, signore. - Ma le pressioni sono formidabili, Koninson. Quando i ghiacci non trovano più posto, stritolano irresistibilmente tutto ciò che impedisce loro di allargarsi. E tu sai quanti vascelli colarono a picco completamente stritolati!. - Ditemi, tenente, è proprio terribile la forza del ghiaccio? - Immensa, fiociniere. - E perchè? - Per il semplice motivo che l'acqua, congelandosi, cresce di volume. Mi ricordo d'aver veduto una palla di ferro che era stata riempita d'acqua e poi collocata in una ghiacciaia ove il termometro segnava 4o sotto zero, scoppiare come se fosse di vetro. - Se me lo dicesse un altro non ci crederei, tenente. - Io so che anche un cannone scoppiò. - Un cannone! - Sì, fiociniere, e aggiungerò che l'esperimento fu fatto da Huggens nel 1667. Questo Huggens aveva riempito d'acqua un pezzo d'artiglieria di ferro, le cui pareti avevano uno spessore di tre centimetri, poi l'aveva ben chiuso. Alla notte l'acqua gelò e al mattino fu trovato il cannone spezzato. - Corpo d'una balena! - Anche il maggiore Edwards William nel 1784 fece degli esperimenti. - Con altri cannoni? - No, con bombe. Ne riempì otto che avevano il diametro esterno di 32 centimetri e una grossezza di parete di millimetri 0,038; le turò con tappi di ferro solidamente trattenuti da lamine e le sottopose ad una temperatura che variava fra i 19o e i 28o sotto zero. Sette bombe lanciarono in aria il turacciolo e la ottava scoppiò. E nota, non tutta l'acqua racchiusa si era gelata. - Ora credo che una nave possa venire stritolata dalle pressioni dei ghiacci, per quanto abbia le costole salde. Ditemi, tenente, quale densità ha il ghiaccio? - Gli scienziati, dopo lunghi studi, l'hanno determinata al valore medio di 0,918, a 0o di temperatura. - Un'altra domanda, tenente. Perchè il mare gela solamente alla superficie? Se il freddo è intenso dovrebbe gelare anche in fondo. - Ora te lo spiego, curioso fiociniere. Quando la temperatura è scesa allo zero, lo strato d'acqua superiore di un mare, di un lago o di un fiume, raffreddandosi diventa più pesante rispetto agli altri strati che possiedono ancora del calore e allora precipita in fondo. Il secondo strato, occupando il primo posto, pure si raffredda e pure precipita, e così avviene pure di tutti gli altri. Quando a tutti è stato sottratto il calore, il primo strato gela ed essendo il ghiaccio un cattivo conduttore, impedisce o almeno ritarda molto il congelamento degli altri. Ecco perchè difficilmente un mare gela dalla superficie al fondo. - Secondo questa vostra teoria, i mari più profondi gelerebbero meno facilmente degli altri. - Certo, Koninson. - Ditemi, tenente, quale è la più bassa temperatura a cui gela l'acqua? - Secondo le ultime osservazioni questa temperatura sarebbe di 12 centesimali sotto zero per l'acqua limpida e tranquilla. - L'acqua del mare, che è salata, si solidifica meno facilmente di quella dei laghi e dei fiumi? - Sì, perchè prima deve separarsi dai sali. Oh!, cosa vedo! - Cosa mai? - chiese Koninson, curvandosi sulla murata e gettando uno sguardo sul mare. - Ancora le macchie oleose. - Siamo adunque sulle traccie delle balene. Ah!, se venissero a tiro del mio rampone! Il tenente non si era ingannato. Dinanzi alla prua del "Danebrog" erano ricomparse le macchie oleose che il nebbione aveva fatto smarrire. La bella nuova fu tosto recata al capitano, il quale ordinò tosto di seguirle per quanto lo permettevano i ghiacci, che erano sempre numerosissimi. Disgraziatamente non lo dovevano che per un breve tratto. Già da alcuni minuti la nuvola formatasi in cielo si era dilatata prendendo una tinta più fosca e minacciando di coprire il mare con un nebbione pari, se non maggiore, a quello del dì innanzi. Ben presto la costa americana, che non distava più che sei o sette miglia, scomparve, poi si coprì pure il sole. La nube continuò a scendere qualche ora dopo e finalmente si trovò a breve distanza dalla superficie del mare che aveva perduto la sua brillante tinta verdastra. A mezzodì un vento freddissimo cominciò a soffiare dal nord, abbattendo non pochi ghiacci male equilibrati e mettendo in movimento tutti gli altri con grande pericolo del "Danebrog" che poteva venire schiacciato. Tutto all'ingiro s'udirono allora tonfi, scoppi violenti e cozzi formidabili che diventavano, quanto più il vento cresceva, sempre più forti. Alle 2 il mare presentava uno spettacolo spaventevole. Lunghe ondate, come se fossero mosse da una forza misteriosa, correvano da nord a sud, colle creste coperte di candida spuma, accavallandosi disordinatamente e lanciando in aria giganteschi sprazzi che il vento tosto disperdeva e polverizzava. Sulle loro cime o nei loro avvallamenti, gli "icebergs", gli "hummoks", i "palks" e gli "streams" si dondolavano spaventosamente, ora tuffandosi ed ora tornando a galla; si urtavano furiosamente struggendosi reciprocamente e, lanciando ovunque frammenti, si rovesciavano facendo fuggire con acute strida gli uccelli marini che avevano piantato nei crepacci i loro nidi. Guai se uno di essi avesse urtato, con quell'impeto, i fianchi del vascello! I marinai, pallidi, col terrore negli occhi, seguivano attentamente i balzi disordinati di quelle montagne e ogni qualvolta una di esse minacciava di portarsi presso il vascello, sporgevano i buttafuori onde possibilmente respingerla. Alle 3, quando l'oscurità era maggiore, cominciò a cadere attraverso il nebbione una neve fitta che in pochi minuti coperse i ghiacci, la tolda e gli attrezzi del "Danebrog". Il freddo scese quasi tutto d'un colpo di altri 8 gradi! - L'affare diventa serio assai! - disse il tenente a Koninson. - Corriamo il pericolo di venire sfracellati. - E l'oscurità cresce sempre - disse il fiociniere, masticando rabbiosamente un mozzicone di sigaro. - Un gran brutto navigare è il nostro, con tutti questi ghiacci che pare abbiano una voglia matta di fare del "Danebrog" una frittata. Vedete la costa americana, signor Hostrup? - No, Koninson, e anche quella costa mi dà assai da pensare. Possiamo trovarci da un istante all'altro dinanzi a una delle numerose isole o scogliere che la cingono.. In quell'istante, tra i fischi del vento e i muggiti delle onde, si udì mastro Widdeak gridare con accento di terrore: - Abbiamo un "iceberg" a prua! Il capitano, il tenente e Koninson, malgrado i violentissimi beccheggiamenti del vascello, si slanciarono colà. A mezza gomena appena, attraverso il nebbione, si vedeva scintillare una gran montagna di ghiaccio la quale, urtata da tutte le parti dalle onde, pareva fosse lì lì per capovolgersi. - Vira, timoniere! - urlò il capitano. - Tutti ai bracci delle manovre! Il "Danebrog", che non era più che a venti o a trenta passi dall'"iceberg", virò prontamente sul posto, ma ricevette sul fianco tale colpo di mare che lo fece quasi rovesciare sul tribordo. Quasi nel medesimo istante si udì ancora mastro Widdeak urlare: - Bada, timoniere! Un altro "iceberg" dinanzi la prua! Infatti, dritto l'asta di prua, era improvvisamente apparso un altro "iceberg" e questo ancora più grande del primo. Era una specie di colonna alta almeno cento metri e grossa quasi altrettanto. - Siamo proprio circondati? - gridò il capitano con ira. Si slanciò alla ruota del timone, e mentre i marinai, ad un comando del tenente, si portavano tutti a prua armati dei buttafuori, diresse la nave in modo da passare fra le due montagne che erano distanti appena due gomene l'una dall'altra, manovra quanto mai pericolosa, poichè potevano proprio in quel momento perdere l'equilibrio e sfracellare il "Danebrog" assieme a tutti quelli che lo montavano. - State in guardia, capitano! - gridò il tenente, appena vide la nuova direzione presa dalla nave. - Gli "icebergs" non mi sembrano bene equilibrati. - Non temete, tenente! - rispose il capitano con voce ferma. - Che nessuno abbandoni i buttafuori! Il "Danebrog", spinto dal vento e dalle onde e guidato dalla ferrea mano del capitano Weimar, si avvicinò rapidamente alle due montagne le quali, violentemente urtate dalle acque che muggivano e rimuggivano, balzando e rimbalzando, oscillavano spaventosamente minacciando di urtarsi e di capovolgersi. Non mancavano più che poche decine di metri, perchè il "Danebrog" giungesse al pericoloso passo, quando dall'"iceberg" più grande caddero in mare parecchie centinaia di ghiacciuoli, ciò che indicava che stava per perdere l'equilibrio. Un urlo di terrore si alzò sul ponte della nave; i marinai che si erano raggruppati a prua, lasciarono il posto precipitosamente, gettando via i buttafuori. Alcuni si slanciarono verso le baleniere, ritenendo ormai imminente una catastrofe. Il tenente, che era rimasto intrepidamente sul castello di prua, si gettò in mezzo ai fuggiaschi alzando minacciosamente il buttafuori che teneva in mano. - Ai vostri posti! - urlò. - Il primo che pone una mano sulle baleniere lo ammazzo come un cane! - tuonò dal canto suo il capitano, che si teneva aggrappato alla ruota del timone. - Tutti a prua o siamo perduti! Koninson primo, mastro Widdeak secondo, poi tutti gli altri riguadagnarono i posti assegnati. Era tempo! Il "Danebrog" si era cacciato fra le due montagne di ghiaccio e una di queste, portata innanzi da un'onda, minacciava di spezzare i pennoni e le murate. I marinai, quantunque il terrore li agghiacciasse, ubbidirono di comune accordo. L'"iceberg" che avanzava sempre rollando spaventosamente, tutto d'un tratto s'inclinò verso la nave che gli passava di fianco ratta ratta e sfracellò i buttafuori mandando a terra gli uomini che li stringevano. Per la seconda volta i marinai abbandonarono i loro posti fuggendo a tribordo. Il capitano Weimar gettò un vero ruggito e il tenente, malgrado tutto il suo coraggio, impallidì. Entrambi credettero che questa volta pel "Danebrog" fosse proprio finita. Un'altra onda avvicinò di più la montagna di ghiaccio. Un pennone, quello di maestra, che sporgeva assai fuori dal bordo, fu smussato da un blocco di ghiaccio staccatosi dalla cima dell'"iceberg" - Si salvi chi può! - urlarono alcuni marinai, che avevano perduto completamente la testa. - Fermi! Fermi! Passiamo! - tuonò il capitano Weimar sempre ritto dietro la ruota del timone. Il "Danebrog", trasportato dal vento che soffiava con forza irresistibile, filava come una rondine marina quasi strisciando sul fianco della montagna. Due volte toccò, ma finalmente uscì dal pericoloso passo e si slanciò sulle onde furenti lasciandosi addietro i due "icebergs", i quali in brevi istanti scomparvero nel nebbione. Un grido di gioia s'alzò fra l'equipaggio, unito al grido di: "Viva il capitano"! Ma quel grido cessò quasi subito. Uno strano e formidabile fragore si era improvvisamente udito verso sud-est. Pareva che l'oceano si rompesse contro una costa che il nebbione non permetteva di vedere. - Tenente Hostrup! - gridò il capitano che aveva pure udito quel lungo muggito. - Cosa abbiamo dinanzi a noi? La costa americana forse? Il tenente salì sul castello di prua e guardò attentamente dinanzi, a babordo e a tribordo, ma altro non vide che furiosi marosi i quali trascinavano nei loro disordinati movimenti ghiacci di ogni dimensione, sfracellandoli gli uni contro gli altri. Si curvò più che potè verso l'acqua e tese attentamente gli orecchi. Fra i fischi del vento e i cozzi dei ghiacci udì distintamente un sordo muggito. - Sì, capitano - gridò. - Noi abbiamo vicina la costa o una scogliera. - Tutti ai bracci delle vele pronti a virare! - comandò il capitano, Il "Danebrog" per dieci minuti tirò innanzi, sempre orribilmente sballottato dalle onde, che saltavano sopra le murate inondando la tolda da prua a poppa. Ad un tratto, a breve distanza apparve una spuma biancastra e il muggito poco prima udito divenne così intenso da credere che la costa o le scogliere fossero a poche gomene. Il capitano Weimar stava per dare il comando di virare, quando avvenne un leggero cozzo che arrestò subito la marcia del "Danebrog". Il tenente e Koninson corsero a prua e si issarono, per meglio vedere, sul bompresso. Quasi subito avvenne un secondo urto e questa volta così forte da rovesciare tutto l'equipaggio. Una montagna d'acqua, varcate le murate, si precipitò sulla tolda atterrando tutto ciò che incontrava. Tra i fischi del vento ed i muggiti delle onde s'udirono due grida d'aiuto, poi più nulla. Quando i caduti si rialzarono, il "Danebrog" galleggiava ancora, ma due uomini mancavano. Il tenente Hostrup e il fiociniere Koninson, che al momento dell'urto si trovavano sull'albero di bompresso, erano stati trascinati via dal colpo di mare!

