Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbacinato

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Scritti giovanili 1912-1922

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Longhi, Roberto 2 occorrenze

Quando l'occhio socchiuso variando parcamente la commessura delle palpebre slontana o concentra i raggi della luce notturna; o la vostra ombra improvvisa sale dall'asfalto lastricato, alle mura delle case, invade pareti internate di stanze straniere, poi dallo stradale abbacinato si slunga sul prato verdebianco di luna.

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Ombra dell'ombra di un giovinetto perlucido abbracciato al fusto piatto della colonna, contro la luce, chi scorgerebbe in te così abbacinato la sostanza fievole e profonda del rosso? Stravince sul dinanzi vistosamente, qualche panneggio striato o piatto non dissimile dagli effetti di un Gauguin.

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Nanà a Milano

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Arrighi, Cletto 2 occorrenze

Quand'ebbe toccati dei tasti, rinchiuse il piano e tornò presso Enrico, che era rimasto lì abbacinato, credendo ch'ella si burlasse di lui. - Dunque, che ne dici? - gli domandò. - Sei decisa a non vedere in me altra stoffa d'uomo, che quella di cui si fanno fuori i mariti? - Decisa. - Mi concederai, Nanà, che la cosa è poco lusinghiera per me. - Hai torto. Tu calunnii la mia scelta. A Parigi, se io avessi voluto essere cento volte contessa, duchessa, principessa lo avrei potuto. Come pure se volessi avere un amante, potrei sceglierne qui a Milano mille più ricchi di te. Ma come sposo, non ci sei che tu, Enrico, a' miei occhi che mi possa far felice. E poi assolutamente io non vorrei per amante un uomo che è già sposo di un'altra. O me, o lei. - Mi concederai che la è una determinazione gravissima quella che mi cerchi - disse Enrico, che schivava sempre di alludere alla Elisa. - Non lo nego. Ma per me essa è meno grave che decidermi ad una relazione intima quale la vorresti tu... Come mio marito io avrei interesse a non rovinarti e a non disonorarti; come amante forse non meriteresti da me questi riguardi. Vedi che ti parlo schietto! - -E se io acconsentissi e ti promettessi di sposarti? - ripigliò Enrico saresti tu pronta a raccontarmi il tuo passato? - Certamente - rispose Nanà franca come una torre. - E chi dovrà essere il primo a promettere? - Tu. - E perchè non tu, piuttosto? - Perchè sarebbe perfettamente inutile, che io raccontassi la storia della mia vita ad un uomo, che non dovesse poi essere nulla per me. - Puoi tu giurarmi fin d'ora che il tuo passato non ha nulla, che sia indegno di un gentiluomo il quale promettesse di darti il suo nome? Nanà non arrossì ma non rispose subito. Chiamò a raccolta in un attimo tutte le facoltà della simulazione e della dissimulazione, poi disse con calore: - Tu sai bene, Enrico, che io sono un'artista da teatro, e non una vestale. - Questo non conta! Io non parlo di errori, parlo di macchie indelebili. Una volta che tu fossi divenuta la contessa O'Stiary nessuno avrebbe più il diritto di richiamare il tuo passato, tranne nel caso che fosse un passato infame. Ciò che io ti domando si è se la tua mano possa mettersi nella mia senza tremare che un giorno o l'altro un uomo abbia il diritto di dirti una di quelle frasi che io non potrei lavare che a prezzo della vita dell'uno o dell'altro. Nanà lo ascoltava cogli occhi fissati ne' suoi. Ella ripetè la sua scusa. - Già ti dissi che non fui maritata e che ho un figlio. Il mio povero Louiset non ha mai conosciuto suo padre. Fu un errore di giovinezza. Se nondimeno tu hai il coraggio di farmi tua moglie, ti giuro che diventerò il modello delle spose, giacchè ho conosciuto il mondo e sono certa di poterti assicurare su quel punto. Se non accetti, Enrico, sarà meglio che non ci rivediamo. Io ti restituirò, a suo tempo, la somma che mi hai favorita... E tal sia di noi. Enrico la interruppe con un gesto... - Sarà meglio che non ci vediamo più - proseguì Nanà - giacchè la nostra situazione diventerebbe assurda e pericolosa per entrambi. Per quanto il giovine fosse appassionato non aveva perduto però fin l'ultimo lume della ragione e della prudenza. Forse l'imagine sofferente e bella della Elisa vegliava ancora per lui in un cantuccio del suo cuore. Si diede a passeggiare pensieroso. - Dunque? - domandò Nanà poco dopo. - Se io dovessi promettere, crederesti tu alla mia parola? - Come a Dio! - rispose Nanà con entusiasmo non finto. Questa frase diè coraggio ad Enrico. Prese le due mani di Nanà, la attirò a sè e le disse: - Mi vuoi tu un po'di bene? - Come al miglior amico che io mi abbia - rispose la donna. Enrico la strinse sul petto. Ella si sciolse, scivolando fuori dell'abbraccio, e dicendo in francese: - Voyons! Pas de bêtises bêtisesLa frase fu crudele per Enrico. Prese il cappello e uscì. Nanà non lo richiamò. Ella si conosceva. Temeva che il subitaneo bollor del sangue non le facesse perdere il frutto della sua lunga resistenza. Ma Enrico era troppo leale e troppo inesperto per una simile donna. Del resto, cogli ardimenti della fantasia Nanà aveva risolto il problema di restare casta, con Enrico, pur non soffrendo. Ella non avrebbe potuto resistere altrimenti. Trovava il suo amante così timido, così riguardoso e così bello, che anche con tutta la potenza del calcolo di cui si era armata, ella era sicura che non avrebbe saputo sempre trovare la virtù della resistenza, se la fantasia, avvezza a ben altro, non le avesse prestato spontaneamente collo sfogo, il suo aiuto. Quando Enrico, al colmo della passione le ricingeva la vita e la copriva di insaziabili baci, ella si abbandonava per un istante alle voluttà di quell'adorazione e gemeva come donna a cui pel soverchio piacere sta per mancare la vita; poi si scioglieva a un tratto da lui, sicura ormai di non cedere. Era l'abbominazione d'una depravazione parigina, che, se Dio vuole, non è ancora comune fra le nostre donne! Questo giuoco andava da più settimane, quando avvenne un caso che diede una grande rinfiammata alla passione di Enrico. Nanà in quel tempo stava con lui buona parte del giorno. Essa andava al di lui studio al mattino e vi stava fino alle due. Al dopo pranzo Enrico tornava da lei fino a mezzanotte e ne partiva congedato sempre, e sempre più appassionato. Ma appena partito lui, un ombra d'uomo, che si spiccava da un angolo buio, dov'era stato a vedetta, scivolava lungo il muro della casa d'onde era uscito il sofferente giovine, lo seguiva da lungi per un tratto e quando lo vedeva bene avviato, e s'era assicurato che non pensava a spiare, tornava rapido, metteva la chiave nella toppa dello sportello di Nanà e spariva in esso. Quell'ombra, che alla luce appariva essere quella del marchesino Sappia, l'intimo amico di Enrico, usciva poi da quello sportello, verso le cinque del mattino. Enrico non aveva pensato ancora di essere geloso. Un'idea fissa lo consolava dei rifiuti costanti di quella donna, ch'egli amava ormai alla follia; un'idea che l'amor proprio gli faceva sembrare eminentemente logica e chiara. Se Nanà era tanto riservata con lui, come avrebbe potuto egli accogliere il sospetto ch'ella non lo fosse con tutti? Alle necessità della sua vita dispendiosa egli ci aveva già pensato assai. Era pronto a rinnovar la dose appena Nanà gli avesse lasciato intendere di non aver più danaro, e glielo aveva detto esplicitamente. Non le doveva mancar nulla! Perchè lo avrebbe essa