Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbagliamento

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Il sistema periodico

681045
Levi, Primo 1 occorrenze

, che possono essere generosi e farti trovare il tesoro sotto la punta del piccone, o ingannarti, abbagliarti, facendo rilucere come l' oro la modesta pirite, o travestendo lo zinco con i panni dello stagno: e infatti, sono molti i minerali i cui nomi contengono radici che significano "inganno, frode, abbagliamento". Anche quella miniera aveva una sua magia, un suo incanto selvaggio. In una collina tozza e brulla, tutta scheggioni e sterpi, si affondava una ciclopica voragine conica, un cratere artificiale, del diametro di quattrocento metri: era in tutto simile alle rappresentazioni schematiche dell' Inferno, nelle tavole sinottiche della Divina Commedia. Lungo i gironi, giorno per giorno, si facevano esplodere le volate delle mine: la pendenza delle pareti del cono era la minima indispensabile perché il materiale smosso rotolasse fino al fondo, ma senza acquistare troppo impeto. Al fondo, al posto di Lucifero, stava una poderosa chiusura a saracinesca: sotto a questa, era un breve pozzo verticale che immetteva in una lunga galleria orizzontale; questa, a sua volta, sboccava all' aria libera sul fianco della collina, a monte dello stabilimento. Nella galleria faceva la spola un treno blindato: una locomotiva piccola ma potente presentava i vagoni uno per uno sotto la saracinesca affinché si riempissero, poi li trascinava a riveder le stelle. Lo stabilimento era costruito in cascata, lungo il pendìo della collina e sotto l' apertura della galleria: in esso il minerale veniva frantumato in un mostruoso frantoio, che il Direttore mi illustrò e mostrò con entusiasmo quasi infantile: era una campana capovolta, o se vogliamo una corolla di convolvolo, del diametro di quattro metri e di acciaio massiccio: al centro, sospeso dal di sopra e guidato dal di sotto, oscillava un gigantesco batacchio. L' oscillazione era minima, appena visibile, ma bastava per fendere in un batter d' occhio i macigni che piovevano dal treno: si spaccavano, si incastravano più in basso, si spaccavano nuovamente, ed uscivano dal di sotto in frammenti grossi come la testa di un uomo. L' operazione procedeva in mezzo ad un fracasso da apocalissi, in una nube di polvere che si vedeva fin dalla pianura. Il materiale veniva poi ulteriormente macinato fino a ghiaia, essiccato, selezionato: e ci volle assai poco per appurare che scopo ultimo di quel lavoro da ciclopi era strappare alla roccia un misero 2 per cento d' amianto che vi era intrappolato. Il resto, migliaia di tonnellate al giorno, veniva scaricato a valle alla rinfusa. Anno dopo anno, la valle si andava riempiendo di una lenta valanga di polvere e ghiaia. L' amianto che ancora vi era contenuto rendeva la massa leggermente scorrevole, pigramente pastosa, come un ghiacciaio: l' enorme lingua grigia, punteggiata di macigni nerastri, incedeva verso il basso laboriosamente, ponderosamente, di qualche decina di metri all' anno; esercitava sulle pareti della valle una pressione tale da provocare profonde crepe trasversali nella roccia; spostava di centimetri all' anno alcuni edifici costruiti troppo in basso. In uno di questi, detto "il sottomarino" appunto per la sua silenziosa deriva, abitavo io. C' era amianto dappertutto, come una neve cenerina: se si lasciava per qualche ora un libro su di un tavolo, e poi lo si toglieva, se ne trovava il profilo in negativo; i tetti erano coperti da uno spesso strato di polverino, che nei giorni di pioggia si imbeveva come una spugna, e ad un tratto franava violentemente a terra. Il capocava, che si chiamava Anteo, ed era un gigante obeso dalla folta