Il 27, verso sera, a quattrocento miglia dalla costa americana, fu veduta verso nord una luce bianca, abbagliante. Era il "blink" che segnava la presenza di uno o forse di più banchi di ghiaccio. Ma le macchie oleose si dirigevano pure verso nord e quantunque anche nell'animo del capitano si fosse fatta strada una certa inquietudine, il "Danebrog" non cambiò rotta. All'indomani, verso le 9 antimeridiane, il gran banco fu raggiunto. Presentava una fronte di dodici o tredici miglia, irta qua e là di punte aguzze, di bizzarre colonne, di strane cupole. Nel mezzo di esse si apriva un canale largo un trecento o più metri che si smarriva verso nord. - È un banco solo o sono due divisi dal canale? - si domandò il capitano. - Sono due senza dubbio - disse Koninson che l'aveva udito. - E le macchie oleose continuano nel canale. - E cosa vuoi concludere, fiociniere? - Che le balene si sono cacciate là dentro sperando di uscire dall'altro lato. - Hai ragione, Koninson. Ehi, Widdeak, governa dritto al canale! Il "Danebrog", che avanzava con una velocità di otto nodi all'ora a vento in poppa, dopo aver descritto una curva attorno ad un "iceberg" immenso, alla cui estremità si innalzava una specie di torre di dimensioni pure colossali, entrò nel canale frangendo col suo solido sperone una moltitudine di ghiacciuoli che altro non aspettavano se non un pò più di freddo per unire i due grandi banchi. Le macchie oleose vi erano ancora e in grande numero e spiccavano vivamente su quelle acque che la candidezza dei ghiacci e il "blink" rendevano oscure assai. Numerosi uccelli marini, strolaghe, urie, gazze marine e oche, occupavano le due sponde intenti a pescare ed a spennacchiarsi. Il "Danebrog" guidato dall'esperta mano del vecchio Widdeak si avanzò nel canale evitando i non piccoli "streams" e "hummoks" che, di quando in quando, sotto i tepidi raggi del sole, si staccavano dai campi di ghiaccio. I marinai, certi ormai di tenere le balene, si erano arrampicati sulle griselle, sulle coffe, sui pennoni e sulle crocette, ansiosi tutti di scoprirle. Ma la giornata intera passò senza che apparissero. Verso le 8 di sera, il fiociniere Harwey dalla crocetta del trinchetto, gridò: - Capitano! Il canale è chiuso! Weimar salì sull'alberatura seguito dal tenente e da Koninson. Appena volse gli sguardi verso nord, un'imprecazione uscì dalle sue labbra. Quattro miglia più innanzi il canale era chiuso da un terzo campo di ghiaccio più grande, a quanto pareva, degli altri due. Delle balene nessuna traccia, eccettuate le macchie oleose che pareva si spingessero fino all'estremità di quel braccio di mare. - Bisogna tornare indietro - disse il tenente. - Ma le balene dove sono fuggite? - chiese il capitano con i denti stretti. - Probabilmente sono uscite prima dell'arrivo del banco. - Se pure non sono uscite nuotando sotto i banchi - aggiunse Koninson. - Che fare ora? - chiese il capitano. - Capitano, - disse il tenente - badate a me, lasciate andare le balene e ritorniamo subito. - E la scommessa? - Ci prenderemo la rivincita l'anno venturo. Il capitano, sceso in coperta diede l'ordine di tornare indietro. Il "Danebrog" virò prontamente di bordo e si diresse verso sud correndo bordate, essendo il vento proprio diritto in prua. Ma quando, dopo una lunga notte, giunse all'imboccatura del canale, questa era già stata chiusa. L'"iceberg", visto al mattino, spinto dal vento del sud si era incastrato solidamente fra i due banchi presentando alla nave baleniera la sua imponente torre!

I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Quel calore che rendeva l'atmosfera d'una elasticità straordinaria, unitamente alla calma assoluta che regnava sopra la sconfinata pianura sabbiosa, e la rifrazione di quell'oceano di luce intensa, abbagliante, producevano di frequente delle strane illusioni ottiche, le quali di quando in quando facevano battere di speranza i cuori dei due isolani e strappavano alle loro labbra grida di sorpresa. Quando meno se l'aspettavano, apparivano ai loro sguardi meravigliati distese d'alberi, palme superbe che pareva dovessero promettere oasi ridenti; oppure lunghe file di cammelli o di cavalli montati da beduini e da marocchini sfilanti all'orizzonte; o vedevano aprirsi improvvisamente, fra le sabbie, canali profondi che parevano colmi d'acqua, dei veri fiumi. Ahimè! Non erano che semplici illusioni ottiche. Era il miraggio, che giuocava ai loro occhi inesperti dei tiri birboni, simili ai crudeli disinganni provati dai soldati francesi nella famosa spedizione d'Egitto. Questi fenomeni sono comunissimi nei deserti, più specialmente nel Sahara, e hanno ingannato più volte perfino dei vecchi viaggiatori, i quali credendo in buona fede di aver veduto cose reali, hanno raccontato cose meravigliose, come di laghi scorti fra le sabbie, di oasi popolose e ricche di palagi e simili altre fantasticherie. I miraggi sono dovuti al forte riscaldamento del suolo, alla disuguaglianza di densità degli strati d'aria e anche alla rifrazione dei raggi luminosi. La carovana che il marchese ed il corso scorgevano non era che la loro che si rifletteva all'orizzonte; i gruppi di palmizi che parevano formassero boschi non erano altro che due o tre palme perdute chissà a quale distanza; i laghi erano il cielo capovolto per effetto di ottica, e degli strati d'aria dilatati pel contatto del suolo troppo ardente. Tuttavia che terribili delusioni per persone già alle prese colla sete, che non sognano che fiumi e pozzi d'acqua! ... Vi era di che diventare furiosi e perdere anche la pazienza. Alla sera la carovana fu costretta ad arrestarsi intorno ad un'alta duna. I cammelli non si reggevano più e si erano lasciati cadere al suolo l'uno dietro l'altro, resistendo ostinatamente alle grida e alle busse dei beduini e del moro. Si sarebbero fatti uccidere piuttosto che alzarsi a fare qualche miglio ancora. Il marchese alla presenza di tutti aprì un recipiente e diede a ciascuno la razione d'acqua, poco più d'un bicchiere di un liquido caldo, che puzzava di muschio pel continuo contatto colla pelle ed era assolutamente insufficiente a spegnere la terribile sete che li divorava. La cena fu triste. La farina di dattero, le pallottole di kuskussu o la carne conservata in scatole non andavano giù che con sforzi supremi in quelle gole arse dall'infuocata temperatura del deserto ed irritate dalla polvere impalpabile che si librava sopra le dune. Terminato il magro pasto, ognuno si stese sui tappeti, cercando d'ingannare la sete colle pipe. Una tranquillità assoluta regnava sul deserto, un silenzio perfetto. Nessun rumore si notava in alcuna direzione, né alcun alito di vento soffiava da quegli sconfinati orizzonti. Era la gran calma del Sahara, quella calma che infonde negli animi dei viaggiatori un senso di strano benessere, tuttavia non disgiunto da una profonda tristezza. Si sente fortemente l'isolamento, si sente l'immensità, si sente la paura dell'ignoto. La luna si era alzata in tutto il suo splendore e seguiva silenziosamente il suo corso, attraverso miriadi di stelle, prolungando indefinitamente le ombre proiettate dalle dune, dalle tende e dai cammelli. I suoi raggi azzurrini, d'una grande trasparenza, si riflettevano vagamente sulle sabbie, le quali avevano strani scintillii. Pareva che l'astro si specchiasse nelle acque d'un lago stendentesi attorno all'orizzonte. Il marchese aveva lasciato cadere la sua pipa, e guardava, rapito da quella scena meravigliosa, a fianco di Esther, la quale si era sdraiata sul tappeto, fuori dalla tenda. "Che notte!" esclamò finalmente. "Dove se ne può vedere una simile? Bisogna venire nel deserto per goderne di uguali. "Ora comprendo l'amore che nutrono i Tuareg pel loro Sahara, nonostante le tante tribolazioni che sono costretti a soffrire." "E anche voi cominciate ad amarlo questo deserto, è vero, marchese?" chiese Esther. "Sì, e quasi invidio la vita dei predoni del Sahara." "Eppure la morte ci minaccia, marchese." "Noi forse, ma non voi," rispose il marchese. "Perché dite questo?" "Perché serberemo a voi gli ultimi sorsi d'acqua." "E credete che io accetterei un simile sacrificio? Ah! no, marchese; e poi non potete privare gli altri per me." "Chi m'impedirà di dare a voi la mia parte? Posso disporne a mio piacere senza che nessuno abbia a ridire." Poi prendendo la fiaschetta che teneva sospesa al fianco, e porgendola ad Esther, disse "Io e Rocco abbiamo lasciato qualche sorso per voi, Esther. Dovete soffrire più di noi." "La razione mi è stata sufficiente, marchese," rispose la giovane, con voce commossa. "No, mi sembrerebbe di commettere un delitto privandovi anche d'una sola goccia." La tentazione però di bere era irresistibile. La povera giovane, non abituata agli ardori del deserto, si sentiva disseccare le carni e aveva la gola in fiamme; pure ebbe ancora il supremo eroismo di rifiutare. "No, marchese, no ... " Il signor di Sartena con un rapido gesto le accostò la fiaschetta alle labbra e gliela vuotò in bocca. "Grazie," ella ebbe appena il tempo di mormorare. Come se quei pochi sorsi le avessero spenta d'un colpo la sete che la tormentava, Esther si era lasciata cadere sul tappeto, in preda ad una specie di torpore. Il marchese, dopo aver fatto il giro del campo, interrogando ansiosamente l'orizzonte, si era sdraiato a pochi passi dalla giovane, a fianco di Rocco, A mezzanotte, El-Haggar, come gli era stato ordinato, suonò la sveglia col suo corno d'avorio, e mezz'ora dopo la carovana riprendeva le mosse, bastonando senza misericordia i cammelli recalcitranti. Attraversavano allora un tratto di deserto frequentato ordinariamente dalle carovane. Era la gran via battuta dai mercanti sahariani che dalle coste di Berber vanno verso le oasi del deserto centrale, e se ne vedevano purtroppo le lugubri tracce. Erano lunghe file di scheletri biancheggianti sotto i raggi della luna, scheletri di cammelli, di asini, di cavalli e d'uomini che il simun aveva di certo dissepolti e dispersi fra le dune. Quando si arrestarono, erano tutti morenti di sete. Avevano le labbra screpolate, la gola infuocata e la lingua talmente secca da non poter articolare parola. "Acqua! Acqua!" era il grido che usciva da tutte le bocche. Anche i cammelli si lamentavano e facevano sforzi disperati per lambire la pelle degli otri ed inumidirsi almeno la lingua. Il marchese però, quantunque soffrisse forse più degli altri, rimaneva sordo a tutte le preghiere. "Quell'acqua è la vita," rispondeva. "Non ne avrete una goccia fino alla fermata notturna. Io devo rispondere delle vostre vite e non cederò nemmeno dinanzi alle armi." Il cuore gli sanguinava soprattutto vedendo soffrire la povera Esther, ma se in quei momento avesse osato offrirgliene qualche goccia, i cammellieri, già furiosi, non avrebbero di certo tollerato quella parzialità. Non fu che verso le quattro, quando il calore cominciava un pò a decrescere, che la carovana si ripose in cammino. Il marchese, che cominciava a diffidare dei beduini, aveva messo alla testa della carovana i due cammelli che portavano gli otri, onde averli sotto gli occhi ed impedire una sorpresa che avrebbe avuto conseguenze incalcolabili. Ne aveva affidato la sorveglianza a Rocco, il solo forse che non dimostrasse di soffrire troppo la mancanza d'acqua. Il pericolo stava specialmente dalla parte dei due beduini, uomini di una fedeltà assai dubbia, capaci di qualsiasi bricconata. I loro volti avevano già, fin dal mattino, assunto un aspetto feroce, e più volte il marchese li aveva sorpresi a ronzare, in attitudine sospetta, attorno ai due cammelli che portavano la provvista. "Stiamo in guardia, marchese," disse Ben, vedendoli lanciare cupi sguardi ripieni d'ardente bramosia sui due cammelli. "Essi tramano qualche cosa, e faremo bene a vegliare durante le fermate." "Monteremo la guardia a turno," rispose il corso. Anche quella terza marcia, la più dolorosa di quante ne avevano fatte fino allora, si protrasse fino a tarda ora, attraverso a pianure immense prive di qualsiasi filo d'erba. Il marchese stava per dare il segnale della fermata, quando la sua attenzione fu attirata da uno stormo immenso d'uccelli di rapina, il quale ora s'alzava ed ora si abbassava fra le dune, con un gridio assordante. "Cosa c'è laggiù?" si chiese fermando il proprio cavallo. "Qualche motivo deve aver radunato qui quei volatili che sono pur rari in questo deserto." "Se voi vedete gli uccelli, io sento un puzzo orrendo," disse Rocco, che da qualche istante fiutava l'aria. "Si direbbe che dietro quelle dune vi sia un carnaio che sta putrefacendosi." "Un'ecatombe forse?" chiese il marchese, impallidendo. "Qualche massacro compiuto dai predoni del Sahara, dai feroci Tuareg?" "Od una carovana morta di sete?" aggiunse Ben. "Rocco, rimani a guardia della provvista d'acqua e di Esther, ed io con Ben andiamo a vedere." Fecero fermare la carovana e spinsero i cavalli attraverso le dune spronandoli vivamente, perché s'impennavano, nitrivano, fiutavano l'aria, scuotevano le folte criniere e sferravano calci. A mano a mano che s'accostavano alle dune, dietro le quali si vedeva piombare l'immenso stormo degli uccelli da preda, l'odore diventava così pestilenziale, che il marchese, quantunque abituato alle stragi dei campi di battaglia, si sentiva quasi venir meno. Sorpassata l'ultima duna, un orribile spettacolo si offerse ai loro occhi.

