Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbagliamento

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SI CONTA E SI RACCONTA - Fiabe Minime

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Il Re ebbe un abbagliamento; gli parve che quella vecchina rugosa, con pochi capelli grigi, con quei vestiti stinti e a sbrendoli, si fosse improvvisamente trasfigurata in una bellissima giovane, fresca, sorridente, con folta chioma di oro ... Fu un istante. Il Re si strofinò gli occhi e vide di nuovo la vecchina, curva e cenciosa, che tentava di baciargli, per ringraziamento, la mano. E quale non fu la sua sorpresa, il giorno appresso, trovandola nella stanza del Reuccio! Il Re ne sentì gran dispetto. - Chi vi ha fatto entrare qui? - Nessuno, sono entrata da me. - Qualcuno ha dovuto aprirvi l'uscio. - Non occorreva. Io entro ed esco pei buchi delle serrature e anche a traverso i muri. - Siete una Strega o una Fata? - Strega che scioglie e lega, Fata che sta celata, Fata che scioglie e lega, Strega che sta celata! E la vecchina diè in un vivace scoppio di risa. Il Re si credette beffato e fece atto di prenderla per le spalle e cacciarla via. Ma si accorse che la vecchina teneva un dito puntato su lo stomaco del Reuccio e che questi, secondo la pressione, si agitava più o meno fortemente da diritta a manca, da manca a diritta, e qualche volta stava fermo. - Strega o Fata che siete, se guarite il Reuccio vi darò tanto oro quanto pesa. - Ve ne posso regalare tre volte tanto, Maestà! - Perdonatemi, Strega o Fata che siete. Ditemi almeno questo: che male è questo? - È male di incantagione. L'incanto è qui dentro: una specie di cipollina. La tocco col dito, ma per tirarla fuori ci vuol la freccia di Freccia-Frecciaio, temprata al rovaio, ché al mondo non c'è il paio, di Freccia-Frecciaio. - E dov'è la freccia ... - ... di Freccia-Frecciaio, temprata al rovaio, ché al mondo non c'è il paio? - Sì, dov'è? - Fate un bando, Maestà. Appena si saprà che qualcuno ha bisogno della freccia di Freccia-Frecciaio, temprata al rovaio ... - Sì, lo so - la interruppe il Re - ché al mondo non c'è il paio ... - Ebbene, giacché lo sapete, mandatelo a chiamare. E la vecchina diè in un altro più vivace scoppio di risa. Intanto essa aveva tolto il dito dallo stomaco del Reuccio e questi aveva ripreso il suo movimento di pendolo, da diritta a manca, da manca a diritta, tic-tac, tic-tac! Il Re si voltò e fece appena in tempo da vedere che la vecchina andava via pel buco della serratura. - Maestà - pregò il Reuccio. - Fate subito il bando per la freccia di Freccia-Frecciaio ... - ... temprata al rovaio, ché al mondo non c'è il paio, di Freccia-Frecciaio ... Il Re non avea potuto trattenersi di ripetere la filastrocca della vecchina, Strega o Fata che fosse. E da lì a pochi giorni, uscivano dal palazzo reale, a cavallo di cavalli bardati riccamente, i banditori con le trombe d'argento. - Bando di Sua Maestà! Sua Maestà dice: Si presenti Freccia-Frecciaio, con la freccia temprata al rovaio, ché al mondo non c'è il paio, di Freccia-Frecciaio! Diventarono uno spasso per tutto il regno. Appena fatto: pèpè! pèpè! con le trombe d'argento, la gente attendeva le prime parole del bando, e faceva il verso ai banditori: - La freccia di Freccia-Frecciaio ... E tutti: - Temprata al rovaio! ... ché al mondo ... - Non c'è il paio ... - Sì, sì ... di Freccia-Frecciaio! ... Non la finivano più. Da lì a un mese si presentarono dieci persone, armate di freccia: - Agli ordini di Sua Maestà! E ognuna di esse diceva: Il vero Freccia-Frecciaio sono io; mi metta alla prova. Bisognava legare il Reuccio a un palo, col petto scoperto. Il Freccia-Frecciaio doveva scagliare la freccia, colpire e infilzare quella certa cipollina che produceva l'incanto. Era un punto. E se sbagliava? Il vero Freccia-Frecciaio non avrebbe sbagliato. Ma chi era il vero tra quei dieci furfanti che si erano presentati? Il Re fece fare un fantoccio che rappresentava precisamente il Reuccio. Ordinò che lo legassero a un palo e con un po' di tinta :in nero segnò il punto da colpire. - Chi sbaglia avrà tagliata la testa; chi indovina guadagnerà un tesoro. Il primo che si presentò, sentito: - Chi sbaglia avrà tagliata la testa! - voltò le spalle e scappò via. Il secondo, spavaldo, si impostò su le gambe, armò l'arco, tese il braccio, prese la mira, e, tutt'a un tratto, udito: - Chi sbaglia avrà tagliata la testa! - abbassò l'arco, voltò le spalle e scappò via anche lui. Gli altri sette, visto che il Re diceva sul serio, se l'erano sgattaiolata zitti zitti. Rimaneva l'ultimo. Si avanzò lentamente, armò l'arco, prese la mira, e prima che il Re terminasse di dire: - Chi sbaglia avrà tagliata la testa! - avea colpito proprio nel centro il punto segnato col nero; la freccia rimasta infilzata tremolava per l'urto. - Ah! Questa è proprio la freccia ... - ... di Freccia-Frecciaio, temprata al rovaio, ché al mondo non c'è il palo, di Freccia-Frecciaio! Chi aveva parlato dietro le spalle del Re? Egli vide qualcosa che penetrava dal buco della serratura, qualcosa che da sottile sottile si gonfiava, si dilatava di mano in mano che si introduceva ... Era la vecchina! - Strega o Fata che siete, è questa la freccia del ... - ... Freccia-Frecciaio, temprata al rovaio, ché al mondo non c'è il palo? Sì, è questa. Allora il Reuccio fu legato a un palo, col petto scoperto; Freccia-Frecciaio tese l'arco, prese la mira e dalla ferita prodotta dalla freccia venne fuori qualcosa nero nero, viscido, puzzolente che appestava ... Era quel che aveva prodotto al Reuccio il movimento da diritta a manca, da manca a diritta, tic-tic, tic-tac, come un pendolo. Se non che, quando sciolsero il Reuccio dal palo, sembrava diventato di legno, tutto d'un pezzo; non poteva muovere braccia, né gambe, né collo, né lingua; soltanto gli occhi; e da essi si capiva che era vivo. - Ah, Strega o Fata che siete! Che tradimento mi avete fatto! Il Re si disperava, si strappava i capelli, piangeva come un bambino, vedendo il Reuccio ridotto in quel modo. - Meglio ritorni come prima! E prese in mano quella specie di cipolletta, nera nera, viscida, puzzolente, per introdurla nella ferita che ancora sanguinava. Ma ecco che il Re si mette a fare il pendolo lui, tic-tac, tic-tac, da diritta a manca, da manca a diritta, senza poter riuscire a buttar via l'oggetto fatale. - Ah, Strega ... E dava a manca. - ... o Fata che siete! E dava a diritta. All'improvviso il Reuccio cominciò ad essere scosso da una convulsione di riso. Agitava le braccia, scoteva le gambe e si vedeva la vecchina che gli faceva il solletico sotto la pianta dei piedi. Si rizzò con un balzo; nello stesso tempo il Re riuscì ad aprir il pugno, a buttar per terra la cipollina nera nera, viscida, puzzolente, e cessava - n'era tempo! - di dimenarsi; non ne poteva più! E tutto questo, perché? Perché la Regina un giorno avea trovato nel giardino un anello smarrito dalla Fata e non avea voluto restituirglielo. La Fata si era vendicata, facendo quel maleficio al Reuccio; ma ora, pentita, era venuta a riparare. Inoltre, per compenso, disse al Reuccio: - Ti darò in moglie la più bella Reginotta della terra! Bella quasi quanto me! ... Il Reuccio, udendo parlare la vecchina, stava per risponderle, sdegnato: - Grazie, grazie! Ma le parole gli rimasero in gola, vedendola diventare un'apparizione così bella che sembrava quasi luminosa! E infatti, da lì a tre anni, il Reuccio sposò la Reginotta di Spagna, che poco ci mancava non sembrasse una Fata. E il Freccia-Frecciaio, con la freccia temprata al rovaio? ... Basta, per carità! Ebbe in compenso tant'oro quanto pesava il Reuccio. Parola di Re non va indietro. Larga la via, lunga la strada, Fiaba finita, fiaba contata.

Racconti 1

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Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Pareva che la bimba provasse le medesime sensazioni della mamma, abbagliamento, stupore della violenta intensità della luce e della freschezza dell'aria pregna di salse emanazioni marine. Non correva, non saltellava, non si sentiva tentata dalle erbe e dai fiori che spiegavano la pompa del rigoglio e la festa dei colori pei campi; si teneva stretta alla mano della mamma, guardava con gli occhietti sbalorditi, senza godimento, senza voglie, e presto diceva: - Babbo, torniamo a casa? - Come avrebbe voluto dirgli Carmelina, se non avesse avuto paura di destar sospetti. Nella casa di Palermo la solitudine era piú grande. Mettendo per la prima volta il piede in quelle stanze vaste, dalle volte che si sprofondavano nell'ombra, dagli usci dipinti a grandi fiorami sormontati da paesaggi anneriti dal tempo, dal pavimento di mattoni di Valenza che agghiacciava le piante dei piedi, dalle pareti sbiadite e ornate di specchi in immense cornici dorate che si accartocciavano baroccamente, Carmelina s'era sentita mancare il respiro. - Tutta questa decrepitezza, tenuta ritta, non si sa come, l'ha cercata a posta, per farmi invecchiare piú presto? - Vi s'era però facilmente abituata, e non v'invecchiava piú che altrove. Gli anni, la vita inerte le avevano anzi un po' arrotondato il corpo; e la pelle bruna, sbiadita all'ombra, dava gran risalto a gli occhi neri e ai capelli nerissimi. Guardandosi nei grandi specchi lievemente appannati, che la riflettevano intiera, quasi dentro una nebbia sottile, se ne maravigliava: - No, non sono invecchiata! - E un baleno di civetteria femminile le passava sul volto. Il tempo e l'abitudine mutavano la sua tristezza in tale sentimento di riposo e di pace, ch'ella non avrebbe voluto mutare stato. La lassezza da convalescente, la indolenza che le rendeva faticoso fin il parlare, prendevano per lei le stesse attrattive voluttuose della soave pigrizia del corpo e dello spirito, che la teneva raccolta, scalducciata, e le mettevano ne le grandi pupille la strana aria di sognante che impressionava le persone. Per questo il frastuono della vita cittadina da cui era assediata coi gridi dei rivenditori ambulanti, coi rumori delle carrozze che scotevano i vetri delle finestre echeggiando cupamente per le volte, e col sordo affaccendamento di lavoro che si ripercoteva indistinto là dentro, serviva soltanto a renderle maggiormente caro l'isolamento e la muta severità delle vecchie cose dalle quali era circondata. Fin suo marito non le dava piú la solita sensazione di ripugnanza o di persona che volesse farle male. E stava ad ascoltarlo intenta quand'egli le raccontava il processo discusso alle Assise nella giornata, quasi volesse appellarsi a lei contro i giurati che s'erano lasciati infinocchiare dalle sonore ciance avvocatesche. In quelle sere la bimba non voleva andare a letto per ascoltare anch'essa le storie dei ladri e degli assassini; e guardava a bocca aperta ora il babbo che parlava, smorto smorto, nell'ombra della ventola, con le mani sui bracciuoli della poltrona illuminate dalla luce viva, e le lunghe gambe nascoste sotto la coperta rossa del tavolino; ora la mamma che taceva, o esclamava di tanto in tanto: - Povera gente! - Cosí le stagnava la vita, senza che l'umor tetro del marito vi producesse piú neppure un lieve increspamento a fior d'acqua; e cosí durò fino al giorno in cui la bimba cadde ammalata, e per le stanze mute s'intese frequente il rumore cadenzato dei tacchi del dottore, che, vista la gravità della cosa, veniva a visitarla tre o quattro volte al giorno. Le tristi occupazioni d'infermiera le furono di sollievo. Le medicine da somministrare d'ora in ora, esattamente; i piccoli servigi che la costringevano a muoversi da una stanza all'altra; il dover ragionare e venire a patti con la malata per indurla a star cheta sotto le coperte, o a prendere un cucchiaio di medicamento in ricambio dei bei regali di nastri, di oggetti d'oro, di ninnoli di porcellana che voleva schierati sul guanciale o ficcati dentro il letto; la stessa ansiosa aspettativa del resultato de lla malattia, tutto concorse a produrle una specie di risveglio di sensi. Da la finestra che il dottore voleva aperta finché il sole era alto, irrompeva nel palazzetto addormentato un giocondo tumulto di vita; voci che chiamavano e rispondevano; scoppi di risa, canti allegri di operaie che lavoravano all'aria aperta nella via di fianco, godendosi il dolce tepore del sole di aprile. E quel canarino che trillava a la finestra della casa accanto! ... E quel merlo che fischiava piú in là ... E gli squilli argentini di quell'incudine, piú in là ancora, sotto i colpi di martello! ... Che festa! Non si saziava di guardare fuori, seduta al capezzale della bimba, tenendo strette fra le mani le manine febbricitanti; non si saziava di guardare, quasi quelle donne che sciorinavano la biancheria sui terrazzini della casa di faccia, lassú, distante; quasi quella monaca casalinga, che, piú in qua, innaffiava i vasi di fiori e si soffiava il naso col fazzoletto turchino; quasi quei due, marito e moglie certamente, che s'abbracciavano in mezzo alla stanza credendo di non essere veduti, fossero uno spettacolo per lei. Un'altra mattina, invece di biancheria, lassú sciorinavano dei tappeti. Quella giovane in veste grigia da camera dai grandi ricami rossi che si vedeva distintamente, e che faceva luccicare al sole l'oro della sua folta capigliatura, pettinandosi sul terrazzino, servendosi dei vetri dell'imposta per specchiera, doveva essere molto bella. Andava e veniva, forse per cambiare il pettine, forse per prendere delle forcine ... Parlava con qualcuno che non si vedeva ... Era allegra, rideva ... Do veva esser felice! ... - Ah, Signore! ... Che cosa avviene dentro di me? - Si sentiva quasi destare da profondissimo sonno. Il sole che inondava la camera le metteva vivi formicolii per tutta la persona; gli sbuffi d'odor di zagara che il vento trasportava da lontano, dai giardini di aranci della Conca d'oro, le turbavano la testa. E se ne stava tutta la giornata rifugiata là, come in un angolo di paradiso, senza piú impensierirsi della malattia della bimba; paga di stringerne fra le mani le manine arse dalla febbre; bevendosi tutta quell'aria, assorbendosi tutta quella luce, ineb briandosi di quei rumori e di quegli odori. E quando, sul tardi, all'abbassarsi del sole, bisognava chiudere l'imposta, e compariva nella cameretta la faccia gialla e scarna del marito ritornato dal tribunale, ella provava una stretta al cuore, e ricadeva nella torpida inerzia che durava da anni ed anni. Poi quei turbamenti, quelle vertigini le diedero insonnie tormentose, le stesse insonnie di suo marito. Fingeva però di dormire, rannicchiata nel proprio cantuccio di letto, quasi raffrenando il respiro; e la mattina, saltava giú che non era neppure l'alba, con la scusa della bimba, ma veramente per riprendere la seggiola del capezzale e veder ripetere l'incantesimo del giorno avanti. Poi, quando la bimba cominciò a star meglio, ella che non s'era mai affacciata a un terrazzino - per indolenza, perché l'eccessivo movimento della vita cittadina le dava noia - si sentí attratta a quella finestra e vi restò a lungo, coi gomiti appuntati sul davanzale, la faccia sorretta dalle mani, girando attorno i grandi occhi desti, scoprendo cose che non aveva veduto e avrebbe dovuto vedere: quel campanile, quella terrazza dove una cagna allattava dei cagnolini bianchi e neri, quel comignolo, quei rami verdi d'una pianta di limone che sorpassavano un tetto nuovo. E stava là lunghe ore al sole, come una lucertola, voltandosi di tanto in tanto verso il lettino della convalescente e sorridendole con insolito sorriso delle labbra e degli occhi; stava là stordita, meravigliata di sentirsi tuttavia capace d'avere quelle sensazioni; talora sconvolta da turbamenti improvvisi ch'ella non sapeva spiegarsi, da brividi che le correvano su su per la schiena e la scotevano tutta; e cosí assorbita, e cosí sopraffatta, d a non pensare a tirarsi indietro per evitare la insistente curiosità di quel signore mezzo nascosto fra le cortine, il quale tornava ogni giorno a guardarla, coll'indiscreto cannocchiale da teatro, dal terrazzino a mancina. Gli aveva rivolto appena un'occhiata il primo giorno soltanto; e quella figura alta e bruna, dai capelli un po' radi nel centro del capo, dai grandi mustacchi castagni che si curvavano in su, le si era stampata talmente nelle pupille, che continuava a vederla durante la insonnia, con quel cannocchiale appuntato, con quei polsini bianchi e lustri dai piccoli bottoni d'oro fuor delle maniche del vestito ... E se ne stizziva - Chi è? Che cosa vuole? - Che volesse colui, ella lo capí a un tratto una mattina, da certe mosse di occhi ... - Mamma, che hai? - Niente, figliolina, niente! - Intanto si era ritirata dalla finestra con brusco movimento, smorta in viso. La bimba si stupiva che le labbra che la baciavano fossero diacce e tremanti. - Mamma, che hai? - Niente, figliolina! - E affondava la faccia nei guanciali, accanto alla testina della bimba, dolorosamente. Per parecchi giorni di seguito non s'affacciò alla finestra e tenne i vetri socchiusi, quasi avesse avuto paura delle lusinghe dell'aria tiepida di quelle giornate primaverili, delle seduzioni di quel sole smagliante che irrompeva nella camera insidioso, a traverso i vetri; indignata della propria debolezza contro quel fantasma che la premeva da qualunque parte ella si volgesse ... alto, bruno, dai capelli un po' radi, dai grandi mustacchi rovesciati in su, dai polsini bianchi e lustri con piccoli botton i d'oro, dalle mani affilate che tenevano il cannocchiale fissato addosso a lei, insistentemente ... Ed ora che sapeva che cosa egli volesse, la sua alterigia d'onesta s'inalberava, protestava, quantunque il suo amor proprio si sentisse un po' solleticato; protestava, anche con quella strana pietà pel marito, quantunque se lo vedesse dinanzi piú giallo, piú magro, piú innamorato e piú geloso ancora, quas'egli presentisse il tranello teso al cuore di sua moglie ... - Oh, no, no! - ella pensava; - sarebbe un'infamia! ... Ma già, forse, si tratta d'un castello in aria della mia fantasia riscaldata. Perché costui mi ha guardata tre, quattro volte ... Sciocca! Resisteva però alla smania per cui avrebbe voluto affacciarsi alla finestra a fine di persuadersi che s'era ingannata, e mettersi il cuore in pace. - Ha paura dell'aria? - le disse il vecchio dottore. - Apra questa finestra, cosí! ... L'aria è balsamo di vita -. E l'aperse egli medesimo. Stiede un pezzetto sulla seggiola del capezzale, irrequieta, lottante, quasi la finestra fosse stata un abisso che le dava la vertigine; poi s'affacciò, rigida, deliberata di non guardare, coi gomiti appuntati sul davanzale, la faccia tra le palme ... E appena s'accorse di quell'uomo ch'era là ad attenderla ... forse, il cuore cominciò a sussultarle, le orecchie le zufolarono, gli oggetti attorno le barcollarono sotto gli occhi intorbidati ... - Domani, oh, domani sarò piú forte! ... - Intanto, quantunque assolutamente risoluta di non dargli una occhiata, nel tirarsi indietro lo aveva guardato, di sfuggita, suo malgrado ... - Avrei dovuto mortificarlo, con una guardatura sdegnosa, da dargli una lezione! - E quella sera suo marito la sentí tremare sotto i baci e tra gli abbracci, quasi ella cercasse d'evitarli. - Ti senti male? - Sí, un po' ... - Che ti senti? - Nulla, non saprei ... Forse la stagione -. In alcuni momenti, quand'era sola, tutt'a un tratto il cuore le diventava grosso grosso, gli occhi le si riempivano di lagrime, i singhiozzi le annodavano la gola ... Quella volta, sentendosi soffocare, era corsa alla finestra, per prendere un po' d'aria, senza pensare a colui. E vedendo ch'egli la guardava sorridendo tristamente a fior di labbra, e le rimproverava la severità con lieve movimento degli occhi e del capo - Ah, Signore! - quella volta s'era sentita afferrare a tradimento, violentemente; gli aveva risposto con un sorriso, con tale sorriso! ... e si era tirata subito indietro nascondendo la faccia tra le mani: - Oh, Dio, mi par di morire! - Si sentiva venir meno. E avrebbe voluto morire davvero nel punto in cui aveva ceduto, dandosi incondizionatamente, da non riprendersi piú. Fu uno scatto, quasi avesse avuto tuttavia sedici anni, e si fosse sentita tale forza nei polsi da lottare col mondo intero! Sentiva bisogno di muoversi, di gesticolare, di ridere, di cantare, ella che fino a poche settimane addietro aveva passato le giornate sonnecchiante su una delle poltrone addormentate anch'esse negli angoli oscuri di quelle stanze fredde e silenziose. E s'aggirava da una stanza all'altra, leggera, saltellante, levando le mani giunte e gli occhi alle divinità mitologiche dipinte nel ce ntro della volta, per ringraziare non sapeva chi di quella grazia vivificante che le era stata concessa! Debole, ingenua, rimasta quasi bambina sotto l'opprimente gelosia del marito, ella si svegliava in un subito gagliarda, esperta di tutte le astuzie, di tutte le malizie, di tutte le ipocrisie della donna abituata a ingannare: - Ah, finalmente la mia povera vita ha uno scopo, finalmente so! ... - Non sapeva nulla; illusa che tutto si sarebbe limitato là, e che l'immagine di quell'uomo ch'ella teneva chiusa nell'intimo del cuore, come in un tabernacolo, per prostrarlesi dinanzi col pensiero in adorazione spirituale, non le avrebbe chiesto nient'altro ... - Che potrò dargli di piú? E, alcuni giorni dopo, allorché quel "che" le balenò per la mente, la sua dignità di moglie si rivoltò inviperita: - Spezzerò piuttosto, calpesterò il mio cuore! No! no! - E continuò a vedere quell'uomo fra un nimbo abbagliante; e, accostandoglisi con la delirante adorazione di donna che amava per la prima volta, le pareva d'elevarsi, materialmente, e non sentiva piú il terreno sotto i piedi. Perciò fu atterrita e sentí crollarsi il mondo addosso la mattina in cui ricevette una lettera di lui - imprudente! ... - che le chiedeva di poterla vedere da vicino, di parlarle; lettera breve, quasi imperiosa col suo carezzante tono di preghiera. - Imprudente! ... - Per fortuna, in quel momento neppure la persona di servizio era in casa. E alla vecchia mendicante, che attendeva la carità e la risposta, restituí la lettera con sotto poche parole tracciate in fretta in fretta: "Impossibile! Se mi amate, non mi scrivete piú!" Lo disse anche a quella donna, mettendole in mano un pugno di monete: - Non venite piú, buona donna. Se mio marito vi vedesse! ... E lo ripeté a lui dalla finestra, coi gesti, supplicandolo trambasciata, piú e piú giorni di seguito. - E insiste! ... E non sa persuadersi! ... - Vuoi dunque che venga io? ... Son deciso ... sí, sí ... E subito ... Comincio a vestirmi. - Ah! N'è capace. Bisogna impedirglielo, a ogni costo! - La forza del terrore le offuscò il cervello, quasi non fosse peggio ancora quel ch'ella stava per fare. Non riusciva a infilarsi le maniche della mantelletta, a annodarsi i nastri del cappellino. - Torno subito - disse alla serva che la guardava meravigliata. - Non dire alla bimba che vo fuori -. Aveva negli occhi il bacio di ringraziamento scoccatole da colui al cenno che gli rispose: - Aspettatemi, vengo io. - E scendendo le scale, ripeteva mentalmente: - No, no! ... - Era andata per romperla, per dirgli ch'era impossibile, per persuaderlo con le preghiere, facendogli capire le difficoltà del proprio stato ... E appena colui la ricevette su l'uscio, prendendola per una mano, sorridente, da persona abituata a simili avventure; e appena si vide in quell'elegante appartamentino da le imposte socchiuse in penombra tentatrice ... gli cadde tra le braccia, senza dir motto, quasi vi fosse andata a posta e per nient'altro! Da qualche mese il marito la osservava, chiuso nel suo silenzio d'itterico, intrigato da quel raggiare d'una seconda giovinezza che le scoppiava dal colorito del viso ridiventato piú fresco, da quel fosforeggiare di lampi mal rattenuti negli occhi ... - Doveva credere a un inatteso mutamento? Il tempo, l'abitudine potevano produrre anche quel miracolo. Perché no? - Invece, ora ritrovava in lei la stessa resistenza che nei primi giorni del loro matrimonio, quando la giovinezza e la novità del legame potevano in qualche modo scusarla; invece scopriva in lei rapidi movimenti d'impazienza, d'alterigia, quasi di ribellione! ... E lo ferirono peggio d'una pugnalata le parole che la bimba disse una sera alla mamma: - Mamma, perché non canti come questa mattina? - Egli non fece un gesto, né batté palpebra; ma vide l'occhiataccia lanciata dalla mamma a la bambina. - Ah! Dunque cantava? ... Dunque cantava? - Tutta la nottata non ruminò altro. E il giorno dopo, mentre i testimoni facevano le loro deposizioni, mentre gli avvocati declamavano dinanzi ai giurati dando colpi di pugno sui tavolini, egli tendeva l'orecchio, col capo rovesciato sulla spalliera della sedia a bracciuoli, gli occhi chiusi, terribilmente pallido nella toga nera; tendeva l'orecchio per afferrare da lontano una nota di quell'insolito cantare di sua moglie nell'assenza di lui: - Perché cantava, ella che non aveva cantato mai! ... - E, in casa, gli occhi grigi gli si scurivano, perduti dietro questa ricerca, quasi avesse voluto trovarne la traccia su pei vecchi mobili, o nell'aria di quelle stanze che doveano certamente saperne qualcosa. Carmelina non gli badava, ingannata dall'apparenza, con la cieca temerità di chi non sa valutare il pericolo e con la fierezza di chi è deliberato, in ogni caso, a sfidarlo. Non voleva riflettere, non voleva ragionare. Il terrore dei primi giorni, quando le pareva che avrebbe visto sprofondarsi il pavimento sotto i piedi se la serva, inavvertitamente, avesse accennato al padrone che la signora era stata fuori; lo sbalordimento di quant'era accaduto quella mattina, senza che la sua volontà vi avesse concorso - anzi! ... anzi! ... - tutto era stato trascinato via dalla piena irrompente della passione che diveniva piú minacciosa di giorno in giorno. Appena un mese dopo, ella garriva il suo amante: - Come? Ora hai paura tu? E mi chiami imprudente? ... - Penso a le conseguenze; uno scandalo, forse un processo! ... - Ella alzava le spalle, irritata che colui riflettesse troppo, mentr'ella avrebbe affrontata anche la morte per venire a trovarlo un momento, per dargli un solo bacio. Invece sentiva domandarsi: - E ... lui, lui non sospetta ancora nulla? - No -. Un giorno, rimettendosi in furia il cappellino, ella gli disse: - Che vita! ... Vedersi soltanto per pochi minuti! ... Se venissi a stare con te, nascosta in quella stanza in fondo dove nessuno potrebbe vedermi? - E tua figlia? ... - aveva risposto l'amante, fissandola per osservare l'effetto delle sue parole. - Mia figlia? ... È figlia di lui! ... Ne avrò un'altra ... tua, sai? - E gli buttò le braccia al collo, senz'accorgersi che l'amante era diventato freddo freddo, e aveva aggrottato le sopracciglia, impensierito. Però il sospetto di qualcosa d'indegno cominciò a turbarla, dopo che i pretesti per evitare le sue visite divennero piú frequenti. Ai rimproveri, egli rispondeva sorridendo con tranquillità d'uomo sazio e annoiato, negando fiaccamente, in maniera da far capire che negava per mera cortesia di persona bene educata ... Un giorno, sul tardi, pochi momenti prima che suo marito rientrasse in casa, ricomparve la vecchia mendicante, con un'altra lettera e per la carità. Anche quella volta la fortuna l'aveva aiutata. Sentendo picchiare all'uscio, era andata ad aprire; la serva trovavasi in cucina. Quella lettera non potuta leggere, cacciata in fondo a la tasca del vestito col cuore abbuiato da terribili presentimenti, era stata una lunga tortura durante il pranzo, per tutta la serata, mentr'ella ricamava e suo marito leggeva un giornale, e la bimba, mezza stesa bocconi sul tavolino, coi capelli scuri che le cascavano dietro gli orecchi, ritagliava un vecchio figurino di mode sotto il lume, accompagnando al movimento delle forbici uguale movimento di labbra. Aveva indugiato fino alla mattina del giorno dopo - fino a che suo marito non andò fuori di casa - masticando il tossico dell'incertezza, tastando di tanto in tanto la busta in fondo alla tasca, quasi avesse potuto, palpando, indovinarne il contenuto. Poi aveva letto febbrilmente, abbracciando con l'occhio due, tre righe in una volta ... e s'era sentita lanciare nel vuoto da immensurabile altezza, giú, giú, giú, in quell'abisso che la lettera le spalancava sotto, abisso senza luce che se la inghiottiva v ivente! Colui aveva detto alla vecchia serva: - Se venisse quella signora ... starò fuori di casa fino a notte. Se volesse aspettare, metti alla finestra il solito segnale, finché non sarà andata via -. E la vecchia aveva messo il segnale. La povera signora aspettava da piú di due ore, ostinandosi, quantunque la vecchia s'affacciasse di tratto in tratto sull'uscio per ripeterle: - Non tornerà prima di notte; mi ha detto cosí. - Sí, sí; aspetterò. Chi sa? Potrebbe tornare anche prima -. E ricascava, abbandonata, nell'angolo di canapé dove s'era buttata arrivando. Si sentiva precipitare tuttavia giú, giú, giú, in fondo all'abisso senza luce; e non aveva altra sensazione. Quella vertigine della testa, del cuore, di tutta la persona, le impediva di pensare, d'accorgersi degli oggetti circostanti, di formarsi un'idea netta del tempo che passava, e dell'enorme pazzia ch'ella commetteva restando là. A intervalli, la nebbia fosca della sua mente veniva solcata da un chiarore; un quadretto dalla cornice dorata, un oggetto di porcellana con una punta di luce viva, un'impugna tura di fioretto appariva su la parete in un canto del salottino, e le spariva sotto gli occhi appena ella tentava fissarli. Soltanto allorché sentí domandarsi: - Vuole che accenda il lume? - soltanto allora si riscosse, atterrita: - Ditegli che ho aspettato finora e che ... non tornerò piú! ... Soffocava. E andò via, ritta su la persona, come fantasma, mentre la vecchia le faceva lume. Cosí montò le scale di casa; e cosí, come fantasma, senza esitare, passò davanti al marito che le aperse e non ebbe la forza di dirle nulla, e richiuse lentamente l'uscio dietro il quale era stato ad attenderla da parecchie ore, bevendo le lagrime che gli irrigavano il viso sconvolto, in agguato per scannarla, com'era suo diritto, come si meritava questa sgualdrina, ora ch'egli sapeva tutto! ... - Oggi la signora ritarda ... - Rientrando, gli era parso d'aver capito male. Il suo istinto geloso s'era subito svegliato: - Oggi? ... - Credevo che il signorino sapesse ... - disse la serva, spaventata dal tono di quella domanda. - So, so: le altre volte però è tornata sempre piú presto ... - Sempre. - Tutti i giorni? ... - Nossignore; una, due volte la settimana. - E ... da quando? ... Da quando? - Ma, se il signorino lo sa ... - Rispondi! Da quando? - Da quattro mesi, forse ... Non ricordo bene ... Oh, vergine santa! - Da quattro mesi! ... Da quattro mesi! Una, due volte la settimana! ... - Ogni esclamazione, era lampo di vivissima luce che gli rischiarava il cervello; era scoppio di fiamme avvolgentisi al corpo che intanto sudava diaccio ... - Da quattro mesí! ... Due, tre volte la settimana! ... - E i minuti passavano, e i quarti d'ora passavano, via via, sul quadrante dell'orologio a pendolo dov'egli teneva fissi gli occhi; e le ore squillavano pel salotto lentamente nell'attesa mortale, quasi annunziassero un'immensa catastrofe! ... - Meglio per lei, se il mondo finisse prima di rimettere il piede in casa, in questa casa insozzata dalla sua infame persona! ... Ecco perché rifioriva! ... Ecco perché cantava! ... E la gelosia non mi ha servito a niente! ... Balordo! Balordo! - E i minuti passavano, eterni come quarti d'ora! E passavano, via via, gl'interminabili quarti d'ora che sembravano secoli! La serva aveva sentito suonare con violenza ... - Prendi il tuo fagotto ed esci da questa casa, subito, subito, ruffiana! - Vergine santa! Che dite mai, signorino! - Esci! Esci, ruffiana! - E spintala con un urtone fuori dell'uscio, facendole sbalzare in terra il fagotto, aspettò. S'aggirava dietro l'uscio, simile a tigre pronta a slanciarsi, assetato del sangue della infame. La bimba, accorsa con la serva, non avendo mai visto il babbo cosí infuriato, era andata a rincantucciarsi nel salotto, impaurita; e, poco dopo, s'era addormentata su la seggiola, con le gambette spenzolanti e la testina cascata sul petto. Carmelina la guardò, ebete; e sbarazzatasi convulsamente dello scialle e del cappellino, si rovesciò su la poltrona. Gli orecchi le rintronavano d'un sinistro rumore di case crollanti. - Dove sei stata? Dove sei stata? ... - Alla stretta di quelle mani piú fredde e piú forti dell'acciaio e che le stritolavano i polsi, ella cacciò un grido: - Ammazzatemi! ... Avete ragione! ... Ammazzatemi! - E fissava con avida angoscia qualcosa che gli aveva visto luccicare fra lo sparato del panciotto. Le tardava di morire. Per che doveva piú vivere? Ma colui si strappava i capelli, ma colui le si rotolava ai piedi, mugolando il nome di lei. E quand'ella credette alfine che le si slanciava addosso per ucciderla, si sentí brancicare, amorosamente, su i capelli, su la faccia, per tutta la persona; e si sentí furiosamente baciare e ribaciare, fra singhiozzi e lagrime irrompenti, quas'egli avesse voluto riprendere quel che gli era stato rubato: la sua vita, il suo sole, la sua donna adorata! - Come hai potuto, infame? ... Come hai potuto? ... - Non lo so ... Non lo so ... - Alle incalzanti domande ripeteva sempre: - Non lo so ... - Ma pensava a quello sguardo diaccio diaccio, di persona malefica, incontrato per le scale della sua casa, a Catanzaro. A un tratto Lupi si rizzò in piedi: - Lisa, Lisa! - La bimba, riscossa piú dall'urto del braccio che da la voce soffocata del babbo, spalancò gli occhi e saltò giú mal desta, lasciandosi trascinare. In quel punto l'istinto della vita scattò nel seno della madre disgraziata, quasi voce che gridava aiuto dalle viscere sussultanti; e vedendo il marito che trascinava quell'altra creatura, dicendo con voce cavernosa: - Guarda; dovrai ricordartene; guarda! - gli si levò incontro, tendendo le braccia supplicanti. - Per quest'innocente che ho nel seno! La bimba vide luccicare una lama e poi sua madre ripiombare, stravolgendo gli occhi fino al bianco ... - Mamma! Mamma! - gridò senza comprendere niente in quel momento. Mineo, 10@ 10 novembre 1883@. 1883.