barba nera che sembrava proprio traesse dalla madre terra il suo vigore, mi raccontò che, anni prima, una pioggia insistente aveva dilavato molte tonnellate d' amianto dalle pareti stesse della cava; l' amianto si era accumulato sul fondo del cono, sopra la valvola aperta, costipandosi segretamente in un tappo. Nessuno aveva dato peso alla cosa; ma aveva continuato a piovere, il cono aveva funzionato da imbuto, sul tappo si era formato un lago di ventimila metri cubi d' acqua, e ancora nessuno aveva dato peso alla cosa. Lui Anteo la vedeva brutta, ed aveva insistito presso il direttore di allora perché provvedesse in qualche modo: da buon capocava, lui propendeva per una bella mina sommersa, da far brillare senza perdere tempo sul fondo del lago; ma un po' di questo, un po' di quello, poteva essere pericoloso, si poteva danneggiare la valvola, bisognava sentire il consiglio d' amministrazione, nessuno voleva decidere, e decise la cava stessa, col suo genio maligno. Mentre i savi deliberavano, si era udito un boato sordo: il tappo aveva ceduto, l' acqua si era inabissata nel pozzo e nella galleria, aveva spazzato via il treno con tutti i suoi vagoni, ed aveva devastato lo stabilimento. Anteo mi mostrò i segni dell' alluvione, due metri buoni al di sopra del piano inclinato. Gli operai ed i minatori (che nel gergo locale si chiamavano "i minori") venivano dai paesi vicini, facendosi magari due ore di sentieri di montagna: gli impiegati abitavano sul posto. La pianura era a soli cinque chilometri, ma la miniera era a tutti gli effetti una piccola repubblica autonoma. In quel tempo di razionamento e di mercato nero, non c' erano lassù problemi annonari: non si sapeva come, ma tutti avevano di tutto. Molti impiegati avevano un loro orto, attorno alla palazzina quadrata degli uffici; alcuni avevano anche un pollaio. Era successo varie volte che le galline dell' uno sconfinassero nell' orto dell' altro, danneggiandolo, e ne erano nate noiose controversie e faide, che male si confacevano alla serenità del luogo ed all' indole sbrigativa del Direttore. Questi aveva troncato il nodo da par suo: aveva fatto comprare un fucile Flobert, e lo aveva appeso a un chiodo nel suo ufficio. Chiunque vedesse dalla finestra una gallina straniera razzolare nel proprio orto aveva il diritto di prendere il fucile e di spararle due volte: ma occorreva la flagranza. Se la gallina moriva sul terreno, il cadavere apparteneva allo sparatore: questa era la legge. Nei primi giorni dopo il provvedimento si era assistito a molte rapide corse al fucile e sparatorie, mentre tutti i non interessati facevano scommesse, ma poi non c' erano più stati sconfinamenti. Altre storie meravigliose mi vennero raccontate, come quella del cane del Signor Pistamiglio. Questo Signor Pistamiglio, al mio tempo, era ormai sparito da anni, ma sempre viva era la sua memoria, e, come avviene, si andava ricoprendo di una patina dorata di leggenda. Il Signor Pistamiglio era dunque un ottimo caporeparto, non più giovane, scapolo, pieno di buon senso, stimato da tutti, ed il suo cane era un bellissimo lupo, altrettanto probo e stimato. Era venuto un certo Natale, ed erano spariti quattro dei tacchini più grassi nel paese giù a valle. Pazienza: si era pensato ai ladri, alla volpe, poi più a niente. Ma venne un altro inverno, e questa volta di tacchini ne erano spariti sette, fra novembre e dicembre. Era stata fatta denuncia ai carabinieri, ma nessuno avrebbe mai chiarito il mistero se non si fosse lasciata scappare una parola di troppo il Signor Pistamiglio medesimo, una sera che era un po' bevuto. I ladri di tacchini erano loro due, lui e il cane. Alla domenica lui portava il cane in paese, girava per le cascine e gli faceva vedere quali erano