tradito? A che scopo? Una sera Nanà gli disse: - Domani non posso venire allo studio. - Perchè? - È arrivata da Parigi una mia amica. Debbo passar la giornata con lei. - Chi è? - Madame Monrichard - rispose Nanà molto franca. - Dove stà? - Non so bene - disse la donna con un poco di impazienza. - Domani verrà qui e mi farò dire dov'è discesa ad alloggiare. - A che ora verrà domani da te? - Non lo so. Potrà venire prima di mezzo giorno e forse potrà venir dopo. È però necessario ch'io l'aspetti in casa. - Bene, verrò io da te all'ora che tu avresti dovuto venir da me. Nanà restò un poco perplessa, poi disse: - No, non voglio che tu la veda. - Perchè? - Perchè è molto bella. - Che idea! - Ho paura che la ti piaccia più di me. - Non c'è pericolo. Via! - No, non voglio assolutamente. La mattina dopo Enrico entrava alle dieci nell'andito della porta di Nanà, e il portinaio gli andava incontro porgendogli una lettera. Aveva le cifre di Nanà e diceva: "Caro Enrico" "Madame Monrichard è venuta alle otto e mezza e mi ha condotto con lei in campagna a godere gli ultimi giorni di autunno. Non torneremo a Milano che a notte. Amami. A rivederci domani al tuo studio." "LA TUA NANÀ." - A che ora è uscita stamattina la signora? - domandò Enrico scevro ancora da vero sospetto, ma col cuore molestato da un vago presentimento di sciagura... - È uscita alle nove con una signora. - Bella molto? - Oh no, tutt'altro; brutta e vecchia. - "Brutta e vecchia!" - sclamò fra sè Enrico il quale si ricordava che Nanà il giorno prima gli aveva detto madame Monrichard essere giovine e bella. - È andata in campagna n'è vero? - Non so. Non m'ha detto nulla. - Com'era vestita? - Come al solito, di nero. - Grazie - rispose Enrico, e uscì turbato. Era quello il primo attacco di gelosia che risentisse di sua vita. Ora come assicurarsi? Come avere le traccie di lei? Dove rincorrerla? Dove sperare di trovarla? Ricorse anche lui al solito mezzo comune, antico, volgare, come i sospetti negli innamorati e la cupidigia nelle cameriere, ma sicuro sempre, per quanto sfruttato da secoli. Tornò indietro, levò dal portamonete un biglietto da dieci lire, lo pose in mano al portinaio, che si guardò bene dal ritirarla senza di esso, e gli disse: - Stasera quand'essa torna a casa ne avrete il doppio se mi saprete dire da chi è accompagnata e se verrete ad avvisarmene subito. E gli diè l'indirizzo. - Signor conte illustrissimo - sclamò il portinaio cavando il berretto fino a terra - lei sarà servita. "Guadagnar trenta lire, solo per accontentare un capriccio di innocente curiosità ad un bel giovane... non c'è male" pensava il portinaio. "A Milano queste cose si vedono di rado." Verso la mezzanotte Enrico si vide comparir dinanzi, nel luogo fissato al convegno, il valentuomo sorridente, che gli narrò come avesse avuta la pazienza di stare dalle nove fino allora ad aspettar nella via il brougham, che doveva portar a casa la signora Nanà. - Ebbene? Con chi tornò? - È arrivata in un brougham, accompagnata da un signore, che è rimasto nel legno. Essa discese, senza farsi aiutare da lui, si volse gli disse À revoir entrò in casa; e il brougham partì di galloppo. A Enrico si aprivano gli occhi. Nanà lo tradiva. Diede al portinaio i venti franchi promessi, dicendogli: - Va bene. State attento che ne guadagnerete degli altri. E lo congedò con un gesto severo. Il povero giovane, non sapeva ancora per prova che cosa fosse gelosia. Non imaginava di quali morsi orrendi sia capace questo egoismo esimio, questo desiderio violento di conservare tutta per sè la donna che si ama e di impedire che altri ce la possano togliere. La Elisa, la vergine bella e pudica, scelta dal suo cuore adolescente, della quale egli aveva creduto per un pezzo d'essere innamorato, non gli aveva fatto provar mai neppure l'ombra di quell'uragano, di quella disperazione, che sentiva in quel punto sorgere nel cuore, e pigliarvi delle proporzioni rapide e spaventose. La Elisa non gli aveva fatto provare tutt'al più che una leggera puntura dell'amor proprio, quel giorno ch'ella s'era data a civettare con Aldo Rubieri, per tentar di smoverlo dalle freddezze, che a sua volta le davano tanto dolore! E si ricordò di quella leggera velleità di gelosia, e la paragonò allo spasimo atroce di quel momento in cui il portinaio, che pensava di poter guadagnare i venti franchi, era venuto sorridente e lieto a raccontargli il tradimento della sua donna. Passata la botta però, cominciò il dubbio che in simili casi, è, per così dire, di prammatica. La gelosia invero non esiste che allo stato di dubbio. Se fosse certezza non sarebbe più gelosia. La gelosia spinge la creatura alla ricerca della propria disgrazia, e finchè v'ha ricerca, v'ha dubbio. Quando la certezza è entrata, la disperazione o la guarigione sono vicine. Enrico, adunque, cominciò a dubitare e a cercare tutte le ragioni plausibili per scusare Nanà e per non crederla rea. Perchè, perchè lo avrebbe tradito? E non trovava risposta al perchè? Era invece così facile il trovarla, s'egli avesse conosciuto Nanà o avesse avuto soltanto una maggiore esperienza dell'animo femminile. Come al solito, dunque il paravento dell'orgoglio gli celò i molti perchè, dai quali una donna della tempra di Nanà può essere spinta a tradir un'amante, ch'ella abbia scelto a marito, e decise di aspettar a condannarla dopo di averla bene interrogata. La notte gli portò consiglio. Aspettò di piè fermo Nanà nel suo studio, cercando di nascondere sotto una calma completa la sua immensa emozione. Nanà alle dieci fece la sua comparsa più bella e più lieta che mai. Egli l'accolse, come il solito, andandole incontro e stendendole le due mani; Nanà gli presentò la fronte da baciare. Ella s'accorse ch'egli era pallido come un cadavere. Egli invece fece mostra di non accorgersi del moto gentile di Nanà, e la fece sedere: - Dunque ti sei divertita? - Quando?- domandò la donna col suo sorriso più sincero. - Ieri in campagna. - Ah sì, moltissimo. - A che ora sei tornata a Milano? - Coll'ultima corsa. - E chi è che ti accompagnò a casa? - Monrichard. - Il marito della tua amica? - Precisamente. Poco mancò che Enrico non mandasse un grido di gioia e non si curvasse ad abbracciare Nanà e a dimandarle scusa de' suoi sospetti. Tutto si spiegava perfettamente. Egli era stato geloso d'una vana ombra. Come mai non aveva pensato prima che quell'uomo che aveva accompagnata a casa la sua Nanà, era, doveva essere, il signor Monrichard? Rise fra sè di aver sofferto tanto! La sua gioia però doveva durar poco. Tutt'a un tratto si ricordò che la portinaia, il giorno prima, gli aveva detto che Nanà quella mattina era uscita di casa con una vecchia. Allora le domandò. - Ieri mattina a che ora è venuta a prenderti questa bellezza che tu non vuoi che io conosca? Nanà ebbe dal canto suo un sospetto. Quell'interrogatorio di Enrico, quel suo fare un po' diverso dal solito, non la lasciava tranquilla. - Son venuti a prendermi alle nove - rispose stando a cavallo sulle frasi. - E sei uscita con lei? Nanà non rispose subito. Il suo sospetto s'accresceva. - Ma perchè mi fai tante domande quest'oggi? - gli domandò. - Perchè mi interesso de' fatti tuoi - rispose Enrico colla voce più indifferente, che gli fu possibile di trovare in gola. Egli fingeva d'essere tutto intento a preparare la tavolozza. - Dunque? - Dunque che cosa? - domandò Nanà. - T'ho pregata di dirmi se fu madame Monrichard che venne a prenderti. - E con chi t'imagini che io sia uscita di casa? - sclamò Nanà