Se non ora quando

680477
Levi, Primo 1 occorrenze

Quando si fu ripreso dall' abbagliamento, nel chiarore della neve distinse tre figure umane: erano tre uomini in tuta bianca, montati su sci, armati. Uno di loro reggeva un mitra sulla cui canna era legata una torcia elettrica: in quel momento, canna e torcia erano rivolte verso la neve. I tre mormoravano fra loro, ma dall' interno dell' isba non si percepiva alcun suono. Poi il fascio di luce penetrò nuovamente attraverso la finestrella, si udì un colpo di pistola, e una voce gridò in russo: _ Siete sotto tiro. Non vi muovete; tenete le mani sul capo. Uno di voi esca con le mani alzate e senz' armi _. Poi, la stessa voce ripeté l' avviso in cattivo tedesco. Dov si mosse per avviarsi alla porta, ma Pavel lo prevenne: prima che Dov si fosse messo in piedi, aveva già aperto l' uscio ed era fuori con le mani alzate. _ Chi siete? Da dove venite e dove andate? _ Siamo soldati, partigiani ed ebrei. Non siamo di questa zona, veniamo da Novoselki. _ Ti ho chiesto anche dove andate. Pavel esitò; Mendel uscì con le mani levate e si mise al suo fianco. _ Compagno, eravamo cinquanta e siamo vivi in dieci. Abbiamo combattuto e il nostro campo è stato distrutto. Siamo dispersi e stanchi, ma validi; cerchiamo un gruppo che ci accolga. Vogliamo continuare la nostra guerra, che è anche la vostra. L' uomo vestito di bianco rispose: _ Se siete validi lo vedremo poi. Bocche inutili non ne possiamo accettare; da noi mangia solo chi combatte. Qui è zona nostra, e voi avete avuto fortuna: abbiamo visto le vostre donne sopra la stufa, e allora non abbiamo sparato. Di solito non facciamo così. A sparare a vista non si sbaglia quasi mai _. L' uomo rise breve, e aggiunse: _ Quasi! A Mendel si allargò il cuore. Albeggiava. Due degli uomini si tolsero gli sci ed entrarono nell' isba; il terzo, quello che aveva parlato, rimase fuori con l' arma puntata. Era alto, molto giovane, e portava una corta barba nera; a tutti e tre, gli abiti imbottiti sotto la tuta mimetica conferivano l' apparenza di una pinguedine che si accordava male con la sveltezza dei loro movimenti. I due, con le pistole in pugno, ordinarono che nessuno si muovesse, e con gesti rapidi ed esperti perquisirono tutti; anche le due donne, rivolgendo loro qualche frase scherzosa di scusa. Chiesero a ciascuno il nome e la provenienza, accumularono in un angolo le armi e le munizioni che avevano trovate, poi uscirono nuovamente e fecero al loro capo un breve rapporto che dall' interno riuscì incomprensibile. Il giovane barbuto abbassò l' arma, si liberò degli sci, entrò e sedette a terra famigliarmente. _ Per noi, non siete pericolosi. Mi chiamo Piotr. Chi è il vostro capo? Dov disse: _ Tu lo vedi, noi non siamo una banda organica. Siamo i sopravvissuti di un campo di famiglie; fra noi c' erano anziani, bambini e gente di passaggio. Io ero il loro anziano, o il loro capo, se mi vuoi chiamare così. Ho combattuto con Manuìl "freccia" e con lo Zio Vanka, e sono stato ferito a Bobruisk nel febbraio scorso. Ero in aviazione. Con lo Zio Vanka c' era anche Gedale, eravamo amici. Conoscete Gedale? Piotr cavò di tasca una corta pipa e l' accese. _ Per noi non siete pericolosi, ma potreste diventarlo. Tu hai i capelli bianchi, capo; sei stato partigiano; non lo sai che ai partigiani non si fanno domande? Dov tacque, umiliato: sì, in tempo di guerra si invecchia presto. Se ne rimase a capo chino, guardandosi le grosse mani che pendevano inerti dai polsi, e massaggiandosi ogni tanto il ginocchio. Piotr riprese: _ ... vedremo di non abbandonarvi, combattenti o non combattenti. Almeno per qualche tempo: cosa può accadere dopo, non lo sappiamo noi, né i nostri capi, né nessuno. Il nostro tempo corre come corrono le lepri, veloce e a zig-zag. Chi fa un piano per il giorno dopo, e poi lo realizza, è bravo; chi fa piani per la settimana dopo è matto. O è una spia dei tedeschi. Fumò tranquillo ancora per qualche minuto, poi disse: _ Il nostro campo non è lontano, ci potremo arrivare prima di domani sera. Tenete le vostre armi, ma scariche: le munizioni, abbiate pazienza, le teniamo noi. Per adesso. Poi, quando ci conosceremo meglio, vedremo. Si misero in marcia, i tre sciatori in testa e gli altri dietro. La neve era profonda e farinosa, e il peso dei tre non era sufficiente per consolidare il fondo; i dieci appiedati avanzavano con fatica, sprofondando a ogni passo e rallentando la marcia. Il più lento era Dov; non si lamentava, ma era visibilmente in difficoltà. Piotr gli cedette i suoi bastoncini, che tuttavia non gli furono di grande aiuto: ansimava, era pallido ed imperlato di sudore, e doveva fermarsi spesso. Piotr, che apriva la fila, si voltava a tratti a guardare ed era inquieto: il terreno era aperto, senza alberi né ripari; alle paludi gelate si alternavano lievi ondulazioni brulle, e dall' alto di queste, volgendosi indietro, si vedeva la loro traccia, profonda come un crepaccio e diritta come un meridiano. Al termine della traccia c' erano loro, tredici formiche: se fosse arrivato un ricognitore tedesco non ci sarebbe stato scampo. Era fortuna che il cielo rimanesse coperto, ma non lo sarebbe rimasto a lungo. Piotr annusava l' aria come un segugio: tirava un leggero vento dal nord; a lungo andare avrebbe sollevato la neve e cancellato la traccia, ma il cielo si sarebbe rasserenato prima. Aveva fretta di raggiungere il campo. Uscì di pista e si lasciò sorpassare. Quando si trovò affiancato a Dov, gli disse: _ Sei stanco, zio: sia detto senza offesa. Vieni qui, monta sulle mie code e tieniti abbracciato a me; farai meno fatica _. Dov obbedì senza parlare, e la coppia riprese la posizione di testa. Fu un vantaggio per tutti: sotto il doppio peso la neve si costipava meglio, e gli appiedati non sprofondavano quasi più. Line, la più leggera di tutti, portava un paio di scarponi militari fuori misura, e galleggiava sulla neve come se avesse calzato le racchette; Leonid non si staccava da lei di un palmo. Camminarono fino a notte, pernottarono in un bivacco noto a Piotr e ripresero la marcia il mattino dopo. Arrivarono in vista del campo più presto del previsto, a metà pomeriggio, sotto un sole vivido, innaturalmente caldo. "In vista", beninteso, solo per chi sapesse dove e come il campo era situato. Piotr mostrò loro, a sud-ovest, un vasto settore di foresta che, come un orizzonte tracciato con un pennello sottile, separava il bianco della neve dall' azzurro del cielo invernale. Lì, da qualche parte in mezzo agli alberi, stava il campo della banda di Ulybin; ci sarebbero arrivati a notte, ma non in linea retta. Era un' esperienza che avevano pagata a caro prezzo: mai lasciare piste troppo leggibili con tempo chiaro e senza vento. Bisognava fare qualche deviazione; avrebbero ripreso la direzione giusta al riparo degli alberi. Agli ex-cittadini delle paludi sembrava di sognare. Novoselki era stata una salvezza precaria e una intelligente improvvisazione: il campo in cui entravano era opera professionale, consolidata dall' esperienza di tre anni. Mendel e Leonid poterono confrontare la solidità organizzativa della banda di Ulybin con le iniziative baldanzose e velleitarie della banda vagante di Venjamìn. Trovarono nel folto del bosco, appena visibile ad un occhio disattento, un gruppo di tre baracche di legno, quasi totalmente interrate, disposte lungo i lati di un triangolo equilatero. Al centro del triangolo, altrettanto poco visibili, erano la cucina e il pozzo. Il camino che disperdeva il fumo nell' intrico dei rami non era stata un' invenzione di Novoselki: altrettanto era stato qui, quando i tempi sono maturi certi ritrovati germogliano in vari luoghi, e ci sono circostanze in cui i problemi non hanno che una sola soluzione. A Novoselki Dov aveva scherzato sulla professione di Leonid: a lui non occorreva un contabile. A Turov ne trovarono uno, o per meglio dire un furiere nel pieno esercizio delle sue funzioni. Era allo stesso tempo rappresentante dell' NKVD e commissario politico, e si occupò di loro con efficienza sbrigativa. Nome, patronimico, corpo di appartenenza per i militari, età, professione, registrazione dei documenti (ma pochi fra loro avevano documenti); poi a letto, il resto all' indomani mattina. A letto, sì: all' interno di ogni baracca c' era una stufa e un tavolo coperto di paglia pulita, e l' aria era asciutta e calda, benché il pavimento fosse a quasi due metri sotto il livello del suolo. Mendel si addormentò in una girandola di impressioni confuse: si sentiva esausto, dislocato e insieme protetto, meno padre e più figlio, più sicuro e meno libero, a casa e in caserma; ma venne subito il sonno, come una caritatevole mazzata sul capo. Il mattino dopo, il campo offrì ai rifugiati nulla meno che un bagno caldo, decorosamente separato per le donne e per gli uomini, in una tinozza collocata nel locale delle cucine. Seguì la spidocchiatura, o meglio un invito ad un autocontrollo coscienzioso, e la distribuzione di biancheria, ruvida e non nuova ma pulita. Infine, una portentosa kasa sostanziosa e calda, consumata in comune con veri cucchiai in veri piatti d' alluminio, e seguita da un tè abbondante e dolce. Si annunciava una giornata tranquilla, con un' aria singolarmente mite per quella stagione: nelle zone esposte al sole la neve accennava a sciogliersi, il che destò una certa inquietudine. _ Per noi va bene il gelo, disse a Mendel Piotr, che faceva gli onori di casa; _ col disgelo, se non si sta attenti, ci troviamo le baracche inondate e anneghiamo nel fango _. Illustrò loro con fierezza l' impianto elettrico. Un meccanico di talento aveva adattato la coppia conica di un vecchio mulino alla scatola del cambio di un autocarro tedesco: un cavallo bendato girava lentamente in tondo ed attraverso il sistema di ingranaggi azionava una dinamo che caricava un gruppo di batterie. Dalle batterie, quando tutto andava bene, veniva la luce elettrica e l' energia per la ricetrasmittente. _ Al posto del cavallo, in autunno abbiamo messo quattro prigionieri ungheresi, per sette giorni. _ E poi li avete uccisi? _ chiese Mendel. _ Noi uccidiamo solo i tedeschi, e neanche sempre. Non siamo come loro; uccidere non ci piace. Bendati come erano, li abbiamo portati di là dal fiume e abbiamo lasciato che andassero dove volevano. Avevano un po' di capogiro. Piotr li ammonì di non tentare di uscire dal campo, anzi, di non allontanarsi dalle baracche per più di una trentina di metri. _ Tutto intorno, il bosco è minato. Ci sono mine sepolte sotto tre dita di terra, e ci sono mine a coppia, collegate con uno spago teso sotto la neve. Abbiamo fatto un buon lavoro: piano piano, notte per notte, abbiamo sminato tutto un campo tedesco, abbiamo recuperato le mine e le abbiamo piazzate qui. Non abbiamo perso neanche un uomo, e dopo di allora i tedeschi ci hanno lasciati in pace. Ma noi non lasciamo tanto in pace loro. Piotr si mostrava attirato e incuriosito dal gruppo dei dieci che aveva trovati nell' isba e rischiato di uccidere; era particolarmente amichevole con Mendel. Gli fece vedere un lavoretto, un' idea che aveva concepita e realizzata Michaìl, il radiotelegrafista, senza l' aiuto di nessuno. In un angolo della sua baracca c' era una vetusta macchina tipografica a pedale, con un piccolo corredo di caratteri cirillici e latini. Michaìl non era tipografo, ma si era arrangiato. Aveva composto un manifesto di propaganda bilingue, su due pagine affiancate, in tutto simile a quelli di cui i tedeschi avevano inondato tutte le città e i villaggi della Russia occupata. Il testo tedesco era copiato dai manifesti tedeschi originali: prometteva il ripristino della proprietà privata e la riapertura delle chiese, invitava i giovani ad arruolarsi nell' Organizzazione del Lavoro e minacciava gravi pene contro i partigiani e i sabotatori. Il testo russo che gli stava a fronte non era la traduzione del testo tedesco, anzi, lo capovolgeva. Diceva: Giovani Sovietici! Non credete ai tedeschi, che hanno invaso la nostra patria e massacrano le nostre popolazioni. Non lavorate per loro; se andrete in Germania patirete la fame e la frusta, e vi segneranno come le bestie; quando tornerete (se tornerete!) dovrete fare i conti con la giustizia socialista. Non un uomo, non un chilo di grano, non una informazione ai boia hitleriani! Venite con noi, arruolatevi nell' Armata Partigiana! In entrambe le versioni c' erano diversi errori di ortografia, ma non erano colpa del radiotelegrafista: nella cassetta le a e le e erano scarse, e allora lui aveva messo giù i caratteri che gli erano sembrati più adatti. Ne aveva tirate diverse centinaia di copie, che erano state distribuite e affisse fino a Baranovici, a Rovno e a Minsk. C' erano parecchie armi leggere da riparare e lubrificare: a Turov Mendel trovò subito il suo lavoro. Nelle ore in cui era libero da incombenze, Piotr non si staccava da lui. _ Siete ebrei tutti e dieci? _ No, solo sei: io, le due donne, il giovane che sta sempre con la ragazza piccola, quello anziano che tu hai portato sulle code, e Pavel Jurevic, il più robusto di tutti. Gli altri quattro sono degli sbandati che ci hanno raggiunti poco prima che i tedeschi distruggessero il nostro campo. _ Perché i tedeschi vi vogliono uccidere tutti? _ È difficile da spiegare, _ rispose Mendel. _ Bisognerebbe capire i tedeschi, e io non ci sono mai riuscito. I tedeschi pensano che un ebreo valga meno di un russo e un russo meno di un inglese, e che un tedesco valga più di tutti; pensano anche che quando un uomo vale più di un altro uomo, ha il diritto di farne quello che vuole, anche di farlo schiavo o di ucciderlo. Forse non tutti sono convinti, ma sono queste le cose che gli insegnano a scuola, e sono queste le cose che dice la loro propaganda. _ Io credo che un russo valga più di un cinese, _ disse Piotr meditabondo, _ ma se la Cina non facesse un torto alla Russia, non mi verrebbe in mente di uccidere tutti i cinesi. Mendel disse: _ Io, invece, credo che non abbia molto senso dire che un uomo vale più di un altro. Un uomo può essere più forte di un altro ma meno sapiente. O più istruito ma meno coraggioso. O più generoso ma anche più stupido. Così, il suo valore dipende da quello che ci si aspetta da lui; uno può essere molto bravo nel suo mestiere, e non valere più niente se lo si mette a fare un altro lavoro. _ È proprio come dici tu, _ disse Piotr illuminandosi tutto. _ Io facevo il tesoriere del Komsomol, ma ero distratto, sbagliavo i conti, e tutti mi ridevano dietro e dicevano che ero un buono a nulla. Poi è venuta la guerra, io sono andato subito volontario, e da allora mi pare di valere di più. È strano: uccidere non mi piace, ma sparare sì, e allora succede che anche uccidere non mi fa più molto effetto. In principio era diverso, avevo ritegno, e avevo anche un' idea stupida. Pensavo che i tedeschi, invece di avere una pelle come la nostra, fossero foderati di acciaio, e che le pallottole rimbalzassero. Adesso non più; di tedeschi ne ho già ammazzati parecchi, e ho visto che sono teneri come noi, se non di più. E tu, ebreo: quanti tedeschi hai ammazzati? _ Non lo so, _ rispose Mendel. _ Io ero in artiglieria; sai, non è come con un fucile, si piazza il pezzo, si punta, si spara e non si vede niente; quando va bene, si vede l' esplosione d' arrivo, a cinque o dieci chilometri. Chi lo sa, quanti ne sono morti per mano mia? Forse mille, forse neanche uno. Ti arrivano gli ordini per telefono o per radio, attraverso la cuffia: tre gradi a sinistra, alzo meno un grado, tu obbedisci e tutto finisce lì. È come per gli aerei da bombardamento, o come quando uno versa l' acido in un formicaio per far morire le formiche: muoiono centomila formiche e tu non senti niente, non te ne accorgi neanche. Ma al mio paese i tedeschi hanno fatto scavare una fossa dagli ebrei, e poi li hanno messi in piedi sull' orlo, e li hanno fucilati tutti, anche i bambini, e anche parecchi cristiani che nascondevano gli ebrei, e fra i fucilati c' era mia moglie. E dopo di allora io penso che uccidere sia brutto, ma che di uccidere i tedeschi non ne possiamo fare a meno. Da lontano o da vicino, alla tua maniera o alla nostra. Perché uccidere è il solo linguaggio che capiscono, il solo ragionamento che li fa convinti. Se io sparo a un tedesco, lui è costretto ad ammettere che io ebreo valgo più di lui: è la sua logica, capisci, non la mia. Loro capiscono solo la forza. Certo, convincere uno che muore non serve a molto, ma a lungo andare anche i suoi camerati qualcosa finiscono col capire. I tedeschi hanno cominciato a capire qualche cosa solo dopo Stalingrado. Ecco, per questo è importante che ci siano partigiani ebrei, ed ebrei nell' Armata Rossa. È importante, ma è anche orribile; solo se io uccido un tedesco riuscirò a persuadere gli altri tedeschi che io sono un uomo. Eppure noi abbiamo una legge, che dice "Non uccidere". _ ... Voi però siete strani. Siete gente strana. Una cosa è sparare e un' altra è fare dei ragionamenti. Se uno ragiona troppo finisce che non spara più diritto, e voi ragionate sempre troppo. Forse è per questo che i tedeschi vi ammazzano. Vedi, io per esempio sono nel Komsomol fino da bambino, darei la vita per Stalin come l' ha data mio padre, credo in Cristo salvatore del mondo come ci crede mia madre, mi piace la vodka, mi piacciono le ragazze, mi piace anche sparare, e vivo bene qui nelle pianure a dare la caccia ai fascisti, e non sto tanto a ragionarci sopra. Se una delle mie idee non va d' accordo con un' altra, non me ne importa un accidente. Mendel stava a sentire con le orecchie e con metà del cervello, mentre con l' altra metà e con le mani stava dirugginando con petrolio le viti e le molle di un fucile automatico che aveva smontato. Colse l' occasione di quel momento di confidenza per rivolgere a Piotr una domanda che stava a cuore a lui e a Dov. _ Che cosa ne è del vostro vicecomandante? Non c' era qui con voi Gedale, Gedale Skidler, un ebreo mezzo russo e mezzo polacco che aveva combattuto a Kossovo? Uno alto, col naso a becco e la bocca larga? Piotr tardò a rispondere: guardava in su e si grattava la barba, come per richiamare a mente ricordi svaniti da anni. Poi disse: _ Sì, sì. Gedale, certo. Ma non è mai stato vicecomandante; solo qualche volta dava degli ordini, quando Ulybin era assente. È in missione, Gedale. Tornerà, sì: fra una settimana, o forse fra due o anche tre. O potrebbe anche darsi che sia stato trasferito: nella partisanka, di sicuro non c' è mai niente. "Questo Piotr è più bravo a correre sugli sci che a dire bugie", disse Mendel fra sé. Poi chiese ridendo: _ Era di quelli che ragionano troppo? _ Non è che ragionasse troppo: questo proprio no, non era lì il suo difetto, ma era strano, anche lui. Te l' ho già detto, veramente voi ebrei siete tutti un po' strani, per un verso o per un altro, non sia detto per biasimo. Questo Gedale sparava bene quasi quanto me, non so chi gli avesse insegnato; però faceva poesie, e si portava sempre dietro un violino. _ Componeva canzoni e le suonava sul violino? _ No, le poesie erano una cosa e il violino un' altra. Lo suonava alla sera; ce l' aveva addosso in agosto, quando i tedeschi hanno fatto il grande rastrellamento attorno a Luninets. Siamo riusciti a filtrare fuori dell' accerchiamento, e un cecchino gli ha sparato: la pallottola ha forato il violino da parte a parte, e così ha perso la sua forza e a lui non ha fatto nulla. Lui ha riparato i fori con resina di pino e cerotti dell' infermeria, e da