LEGGENDE NAPOLETANE

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Serao, Matilde 2 occorrenze

Si guardava attentamente nello specchio: sul volto di una candidezza abbagliante, che parea fosse fulgido, non compariva traccia di roseo; nei grandi occhi glauchi, cristallini, il lampo dello sguardo era verde e freddo; le labbra carnose, rosse, come il granato, dovevano essere dolci ed amare quanto il frutto che ricordavano; il collo superbo, pieno e rotondo palpitava lentamente. Ella si guardò le mani attraverso la luce, mani candide quanto il viso; si guardò le braccia sode e rasate come un frutto maturo in cui si possa mordere. Si trovava seducente, bellissima; ed un eroico sorriso le sfiorò le labbra. Ella si adorava; idolatrava la propria bellezza e vi abbruciava ogni giorno un copioso incenso che si univa a quello di tutti coloro che l'amavano. - Una lettera per madonna Isabella - disse un paggio ricciuto, inchinandosi e porgendo il biglietto sopra un vassoio d'argento. Madonna Isabella scórse la lettera. Messer Diomede Carafa le scriveva ancora d'amore, una lettera piena di fuoco che a volte scoppiava nell'impeto della disperazione, a volte si allentava e s'illanguidiva nelle divagazioni di una mestizia insanabile. Messer Diomede Carafa sapeva amare: la sua anima nobile ed eletta era aperta a tutte le squisite sensibilità dell'affetto, la sua forte anima comprendeva tutti gli slanci di una passione umana e potente; le orgogliose dame spagnole della Corte vicereale avrebbero volentieri abbandonato la loro fierezza castigliana per esser amate da lui e per amarlo; le fanciulle dell'aristocrazia napoletana, brune fanciulle dagli occhi azzurri, lo avrebbero amato se egli avesse voluto amarle. Ma messer Diomede non amava che madonna Isabella che aveva fama di donna crudele e disamorata; difatti ella non fece che sorridere appena alle frasi amorose che messer Diomede le scriveva. Nel grande salone del suo palazzo, madonna Isabella, vestita di broccato rosso che faceva risaltare il pallore del volto, con una reticella di perle sulle fulve trecce, sedeva a conversazione con messer Diomede. Il giovane innamorato era seduto alquanto discosto dalla sua donna, ma la fissava con l'occhio intento e cupido, senza mai distogliere lo sguardo da quella figura; a seconda che la donna parlava, sul viso del giovane passavano onde di sangue che lo coloravano, o un terreo pallore vi si diffondeva; come il giovane si lasciava trasportare dall'amore, la sua voce tremava, ed in essa passava la nota tenera e grave dell'affetto, la vibrazione profonda della gelosia, l'ondulazione indefinita della mestizia, la nota stridula dell'ironia, tutte le variazioni che ha l'amore. La dama, placida, tranquilla, sorridente, agitando il leggiero ventaglio di piume, giocherellava amabilmente e ferocemente col cuore del giovane. Ella, a sua posta, creava in lui lo sconforto desolato o l'inesauribile speranza, la cupa gelosia o l'estrema fiducia, la collera senza nome e senza limiti o la gioia senza confine. Abituata a questi sottili e malvagi godimenti, ella si compiaceva stringere quel cuore innamorato in una mano di ferro che lo soffocava a poco a poco e poi ridonargli la vita, carezzandolo con una mano leggiera e vellutata; si dilettava far sussultare di dolore quell'anima, gittandola bruscamente nella disperazione; gioiva facendola esaltare grado a grado, sempre più, fino a farla impazzire nella vertigine dell'altissimo pinnacolo. Furono tali donne, sono e saranno. Il mondo le maledice, le disprezza, paiono fatte estranee alla soave comunanza femminile, paiono odiate, esecrate. Ma il mondo le ama, ma l'uomo le ama. Così è sempre, così sempre sarà. Pace a voi, giovanette gentili, dalle anime buone che rischiarano come luce di lampada familiare il corpo delicato; pace a voi, donne il cui destino unico è l'amore, è il sagrifizio: giammai sarete amate come quelle donne lo saranno. Virtù, dolcezza, abnegazione, serenità, calma, felicità sono vani nomi: l'acre e malsano desiderio dell'uomo corre verso la misteriosa e temuta sirena. Pace a voi; amate, soffrite, morite: giammai sarete amate come quelle donne lo saranno. Eppure fu un giorno in cui Diomede Carafa credette di arrivare al culmine inaccessibile della sua vita, al momento fatale in cui ogni facoltà, ogni potenza fisica, ogni luce di ragione, ogni festa di fantasia, ogni robustezza di fibra, si riuniscono in una sola, profonda, alta armonia che è l'amore. Fu il giorno in cui madonna Isabella, all'impensata, dopo una lotta d'un anno in cui essa non aveva ceduto di una linea sola, presa da un subitaneo abbandono e dominata da una strana causa, disse d'amarlo. Oh! chi ha amato la conosce questa stagione calda ed esuberante, colorita dal sole, nell'azzurro sconfinato, nell'infiammato meriggio dove tutto arde e si consuma in una grande voluttà, quando i fiori nascono presto, vivono una vita rapida e soverchiante, esalano profumi grevi e violenti e muoiono per aver troppo vissuto; la stagione fremente dove tutto è luce, tutto è fulgore, tutto è febbre che precipita il sangue; la benedetta stagione, la eccelsa stagione dopo la quale tutto è cenere e fango. Chi ha amato sa la stagione d'amore di Diomede Carafa e non aspetta dalla scialba parola del freddo e disanimato cronista una descrizione. Chi ha amato evochi tutti, tutti suoi ricordi di amore, riviva in quel passato pieno di una gioia e di un dolore che non hanno l'eguale, palpiti, s'agiti, abbia la convulsione ed il delirio di quell'amore e saprà di Diomede Carafa. Le storie d'amore non si raccontano, non si descrivono che miseramente: l'arte istessa, la divina arte che tutto scopre, tutto rivela, non può che dare una sola e fuggevole immaginazione del proteiforme amore. Breve stagione. Se durasse, il cuore morirebbe nella esagerazione di un sentimento che è la follia. A poco a poco, con gradazioni impercettibili, madonna Isabella fu meno felice, meno innamorata; il sorriso fu più scarso sulla bocca, le braccia più fiacche nell'abbraccio, le labbra più gelide nel bacio, il palpito meno frequente nell'arrivo e nel distacco. Diomede Carafa, cieco, pazzo d'amore, non vedeva, non comprendeva. Madonna Isabella discendeva sempre più verso l'indifferenza che poi era il suo stato abituale e la sua naturale ferocia rinasceva per la tortura di quell'uomo. Ma Diomede Carafa soffriva e s'inebriava di quella sofferenza, piangeva e s'ubriacava di quelle lagrime, era ammalato e si consolava di quel morbo ora gelido, ora infuocato che gli consumava la vita; era tormentato, oppresso, disperato. ma si estasiava di ciò come i martiri cristiani del sangue che usciva dalle loro vene esauste. Isabella si mostrava con lui chiusa, dura, sprezzante e lui l'amava anche così, massimamente così; Isabella si faceva volubile, leggiera, accogliendo in casa i più bei cavalieri napoletani e lui, morendo di gelosia, amava Isabella per la gelosia che aveva di lei. Egli gettava pazzamente i suoi averi, obliava le prerogative della sua nobiltà, non conosceva più amici, non conosceva più parentado, non sapeva più nulla di obblighi o di diritti: Isabella, Isabella, amare Isabella. Fino a che un giorno tutta la verità gli fu palese come parola di Dio e seppe del proprio avvilimento, seppe del tradimento di Isabella con Giovanni Verrusio, amico suo e suo compagno d'infanzia. Egli nascose a tutti il dramma del suo spirito, sdegnoso di compianto. Il crollo immenso della sua felicità, la rovina tragica e nera dello splendido edificio non ebbero testimonio. Meglio così. Che vale il rimpianto? Che cosa è la parola compassionevole e glaciale? Foglie morte che il vento si porta via, ed il dolore rimane eterno. Invano egli errò, viaggiatore solitario e noncurante, per fiorenti paesi, invano chiese alle ricchezze, al lusso, ad altri amori, a feste stupende, l'oblio; invano egli volle innamorarsi delle vaghe creazioni dell'arte per ritrovare la pace. Dappertutto, in ogni paese, in ogni donna, in ogni fiore, al fondo dei vini generosi, nelle figure dei quadri, nelle figure delle statue, negli ondeggiamenti della musica, egli ritrovava Isabella. Il suo dolore non era più acuto e straziante, ma lento, lungo, stupefacente. egli sentiva la sua anima gonfiarsi di affetto ed i suoi occhi gonfiarsi di lagrime; egli provava il bisogno del sagrificio, del culto, dell'estasi ... - Dio, Dio - ripetette un giorno la stanca amica sua. Diomede Carafa fu vescovo di Ariano, prelato esemplare e amatore dell'arte. Leonardo da Pistoia, pittore, fu suo amico. Per sua ordinazione e per la chiesa di Piedigrotta dove giace il Sannazaro, il Leonardo fece il quadro bellissimo di S. Michele che atterra Lucifero. Lucifero vinto e bello e ancor folgorante, ha il volto di madonna Isabella. Ed è una donna il diavolo di Mergellina.

Sogno benedetto, aura invocata, luce abbagliante! Pietà per nostra sorella! Essa lo ama - e cadde ginocchioni, balbettando ancora vaghe parole di preghiera. - Ma per chi mi chiedi pietà? - gridò Donna Regina, rialzando bruscamente la sorella in un impeto di collera per chi me la chiedi? - Per Donna Romita… - rispose l'altra smarrita. - Chiedila anche per te. Tu, come lei, ami Filippo Capace. - Io non lo dissi! - esclamò Albina folle di terrore. - Tu l'hai detto. L'ami. Ed io non posso, non posso perdonare. Io amo Filippo Capace - dice con voce disperata Regina. Le ombre della notte involgevano la casa Toraldo: una notte senza speranza di alba. Profondo è il silenzio nell'oratorio. La lampada di argento, sospesa davanti ad una Madonna bruna, brucia il suo olio profumato, diradando il buio con una luce piccola ed incerta. Brilla una sola scintilla nella veste d'argento della Vergine. Se si tende bene l'orecchio, si ode un respiro lieve lieve. Non sul velluto rosso del cuscino, non sulla balaustra di legno lavorato dell'inginocchiatoio, ma sul marmo gelido del pavimento è mezza distesa una forma umana; l'abito bianco e lungo in cui è avvolta ha qualche cosa di funebre. Donna Romita è là da più ore, dimentica di tutto, nell'abbandono di tutto il suo essere, nel profondo assorbimento dell'idea fissa. Ella non sente. il freddo dell'ambiente, non vede l'oscurità, non sa nulla del tempo, non sente lo spasimo delle sue ginocchia, non sente lo spasimo di tutta la sua vita; ella non sente che il suo pensiero tormentoso, onnipresente, onnipotente. - Madonna santa, toglimi questo amore! Madonna santa, strappami il cuore! Madonna santa, fammi morire, fammi morire, fammi morire! Toglimi questo amore! E le invocazioni si moltiplicano; essa stende le braccia alla immagine sacra e torna a chiedere la morte. La fronte ardente si curva sino al suolo, le labbra baciano il marmo, tutto il corpo si torce nella disperazione. Ad un tratto un singhiozzo interrompe il silenzio. Chi piange presso di lei? È forse l'eco del suo dolore? È forse la sua ombra, quest'altra fanciulla vestita di bianco che piange e prega in un angolo! Sì, è l'eco del suo dolore, è la sua ombra che si desola; è Albina. Donna Romita fugge, fugge invasa dal terrore e dalla vergogna, lasciando nell'oratorio un amore ed una sciagura simile alla sua. In quell'ora medesima, nella vasta camera da letto, sola, seduta presso il tavolo di quercia, veglia Donna Regina. Sta immobile, non prega, non piange, non trasalisce. Tutto il volto pare scolpito nel granito, solo ardono gli occhi di un fuoco consumatore. Passano le ore sul suo capo altero, passano le ore sul suo cuore straziato, ma pel loro passaggio non si cangia il suo strazio. Allegre le vie della vecchia Napoli nella primavera novella dell'anno, per la gioia degli uomini; lieto lo scampanìo delle chiese. È la Pasqua di Risurrezione. La pace dal cielo scende sulla terra, nei fiori e nella luce primitiva. Il mondo rivive, rinasce la sua gioventù, un istante sopita. Nell'aria si respira amore. Le due sorelle minori hanno chiesto a Donna Regina un colloquio particolare ed essa lo ha accordato; era tempo che le tre sorelle non si vedevano, l'una fuggendo le altre, mettendo la mestizia e il duolo nella loro casa, lo scompiglio tra i famigliari. Donna Regina è nella grande sala baronale, dove in antico si teneva corte di giustizia; è splendidamente vestita; ha indosso i gioielli magnifici di casa Toraldo, ha daccanto, sovra un cuscino, la corona ingemmata di zaffìri, di rubini e di smeraldi, lo scettro baronale; sul volto un'austerità calma, quasi decisa. Entrano Donnalbina e Donna Romita. Sono vestite di bruno, senza ornamenti. La gaia giovinezza di Donnalbina è svanita, è svanito il suo soave sorriso, è perduta la sua bionda bellezza. Donna Romita china il capo, abbattuta; ancora non ha avuto il tempo di esser giovane e già si sente irresistibilmente attirata dalla morte. Esse s'inchinano a Donna Regina ed ella rende loro il saluto. - Parlate anche per me, Donnalbina - mormora a bassa voce Donna Romita. - Veniamo a dirvi, sorella nostra - prende a dire Donnalbina - che dobbiamo dividerci. Regina non trasalisce, non batte palpebra, aspetta. - È mia intenzione, è intenzione di Donna Romita, dare una metà della nostra dote ai poveri e l'altra parte dedicarla alla fondazione di un monastero, dove prenderemo il velo. - Ogni monaca di casa Toraldo ha diritto di diventare badessa nel monastero che ha fondato - rispose Regina con tono severo. - Sia pure. Attendiamo le vostre risoluzioni, sorella. Ella non rispose. Pensava, raccolta in se stessa. - Siateci generosa del vostro consenso, Donna Regina. Troppo vi offendiamo, è vero… - Desistete - fece quella con un moto di fastidio. - Non desistiamo, no - riprese Donnalbina, affannandosi. - Dio e voi offendemmo. Grave il peccato, grave l'espiazione. Ecco, ancora non giunsero per noi i venti anni e noi abbandoniamo questo mondo così bello, così ridente; noi lasciamo la nostra casa, le nostre dolci amiche, e care abitudini; lasciamo voi, sorella amata, per quanto offesa. Il chiostro ne aspetta. a voi l'onore di conservare il nostro nome, a voi le liete nozze, l'amore dello sposo, il bacio dei figliuoli… - Voi v'ingannate, o sorella - rispose Donna Regina lentamente. - È da tempo che ho deciso prendere il velo in un convento da me fondato. Un silenzio tristissimo segue le infauste parole. - Io non posso sposare Filippo Capace - riprese ella, mentre una vampa di sdegno le correva al viso. - Egli mi odia. - Ahimé! io gli sono indifferente - mormorò Donnalbina. - Io anelo al chiostro. Egli mi ama - pronunziò con voce rotta Donna Romita. E le due sorelle baciarono Donna Regina sulla guancia e ne furono baciate. - Addio, sorella mia. - Addio, sorella mia. - Addio, sorelle. Donna Regina si alzò, prese lo scettro d'ebano torchiato d'oro, e lo franse in due pezzi. E rivolgendosi al ritratto dell'ultimo barone Toraldo, gli disse inchinandolo: - Salute, padre mio. La vostra nobile casa è morta! Non hanno parole le brune vòlte dei monasteri, la pallida luce dei cere trasparenti, il profumo eccessivo e pesante dell'incenso, la profonda voce dell'organo, le bige pietre sepolcrali; non han parola le fredde celle, il nudo e duro letto dove è scarso il sonno, il cilicio sanguinoso, le pagine distrutte dalle lagrime, i crocefissi distrutti dai baci; non han parola i volti ingialliti, gli occhi cerchiati di nero, i corpi consunti, ma rianimati sempre da una fiamma rinascente; non han parola le convulsioni spasmodiche, le allucinazioni, le estasi dolorose. Altrimenti storie meravigliose e drammatiche sarebbero narrate al mondo; altrimenti noi sapremmo tutta la vita delle tre sorelle; altrimenti noi sapremmo il giorno che finì la loro tortura. Ma il giorno, che importa? Sappiamo noi se dopo non si ami ancora? Finisce, forse, l'amore? Noi non possiamo, non possiamo segnare il suo ultimo giorno, né la sua ultima parola.