levandosi. - Io non imagino nulla. Domando. - Ebbene no. Uscii con sua madre che è venuta a prendermi in vece sua. Enrico fu nuovamente sul punto di saltar al collo di Nanà. Ma ebbe vergogna di confessarsi reo, e non gliene disse nulla. E quel giorno passò senz'altri incidenti. Nell'animo di Enrico però era rimasto un lievito di inquietudine vaga, un'intuizione dell'inganno, un presentimento di sventura, che non lo lasciavano quieto. Tornò dal portinaio della casa di Nanà: - Questi sono quaranta franchi - disse. - Io ho bisogno di sapere chi viene a trovare la signora quando io non ci sono. - Se me l'avesse domandato prima glielo avrei già detto - rispose il portinaio. - Parla dunque? - Quando lei è partito, verso mezzanotte viene un signore che ha la chiave. Io sono a letto, ma lo sento entrare e montar piano, piano. - Possibile; - sclamò Enrico. - Ch'ella sia così imprudente? - Ella spera che io non glielo dica; ma lei è più generoso della signora, dunque.... - Ah, dunque la signora vi ha fatto dei regali per comperare il vostro silenzio? - Oh, no, signore - rispose il portinaio - perchè poi io sono un galantuomo, e se la signora mi avesse pagato per tacere, io avrei taciuto. Mi ha fatto un regalo sì, ma un'inezia, e non mi ha detto nulla di tacere, perchè essa spera forse che io non senta a entrare l'amico Ciliegia. - E voi siete certo che egli va da Nanà? - Può figurarsi! Dopo due o tre sere che l'avevo sentito a entrare, mi sono preparato giù dal letto a piè scalzi, e pian pianino sono uscito fuori e ho veduto che andava al primo piano. - Ma a che ora viene egli? - Un quarto d'ora dopo che lei è partito. - Non sareste capace di dirmi chi è? - Credo di saperne il nome. - Ed è? - È il signor Aldo Rubieri - rispose il portinaio confondendo un nome con un altro. Forse a bella posta? Chi lo sa! - Aldo Rubieri; - sciamò Enrico volgendo il dorso al portinaio e andandosene senza dirgli crepa: - "Lo avrei giurato!" - pensava. - "Ah! giustizia di Dio, egli dunque mi ha vilmente ingannato quand'io l'ho scongiurato di dirmi se fra lui e lei erano passate delle intimità?... E d'altronde?... Non ebbe il coraggio di posare nuda dinanzi a lui? Non ci sono che le modelle o le amanti che posino nude. Ma modella non è. Dunque! Stupido, idiota che fui finora a non capirlo." Enrico a quel punto si sentì assalito da una violentissima smania di piangere; e per soffocare l'esplosione del dolore che lo soffocava e per non farsi scorgere per la via coi lucciconi, che nessuna forza umana è valida a trattenere quando il cordoglio è al colmo, si cacciò in un brougham, brougham,disse al cocchiere: - Va a casa del marchese Sappia. E gli indicò la via calando le cortine. Ferdinando Sappia era in casa. Enrico fece irruzione nella sua camera allo stesso modo e peggio di quel giorno ch'era andato da lui a chiedergli diecimila franchi da prestare a Nanà. Vedendolo entrare pallido, cogli occhi rossi, sottosopra, convulso, il marchese, che in quel punto stava studiando sulla carta geografica un certo suo progettato viaggio in Europa, si volse, mise le due mani sui fianchi e stette ad aspettare che Enrico si spiegasse. Enrico si lasciò cadere, un po' drammaticamente, ma pur senza aria di posare, in una sedia e taceva. - Cosa c'è? - domandò il Sappia. - Nanà è una gran p....! - sclamò Enrico. Il Sappia capì che si trattava forse di lui stesso e si armò di dissimulazione. L'autore dei Promessi Sposi scrisse che: l'uomo onesto in faccia al malvagio piace generalmente imaginarselo con la fronte alta, con lo sguardo sicuro, col petto rilevato, con lo scilinguàgnolo bene sciolto. Il marchese Sappia non era un malvagio, ma sentiva, da quella frase appassionata di Enrico, di avere verso di lui tutto il torto che un amico può confessare a sè stesso di avere in faccia all'amico tradito. Sciaguratamente, in questa nostra vita contemporanea, la morale amorosa ha create tali e tante leggi in contrasto flagrante fra di loro, che il raccappezzarne una assoluta e fissa nel caso di Sappia sarebbe opera superiore ad ogni filosofico criterio. Sappia tradiva davvero l'amico? Non faceva egli quello che volgarmente - chiamasi il suo mestiere di uomo elegante? Non aveva egli un diritto su Nanà, anteriore a quello di Enrico? Poteva egli in coscienza credersi reo di lesa amicizia? Avrebbe egli avuto il dovere di raccontare ad Enrico il perchè ed il come Nanà fosse stata obbligata a riceverlo lui, di notte, mentre s'era mostrata sempre restìa e inflessibilmente, se non casta, cauta, con lui? Tutte queste domande si erano affollate nel cervello di Sappia nel breve spazio di tempo, che scorse fra l'esclamazione di Enrico e quella che egli fu obbligato di rispondergli, per non metterlo in sospetto. - Te l'avevo pur detto di guardarti! - sclamò Sappia. - Ora spiegati. Enrico gli raccontò tutto sinceramente. - Ma chi è costui che va da lei di notte? - domandò il Sappia con finta indifferenza. - Il portinaio ti ha detto chi sia? - Sì - rispose Enrico - è lo scultore. - Lo scultore? - Aldo Rubieri! Il marchese tirò dai precordi un gran fiato; egli intanto si sentì sollevato da un bel peso. La tempesta che vedeva scatenarsi sul proprio capo, si scioglieva in sereno per andar a devastare il campo del vicino. E il primissimo moto del suo egoismo fu di lietezza. Ma il secondo, repentissimo, nel suo animo fu di sorpresa e di rabbia. L'amor proprio pigliò tosto il sopravvento. Così subitaneo, a dir vero, che si confuse col primo e gli fece sclamare con accento sincero: - Dici vero? Aldo Rubieri? Ah, canaglia! Non lo sapevo! Enrico scambiò l'interesse, che la voce, lo sguardo e il gesto del marchese gli dimostravano come una commiserazione per la propria sventura, e rispose ingenuamente: - Ti pare? Tu che sai tutto di me; dimmi che nome merita Nanà? Dillo che nome merita quella donna infame? A questo punto la chimica - per modo di dire - amorosa di que' due amici diventava assai complessa e confusa. Enrico si credeva di fronte ad un amico senza colpa. Il marchese che non aveva "il buono testimonio della propria coscienza, nè il sentimento della giustizia della propria causa" era rimasto leggermente imbarazzato e silenzioso. O'Stiary proseguiva: - Tu che ne dici? Che cosa mi resta a fare? Levarmela dalla mente ora è impossibile! Non avrei mai creduto che una donna potesse rendermi così vile e stupido! Lo riconosco.... Ma è più forte di me, è più forte della mia volontà! Oramai non posso più far senza di lei. - Non c'è che un viaggio! - disse Sappia - Va via... va a Parigi. Vengo anch'io. - Impossibile! Ci ho pensato. Ma ritornerei dopo tre giorni. Che cosa vorresti facessi in viaggio se ella mi ha come... ammaliato? - Capisco, capisco! - ripetè il Sappia sopra pensiero. - Ma sai bene, Enrico, in queste cose non si possono dare consigli. Io non ho mai provato che cosa sia questo tormento. La mia Luisa io non l'amo abbastanza per esserne geloso. E stettero silenziosi entrambi per un cinque minuti. La conclusione fu che il Sappia non diede altro consiglio ad Enrico e che Enrico si accontentò per quel giorno d'essersi sfogato coll'amico traditore. Così, e non altrimenti, corre ai giorni nostri la vita vera E chi desideroso di non trovarla tanto sconclusionata e smorta volesse caldeggiarla e idealizzarla, per seguire i dettami di chi odia la pretta verità, correrebbe rischio di dipingere una società di fantasia, mille e mille altre volte descritta dai maestri del passato, ma sterile poi e vuota di ammaestramenti ai filosofi socialisti.