allora il violino se lo è sempre portato addosso. Diceva che suonava meglio di prima, e gli ha perfino attaccato una medaglia di bronzo che avevamo trovato su un ungherese morto. Vedi che era proprio un tipo strano. _ Se fossimo tutti uguali, il mondo sarebbe noioso. Noi abbiamo una benedizione speciale, da rivolgere a Dio quando si vede una persona diversa dalle altre: un nano, un gigante, un negro, un uomo coperto di verruche. Diciamo: "Benedetto sii Tu, Signore Iddio nostro, re dell' Universo, che hai variato l' aspetto delle Tue creature". Se lo si loda per le verruche, a maggior ragione lo si deve lodare per un partigiano che suona il violino. _ Tu hai ragione, e insieme fai venire la rabbia. Anche Gedale era cosi. Voleva sempre dire la sua, e non andava d' accordo con Ulybin, e neanche con Maksìm; Maksìm è il furiere, ossia lo scribacchino, quello che tiene i conti e viene dall' NKVD. Lo hanno mandato qui da Mosca col paracadute, perché tenesse la disciplina: come se la disciplina fosse la faccenda più importante. Del resto, neppure io vado tanto d' accordo con Maksìm. A Mendel premeva battere il ferro finché era caldo. _ Insomma, fra Gedale e il comandante che cosa c' è stato? _ Beh, c' è stato un litigio, all' inizio dell' inverno. Era un pezzo che non andavano d' accordo, Ulybin e Gedale. No, non per via del violino, c' erano dei motivi più seri. Gedale avrebbe voluto andare in giro per i boschi e le paludi e radunare una banda di partigiani ebrei. Ulybin invece diceva che gli ordini di Mosca erano diversi; i combattenti ebrei dovevano essere accettati alla spicciolata, nei reparti russi. La rottura è venuta quando Gedale ha scritto una lettera e l' ha mandata a Novoselki senza il permesso di Ulybin; non so che cosa ci fosse in quella lettera, e non saprei neppure dirti chi dei due avesse ragione. Sta di fatto che Ulybin era arrabbiato, gridava che lo si sentiva per tutto il campo, e batteva i pugni sul tavolo. _ Che cosa gridava? _ Non ho capito bene, _ rispose Piotr facendosi tutto rosso. _ Che cosa gridava? _ insistette Mendel. _ Gridava che nel suo reparto di poeti non voleva più sentirne parlare. _ Non avrà proprio detto "poeti", _ disse Mendel. _ Già. Non ha detto "poeti". _ Piotr tacque un momento, poi aggiunse: _ Ma dimmi: è vero che siete stati voi a crocifiggere Gesù? Nel campo di Turov i profughi di Novoselki trovarono sicurezza ed un certo benessere materiale, ma si sentivano a disagio. I quattro di Ozarici furono inquadrati regolarmente; gli altri sei, le due donne comprese, ricevettero vari incarichi nei servizi. Ulybin, qualche giorno dopo il loro arrivo, li aveva ricevuti con correttezza distaccata, poi non si era più fatto vedere. La temperatura era scesa a poco a poco; verso la metà di gennaio era a -15ä, a fine gennaio arrivò a -30ä. Dal campo partivano piccole pattuglie di sciatori, per spedizioni di approvvigionamento, o per azioni di disturbo e sabotaggio di cui Mendel aveva notizie frammentarie attraverso Piotr. Un giorno Ulybin fece chiedere chi fra loro parlava il tedesco. Tutti e sei gli ebrei lo parlavano, più o meno correttamente, con un accento jiddisch più o meno pronunciato: perché questa richiesta? Di cosa si trattava? Ulybin, per bocca di Maksìm, fece sapere che desiderava parlare con l' uomo che aveva la pronuncia migliore; le donne no, per quella faccenda non servivano. Quella sera, nella baracca ben riscaldata, fu distribuito un rancio speciale. Poco dopo il tramonto era arrivata al campo una slitta, aveva scaricato una cassa ed era subito ripartita; a cena, il furiere consegnò ad ognuno una scatoletta di latta di forma inconsueta. Mendel la rigirò fra le mani perplesso: era pesante, non aveva etichetta, e il coperchio, saldato a stagno, era più piccolo del diametro esterno della latta. Vide i commensali che, con la punta del coltello, praticavano due fori nello spazio anulare intorno al coperchio: uno piccolo e uno più grande, nel foro grande versavano un po' d' acqua, e poi lo tappavano con mollica di pane. Sempre più incuriosito, li imitò, e sentì che la scatoletta si scaldava fino a bruciargli la mano, mentre dal foro rimasto aperto usciva l' odore ben noto dell' acetilene. Come gli altri, avvicinò un fiammifero acceso, e in breve la tavola fu circondata da un' allegra corona di fiammelle, come in una fiaba di fate. Dentro la scatoletta c' era carne e piselli; nell' intercapedine c' era carburo, che reagendo con l' acqua scaldava il contenuto. Mentre fuori fischiava la tormenta, e nella luce tremula delle fiammelle, Pavel diede spettacolo. Si mostrava comicamente indignato: _ Ma come? Vi siete dimenticati di me? O fate finta di non saperlo? Ma si capisce, ma certamente, ma ganz bestimmt! Io parlo tedesco come un tedesco, se voglio; meglio di Hitler, che è austriaco. Lo parlo con l' accento di Amburgo, o con quello di Stoccarda, o con quello di Berlino, come desidera il committente. O senza accento, come la radio. Parlo anche russo con accento tedesco, o tedesco con accento russo. Diglielo, al comandante. Digli che sono stato attore e ho girato il mondo. E che sono anche stato annunciatore alla radio, e alla radio ho fatto anche dei numeri comici; a proposito, la sapete la storia di quell' ebreo che mangiava le teste delle aringhe? La raccontò, in russo variegato di ridicole inflessioni jiddisch, poi ne raccontò un' altra e un' altra ancora, attingendo al corpus sterminato dell' autoironia ebraica, surreale e sottile, giusto contrappeso al rituale che è altrettanto surreale e sottile: forse il frutto più raffinato della civiltà che attraverso i secoli si è distillata dal mondo stralunato dell' ebraismo askenazita. I suoi compagni sorridevano imbarazzati, i russi si tenevano la pancia e scoppiavano in risate di tuono. Gli battevano pacche sonore sulla schiena robusta, incitandolo a continuare, ma Pavel non chiedeva altro: da quanti anni non aveva un pubblico? _ ... e la storia dei Jeschiva Bucherim, degli allievi della scuola rabbinica, che erano stati arruolati nell' esercito, non la sapete? Era il tempo degli zar, e allora le scuole rabbiniche erano tante, dalla Lituania fino all' Ucraina. Ci volevano almeno sette anni, per diventare rabbini, e gli studenti erano quasi tutti poveri; ma anche quelli che poveri non erano, erano pallidi e magri, perché un Jeschiva Bucher deve mangiare solo pane condito con sale, bere acqua e dormire sulle panche della scuola, tanto che ancora adesso si dice: "Nebech, poveretto, è magro come un Jeschiva Bucher". Bene: in una scuola rabbinica piombano gli ufficiali di reclutamento, e tutti gli allievi vanno coscritti in fanteria. Passa un mese, e gli istruttori si accorgono che tutti questi ragazzi hanno una mira infallibile: diventano tutti tiratori scelti. Perché? Non ve lo so dire il perché, la storia non lo dice. Forse perché studiare il Talmud aguzza la vista. Viene la guerra, e il reggimento di talmudisti va al fronte, in prima linea. Sono in trincea, con i fucili puntati, ed ecco il nemico che avanza. Il comandante grida "Fuoco!": niente, nessuno spara. Il nemico si fa sempre più vicino. Il comandante urla di nuovo "Fuoco!", e di nuovo nessuno obbedisce: il nemico è ormai a un tiro di sasso. "Fuoco, ho detto, brutti figli di puttana! Perché non sparate?" urla l' ufficiale .... Pavel si interruppe: era entrato Ulybin, si era seduto al tavolo, e subito il mormorio eccitato degli ascoltatori era cessato. Ulybin era sulla trentina, di media statura, muscoloso e bruno: aveva un viso ovale, impassibile, sempre rasato di fresco. _ Beh, perché non vai avanti? Sentiamo come va a finire, _ disse Ulybin. Pavel riprese, con meno sicurezza e meno brio: _ Allora uno degli studenti dice: "Non vede, signor capitano? Non sono sagome di cartone, sono uomini come noi. Se gli sparassimo, gli potremmo fare del male". I partigiani intorno al tavolo abbozzavano dei risolini esitanti, guardando alternativamente Pavel e Ulybin. Ulybin disse: _ Non ho sentito il principio. Chi erano quelli che non volevano sparare? Pavel fece un riassunto abbastanza arruffato dell' inizio della storiella, ed Ulybin chiese con voce gelida: _ E voi, che cosa fareste? Vi fu un breve silenzio, poi si udì la voce sommessa di Mendel: _ Noi non siamo Jeschiva Bucherim. Ulybin non rispose, ma poco dopo chiese a Pavel: _ Sei tu quello che parla tedesco? _ Sono io. _ Domani verrai con me. C' è qualcuno fra voi che sia un po' elettricista? Mendel alzò una mano: _ Al mio paese io riparavo le radio. _ Bene, verrai anche tu. Ulybin fece svegliare Mendel e Pavel alle quattro del mattino seguente, a notte fonda. Mentre facevano un rapido spuntino, spiegò lo scopo della spedizione. Uno dei partigiani, in perlustrazione attraverso il bosco, aveva visto che i tedeschi avevano teso una linea telefonica, fra il villaggio di Turov e la stazione di Zitkovici: non avevano piantato pali, avevano semplicemente inchiodato il filo agli alberi. Il partigiano si era arrampicato su un albero e aveva tagliato il filo. Era poi tornato al campo, fiero della sua iniziativa, e Ulybin gli aveva detto che era un somaro: le comunicazioni telefoniche non si interrompono ma si intercettano. Al campo di Turov c' era un impianto telefonico da campo, mai utilizzato. Era possibile ristabilire la linea, e inserirvisi sopra in modo da sentire quello che i tedeschi si dicevano? Sì, rispose Mendel, era possibile, purché ci fosse un microfono. Bisognava partire subito, disse Ulybin, prima che i tedeschi, accorgendosi che la linea era interrotta, si mettessero in sospetto. Partirono in quattro, Ulybin, Mendel, Pavel e Fedja, il giovane che aveva trovato il filo e lo aveva tagliato. Fedja non aveva ancora diciassette anni, era nato proprio a Turov, a meno di un' ora di cammino dal campo, e conosceva quei boschi fin da quando ci veniva da bambino a cercare nidi. Volava sugli sci, silenzioso e sicuro nel buio come una lince, fermandosi ogni tanto ad aspettare gli altri tre. Ulybin se la cavava abbastanza bene; Mendel arrancava con fatica, poco allenato, ed impacciato dagli attacchi troppo larghi; Pavel calzava gli sci per la prima volta in vita sua, sudava malgrado il freddo acuto, cadeva spesso e bestemmiava sottovoce. Ulybin era impaziente; sarebbe stato prudente riparare la linea prima che facesse giorno. Fortuna che, secondo Fedja, il luogo non era molto distante. Lo raggiunsero dopo un' ora di marcia. Mendel si era portato dietro qualche metro di conduttore; si tolse gli sci, e salendo sulle spalle di Pavel ricongiunse in pochi minuti i due terminali del filo che penzolavano nella neve; ma per eseguire l' operazione aveva dovuto togliersi i guanti, e sentiva che le dita gli si intorpidivano rapidamente per il gelo. Dovette interrompersi e frizionarsi a lungo le mani con la neve, mentre Ulybin spiava il cielo che incominciava a schiarire, e batteva i piedi per il freddo e per l' impazienza. Poi collegò al filo aereo uno dei fili del microfono, scese, piantò a terra un picchetto e vi collegò l' altro filo. Ulybin gli strappò di mano il microfono e lo portò all' orecchio. _ Cosa senti? _ chiese Mendel sottovoce. _ Niente. Solo uno sfrigolio. _ Va bene, _ bisbigliò Mendel. _ È segno che i contatti funzionano. Ulybin porse il microfono a Pavel. _ Stai tu in ascolto, che capisci il tedesco. Se senti parlare, fammi un cenno _. Poi chiese a Mendel: _ Se dovessimo parlare fra noi, ci potrebbero sentire? _ Basterà non parlare troppo forte, e coprire il microfono con il guantone. Ma se occorre si può anche staccare il contatto dal picchetto: si fa in un momento. _ Bene. Aspettiamo fin che sarà giorno, poi ce ne andiamo. Torneremo qui domani sera. Se tu Pavel hai freddo, ti darò il cambio io. Di fatto, si alternarono nell' ascolto tutti e quattro; chi sentiva freddo andava a battere mani e piedi lontano dal microfono. Verso le sette, Fedja ammiccò vivacemente col capo e passò il microfono a Pavel. Ulybin lo trasse in disparte: _ Che cosa hai sentito? _ Ho sentito un tedesco che chiamava "Turov, Turov"; ma da Turov non gli rispondeva nessuno _. In quello stesso momento, Pavel agitò la mano nel guantone e fece più volte di sì col capo: qualcuno aveva risposto. Stette in ascolto per pochi minuti, poi disse: _ Hanno finito. Peccato! _ Che cosa dicevano? _ chiese Ulybin. _ Niente di importante, ma mi divertivo. C' era un tedesco che si lamentava di non aver dormito per i crampi allo stomaco, e chiedeva a un altro tedesco se aveva una certa medicina. Quello con i crampi si chiama Hermann e l' altro Sigi. Sigi non aveva la medicina, sbadigliava, sembrava scocciato, e ha interrotto la comunicazione. Stavo per dirgli che una buona medicina ce l' abbiamo noi: mi avrebbe sentito? _ Non siamo qui per fare scherzi, _ disse Ulybin. Poi aggiunse che, nonostante il rischio, aveva deciso che sarebbero rimasti sul posto ancora per qualche ora: l' occasione era troppo bella. Infatti, poco dopo intercettarono una conversazione più interessante. Questa volta era Sigi che dal posto di Turov chiamava Hermann: annunciava di aver tentato più volte di mettersi in contatto con la guarnigione di Medvedka, ma da Medvedka non rispondeva nessuno. Hermann, ancora sofferente, aveva risposto che i quattro uomini di Medvedka potevano essere andati a spasso; che Sigi non si preoccupasse. Ma Sigi insisteva per chiarire la faccenda: aveva sentito parlare di "Banditen" nei dintorni. Hermann, più elevato in grado, o forse solo più anziano, gli aveva dato un consiglio: prendesse uno dei suoi uomini, lo travestisse da boscaiolo con funi e un' accetta, e lo mandasse da Turov a Medvedka a vedere da vicino che cosa succedeva. _ Quanto è lontana Medvedka? _ domandò Ulybin a Fedja. _ Da qui saranno sei o sette chilometri. _ E quanto c' è da Turov a Medvedka? _ Press' a poco il doppio. _ Quanto è grande Medvedka? _ Medvedka non è un villaggio: è solo una fattoria collettiva. Ci lavoravano una trentina di contadini, ma adesso credo che sia abbandonata. _ Partite voi due, _ disse Ulybin a Fedja e Mendel, _ e riportatemi il boscaiolo vivo. Noi vi aspettiamo qui, o poco lontano. Mendel e Fedja ritornarono verso mezzogiorno portandosi dietro il prigioniero, indenne ma atterrito; gli avevano legato le mani dietro la schiena con filo telefonico. Trovarono Ulybin che trepidava d' impazienza. Sigi aveva richiamato Hermann; era inquieto, il boscaiolo non era ancora ritornato. Hermann aveva brontolato qualcosa a proposito della neve e del bosco, poi aveva detto a Sigi di mandare un altro uomo, vestito da contadino, che prendesse il sentiero lungo il fiume. Per la verosimiglianza, che si portasse dietro due galline. Ulybin disse che Mendel e Fedja dovevano ripartire subito verso l' ansa del fiume e aspettare il contadino. Questa volta l' attesa fu più lunga: i due uomini, il secondo prigioniero e le due galline arrivarono solo al tramonto. I due prigionieri non erano tedeschi, ma ucraini della polizia ausiliaria, e non fu difficile farli parlare. A Turov i tedeschi erano solo sette od otto; erano territoriali non più giovani, con poca voglia di uscire dal paese e nessuna di cacciarsi in qualche avventura con i partigiani. A Zitkovici la situazione era diversa; a ottobre qualcuno aveva sabotato i binari della ferrovia non lontano dalla cittadina, un merci aveva deragliato danneggiando un ponte, e da allora c' era un presidio più consistente ed agguerrito, che teneva sotto controllo la stazione e la strada ferrata. C' era un plotone della Wehrmacht con una piccola armeria, e una ventina di ausiliari ucraini e lituani. C' era anche un deposito di viveri e di foraggio, e un ufficio della Gestapo. Prima di mettersi in via verso il campo, Ulybin decise di mandare un messaggio ai tedeschi. Diede istruzioni a Pavel, che rispose "Lascia fare a me": si mise al microfono e chiamò a intervalli Turov e Zitkovici finché una voce non rispose. Allora Pavel disse: _ Qui parla il colonnello Conte Heinrich von Neudeck und Langenau, comandante del terzo reggimento della tredicesima divisione dell' Armata Rossa, sezione del Fronte Interno e delle Zone Occupate. Voglio parlare con il più elevato in grado del presidio _. Pavel era entusiasta della sua parte. Confitto nella neve fino alle ginocchia, nel bosco ormai buio e spazzato dal vento gelato, con in mano un' assurda cornetta di telefono i cui fili si perdevano nell' intrico dei rami carichi di neve, aveva sfoderato un tedesco autoritario e roboante, marziale e gutturale, con le r e le ch che risuonavano rotonde nel fondo della gola: lodò mentalmente se stesso, bravo Pavel Jurevic, perbacco, sei più prussiano di un prussiano! Gli rispose una voce spaventata e perplessa che chiedeva spiegazioni: veniva dal presidio di Davìd-Gorodòk. _ Niente spiegazioni, _ rispose Pavel con voce di tuono, _ nessuna obiezione. Attaccheremo domani il vostro posto con cinquecento uomini: vi diamo quattro ore per evacuare, voi e i vostri tirapiedi traditori. Non ne deve rimanere uno: impiccheremo tutti quelli che troveremo sul posto. Chiudo _. A un cenno di Ulybin, Mendel strappò le connessioni, e i quattro con i due prigionieri si misero in marcia verso il campo. Perfino il tetro Ulybin, così avaro di parole e in specie di lodi, non poteva reprimere un asciutto sorriso asimmetrico, che non saliva fino agli occhi, ma gli torceva le labbra pallide per il freddo. Senza rivolgersi a nessuno in particolare, come se avesse pensato ad alta voce, disse: _ Bene. Stasera alla Gestapo avranno di che discutere. Telefoneranno a Berlino per appurare chi è il conte disertore _. Mendel chiese a Pavel: _ È stata tua l' idea del colonnello? _ No, il colonnello era di Ulybin, ma il conte era mio. E non gli ho trovato un bel nome? _ Molto bello. Com' era? _ Eh, come vuoi che mi ricordi? Se vuoi, te ne trovo un altro. Ulybin, senza curarsi della presenza dei prigionieri, disse: _ Non attaccheremo Davìd-Gorodòk con cinquecento uomini. Attaccheremo Zitkovici con cinquanta uomini. Non credo che i tedeschi l' abbiano bevuta, ma nel dubbio manderanno rinforzi da Zitkovici a Davìd-Gorodòk, e noi troveremo meno resistenza. Era ormai notte fatta; Ulybin trasse dallo zaino una torcia elettrica e la legò alla canna del mitragliatore, ma la lasciò spenta. Si misero in marcia, Fedja in testa, sugli sci, poi i due ucraini, e in coda, nell' ordine, Pavel, Mendel e Ulybin. Mentre attraversavano un tratto di bosco fitto, l' ucraino vestito da boscaiolo uscì di scatto dalla pista e si diede alla fuga sulla sinistra, arrancando nella neve profonda e cercando di defilarsi dietro ai tronchi. Ulybin accese la torcia, puntò lo stretto cono di luce sul fuggitivo e sparò un colpo singolo. L' ucraino si piegò in avanti, fece ancora qualche passo, poi cadde sulle mani; in quella posizione, a quattro zampe come un animale, avanzò ancora per diversi metri, scavando nella neve un cunicolo chiazzato di sangue, poi si fermò. Gli altri lo raggiunsero: era ferito a una tibia, pareva che la pallottola avesse trapassato la gamba spezzando l' osso. Ulybin porse il fucile a Mendel, senza dire parola. _ Vuoi che io ...? _ balbettò Mendel. _ Avanti, Jeschiva Bucher, _ disse Ulybin. _ Camminare non può, e se lo trovano parla. Una spia non cambia: spia resta. Mendel si sentì invadere la bocca di saliva amara. Arretrò di due passi, mirò accuratamente e sparò. _ Andiamo, _ disse Ulybin, _ a questo qui ci penseranno le volpi _. Poi si volse nuovamente a Mendel, illuminandolo con la torcia: _ È la prima volta? Non badarci: poi diventa facile.