i tacchini più belli e meno custoditi; gli spiegava caso per caso la strategia migliore; poi tornavano alla miniera, e lui di notte gli dava la larga, e il cane arrivava invisibile, strisciando lungo i muri come un vero lupo, saltava il recinto del pollaio oppure scavava un passaggio sotto, accoppava in silenzio il tacchino e lo riportava al suo complice. Non risulta che il Signor Pistamiglio vendesse i tacchini: secondo la versione più accreditata, li regalava alle sue amanti, che erano numerose, brutte, vecchie, e sparse in tutte le Prealpi piemontesi. Mi vennero raccontate moltissime storie: a quanto pareva, tutti i cinquanta abitatori della miniera avevano reagito fra loro, a due a due, come nel calcolo combinatorio; voglio dire, ognuno con tutti gli altri, ed in specie ogni uomo con tutte le donne, zitelle o maritate, ed ogni donna con tutti gli uomini. Bastava scegliere due nomi a caso, meglio se di sesso diverso, e chiedere a un terzo: "Che c' è stato fra loro?", ed ecco, mi veniva dipanata una splendida storia, poiché ognuno conosceva la storia di tutti. Non è chiaro perché queste vicende, spesso intricate e sempre intime, le raccontassero con tanta facilità proprio a me, che invece non potevo raccontare nulla a nessuno, neppure il mio vero nome; ma pare che questo sia il mio pianeta (e non me ne lamento affatto): io sono uno a cui molte cose vengono raccontate. Registrai, in diverse varianti, una saga remota, risalente ad un' epoca ancora di molto anteriore allo stesso Signor Pistamiglio: c' era stato un tempo in cui, negli uffici della miniera, era prevalso un regime da Gomorra. In quella leggendaria stagione, ogni sera, quando suonava la sirena delle cinque e mezza, nessuno degli impiegati andava a casa. A quel segnale, di fra le scrivanie scaturivano liquori e materassi, e si scatenava un' orgia che avvolgeva tutto e tutti, giovani dattilografe implumi e contabili stempiati, dal direttore di allora giù giù fino agli uscieri invalidi civili: il triste rondò delle scartoffie minerarie cedeva il campo ad un tratto, ogni sera, ad una sterminata fornicazione interclassista, pubblica e variamente intrecciata. Nessun superstite era sopravvissuto fino al nostro tempo, a portare testimonianza diretta: una sequenza di bilanci disastrosi aveva costretto l' Amministrazione di Milano ad un intervento drastico e purificatore. Nessuno, salvo la Signora Bortolasso, che, mi si assicurò, sapeva tutto, aveva visto tutto, ma non parlava per la sua pudicizia estrema. La Signora Bortolasso, del resto, non parlava mai con nessuno, salvo che per strette necessità di lavoro. Prima di chiamarsi così, si era chiamata la Gina delle Benne: a diciannove anni, già dattilografa negli uffici, si era innamorata di un giovane minatore smilzo e fulvo, che, senza ricambiarlo propriamente, mostrava tuttavia di accettare questo amore; ma "i suoi di lei" erano stati irremovibili. Avevano speso soldi per i suoi studi, e lei doveva mostrare gratitudine, fare un buon matrimonio, e non mettersi col primo venuto; ed anzi, poiché la ragazza queste cose non le intendeva, ci avrebbero pensato loro; che la piantasse col suo pelo rosso, oppure via di casa e via dalla miniera. La Gina si era disposta ad aspettare i ventun anni (non gliene mancavano che due): ma il rosso non aspettò lei. Si fece vedere di domenica con un' altra donna, poi con una terza, e finì con lo sposarne una quarta. La Gina prese allora una decisione crudele: se non aveva potuto legare a sé l' uomo di cui le importava, l' unico, ebbene, non sarebbe stata di nessun altro. Monaca no, era di idee moderne: ma si sarebbe vietato per sempre il matrimonio in un modo raffinato e spietato, e cioè sposandosi. Era ormai un' impiegata di concetto, necessaria