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Enrico ne doveva mille e cinquecento all'amico, mille e duecento a Silvestro Bonaventuri, e trecento alla Romea, Il povero giovinetto era così confuso di dover danaro perfino ad una donna, era così spaventato, così abbacinato dalla perdita, dal timore di non poter il giorno dopo farsi onore nelle ventiquatt'ore, dello spavento che il tutore e la Elisa venissero a sapere la sua scappata, che quasi quasi ne piangeva a calde lagrime. Il Sappia dovette scuoterlo più volte. - Ma domani come si fa? Pensa che debbo trecento franchi anche alla signora Romea. - Ci penso io - gli rispose l'amico. - Non seccarti. In ogni caso la Romea ne deve a me cinquecento da sei mesi, che non me li ha mai restituiti. Preso poi in disparte il Bonaventuri, che conosceva, per quel tanto che si conoscono certe persone: - Favorisca - gli disse - a indicarmi dove ella sta di casa. - Oh - sclamò il Bonaveuturi, come schermendosi - la si figuri; ha tutto il tempo; lei è padrone di tutta la mia sostanza... "Buono a sapersi" pensò il Sappia fra se. Enrico quella notte non chiuse occhio e fece il più inviolabile proponimento di non giuocare mai più. Nella ingenua purezza della sua coscienza di vent'anni, egli sentiva di quel fatto un rimorso indicibile. A mattina andò dal tutore e gli spiattellò senza reticenze la sua avventura della sera innanzi. La fu una scena di inenarrabile delusione per lui, una tempesta di maggio, un finimondo. Il tutore gli fece una parrucca che non finiva più. Egli era un di quegli uomini che non crederebbero di far il loro dovere se non quando s'accorgono d'avere ben tormentata la loro vittima. Essi hanno nelle vene, io credo, un po' di sangue di Torquemada. Questo modo di educare, essi lo chiamano saggezza. E certo se facesse l'effetto di render saggio meriterebbe quel nome; ma siccome non ottengono invece che quello di seccare dovrebbe esser chiamato seccatura. seccatura.Allo stringer dei nodi il tutore si rifiutò perfino di pagargli quel primo debito di giuoco. Enrico non sapeva più in che mondo si fosse. Corse a trovare il marchese d'Arco. Questi ascoltò in silenzio il racconto e le giustificazioni del giovinetto; poi senza dir motto si levò, andò al suo scrigno, ne abbassò l'imposta, tirò fuori un cassettino, ne trasse tre bei biglietti da lire mille e li porse al giovinetto dicendogli questa sola frase: - Ma cerca di non giuocare mai più se ti è possibile! Enrico da quel tratto restò assai più confuso che non lo fosse stato prima dalla lavata di capo e dalle smanie esagerate del suo tutore. - Oh, marchese, come è buono lei! - sclamò il giovine buttandosi al collo del vecchio e baciandolo sulle labbra. - Mi prometti sul tuo onore che non giuocherai più? ripigliò sorridendo di gioia e dopo un certo silenzio il marchese. - Sì, glielo prometto in parola d'onore e colla sicurezza di mantenere la mia promessa. - Tu devi sapere Enrico, che a' miei tempi ho giuocato molto anch'io. Allora il giuoco era di bon ton non era proibito, lo si faceva in pubblico. Il governo straniero usava di questo mezzo per demoralizzarci, per distoglierci dalle idee di patria e di indipendenza. Vedi dunque che ti parlo con cognizione di causa. Fin d'allora mi capitava sempre, che perdendo, io pagava puntualmente entro le ventiquattr'ore il mio debito; ma se vincevo pochi lo pagavano a me. - Possibile? - Possibilissimo mio caro Enrico. Credilo pure; la gente che paga i debiti di giuoco non è a questo mondo che un decimo di quella che non li paga. Questa almeno è la statistica della mia dolorosa esperienza! Non so se gli altri saranno stati più fortunati di me nella loro vita. Ma è così! Ora capisci bene. Se tu quando perdi sei certo di dover pagare, e quando vinci sei certo di non essere pagato che dieci volte su cento... la cosa diventa molto seria. Sarebbe necessario perchè tu restassi almeno in pace che vincessi novantacinque volte su cento; il che assolutamente non è possibile avvenga. Hai fatto bene dunque a promettermi che non giuocherai più. E qui si mise a parlargli di tutt'altro. Il marchese artista nell'anima tempestava Enrico di domande sulla sua posizione, sulla pittura, sulle sue idee circa le due scuole, sulle sue speranze di farsi un nome, sull'avvenire sognato. Enrico s'accalorò in quel dialogo. Il marchese godeva enormemente a sentirlo parlare così modesto, così schietto, così sincero e così pieno di illusioni. - Ma non credi tu - gli disse a un certo punto - che il positivismo, il realismo e la democrazia abbiano a uccidere l'arte? - Ah, marchese, al contrario! L'esaltazione del popolo sarà l'esaltazione dell'arte. Il marchese crollava il capo sorridendo. - Ah, entusiaste! - Non lo crede lei? - Io no davvero, - rispondeva il marchese. - Il popolo, e per popolo m'intendo quella parte della popolazione d'un paese che si stacca dall'aristocrazia illuminata e dalla borghesia ricca e studiosa, il popolo non sente bisogno dell'arte, nè la capisce. Mancando assolutamente di sentimento estetico come vorresti tu ch'essa amasse il bello nelle sue manifestazioni? - Eppure se c'è un'esposizione di quadri e di statue vi accorre...! - Il popolo no, non se ne cura. La statistica della affluenza del pubblico alle esposizioni parla chiaro. In ogni modo anche i pochi che ci vanno non vi sono attirati dal bisogno di ammirare il bello, ma dalla curiosità di veder nei quadri dei fatti interessanti, allegri o pietosi. Il quadro sarà pessimo come arte, ma rappresenterà qualche fatto ben volgare, ben chiaro, che squadri al popolo? Sarà il prediletto da lui. Esso non s'accorgerà che artisticamente parlando il quadro è uno sgorbio, un abbominio. Il popolo non monta verso l'arte se non quando l'arte discende giù fino al volgo. E il naturalismo stesso, l'impressionalismo, di cui tu mio caro Enrico, ti dichiari seguace e cultore, non è forse l'arte che abdica in favore dei grossi istinti del volgo? Enrico era impaziente di andar a pagare i debiti fatti la sera prima. Erano i primi debiti di sua vita e gli rimordevano la coscienza. Diede dunque ragione al marchese e se ne andò ringraziandolo di nuovo con espansione. Prima di spiccarsi dal suo vecchio amico, questi aveva cavato da una cartella che stava sulla tavola un foglio di carta e accostando alla mano di Enrico il calamaio gli aveva detto: - Scrivimi qui la ricevuta e la promessa di non più giuocare. Enrico si dichiarò debitore delle tremila lire al marchese e promise nella ricevuta di restituirgliele quando fosse