Racconti umoristici IN CERCA DI MORTE - RE PER VENTIQUATTRORE

682915
Tarchetti, Iginio Ugo 1 occorrenze
  • 1869
  • E. Treves e C. Editori
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Alla distanza di alcune miglia, mi appariva come una vasta conca di fiori emergente dalle acque; alcune isolette disposte qua e là, attorno al mio regno, somigliavano a quelle foglie gigantesche di ninfe che si cullano sulla placida superficie dei nostri laghi: il cielo era alto, sereno, limpidissimo, e si tingeva curvandosi verso l'orizzonte, d'un colore abbagliante di croco e di cinabro: il mare giaceva calmo e maestoso; uno zeffiro profumato ne increspava leggermente la superficie come l'alito che appanna il velo d'una vergine. Innumerevoli stuoli di lire e di uccelli di paradiso s'inseguivano a volo nei punti più luminosi del cielo, e riflettevano i primi raggi del sole colle loro code di argento. Alcune rondini di mare, posatesi sulle gomene della nostra nave festeggiavano il mattino con un trillo vivace e armonioso. Nulla di più incantevole di quella scena, nulla di più celeste di quella musica: i sogni del fanciullo e della vergine non possono immaginare un eden più delizioso, né i poeti un idillio più puro e più divino. Quando io potrei rammentare ora delle impressioni di quel mattino non formerebbe che un quadro tanto imperfetto, tanto lontano dal vero, che io temerei quasi di nuocere alla mia descrizione tentando di palesarle, e non lasciandole piuttosto indovinare al lettore. Ma il tumulto che v'era nell'anima mia sarebbe ancora più inesplicabile. Chi potrebbe esprimere le mille sensazioni soavissime che agitavano il mio petto, le mille lusinghe che venivano a blandire la mia vanità; i miei progetti, i miei sogni, tutto ciò che ha accompagnato questa meravigliosa trasformazione di uno scrittorimo povero e conosciuto in un re dovizioso e potente? Strano prestigio di una corona! Strano potere di far supporre delle virtù sovrumane nella testa spesso insensata che la sostiene! Più volte ho desiderato conoscere se tra gli evviva del popolo, in mezzo alle ovazioni delle folle, allo spettacolo degli archi trionfali e delle moltitudini accorse da lontano per bearsi della loro vista, qualcuno di essi abbia sentito risvegliarglisi in cuore la coscienza della propria nullità, ed abbia o disprezzato, o compianto il suo popolo, e si sia sdegnato di quella stupida e vile ammirazione. E pure, io stesso, io che m'era più volte inacerbito per ciò cogli uomini, non poteva contemplare senza un sentimento di compiacenza il gran cordone dell'ordine dell'Annunziata che mi pendeva sul petto, e che trasfondendo qualche stilla di sangue reale nelle mie vene plebee, mi aveva reso a un tratto cugino di Sua Maestà! ... Cugino di Sua Maestà! ... Dio, quale onore! Ma io stesso era re, e la prospettiva di una corona rendeva debole e lieve la gioia di quella parentela reale. Pochi istanti prima di approdare, chiamai a me il mio primo ministro, che pure faceva parte della Commissione Potikorese, e volli essere informato sulle condizioni finanziarie, sull'esercito, sull'indole del mio popolo e sulle costituzioni del mio Stato. - In quanto alla popolazione che il cielo vi ha chiamato a governare, mi diceva il mio primo ministro, facendosi scorrere tra l'indice e il pollice il suo osso di balena, essa non si divide che in due tribù numerosissime, separate l'una dall'altra per una distinzione speciale della natura, e sono la tribù dei Denti bianchi, e la tribù dei Denti neri. - Denti neri! io dissi, ma ciò è orribile, i loro denti non saranno tutti assolutamente neri. - Tutti, rispose il ministro con quella dignitosa impassibilità che gli conferiva l'abitudine della sua carica; e tolga il cielo che io voglia esaltare la tribù cui appartengo - e in ciò dire mi fece osservare con una specie di orgoglio i suoi trentadue denti nerissimi - per deprimere l'altra che pure ha dato dei sudditi valenti a vostro padre; ma i Denti neri sono la metà migliore del vostro Stato. - E le femmine, aggiunsi, esse pure .... - Sì, ancor esse, toltene le donne del vostro harem che la compianta Serenità di vostro padre scelse tutte esclusivamente dalla nostra tribù dei Denti bianchi. Io confesso che quest'ultima notizia del mio ministro mi riempì l'animo d'una gioia straordinaria Ah! l'idea di avere un harem inebbriava tutti i miei sensi. È là, io diceva, che mi solleverò dalle cure del mio stato, che mi rifarò ad usura della mia gioventù avvizzita senza piaceri, che mi vendicherò di questa simulata virtù delle nostre donne europee. Un harem! Cento fanciulle che vi adorano, le bellezze più abbaglianti dell'Asia, le più vezzose creature del mondo che cadranno ad un cenno ai vostri piedi. Sì io dissi, tenterò di risolvere il problema se Sardanapalo sia stato più grande di Alessandro, e se il Sultano sia il più saggio e il più morale di tutti i re della terra. Dal momento che mi conobbi possessore di un harem mi abbandonai totalmente a questo pensiero, e tentai di richiamarmi alla memoria quanto aveva letto di straordinario e di favoloso su questi ritiri di piacere - la sicura vigilanza degli enunchi, i ventagli di penne di pavone, il molle costume orientale, i tappeti vellutati di Persia, i profumi inebrianti delle Indie, tutto ciò che desta la voluttà e la spinge alla sua massima azione, e al suo massimo sviluppo compatibile colla vita. Il ministro vedendomi assorto profondamente ne' miei pensieri, non osava interrompermi; ed io temendo che egli comprendesse il motivo del mio silenzio, e che io vi perdessi non poco della mia dignità reale, mi affrettai a soggiungere con gravità: - E l'esercito? Quale è l'ordinamento dell'esercito? - Ottimo in sé, disse il ministro, un poco imbarazzato da questa domanda, ma, veramente, le disparità di tribù, costituiscono un motivo incessante di dissensioni tra l'esercito dei Denti bianchi, e quello dei Denti neri. Perocché è bene che Vostra Maestà sappia (io mi era rialzato di due pollici nel sentirmi chiamare Maestà) che vi sono due eserciti, come vi sono due tribù, e che la mancanza di un'altra nazione nell'isola colla quale vi sia possibilità di guerreggiare, fa sì che i due eserciti dello stato vengano spesso alle armi tra di loro. È a deplorarsi che la posizione geografica di Potikoros renda assai difficile e assai fortunosa una guerra colle popolazioni del continente, ciò che accrescerebbe di gran lunga il prestigio della corona, e distogliendo il vostro popolo dal desiderio di costituzioni più libere e più progressiste, gioverebbe non poco a consolidare il trono di vostra Maestà. - Come sarebbe a dire? - Che la popolazione vuol essere sgomentata dalla coscienza della vostra forza, cioè dalla forza dell'esercito che è tutt'uno; e distolta in altro modo dal desiderio di miglioramenti interni, compromettendone, cioè, gli interessi e i destini colla fortuna d'una guerra. - Ma sarebbe dunque necessario ... le condizioni della monarchia sarebbero tali da ..... - Non dico ciò, riprese il mio ministro visibilmente turbato, ma .... ma veramente .... la sicurezza della corona richiede molte cure, molti provvedimenti, la cui necessità vi sarà nota assai presto. Non vi parlerò di alcune tendenze rivoluzionarie che vostro padre ha dovuto soffocare con molto sangue, e che questa vacanza del trono ha potuto sviluppare sensibilmente .... già le idee repubblicane hanno messo radice in molte teste, ma non sarà difficile il divellerle. - Le teste? esclamai io inorridito. - Come piace a vostra Maestà, disse il mio primo ministro, le idee colle teste. Io confesso che la mia anima, per quanta violenza le abbia fatta in ogni tempo la mia ragione, non ha potuto mai perdere un atomo di quella mitezza imbecille dell'agnello di cui l'ha dotata la natura; ond'è che per dare una diversione a quel discorso sì poco uniforme alle mie inclinazioni benigne, soggiunsi: E quale è il costume dell'esercito? - Il più semplice, ed il più economico ad un tempo, la nudità: i vostri sudditi non temono in ciò il confronto della razza del continente; ammirerete sopratutto lo sviluppo dei fianchi e del torace nelle femmine, le quali hanno pure adottato in gran parte la semplicità primitiva di questo costume. - In un paese così economico, io dissi, le finanze dello Stato e dei privati saranno dunque in floride condizioni. - Tristissime! rispose il mio ministro con accento mortificato; e poiché da questo mio viaggio in Europa, ho desunte alcune cognizioni circa i mezzi di rimediare al dissesto economico dello Stato, ho in animo di proporre quanto prima alla vostra approvazione un progetto per remissione di alcuni miliardi di carta monetata che i vostri sudditi accetteranno con gratitudine. - E a quanto ascendono le rendite di mio padre? - Ad una somma considerevole, a parecchie centinaia di milioni, escluso l'appannaggio che vi è assegnato dalla nazione, e che viene pagato puntualmente dalle casse dello Stato. - E ciò non sembra gravoso al mio popolo? - Vostra Maestà è novizia nell'arte del governare: basterà visitare uno stabilimento pubblico, un ospedale, un asilo, un istituto qualunque, e assegnargli una volta ogni tanto qualche centinaio di franchi sulla vostra cassetta privata, perché voi siate creduto il più generoso di tutti i monarchi. Né ciò potrà diminuire i vostri redditi: i tesori di vostro padre sono i più ricchi di quanti ve ne siano nei reami che noi conosciamo. - I più ricchi? - Li ammirerete fra poco: vedrete nella sala dei carboncini, un diamante della grossezza di un uovo d'aquila, che è reputato da noi il più prezioso di quanti sieno sulla terra. Io non potei contenere a questa notizia un sorriso di compiacenza che non isfuggì all'occhio penetrante del mio degno ministro dai denti neri. - E quali sono, io chiesi, i doveri principali del re, le sue occupazioni pubbliche? ... Voi sapete che io non sono stato educato alla Corte e che il governo d'un regno mi giunge alquanto inaspettato. Il mio ministro sorrise a questa domanda che gli parve improntata d'una ingenuità affatto puerile, e disse; Le occupazioni di Vostra Maestà sono pressoché insussistenti; il consiglio dei vostri ministri s'incarica della politica interna - poiché la politica estera non ci crea combinazioni di molta importanza, stante i rapporti amichevoli che conserviamo colle nazioni vicine: le vostre attribuzioni si ridurranno alla firma dei decreti concepiti dal Consiglio, a mostrarvi al popolo nelle circostanze solenni, a procreare principi del sangue allo Stato, a recitare al presidente di qualche deputazione un discorso di circostanza che vi sarà composto dal vostro segretario particolare; e finalmente a vigilare sull'ordine, sulla varietà, sul buon andamento del vostro harem ciò che costituisce una delle vostre attribuzioni esclusive. - Spero, io dissi, di soddisfare a tutti questi mandati, e all'ultimo in ispecial modo, con quello zelo che varrà a meritarmi la simpatia e la gratitudine del mio popolo. Il mio ministro s'inchinò fino a terra. Aveva appunto posto termine a questa conversazione nell'istante in cui il bastimento reale gettava l'àncora nel porto di Potikoros che è la capitale dell'isola di questo nome. Salii allora sulla coperta della nave per ammirare con un più vasto colpo d'occhio le meraviglie naturali del mio regno. Ma la mia attenzione fu distolta da questo esame dalla vista dei preparativi che s'erano fatti pel mio ricevimento solenne. E d'altronde non m'era mostrato ancora a' miei sudditi, che delle ovazioni fragorose partirono dalla riva che era assiepata tutta di popolo; e centinaia di barche ornate di stoffe a vivi colori e di penne preziose di marabù vennero ad attorniare la mia nave. Mi fu forza discendere in una di essa, ove si trovavano riuniti i miei ministri, e che per essere ornata dello stemma monarchico, conobbi che era destinata alla mia persona. Lo stemma reale (poiché quello della repubblica era stato atterrato da mio padre) consisteva in un elissi diviso da un fusto di palmizio in due campi, come da una sbarra; nell'uno di essi era rappresentato un braccio che brandiva uno di quegli ossi di balena già nominati a memoria dell'atto ardimentoso che aveva procurato il trono a mio padre; nell'altro vi era un merlo nero che, come seppi più tardi dal mio ufficiale araldico, vi era stato posto in onore di un uccello di questa famiglia, che il re defunto aveva fatto venire dall'Europa, e che aveva formato la meraviglia de' suoi sudditi, non essendovi in tutta l'isola di Potikoros che dei merli bianchi come la giuncata. Non starò a parlare dell'imbarazzo in cui mi sono trovato per rispondere alle numerose domande che mi venivano fatte da' miei ministri e dalle deputazioni delle città secondarie del mio regno. Si era bensì pensato a mettere nel mio seguito alcuni interpreti, ma il concetto di queste domande era sì oscuro, e mi erano formulate in modo sì singolare, che io mi trovava sulle spine a rispondervi. Aveva appena posto piede nella mia lancia, che un grido prolungato del popolo e dell'esercito salutò il mio arrivo, e avendo io interrogato uno de' miei interpreti sul significato di quel grido, seppi che esso voleva dire; «ben venga il nostro re che è arrivato dal paese dei merli neri.» Io m'inchinai rispettosamente dinanzi alla folla assembrata sulle zattere e lungo la spiaggia, e vi fu un momento in cui mi sentii il prurito di arringare la moltitudine e di guadagnarmene la simpatia facendo l'elogio dei merli bianchi, ma il bisogno di servirmi degli interpreti che avrebbero ammorzato colla loro lentezza tutto il mio fuoco oratorio, me ne distolse. E d'altronde la folla era tanta e il baccano sì assordante, che la mia voce vi si sarebbe perduta senza frutto. Di mano in mano, che aprendoci a stento una via tra le barche, ci andavamo avvicinando alla riva, lo spettacolo diventava più imponente, ed il fragore cresceva per modo che le mie povere orecchie ne erano letteralmente assordate. Il grido di: «viva il re che viene dal paese dei merli neri!» era ripetuto da tutte le bocche; e le dame Potikoresi specialmente lo strillavano con certe voci da soprano in modo da farmi rizzare sulla testa ad uno ad uno tutti i miei capelli reali. Come Dio volle, noi giungemmo finalmente alla riva, ove mi soffermai un istante ad osservare gli apparecchi della mia incoronazione e i due eserciti schierati lungo la spiaggia. E qui non potrei dire l'impressione inattesa che provai alla vista del mio esercito. I Denti neri pei quali mi era sembrato che avrei dovuto provare un orrore insuperabile, avevano aspetto sì dolce, sì mite, sì affettuoso che mi sentii subito attratto verso di essi da una forza di simpatia irresistibile, mentre i Denti bianchi mi parvero d'indole sì ribelle, sì feroce, sì fiera che ne fui quasi atterrito. Quei denti lunghi, affilati, bianchi, orribilmente bianchi, scoperti fino alla radice dal labbro un po' rovesciato, acuminati e curvi verso la punta come i canini, parevano fatti per afferrare, per mordere, per lacerare la carne viva, palpitante - davano ai loro visi un'apparenza orribilmente ferina. I denti neri, pel contrario, tozzi, brevi, quadrati, bene incassati e coperti dalla gengiva, promettevano indole e tendenze sì mansuete, che avrei dato metà l'isola di Potikoros perché il mio regno non fosse stato popolato che di quella razza. Più tardi, quando rientrai nella vita privata, ho fatto delle numerose esperienze sul colorito dei denti, e sulla natura dei caratteri relativi. Non so se Lavater e Gall abbiano esteso anche a ciò i loro studi, ma io credo di non essermi mai ingannato sui rapporti che ho fatti e sulle deduzioni che ho tratte in proposito. Diffidate di quelle persone che hanno i denti bianchi e regolari, ma sopratutto bianchi. Difficilmente una donna munita di denti piccolissimi, ben fatti, candidi di quella candidezza abbagliante che esse ambiscono tanto, è una donna saggia e fedele. Le bellezze più famigerate, le cortigiane più celebri, le donne più note per grandi vizii o per grandi delitti ebbero, tutte indistintamente, un pregio siffatto. I denti neri o ingialliti, mal collocati, indicano quasi sempre mitezza d'animo, sofferenza, virtù, rassegnazione. Una donna dai denti neri sarà ributtante, ma mai cattiva: si può essere sicuri della virtù di una donna munita di tali denti. Ma forse l'aver io perduto un regno per causa d'uomini muniti di denti bianchi mi ha tratto a queste convinzioni e a questo ostinato assolutismo nell'affermarle - desidero di essere smentito. Certo è però che appena io vidi quella metà del mio esercito, conobbi che non sarei rimasto sicuro sul mio trono; e pensai con dolore a quelle parole che mi aveva detto il mio primo ministro, che, cioè, i Denti neri costituivano la migliore metà del mio regno. E stava meditando appunto su questo pensiero, quando mi parve di scorgere che il mio primo ministro e gii altri onorevoli membri componenti la commissione gettassero sguardi inquieti sulla riva e specialmente sulle file dell'esercito dei Denti bianchi, interrogandosi e parlandosi a vicenda con qualche inquietudine. Per altro lato le file di quell'esercito apparivano sì diradate, e il contegno dei soldati sì provocante e sì fiero che io, sospettando di qualche disordine, domandai le ragioni di quel contegno dell'armata e di quel discorrere caloroso de' miei ministri. Sono dolente, disse uno de' miei ufficiali, di dover comunicare a Vostra Maestà una notizia alquanto spiacevole. Sono scoppiati dei torbidi in alcune provincie dello Stato, e una buona metà dell'esercito dei Denti bianchi si è ribellata al governo. L'altra metà che voi vedete, pende esitante tra il favorire la vostra installazione sul trono o congiungersi ai ribelli. I soli Denti neri rimangono fedeli a Vostra Maestà, ma il loro valore non è pari a quello dell'altra metà dell'esercito. Bisognerà affrettare la vostra incoronazione. Questa solennità acquieterà tutti i tumulti, questo fatto compiuto troncherà le esitanze di tutti quelli che non sanno tuttora se darsi alla monarchia, o secondare le idee repubblicane delle provincie sollevate. Ci giunge anche notizia che in alcuni luoghi siano stati abbattuti gli stemmi reali, e deturpato il sacro merlo nero che ne formava l'impresa, ma si è provveduto a che sieno presto ricollocati. Allorché, appena compiuta la vostra incoronazione, Vostra Maestà sarà entrata nella sala del Tribunale solenne, come richiede l'usanza, e avrà pronunciato giudizio sui delitti consumati nella giornata, l'esercito e la popolazione, compresi dalla vostra saggezza, non opporranno altro ostacolo alla vostra ascensione sul trono. - Mio Dio! io dissi, sotto quali tristi auspici incomincia il mio regno! Ancora non ho posto piede sulle rive de' miei dominii che una fiera ribellione ne agita metà le provincie, e la parte più valorosa dell'esercito mi abbandona per appoggiarne la rivolta .... Ma andiamo, io proseguii con voce più ferma andiamo a compiere - se ciò s'ha a far subito - questa formalità dell'incoronazione; e quindi se il prode esercito dei Denti neri presterà il suo braccio alla monarchia, non dispero con esso solo di sottomettere i ribelli, di consolidare il mio trono, e di conservare intatte le sacre. costituzioni del paese. - Andiamo, ripeterono in coro i miei ministri facendo atto di adesione alle mie parole. E uno degli ufficiali aggiunse; l'incoronazione potrà compiersi sul momento: tutto è preparato, il paludamento reale, la corona, il sacro osso nasale .... - Il sacro osso nasale! ... interruppi io trasalendo, come sarebbe a dire? - L'osso di balena che Vostra Maestà introdurrà nelle sue narici reali. - Nelle mie narici! - È la consuetudine del paese, è l'obbligo essenziale del re. Vostro padre .... - Lo so, lo so, io interruppi, non proseguite .... ma quale orrore! esclamai fra me stesso e io non ci aveva pensato ... ma ciò è impossibile ... il mio naso .... il mio naso greco! il più puro naso greco che io abbia mai veduto .... ah! io mi ribellerò a questa abitudine crudele, a questa tortura terribile. Se io tornassi in Europa! Se la ribellione mi privasse del mio regno .... tornarci col naso forato, trapassato da un osso di balena ... no, no, ciò non può essere E rivoltomi a' miei ministri dissi loro, dissimulando quanto poteva il mio spavento: illustrissimi signori, io sono felice di procedere sull'istante alla mia incoronazione, ma è occorsa credo una cattiva intelligenza in proposito ... desidererei ... bramerei, se ciò è possibile, che si indugiasse alcuni giorni per ciò che riguarda la formalità dell'osso nasale: una fiera costipazione, un potente raffreddore che mi sono buscato lungo il viaggio, l'infiammazione delle pareti interne delle narici rendono senza dubbio questa operazione alquanto pericolosa; pregherei l'eccellentissimo ministro che mi ha accompagnato fino a Potikoros a voler far conoscere a' miei sudditi questo desiderio, e disporli all'indugio che è mia intenzione di frapporre al compimento di una formalità, di cui per altro mi tengo altamente onorato. A queste parole i miei ministri si guardarono nel bianco degli occhi esterrefatti, e il ministro della Guerra in ispecial modo diede non dubbii segni della sua meraviglia e della sua disapprovazione. Io ammutoliva per vergogna. Dopo un istante di silenzio il mio primo ministro rispose: noi siamo profondamente convinti della verità delle giustificazioni addotte da Vostra Maestà, ma non sarà molto agevole il convincerne l'armata ed il popolo. La solennità che doveva compiersi oggi, ha radunato qui una buona metà della popolazione di Potikoros, né credo che essa vorrà partirne senza avervi assistito. Cotesto rifiuto può essere interpretato in un senso poco favorevole ed essere causa di disordini non lievi nel regno. In quanto a me, non mi attento a sfidare il furore del popolo, esponendogli il desiderio reale che Vostra Maestà mi ha fatto ora l'onore di manifestare. A questo diniego inatteso io mi sentii venir meno, e trovai appena la forza di aggiungere: se io stesso devo mostrarmi a' miei sudditi .... se posso arringarli io in persona, non dispero di convincerli della verità delle mie asserzioni .... Perché il mio naso .... la mia mucosa .... E in quell'istante essendomi balenata alla mente un'idea stupenda, mi avvicinai al mio primo ministro e gli mormorai all'orecchio: persuadetene la popolazione, disponetela ad attendere, ed io vi affiderò il comando della più florida provincia del regno, vi decorerò del gran Cordone del Merlo nero .... E aggiunsi fra me stesso: se posso uscirne col naso intatto dimetterò sull'istante questi ministri, rifarò il mio gabinetto, allontanerò da me questi sudditi ribelli e corruttibili. Il mio ministro cedette di fatto, come mi era lusingato, a quel tentativo. Rivoltosi al mio seguito disse; veramente .... l'interesse, la quiete dello stato ci impongono di accordare a sua Maestà l'indugio di cui ci richiede. Il momento è grave. Disposto al sacrificio della mia popolarità pel bene del paese, io sono deciso ad arringare il popolo circa i motivi che impediscono temporariamente l'attuazione di questa operazione importante: piaccia al cielo che le mie parole siano ben accolte e credute! Quindi rivoltosi a me che in quel frattempo era salito sopra una specie di carro destinato a recarmi sul luogo dell'incoronazione, aggiunse: andiamo, E ci riponemmo in viaggio. Attraversammo un buon tratto di strada tra le ovazioni vivissime della folla; e giungemmo in breve tempo ad un piccolo rialzo di terra sul quale era innalzato il mio padiglione. Tutta la campagna circostante era gremita di popolo; le dame Potikoresi vestite di un costume assai semplice, spesso di un costume affatto adamitico, stavano raccolte a gruppi sotto i padiglioni naturali che formavano le palme e i banani. Alberi giganteschi di paradiso attorniavano il recinto del luogo destinato alla mia incoronazione, e sovr'essi frotte di fanciulli a cavalcioni qua e là lungo i rami suonavano certi loro strumenti di cocco che producevano un rumore indiavolato. Da quel rialzo di terra si aprivano allo sguardo orizzonti stupendi; da un lato, il mare seminato in ogni punto di isolette quasi impercettibili e tutte verdi per la vegetazione più rigogliosa; dall'altro, campagne sterminate, pianure solcate da fiumi, colli ricoperti di boschi, montagne rivestite di eriche gigantesche; e sovra tutto ciò, il cielo stupendo del tropico, il cielo alto, sereno, sempre infuocato di quella terra prediletta dal sole. Ma io era in preda ad impressioni che moveano da cause ben diverse. Il timore che i miei sudditi volessero esigere sull'istante il compimento di tutte le formalità richieste per la mia incoronazione, il pensiero che, ove pure mi fosse stato accordato tale indugio, io non avrei potuto sottrarmi col tempo all'esigenza di quella moda crudele; e poi la ribellione delle mie provincie, la rivolta dell'esercito, le diserzioni, la poca devozione dei miei ministri, tutto ciò veniva ad amareggiare la mia gioia per modo che fui più volte in procinto di rimpiangere la mia vita modesta, ma libera, di letterato. E per altro lato, ove avessi potuto superare questi ostacoli, quanti piaceri mi aspettavano! La mia stupenda posizione anzitutto; e poi quel lusso, quello sfarzo, quello spensierirsi continuo; e l'harem, l'harem più d'ogni altra cosa; e quel costume sì grazioso, sì semplice, sì stuzzicante delle dame Potikoresi .... tutto ciò era pur preferibile all'oscura aridità della mia gioventù trascorsa. In preda a questi pensieri io era entrato nel ricco padiglione, ove doveva essere incoronato, e donde sarei stato condotto alla reggia. Le sorprese più grate mi attendevano in quel luogo. Oltre i doni ricchissimi in verghe d'oro e d'argento, e in grosse pietre preziose che mi erano state inviate dalle provinci e fedeli del regno, le fanciulle del mio serraglio mi avevano mandato un'ambasciata di dodici delle più belle tra loro, incaricate di ricevermi e prestarmi ogni sorta di servigi nel padiglione. Io non aveva veduto mai bellezze più abbaglianti, né è possibile che possa manifestare l'emozione che provai a quella vista. Il loro abito orientale era tutto ornato di lanugine di cigno e di perle, i loro calzoncini di seta azzurra erano stretti alla caviglia piccola e asciutta da un laccio magnifico a fiocchi d'oro, i loro piedini chiusi in scarpette a ricami erano sì piccini che potevano essere contenuti nella mia mano; tutte le loro forme erano ad un tempo sì piene e sì delicate, e spiravano tanta voluttà che io non aveva mai veduto, o immaginato soltanto, creature più graziose e più seducenti. Ma una ve n'era sovra tutte che colpì in ispecial modo la mia immaginazione. È impossibile il dire quanto ella fosse bella, forse anche impossibile lo immaginarlo: la bianchezza del suo viso era quasi luminosa - abbagliava: le sue fattezze, i suoi profili si perdevano in una specie di vaporosità leggermente rosata; i suoi capelli erano sì sottili, sì neri e sì lucenti che ondeggiavano sotto l'azione della luce come un drappo serico; e mentre io stava contemplando quel prodigio di avvenenza, essa mi si appressò timida e sorridente, e dopo aver pronunciato alcune parole in lingua Potikorese che mi riuscirono per ciò inintelligibili, asciugò il sudore che mi stillava dalla fronte con un suo fazzolettino che non era più voluminoso di una tela di ragno, ed esalava tutti i profumi più inebbrianti. Animato da tanta affabilità, e più ancora dal pensiero che io era re e che quella divina creatura era mia, trovai il coraggio di dirle: Come vi chiamate? - Opala, diss'ella, la più affezionata e la più fedele delle vostre schiave. E pronunciò questa parole nella mia lingua. - Voi non siete nativa del mio regno? le chiesi io meravigliato. - No, disse la fanciulla. La defunta Serenità di vostro padre mi portò seco bambina dall'Oriente, e mi apprese la lingua e i costumi della vostra nazione. Egli mi onorava particolarmente della sua affezione, e mi ha conferito una speciale autorità sulle donne del vostro serraglio. - Mio padre, esclamai tra me stesso, non aveva gusti depravati, non aveva deficienza di senso estetico ... una così bella creatura! Ma egli doveva aver passato i sessant'anni ... è impossibile ... E rivoltomi ad Opala le dissi: Mio padre vi amava? - Molto. - Di che affetto? Il volto di Opala si coprì d'un vivace rossore. Io che capiva a stento in me stesso, non seppi trattenermi dall'abbracciarla, esclamando: io pure vi amerò molto, io vi lascierò intatta l'autorità conferitavi da mio padre. Dio mio! voi siete sì bella!