all' Amministrazione dotata di una memoria di ferro e di una diligenza proverbiale: fece sapere a tutti, ai genitori ed ai superiori, che intendeva sposare Bortolasso, lo scemo della miniera. Questo Bortolasso era un manovale di mezza età, forte come un mulo e sporco come un verro. Non doveva essere uno scemo puro: è più probabile che appartenesse a quel tipo umano di cui si dice in Piemonte che fanno i folli per non pagare il sale; al riparo dietro l' immunità che si concede ai deboli di mente, Bortolasso esercitava con negligenza estrema la funzione di giardiniere. Con una negligenza tale da sconfinare in un' astuzia rudimentale: sta bene, il mondo lo aveva dichiarato irresponsabile, ed ora doveva sopportarlo portarlo come tale, anzi mantenerlo ed avere cura di lui. L' amianto bagnato dalla pioggia si estrae male, perciò il pluviometro, alla miniera, era molto importante: stava in mezzo ad un' aiuola, ed il Direttore stesso ne rilevava le indicazioni. Bortolasso, che ogni mattina innaffiava le aiuole, prese l' abitudine di innaffiare anche il pluviometro, inquinando severamente i dati dei costi d' estrazione; il Direttore (non subito) se ne accorse, e gli impose di smetterla. "Allora gli piace asciutto", ragionò Bortolasso: e dopo ogni pioggia andava ad aprire la valvola di fondo dello strumento. Al tempo del mio arrivo la situazione si era stabilizzata da un pezzo. La Gina, ormai Signora Bortolasso, era sui trentacinque anni: la modesta bellezza del suo viso si era irrigidita e fissata in una maschera tesa e pronta, e recava manifesto lo stigma della verginità protratta. Perché vergine era rimasta: tutti lo sapevano perché Bortolasso lo raccontava a tutti. Questi erano stati i patti, al tempo del matrimonio; lui li aveva accettati, anche se poi, quasi tutte le notti, aveva cercato di violare il letto della donna. Ma lei si era difesa furiosamente, ed ancora si difendeva: mai e poi mai un uomo, e meno che tutti quello, avrebbe potuto toccarla. Queste battaglie notturne fra i tristi coniugi erano diventate la favola della miniera, ed una delle sue poche attrazioni. In una delle prime notti tiepide, un gruppo di aficionados mi invitarono ad andare con loro per sentire che cosa capitava. Io rifiutai, e loro tornarono delusi poco dopo: si udiva solo un trombone che suonava Faccetta Nera. Mi spiegarono che qualche volta succedeva; lui era uno scemo musicale, e si sfogava così. Del mio lavoro mi innamorai fin dal primo giorno, benché non si trattasse d' altro, in quella fase, che di analisi quantitative su campioni di roccia: attacco con acido fluoridrico, giù il ferro con ammoniaca, giù il nichel (quanto poco! un pizzico di sedimento rosa) con dimetilgliossima, giù il magnesio con fosfato, sempre uguale, tutti i santi giorni: in sé, non era molto stimolante. Ma stimolante e nuova era un' altra sensazione: il campione da analizzare non era più un' anonima polverina manufatta, un quiz materializzato; era un pezzo di roccia, viscera della terra, strappata alla terra per forza di mine: e sui dati delle analisi giornaliere nasceva a poco a poco una mappa, il ritratto delle vene sotterranee. Per la prima volta dopo diciassette anni di carriera scolastica, di aoristi e di guerre del Peloponneso, le cose imparate incominciavano dunque a servirmi. L' analisi quantitativa, così avara di emozioni, greve come il granito, diventava viva, vera, utile, inserita in un' opera seria e concreta. Serviva: era inquadrata in un piano, una tessera di un mosaico. Il metodo analitico che seguivo non era più un dogma libresco, veniva ricollaudato ogni giorno, poteva essere affinato, reso conforme ai nostri scopi, con un gioco sottile di ragione, di prove e di errori. Sbagliare non era più un infortunio