andato in possesso della propria sostanza. Della mesata insufficiente fissatagli dal tutore non si fiatò. Non si ricordò di parlarne. Il marchese non gli aveva neppur lasciato il tempo di spiegare la cosa, e quando Enrico s'era trovato esaudito, col danaro in mano, s'era scordato di entrar in quell'argomento. Enrico corse a casa di Sappia, a cui raccontò il rabbuffo e la crudeltà del tutore e il bel tratto del marchese d'Arco. Volle andar egli stesso nella bottega della Romea, a portarle i suoi trecento franchi, che gli bruciavan le dita e dovette spenderne un'altra quarantina di giunta, in bottiglie di dichampagne ch'essa gli appioppò senza che lui, timido ancora, osasse di rifiutarle. Poi, con Sappia, ritornò a casa. - Parlerò io al tuo signor zio antidiluviano - aveva sclamato il Sappia quando Enrico gli aveva raccontato del fiero rabbuffo avutone. - Lui li chiama minuti piaceri Altro che minuti! Impercettibili, microscopici... piaceri! Il notaio a stento acconsentì di portar l'assegno di Enrico da duecentocinquanta a trecento franchi al mese. - Domando io caro signor marchese - gli disse congedandolo, e colla più profonda convinzione di dir cosa sensata ed onesta - domando io come potrà mai arrivare a spendere più di otto franchi al giorno fuori di casa? - Nei mesi di trentun giorni e negli anni bisestili - disse il Sappia con una finissima ironia che il tutore si guardò bene dal notare - gli otto franchi al giorno sì può calcolare che diventino soltanto sette e novantadue centesimi. - Ho fatto un buco nell'acqua - diss'egli tornato che fu all'Enrico, il quale non s'aspettava nemmeno i cinquanta franchi d'aumento - Bisogna che tu faccia la lite al testamento di tuo padre, che ti ha voluto tener sotto a quel mastodente fino ai ventiquattr'anni; se no finirai, col rovinarti moralmente e materialmente, te lo dico io! - No - rispose Enrico. - Prima di tutto io non vorrei fare questa lite, neppure nel caso che non offendessi l'ultima volontà e la memoria di mio padre. In ogni modo, dato che il tribunale mi desse torto, io sarei perfettamente rovinato, giacchè avrei fatta opposizione; e tutta la sostanza andrebbe ai gesuiti che stanno aspettando al varco la preda. È meglio ch'io mi stia ai primi danni. Così erano passati circa due anni, e a dispetto dei trecento franchi al mese, Enrico O'Stiary era diventato uno dei giovani più brillanti di Milano. Cavalcate, scarrozzate, scherma, cene, club, ballerine, e pur troppo di nuovo, il giuoco - nel quale era ricascato con vivo, quantunque inutile rammarico, con profondo, ma pur vano rimorso - erano le occupazioni delle sue giornate e delle sue notti. E la povera Elisa trascurata, infelice, ma orgogliosa nel suo dolore s'era fatta intanto donna. Il tutore non badava più all'Enrico. Disperava di cambiargli la testa. "Chiudeva un occhio per non inquietarsi" come diceva lui. Il marchese d'Arco dal canto suo, il quale vedeva il suo giovane amico far la vita del gentiluomo, e non s'era curato mai di sapere quale somma il tutore gli avesse fissato pei minuti piaceri, era ben lontano dall'idea ch'egli si stesse rovinando a bagno maria. Egli poi non sospettava che Enrico si fosse rimesso a giuocare. Gli sarebbe parso fargli uno sfregio pensando che un'O'Stiary avesse potuto mancare così alla parola d'onore. Quando si trovavano parlavano d'arte, di cavalli, di politica, e le miserie umane le lasciavano da parte. Enrico dal canto suo, si guardò bene dal ricorrere un'altra volta al marchese per denaro, e lo schivava come un rimorso. Il Sappia pensava largamente a tutto. Suo padre e sua madre gliene davano in una certa abbondanza, ed egli aveva un credito grande presso gli usurai! E anche lui - lo sciagurato - faceva delle orribili operazioni a babbo morto! Ma era venuto un bel giorno che anche il Sappia erasi trovato nella necessità di chiedere danaro ad Enrico. Il povero giovine gli avrebbe data la vita, ma non aveva che i suoi duecento franchi al mese. Risolse di farla finita col tutore; di parlargli fuor dei denti, di ottenere insomma quello a cui gli pareva di aver diritto. Ci pensò un paio d'ore, poi piuttosto che aver a fare con don Ignazio si aperse alla balia. La balia gli aveva detto di avere dodicimila lire alla Cassa di risparmio. Non lasciò che l'Enrico terminasse la frase; corse per quanto glielo permettevano i settantanni nella sua camera, e portò al contino le dodicimila lire in tre bei libretti puliti e fiammanti ch'era un piacere a vederli. - Ma no, non voglio, non voglio - diceva Enrico colle lagrime agli occhi. La balia alzò la destra, e con una specie di entusiasmo, sclamò: - Ma non è forse roba sua codesta? Quale uso più degno potrei fare di questo danaro... io che non ho più nessuno al mondo? Pochi mesi dopo convenne di nuovo rivolgersi altrove. Il tutore, quand'ebbe messa da parte del tutto la speranza di vedere il conte far giudizio, pensando al giorno ormai vicino in cui gli sarebbe toccato rassegnargli la sostanza taglieggiata e forse perduta, intieramente aveva cominciato a cercarsi dattorno un altro sposo per la sua Elisa, che già aveva trascorso il diciottesimo anno. Egli comandò a sua moglie di far di tutto per disingannarla nel caso ch'ella nutrisse ancora qualche speranza di diventare la moglie del contino e si mise a sparlare a tavola del suo pupillo e a tentar di metterglielo in mala vista. Ma egli non pensava che dieci anni di pensieri e d'illusioni accarezzate non si distruggono in un giorno! L'uomo adatto, del resto non tardò a presentarglisi sotto la miglior luce del mondo. Era Aldo Rubieri - che s'era fatto un bel nome e una bella sostanza, e che quantunque artista, parve al babbo un modello di uomo serio e un marito esemplare. Chi mai avrebbe detto a Enrico O'Stiary che quei cinquanta franchi da lui con lieto animo versati nella borsa di Luisa a titolo di beneficenza la sera d'un giorno d'autunno del 1866, dovessero essere il primo anello di una lunga e disastrosa catena di sagrificî, di spese, di perdite, di debiti, di rovesci, che lo dovevano condurre tre anni dopo, quando egli era lì lì per aver la piena disponibilità della propria sostanza, ad essere un uomo rovinato? Ma sopratutto chi gli avrebbe detto che la causa principale, la causa effettiva del suo rovescio, non doveva essere nè l'amico Sappia, non doveva essere la Luisa, non doveva essere il giuoco, ma piuttosto la gretta protervia del suo tutore, che aveva negato fin dal principio di fissargli quel tanto, che nella sua posizione era necessario?