… voi sarete la mia prediletta e la mia regina, - È egli vero? disse Opala. - Quante è vero l'affetto che sente già il mio cuore per voi. - Per me! la vostra schiava .... - Non dite così, interruppi io - e in quell'istante osservai che le altre donne si ritiravano inchinandosi e ci lasciavano soli - dite la vostra amante, la vostra sposa; trovate, se potete, una parola sì dolce che valga ad esprimere ciò che voi sarete per me. Opala si gittò alle mie ginocchia, e abbracciandole disse: Grazie, grazie, io pure vi amerò; io languiva qui così sola, così abbandonata ... perché vostro padre .... era sì vecchio vostro padre ... e sì stizzoso! Voi siete tutt'altra cosa. Perché io non era stata educata qui, in quest'isola ... oh! sì, io vi amerò molto, non vivrò che per voi; e dormirò sul vostro tappeto, vi darò a bere il sorbetto colla mia bocca, vi solleticherò colle penne del mio ventaglio, vi farò riposare la testa sulle ginocchia, vedrete, vedrete! Oh buona creatura! io dissi tra me stesso, sarei pur felice con te, E pensai: se fosse possibile abbandonare il mio regno, fuggire con questa fanciulla, portar meco i tesori di mio padre, quel diamante favoloso, queste verghe d'oro ... e non veder più questi Denti bianchi, questi Denti neri ... questi odiosi ministri ... sottrarmi ad un supplizio spietato .... E mosso da un trasporto di affetto sincero, aggiunsi abbracciandola e sollevandola: sì, mia diletta fanciulla, se io potessi fuggire con te, portarti meco nella mia patria! ... perché devi sapere che mi si vuole già ritogliere il regno, che si pretende deturparmi il viso, forarmi il naso, il mio naso greco, il naso caratteristico della mia famiglia ... E poi ... Ma in quell'istante un fracasso terribile venne a troncare le mie parole. Io mi rivolsi e vidi il primo ministro che entrava ansante impallidito nel padiglione, e dietro ad esso alcuni ufficiali di Corte, uno dei quali mi disse: avvengono dei gravi disordini; è necessario che Vostra Maestà si affretti ad installarsi nella reggia; alla sua incoronazione si penserà dopo ... Il popolo non ha prestato fede alle parole dell'onorevole ministro che voleva giustificare il diniego di Vostra Maestà a subire tutte le formalità di questa incoronazione. Indarno egli ha asserito che ella ne è impedita da un raffreddore potente, che ha inteso egli stesso lungo il viaggio dei fragorosi starnuti reali .... non gli si è creduto: il sentimento nazionale è scosso profondamente da questa notizia, e il rimanente dell'esercito dei Denti bianchi ha abbandonato senz'altro le sue bandiere per congiungersi alle file dei ribelli. Bisogna affrettare l'entrata nella capitale finché la reazione non si è organizzata, e non si è posta in grado d'impedirlo. I Denti neri sono per noi; ove il giudizio pubblico che vostra maestà presiederà oggi, incontri il favore popolare, le sorti della monarchia possono essere ancora rassicurate. Io ho potuto, dissi allora, sollevandomi di tutta la persona, animato da non so qual forza interna, io ho potuto forse mostrarmi debole d'innanzi ad un'esigenza cui le abitudini contratte nella mia patria mi rendevano un poco ripugnante, ma non lo sarò mai d'innanzi agli uomini che vogliono spogliarmi del regno, privarmi dei sacri diritti che mi sono stati trasmessi da mio padre. Se non potrò sedere sul trono di Potikoros, saprò almeno morire difendendolo, E affacciandomi all'uscio del padiglione, e guardando con occhi torvi la folla, esclamai con voce più alta; recatemi le mie armi e il mio cavallo, che io indossi il mio paludamento reale, tutti i miei distintivi di re, e la corona, aggiunsi prendendomela e posandomela sul capo; saprò ben io difenderla da chi si attentasse a tormela. I miei ministri e i miei ufficiali meravigliati da tanto ardimento mi fecero recare in fretta il mio cavallo, e mi aiutarono ad indossare i miei distintivi. Dopo che, fiero del mio coraggio, balzai in sella colla spigliatezza d'un giocoliere e mi avviai in mezzo ad essi alla capitale del regno, e alla reggia. Ma il coraggio veníami meno lungo la via, L'accoglienza poco lusinghiera della popolazione, il freddo contegno de' miei ministri, le urla selvaggie dei ribelli, quei crocchi di Denti bianchi che incontravamo ad ogni istante sul nostro passaggio mi facevano venire la pelle anserina, o ciò che si dice più comunemente la pelle di oca, come se la mia sacra epidermide reale fosse stata l'epidermide del più volgare e del più ignobile de' miei sudditi, E tentando di dare come poteva meglio una diversione qualunque alle mie idee. immaginava come le oche debbano trovarsi in uno stato di spavento incessante se quel fenomeno della loro pelle è continuo, e mi sentiva tratto da un sentimento di pietà, a commiserarle. Che se così non fosse, come potremmo noi esprimere, volendo attenerci strettamente alla medesima frase, lo stato di spavento in un'oca? Potremmo forse dire che l'oca ha la pelle di oca? Io comprendo ora come il quesito che andava formulando in quel doloroso viaggio a me stesso, fosse meno ancora che puerile e non consentaneo alla mia dignità di monarca; pure confesso che me ne trovava imbarazzato, e che fu in virtù di quell'imbarazzo che giunsi alla reggia senza che i motivi di terrore che mi circondavano, avessero potuto cagionare in me dei fenomeni più sensibili e più complicati. La reggia era un edificio stupendo; tutte le meraviglie, tutte le delizie, tutte le ricchezze dell'Oriente vi erano state accumulate a larga mano. Mio padre aveva saputo conciliare fastosamente la mollezza dei costumi orientali colla severa grandiosità dell'architettura europea. Non credo vi sieno in Europa reggie o palazzi di privati più eleganti; certo io non aveva né veduto, né immaginato mai edificio più sontuoso e più splendido. Quantunque le pareti fossero tutte in legno di noce d'India, gli intagli erano sì stupendi, e le decorazioni in oro, in avorio e in argento eseguite sì maestrevolmente, e con tanta grandiosità di dimensioni, che le proporzioni del fabbricato e l'eleganza di quegli ornati non erano inferiori a quelli di qualunque casa europea. Il mio appartamento speciale era uno di quei ritiri incantevoli che si sognano a quattordici anni, di cui spesso non si ha neppure la facoltà di concepire un'idea, uno di quegli edifici che l'architettura nostra costretta nei limiti inesorabili dell'arte e delle sue tradizioni, non avrebbe mai lo slancio e l'ardimento necessario a creare. Io vi rimasi sventuratamente sì poco che non potrei darne una descrizione dettagliata. Non ho serbato memoria che delle stelle mobili che si perdevano nell'azzurro del soffitto di cui non si vedeva il fine, e che gettavano onde di luce abbagliante del colore dello smeraldo. Forse in quel cielo artificiale era rappresentato un intero sistema planetario, co' suoi fenomeni, colle sue orbite, con tutte le sue leggi di evoluzioni. Ricordo il pavimento elastico e semovente, tutto tempestato di rubini, la cui azione di elasticità era combinata per modo, che cedendo dolcemente sotto la pressione del piede e rialzandolo tosto per forza propria, rendeva affatto nulla la fatica del camminare, in guisa che vi si avrebbe potuto passeggiare delle intere giornate senza provare il menomo sintomo di stanchezza. Mi sovvengono pure alla memoria alcune specie di incensieri che appesi a certi arpioni d'oro massiccio sporgenti dalle pareti, si dondolavano per moto proprio; ed emettevano un vapore profumato, in mezzo alle cui spire volteggiavano delle figurine nude, le quali cambiavano forma e colore ad ogni istante, e giunte ad una certa altezza, si assottigliavano e si scioglievano in fumo. Le esalazioni di quei turiboli agivano sì potentemente sui sensi che io mi sentiva come preso da ebbrezza, né poteva prestare attenzione al canto soavissimo di certi uccelli che non vedeva, ma che pensai dovessero essere rinchiusi in una gabbia sospesa nell'azzurro del soffitto. Non parlerò del mio letto, del mio trono, di tutti i mobili delle mie stanze; sarebbe impossibile dirne la foggia, l'uso, i dettagli; erano pelliccie sovrapposte a pellicce, tramezzate di strati di petali di rosa che si mutavano ogni giorno: le sedie si cullavano da sé, volendo ristavano: e le dame di corte - le più attraenti beltà di Potikoros - avvolte in un semplice velo color di rosa, andavano e venivano per le stanze, ansiose di sorprendere ogni mio più piccolo desiderio, ogni mio bisogno più insussistente, e soddisfarlo colla rapidità del pensiero. Appena posto piede nel mio gabinetto particolare, alcune di queste dame mi presentarono il mio nuovo costume di monarca, e si accinsero a spogliarmi del mio abito di borghese (sotto il mantello reale che avea indossato nel padiglione, io vestiva ancora in quell'istante un abito a coda di rondine, di cui non avevo per anco soddisfatto il conto al mio sarto) per mettermi in grado di presiedere al giudizio popolare in tutta l'imponenza, e in tutto lo splendore della mia carica. Ma il mio pudore non mi permetteva di cedere all'invito di quelle dame rispettabili; io mi sentivo salire il rossore fino alla punta del naso; e mi provai a far loro conoscere la mia ripugnanza con un discorso di questo genere: - Egregie signore ... compitissime signore ... le mie abitudini di toeletta; ... il rispetto che io nutro per le loro persone ... non mi permettono di mostrarmi qui in tutta la semplicità del mio costume naturale ... e oltre ciò, i miei arnesi di biancheria, le mie mutande ... in un viaggio sì lungo ... senza la risorsa del bucato ... esse capiranno .... E stava per aggiungere peggio, ma mi avvidi che nessuna di esse intendeva la lingua del mio paese; e non potendo far di meglio, lasciai fare, con quanta confusione da mia parte, permetto a' miei lettori di immaginarlo. Quando mi trovai vestito, attilato, serrato, come in una morsa, dalle cinture di quell'abito tutto ornato di lamine di metallo e di perle, avendo chiesto dell'ora fissata pel giudizio pubblico, e avendo osservato nel mio orologio, (un vecchio orologio di Ginevra che aveva avuto cura di regolare sul meridiano di Potikoros) che vi mancava una buona mezz'ora, chiesi di essere condotto al mio serraglio; e mi vi avviai in mezzo alle persone del mio seguito, parte delle quali mi precedevano agitando dei grossi ventagli di piume, e parte recando con sé alcuni di quegli incensieri che aveva già veduto nelle mie stanze. Dio! dove troverò io espressioni sì eloquenti che bastino a manifestare la sorpresa, la meraviglia che provai alla vista del mio serraglio! Io era rimasto muto ed estatico. Appena ebbi la forza di pronunciare alcune parole per accomiatare gli onorevoli ufficiali della mia casa che mi vi avevano accompagnato. Non farò una descrizione di quel luogo: sarebbe impossibile. L'eleganza, la mollezza, il lusso del mio apartamento erano uno sfarzo meschino a confronto della magnificenza di quello, tutto si confondeva in un'onda immensa di luce: era una di quelle illusioni ottiche che si provano nei sogni da fanciullo; qualche cosa di simile a quelle visioni che si ottengono a quell'età, vellicando le pupille col rovescio della mano. Qua e là negli interstizii d'un lungo colonnato erano appese delle reticelle di seta ripiene di veli e di pizzi, dentro le quali alcune delle mie fanciulle vestite in quel semplice e delizioso costume di Potikoros, si dondolavano agitando i loro piccoli ventagli. Altre stavano sedute su certi divani di raso azzurro, raccontandosi novelle di fate e di genii; altre mangiucchiavano confetti o coccole profumate, di cui mordevano la buccia coi loro dentini (credo aver detto che le donne del serraglio erano tolte tutte dalla tribù dei Denti bianchi) altre infine giuocavano con dei veli, con delle piume; o imbeccavano delle tortorelle che erano grandi quanto uno dei nostri scriccioli, e dei piccoli colibrì che non erano più grossi d'una farfalla. Opala (io l'aveva cercata collo sguardo appena posto piede in quel santuario) Opala già mutata d'abbigliamento e raggiante della bellezza più attraente, era seduta sopra un seggio più elevato, una specie di trono che occupava per segno di distinzione. La sua testa graziosa si riposava in attitudine di pensiero sopra un soffice guancialetto di velluto; i suoi piedini rinchiusi in una pianella impercettibile d'un tessuto serico quasi trasparente, posavano riuniti e composti sopra uno sgabellino d'oro e di avorio, le sue mani piene di una tacita voluttà le pendevano giù pei fianchi in atteggiamento di abbandono, e le sue lunghe palpebre mezzo socchiuse non lasciavano ben indovinare s'ella dormisse o sonnecchiasse per vezzo fantasticando. Al rumore de' miei passi (nessuna pianella del mio guardaroba reale avendo potuto calzare al mio piede, io portava tuttora il mio unico pajo di mezzi stivali a doppia suola), Opala si scosse, e vedutomi, scivolò giù dal suo trono, e venne ad inginocchiarsi a miei piedi. A quella vista tutte le reticelle sospese si abbassarono, non so come, fino al pavimento; le fanciulle ne uscirono così abbigliate come erano, e si prostrarono esse pure ad una breve distanza da noi. Una musica divina e sommessa incominciò in quel momento a farsi udire nel serraglio, e ad elettrizzarmi colle sue note. - Nobili dame, io dissi rialzando Opala, e rivolgendomi alle altre, cui accennai di fare altrettanto, prego .... insisto perché esse si alzino; qui non vi è etichetta di Corte, non vi sono leggi di convenienze ... Prego a voler considerare la mia persona reale come la persona di un semplice amico, come una persona di famiglia ... già; intendo introdurre delle modificazioni nel regime interno di questa nostra società ... voglio dire delle leggi d'uguaglianza una parità di diritti, un equa ripartizione di .... E non venendomi al balzo la parola che calzasse a dovere, temendo di prometter troppo, e desiderando per altro lato di trovarmi qualche istante solo con Opala, aggiunsi: già ... so ben io quel che intendo di fare ... Le prego intanto di risalire nelle loro reticelle, nei loro nidi ... le prego a rioccupare i loro divani ... io mi farò un dovere di venire più tardi .... col tempo ... appena lo permetteranno le gravose esigenze della mia carica, a rendere a ciascuna di esse l'omaggio del mio rispetto e della mia ammirazione. Fui grato alla Serenità di mio padre di aver introdotto nel sistema educativo del serraglio l'insegnamento della lingua del mio paese, poiché tutte quelle mie fanciulle, risalirono all'istante nelle loro reticelle; e Opala, prevenendo i miei desiderii, mi prese per mano e mi condusse nel suo gabinetto particolare. Ci sedemmo sopra un soffice tappeto di Persia. Io era sì stanco per le fatiche della giornata, e sì turbato da tutte quelle apprensioni d'ogni genere, che quello stato di prostrazione m'induceva quasi per bisogno alla tenerezza e ad una espansione confidente e sincera. - Quanto siete buona! io dissi ad Opala abbracciandola, quanto siete bella! Divina creatura! Voi mi avete preceduto in questa reggia, dove io non rimarrò forse molto tempo, e d'onde non mi sarebbe doloroso l'allontanarmi, se non fosse pel pensiero della vostra perdita. Non credeva di trovarvi subito qui, ve ne ringrazio; aveva proprio bisogno di sollevarmi un poco con voi dalle cure dolorose del mio Stato. - Io posso tanto sul vostro cuore? - disse la fanciulla - quanto ve ne sono grata! Oh, voi siete sì diverso da vostro ... era sì nojoso vostro padre. Non amava che di farsi raccontare delle novelle, di passeggiare su e giù per le nostre sale, di regalarci qualche balocco, di farsi accompagnare a braccetto fino alla soglia del suo appartamento, di farsi reggere da noi la coda dell'abito .... Era insoffribile, perdonate, ma era insoffribile .... Già, credo che avesse settant'anni. - Pressapoco. Ecco! Ma voi siete sì giovine, sì bello, sì vivace. Non sapete ... io tremava vedendovi nel padiglione ... temeva che vi si volesse costringere a subire quella barbara usanza del nostro paese. Non che mi impaurisse il pensiero che aveste a perdere il vostro trono, giacché vi avrei amato lo stesso, e voi mi avreste amata ancora di più; ma tremava per me medesima.. mi avrebbe fatto ripugnanza vedervi col naso forato, vi avrei abbracciato con dispiacere. Se aveste veduto vostro padre ... che figura faceva vostro padre col naso così trapassato da quell'osso! Ma ... ora come farete a sottrarvi a quel supplizio? Vi siete rifiutato di acconsentirvi? - Sì. - E credete di poter sfuggire all'adempimento di quest'obbligo crudele? - Non so, diss'io, ma per fermo sono