vagamente comico, che ti guasta un esame o ti abbassa il voto: sbagliare era come quando si va su roccia, un misurarsi, un accorgersi, uno scalino in su, che ti rende più valente e più adatto. La ragazza del laboratorio si chiamava Alida. Assisteva ai miei entusiasmi di neofita senza condividerli; ne era anzi sorpresa e un po' urtata. La sua presenza non era sgradevole. Veniva dal liceo, citava Pindaro e Saffo, era figlia di un gerarchetto locale del tutto innocuo, era furba ed infingarda, e non le importava nulla di nulla, e meno che mai dell' analisi della roccia, che dal Tenente aveva imparato meccanicamente ad eseguire. Anche lei, come tutti lassù, aveva interagito con varie persone, e non ne faceva alcun mistero con me, grazie a quella mia curiosa virtù confessoria a cui ho accennato prima. Aveva litigato con molte donne per vaghe rivalità, si era innamorata un poco di molti, molto di uno, ed era fidanzata di un altro ancora, un brav' uomo grigio e dimesso, impiegato all' Ufficio Tecnico, suo compaesano, che i suoi avevano scelto per lei; anche di questo non le importava nulla. Che farci? Ribellarsi? Andarsene? No, era una ragazza di buona famiglia, il suo avvenire erano i figli e i fornelli, Saffo e Pindaro cose del passato, il nichel un astruso riempitivo. Lavoricchiava in laboratorio in attesa di quelle nozze così poco agognate, lavava svogliatamente i precipitati, pesava la nichel-dimetilgliossima, e mi ci volle impegno per farla persuasa che non era opportuno maggiorare il risultato delle analisi: cosa che lei tendeva a fare, anzi mi confessò di aver fatto sovente, perché, diceva, tanto non costava niente a nessuno, e faceva piacere al Direttore, al Tenente e a me. Che cos' era poi, alla fine dei conti, quella chimica su cui il Tenente ed io ci arrovellavamo? Acqua e fuoco, nient' altro, come in cucina. Una cucina meno appetitosa, ecco: con odori penetranti o disgustosi invece di quelli domestici; se no, anche lì il grembiulone, mescolare, scottarsi le mani, rigovernare alla fine della giornata. Niente scampo per Alida. Ascoltava con devozione compunta, ed insieme con scetticismo italiano, i miei resoconti di vita torinese: erano resoconti assai censurati, perché sia lei, sia io, dovevamo pure stare al gioco del mio anonimato, tuttavia qualcosa non poteva non emergere: se non altro, dalle mie stesse reticenze. Dopo qualche settimana mi accorsi che non ero più un senza nome: ero un Dott. Levi che non doveva essere chiamato Levi, né alla seconda né alla terza persona, per buona creanza, per non far nascere imbrogli. Nell' atmosfera pettegola e tollerante delle Cave, lo sfasamento fra la mia indeterminata condizione di fuoricasta e la mia visibile mitezza di costumi saltava agli occhi, e, mi confessò Alida, veniva lungamente commentata e variamente interpretata: dall' agente dell' Ovra al raccomandato d' alto livello. Scendere a valle era scomodo, e per me anche poco prudente; poiché non potevo frequentare nessuno, le mie sere alle Cave erano interminabili. Qualche volta mi fermavo in laboratorio oltre l' ora della sirena, o ci ritornavo dopo cena a studiare, o a meditare sul problema del nichel; altre volte mi chiudevo a leggere le Storie di Giacobbe nella mia cameretta monastica del Sottomarino. Nelle sere di luna facevo sovente lunghe camminate solitarie attraverso la contrada selvaggia delle Cave, su fino al ciglio del cratere, o a mezza costa sul dorso grigio e rotto della discarica, corso da misteriosi brividi e scricchiolii, come se veramente ci si annidassero gli gnomi indaffarati: il buio era punteggiato da lontani ululati di cani nel fondo invisibile della valle. Questi vagabondaggi mi concedevano una tregua alla consapevolezza funesta di mio padre morente a Torino, degli