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Il sistema periodico

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Levi, Primo 1 occorrenze

, che possono essere generosi e farti trovare il tesoro sotto la punta del piccone, o ingannarti, abbagliarti, facendo rilucere come l' oro la modesta pirite, o travestendo lo zinco con i panni dello stagno: e infatti, sono molti i minerali i cui nomi contengono radici che significano "inganno, frode, abbagliamento". Anche quella miniera aveva una sua magia, un suo incanto selvaggio. In una collina tozza e brulla, tutta scheggioni e sterpi, si affondava una ciclopica voragine conica, un cratere artificiale, del diametro di quattrocento metri: era in tutto simile alle rappresentazioni schematiche dell' Inferno, nelle tavole sinottiche della Divina Commedia. Lungo i gironi, giorno per giorno, si facevano esplodere le volate delle mine: la pendenza delle pareti del cono era la minima indispensabile perché il materiale smosso rotolasse fino al fondo, ma senza acquistare troppo impeto. Al fondo, al posto di Lucifero, stava una poderosa chiusura a saracinesca: sotto a questa, era un breve pozzo verticale che immetteva in una lunga galleria orizzontale; questa, a sua volta, sboccava all' aria libera sul fianco della collina, a monte dello stabilimento. Nella galleria faceva la spola un treno blindato: una locomotiva piccola ma potente presentava i vagoni uno per uno sotto la saracinesca affinché si riempissero, poi li trascinava a riveder le stelle. Lo stabilimento era costruito in cascata, lungo il pendìo della collina e sotto l' apertura della galleria: in esso il minerale veniva frantumato in un mostruoso frantoio, che il Direttore mi illustrò e mostrò con entusiasmo quasi infantile: era una campana capovolta, o se vogliamo una corolla di convolvolo, del diametro di quattro metri e di acciaio massiccio: al centro, sospeso dal di sopra e guidato dal di sotto, oscillava un gigantesco batacchio. L' oscillazione era minima, appena visibile, ma bastava per fendere in un batter d' occhio i macigni che piovevano dal treno: si spaccavano, si incastravano più in basso, si spaccavano nuovamente, ed uscivano dal di sotto in frammenti grossi come la testa di un uomo. L' operazione procedeva in mezzo ad un fracasso da apocalissi, in una nube di polvere che si vedeva fin dalla pianura. Il materiale veniva poi ulteriormente macinato fino a ghiaia, essiccato, selezionato: e ci volle assai poco per appurare che scopo ultimo di quel lavoro da ciclopi era strappare alla roccia un misero 2 per cento d' amianto che vi era intrappolato. Il resto, migliaia di tonnellate al giorno, veniva scaricato a valle alla rinfusa. Anno dopo anno, la valle si andava riempiendo di una lenta valanga di polvere e ghiaia. L' amianto che ancora vi era contenuto rendeva la massa leggermente scorrevole, pigramente pastosa, come un ghiacciaio: l' enorme lingua grigia, punteggiata di macigni nerastri, incedeva verso il basso laboriosamente, ponderosamente, di qualche decina di metri all' anno; esercitava sulle pareti della valle una pressione tale da provocare profonde crepe trasversali nella roccia; spostava di centimetri all' anno alcuni edifici costruiti troppo in basso. In uno di questi, detto "il sottomarino" appunto per la sua silenziosa deriva, abitavo io. C' era amianto dappertutto, come una neve cenerina: se si lasciava per qualche ora un libro su di un tavolo, e poi lo si toglieva, se ne trovava il profilo in negativo; i tetti erano coperti da uno spesso strato di polverino, che nei giorni di pioggia si imbeveva come una spugna, e ad un tratto franava violentemente a terra. Il capocava, che si chiamava Anteo, ed era un gigante obeso dalla folta barba nera che sembrava proprio traesse dalla madre terra il suo vigore, mi raccontò che, anni prima, una pioggia insistente aveva dilavato molte tonnellate d' amianto dalle pareti stesse della cava; l' amianto si era accumulato sul fondo del cono, sopra la valvola aperta, costipandosi segretamente in un tappo. Nessuno aveva dato peso alla cosa; ma aveva continuato a piovere, il cono aveva funzionato da imbuto, sul tappo si era formato un lago di ventimila metri cubi d' acqua, e ancora nessuno aveva dato peso alla cosa. Lui Anteo la vedeva brutta, ed aveva insistito presso il direttore di allora perché provvedesse in qualche modo: da buon capocava, lui propendeva per una bella mina sommersa, da far brillare senza perdere tempo sul fondo del lago; ma un po' di questo, un po' di quello, poteva essere pericoloso, si poteva danneggiare la valvola, bisognava sentire il consiglio d' amministrazione, nessuno voleva decidere, e decise la cava stessa, col suo genio maligno. Mentre i savi deliberavano, si era udito un boato sordo: il tappo aveva ceduto, l' acqua si era inabissata nel pozzo e nella galleria, aveva spazzato via il treno con tutti i suoi vagoni, ed aveva devastato lo stabilimento. Anteo mi mostrò i segni dell' alluvione, due metri buoni al di sopra del piano inclinato. Gli operai ed i minatori (che nel gergo locale si chiamavano "i minori") venivano dai paesi vicini, facendosi magari due ore di sentieri di montagna: gli impiegati abitavano sul posto. La pianura era a soli cinque chilometri, ma la miniera era a tutti gli effetti una piccola repubblica autonoma. In quel tempo di razionamento e di mercato nero, non c' erano lassù problemi annonari: non si sapeva come, ma tutti avevano di tutto. Molti impiegati avevano un loro orto, attorno alla palazzina quadrata degli uffici; alcuni avevano anche un pollaio. Era successo varie volte che le galline dell' uno sconfinassero nell' orto dell' altro, danneggiandolo, e ne erano nate noiose controversie e faide, che male si confacevano alla serenità del luogo ed all' indole sbrigativa del Direttore. Questi aveva troncato il nodo da par suo: aveva fatto comprare un fucile Flobert, e lo aveva appeso a un chiodo nel suo ufficio. Chiunque vedesse dalla finestra una gallina straniera razzolare nel proprio orto aveva il diritto di prendere il fucile e di spararle due volte: ma occorreva la flagranza. Se la gallina moriva sul terreno, il cadavere apparteneva allo sparatore: questa era la legge. Nei primi giorni dopo il provvedimento si era assistito a molte rapide corse al fucile e sparatorie, mentre tutti i non interessati facevano scommesse, ma poi non c' erano più stati sconfinamenti. Altre storie meravigliose mi vennero raccontate, come quella del cane del Signor Pistamiglio. Questo Signor Pistamiglio, al mio tempo, era ormai sparito da anni, ma sempre viva era la sua memoria, e, come avviene, si andava ricoprendo di una patina dorata di leggenda. Il Signor Pistamiglio era dunque un ottimo caporeparto, non più giovane, scapolo, pieno di buon senso, stimato da tutti, ed il suo cane era un bellissimo lupo, altrettanto probo e stimato. Era venuto un certo Natale, ed erano spariti quattro dei tacchini più grassi nel paese giù a valle. Pazienza: si era pensato ai ladri, alla volpe, poi più a niente. Ma venne un altro inverno, e questa volta di tacchini ne erano spariti sette, fra novembre e dicembre. Era stata fatta denuncia ai carabinieri, ma nessuno avrebbe mai chiarito il mistero se non si fosse lasciata scappare una parola di troppo il Signor Pistamiglio medesimo, una sera che era un po' bevuto. I ladri di tacchini erano loro due, lui e il cane. Alla domenica lui portava il cane in paese, girava per le cascine e gli faceva vedere quali erano i tacchini più belli e meno custoditi; gli spiegava caso per caso la strategia migliore; poi tornavano alla miniera, e lui di notte gli dava la larga, e il cane arrivava invisibile, strisciando lungo i muri come un vero lupo, saltava il recinto del pollaio oppure scavava un passaggio sotto, accoppava in silenzio il tacchino e lo riportava al suo complice. Non risulta che il Signor Pistamiglio vendesse i tacchini: secondo la versione più accreditata, li regalava alle sue amanti, che erano numerose, brutte, vecchie, e sparse in tutte le Prealpi piemontesi. Mi vennero raccontate moltissime storie: a quanto pareva, tutti i cinquanta abitatori della miniera avevano reagito fra loro, a due a due, come nel calcolo combinatorio; voglio dire, ognuno con tutti gli altri, ed in specie ogni uomo con tutte le donne, zitelle o maritate, ed ogni donna con tutti gli uomini. Bastava scegliere due nomi a caso, meglio se di sesso diverso, e chiedere a un terzo: "Che c' è stato fra loro?", ed ecco, mi veniva dipanata una splendida storia, poiché ognuno conosceva la storia di tutti. Non è chiaro perché queste vicende, spesso intricate e sempre intime, le raccontassero con tanta facilità proprio a me, che invece non potevo raccontare nulla a nessuno, neppure il mio vero nome; ma pare che questo sia il mio pianeta (e non me ne lamento affatto): io sono uno a cui molte cose vengono raccontate. Registrai, in diverse varianti, una saga remota, risalente ad un' epoca ancora di molto anteriore allo stesso Signor Pistamiglio: c' era stato un tempo in cui, negli uffici della miniera, era prevalso un regime da Gomorra. In quella leggendaria stagione, ogni sera, quando suonava la sirena delle cinque e mezza, nessuno degli impiegati andava a casa. A quel segnale, di fra le scrivanie scaturivano liquori e materassi, e si scatenava un' orgia che avvolgeva tutto e tutti, giovani dattilografe implumi e contabili stempiati, dal direttore di allora giù giù fino agli uscieri invalidi civili: il triste rondò delle scartoffie minerarie cedeva il campo ad un tratto, ogni sera, ad una sterminata fornicazione interclassista, pubblica e variamente intrecciata. Nessun superstite era sopravvissuto fino al nostro tempo, a portare testimonianza diretta: una sequenza di bilanci disastrosi aveva costretto l' Amministrazione di Milano ad un intervento drastico e purificatore. Nessuno, salvo la Signora Bortolasso, che, mi si assicurò, sapeva tutto, aveva visto tutto, ma non parlava per la sua pudicizia estrema. La Signora Bortolasso, del resto, non parlava mai con nessuno, salvo che per strette necessità di lavoro. Prima di chiamarsi così, si era chiamata la Gina delle Benne: a diciannove anni, già dattilografa negli uffici, si era innamorata di un giovane minatore smilzo e fulvo, che, senza ricambiarlo propriamente, mostrava tuttavia di accettare questo amore; ma "i suoi di lei" erano stati irremovibili. Avevano speso soldi per i suoi studi, e lei doveva mostrare gratitudine, fare un buon matrimonio, e non mettersi col primo venuto; ed anzi, poiché la ragazza queste cose non le intendeva, ci avrebbero pensato loro; che la piantasse col suo pelo rosso, oppure via di casa e via dalla miniera. La Gina si era disposta ad aspettare i ventun anni (non gliene mancavano che due): ma il rosso non aspettò lei. Si fece vedere di domenica con un' altra donna, poi con una terza, e finì con lo sposarne una quarta. La Gina prese allora una decisione crudele: se non aveva potuto legare a sé l' uomo di cui le importava, l' unico, ebbene, non sarebbe stata di nessun altro. Monaca no, era di idee moderne: ma si sarebbe vietato per sempre il matrimonio in un modo raffinato e spietato, e cioè sposandosi. Era ormai un' impiegata di concetto, necessaria all' Amministrazione dotata di una memoria di ferro e di una diligenza proverbiale: fece sapere a tutti, ai genitori ed ai superiori, che intendeva sposare Bortolasso, lo scemo della miniera. Questo Bortolasso era un manovale di mezza età, forte come un mulo e sporco come un verro. Non doveva essere uno scemo puro: è più probabile che appartenesse a quel tipo umano di cui si dice in Piemonte che fanno i folli per non pagare il sale; al riparo dietro l' immunità che si concede ai deboli di mente, Bortolasso esercitava con negligenza estrema la funzione di giardiniere. Con una negligenza tale da sconfinare in un' astuzia rudimentale: sta bene, il mondo lo aveva dichiarato irresponsabile, ed ora doveva sopportarlo portarlo come tale, anzi mantenerlo ed avere cura di lui. L' amianto bagnato dalla pioggia si estrae male, perciò il pluviometro, alla miniera, era molto importante: stava in mezzo ad un' aiuola, ed il Direttore stesso ne rilevava le indicazioni. Bortolasso, che ogni mattina innaffiava le aiuole, prese l' abitudine di innaffiare anche il pluviometro, inquinando severamente i dati dei costi d' estrazione; il Direttore (non subito) se ne accorse, e gli impose di smetterla. "Allora gli piace asciutto", ragionò Bortolasso: e dopo ogni pioggia andava ad aprire la valvola di fondo dello strumento. Al tempo del mio arrivo la situazione si era stabilizzata da un pezzo. La Gina, ormai Signora Bortolasso, era sui trentacinque anni: la modesta bellezza del suo viso si era irrigidita e fissata in una maschera tesa e pronta, e recava manifesto lo stigma della verginità protratta. Perché vergine era rimasta: tutti lo sapevano perché Bortolasso lo raccontava a tutti. Questi erano stati i patti, al tempo del matrimonio; lui li aveva accettati, anche se poi, quasi tutte le notti, aveva cercato di violare il letto della donna. Ma lei si era difesa furiosamente, ed ancora si difendeva: mai e poi mai un uomo, e meno che tutti quello, avrebbe potuto toccarla. Queste battaglie notturne fra i tristi coniugi erano diventate la favola della miniera, ed una delle sue poche attrazioni. In una delle prime notti tiepide, un gruppo di aficionados mi invitarono ad andare con loro per sentire che cosa capitava. Io rifiutai, e loro tornarono delusi poco dopo: si udiva solo un trombone che suonava Faccetta Nera. Mi spiegarono che qualche volta succedeva; lui era uno scemo musicale, e si sfogava così. Del mio lavoro mi innamorai fin dal primo giorno, benché non si trattasse d' altro, in quella fase, che di analisi quantitative su campioni di roccia: attacco con acido fluoridrico, giù il ferro con ammoniaca, giù il nichel (quanto poco! un pizzico di sedimento rosa) con dimetilgliossima, giù il magnesio con fosfato, sempre uguale, tutti i santi giorni: in sé, non era molto stimolante. Ma stimolante e nuova era un' altra sensazione: il campione da analizzare non era più un' anonima polverina manufatta, un quiz materializzato; era un pezzo di roccia, viscera della terra, strappata alla terra per forza di mine: e sui dati delle analisi giornaliere nasceva a poco a poco una mappa, il ritratto delle vene sotterranee. Per la prima volta dopo diciassette anni di carriera scolastica, di aoristi e di guerre del Peloponneso, le cose imparate incominciavano dunque a servirmi. L' analisi quantitativa, così avara di emozioni, greve come il granito, diventava viva, vera, utile, inserita in un' opera seria e concreta. Serviva: era inquadrata in un piano, una tessera di un mosaico. Il metodo analitico che seguivo non era più un dogma libresco, veniva ricollaudato ogni giorno, poteva essere affinato, reso conforme ai nostri scopi, con un gioco sottile di ragione, di prove e di errori. Sbagliare non era più un infortunio vagamente comico, che ti guasta un esame o ti abbassa il voto: sbagliare era come quando si va su roccia, un misurarsi, un accorgersi, uno scalino in su, che ti rende più valente e più adatto. La ragazza del laboratorio si chiamava Alida. Assisteva ai miei entusiasmi di neofita senza condividerli; ne era anzi sorpresa e un po' urtata. La sua presenza non era sgradevole. Veniva dal liceo, citava Pindaro e Saffo, era figlia di un gerarchetto locale del tutto innocuo, era furba ed infingarda, e non le importava nulla di nulla, e meno che mai dell' analisi della roccia, che dal Tenente aveva imparato meccanicamente ad eseguire. Anche lei, come tutti lassù, aveva interagito con varie persone, e non ne faceva alcun mistero con me, grazie a quella mia curiosa virtù confessoria a cui ho accennato prima. Aveva litigato con molte donne per vaghe rivalità, si era innamorata un poco di molti, molto di uno, ed era fidanzata di un altro ancora, un brav' uomo grigio e dimesso, impiegato all' Ufficio Tecnico, suo compaesano, che i suoi avevano scelto per lei; anche di questo non le importava nulla. Che farci? Ribellarsi? Andarsene? No, era una ragazza di buona famiglia, il suo avvenire erano i figli e i fornelli, Saffo e Pindaro cose del passato, il nichel un astruso riempitivo. Lavoricchiava in laboratorio in attesa di quelle nozze così poco agognate, lavava svogliatamente i precipitati, pesava la nichel-dimetilgliossima, e mi ci volle impegno per farla persuasa che non era opportuno maggiorare il risultato delle analisi: cosa che lei tendeva a fare, anzi mi confessò di aver fatto sovente, perché, diceva, tanto non costava niente a nessuno, e faceva piacere al Direttore, al Tenente e a me. Che cos' era poi, alla fine dei conti, quella chimica su cui il Tenente ed io ci arrovellavamo? Acqua e fuoco, nient' altro, come in cucina. Una cucina meno appetitosa, ecco: con odori penetranti o disgustosi invece di quelli domestici; se no, anche lì il grembiulone, mescolare, scottarsi le mani, rigovernare alla fine della giornata. Niente scampo per Alida. Ascoltava con devozione compunta, ed insieme con scetticismo italiano, i miei resoconti di vita torinese: erano resoconti assai censurati, perché sia lei, sia io, dovevamo pure stare al gioco del mio anonimato, tuttavia qualcosa non poteva non emergere: se non altro, dalle mie stesse reticenze. Dopo qualche settimana mi accorsi che non ero più un senza nome: ero un Dott. Levi che non doveva essere chiamato Levi, né alla seconda né alla terza persona, per buona creanza, per non far nascere imbrogli. Nell' atmosfera pettegola e tollerante delle Cave, lo sfasamento fra la mia indeterminata condizione di fuoricasta e la mia visibile mitezza di costumi saltava agli occhi, e, mi confessò Alida, veniva lungamente commentata e variamente interpretata: dall' agente dell' Ovra al raccomandato d' alto livello. Scendere a valle era scomodo, e per me anche poco prudente; poiché non potevo frequentare nessuno, le mie sere alle Cave erano interminabili. Qualche volta mi fermavo in laboratorio oltre l' ora della sirena, o ci ritornavo dopo cena a studiare, o a meditare sul problema del nichel; altre volte mi chiudevo a leggere le Storie di Giacobbe nella mia cameretta monastica del Sottomarino. Nelle sere di luna facevo sovente lunghe camminate solitarie attraverso la contrada selvaggia delle Cave, su fino al ciglio del cratere, o a mezza costa sul dorso grigio e rotto della discarica, corso da misteriosi brividi e scricchiolii, come se veramente ci si annidassero gli gnomi indaffarati: il buio era punteggiato da lontani ululati di cani nel fondo invisibile della valle. Questi vagabondaggi mi concedevano una tregua alla consapevolezza funesta di mio padre morente a Torino, degli americani disfatti a Bataan, dei tedeschi vincitori in Crimea, ed insomma della trappola aperta, che stava per scattare: facevano nascere in me un legame nuovo, più sincero della retorica della natura imparata a scuola, con quei rovi e quelle pietre che erano la mia isola e la mia libertà, una libertà che forse presto avrei perduta. Per quella roccia senza pace provavo un affetto fragile e precario: con essa avevo contratto un duplice legame, prima nelle imprese con Sandro, poi qui, tentandola come chimico per strapparle il tesoro. Da questo amore pietroso, e da queste solitudini d' amianto, in altre di quelle lunghe sere nacquero due racconti di isole e di libertà, i primi che mi venisse in animo di scrivere dopo il tormento dei componimenti in liceo: uno fantasticava di un mio remoto precursore, cacciatore di piombo anziché di nichel; l' altro, ambiguo e mercuriale, lo avevo ricavato da un cenno all' isola di Tristan da Cunha che mi era capitato sott' occhio in quel periodo. Il Tenente, che prestava servizio militare a Torino, saliva alle Cave solo un giorno alla settimana. Controllava il mio lavoro, mi dava indicazioni e consigli per la settimana seguente, e si rivelò un ottimo chimico ed un ricercatore tenace ed acuto. Dopo un breve periodo orientativo, accanto alla routine delle analisi quotidiane si andò delineando un lavoro di volo più alto. Nella roccia delle Cave c' era dunque il nichel: assai poco, dalle nostre analisi risultava un contenuto medio dello 0,2 per cento. Risibile, in confronto ai minerali sfruttati dai miei colleghi-rivali antipodi in Canadà e in Nuova Caledonia. Ma forse il greggio poteva essere arricchito? Sotto la guida del Tenente, provai tutto il provabile: separazioni magnetiche, per flottazione, per levigazione, per stacciatura, con liquidi pesanti, col piano a scosse. Non approdai a nulla: non si concentrava nulla, in tutte le frazioni ottenute la percentuale di nichel rimaneva ostinatamente quella originale. La natura non ci aiutava: concludemmo che il nichel accompagnava il ferro bivalente, lo sostituiva come un vicario, lo seguiva come un' ombra evanescente, un minuscolo fratello: 0,2 per cento di nichel, . per cento di ferro. Tutti i reattivi d' attacco pensabili per il nichel avrebbero dovuto essere impiegati in dose quaranta volte superiore, anche a non tener conto del magnesio. Un' impresa economicamente disperata. Nei momenti di stanchezza, percepivo la roccia che mi circondava, il serpentino verde delle Prealpi, in tutta la sua durezza siderale, nemica, estranea: al confronto, gli alberi della valle, ormai già vestiti di primavera, erano come noi, gente anche loro, che non parla, ma sente il caldo e il gelo, gode e soffre, nasce e muore, spande polline nel vento, segue oscuramente il sole nel suo giro. La pietra no: non accoglie energia in sé, è spenta fin dai primordi, pura passività ostile; una fortezza massiccia che dovevo smantellare bastione dopo bastione per mettere le mani sul folletto nascosto, sul capriccioso nichel-Nicolao che salta ora qui ora là, elusivo e maligno, colle lunghe orecchie tese, sempre attento a fuggire davanti ai colpi del piccone indagatore, per lasciarti con un palmo di naso. Ma non è più tempo di folletti, di niccoli e di coboldi. Siamo chimici, cioè cacciatori: nostre sono "le due esperienze della vita adulta" di cui parlava Pavese, il successo e l' insuccesso, uccidere la balena bianca o sfasciare la nave; non ci si deve arrendere alla materia incomprensibile, non ci si deve sedere. Siamo qui per questo, per sbagliare e correggerci, per incassare colpi e renderli. Non ci si deve mai sentire disarmati: la natura è immensa e complessa, ma non è impermeabile all' intelligenza; devi girarle intorno, pungere, sondare, cercare il varco o fartelo. I miei colloqui settimanali col Tenente sembravano piani di guerra. Fra i molti tentativi che avevamo fatti, c' era anche stato quello di ridurre la roccia con idrogeno. Avevamo disposto il minerale, finemente macinato, in una navicella di porcellana, questa in un tubo di quarzo, e nel tubo, riscaldato dall' esterno, avevamo fatto passare una corrente d' idrogeno, nella speranza che quest' ultimo strappasse l' ossigeno legato al nichel e lo lasciasse ridotto, cioè nudo, allo stato metallico. Il nichel metallico come il ferro, è magnetico, e quindi, in questa ipotesi, sarebbe stato facile separarlo dal resto, solo o col ferro, semplicemente per mezzo di una calamita. Ma, dopo il trattamento, avevamo dibattuto invano una potente calamita nella sospensione acquosa della nostra polvere: non ne avevamo ricavato che una traccia di ferro. Chiaro e triste: l' idrogeno, in quelle condizioni, non riduceva nulla; il nichel, insieme col ferro, doveva essere incastrato stabilmente nella struttura del serpentino, ben legato alla silice ed all' acqua, contento (per così dire) del suo stato ed alieno dall' assumerne un altro. Ma se si provasse a sgangherare quella struttura? L' idea mi venne come si accende una lampada, un giorno in cui mi capitò casualmente fra le mani un vecchio diagramma tutto impolverato, opera di qualche mio ignoto predecessore; riportava la perdita di peso dell' amianto delle Cave in funzione della temperatura. L' amianto perdeva un po' d' acqua a 150äC, poi rimaneva apparentemente inalterato fin verso gli .00ä+; qui si notava un brusco scalino con un calo di peso del 12 per cento, e l' autore aveva annotato: "diventa fragile". Ora, il serpentino è il padre dell' amianto: se l' amianto si decompone a .00äC, anche il serpentino dovrebbe farlo; e, poiché un chimico non pensa, anzi non vive, senza modelli, mi attardavo a raffigurarmi, disegnandole sulla carta, le lunghe catene di silicio, ossigeno, ferro e magnesio, col poco nichel intrappolato fra le loro maglie, e poi le stesse dopo lo sconquasso, ridotte a corti mozziconi, col nichel scovato dalla sua tana ed esposto all' attacco; e non mi sentivo molto diverso dal remoto cacciatore di Altamira, che dipingeva l' antilope sulla parete di pietra affinché la caccia dell' indomani fosse fortunata. Le cerimonie propiziatorie non durarono a lungo: il Tenente non c' era, ma poteva arrivare da un' ora all' altra, e temevo che non accettasse, o non accettasse volentieri, quella mia ipotesi di lavoro così poco ortodossa. Me la sentivo prudere su tutta la pelle: capo ha cosa fatta, meglio mettersi subito al lavoro. Non c' è nulla di più vivificante che un' ipotesi. Sotto lo sguardo divertito e scettico di Alida, che, essendo ormai pomeriggio avanzato, guardava ostentatamente l' orologio da polso, mi misi al lavoro come un turbine. In un attimo, l' apparecchio fu montato, il termostato tarato a .00äC, il riduttore di pressione della bombola regolato, il flussimetro messo a posto. Scaldai il materiale per mezz' ora, poi ridussi la temperatura e feci passare idrogeno per un' altra ora: si era ormai fatto buio, la ragazza se n' era andata, tutto era silenzio sullo sfondo del cupo ronzio del Reparto Selezione, che lavorava anche di notte. Mi sentivo un po' cospiratore e un po' alchimista. Quando il tempo fu scaduto, estrassi la navicella dal tubo di quarzo, la lasciai raffreddare nel vuoto, poi dispersi in acqua la polverina, che di verdognola si era fatta giallastra: cosa che mi parve di buon auspicio. Presi la calamita e mi misi al lavoro. Ogni volta che estraevo la calamita dall' acqua, questa si portava dietro un ciuffetto di polvere bruna: la asportavo delicatamente con carta da filtro e la mettevo da parte, forse un milligrammo per volta; perché l' analisi fosse attendibile, ci voleva almeno mezzo grammo di materiale, cioè parecchie ore di lavoro. Decisi di smettere verso mezzanotte; di interrompere la separazione, voglio dire, perché a nessun costo avrei rimandato l' inizio dell' analisi. Per quest' ultima, trattandosi di una frazione magnetica (e quindi presumibilmente povera di silicati) e condiscendendo alla mia fretta, studiai lì per lì una variante semplificata. Alle tre del mattino il risultato c' era: non più la solita nuvoletta rosa di nichel-dimetilgliossima, ma un precipitato visibilmente abbondante. Filtrare, lavare, essiccare, pesare. Il dato finale mi apparve scritto in cifre di fuoco sul regolo calcolatore; 6 per cento di nichel, il resto ferro. Una vittoria: anche senza una ulteriore separazione, una lega da mandare tal quale al forno elettrico. Ritornai al "Sottomarino" che era quasi l' alba, con una voglia acuta di andar subito a svegliare il Direttore, di telefonare al Tenente, e di rotolarmi per i prati bui, fradici di rugiada. Pensavo molte cose insensate, e non pensavo alcune cose tristemente sensate. Pensavo di aver aperto una porta con una chiave, e di possedere la chiave di molte porte, forse di tutte. Pensavo di aver pensato una cosa che nessun altro aveva ancora pensato, neppure in Canadà né in Nuova Caledonia, e mi sentivo invincibile e tabù, anche di fronte ai nemici vicini, ed ogni mese più vicini. Pensavo, infine, di essermi presa una rivincita non ignobile contro chi mi aveva dichiarato biologicamente inferiore. Non pensavo che, se anche il metodo di estrazione che avevo intravvisto avesse potuto trovare applicazione industriale, il nichel prodotto sarebbe finito per intero nelle corazze e nei proiettili dell' Italia fascista e della Germania di Hitler. Non pensavo che, in quegli stessi mesi, erano stati scoperti in Albania giacimenti di un minerale di nichel davanti a cui il nostro poteva andarsi a nascondere, e con lui ogni progetto mio, del Direttore o del Tenente. Non prevedevo che la mia interpretazione della separabilità magnetica del nichel era sostanzialmente sbagliata, come mi dimostrò il Tenente pochi giorni dopo, non appena gli ebbi comunicato i miei risultati. Né prevedevo che il Direttore, dopo aver condiviso per qualche giorno il mio entusiasmo, raffreddò il mio ed il suo quando si dovette rendere conto che non esisteva in commercio alcun selettore magnetico capace di separare un materiale in forma di polvere fine, e che su polveri più grossolane il mio metodo non poteva funzionare. Eppure questa storia non finisce qui. Nonostante i molti anni passati, la liberalizzazione degli scambi ed il ribasso del prezzo internazionale del nichel, la notizia dell' enorme ricchezza che giace in quella valle, sotto forma di detriti accessibili a tutti, accende ancora le fantasie. Non lontano dalle Cave, in cantine, in stalle, al limite fra la chimica e la magia bianca, c' è ancora gente che va di notte alla discarica, ne torna con sacchi di ghiaia grigia, la macina, la cuoce, la tratta con reattivi sempre nuovi. Il fascino della ricchezza sepolta, dei due chili di nobile metallo argenteo legati ai mille chili di sasso sterile che si getta via, non si è ancora estinto. Neppure sono scomparsi i due racconti minerali che allora avevo scritti. Hanno avuto una sorte travagliata quasi quanto la mia: hanno subito bombardamenti e fughe, io li avevo dati perduti, e li ho ritrovati di recente riordinando carte dimenticate da decenni. Non li ho voluti abbandonare: il lettore li troverà qui di seguito, inseriti, come il sogno di evasione di un prigioniero, fra queste storie di chimica militante