risoluto a niegarmivi. Tanto più che voi mi preferite così, che non mi amereste altrimenti .... - Oh sì, sì, disse la fanciulla abbracciandomi con innocente civetteria, non voglio, io, che vi si guasti il naso, questo naso greco, questo naso così grazioso .... Ma del resto io vi amerei in tutti i modi. E se voi doveste abbandonare quest'isola io vi seguirei lo stesso. Non è vero che voi mi permettereste di seguirvi? Son io, dissi, che vi seguirei, che perdendo il mio regno, troverei un compenso adeguato nell'acquisto che potrei fare del vostro amore. Perché… soltanto che voi mi amiate, che siate disposta a rifuggirvi meco nel mio paese, io avrò la forza di oppormi a tutte le torture che mi minacciano. Credo che i tesori di mio padre superino di gran lunga le più ricche fortune che ci sono in Europa e in quanto ai mezzi di rimpatriare, i miei ministri sono abbastanza corruttibili - come tutti i ministri che ho conosciuto nel mio paese - per lusingarmi che vorranno accordarmeli. - Quanto sarei contenta di venire con voi nel vostro paese! Non crediate già che noi siamo felici qui dentro. Non amiamo nessuno, noi; non siamo amate da nessuno: io per esempio mi reputava assai sventurata prima di vedervi; ed ora ... sento bene che sarò felicissima con voi, tanto più se lungi di qui, perché ... queste dame ... ve ne sono delle graziose, delle più avvenenti di me .... - Non è possibile, io dissi con asseveranza. - Oh, sì, diss'ella ve ne sono delle più graziose ... e voi le amereste. - Mai. - Voi le amereste. - E via, diss'io abbracciandola, non pensate a queste cose. - Una scena di gelosia, a quest'ora, ruminava intanto tra me stesso; e vedendo che Opala aveva gli occhi inumiditi di lacrime, pensai di dare una diversione più lieta al nostro discorso. Ma non trovava argomento di una diversione che tornasse anche acconcia a' miei disegni. Cambiai argomentazioni di sbalzo. - Che occhi furbi che avete, le dissi affissandola con aria che stava tra l'ammirazione e l'insolenza. - Non è vero. - Sì, è vero, avete degli occhi meravigliosi veramente! E che capelli! Lasciatemi toccare .... che trecce piene, abbondanti! Ma non avete freddo ai vostri piedini, così, con quelle pianelle sì trasparenti? - No. - È impossibile. Che piccoli piedi! scommetto che sono più brevi della mia mano. Vediamo, lasciatemi misurare. - Ecco. - Vedete: avanza tutta l'unghia del dito, tanto così .... Siete pur graziosa! Come non amarvi? Bellissima creatura! - Via, via, voi mi adulate .... - No, non è vero. - Sì. - No, ve lo giuro. - Giurate soltanto di amarmi. - Lo giurerò dopo. Datemi un bacio. - Ecco. Ma Opala aveva detto troppo presto questa parola. Mentre che ella curvava il suo volto sul mio si arrestò a mezzo dell'atto: la fanciulla aveva ascoltato un rumore improvviso all'uscio del gabinetto. - Affrettatevi, diceva dal di fuori colla sua voce stentorea, il mio primo ministro, l'ora del giudizio è già trascorsa, e la folla vi attende con impazienza; un indugio maggiore potrebbe peggiorare le gravi complicazioni politiche in cui versiamo, non fatevi aspettare più oltre. Mio Dio! io dissi, interrogando di nuovo il mio vecchio orologio di Ginevra, è vero, l'ora fissata è trascorsa di qualche minuto. Ma è un abuso cotesto .... ho o non ho un'autorità sovrana, assoluta? Disturbarmi, sorprendermi così nelle mie stanze, interrompermi durante le espansioni più doverose delle mie tenerezze domestiche? Se giungo a consolidarmi sul trono, rifarò da capo il regolamento interno della mia casa. E ricordandomi che il ministro attendeva fuori dell'uscio - vengo, soggiunsi a voce più alta, sono da voi, avvertitene il popolo. Quindi abbracciai la fanciulla che mi diceva: è un vero dispetto, venirvi ad importunare a questa ora. Che orrore! Ma ci rivedremo stassera. Mi avviai alla sala del giudizio: era mia intenzione di tenere un contegno severo, di impormi, di farmi temere; ciò che pareami sarebbe tornato assai più efficace di un'indulgenza che i miei sudditi erano ben lungi dal meritare. Oltre a ciò aveva in animo d'introdurre nelle leggi dello Stato alcune disposizioni, la cui saggezza avrebbe potuto dare il concetto più lusinghiero della mia sapienza governativa. - Sarò severo, diceva tra me stesso, ponendo il piede sul limitare della sala, sarò inflessibile: e debbo confessare che in quel momento la mia anima macchinava tristi progetti a danno del mio popolo. Se io riesco a consolidarmi sul trono; se coi tesori di mio padre potrò formare un partito numeroso alla mia causa, muterò sull'istante i vecchi statuti del Regno - ruminava tra me medesimo - e cambierò il governo costituzionale che mi tiene legate le mani in un governo dispotico. Farò, come mio padre, un colpo di Stato. Che cosa è questo governo costituzionale? Una derisione per la mia persona, per la mia qualità, per le tradizioni gloriose della mia casa. Il popolo fa ciò che gli aggrada, e io debbo accennare della testa come un fantoccio snodato di Norimberga quando gli si tira il filo che lo fa gestire. Aveva appreso nel mio paese come si debba governare una nazione: allora era suddito, adesso era re, ma non si trattava che di invertire le parti. - Guai a quel capo dello Stato, ripeteva a me stesso, che non sa fare del suo popolo tanti tipi perfetti di cretino, che invece di pensare a fruire di tutte le risorse della sua posizione, e a dare al paese buon numero di sudditi di sangue reale e plebeo incrociato, si occupa coscienziosamente dell'avvenire e della dignità della nazione che gli ha affidato i suoi destini. Questa testa coronata è una testa già distaccata dal collo. La civiltà è una mannaja che taglia le teste coronate. Io confesso che il mio orgoglio non lasciava più alcun limite alla mia fantasia. In quell'istante di entusiasmo, la teocrazia stessa era ancora poco per la mia ambizione. Entrai nella sala, e presi posto sul trono: a' miei fianchi stavano i ministri, d'innanzi a me i colpevoli, all'intorno la folla. I Denti neri si alzarono e mi fecero un'ovazione fragorosa; ma quegli scellerati Denti, bianchi coi loro orribili denti bianchi, armati dai piedi alla testa, mi guardarono torvi e sdegnosi tacendo. Feci allora un piccolo discorso di occasione che provocò qualche applauso dalla tribuna dei giornalisti stipendiati; dopo di che tentai il mio colpo d'effetto; domandai che mi si portasse la raccolta delle leggi dello Stato, e pregai il mio segretario particolare a dar lettura dei nuovi regolamenti che io aveva raffazzonati a questo scopo lungo il viaggio, e che intendeva inserire in quegli Statuti. Consistevano in una serie di articoli relativi all'abolizione del melodramma dal teatro Potikorese, basati su queste ragioni: essere il dramma musicale il non-senso più enorme, l'assurdo più mostruoso e più ridicolo di cui la scienza si sia resa colpevole. A questo progetto ne andava annesso un altro relativo ai mimi, ai ballerini, ai tenori e ai baritoni dalla trachea più o meno dilatata; ai primi dei quali doveva essere inflitta una pena di ridicolo pel diritto di esercitare il loro mestiere, e ai secondi s'imponeva l'obbligo di ricordarsi consistere tutto il loro merito nella forma e nella dimensione della trachea. Un secondo progetto di legge regolava i diritti degli autori e degli editori. Cinquanta articoli si riferivano esclusivamente a questi ultimi, ed erano sì severi e ad un'ora sì giusti, che mi sento addoloratissimo di doverli ora tacere in causa della loro prolissità. Mi limito a rammentare che in uno di essi, per un caso di pirateria libraria, era proposta la pena della sospensione pei piedi fino a totale estinzione di vita, - e credo che fosse poco. Altri articoli stabilivano pene pei delitti letterari. V'erano severamente puniti i lavori di collezione e di circostanza; quei lavori di schiena che si atteggiano a lavori di testa, ec. ec. Un'appendice a questa disposizione interdiceva alla classe dei professori di credersi letterati, e li chiamava responsali d'innanzi alla posterità della istruzione eunuca e della catalessi intellettuale che è condannata a subire la giovine generazione dei tempi nostri. Un'altra disposizione legislativa toccava delle fame imposte e delle fame usurpate; proponeva pene pei letterati funamboli; condannava a perpetuo bando dall'isola i poeti che si fossero attentati a dar lettura dei loro versi a qualche infelice costretto a subire questa violenza, e vietava finalmente la rappresentazione del dramma e della tragedia - considerate come le più ridicole parodie del dolore e delle sciagure umane. Erano, in una parola, un complesso di leggi inspirate dalla più alta saggezza, e la mia mortificazione non fu sì grande come la mia meraviglia quando intesi che esse erano già state introdotte nel Codice di Potikoros, fino dal tempo in cui quest'isola si reggeva a repubblica. La repubblica aveva dunque giovato a qualche cosa? Per la prima volta io compresi che il Due dicembre di mio padre aveva avuto in sé tutto il carattere di un tradimento indegno, e mi sentii tratto a fare un apprezzamento più benigno di quegli onesti Denti bianchi che coi loro atteggiamenti minacciosi, e coi loro terribili incisivi foggiati ad uncino, reclamavano la ricostituzione del primo sistema governativo dello Stato. Ma in quel momento non poteva, come avrei voluto, soffermarmi su queste considerazioni; e d'altronde il mio interesse personale mi avrebbe reso ingiusto nell'apprezzarle. Credete voi che tutti coloro che sedettero - come io ho seduto - su un trono, non abbiano fatte le stesse considerazioni, benché le abbiano poi soffocate nel fondo della coscienza collo stesso spirito di egoismo? Un fatto meraviglioso si presenta, fino dalle prime epoche della storia dei popoli, agli occhi dell'osservatore e del filosofo. Cinque o sei furbi matricolati regolano a bacchetta i destini di tutta questa massa sterminata di pecore che è l'umanità. Ho letto, non so più dove: mala bestia esser l'uomo, divina cosa la umanità. Non è vero! Per me ho dovuto sempre guardare all'uomo, all'individuo, alla creatura isolata per sapermi trovare meno in disagio colla massa degli uomini; mi sono riconciliato alla meglio, dacché vivo, con tre o quattro di loro, ma credo che non mi riconcilierò mai col resto dell'umanità. D'altronde questa credenza ha cessato di addolorarmi. Ma bando alle digressioni. Era tempo d'incominciare il giudizio, e feci perciò avanzare il primo colpevole. Fu data lettura dell'atto d'accusa. Io era tutto orecchi nell'ascoltare, anzi per servirmi d'una frase inglese, era tutto un orecchio, poiché non ignorava che il mio destino dipendeva totalmente dall'esito di quel giudizio. L'atto di accusa era concepito press'a poco in queste parole: «Akriundaz, della provincia di Pikliya-pokenos, di anni trentadue - della tribù dei Denti neri, di professione incettatore di merli bianchi, è imputato del furto di due pani rubati nella bottega Srikis Tenariasbikeloz esistente sul corso principale della nostra città di Potikoros, con rottura d'un vetro, e senza circostanze attenuanti». Benché la lettura di quell'atto scritto in lingua Potikorese avesse fatto poco meno che spezzarmi i timpani delle orecchie, riordinai come sapeva meglio le mie idee, e invitai l'imputato ad esporre le sue difese. - L'incetta dei merli bianchi, disse egli, essendo diventata più difficile e meno lucrosa per l'introduzione del merlo nero operata dalla Serenità di vostro padre nella nostra isola, e in causa dell'omaggio che vien reso ad esso dal popolo, essendo caduti in dispregio i merli dell'altro colore, io mi sono trovato da qualche tempo fuori della possibilità di vivere dei frutti del mio commercio. Ho chiesto stamane all'onorevole fornaio Tenariasbikeloz che mi fossero dati ad imprestito alcuni pani. Rifiutandomeli egli io ho spezzato un cristallo della vetrina e ne ho tolti due. Io sono un onesto Dente nero. Causa essenziale di questa violenza, fu l'intenzione che aveva di festeggiare, come mi permettevano i miei mezzi, l'assunzione di Vostra Maestà al trono di Potikoros. Questa difesa cui non mancava l'intingolo dell'adulazione, mi dispose in favore dell'imputato. - Avreste dovuto, io dissi, far conoscere alle autorità del vostro paese - parmi, se non erro, Pikliya-pokenos - che vi trovavate nelle circostanze che avete esposte; quel solerte questore di polizia vi avrebbe autorizzato a chiedere l'elemosina senza violare le leggi dell'onestà con una appropriazione sì violenta. - A chiedere l'elemosina! disse meravigliato il mio ministro. E vide che gli uditori avevano sbarrato tanto d'occhi nell'udire quelle parole. - Sì, ripresi io, a voce più alta, lo si sarebbe autorizzato alla mendicità, lo si sarebbe munito di apposita placca, come corre l'uso nei paesi civili dell'Europa. Un bisbiglio immenso si sollevò dalla folla, un bisbiglio di disapprovazione universale. Io sentii salirmi il sangue dai piedi alla testa, e subito precipitare dalla testa ai piedi, e rimontare di nuovo alla testa. - Ignoro, aggiunsi con coraggio, quali sieno le leggi di polizia di questo paese, ed è evidente che non possa sull'istante conformarvimi. Sarà mia premura di prenderne subito cognizione. - Tra noi, interruppe il mio segretario particolare, non è ammessa in alcun modo la mendicità; appena conosciamo il significato di questa parola per le notizie che abbiamo avuto delle usanze invalse in Europa. Nell'isola di Potikoros ogni suddito ha diritto al lavoro; e in caso d'impotenza, ha diritto al mantenimento a spese dello Stato. - Sono leggi veramente saggie, io dissi, veramente apprezzabili. Ringrazio il mio degno segretario particolare di avermene reso informato; ma .... riprendiamo il corso del nostro processo: L'onorevole fornaio .... - Tenariasbikeloz, suggerì uno dei ministri. - Tenariasbikeloz .... si trova egli presente all'udienza? In questo caso deponga se è vero che l'imputato gli abbia chiesto ad imprestito i due pani prima di rubarglieli. Il fornaio si avvicinò al tavolo della presidenza e depose esser vero. - Quando è così, io ripresi, atteggiandomi a severità, udite le giustificazioni dell'accusato, visto la necessità di mantenere inviolate le leggi fondamentali d'ogni diritto civile, tenuto conto dell'asserzione del derubato, e delle altre cause attenuanti, condanno il nominato Akriundaz - credo Akriundaz, incettatore di merli bianchi, alla pena di quattro anni di lavori forzati. Non avessi mai pronunciata quella sentenza! Un urlo di disapprovazione si sollevò dalla folla, un urlo così fragoroso e feroce che i miei stessi ministri se ne sentirono impauriti I capelli mi si drizzarono sì rigidamente sul cranio, che m'accorsi che la mia corona doveva essersi sollevata due buoni pollici dalla testa. I Denti bianchi, digrignando i loro terribili incisivi, domandavano che ne andasse libero l'accusato, e che si sottoponesse invece a processo l'onorevole fornaio Tenariasbikeloz: adducevano a pretesto il diritto che egli aveva di appropriarsi quei pani che aveva chiesti, e che gli erano stati rifiatati; e citavano non