americani disfatti a Bataan, dei tedeschi vincitori in Crimea, ed insomma della trappola aperta, che stava per scattare: facevano nascere in me un legame nuovo, più sincero della retorica della natura imparata a scuola, con quei rovi e quelle pietre che erano la mia isola e la mia libertà, una libertà che forse presto avrei perduta. Per quella roccia senza pace provavo un affetto fragile e precario: con essa avevo contratto un duplice legame, prima nelle imprese con Sandro, poi qui, tentandola come chimico per strapparle il tesoro. Da questo amore pietroso, e da queste solitudini d' amianto, in altre di quelle lunghe sere nacquero due racconti di isole e di libertà, i primi che mi venisse in animo di scrivere dopo il tormento dei componimenti in liceo: uno fantasticava di un mio remoto precursore, cacciatore di piombo anziché di nichel; l' altro, ambiguo e mercuriale, lo avevo ricavato da un cenno all' isola di Tristan da Cunha che mi era capitato sott' occhio in quel periodo. Il Tenente, che prestava servizio militare a Torino, saliva alle Cave solo un giorno alla settimana. Controllava il mio lavoro, mi dava indicazioni e consigli per la settimana seguente, e si rivelò un ottimo chimico ed un ricercatore tenace ed acuto. Dopo un breve periodo orientativo, accanto alla routine delle analisi quotidiane si andò delineando un lavoro di volo più alto. Nella roccia delle Cave c' era dunque il nichel: assai poco, dalle nostre analisi risultava un contenuto medio dello 0,2 per cento. Risibile, in confronto ai minerali sfruttati dai miei colleghi-rivali antipodi in Canadà e in Nuova Caledonia. Ma forse il greggio poteva essere arricchito? Sotto la guida del Tenente, provai tutto il provabile: separazioni magnetiche, per flottazione, per levigazione, per stacciatura, con liquidi pesanti, col piano a scosse. Non approdai a nulla: non si concentrava nulla, in tutte le frazioni ottenute la percentuale di nichel rimaneva ostinatamente quella originale. La natura non ci aiutava: concludemmo che il nichel accompagnava il ferro bivalente, lo sostituiva come un vicario, lo seguiva come un' ombra evanescente, un minuscolo fratello: 0,2 per cento di nichel, . per cento di ferro. Tutti i reattivi d' attacco pensabili per il nichel avrebbero dovuto essere impiegati in dose quaranta volte superiore, anche a non tener conto del magnesio. Un' impresa economicamente disperata. Nei momenti di stanchezza, percepivo la roccia che mi circondava, il serpentino verde delle Prealpi, in tutta la sua durezza siderale, nemica, estranea: al confronto, gli alberi della valle, ormai già vestiti di primavera, erano come noi, gente anche loro, che non parla, ma sente il caldo e il gelo, gode e soffre, nasce e muore, spande polline nel vento, segue oscuramente il sole nel suo giro. La pietra no: non accoglie energia in sé, è spenta fin dai primordi, pura passività ostile; una fortezza massiccia che dovevo smantellare bastione dopo bastione per mettere le mani sul folletto nascosto, sul capriccioso nichel-Nicolao che salta ora qui ora là, elusivo e maligno, colle lunghe orecchie tese, sempre attento a fuggire davanti ai colpi del piccone indagatore, per lasciarti con un palmo di naso. Ma non è più tempo di folletti, di niccoli e di coboldi. Siamo chimici, cioè cacciatori: nostre sono "le due esperienze della vita adulta" di cui parlava Pavese, il successo e l' insuccesso, uccidere la balena bianca o sfasciare la nave; non ci si deve arrendere alla materia incomprensibile, non ci si deve sedere. Siamo qui per questo, per sbagliare e correggerci, per incassare colpi e renderli. Non ci si deve mai sentire disarmati: la natura è immensa e complessa, ma non è impermeabile all' intelligenza; devi girarle