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La stampa terza pagina 1986

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Levi, Primo 1 occorrenze

Provai una specie di abbagliamento; a distanza di quasi mezzo secolo, il viso era quello, coincideva perfettamente con quello che io, senza saperlo, recavo stampato nella memoria patologica che serbo di quel periodo: a volte, ma solo per quanto riguarda Auschwitz, mi sento fratello di Ireneo Funes "el memorioso" descritto da Borges, quello che ricordava ogni foglia di ogni albero che avesse visto, e che "aveva più ricordi da solo, di quanti ne avranno avuti tutti gli uomini vissuti da quando esiste il mondo". Non occorrevano altre prove: lo dissi alla nipote, leader della famiglia, ma invece di allentarsi la loro pressione si fece più forte; non parlo per metafore, avrei dovuto intrattenermi anche con altre persone, ma gli Z. mi avevano incapsulato come fanno i leucociti attorno a un germe, mi premevano intorno e mi tempestavano di domande e di informazioni. Alle domande non seppi rispondere, salvo che a una: no, Goldbaum non doveva aver sofferto troppo per la fame; lo attestava il fatto stesso dell' averlo io subito riconosciuto in fotografia. Mancavano dalla mia immagine mentale i segni della fame estrema, inconfondibili e a me noti; il suo mestiere, fino agli ultimi giorni, gli doveva aver risparmiato almeno quella sofferenza. E fu sciolto anche il nodo dell' Olanda. Era una conferma ulteriore: la nipote mi disse che al tempo dell' annessione dell' Austria Gerhard si era rifugiato in Olanda, dove, ormai padrone della lingua, aveva lavorato alla Philips fino all' invasione nazista. Apparteneva alla Resistenza olandese; come me, era stato arrestato come partigiano, e poi riconosciuto come ebreo. L' affettuoso e tumultuoso clan degli Z. venne disperso a fatica da un improvvisato "servizio d' ordine", ma prima di lasciarmi la nipote mi consegnò un involto. Conteneva una sciarpa di lana: la porterò nel prossimo inverno. Per ora, l' ho riposta in un cassetto, provando la sensazione di chi tocchi un oggetto piovuto dal cosmo, come le pietre lunari, o come gli "apporti" vantati dagli spiritisti.

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LEGGENDE NAPOLETANE

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Serao, Matilde 1 occorrenze

E vi è anche l'amore che è un prodigioso abbagliamento, un miraggio fatale, l'acciecamento di colui che, ardito e folle, ha voluto fissare il sole. Era un pescatore abile e fortunato, colui di cui vi narro, e l'intiero suo giorno passava fra l'amo e le reti, lieto quando la pesca era abbondante, incollerito quando la tempesta che intorbida le acque, rendeva inefficace le sue fatiche. Era uomo semplice e buono, silenzioso ed ignorante d'amore: quando un giorno, mentre sedeva a riva ed immergeva l'amo nell'onda, dalle glauche acque, dinanzi a lui sorse una Ninfa marina, dal corpo bianco e provocante, dai lunghi e biondi capelli che il vento sollevava, dallo sguardo verde e terso come il cristallo; ella cantava soavemente e le sue candide dita volavano sulla cetra. Era così lusinghiero, così attraente il suo canto che il povero pescatore sentì struggersi il cuore e non avendo che l'ardente desiderio di raggiungere la sirena e morire in un supremo abbraccio, precipitò nel mare. Tre volte venne a galla, tre volte scomparve nel mare - e lui fortunato se potette con la morte pagare così infinito godimento. Il sito dove egli precipitò fu chiamato Mergellina dal suo nome e dicesi ancora, nelle fosforescenti notti d'estate, vi ricompaia la sirena. V'è poi la pietosa istoria dell'amore felice che è combattuto e vinto dalla morte: una storiella ingenua come tutte le altre. Vi si narra di un ricco signore chiamato Sebeto, che abitava in una campagna presso Napoli, in un palazzo tutto di marmo. Egli per amore aveva menato in moglie una donna chiamata Megera che lo ricambiava con egual tenerezza. Egli teneva cara questa sua moglie sopra tutte le cose e profondeva per lei tutte le sue ricchezze: accadde che in un giorno ella volle andare a diporto sopra una feluca pel golfo di Napoli. Verso la riva Platamonia, dove il mare è sempre tempestoso, mentre i marinari volevano far forza contro il vento, la feluca si capovolse e Megera si annegò diventando uno scoglio. Alla orribile nuova Sebeto sentì spezzarsi il cuore e per molto tempo si sciolse in amarissime lagrime in modo che tutta la sua vita si disfece in acqua, correndo a gettarsi nel mare dove Megera era morta. E tutte le fontane di Napoli sono lagrime: quella di Monteoliveto è formata dalle lagrime di una pia monachella che pianse senza fine sulla Passione di Gesù; quella dei Serpi sono le lagrime di Belloccia, una serva fedele innamorata del suo signore; quella degli Specchi è fatta delle lagrime di Corbussone, cuoco di palazzo e folle di amore per la regina cui cucinava gli intingoli; quella del Leone è il pianto di un principe napoletano, cui unico e buon amico era rimasto un leone che gli morì miseramente; e quella di fontana Medina sono le lagrime di Nettuno, innamorato di una bella statua cui non arrivò a dar vita. Ma la passione è nell'ultima storiella che ascolterete. Vi si parla di un nobile signore, appartenente ad uno dei primi seggi della città, e che s'innamorò perdutamente di una fanciulla di casa nemica; era il cavaliere di carattere violento, di temperamento focoso, pronto al risentimento ed all'ira. Pure, per ottenere la donna che amava, sarebbe diventato umile come un poverello cui manca il pane. Ma l'amore dei due giovani, anziché diminuire e lenire le collere di parte, valse a rinfocolarle - e per preghiere ed intercessioni che venissero fatte, la nobile famiglia Capri non volle accettare il matrimonio. Anzi per trovar rimedio all'amore dei due, fu deciso imbarcare la fanciulla sopra una feluca e mandarla in estranea contrada. Ma essa che si sentiva strappar l'anima, allontanandosi dal suo bene, come fu fuori del porto, inginocchiatasi e pronunciata una breve preghiera, si slanciò nell'onde, donde uscì isola azzurra e verdeggiante. Ma non si chetava l'amore nel cuore del nobile Vesuvio, quale era il nome del cavaliere e la collera gli bolliva in corpo: quando seppe della nuova crudele, cominciò a gittar caldi sospiri e lagrime di fuoco, segno della interna passione che lo agitava; e tanto si gonfiò che divenne un monte nelle cui viscere arde un fuoco eterno d'amore. Così egli è dirimpetto alla sua bella Capri e non può raggiungerla e freme d'amore e lampeggia e s'incorona di fumo e il fuoco trabocca in lava corruscante… O anime trafitte, o anime sconsolate, o voi che per l'amore portate nel cuore sette spade di dolore, non vi sorrida la speranza di guarirvi qui. Qui amano anche le pietre: gli uomini sani s'ammalano d'amore e gli infermi ne muoiono.

IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 2 occorrenze

Ma quando fu sotto il portone e uscì all'aria aperta, ebbe un altro abbagliamento, sentì ronzarsi il sangue nelle orecchie e fu per cadere. Dovette stare un minuto buono appoggiato allo stipite di pietra di quel portone del palazzo San Giacomo, che dà su Toledo, vedendo passarsi vagamente innanzi la gran folla solita di quella strada, aumentata dalla prima giornata di primavera, che metteva fuori assai più gente del consueto. Vedeva una folla vaga, senza contorni precisi, niente altro: udiva come un gran clamore, senza distinguere né le parole, né le voci. Solamente, mentre per istinto fumava, vedeva impresso nitidamente nella fantasia, l'angolo di scrittoio, dove l'Intendente gli aveva mostrato il suo volto, oramai freddo di severità: e udiva precisamente nelle orecchie le parole dell'intendente, squillanti con tanta limpidezza. che quasi ferivano il senso dell'udito. L'Intendente era stato durissimo: non poteva più usare nessuna compiacenza verso il tenitore del Banco lotto, troppa ne aveva usata e non voleva parer complice delle sue frodi. Frodi, aveva detto e ripetuto, malgrado che avesse visto il pallore mortale di cui si era coperto il volto di don Crescenzo, udendo le due sillabe crudeli. Con lo Stato non si scherza: lo Stato non fa credito. Ogni settimana, ai versamenti di don Crescenzo, mancavano delle somme, e ogni settimana bisognava invocare la indulgenza, la pazienza del ministero delle finanze, a Roma, perché aspettasse il pagamento del sempre più grande debito, che don Crescenzo veniva contraendo verso lo Stato: ogni settimana! Ma lo Stato non è una banca che può accordare dilazioni: lo Stato fa aspettare, ma non aspetta! E ogni volta che nominava lo Stato, questa parola gli riempiva severamente e sonoramente la bocca, all'Intendente, ed egli aggrottava un poco le sopracciglia. Don Crescenzo ascoltava col capo chino, sussultando quando udiva nominare quell'ente misterioso, a cui tutto si deve dare e che non dà nulla, che non ha cuore, che non ha visceri e che stende le mani aperte, per prendere, per portar via. Ah l'Intendente era stato anche preciso, nella sua crudeltà! Per mercoledì ci voleva il versamento totale di tutto quello che si sarebbe esatto, come giuocate, e del debito arretrato: se no, la catastrofe era inevitabile: lo Stato incamerava la cauzione e dava querela per appropriazione indebita a don Crescenzo. Costui aveva dato solo in un lamento, alle ultime parole dell'Intendente. - Perdete il denaro e andate in carcere, - aveva conchiuso il degno funzionario. Don Crescenzo si era messo a pregare, allora; aveva moglie e figli, se era stato tanto ingenuo da far credito ai giuocatori, doveva esser rovinato per ciò? Gli dessero tempo, li avrebbe costretti a pagare, avrebbe ridato allo Stato fino all'ultimo centesimo, era un galantuomo, infine, ingannato, assassinato! - Anche voi giuocate, e a credito, - disse fieramente l'Intendente. - Per rifarmi, Eccellenza… - Un onesto tenitore non giuoca mai. Il lotto è una immoralità, nei cittadini… - Allora anche lo Stato è immorale? - Lo Stato non può esser immorale, ricordatevelo. Pensate a pagare, io non posso fare più nulla per voi. Ancora aveva pregato, singhiozzando, che non lo gittassero alla prigione, infine non si può voler la morte di un uomo, quando si è uomini, quando si è cristiani! Ma già un paio di volte aveva fatto queste scene all'Intendente ed era giunto a ottenerne un mese, quindici giorni di dilazione: questa volta costui lo guardava così glacialmente, che don Crescenzo intese; questa volta era finita davvero, bisognava pagare o andare in carcere. Si licenziò, sentendo sempre quella parola mercoledì, mercoledì, el cervello. Era vero, aveva una giovane moglie e due figlioletti, una piccola famiglia, che con la larghezza bonaria del cuore napoletano, egli aveva abituata a vivere grassamente, passando da un lauto pranzo festivo in casa a una lautissima scampagnata, celebrando con la pappatoria tutt'i giorni festivi, scambiando regali di grossi gioielli d'oro, pagandosi delle carrozze da nolo, sempre col sottile desiderio di avere carrozza propria, comperando nuovi orecchini, nuovi anelli, continuamente, alla moglie, regalandole di quelle mantiglie scintillanti di giaietto, che le borghesi nostre adorano. E tutto questo, sempre vivendo del reddito del Banco lotto, magari facendo qualche piccola speculazione sul capitale del Governo, senza mai giuocare, mai, mai! Ah tempo passato, tempo di purezza, tempo d'innocenza! Quando aveva giuocato la prima volta, lui, lui che avrebbe dovuto salvarsi da quella lebbra, viverne solamente senza farsene attaccare, viverne come si vive bevendo il veleno senza morirne, mentre quel veleno sopra una ferita aperta, uccide, - quando aveva giuocato? Non si rammentava più, vedeva una grande confusione, in cui solo la parola mercoledì i disegnava, con tanto vivido calore che pareva di fuoco, che pareva lo dovesse abbruciare. Tutta una confusione, in cui la malattia mentale dei cabalisti che si affollavano nella sua bottega di giuoco e le cui mani febbrili toccavano le sue comunicandogli la loro febbre, il cui denaro strappato, Dio sa come, Dio sa dove, passando dalle loro mani alle sue, gli dava la emozione di un dramma, quella malattia mentale che ardeva il loro sangue, vecchi e giovani, poveri e ricchi, potenti ed oscuri, si era trasfusa in lui, dalla presenza, dal contatto, dall'ambiente, filtrando per tutte le cose, emanando da tutte le persone, e lentamente, lentamente, gli si era diffusa per le vene, penetrando nella sua vita istessa. Prima, per l'ardore del guadagno aveva fatto credito ai cabalisti, ritenendosi sempre il tanto per cento sulle loro giuocate a credito, mentre chiedeva dilazioni pel suo debito al Governo: poi, come lo spostamento si veniva facendo sempre più grave, come il buco si faceva più profondo, più profondo, fino a diventare un precipizio, aveva cominciato a giuocare anche lui, il disgraziato, tentando la sorte, con la illusione che la sorte lo favorisse, giuocando a credito, con la fatale, con la tremenda illusione che potesse guadagnare una grande, una immensa somma. Ah, il disgraziato lo sapeva bene, lo sapeva, che non se ne pagavano di vincite, che raramente; lo conosceva bene il terribile ingranaggio per cui le vincite sono la rarità quasi introvabile, sono la probabilità infinitesimale, sono proprio come l'incontro di un pianeta con un altro, ogni due o trecento anni, nelle inflessibili leggi siderali. Lo sapeva bene che è il Governo che guadagna sempre, sempre, che prende ogni anno sedici milioni alla città di Napoli, alla sola città di Napoli, e a tutta la patria italiana, sessantacinque milioni: ma che importa? Seguitava a far credito ai cabalisti, compariva nelle loro riunioni, aveva tenuto mano al sequestro di don Pasqualino, così, acciecato anch'esso: e il lusso borghese della sua casa era cresciuto, sua moglie ingrassava, diventava rossa e lucida per aver troppo mangiato, adesso era incinta di nuovo e portava una vestaglia di raso crema, tutta carica di merletti, e le sue mani grassoccie, cariche di anelli, s'incrociavano sulla cintura già arrotondata, con quel movimento di pacifica soddisfazione delle donne tranquille nelle loro sensazioni. Oh che disastro! se mercoledì on portava il denaro all'Intendente, lui, sua moglie, i figliuoletti, quello che doveva nascere, tutti nella miseria e lui in carcere, perduto tutto, tutto perduto, se mercoledì on pagava! Adesso, ogni volta che la parola mercoledì li tornava in mente, al bel tenitore di Banco Lotto, dalla barba castana ben pettinata e dalle mani bianche, ogni volta, un po' di sangue caldo gli correva alle guance smorte e sentiva bruciarsi i pomelli, come da due punte di fuoco. Si era staccato dallo stipite del portone di San Giacomo e andava tra la folla, lasciandosi portare, con un principio di vertigine, che gli veniva dall'assorbimento sempre nella disperante idea. Ah doveva far qualche cosa, lucrare del denaro, cercarne a chi glielo doveva dare, a chi ne aveva, perché il mercoledì non fosse la rovina sua e della sua famiglia! Dove andava ora? Bisognava cercare del denaro, ecco tutto, a ogni costo: lo avrebbe strappato alle viscere dei suoi debitori, non voleva morire per loro, non voleva andare a San Francesco, per quei quattro imbroglioni, che lo avevano trascinato al male. Denaro, denaro, era quello che voleva, era la sua sete, era la sua fame, era la sua anima che solo quello chiedeva, quello che solamente chiedeva il suo corpo. Denaro! o sarebbe morto, ecco! Adesso, determinato a tutto, si era messo alla ricerca di qualche suo debitore: avevano, a poco a poco, disertato la sua bottega, tutti quanti, non potendo resistere alle sue domande di denaro, portando in qualche altro Banco lotto quei pochi soldi, che a furia di oscuri miracoli di volontà arrivavano a strappare, Dio sa come, Dio sa dove, e nella paura delle sue giuste minaccie, avevano financo tolto a lui l'introito, ingrati oltre ad essere imbroglioni! Però egli sapeva dove abitavano, tutti: e si volea mettere dietro a loro, non li avrebbe lasciati, se non avessero inteso, come una loro disperazione, la sua disperazione: avrebbe aspettato nelle loro case, sotto i loro portoni, per le strade dove essi passavano, avrebbe loro parlato, avrebbe gridato, avrebbe pianto, avrebbe messo loro addosso tale affanno, che il denaro per pagare lo Stato sarebbe uscito fuori, strappato da questo impeto di dolore. Era questione di vita o di morte, non avrebbe gittato all'elemosina sé, i suoi figliuoli e sua moglie, per essere stato troppo buono, troppo debole, troppo fanciullo: bisognava salvarli, bisognava salvarli. La folla lo aveva adesso portato verso la parte alta di Toledo, mentre la sua mente andava cercando di fare un piano pratico, di adoperare la sua ardente volontà di salvarli, in una forma sicura e felice, per ottenere lo scopo. Vediamo: dove sarebbe andato prima, in quel pomeriggio di primavera; dove avrebbe pronunciato la sua prima parola? Non bisognava sbagliare, bisognava cercare di fare un colpo certo, altrimenti… altrimenti, non poteva pensare all'insuccesso, era un'idea alla quale non resisteva! Adesso si era fermato, di nuovo, in piazza della Carità, fissando gli occhi, innanzi ai quali vagava una nebbia torbida, sulla statua di Carlo Poerio. La gente, passando, lo urtava, da tutte le parti; le grida dei venditori, le voci dei viandanti lo ferivano, come un rumore vago, indistinto. Pensò un momento di andare dal marchese Carlo Cavalcanti, che era un suo forte debitore: ma, fra tutti, il marchese era quello che gli faceva più compassione, nella propria sventura, e fra tutti, era quello che meno poteva aver denaro. Ora, don Crescenzo non voleva cominciare per essere crudele con un infelice, né voleva cominciare con un insuccesso: aveva troppa paura di non riescire, era troppo sfiduciato, sarebbe andato in ultimo dal marchese Cavalcanti. Dopo, dopo, in ultimo… il più sicuro dei suoi debitori era Ninetto Costa, l'agente di cambio, il più sicuro perché, malgrado la sua decadenza, trovava sempre del denaro in piazza, vi era chi credeva ancora nella sua stella. Ninetto Costa si era indebitato varie volte con lui, ma aveva sempre pagato, sino a che, l'ultima volta, per una somma piuttosto grossa, si era trovato così sprovvisto che da tre settimane non poteva dare un centesimo a don Crescenzo! Che importa! Era un uomo di denaro, Costa. Il tenitore del Banco lotto si avviò verso la Borsa, sapendo che quella era l'ora in cui Ninetto vi si doveva trovare, certamente. Ma fra i capannelli dei banchieri, degli agenti di cambio, dei commercianti, dei marroni che parlottavano, che discutevano, che vociavano, lo cercò invano, per un quarto d'ora: a due o tre persone ne chiese e fu mal ricevuto, chi dette in una spallata, chi abbozzò un sorriso ironico, e tutti si rimisero subito a parlare dei propri affari, lasciando in asso don Crescenzo. Egli, che con la fiducia bizzarra dei disperati era entrato là dentro già tranquillizzato, già credente in un risultato buono, si sentì un fuoco alla bocca dello stomaco. Ma dov'era, dunque, Ninetto Costa? Si rammentava di essere andato a cercarlo, una volta, a piazza Carolina, dove l'elegante agente di cambio aveva un quartierino messo col lusso del giovane gaudente, ma, ora, aveva cambiato casa, da tempo, da che era principiata la decadenza: si rammentava, adesso, don Crescenzo, di averlo accompagnato una sera, uscendo dal ritrovo del vicolo Nardones, a Taverna Penta, a una molto mediocre casa di Taverna Penta, dove si era ridotto Ninetto Costa, giusto dirimpetto alla via San Giacomo. Bisognava che lo trovasse, senz'altro, o vivo o morto: Ninetto Costa gli avrebbe dato le mille e cento lire che gli doveva, almeno una parte del debito verso il Governo sarebbe stata pagata, una piccola parte, è vero, ma almeno quella! Risalì verso Taverna Penta e la lurida portinaia, quando egli chiese del signor Ninetto Costa, non fece che guardarlo dicendo: - Quarto piano. - Ma vi è? - Non lo so, - borbottò ella. Pazientemente, deciso a non lasciarsi ributtare da nulla, egli salì quella stretta ed erta scala, sui cui pianerottoli, dalle cui porte, uscivano voci piagnolose di ragazzi, discussioni di voci femminili e rumori di macchine da cucire, stridenti. Sulla porta di Ninetto Costa, vi era uno sciupato biglietto da visita, tenuto fermo da quattro spilli. Due volte bussò. Nessuno venne, nessun rumore interno si udì. Bussò più forte, la terza volta: niente ancora. Alla quarta dette una forte strappata al campanello e un lievissimo passo si udì: poi il silenzio e l'immobilità, come se la persona che fosse venuta presso la porta, origliasse. - Don Ninetto, sono io, aprite, tanto so che siete in casa e non me ne vado, - disse a voce alta, il tenitore di Banco lotto. Ancora una pausa di un paio di minuti. Poi la porta si schiuse pianamente e la mutata faccia dell'agente di cambio apparì. Così mutata! Oramai tutta la giovinezza, prolungata dal vivere di gaudente e dai cosmetici, ne era fuggita: le tempie erano rade rade di capelli, che si facevano radi anche sul mezzo della testa: due floscie borse giallastre sottolineavano gli occhi e mille rughette scendevano in tutte le direzioni, segnando il viso, indelebilmente. La giacchetta che mal lo copriva, aveva il bavero alzato, come se egli avesse freddo, o volesse nascondere la biancheria. - Siete voi? - disse egli, con un pallido sorriso. Fece entrare don Crescenzo nel salottino, un meschino salotto di casa mobiliata, dai mobili di teletta rossa, dalle tendine oscurate dal fumo del sigaro; gli si sedette dirimpetto, guardandolo con certi occhi smorti, da cui pareva fuggita qualunque espressione. - Sono io: vi ho cercato alla Borsa: non ci siete andato? - domandò don Crescenzo, che sentì di nuovo un gran calore allo stomaco. - E perché? - Mah!… - Ci mancate da qualche tempo? - Da… sì, da tre o quattro giorni.. - E che fate? - chiese angosciosamente don Crescenzo. - Che fo? Niente, - disse l'altro, con un gesto di una semplicità disperante. - Avete fatto punto? Ninetto Costa trasalì e chiuse gli occhi, come se non volesse vedere qualche cosa: poi, disse: - Sì. - Rovinato, rovinato! - gridò, levando le braccia al cielo, don Crescenzo. L'altro si morsicava un mustacchio, convulsamente. - Almeno, qualche cosa avrete conservato: quelle millecento lire che mi dovete, le dovete aver conservate, eh? Ninetto Costa lo guardò, trasognato. - Se non ho queste millecento lire per martedì sera, vado in carcere, - strillò il tenitore di giuoco. L'altro abbassò il capo. - Vado in carcere e la mia famiglia non ha pane. Voi dovete darmi le millecento lire, capite? - gridò don Crescenzo, in preda a un gran furore. - Io non le ho. - Cercatele. - Non le troverò: nessuno me le darà. - Dovete trovarle: io non posso andare in carcere per voi. Trovatele. - È impossibile, don Crescenzo mio, - disse l'ex agente di cambio, con le lacrime agli occhi. - Nulla è impossibile, quando si tratta di un debito come questo, quando si tratta di salvare un galantuomo dalla rovina. Per carità, don Ninetto, voi sapete quanto è caro l'onore… - Sì, - disse l'altro, girando in là il volto. - Per carità, non mi abbandonate! Vi ho fatto qualche favore, non mi commettete questa ingratitudine… - Io non ho un soldo e non posso trovarlo… - Ma non avete più un amico, un parente? - Nessuno, nessuno: ho fatto punto, i basti. - E che volete fare? - Vado… vado a Roma, - pronunziò l'agente di cambio dopo una lieve esitazione. - A far che? - Chissà! Forse rifarò fortuna… - Ma voi non mi dovete abbandonare, mi dovete dare le millecento lire, prima di partire… - Non le ho: non le posso avere; non mi mettete in croce, don Crescenzo, non ho un soldo. - Mettetemi una firma sotto una cambiale, alle banche vi conoscono, mi daranno il denaro… - Tutte le mie cambiali sono protestate. - Impegnatevi i gioielli! - Li ho venduti. - L'orologio! - L'ho venduto. - Ma vostra madre, vostro zio? - Mio zio mi farà forse la carità di dar da vivere a mia madre. La madre di un fallito… capite, è sempre poco bene accolta… - Per che somma, fallito? - Duecentomila. - Tutto per il lotto, eh? - Tutto, - disse con un gesto definitivo Ninetto Costa. - Ma come, mi lasciate, in questa rovina? - rispose, quasi piangendo don Crescenzo. - E che cuore avete? - Che cuore, che cuore! - disse l'altro, con la voce tremante. - Lascio mia madre, che non ha pane, capite? Vado a Roma. Se fo denari, ve ne mando. - Quando, andate? - Domani… sì, domani… - E per martedì mi mandate denaro? - Non credo, don Crescenzo, non credo, - disse con una dolcezza disperata, Ninetto Costa. - Mercoledì, capite? Se no, sono perduto. - Io sono perduto già da tre giorni. - Oh Madonna mia, Madonna mia, chi mi ha acciecato? - diceva, piangendo, il tenitore di lotto. - Voi mi volete far morire… prima del tempo, - mormorò Ninetto Costa. - Che dite? - Niente. Ma calmatevi. Tutto si potrà man mano aggiustare. - Mercoledì, mercoledì!… - Forse il Governo avrà pazienza, trovate un mezzo, scrivete al ministero, scrivete al Re… io ho da partire.. E indicò una piccola valigia, tutta floscia, la indicò, con uno smorto sorriso. - Ma proprio, non mi potete dare niente? - Ve le darei, don Crescenzo, ma vi giuro che non ho un soldo. A Roma…poi… vedrò… Deluso, eccitato, don Crescenzo si levò per andarsene, fra la collera e il dolore. Voleva subito correre in cerca dei suoi altri debitori, voleva trovar denaro, uscire da quella triste casa, da quella triste compagnia di un uomo più disperato di lui. Voleva andarsene. Ninetto Costa lo guardava, con certi occhi smorti, serbando quel pallido sorriso sulle labbra smorte, un sorriso distratto di persona già indifferente alle cose umane. Pure, l'altro, ancora una volta, insistette, vagamente, quasi per disimpegno verso sé stesso, parendogli di non aver fatto abbastanza per aver quei denari. Ma l'agente di cambio gli diede un'occhiata così dolorosa, che egli non disse altro. - Addio, don Crescenzo… scusate… - Addio, don Ninetto… non vi dimenticate di me, a Roma… - Non dubitate, - disse l'altro, con una debole e strana voce. Si toccarono la mano, senza stringersela: due mani fredde e deboli. Macchinalmente Ninetto Costa accompagnò il tenitore di Banco lotto, sino alla porta, in silenzio: si guardarono un minuto, senza parlare. Poi la porta si richiuse con un suono così bizzarro, così definitivo, he il tenitore di Banco lotto, nelle scale, scendendo lentamente, trasalì. Ebbe quasi un impulso di tornare indietro: gli ritornava in mente che Costa gli aveva detto di non avere un soldo e poi quella valigia così floscia, dove non era nulla dentro! Ma il pensiero dei suoi guai lo distrasse dalla pietà e dal sospetto di maggiore sventura. Adesso, sempre a piedi, per risparmiare anche i denari di una carrozza, si mise a correre per la via di Toledo, come sospinto da un pungolo alle reni, per andare in via San Sebastiano, dove abitava il vecchio avvocato Marzano, un altro suo debitore: anche quello, visto i suoi affari professionali, se non aveva denari da pagar subito, ne poteva trovare in piazza; alla fine doveva ottocento lire a don Crescenzo, gliele avrebbe date, don Crescenzo gli si sarebbe messo appresso, sino alla sera. Conosceva bene la sua casa, una povera casa, invero, poiché l'avvocato Marzano giuocava tutto, tutto quello che guadagnava, mantenendo finanche, per sessanta lire al mese, un ciabattino, un cabalista che scriveva i numeri col carboncino, sulla carta. Don Crescenzo salì gli scalini a quattro a quattro, correndo, perché una voce gli diceva, in cuore, che da Marzano avrebbe trovato il denaro: aveva un buon presentimento. Pure, quando mise la mano all'anello di ferro, che pendeva dalla cordicella unta e bisunta, un improvviso terrore lo colse, la paura di non riescire, l'orribile paura che ne paralizzava le forze, la paura degli sventurati, che arrischiano il mezzo da cui dipende la loro vita o la loro morte. Un passo strascicato si fece udire e una voce stridula, domandò: - Chi è? - Amici, amici, - balbettò in fretta il tenitore di Banco lotto. La porta si schiuse con diffidenza e il viso ignobile del ciabattino si mostrò, tutto macchiato di rossa salsedine: e gli occhi cisposi e rossastri del beone fissarono don Crescenzo. - Volete l'avvocato? - domandò, asciugandosi le mani bagnate a un lercio grembiule. - Sissignore. - Non può dar retta. - Ha affari? - È malato. - Malato?? Cosa da niente? - Ha avuto nu tocco in salute vostra. - Gesù! - gridò don Crescenzo, buttando in terra il suo cappello, disperatamente. - E stata la bonafficiata già, si è sempre privato, non faceva una vita buona, mangiava poco, beveva acqua… capite… - Oh Dio, oh Dio… - mormorava don Crescenzo, lamentandosi. - È volontà di Dio… - mormorò il ciabattino, cavando un pezzettino di carta tutto sporco, e prendendone una presa di tabacco giallastro. - Volontà di Dio, che ci volete fare! Non vi disperate, fino all'ultimo vi è speranza. - Lo so io, perché mi dispero! - gridò don Crescenzo. - Dovrei piangere io, - soggiunse il beone, - che gli avevo procurato una fortuna, che mi aspettavo da lui la pace per i miei vecchi giorni, e intanto, per bestialità sua, egli è alla morte e mi abbandona nella miseria, capite! - Ma come è stato, come è stato? - chiese don Crescenzo, mettendosi le mani nei capelli. - Aspettate un poco, ora vengo. E andò di là. Don Crescenzo si guardò attorno, sbalordito dal dolore. La misera stanza non aveva altri mobili che certi vecchi scaffali d'avvocato, pieni zeppi di carte polverose, un tavolino, con due sedie la cui paglia era tutta macchiata. Sul tavolino vi era un bicchiere, con un paio di dita di vino bluastro, il grosso vino pesante di Sicilia. Per terra non si era spazzato da tempo: le mura eran piene di ragnateli: i vetri delle finestre erano coperti dalla polvere e un puzzo di sporco, di stantio, di muffito, afferrava alla gola. Ed era questa la casa dell'avvocato, di colui che era stato uno dei più grandi avvocati del suo tempo e che aveva guadagnato migliaia e migliaia di lire, nella sua professione! Don Crescenzo sentì stringersi il cuore in una morsa di sangue e le mani gli si gelarono: veniva qui, in questa dimora di povertà, di onta, di morte, a cercare le sue ottocento lire per salvarsi? Oh che follia, che follia era la sua! Non era forse meglio fuggire, giacché ritrovava dovunque le stesse tracce di disonore e di miseria, dovunque? Ma il ciabattino ritornava: - Che fa? - chiese sottovoce don Crescenzo. - Sta assopito. - Dorme? - No, è la malattia. - Che gli hanno dato? - Gli hanno cavato sangue: poi ha una vescica di ghiaccio sulla testa e un'altra sul petto. - Parla? - Non si capisce quello che dice. - Ha perduto il movimento? - Solo per il lato destro. - Che dice il medico? - Che deve dire? È cosa di morte. - E torna, il medico? - Chi lo sa? Non vi è da pagare. Ho trovato sette lire e un orologio di nichel, che non si può impegnare. Ho speso già tre lire di ghiaccio: quando le sette lire saranno finite, ci fermiamo. - Ma come è stato, come è stato? - chiese ancora, disperatamente, don Crescenzo. - Mah! Tante cose sono state. Ha avuto certi dispiaceri, sapete, l'uomo sempre uomo e… aveva bisogno di denaro… ha cercato di averne, in tutti i modi… - E che ha fatto? - chiese l'altro, sgomento. - La mala gente dice che ha falsificato la carta bollata, lavandola, sapete, quella già scritta e mettendola in corso, di nuovo. Ma non deve esser vero! Mi lascia nella pezzenteria, è stato ingrato con me, ma non deve esser vero… non ci potrò credere mai. Pare che la mala gente sia arrivata sino al presidente del Consiglio dell'Ordine, che lo ha chiamato… pare che ci sono state brutte parole… infine, dispiaceri. - Oh povero, povero! - esclamò a voce bassa don Crescenzo. - Questa chiamata del presidente è stata per lui una cosa mortale… che vi pare, un galantuomo sentirsi insultare, è cosa insopportabile… voleva partire, l'avvocato Marzano, andarsene in qualche paese, dove vi è più educazione. - Partire, alla sua età? Con sette lire in tasca? - Io lo avrei accompagnato, - mormorò modestamente il ciabattino beone. - Per il bene che gli volevo, mi acconciavo ad andarmene: e in quanto ai denari… ecco la vera ragione del tocco! Come sarebbe? - Voi sapete, don Crescenzo, che i miei lavori di matematica, con l'aiuto di Dio, hanno fatto sempre guadagnare denaro all'avvocato. - Sì, sì, ogni tre o quattro mesi, un ambo… soggiunse scetticamente don Crescenzo. - V'ingannate, si può dire che io l'ho beneficato, e quelle misere sessanta lire che mi dava, al mese, perché io non battessi più sulle suole delle scarpe e facessi la cabala, erano neppure la centesima parte di quello che guadagnava, al mese! Ora mi abbandona, l'ingrato, così!