Pagina VI

POESIE

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MICHELSTAEDTER, Carlo 1 occorrenze

Ecco la terra ancora si congiunge coi nuovi mondi in alto, e la striscia di fuoco ecco dirompe la tenebra, ed io stesso abbacinato nel vortice di fuoco sono avvolto. Sospesa a quella luce è la mia vita un attimo od un tempo senza fine, che fra il lampo ed il tuono non si vive. - Ora scoppia la vita e s'apre il frutto del mio tanto aspettar, ora la gioia intera e il possesso dell'universo, ora la libertà ch'io non conosco, ora il Dio si rivela, ora è la fine. Ma scroscia il tuono che m'assorda ... io vivo e famelico aspetto ancor la vita. Altri lampi, altri tuoni, ed il mistero in benefica pioggia si dissolve.

VORTICE

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Oriani, Alfredo 1 occorrenze

Istintivamente aperse le braccia puntando le palme sulla ghiaia, abbacinato dall'immenso fulgore di quell'incendio, che si precipitava contro di lui rugghiando. I suoi occhi sostennero per un istante l'urto, non capiva, non sentiva; poi gli parve che il ventaglio di fiamme si sollevasse, si vide la macchina lanciata a volo sulla testa, come un'enorme arco di ponte che ardesse, un vento impetuoso gli sferzò il volto, mentre la terra squarciata da un ultimo sforzo si apriva sotto di lui. - No, no! - ebbe appena il tempo di urlare, ritraendo disperatamente la testa, che la macchina gli era forse già a soli venti metri. Un torrente nero; solido, alto: un soffio gelido ed irresistibile lo gettò quasi giù dalla ghiaia, sulla quale puntellava ancora le mani, raggricchiato nello sforzo istintivo di farsi più piccolo, senza potersi muovere, chiudendo gli occhi ad ogni vano fra vagone e vagone, come ad una scudisciata che gli fendesse a mezzo le pupille. E il treno enorme, vertiginoso, freddo, nero non finiva. All'ultimo vagone egli rotolò sul sentiero. Quando si rialzò non vide più il treno. * * * Egli se ne andava lungo il sentiero, a testa bassa. Una vergogna amara di quanto gli era accaduto aumentava sulla sua coscienza, come dopo la pioggia in certe pozzanghere cresce l'acqua. Si era gettato sotto il treno cedendo alla pressione di una forza interna che lo spingeva, e la sua ragione, rianimata dal fracasso della macchina, aveva avuto irresistibilmente paura. La sua volontà, incapace di qualunque sforzo, non si era più mossa, quando puntato sulle mani, colla testa rasente ai predellini dei vagoni, aveva sentito sfilare ruinosamente tutto il treno. L'aria, che fuggiva smaniando fra i larghi raggi delle ruote, gli schiaffeggiava il volto gelato da uno di quegli orrori fantastici, pei quali nella notte i fanciulli perdono la voce. Egli non si era immaginato la morte così enorme, con quella onnipotenza di uragano! Adesso tutta la sua natura di uomo timido ed inetto ripigliava il sopravvento. Una specie di buon senso gli diceva sommessamente che aveva avuto ragione di aver paura: lo spettacolo del treno, veduto colla testa sulle rotaie, era qualche cosa d'inesprimibile, d'insopportabile. Le rotaie oscillavano sotto la sua fronte, quasi come il filo del telegrafo quando il vento soffia impetuoso, la terra reboava, quel ventaglio di fiamma, formato dalla congiunzione dei due fanali, si dilatava sempre come per la spinta di una eruzione, dalla quale sfuggiva in alto un'immensa colonna di fumo. Era una scossa saltellante di valanga, con un rombo di tuono fra schianti di baleni e un vento freddo e una minaccia fulminea che rovesciava, dissolveva tutto dinanzi a sé. Perciò non aveva resistito. Per un solo istante si era irrigidito nel duello, premendo la tempia sul ferro gelido della rotaia collo sguardo ardente su quell'incendio; sarebbe abbisognato che il treno non fosse stato più che a tre metri, e allora forse il delirio stesso gli avrebbe fatto mantenere la posizione. Ma uno spavento lo aveva avviluppato, e lo cacciava nuovamente per quel sentiero nella notte tranquilla. Dove andare? Sentiva di avere ancora paura della morte, che gli era quasi passata addosso con quel treno oscuro e fiammeggiante, nell'impeto procelloso di una vittoria: ne aveva rimasto l'abbarbaglio negli occhi e il vento nei capelli. La sua faccia non gli sarebbe parsa più la medesima, se avesse potuto vederla; era di un pallore lapideo, cogli occhi vitrei e una specie di smorfia immobile sulla bocca. Come tutti i toccati dalla morte, aveva mutato. Nel suo stesso terrore gli rimaneva qualche cosa di estraneo alla vita, un senso di profondità interminabili, un freddo di caduta per una ruina di abissi. Infatti quel treno non gli era parso che si allontanasse per la strada ferrata, ma era dileguato per lo spazio, come il tuono, in uno di quei rapimenti che accendono a razzi le stelle. * * * Si arrestò. Aveva camminato per qualche miglio, senza por mente alla diversità della sottoposta campagna nella tenebra. Si accorse di essere tutto bagnato di sudore e di rugiada, il luogo non pareva mutato, e le rotaie gli si perdevano sempre dinanzi a pochi passi sul piano oscuro della strada. - Diranno che ho avuto paura! Infatti lo avrebbero detto, vedendolo così. Era stato lo sbigottimento inevitabile della morte, giacché il coraggio non è appunto che uno sforzo contro di esso, che la gente non vorrebbe mai vedere in coloro che debbono morire. Il soldato, il condannato titubante divengono istantaneamente spregevoli; bisogna che entrambi fingano il disprezzo, quasi la provocazione, perché tutti si esaltino in questa vittoria della volontà umana. Ma il suicida, che si vantò, per una qualunque ragione, di gettare la propria esistenza come un cencio immondo dietro di sé, non ha più diritto alla paura. In questo caso la gente insorge contro il falso temerario, che voleva sottrarsi alla pressione della morte, più greve ancora di quella dell'aria, giacché ci mantiene aderenti alla vita malgrado tutti i dolori: e le contumelie diventano la rivincita dell'umiliazione, che il coraggio inesplicabile di ogni suicida infligge alla moltitudine sempre invocante la morte e singhiozzante di viltà ad ogni sua apparizione. Chi l'ha voluta davvero, non può ritornare nella vita. È una consacrazione come quella che la religione pratica sui propri sacerdoti, i quali non sanno più riconfondersi cogli altri uomini. Egli si rappresentava tutto questo oscuramente, nelle scene che ne sarebbero seguite a casa sua e nel caffè. Si ricordava di alcuni, che avevano annunziato il proprio suicidio, di altri ancora più infelici, che vi erano sopravvissuti rimanendo per tutti un oggetto di scherno. Se egli fosse tornato addietro, avrebbe intoppato nella ilarità di tutto il paese, unanime, dopo una simile commedia, nel giudicare anche più abbietto il suo dramma. Poi, conosceva la zia Matilde, che appena aperta quella lettera ne avrebbe gettato le alte grida per tutta la casa e per le strade, correndo da Caterina. Come intercettare quindi quella lettera? Perché intercettarla? Per quanti sforzi avesse voluto fare, non gli sarebbe riuscito di tornare indietro: la sua anima vuota non amava, non si doleva più, ma, sola dinanzi a sé medesima, assisteva come uno spettatore al supremo duello della volontà contro l'istinto. Se non che, finite tutte le ragioni del vivere, la vita resisteva ancora al pari di ogni involucro alla pressione che doveva spezzarla, ed egli provava un'ultima indicibile vergogna per se stesso nel riconoscersi così pauroso. Solo una specie di testardaggine, un impegno col proprio orgoglio, l'obbligavano a morire. Aveva sempre la rivoltella in tasca, ma non pensò nemmeno un istante a servirsene; dopo quel primo infelice esperimento, temeva di fracassarsi la testa senza uccidersi, perdendosi così in un'altra fine peggiore di tutte le morti. Infatti un suicida sopravviveva ancora in paese, dopo essersi asportato con un colpo di pistola quasi tutta la parte inferiore del volto: era un giocatore non vecchio, che da quel giorno non aveva più osato uscire di casa, e pel quale la serva, diventata sua moglie, cercava l'elemosina. Ma se avesse potuto davvero analizzare sottilmente se stesso, in quella ripugnanza ad uccidersi con la rivoltella avrebbe scoperto qualche altra cosa, poiché a quel modo si sarebbe veramente ucciso da sé, mentre invece non voleva che morire. Gettarsi sotto il treno e lasciarsi schiacciare! Non egli avrebbe distrutto sé medesimo, ma un'altra forza, un mostro vivente, ansante, il più prodigioso uscito dalla mente umana. Egli sentiva un'ironia nella antitesi della propria debolezza contro tale onnipotenza, nel mutare quello stupefacente veicolo di vita in uno strumento di supplizio. Era come una vendetta contro la società, che lo costringeva a morire colla assurda contraddizione delle proprie leggi coi propri costumi. Infatti il suo suicidio non aveva altro motivo. La natura non ha bisogno del nostro concorso per ucciderci, il mondo solo ci condanna al suicidio: quando la nostra presenza non vi è più possibile, sentiamo la necessità di morire, per non durare come un rimasuglio fra la gente. La società non è pari alla natura, nella quale anche i residui hanno un valore. Ognuno crea se stesso in una classe o in una funzione con indelebili caratteri, ma, distruggendo questa personalità, non gli rimane né posto, né gruppo. Allora erompe la contraddizione fra l'istinto che vorrebbe vivere, e la ragione che non sa più trovarne il modo. Infatti egli non aveva, coll'imprudenza di quella cambiale falsa, sciupato che la propria condizione in paese, così che potendo trasportarsi altrove non avrebbe quasi nulla perduto. La morte, cui si umiliava, era un omaggio al giudizio della società, un tragico complimento all'importanza della classe, nella quale era nato. Come marito, come padre, come uomo, egli consentiva a non poter vivere se non come aveva vissuto fino allora, mentre intorno a lui le migliaia e migliaia vivevano egualmente bene entro la condizione, nella quale sarebbe precipitato; ma poiché la nostra vita è anzitutto spirituale, una mutazione della sorte vi ha infinitamente più importanza che qualunque altra della natura. Dalle più grandi tragedie ai più minuscoli drammi, non si tratta mai che di suicidio, di una immolazione che l'individuo fa di se stesso alla società, come vittima espiatoria delle colpe altrui o delle proprie. Quindi la vergogna dell'aver avuto paura lo mordeva anche allora, che nessuno se n'era potuto accorgere. L'orgoglio necessario al suicidio, quella esaltazione di sentirsi maggiore degli altri, appunto gettando ciò che è tutto per essi, gli era venuta improvvisamente meno. Vile come coloro, per non somigliare ai quali moriva, si era gettato disperatamente indietro dalla rotaia, invece di lasciarvisi sfracellare. Egli aveva provato confusamente, in quei brevi istanti, una specie di compiacenza ironica e superba al pensiero di insudiciare col proprio sangue