intorno, pungere, sondare, cercare il varco o fartelo. I miei colloqui settimanali col Tenente sembravano piani di guerra. Fra i molti tentativi che avevamo fatti, c' era anche stato quello di ridurre la roccia con idrogeno. Avevamo disposto il minerale, finemente macinato, in una navicella di porcellana, questa in un tubo di quarzo, e nel tubo, riscaldato dall' esterno, avevamo fatto passare una corrente d' idrogeno, nella speranza che quest' ultimo strappasse l' ossigeno legato al nichel e lo lasciasse ridotto, cioè nudo, allo stato metallico. Il nichel metallico come il ferro, è magnetico, e quindi, in questa ipotesi, sarebbe stato facile separarlo dal resto, solo o col ferro, semplicemente per mezzo di una calamita. Ma, dopo il trattamento, avevamo dibattuto invano una potente calamita nella sospensione acquosa della nostra polvere: non ne avevamo ricavato che una traccia di ferro. Chiaro e triste: l' idrogeno, in quelle condizioni, non riduceva nulla; il nichel, insieme col ferro, doveva essere incastrato stabilmente nella struttura del serpentino, ben legato alla silice ed all' acqua, contento (per così dire) del suo stato ed alieno dall' assumerne un altro. Ma se si provasse a sgangherare quella struttura? L' idea mi venne come si accende una lampada, un giorno in cui mi capitò casualmente fra le mani un vecchio diagramma tutto impolverato, opera di qualche mio ignoto predecessore; riportava la perdita di peso dell' amianto delle Cave in funzione della temperatura. L' amianto perdeva un po' d' acqua a 150äC, poi rimaneva apparentemente inalterato fin verso gli .00ä+; qui si notava un brusco scalino con un calo di peso del 12 per cento, e l' autore aveva annotato: "diventa fragile". Ora, il serpentino è il padre dell' amianto: se l' amianto si decompone a .00äC, anche il serpentino dovrebbe farlo; e, poiché un chimico non pensa, anzi non vive, senza modelli, mi attardavo a raffigurarmi, disegnandole sulla carta, le lunghe catene di silicio, ossigeno, ferro e magnesio, col poco nichel intrappolato fra le loro maglie, e poi le stesse dopo lo sconquasso, ridotte a corti mozziconi, col nichel scovato dalla sua tana ed esposto all' attacco; e non mi sentivo molto diverso dal remoto cacciatore di Altamira, che dipingeva l' antilope sulla parete di pietra affinché la caccia dell' indomani fosse fortunata. Le cerimonie propiziatorie non durarono a lungo: il Tenente non c' era, ma poteva arrivare da un' ora all' altra, e temevo che non accettasse, o non accettasse volentieri, quella mia ipotesi di lavoro così poco ortodossa. Me la sentivo prudere su tutta la pelle: capo ha cosa fatta, meglio mettersi subito al lavoro. Non c' è nulla di più vivificante che un' ipotesi. Sotto lo sguardo divertito e scettico di Alida, che, essendo ormai pomeriggio avanzato, guardava ostentatamente l' orologio da polso, mi misi al lavoro come un turbine. In un attimo, l' apparecchio fu montato, il termostato tarato a .00äC, il riduttore di pressione della bombola regolato, il flussimetro messo a posto. Scaldai il materiale per mezz' ora, poi ridussi la temperatura e feci passare idrogeno per un' altra ora: si era ormai fatto buio, la ragazza se n' era andata, tutto era silenzio sullo sfondo del cupo ronzio del Reparto Selezione, che lavorava anche di notte. Mi sentivo un po' cospiratore e un po' alchimista. Quando il tempo fu scaduto, estrassi la navicella dal tubo di quarzo, la lasciai raffreddare nel vuoto, poi dispersi in acqua la polverina, che di verdognola si era fatta giallastra: cosa che mi parve di buon auspicio. Presi la calamita e mi misi al lavoro. Ogni volta che estraevo la calamita dall' acqua, questa si portava dietro un ciuffetto di polvere bruna: la asportavo delicatamente con carta da filtro e la