so qual articolo di legge, nel quale era detto che ogni cittadino resosi, per qualsifosse ragione, impotente al lavoro, poteva esigere il mantenimento gratuito a spesa dei privati ricchi e dello Stato. Io non so come giungessi a sedare quel tumulto. La fermezza del mio contegno e quella de' miei ministri - sento il dovere di rendere loro questa giustizia - riuscirono a poco a poco a ristabilire un po' d'ordine nella adunanza. La minaccia di far sgombrare la sala da un mezzo pelottone di Denti neri ottenne il suo effetto. Quando la calma fu ristabilita, ordinai che si facesse avanzare il secondo colpevole. Era il direttore del giornale Il Giudizio Universale (il giornale ufficiale di Potikoros) accusato di aver recato il disonore in una onesta famiglia con alcune taccie infamanti, destituite d'ogni verità. L'onorevole direttore parevami una persona seria e meritevole d'ogni riguardo, oltre di che io mi trovava in certo qual modo legato a lui da una vecchia intimità di famiglia, e sentiva il dovere di difenderlo e di pronunciare per esso una sentenza assai mite. - Ove è il gerente? io chiesi: se l'accusato non è direttore responsabile, si conduca qui il gerente e si lasci libero il giornalista. - Il gerente! esclamò il mio giudice istruttore, che cosa è il gerente? Può egli darsi che una persona qualunque si faccia responsabile dei reati di un'altra? Puniamo i reati, o puniamo le coscienze? - Un tale sistema, io dissi, è invalso in tutte le nazioni d'Europa, né io posso giudicare di questa accusa senza conoscere le leggi speciali che regolano la stampa Potikorese. D'altronde .... parmi che questo sia un fallo assai mite; una semplice riprensione .... un semplice ammonimento - Indugierò, ad ogni modo, a pronunciare la mia sentenza fino a che non avrò presa cognizione delle leggi che ho ora accennate. Prego l'onorevole magistrato a fare avanzare il terzo colpevole. Uscitone in tal guisa pel rotto della cuffia, gettai gli occhi sulla folla per conoscere l'impressione che vi avevano prodotto le mie parole. Il disordine si era in parte rinnovato; non era precisamente lo stesso scompiglio, la stessa disapprovazione plateale di prima; ma poco meno. Si vedeva chiaro che la impazienza dell'uditorio stava per prorompere in una dimostrazione più energica e più difficile a reprimere. L'interesse che destava il terzo accusato ebbe virtù di distogliere in tempo i loro animi da questa disposizione. Era egli un alto funzionario governativo, imputato di grave prevaricazione per una somma di molti milioni sottratti alle casse dello Stato. Come suole avvenire in simili casi, le prove erano bensì manifeste, ma confutabili in mille maniere, e facili ad essere ritorte a danno di altri funzionarii. Io diressi ed illuminai in alcuni punti lo svolgimento del processo; ma benché fosse universale la convinzione che si aveva del suo reato, le prove volute dalla legge non avevano tutti i dati necessarii per autorizzarmi a pronunciare un verdetto di colpabilità. Io mi trovava posto in una titubanza terribile - era il caso dell'incudine e del martello - e considerando che l'accusato era un Dente bianco, e faceva parte di quella tribù di cui doveva starmi specialmente a cuore il favore; che egli apparteneva alle alte sfere governative, nelle quali è stabilito il principio che una mano lava l'altra, che questa appropriazione sarebbe stata considerata nel mio paese come una bagattella di nessuna importanza, come uno spostamento di cifre (è la parola addottata da alcuni governi costituzionali per definire i furti governativi) credetti mostrarmi abbastanza severo nel pronunciare una sentenza che lo spogliava semplicemente della sua qualità, e lo esonerava dalla sua carica. Fu la scintilla che cagionò l'incendio: il furore del popolo proruppe sì vivo, sì unanime, sì violento che io mi avvidi subito che non vi era più mezzo a contenerlo. I miei stessi ministri erano rimasti meravigliati della stoltezza del mio giudizio; e temendo che i rivoltosi non li considerassero come facienti causa comune col re, si affrettarono a ritirarsi prudentemente nelle anticamere. Io rimasi come paralizzato, come pietrificato sul trono; e solamente alcuni istanti dopo, quando mi avvidi che la folla gridando «abbasso il re, si destituisca il re,» ed altre graziosita di questo genere, si accingeva a superare lo steccato per impadronirsi della mia persona, pensai a mettermi in salvo nell'interno della reggia. Non dirò quali fossero i pensieri che mi passavano allora pel capo, - rapidi, vari tumultuosi, inutili tutti .... Fu però un'incertezza di un istante. Quando vidi che le persone della mia casa cercavano di rifuggirsi nei gabinetti segreti, e non solo non avevano a cuore la salvezza della mia maestà reale, ma era molto se non attentavano essi medesimi alla mia vita; quando intesi che il tumulto popolare andava orribilmente crescendo, e che i Denti bianchi erano già penetrati in alcune sale della reggia, deliberai di cercare salvezza nella fuga. Mi precipitai verso il mio serraglio, poiché non sentiami la forza di abbandonare il mio regno senza portarne meco la fanciulla che mi aveva affascinato, e abbracciando Opala, le dissi: La rivolta sta per spogliarmi del regno e della vita .... fuggiamo, vieni meco: io sarò ancora il monarca più felice, il più ricco, il più fortunato se potrò trascorrere il resto della mia esistenza con te .... se tu sarai mia, mia cara Opala, mia dolce fanciulla! Sì, sì, fuggiamo nella mia patria, dove la dignità e la coscienza popolare assicurano la monarchia da questi pericoli, dove i re non sono costretti ad infiggersi un osso di balena nel naso, ma menano essi stessi pel naso i sudditi devotissimi .... vieni, vieni .... Ma lascia prima che io prenda i tesori di mio padre .... Ove sono i tesori di mio padre? quel diamante favoloso, quegli smeraldi .... Opala allacciandomi il collo colle sue braccia bianche e delicate, mi diceva colla voce interrotta dal singulto: - Non uscire, non uscire di qui; forse i Denti bianchi non entreranno in questo tempio, rispetteranno il culto che queste vergini rendono all'amore, forse .... - Ma è impossibile, io interruppi, fuggiamo, fuggiamo, ripariamo verso il mare; se possiamo attraversare la capitale senza essere conosciuti, se ... Ma in quel momento si spalancò l'uscio del serraglio, e una turba di Denti bianchi apparve minacciosa sul limitare, Io non vidi che una cosa, i loro denti, tanto essi erano orribili, tanto erano bianchi, lunghi, aguzzi, scoperti dalle labbra che l'avidità del mordere aveva rovesciate e contratte in una smorfia feroce. Lo ripeto, io non vidi che i loro denti; e in questo stesso momento in cui scrivo, quelle orribili rastrelliere che si digrignavano da sé, come segregate dal resto della persona, come attaccate a qualche cosa d'impercettibile, mi balenano dinanzi agli occhi simili alle dentiere artificiali d'un cavadenti collocate per mostra sopra un fondo di velluto nero in una vetrina. Vederli e rabbrividire, e rimanere là immobile e paralizzato sul luogo, come se vi avessi messo radici, fu un punto solo. Un Dente bianco si spiccò allora dal limitare dell'uscio, e venne verso di me, avventandomi una specie di giavellotto che teneva fra le mani. Fu un istante. Opala lo vide, si rivolse, si interpose, e ... oh mio Dio! ... ricevette ella stessa il colpo mortale che mi era stato diretto. Non tenterò qui di evocare quella memoria terribile. Io vedo ancora il suo candido seno lacerato da una ferita profonda, vedo i suoi grandi occhi nuotanti nella morte e nelle lacrime, e ascolto le sue ultime parole interrotte dall'anelito: «io muoio per te ... io ti ho amato .... ricordami.» Commosso, tratto di senno, inferocito a quella vista, volli allora avventarmi, inerme come era, contro i ribelli ... ma quelle orribili rastrelliere mi balenavano ancora dinanzi agli occhi; io le vedeva ancora là, lunghe, bianche, isolate come le dentiere del cavadenti; e sentiva quel rumore sordo, quello scricchiolio freddo e secco che producevano digrignandosi. Mi arrestai a mezzo dell'atto; qualche cosa di nero mi passava dinnanzi alla vista; sentii che le mie forze mi abbandonavano ... vacillai e caddi privo di sensi. Quando rinvenni mi trovai carico di catene, e circondato da alcuni vecchi denti bianchi, i quali avevano costituito un apposito Consiglio di guerra per giudicarmi. Mi fu letto l'atto di accusa, nel quale mi si imputava di aver voluto sovvertire gli ordinamenti dello Stato con una interpretazione falsa e speciosa delle leggi che lo governavano: di aver fatto atto di disprezzo verso le usanze del paese - usanze che avevano forza di legge - rifiutandomi a trafiggere il mio naso greco con quell'ornamento grazioso di balena: di aver poste in grave pericolo la quiete e la sicurezza della nazione, costringendola, in seguito alla mia decadenza dal potere, a riadottare la forma primitiva di governo, il regime repubblicano, o ad eleggersi un re nazionale. In causa dei quali reati io veniva considerato come decaduto dal trono di Potikoros, e condannato alla pena della morte per sospensione. Fui invitato ad esporre le mie difese. Anzi tutto, io dissi non posso ammettere in questo onorevole Consiglio di Denti bianchi il diritto di giudicarmi. Io vedo qui rappresentata una sola metà della nazione. Ove è l'altra metà? Ove sono i degni rappresentanti dei Denti neri? Ma ove pure essi facessero parte di questo consesso, i diritti di un re non posson essere discussi da suoi sudditi, e le sue colpe - se un re può commettere delle colpe - non possono essere né giudicate, né punite da essi. Io venni qui, in un paese i cui ordinamenti si erano rilassati per un lungo interregno, nel quale la demagogia incominciava a difondere le sue dottrine rivoluzionarie, le cui leggi erano violate da un'anarchia impossibile ad arrestarsi. Io vi venni chiamato dal suffragio popolare, invitato da una rappresentanza della nazione, eletto dal voto di tutti i governi d'Europa. Io venni a governare questo popolo cieco e traviato che aveva bisogno di essere ricondotto sotto il regime della monarchia: vi venni per un puro istinto di umanità, per un semplice spirito di abnegazione. Affetti e interessi mi trattenevano in Europa. Il mio sangue, il sangue di mio padre, è uno dei più antichi e dei più nobili tra tutte le dinastie di quel gran continente incivilito. Io ho avuto pietà di voi; io era venuto ad apportarvi l'ordine e la felicità che regnano in molte capitali di quegli stati; mi era sacrificato a mutare il mio berretto di cotone europeo in un turbante di penne, a ricevere quaranta milioni di appannaggio, a comandare a quaranta milioni di sudditi, a vivere da monarca in questa reggia ... aveva fatto tutto questo per voi; quale è la ricompensa che mi avete accordata? Sdegno giustificarmi più oltre: la razza dei re è una razza speciale, e ogni re che si rispetti non può ammettere in voi il diritto di giudicarlo. Gli storiografi stipendiati, i sudditi devotissimi di cui non vi sarà mai deficienza nelle generazioni future mi giudicheranno. Ho detto. Uno scroscio di risa feroci accolse le mie parole, e delle voci si sollevarono dalla folla che gridavano: alla corda, alla corda. Fui condotto al luogo destinato ai supplizii. Quivi un abisso profondo, immenso, si apriva nel seno di una montagna: in fondo alla voragine, sulle punte di granito e di metallo taglienti come lame, roteavano stormi di astori e di aquile. Fui legato ad una corda annodata alla punta di un albero, il quale inclinandosi sull'abisso, ne guardava il mezzo colla cima. Prima che la corda abbandonata a sé, mi sospendesse perpendicolarmente sulla voragine, io diressi ancora alcune parole ai Denti bianchi: - Domando, io dissi, che la salma reale sia trasportata in Europa, per ricevere sepoltura nelle tombe de' miei padri. Che, ove non ottemperaste a questo desiderio, la mia nazione invierebbe immediatamente la sua flotta a bombardare i porti di Potikoros, e impadronirsi dell'isola. Né io pensava in quel momento che era impossibile tornar da quell'abisso, e che mi sarei fatto a brani cadendo sulle punte di granito che formavano il fondo. E comprendeva benissimo che la mia salma doveva aver nulla di più sacro della salma d'un zoccolante; poiché il corpo d'un re e quello d'un mendico producono la stessa specie di vermi; e, come aveva letto nel Amleto, si può gettar l'amo ad un pesce col verme che mangiò di un re, e un mendico può mangiare di quel pesce, per modo che il corpo di un re entri nelle viscere di un mendico. Nondimeno la mia vanità mi spinse a proferire quelle parole. Vanità inutile, poiché i Denti bianchi tornarono a sorridere di quel sorriso feroce che mi aveva poc'anzi agghiacciato il sangue nelle vene, e a contrarre le labbra a quella smorfia infernale, di cui non saprei darvi un'idea se non richiamandovi alla mente quello scoprirsi delle mandibole che osserviamo nei mastini e nelle fiere quando stanno per avventarsi, e che noi soliamo indicare col dire: mostrano i denti. Non si frappose più indugio alcuno al mio supplizio. Fui condotto sull'orlo della voragine, e spintovi in guisa che, essendo stato annodato alla corda, mi trovai sospeso perpendicolarmente sopra l'abisso. I cavalieri dei Denti bianchi, i miei stessi ministri, le persone più autorevoli dello Stato disposti in circolo sull'orlo della voragine, tentavano di tagliare a colpi di freccia la corda che mi teneva sospeso. Era un supplizio lungo, lento, crudele, atrocissimo. Ogni trecciolino della corda tagliato si arricciava da una parte e dall'altra, assottigliando sempre più il centro di essa, su cui erano dirette le freccie. Dopo due ore di patimenti infiniti, la corda rotta in più luoghi, non reggeva più che per un semplice filo al mio peso. Curvandomi e guardando sotto di me, io vedeva l'abisso nero e profondo che mi attendeva, gli uccelli di rapina che aspettavano il mio cadavere per divorarlo, e qua e là le ossa imbiancate degli infelici che avevano subito prima di me quel supplizio tremendo .... Un solo filo reggeva ancora la corda, le freccie passavano fischiando da tutte le parti e non la colpivano: io guardava la corda e l'abisso, poi la corda, poi ancora l'abisso, e mi contraeva, mi arricciava, mi aggomitolava, come avessi potuto con ciò sollevarmi dal fondo della voragine. Non so quanto durasse quell'agonia. A un tratto una freccia colpì nella corda, la ruppe, precipitai, innalzai un grido di orrore e ... oh mio Dio! .... mi svegliai, e mi trovai nel mio letto. - Che vergogna! mi disse Elettra appoggiata col gomito ai mio capezzale, è da jeri sera che tu dormi; sono ora ventiquattro ore .... - Ventiquattro ore! - Sì cotesta tua abitudine di bere ... io ti vegliava inquieta ... - Ventiquattro ore! ripetei tra me stesso stordito: un sogno di un giorno, perocché adesso ... - Siamo di sera. Hai, dormito un giorno intero. - Un giorno! Ed ora, miei lettori, dubiterete ancora che non sia questa la storia di un giorno della mia vita?

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