… basta, per dirvi, ieri, io gli avevo dato, simbolicamente, certi numeri che dovevano uscire necessariamente e sono usciti, capite! - E ha guadagnato? - Niente: non li ha capiti, ne ha giuocato degli altri, la mente non lo aiutava più. Quando lo ha saputo… gli è venuto l'insulto… in salute vostra. - Ma gli avete veramente detto quelli che erano i numeri buoni? - Innanzi a Dio: ma non li ha capiti. - E perché non li avete giuocati voi? - Sapete bene che noi on possiamo giuocare… - Ah già, è vero. Tacquero. Il ciabattino portò alle labbra il bicchiere e bevve un sorso di vino. - Vorrei vederlo, - chiese don Crescenzo, improvvisamente. Entrarono nella stanzetta da letto, povera e sporca, come lo studietto. L'avvocato Marzano giaceva sopra un misero lettuccio di ferro, sollevato sui cuscini, le cui fodere erano di una bianchezza assai dubbia: sulla canuta testa posava la vescica di ghiaccio: un'altra ne posava sul petto, denudato, scheletrito, e il corpo scarno, piccolo, era coperto da una coltre brunastra, di quelle che si mettono sul dorso dei cavalli. Sul tavolino da notte vi era un bicchiere d'acqua, dove nuotava un pezzo di ghiaccio: la mano destra del morente, era avvolta dai nastri neri del salasso. E tutta quella parte destra, dalla faccia sino al piede, era colpita d'immobilità, già morta: mentre la mano sinistra tremava sempre, e tutto il lato sinistro del volto si torceva, ogni tanto, convulsamente. Un confuso balbettìo usciva dalle labbra dell'avvocato: e tutta la espressione dolce e bonaria era sparita, lasciando su quel vecchio volto, già mezzo appartenente alla morte, le tracce di una passione che era giunta sino alla vergogna. - Avvocato, avvocato? - chiamò don Crescenzo, piegandosi sul lettuccio. L'infermo fissò gli occhi velati da un'ombra singolare sulla faccia del tenitore di Banco lotto; ma né l'espressione se ne mutò, né il balbettìo cessò. - Non vi riconosce, - mormorò il ciabattino, pigliando tabacco. Don Crescenzo uscì subito dalla stanza, sentendosi aggravare sull'anima l'incubo. - Siete amico, volete lasciargli qualche cosa? - chiese il ciabattino. - Ho quattro lire, morirà come un cane! Allora tutto il represso dolore di don Crescenzo scoppiò. - Mi doveva ottocento lire, e sono rovinato, se non le ho per mercoledì! Egli muore, ma io campo e sono assassinato! Egli muore, ma i miei figli dormiranno, fra un mese, sui gradini di una chiesa! Egli se ne muore almeno, ma noi tutti camperemo di disperazione, capite! - Scusate, - disse il ciabattino, sgomento. - Assassinato, assassinato! - singhiozzava l'altro. - Tacete, può sentirvi; che ci volete fare? E bevve l'ultimo sorso di vino bluastro, che aveva lasciato in fondo al bicchiere. Don Crescenzo fuggì. Ora, a intervalli, sentiva che gli si smarriva la testa e aveva bisogno, per raccapezzarsi di pensare sempre alla parola mercoledì. ure, istintivamente, con quella direzione automatica degli infelici che vanno al loro destino, risalendo per Port'Alba si diresse al vicolo Bagnara, dove abitava il professor Colaneri; anche Colaneri gli doveva denaro e gliene prometteva di settimana in settimana, sempre rimandandolo a mani vuote, o consegnandogli delle piccolissime somme. L'ex-prete abitava a un quarto piano del vicolo Bagnara, in una casa dove lui, una povera infelice di stiratrice che gli aveva dato retta e con cui viveva coniugalmente, quattro figliuoli malaticci dalle grosse teste e dalle gambe storte, vivevano in due stanze, litigando, gridando, battendosi e piangendo tutto il giorno. Egli aveva nascosto alla stiratrice di essere stato prete; e la disgraziata, credendo di diventare una signora, gli aveva dato retta; e da sei anni viveva in uno stato di servaggio, fra le gravidanze, la indecente miseria, il lavoro da serva che ella faceva, tutto il grossolano lavoro, e quella torma di figli brutti, piagnolosi e continuamente affamati, su cui ella si vendicava, schiaffeggiandoli, degli schiaffi di cui le era prodigo suo marito. Una casa infernale, dove il padre portava tutte le torbide preoccupazioni del giuoco e dei mezzi ignobili, talvolta colpevoli, con cui si procurava denaro per giuocare: due volte don Crescenzo vi era stato, ma aveva assistito a tali scene nauseanti che era scappato via, cacciato quasi dalle male parole della stiratrice e dai pianti dei quattro demoni. Ma ora, che importava? Colaneri gli doveva settecento e più lire: di un debito di novecento non aveva pagato, in tre o quattro mesi, che duecento lire, anche meno; Colaneri, perdio, non era fallito come Ninetto Costa o apoplettico come l'avvocato Marzano, Colaneri doveva pagare. - Vi è il professore? - Sissignore, - rispose una vecchia donna, che funzionava da portinaia. Allora salì rapidamente e alla porta gli venne ad aprire la stiratrice, spettinata, con un grembiale di cucina tutto unto sulla vestuccia di lanetta, le guance incavate, il petto smunto e un dente mancante sul davanti, per cui farfugliava un poco: - Vorrei vedere Colaneri. - Non ci è, - disse subito lei, lasciando l'altro sempre fuori la porta. - Vi è, vi è, - disse don Crescenzo, irritato. - Tanto, è inutile che si neghi, io lo aspetto per le scale: deve uscire! - Allora, entrate, - ella disse, di mala voglia. E mentre il tenitore di Banco lotto entrava, subito un moccioso idrocefalo di ragazzo prese un ceffone. E mentre egli aspettava nella stanza che serviva da salotto, da studio, da stanza da pranzo, di là, cioè in cucina, nella stanza da letto e financo nel pianerottolo, scoppiarono le grida della famiglia che litigava. Solo in un intervallo di silenzio, comparve il professore, indossando una vecchia giacchetta tutta macchiata: raggiustandosi, con un moto ecclesiastico, gli occhiali sul naso. - Vengo per denaro, - disse brutalmente don Crescenzo. - Non ne ho, - rispose duramente il debitore. - Non me ne importa, me ne darai. - Non ne ho. - Trovane: voglio le mie settecento lire, oggi o domani, hai capito? - Non ne ho. - Impegnati lo stipendio, fa un debito. - Non ho più stipendio. - Come? Non sei più professore? - No: mi sono dimesso. - Dimesso? - Per forza: mi avevano accusato di vendere i temi degli esami agli scolari. - E non era vero, naturalmente! - Già: ma il complotto per perdermi era bene organizzato. Il preside m'ha consigliato di dimettermi. - Sicché sei sul lastrico? - Sul lastrico. Allora soltanto don Crescenzo si accorse che il viso del professore era pallido e stravolto. Ma questa terza delusione lo esasperava. - Non so che farci: tu mi devi dare le settecento lire. - Hai cinque lire da prestarmi? - Non raccontar frottole, io voglio il mio denaro. Lo voglio per domani, al più tardi, capisci? - Crescenzo, tu metti in croce un uomo già crocifisso. - Belle chiacchiere! Io non posso andare a San Francesco per conto vostro: siete tanti assassini! Vado da Ninetto Costa per denaro e lo trovo che è fallito, che parte per Roma…a far che, non si sa… se è poi vero, che vada a Roma… e niente denaro… Vado da Marzano e lo trovo moribondo… qui tu mi dici che sei sul lastrico… e denaro niente! - Tutte rovine, tutte!… - mormorò l'ex-prete- Ma voi mi volete far morire, mi volete? Ma quando avete avuto bisogno del credito, io ve l'ho fatto, vi ho guarentiti, mi sono compromesso per voi… e adesso volete far morire con me la mia famiglia? Ma tu anche hai figli, devi pensare a dar loro da pranzo, per domani e per moltissimi altri giorni, devi far qualche cosa tu: ebbene pensa a me, pensa ai miei bambini, pensa che siamo cristiani anche noi! - Sai che debbo fare io, domani, per dar pane alle mie creature? - Che so io? So che glielo darai, so che i figli miei non debbono restare digiuni, quando i tuoi mangiano… - Ebbene, senti, io non sono più prete, sono stato scomunicato, sono fuori della Chiesa: lì, quindi, non troverei aiuto; avevo il posto di professore, buono, sicuro, ma l'ho perduto, perché avevo troppo bisogno di denaro; non chiedermi delle confessioni dolorose; non lo riavrò, mai, il mio posto, né un altro potrò mai averne, oramai sono persona sospetta. - Ma che me li racconti questi guai? Li so, li so, e non serviranno ad accomodare i fatti miei. - Ascolta ancora. Io non ho più nessun scampo: e siccome ho messo al mondo degli infelici, mi sento il dovere di dar loro il pane, almeno il pane. Ho giuocato al lotto quello che essi avevano di certo, d'immancabile… ma sono pazzie! Quindi la grande decisione è presa: tutto per tutto! - Che cosa? - domandò don Crescenzo, sorpreso. - Domani accetto le offerte fattemi dalla Società evangelica e divento prete protestante. - Oh Dio! - disse il tenitore di Banco lotto, al colmo della meraviglia. - Già, - disse l'altro, come se inghiottisse a stento. - E… lasci la religione nostra? - La lascio…per la fame. - E… a quell'altra, ci credi? - No: non ci credo. - E come fai a predicare? - Farò… mi abituerò… - Devi rinnegare, eh? - Sì: rinnegare. - Una gran funzione? - Grande. Parlavano sottovoce: la cinica figura di Colaneri si era scomposta, come se non reggesse a quell'idea dell'abiura. Anche don Crescenzo, nella sua stupefazione, aveva dimenticato i suoi guai. - Rinneghi, rinneghi… - andava dicendo. - Rinnego. - Già, avevi tolto l'abito di prete. - Rinnegare, è un'altra cosa, - disse, tetro, Colaneri. - Assai ti dispiace? - Assai. - E che ne hai? - Duecento lire al mese, in un paese dove mi destineranno. - Appena da mangiar pane! - A ogni ragazzo mio che diventerà protestante, daranno una sommetta; potrò sposare la madre. - Ma lasciare la religione di Cristo! - esclamò don Crescenzo, con quell'orrore del protestantesimo, che è in tutte le umili coscienze napoletane. - Che vuoi, è la fame! - mormorò disperatamente il professor Colaneri. Pareva dunque mutato profondamente, anche nel morale: la sua passione del giuoco gli era oramai apparsa in tutta la sua fatalità: vedeva quello che aveva commesso, contro sé stesso, contro il suo talento; e un invincibile ribrezzo lo teneva contro quella apostasia. Aveva fatto il male, era disceso sino alla colpa, brutalmente, corrompendosi in quell'ambiente deleterio: ma ora che si trovava innanzi al castigo, ora tremava, avendo perduta ogni franchezza, tremava di dover rinnegare la sua fede, il suo Dio, per una pagnotta di pane. Don Crescenzo lo guardava e taceva, stupito. Lo aveva sempre ritenuto per un birbone, capace di tutto: e se gli aveva fatto credito, era perché supponeva di potergli sequestrare lo stipendio. Ma ora, in questo giorno supremo, lo vedeva avvilito, turbato sino nell'intimo dell'anima, mosso da una paura arcana della Divinità, che aveva già tradita, che aveva già offesa, che nuovamente egli insultava con la sua apostasia. E don Crescenzo, sebbene ristretto di mente, comprendeva tutto lo strazio di quella coscienza, combattuta adesso nell'ultimo suo baluardo, giunta a quel punto dove la pazienza umana finisce, dove si vivono le ore più dure, più divoratrici dell'esistenza. Così, non osava più dirgli nulla dei suoi denari. Balbettò: - E tua moglie, che dice? - Vorrebbe opporsi… ma i figli, i figli! - E i poveri figli innocenti… anche quelli debbono perdere l'anima? - Sono innocenti… il Signore vede, sarà giusto. E d'altronde, perché mi ha messo con le spalle al muro? Per ogni figliuolo che entra nella chiesa protestante mi dànno una sommetta… - Quando sarà, questo?… - chiese, dopo una esitazione, don Crescenzo. - Fra un mese: ci vuole un mese d'istruzione, per i poveri innocenti. - Troppo tardi, - mormorò l'altro che pensava sempre al suo denaro. - Ti darò un acconto, allora… - disse vagamente l'ex-prete- Troppo tardi: sono perduto. - Che castigo! che castigo! - disse sottovoce l'apostata, celando il volto fra le mani. - Me ne vado, - mormorò don Crescenzo, prostrato oramai, in uno stato di accasciamento profondo. - Abbi pazienza… - Che pazienza: è un castigo, hai detto bene, un gran castigo. Me ne vado, addio. - Addio. Non si guardarono, non scambiarono più nessuna parola, sentendosi ognuno preso, domato dalla terribilità del castigo, senza più alcuna collera, senza rancore, in quell'abbattimento di ogni superbia e di ogni vanità, che dà il castigo divino. Quando fu nelle scale, don Crescenzo fu preso da tale debolezza che dovette sedersi sopra un gradino, restando lì; stupefatto, non vedendo, non sentendo, in quel sopore morale che sopraggiunge ai dolorosi eccitamenti. Quanto tempo restò lì? Furono, alla fine, i passi di qualcuno che saliva e che lo sfiorò, passando, che lo fecero sussultare: e col sussulto, tutta la sua atroce pena gli si ripresentò, insopportabile. Si buttò per le scale, a precipizio, e correndo attraverso le vie, come un trasognato, spinto come un'arme diritta e inflessibile, arrivò alla strada Guantai, al piccolo albergo di provinciali, Villa Borghese, ove alloggiava da un quattro mesi il dottor Trifari con suo padre e sua madre, arrivati dalla provincia. I due umili contadini erano giunti, dalla giovinezza all'età avanzata, a raccogliere qualche soldo, a comprare qualche appezzamento di terreno, lavorando diciotto ore al giorno, mangiando pane scuro e raffermo, mangiando la minestra di bieta cotta nell'acqua senza sale, dormendo in uno stanzone, dove era solo il letto e un cassone, sopra uno stramazzo di paglia: e tutto questo per poter avere il figliuolo dottore, comunicando a lui tutta la vanità contadinesca, dandogli lo sfrenato desiderio di diventar un signore, un gran signore, superiore a tutti i signori del suo paese, dandogli così, senza saperlo, quella implacabile passione del giuoco che doveva, secondo lui, farlo improvvisamente diventar ricco, ricchissimo, in modo da schiacciar tutti con la sua potenza e col suo lusso. Ma in breve giro di anni tutti i suoi affari professionali eran finiti, poiché egli li sdegnava, li abbandonava: ed era cominciata tutta una esistenza di debiti vergognosi, di espedienti, di raggiri, in cui egli aveva cominciato per raggirare i suoi genitori e aveva finito per tessere le reti degli intrighi e degli imbrogli. Padre e madre, tetri, nel silenzio dell'animo contadinesco che non conosce espansioni, avevano venduto, man mano, tutto, seguitando a sacrificarsi per questo figliuolo che era il loro idolo, che essi adoravano come fatto di una pasta migliore della loro: e si erano infine così ridotti, erano così puniti nel loro orgoglio che aspettavano nella loro vecchia casa che il figlio mandasse loro da Napoli venti, dieci lire, ogni tanto, per mangiare. Ed egli lo faceva, legato a quel suoi vecchi da un amore feroce, fatto d'istinto filiale e di riconoscenza, tremando di vergogna e di dolore ogni volta che costoro lo avvertivano, rassegnatamente, che malgrado la tarda età, sarebbero tornati a lavorare nei campi, a guadagnar la loro giornata, per non essergli di carico: e anche i suoi soccorsi erano scarseggiati, la passione del giuoco lo aveva talmente acciecato che non sapeva neanche togliere dieci lire dalle giuocate, per spedirle ai due disgraziati contadini: e il colpo di grazia, infine, era stato quando egli aveva scritto loro, imperativamente, che vendessero l'ultima casa che loro apparteneva, la vecchia casa, coi pochi mobili e gli utensili di cucina, che tenessero il denaro e venissero a Napoli a stare con lui, avrebbero speso meno e sarebbero stati più felici: un colpo orribile, tanto li sgomentava la parola Napoli. Pure, con uno strazio taciturno, conservando la loro fierezza, fingendo di andare a fare i signori, presso il loro figliuolo signore, a Napoli, avevano obbedito, avevano litigato lungamente sul prezzo della povera vecchia casa e di quei quattro mobili antichi che avevano dal tempo del loro matrimonio; e infine, serbando preziosamente quelle poche centinaia di lire in un sacchetto di tela, viaggiando in terza classe, erano capitati a Napoli sbalorditi, non tristi, ma immersi in quella taciturnità che è la sola manifestazione della tetraggine contadinesca. E avevano vissuto in quell'alberghetto quattro mesi, in due stanze scure perché a primo piano, col figlio che rientrava a ore tardissime, talvolta quando essi si levavano, senza far nulla, senza parlare, chiusi nella stanza, guardando con occhi malinconici e meravigliati, da dietro i vetri, tutto il singolar mondo napoletano che si agita nella stretta e popolosa via dei Guantai Nuovi, rimanendo ore e ore in quella contemplazione dove s'istupidivano, incapaci però di muover lamento, diffidenti di tutto, del letto con le molle, dello specchio dalla luce falsa e verdastra, di quei pranzi miserabili serviti loro nella stanza, a cui non erano abituati e che parevano loro un lusso inaudito, di quei servi che si burlavano dei due contadini, di quella lavandaia che riportava tutte bucate le loro grossolane camicie e che li caricava d'ingiurie, alla napoletana, quando facevano una osservazione. Ogni tanto, superando quell'istintiva ritrosia di discorsi, avevano detto al figliuolo di levarli da quell'albergo, di prendere una casetta, dove la madre avrebbe cucinato, avrebbe fatto i servizii: ma lui aveva dimostrato che ci volevan troppi più denari così, che lo avrebbero fatto più tardi, quando avesse avuto una buona fortuna, che aspettava di giorno in giorno. E intanto, il loro peculio diminuiva: ogni volta che scioglievano, in fine di settimana, la borsetta di tela, avevano una stretta al cuore: spesso, quando cavavano quei denari, essi vedevano gli occhi del figliuolo illuminarsi, come per subitaneo sentimento di desiderio; ma non li aveva mai cercati, si vedeva che faceva uno sforzo a non cercarli. Ogni giorno egli diventava più torbido, più furioso: non mangiava più coi suoi genitori, passava le notti senza rientrare nell'albergo, tanto che pur nello spirito ottuso di quei contadini era entrata l'idea di una grande sventura che li minacciasse. La madre, per ore e ore, sgranava il suo rosario, perché il Signore avesse pietà dei loro vecchi giorni, mentre il padre, più astuto, più esperto, pensava che forse qualche femmina maliarda rendesse così infelice il suo figliuolo. Ma nulla gli dicevano: anche quel lusso in cui vivevano, lusso per essi, malgrado che lo pagassero coi proprii quattrini, sembrava loro una concessione del figliuolo, una grazia che egli faceva ai suoi genitori: e insieme a lui, senza intendere, senza sapere, si mettevano a sperare questa fortuna, che doveva capitare da un giorno all'altro, che li avrebbe fatti signori. Le labbra violette e secche della vecchia contadina si muovevano incessantemente, dicendo orazioni nella piccola, meschina, buia stanza dell'alberghetto dei Guantai Nuovi, mentre il vecchio contadino usciva ogni giorno, passando sempre per la stessa strada, andando cioè in Piazza Municipio e di là sul Molo, a guardare il mare nerastro e i bastimenti del porto mercantile e le navi da guerra del porto militare, affascinato, colpito, nella grande città, solo dal mare, non andando altrove, non sapendo nulla del resto della città, pauroso forse del chiasso delle carrozze, dei ladri, ritornando lentamente sui suoi passi, guardandosi intorno con sospetto. Giammai erano usciti col figliuolo, giammai: posto che eran così vestiti, essi avevan sempre detto di no, quando debolmente li aveva invitati a uscire con lui, intendendo, malgrado la loro grossolanità, che non gli piaceva di mostrarsi con loro; egli era così bello, così signore, col soprabito, col cappello a cilindro. Ma una sera, egli rientrò più agitato del solito. Rapidamente, con una certa durezza nella voce, come egli non aveva mai usato con loro, il dottor Trifari aveva detto ai suoi genitori che per il suo affare, per il suo grande affare, per diventar ricchi, insomma, gli servivano quelle ultime poche centinaia di lire che essi ancora tenevano in serbo: che gli facessero questo ultimo grande sacrificio ed egli avrebbe reso a loro tutto, centuplicato. Parlava presto, con gli occhi abbassati, come se prevedesse e non volesse vedere l'orribile occhiata fredda e desolata che scambiarono i due contadini, colpiti al cuore, gelidi. Stavano muti, il padre e la madre, guardando a terra: e allora lui, presto, affannosamente, cercando di raddolcire la sua aspra voce, li pregò, li pregò se gli volevano bene, che gli dessero quel denaro, se non lo volean veder morto. Ed essi, taciturni, s'incoraggiavano con un'occhiata: con le senili mani tremanti il padre sciolse il sacchetto di tela e ne cavò i denari, contandoli lentamente, con cura, ricominciando ad ogni cento lire, seguendo il denaro con un occhio torbido e con un moto convulsivo del labbro inferiore. Erano quattrocentoventi lire, tutta la fortuna di loro tre. Di pallido, il dottore si era fatto