il lucido cerchio delle ruote, arrestandone forse, magari per un secondo, la marcia trionfale. Lo avrebbero visto fracassato, irriconoscibile, inorridendo in quella inesprimibile paura della morte, che gela istantaneamente tutti i cuori! Sarebbe stata la sua rivincita dopo morte, perché anche il suicidio ha bisogno di averne una. * * * Seduto accanto al palo, coi gomiti sulle ginocchia e la fronte fra le palme, piangeva. Dopo aver girato lungamente innanzi e indietro per il sentiero, in un orgasmo di febbre, era ritornato allo stesso punto, vinto dal fascino misterioso, contro il quale lottava. Era stata una corsa miserabile di fanciullo smarrito per la notte che si sente aggredito a ogni tratto nell'invisibile e non osa gridare nemmeno inciampando. Non poteva decidersi, non sapeva andarsene; qualche altro treno doveva passare prima di giorno. Quando rivide quel palo, ne provò un sollievo come di una meta; la luce del disco era sempre rossa, lontanamente la stazione aveva quel largo riverbero d'incendio. Qualche lagrima calda gli scivolava fra le mani e le guance, sciogliendosi con un sottile bruciore di sale. Era l'ultimo pianto, quello che non si sente più, perché tutto è già morto di dentro: i suoi occhi piangevano, come talvolta le ferite lasciano uscire goccia a goccia il sangue, mentre il moribondo sente ancora che col sangue se ne va la vita. La natura stessa esprime talvolta un simile pianto in certi squallori di paesaggi autunnali su praterie opache, sotto un cielo grigio, senza un vivente che le attraversi e senza case; o fra roccie appannate e riarse, in una nudità di cadavere. E vi è un dolore sotto le pietre, e pare un pianto l'umidità che l'aria del crepuscolo vi lascia. * * * Un gallo cantò. L'aria era ancora così scura, ma il sereno del cielo principiava ad imbiancare in una purezza sempre più scialba: le stelle adesso rade perdevano quel tremolio che le ingrandiva, ogni vapore si era disciolto. Senza che ne apparissero ancora i segni, l'alba si avvicinava. Nell'aria più fredda altri brividi passavano, simili a sussurri mano mano più intensi. Toccò un ciuffo d'erba sull'orlo della ripa, e ne ritrasse le dita imperlate di rugiada. Da quell'altezza della strada cominciava a discernere la campagna. Gli alberi scoprivano già le cime, disegnando la regolarità dei loro filari; poi un altro gallo cantò e un crocchio di rane volle rispondergli, ma la loro voce notturna si spense all'improvviso. Gli parve di udire come uno schiaffo di imposte nel muro, una luce apparì. Non era più la notte. Laggiù il grande riverbero della stazione si appannava, mentre dietro le mura della città quel vapore luminoso aveva cessato di salire dalle strade invisibili, e in alto, molto in alto, i tre campanili spiccavano rigidamente. Un freddo gli strinse lo stomaco. Sebbene il casello del guardiano sembrasse chiuso, si allontanò guardingamente dal palo, perché sul margine della strada, nell'aria sempre più diafana, sentiva di apparire a tutta la campagna. Gli alberi si scrollavano lievemente, sibili d'insetti, tintinni misteriosi preludevano alla grande sinfonia del giorno. Una luce approdava all'ultimo orizzonte respingendo la tenebra, che si orlava di riflessi evanescenti in lunghe strisce, talvolta simili a nuvole stracciate. Ma più che dell'albore, egli aveva paura dei suoni. Le cose più mattiniere intorno a lui si erano già deste; dentro le frondi qualche ala batteva per spigrirsi, mentre gli ultimi sogni strisciavano impalpabili sugli occhi ancora socchiusi. Seguì per qualche minuto il volo spaurito di una nottola, rivedendola ogni volta, con una specie di compiacenza egoistica, traballare sempre più incerta e precipitarsi nuovamente giù nell'ombre più dense, ad ogni chiarore che si diffondeva nell'aria. Si era allontanato mezzo miglio dal palo, ma la città e il ponte di ferro si vedevano ancora. Se non avesse avuto così paura del giorno, gli sarebbe sembrato ancora notte; infatti, laggiù, i fanali rimanevano accesi, appena l'ultima linea dell'orizzonte si era rischiarata, e qualche gallo impaziente aveva lanciato il primo squillo della propria diana. Ma i suoi sensi, vibranti di un ultimo orgasmo, gli rendevano manifesti i più impercettibili segni. Non poteva più ricapitolare quanto gli era accaduto nella notte, sentiva solamente una vergogna crescente, intollerabile di essere ancora lì, senza un motivo. Per tutta la notte era stato solo, adesso invece la luce gli addenserebbe intorno tutti i viventi: il suo coraggio non potrebbe resistere, sarebbe ripreso, ricacciato a forza indietro, più in basso, per sempre, sotto la propria ruina, inconsolabile, immutabile, inutile. Tutto ridiventava un pericolo. Guardava, ascoltava convulsamente; la notte non era più simile a se stessa; la sua frescura, la sua tranquillità, il suo sonno avevano mutato; una inquietudine agitava ogni suono e dava un accento di trepidazione a tutte le voci. La solitudine si riempiva. Guardò l'orologio, ma non distinse i numeri sul piccolo quadrante, e non osò accendere un fiammifero. Dovevano essere le quattro: forse a quella distanza l'orologio di sant'Ippolito si sarebbe ancora udito; poi n'ebbe paura. Qualunque voce gli faceva male; nell'aria colse un vagare di aromi, altri effluvii che s'innalzavano verso il mattino. A che ora passerebbe il primo treno? Sbigottito si voltò verso il disco, ancora così rosso, ma di un rosso meno luminoso. Per le altre strade della campagna la gente doveva aver ricominciato il proprio passaggio, i lattivendoli, gli ortolani, tutti coloro che soddisfano ai primi bisogni della città; nei due grandi caffè della piazza, sempre aperti, nottambuli col volto livido dalla veglia troppo prolungata comincerebbero a parlare di separarsi, perché odiavano istintivamente l'alba e la sua ripresa coraggiosa del lavoro sotto la immutabile necessità dell'andare avanti. Anch'egli era un nottambulo, l'ultimo, per l'ultima volta. Nel tormento di quella paura, soffriva alla preparazione lenta del giorno, più ammirabile forse che lo scoppio stesso del sole trionfante daccapo a sollecitare coi propri raggi tutti i viventi. Egli allora non si muoverebbe, informe cadavere per sempre. Ma non voleva esser visto prima, non aveva bisogno delle sollecitazioni, che gli aumentavano intorno. Se ne andrebbe, se ne andrebbe ad ogni modo, nella disperazione di non aver potuto nulla comprendere, senza la giustificazione di quanto aveva sofferto! Meglio la notte, il buio senza vita: un silenzio eterno e la sicurezza del nulla, perché non vi poteva essere altro, dopo! Il suo odio alla vita glielo rivelava chiaramente. Egli, che aveva tanto patito il giorno innanzi nella rottura graduale di ogni vincolo, adesso non soffriva più che la fretta, colla quale gli pareva di sentirsi cacciato; non v'era altro tempo da perdere. Fra venti o trenta minuti, da quella posizione tutti avrebbero potuto scorgerlo. I canti dei galli si erano venuti ripetendo, poi un muggito aveva dominato tutte le voci. I pioppi tornavano a stormire colla battuta secca della grandine, i salici sibilavano, le quercie sussurravano appena. Da un olmo sotto la strada un gridìo di passere, subitaneo come una risata, lo fece trasalire. Ormai egli stesso avrebbe potuto discernere lungo il binario un uomo a grande distanza, e tuttavia era ancora presto. Si fermò al primo palo del telegrafo, sdraiandosi daccapo sul sentiero per nascondersi. Stava in agguato, coll'occhio teso sulle ultime lontananze della strada, l'orecchio aperto sospettosamente a tutte le voci; le erbe alte, fradice di rugiada, gli bagnavano il volto percosso tratto tratto da un tremito, che gli echeggiava sonoramente sino al fondo dell'anima. Ma tutte le forze gli erano improvvisamente tornate: era l'attacco finale di quel duello troppo lungo colla morte, senza più alcuna incertezza, e più orribile nell'impossibilità di muoversi. Tutto il suo odio si era mutato in coraggio, quasi la morte, che gli verrebbe incontro su quel treno, dovesse avere una forma umana come la sua. Il suo tetro scheletro, colle occhiaie vuote e la lunga falce, gli riappariva nella fantasia cogli altri fantasmi della espiazione cristiana evocati dall'ultimo dubbio: ma temeva solamente di non poter durare per tutta la lunghezza della prova. Il suo sforzo supremo era di non pensar più, non voleva più nulla davanti. La sua coscienza era giunta finalmente al disprezzo della vita, di questa farsa stupida ed atroce, che nessun Dio poteva aver voluto, perché vi si soffre solamente, e coll'amore di un minuto vi si chiamano altri a soffrire e a morire: ecco tutto! Il resto era menzogna. E davanti a questa imperscrutabile necessità il suo individuo urlava nello spasimo di non poter inabissare tutta la terra e, strappando con un gesto titanico dal cielo l'immenso manto stellato, ravvoltolarvisi come in una bandiera nemica, e spirare ultimo sulla ruina finale di quanto era stato. - Ah! - gridò balzando in piedi, immemore di ogni riguardo. Era il treno. Nel pallore crescente della tenebra la sua luce appariva simile a quella di un palloncino roseo librato nell'aria, ma egli non vedeva che la morte. Era scattato in piedi alla prima scossa del terreno come ad un appello, protendendo il volto in una impazienza quasi insolente della fine. Aveva negli occhi un chiarore di cristallo e sulla faccia una fisonomia di marmo. Rimase così immobile, colla volontà tesa contro il treno, calcolando mentalmente la rapidità della sua corsa. Un fremito d'orgoglio lo scosse ancora, nel vederlo già così vicino che si discernevano distintamente i due fanali; aprì le braccia ad un gesto inesprimibile, e si gettò sulla rotaia abbandonato. Era caduto, quasi colla fronte sul ferro, gli occhi rivolti al treno. Avanzò la testa per poggiare il collo sulla rotaia, lasciando penzolare il capo nel vano come da una ghigliottina. Il freddo del ferro alla gola gli fece passare questo paragone nel pensiero. Ma allora tutte le forze lo abbandonarono, si decomposero per le scosse della terra, che gli passavano per tutto il corpo colla violenza di continue scariche elettriche. Si raggricchiò, chiuse gli occhi, travolto dal fragore precipite che già l'investiva; il ferro della rotaia gli friggeva quasi sotto il collo, una vampa gli aveva ventato sugli occhi, mentre nel terrore delirante, ineffabile, di quella cosa senza nome, la sua volontà caparbiamente disperata, come quella di un bambino, ripeteva: - Non importa, non importa! Con un ultimo sforzo premé ancora il collo sulla rotaia. Poi un'estrema convulsione di turbine, di abisso, di valanga, d'incendio, lo fece quasi rivoltolare sopra se stesso; aprì gli occhi nella fiamma, e per una paura più terribile gridò: - Mio Dio! Ma l'enorme macchina gli era già passata furiosamente sulla testa, soffocando nel proprio fracasso di cateratta l'inutile parola. FINE