mettevo da parte, forse un milligrammo per volta; perché l' analisi fosse attendibile, ci voleva almeno mezzo grammo di materiale, cioè parecchie ore di lavoro. Decisi di smettere verso mezzanotte; di interrompere la separazione, voglio dire, perché a nessun costo avrei rimandato l' inizio dell' analisi. Per quest' ultima, trattandosi di una frazione magnetica (e quindi presumibilmente povera di silicati) e condiscendendo alla mia fretta, studiai lì per lì una variante semplificata. Alle tre del mattino il risultato c' era: non più la solita nuvoletta rosa di nichel-dimetilgliossima, ma un precipitato visibilmente abbondante. Filtrare, lavare, essiccare, pesare. Il dato finale mi apparve scritto in cifre di fuoco sul regolo calcolatore; 6 per cento di nichel, il resto ferro. Una vittoria: anche senza una ulteriore separazione, una lega da mandare tal quale al forno elettrico. Ritornai al "Sottomarino" che era quasi l' alba, con una voglia acuta di andar subito a svegliare il Direttore, di telefonare al Tenente, e di rotolarmi per i prati bui, fradici di rugiada. Pensavo molte cose insensate, e non pensavo alcune cose tristemente sensate. Pensavo di aver aperto una porta con una chiave, e di possedere la chiave di molte porte, forse di tutte. Pensavo di aver pensato una cosa che nessun altro aveva ancora pensato, neppure in Canadà né in Nuova Caledonia, e mi sentivo invincibile e tabù, anche di fronte ai nemici vicini, ed ogni mese più vicini. Pensavo, infine, di essermi presa una rivincita non ignobile contro chi mi aveva dichiarato biologicamente inferiore. Non pensavo che, se anche il metodo di estrazione che avevo intravvisto avesse potuto trovare applicazione industriale, il nichel prodotto sarebbe finito per intero nelle corazze e nei proiettili dell' Italia fascista e della Germania di Hitler. Non pensavo che, in quegli stessi mesi, erano stati scoperti in Albania giacimenti di un minerale di nichel davanti a cui il nostro poteva andarsi a nascondere, e con lui ogni progetto mio, del Direttore o del Tenente. Non prevedevo che la mia interpretazione della separabilità magnetica del nichel era sostanzialmente sbagliata, come mi dimostrò il Tenente pochi giorni dopo, non appena gli ebbi comunicato i miei risultati. Né prevedevo che il Direttore, dopo aver condiviso per qualche giorno il mio entusiasmo, raffreddò il mio ed il suo quando si dovette rendere conto che non esisteva in commercio alcun selettore magnetico capace di separare un materiale in forma di polvere fine, e che su polveri più grossolane il mio metodo non poteva funzionare. Eppure questa storia non finisce qui. Nonostante i molti anni passati, la liberalizzazione degli scambi ed il ribasso del prezzo internazionale del nichel, la notizia dell' enorme ricchezza che giace in quella valle, sotto forma di detriti accessibili a tutti, accende ancora le fantasie. Non lontano dalle Cave, in cantine, in stalle, al limite fra la chimica e la magia bianca, c' è ancora gente che va di notte alla discarica, ne torna con sacchi di ghiaia grigia, la macina, la cuoce, la tratta con reattivi sempre nuovi. Il fascino della ricchezza sepolta, dei due chili di nobile metallo argenteo legati ai mille chili di sasso sterile che si getta via, non si è ancora estinto. Neppure sono scomparsi i due racconti minerali che allora avevo scritti. Hanno avuto una sorte travagliata quasi quanto la mia: hanno subito bombardamenti e fughe, io li avevo dati perduti, e li ho ritrovati di recente riordinando carte dimenticate da decenni. Non li ho voluti abbandonare: il lettore li troverà qui di seguito, inseriti, come il sogno di evasione di un prigioniero, fra queste storie di chimica militante

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