rosso rosso e pareva che gli occhi gli si fossero riempiti di lacrime: senza che quei due lo avessero potuto impedire, egli si era abbassato e aveva baciata la vecchia mano al padre e alla madre, la vecchia mano scura, rugosa e callosa, che aveva tanto lavorato. Nessun'altra parola era stata scambiata fra loro: egli era sparito. La sera non era rientrato nell'alberghetto; ma oramai a queste assenze non badavano più. Pure, il giorno seguente non era rientrato a pranzo, il che accadeva per la prima volta: avevano aspettato sino a sera, egli non era venuto e la contadina sgranava il rosario, ricominciando sempre: avevano finito per pranzare con un pezzo di pane e due arance, che si trovavano nella stanza. Il dottor Trifari non rientrò neppure la seconda notte e fu verso il meriggio del secondo giorno che arrivò una lettera diretta al signor Giovanni Trifari, albergo di Villa Borghese: na lettera impostata con un francobollo di un soldo, alla posta interna. Ah, essi eran contadini, con la fantasia ottusa e il cuore semplice, essi non immaginavano, non pensavano che assai scarsamente, eran gente corta e silenziosa: ma quando quella lettera fu loro portata e quando riconobbero l'assai nota e assai amata calligrafia del figliuolo, si misero a tremare, ambedue, come se una improvvisa, indomabile paralisi li avesse colti. Due o tre volte, con gli occhiali grossolani tremolanti sul naso, con la voce trepida della vecchiaia e dell'emozione, con la lentezza di chi sa legger male e deve frenare le lacrime, il vecchio contadino aveva riletta la lettera con cui il figliuolo, prima di partire per l'America, li salutava, teneramente, filialmente: sentendo quella lettura, imprimendosi bene nella mente quelle terribili e dolci parole del figliuolo, la vecchia contadina baciava i grani del suo rosario e gemeva sottovoce. Due volte un servitore dell'albergo era entrato, con la sua aria scettica di persona abituata a tutte le traversie della vita: e aveva chiesto loro se volevano mangiare, ma quelli, dimentichi, sordi, acciecati, non avevano neppure risposto. Quando, verso le sei, entrò don Crescenzo, dopo aver bussato inutilmente, li trovò quasi al buio, seduti vicino al balconcino, in un gran silenzio. - Vi è il dottore? Nessuno dei due rispose, come se il sopore della morte li avesse presi. - Volevo dire se vi è il dottore? - Nossignore, - disse il vecchio padre. - È uscito? - Sì. - Da quanto tempo? - È molto tempo, - mormorò il vecchio contadino e alla sua voce rispose un gemito di sua moglie. - E quando torna? - gridò don Crescenzo, agitatissimo, preso da un impeto di furore. - Non si sa, non si sa, - disse il vecchio, scrollando il capo. - Voi siete il padre, voi lo dovete sapere! - Non me l'ha detto… - Ma dove è andato, dove è andato, quell'infame? - In America, a Bonaria. Gesù! - disse solo don Crescenzo, cadendo di peso sopra una sedia. Tacquero. La madre stringeva devotamente il rosario. Ma ambedue parevano così stanchi, che don Crescenzo fu preso da una disperazione, trovando dovunque disgrazie diverse e maggiori della sua. Pure, si aggrappava alle festuche: e anzi tutto voleva sapere, voleva sapere tutto, con quell'acre voluttà di chi vuole assaporare tutta l'amarezza della sua sventura. Anche costui era fuggito, dunque, anche costui gli sfuggiva, anche questi denari erano perduti, perduti per sempre. - Ma chi gli ha dato i denari per andar via? - gridò, esasperato. - Siete amico suo, voi? - Sì, sì, sì! - Veramente? - Veramente, vi dico. - Ecco la lettera, tenete: così saprete tutto. Allora lui, alla poca luce del giorno che cadeva, lesse la lunga epistola del disgraziato che, roso dai debiti, roso dalla sua passione, senza saper dove dare la testa, scriveva ai suoi genitori, licenziandosi da loro, per cercar fortuna in America. Delle quattrocento lire se ne era prese un trecentocinquanta per pagarsi un posto di terza classe sopra un piroscafo, aggiungendovi qualche lira per vivere i due o tre giorni primi a Buenos-Ayres. Confessava tutto: tutta la rovina sua e della sua famiglia, maledicendo il giuoco, la fortuna e sé stesso, imprecando alla mala sorte e alla sua mala coscienza. Rimandava poche lire ai due poveri vecchi, pregandoli a ritornare in paese, a provvedersi come potevano, fino a che egli avesse potuto mandar loro qualche cosa, da Buenos-Ayres; tornassero al paese, egli non li avrebbe dimenticati, - e i denari appunto bastavano per due posti di terza classe, sino al paesello, non vi sarebbe neanche restato nulla per mangiare; - egli pregava, in ginocchio, che gli perdonassero, che non lo maledicessero, che non aveva avuto la forza di uccidersi, per loro, ma gli perdonassero, che se li lasciava così, non gli dessero, per il suo miserabile viaggio, senza bagaglio, senza denari, buttato in un dormitorio comune e soffocante di nave, anche il triste viatico di una maledizione. La lettera era piena di tenerezza e di furore: e le ingiurie ai ricchi, ai signori, al Governo, si alternavano con le preghiere di perdono, con le umili scuse. Due volte don Crescenzo lesse quella lettera straziante, scritta da un' anima inferocita contro di sé e contro gli uomini, che si vedeva ferita nella sola tenerezza della sua vita. La piegò macchinalmente e guardò i due vecchi: gli sembrò che avessero cento anni, cadenti di decrepitezza e di lavoro, curvati dall'età e dal dolore. - E che fate, adesso? - egli domandò, sottovoce, dopo un certo tempo. - Andiamo al paese, - mormorò il vecchio. - Domani, ce ne andiamo, col primo treno. - Sì, sì, ce ne andiamo, - gemette la povera contadina, senza levare il capo. - E che fate, là? - soggiunse lui, volendo approfondire tutto quel dolore. - Andiamo a giornata, - disse il vecchio, semplicemente. Egli li sogguardò ancora così vecchi, così stanchi, così curvi, che si apprestavano a ricominciar la vita, per aver pane, a zappar la terra con le braccia tremolanti, abbassando il volto bruno e i radi capelli bianchi sotto il sole di estate. E trafitto dall'ultimo colpo, sentendo intorno a sé crescere il coro delle disgrazie, non aprì bocca sui denari che doveva avere da Trifari: anzi, fievolmente, tanta era la pietà per i due vecchi, disse loro: - Vi serve niente? - No, no, grazie, - dissero quei due, con quel gesto desolato delle persone che più non aspettano soccorso. - E fatevi coraggio, allora… - Sì, sì, grazie, - mormorarono ancora. Li lasciò, senz'altro. Era notte, adesso, quando discese in istrada. Un minuto, sbalordito, atterrato, pensò: dove andare? E di nuovo, sospinto da uno stimolo tutto meccanico, prese la rincorsa e, attraversando Toledo, salì sino all'altezza della chiesa di San Michele, dove si ergeva bruno e alto il palazzo Rossi, già Cavalcanti. In quel palazzo abitavano gli ultimi suoi debitori grossi, i più disperati di tutti, e per non cominciare con un malaugurio, egli se li era riserbati per la sera. Ma non aveva trovato denaro in nessun posto, in nessuno: e adesso, per il naturale rimbalzo degli infelici che si ribellano alla infelicità, per quella forza di speranza che giammai non muore, adesso si metteva di nuovo a credere che Cesare Fragalà e il marchese Cavalcanti gli avrebbero dato del denaro, in qualche modo, piovuto dal cielo. Quando entrò nell'appartamento di Cesare Fragalà, introdotto dalla piccola Agnesina che era venuta ad aprire la porta portando una stearica mezza consunta, e guidato attraverso l'appartamento vuoto e scuro, egli si pentì subito di esser venuto. Marito, moglie e figlia ad una piccola tavola, sopra una tovaglia anche troppo corta per la tavola, pranzavano in silenzio, guardando ogni pezzettino di fegato fritto che si portavano alla bocca, per paura di lasciarne troppo poco agli altri due: e la bimba specialmente, dal grosso appetito delle creature sane, misurava i bocconcini di pane per non mangiarne troppo. Cesare Fragalà, serio, con la linea del sorriso sparito per sempre dal suo volto, guardava la tovaglia, con le sopracciglia aggrottate: e la moglie, la buona Luisa dai grandi occhi neri, sulla cui fronte aveva brillato la stella di diamanti della madre felice, aveva l'aria dimessa e umile, in un vestitino di lanetta. Quietamente, col suo occhio tranquillo, la bimba guardava il visitatore, come se capisse, come se aspettasse la domanda che egli doveva fare, serenamente, con la pazienza del martire. E dinanzi a quel dolce e pensoso occhio di fanciulletta, don Crescenzo sentì legarsi la lingua e fu con un grande sforzo che balbettò: - Cesarino, ero venuto per quell'affare… Una vampa di fuoco arse le guance di Cesarino Fragalà: la moglie si arrestò dal mangiare e la bimba abbassò le palpebre, come se il colpo fosse oramai disceso sulla sua testa. - È difficile che ti possa servire, Crescenzo: tu non sai in che imbarazzi ci troviamo… - disse fiocamente Cesarino. - Lo so, lo so, - disse l'altro, non sapendo frenare la sua emozione, - ma io sono in una situazione peggiore della tua… - Non credo, - mormorò malinconicamente il negoziante che da pochi giorni aveva compita la sua liquidazione, - non credo. - Tu hai salvato l'onore, Cesarino, ma io non lo salvo! Che vuoi che ti dica? Non posso aggiungere altro… E non potendone più, sentendo sul suo volto lo sguardo pietoso della piccola Agnesina egli si mise a piangere. Un po' di vento della sera, entrando da un balcone socchiuso, facea vacillare la lampada a petrolio, ed era un gruppo fantasticamente malinconico quello del marito, della moglie, della figliuola che stretti fra loro, infelicissimi, sogguardavano quell'infelicissimo che singhiozzava. - Non si potrebbe dargli qualche cosa, Luisa? - sussurrò timidamente Cesarino all'orecchio di sua moglie, mentre l'altro si lamentava vagamente. - Che deve avere? - disse Luisa, pensando. - Cinquecento lire.., erano di più… ho pagato una parte… - Ed è debito di… giuoco? - disse ella, freddamente. - … Sì. - Che diceva egli, di onore? - Egli ha fatto credito a noi, e se non paga, il Governo lo mette in carcere. - Ha figli? - …Sì. Ella sparve, di là. I due uomini si guardavano, dolorosamente, mentre la ragazza li guardava or l'uno, or l'altro, coi suoi occhi buoni e incoraggianti. Dopo un poco, Luisa ritornò, un po' più pallida. - Questa è l'ultima nostra carta da cento, disse, con la sua voce armoniosa. - Restano certi spiccioli, per noi: ma per noi, Dio provvede. - Dio provvede, - ripetette la bimba, prendendo la carta da cento dalle mani di sua madre e dandola a don Crescenzo. Ah, in quel momento, di fronte a quella povera gente che contava i bocconi del suo pane e che si disfaceva dell'ultima sua moneta per aiutarlo, in quel momento, fra quegli sguardi dolci e tristi di gente rovinata che pure serbava la fede, serbava la pietà, egli si sentì infrangere il cuore e vacillò come se dovesse perder conoscenza. Per un istante, pensò di non prender quel denaro, ma gli sembrava affatato, sacro, passato da quelle mani di donna buona e forte, passato per le manine di quella coraggiosa e placida fanciulletta: disse solo, tremando: - Scusate, scusate… - Non fa niente, - disse subito Cesarino Fragalà, con la sua bonarietà. - Siete stati così buoni, tanto buoni… - mormorava, licenziandosi, guardando umilmente le due donne che sopportavano così nobilmente l'infortunio. Cesarino lo accompagnò fuori l'anticamera. - Mi dispiace che sono poche… - gli disse, - non ti serviranno. - Per il cuore valgono centinaia di migliaia, - esclamò tristemente il tenitore del Banco lotto. - Ma ho da dare quattromila seicento lire al governo, e ho solo queste… - Gli altri… non ti hanno dato nulla? - Nulla: tutta una disgrazia, tutta una mala sorte. Andrò su, dal marchese Cavalcanti… - Non ci andare, - disse Fragalà, crollando il capo, - è inutile. - Tenterò… - Non tentare. Stanno peggio di noi: e ogni giorno hanno paura di veder morire la marchesina. Il padre ha perduto la testa. - Chissà… - Ascoltami, non andare. Ti puoi trovare a qualche brutta scena… - Brutta scena? - Sì, la marchesina ha delle convulsioni che le strappano grida terribili. Ogni volta che le sentiamo, ce ne usciamo di casa. Grida sempre: mamma, mamma. no strazio. - Ma è pazza? - No: non è pazza. Chiama aiuto, nelle convulsioni. Dicono che vede Non vi andare, è inutile. Fa buone cose. - Grazie, - fece l'altro. E si abbracciarono, tristi, commossi, come se non si dovessero vedere più. Adesso, quando don Crescenzo si trovò sotto il portone del palazzo Rossi, dopo esser disceso in gran fretta per le scale, quasi temesse udire scoppiare alle sue spalle le grida strazianti della marchesina Cavalcanti che moriva, quando si fu trovato solo, fra la gente che andava e veniva da Toledo, in quella sera dolce di primavera, egli pensò, a un tratto, che tutto era finito. Le cento lire che il suo pianto aveva strappato alla miseria dei Fragalà, erano chiuse nel suo vuoto portafoglio e il portafoglio messo nella tasca del soprabito; e a quel posto egli sentiva come un calore crescente, poiché quella moneta era veramente l'ultima parola del destino. Non avrebbe trovato più niente: tutto era detto. La sua disperata volontà, la sua emozione sempre più forte, i suoi sforzi di una giornata, correndo, parlando, narrando i suoi guai, piangendo, e il gran terrore della rovina che gli sovrastava, non erano riesciti che a togliere l'ultimo boccone di pane ai più innocenti fra i suoi debitori: cento lire, una derisione, di fronte alla somma che egli doveva pagare il mercoledì, infallibilmente: cento lire, niente altro, una goccia d'acqua nel deserto. E lo intendeva: poiché aveva esaurito un immensa quantità di forza e di commozione, arrivando solo a strappare quelle lire alla onestà della famiglia Fragalà, poiché si sentiva fiacco, debole, esaurito, era dunque quella, l'ultima parola, non vi erano altri denari, non vi erano più denari, per lui, doveva considerarsi perduto, perduto senza nessuna speranza di salvezza. Una nebbia - e forse erano lacrime - nuotava avanti ai suoi occhi: e la corrente della folla lo trascinava verso il basso di Toledo. Si lasciava trasportare, sentendosi in preda al destino, senza forza di resistenza, come una foglia secca travolta dal turbine. Non poteva fare più nulla, più nulla: tutto era finito. Qualcun altro, ancora, gli doveva del denaro, il barone Lamarra, il magistrato Calandra, due o tre altri, somme piccole, ma egli non voleva neppure andarvi: tutto era inutile, tutto, poiché dovunque egli era apparso, dovunque aveva portato la sua disperazione, egli aveva trovato il solco di un flagello eguale al suo, il flagello del giuoco che aveva messo fra la vergogna, la miseria e la morte, tutti quanti, come lui. Non osava entrare in casa sua, ora, malgrado che si facesse tardi. Era disceso per Santa Brigida e per via Molo alla Marina, dove abitava una di quelle alte e strette case, in cui si penetra dagli oscuri vicoli di Porto e che guardano il mare un po' scuro, fra la dogana e i Granili: e dalla via Marina, lungo la spiaggia dove erano ancorate e ammarrate le barche e le barcaccie dei pescatori, egli guardava, fra le mille finestre, la finestrella illuminata, dietro la quale sua moglie addormentava il suo bambino. Ma non osava rientrare, no; tutto non era dunque finito? Sua moglie avrebbe letto la sentenza, la condanna, sul suo volto, ed egli non reggeva a questa idea. Una fiacchezza lo teneva, sempre più grande, spezzandogli le braccia e le gambe, in quell'oscurità, in quel silenzio, dove solo le carrozzelle che portavano i viaggiatori ai treni partenti la sera, dove solo i trams he vanno ai comuni vesuviani mettevano ogni tanto una nota di vitalità, nella bruna e larga via Marina. Non reggendosi, si era seduto sopra uno dei banchi della lunga e stretta Villa del Popolo, il giardino della povera gente, che rasenta il mare: e di là, vedeva sempre, sebbene più lontana, lontana come una stella, la finestrella illuminata della sua piccola casa. Come rientrare, con qual coraggio portare le lacrime e la disperazione in quel pacifico, felice, piccolo ambiente? E quel bimbo innocente e l'altro che doveva nascere, e la madre così gloriosa di suo marito, del suo fanciulletto, doveva lui, lui, in quella sera farli fremere di dolore e di onta? Ah questo, questo gli era insopportabile! Un castigo così grande, così grande, piombato sulla testa di tutti, come se fossero i maledetti, distruggendo la salute, la fortuna, l'onore, tutto! E in una successiva visione, egli riannodò tutte le fila di quel castigo, partendo da sé, a sé ritornando, andando dalla propria disperazione a quella altrui, sempre guardando il breve faro luminoso, dove la sua famiglia aspettava. E rivide la faccia pallida e smunta di Ninetto Costa che partiva per un assai più lungo viaggio, certo, che quello di Roma, lasciando un nome di fallito e di suicida a sua madre; rivide il corpo colpito di apoplessia dell'avvocato Marzano, le labbra farfuglianti e la miseria atroce, per cui non aveva neppure il denaro necessario per comperare dell'altro ghiaccio, mentre su di lui si aggravava un'accusa disonorevole, svergognante la sua canizie; e il professor Colaneri, scacciato dalle scuole, accusato di aver venduto la sua coscienza di maestro, e dopo aver buttato l'abito talare, costretto a rinnegare la religione, dove era nato, di cui era stato sacerdote; e la tristezza del dottor Trifari, navigante in un battello di emigranti, senza un soldo, privo di tutto, mentre i due suoi vecchi genitori tornavano, per aver pane, a scavare l'arida terra; e la rassegnata dedizione di Cesare Fragalà, dedizione in cui era finito il nome dell'antichissima ditta e in cui eravi tutto un avvenire di miseria da affrontare; e infine, su tutto, la malattia di cui moriva la fanciulla Cavalcanti, mentre suo padre non aveva più un tozzo di pane da portare alla bocca. Tutti, tutti castigati, grandi e piccoli, nobili e plebei, innocenti e colpevoli; ed egli insieme con loro, egli e la sua famiglia, castigati in tutto quello che avevan di più caro, la fortuna, la felicità della casa, l'onore. Una schiera d'infelici, dove coloro che più piangevano, erano i più innocenti, dove le piccole creature, dove le fanciulle, dove le donne scontavano gli errori degli uomini, dei vecchi, una schiera di miserabili, a cui mentalmente egli aggiungeva gli altri che conosceva, di cui si ricordava: il barone Lamarra, sulla cui testa la moglie teneva sospesa l'accusa di falsario e che era tornato a far l'appaltatore, sotto il sole, nelle vie, fra le fabbriche in costruzione; e don Domenico Mayer, l'impiegato ipocondriaco, che in un giorno di disperazione, non potendone più dai debiti, si era buttato dalla finestra del quarto piano, morendo sul colpo; e il magistrato Calandra, dai dodici figliuoli, tenuto così in mala vista, che arrischiava ogni sei mesi di esser messo a riposo; e Gaetano il tagliatore di guanti che aveva ammazzato sua moglie Annarella, con un calcio nella pancia, mentre era incinta di due mesi, e nessuno aveva saputo nulla, salvo i due figliuoli che odiavano il padre, poiché anche a loro, ogni venerdì, prometteva di ammazzarli, se non gli davano denaro; e tutti, tutti quanti, agonizzanti e pur viventi fra le strette del bisogno e il rossore dell'onta; ed egli, infine, che aveva la sua famigliuola là, nella picciola casa, quietamente aspettante, mentre egli non aveva il coraggio di tornarvi, sapendo che la prima notizia della loro sventura gli avrebbe abbruciato le labbra. Tutto un castigo, tutta una punizione tremenda: vale a dire la mano del Signore che si aggrava sul vizioso, sul colpevole e lo colpisce sino alla settima generazione; anzi lo stesso vizio, la stessa colpa, quel giuoco infame, quel giuoco maledetto, che si faceva istrumento di punizione, contro coloro che di questo vizio, di questa colpa si erano fatti il loro idolo; nella istessa passione, come in tutte le altre, che sono fuori della vita, fuori della realtà, nella passione istessa il germe, la semente della durissima penitenza. Colpiti dove avevano peccato, anzi dal peccato istesso! Tutto un lungo scoppio di pianto, da tutti gli occhi, dai più puri, uno scoppio di singulti dalle più pure labbra: una folla di povere creature oneste, dibattentisi fra la fame e la morte, scontando gli errori altrui, dando ai colpevoli il rimorso di aver gittato le persone che più amavano, in quell'immenso abisso. Non uno salvo, non uno, di quelli che avevano dato la loro vita al giuoco, all'infame giuoco, al giuoco sciagurato, divoratore di sangue e di denaro: neppur lui salvo, neppur la sua famiglia, anche lui spezzato, anche i suoi figli ridotti, certo, a stendere la mano. Ah troppo grande, troppo grande, insopportabile il castigo! Che aveva egli fatto, per dover esser lì nella strada come un mendico che non osa rientrare al suo tugurio, non avendo potuto avere l'elemosina dal duro cuore degli uomini? Che aveva fatto lui, per dover andare in carcere, come un malfattore, perché sua moglie si vergognasse di appartenergli e i suoi figli non nominassero più il suo nome? Ah era troppo, era troppo: che colpa aveva dunque commessa? Una coppia di guardie passò nella via Marina e interrogò con lo sguardo le oscurità della banchina e della Villa del Popolo: l'ombra era profonda, le guardie non videro don Crescenzo, disteso sul sedile. Ma egli, come per un rapido cambiamento di scena, si vide dinanzi agli occhi, nel Banco lotto suo, al vico del Nunzio, le ardenti sere del venerdì e le affannose mattinate del sabato, in cui i giuocatori si affollavano ai tre sportelli del suo Banco, con gli occhi accesi di speranza e le mani tremanti di emozione: e rivide i cartelloni a grandi numeri azzurri e rossi, che incitavano i giuocatori a portare nuovo denaro al lotto: rivide i cento avvisi dei giornali cabalistici e i motti: Così mi vedrai! Sarò la tua fortuna! - Il tesoro del popolo! - L' infallibile! - Il segreto svelato! - La ruota della fortuna! - e le visite frequenti dell' assistito le fatali connivenze con tutti gli altri cabalisti, frati, spiritisti, matematici, che infiammavano i giuocatori col loro strano gergo, con le loro strane imposture: rivide le settimane di Natale, di Pasqua, in cui il giuoco diventa furioso, feroce, tanto è il desiderio del popolo di entrare nel sempre sognato Paese di cuccagna e si rivide sempre lui, contento di quelle illusioni che finivano in una dolorosa delusione, contento che quel miraggio acciecasse i deboli, gli sciocchi, gli ammalati, i poveri, gli speranzosi, tutti quelli che desideravano il Paese di cuccagna, contento che tutti, tutti quanti fossero attaccati da tale lebbra, che niuno se ne salvasse: contentissimo, quando, nelle grandi feste, cresceva l'ardore, e cresceva il giuoco, e cresceva il suo tanto per cento. Vide tutto, lucidamente, dalla sua persona che si curvava a scrivere sui registri le cifre maledette e le promesse fallaci, alle facce rosse o scialbe dei giuocatori, roventi di passione. E piegò il capo, abbattuto, sentendo di aver meritato il castigo, egli stesso, la sua famiglia, fino alla settima generazione. Il giuoco del lotto era una infamia che conduceva alla malattia, alla miseria, alla prigione, a ogni disonore, alla morte: ed egli aveva tenuto bottega di quell'infamia.

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