Storie naturali

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Levi, Primo 1 occorrenze

A casa nostra, per esempio, da quando abbiamo comperato il televisore, mio figlio gli sta davanti per ore, senza più giocare, abbacinato come le lepri dai fari delle auto. Io no, io vado via: però mi costa sforzo. Ma chi avrà la forza di volontà di sottrarsi a uno spettacolo Torec? Mi sembra assai più pericoloso di qualsiasi droga: chi lavorerebbe più? Chi si curerebbe ancora della famiglia? _ Non le ho mica detto che il Torec sia in vendita, _ disse Simpson. _ Anzi, le ho raccontato che l' ho ricevuto in regalo, che è un regalo unico al mondo, e che me l' hanno mandato in occasione del mio ritiro. Se vogliamo sottilizzare, devo aggiungere che non è neppure un vero regalo; l' apparecchio, legalmente, continua ad appartenere alla NATCA, e mi è stato affidato a tempo indefinito non solo come premio, ma anche perché io ne sperimenti gli effetti a lunga scadenza. _ Ad ogni modo, _ dissi io, _ se lo hanno studiato e costruito è perché intendono metterlo in vendita. _ La faccenda è semplice. I padroni della NATCA hanno per ogni loro azione solo due scopi, che poi si riducono a uno: guadagnare quattrini e acquistare prestigio, che poi vuol dire guadagnare altri quattrini. Si capisce che vorrebbero produrre il Torec in serie e venderne milioni di esemplari, ma hanno ancora abbastanza testa sul collo per rendersi conto che il Congresso non resterebbe indifferente davanti alla diffusione incontrollata di uno strumento come questo. Perciò, in questi mesi, dopo che il prototipo è stato realizzato, si stanno preoccupando in primo luogo di rivestirlo di una corazza di brevetti, che non ne resti scoperto un solo bullone; in secondo, di strappare il consenso del legislatore alla sua distribuzione in tutte le case di riposo, e alla sua assegnazione gratuita a tutti gli invalidi e agli ammalati inguaribili. Infine, e questo è il loro programma più ambizioso, vorrebbero che il diritto al Torec maturasse per legge insieme col diritto alla pensione, per tutta la popolazione attiva. _ Così lei sarebbe, per così dire, il prototipo del pensionato di domani? _ Sì, e le assicuro che l' esperienza non mi dispiace per nulla. Il Torec mi è arrivato da sole due settimane, ma mi ha già procurato delle serate incantevoli: certo, lei ha ragione, occorre volontà e buon senso per non lasciarsi sopraffare, per non dedicargli le intere giornate, e io non lo darei mai in mano a un ragazzo, ma alla mia età è prezioso. Non vuole provarlo? Mi sono impegnato a non imprestarlo né venderlo, ma lei è una persona discreta, e credo che una eccezione per lei la posso fare. Sa, mi hanno anche invitato a studiarne le possibilità come ausiliario didattico, per lo studio della geografia, per esempio, e delle scienze naturali, e terrei molto a un suo parere. _ S' accomodi, _ mi disse: _ è forse meglio chiudere le impannate. Sì, così con le spalle alla lampada andrà benissimo. Non posseggo per ora che una trentina di nastri, ma altri settanta sono in dogana a Genova e spero di riceverli fra poco: così avrò tutto l' assortimento che esiste fino ad oggi. _ Chi produce i nastri? Come si ottengono? _ Si parla di produrre nastri artificiali, ma per ora essi vengono tutti ottenuti mediante registrazione. Il procedimento è noto solo nelle sue linee generali: laggiù a Fort Kiddiwanee, alla Torec Division, propongono un ciclo di registrazioni a qualunque persona che abbia normalmente, o possa avere occasionalmente, qualche esperienza che si presti allo sfruttamento commerciale: ad aviatori, esploratori, subacquei, seduttori o seduttrici, e ad altre numerose categorie di individui che lei stesso può immaginare se ci pensa un momento. Poniamo che il soggetto accetti, e che si raggiunga un accordo sui diritti: a proposito, ho sentito dire che si tratta di cifre abbastanza alte, da due a cinquemila dollari per nastro; ma spesso, per ottenere una registrazione utilizzabile bisogna ripetere l' incisione dieci o venti volte. Dunque: se l' accordo si raggiunge, gli infilano sul capo un casco su per giù come questo, e non ha che da portarlo per tutto il tempo che dura la registrazione; non ha nessun altro disturbo. Tutte le sue sensazioni vengono trasmesse via radio al centralino di incisione, e poi dal primo nastro si tirano quante copie si vogliono con le tecniche usuali. _ Ma allora ... ma se il soggetto sa che ogni sua sensazione viene registrata, allora anche questa sua consapevolezza rimarrà incisa sul nastro. Lei non rivivrà il lancio di un astronauta qualunque, ma quello di un astronauta che sa di avere un casco Torec in testa e di essere oggetto di una registrazione. _ È proprio così, _ disse Simpson: _ infatti, nella maggior parte dei nastri che ho fruito questa consapevolezza di fondo si percepisce distintamente, ma alcuni soggetti, con l' esercizio, imparano a reprimerla durante la registrazione, e a relegarla nel subconscio, dove il Torec non arriva. Del resto non disturba gran che. Quanto al casco, non dà la minima noia: la sensazione "casco in testa" che è incisa in tutti i nastri coincide con quella provocata direttamente dal casco di ricezione. Stavo per esporgli alcune altre mie difficoltà di natura filosofica, ma Simpson mi interruppe. _ Vuole che cominciamo da questo? È uno dei miei preferiti. Sa, in America il calcio non è molto popolare, ma da quando sono in Italia sono diventato un milanista convinto: anzi, sono stato io a combinare l' affare fra il Rasmussen e la NATCA, e ho diretto io stesso la registrazione. Lui ci ha guadagnato tre milioni, e la NATCA un nastro fantastico. Perdinci, che mezz' ala! Ecco, si segga, metta il casco e poi mi dirà. _ Ma io non ne capisco niente, di calcio. Non solo non ho mai giocato, neppure da ragazzino, ma non ho mai visto una partita, neanche alla televisione! _ Non importa, _ disse Simpson, ancora tutto vibrante di entusiasmo, e diede il contatto. Il sole era basso e caldo, l' aria polverosa: percepivo un odore intenso di terra smossa. Ero sudato e avevo un po' male a una caviglia: correvo a falcate estremamente leggere dietro al pallone, guardavo alla mia sinistra con la coda dell' occhio, e mi sentivo agile e pronto come una molla tesa. Un altro giocatore rosso-nero entrò nel mio campo visivo: gli passai il pallone raso terra, sorprendendo un avversario, poi mi precipitai in avanti mentre il portiere usciva verso destra. Udii il boato crescente del pubblico, vidi il pallone respinto verso di me, un po' più avanti per sfruttare il mio slancio: gli fui sopra in un lampo e calciai in porta di precisione, di sinistro, senza sforzo, senza violenza, davanti alle mani tese del portiere. Percepii l' onda di allegrezza nel sangue, e poco dopo in bocca il sapore amaro della scarica di adrenalina: poi tutto finì e mi ritrovai in poltrona. _ Ha visto? È molto breve, ma è un piccolo gioiello. Si è forse accorto della registrazione? No, vero? Quando uno è sotto porta ha altro da pensare. _ Infatti. Devo ammetterlo, è una curiosa impressione. È esaltante sentire il proprio corpo così giovane e docile: una sensazione perduta da decenni. Anche segnare, sì, è bello: non si pensa a nient' altro, si è tutti come concentrati in un punto, come dei proiettili. E l' urlo della folla! Eppure, non so se lei se ne è accorto, in quell' istante in cui aspettavo ... in cui lui aspettava il passaggio, un pensiero estraneo si fa strada: una ragazza alta e bruna, che si chiama Claudia, e con cui lui ha un appuntamento alle 9 in San Babila. Dura solo un secondo, ma è chiarissimo: tempo, luogo, antefatto, tutto. Lo ha sentito? _ Sì, certo, ma sono cose senza importanza: anzi, aumentano il senso del reale. Si capisce che uno non può mica rifarsi tabula rasa, e presentarsi alla registrazione come se fosse nato l' istante prima: ho saputo che molti rifiutano il contratto proprio per ragioni di questo genere, perché hanno qualche ricordo che vogliono tenere segreto. Ebbene, che ne dice? Vuole provare ancora? Pregai Simpson di farmi vedere i titoli degli altri suoi nastri. Erano molto concisi e scarsamente suggestivi, alcuni addirittura incomprensibili, forse a causa della traduzione italiana. _ È meglio che mi consigli lei, _ dissi: _ io non saprei scegliere. _ Ha ragione. Dei titoli non ci si può fidare, proprio come per i libri e per i film. E noti che i nastri disponibili, come le ho detto, sono per ora solo un centinaio: ma ho visto poco fa la bozza del catalogo 1967, ed è roba da dare le vertigini. Anzi, glielo voglio mostrare: mi pare istruttivo sotto l' aspetto dell' "American Way of Life", e più in generale come tentativo di una sistematica delle esperienze pensabili. Il catalogo raccoglieva più di 900 titoli, ognuno dei quali era seguito dal numero della Classificazione decimale Dewey, ed era diviso in sette sezioni. La prima portava l' indicazione "Arte e Natura"; i nastri relativi erano contraddistinti da una fascia bianca, e portavano titoli come "Tramonto a Venezia", "Paestum e Metaponto visti da Quasimodo", "Il ciclone Magdalen", "Un giorno fra i pescatori di merluzzi", "Rotta polare", "Chicago vista da Allen Ginsberg", "Noi sub", "La Sfinge meditata da Emily S. Stoddard". Simpson mi fece notare che non si trattava di sensazioni gregge, come quelle di un uomo rozzo e incolto che visiti Venezia o assista casualmente ad uno spettacolo naturale: ogni argomento era stato registrato scritturando buoni scrittori e poeti, che si erano prestati a mettere a disposizione del fruitore la loro cultura e la loro sensibilità. Alla seconda sezione appartenevano nastri dalla fascia rossa e dalla indicazione "Potenza". La sezione era ulteriormente suddivisa nelle sottosezioni "Violenza", "Guerra", "Sport", "Autorità", "Ricchezza", "Miscellanea". _ È una divisione arbitraria, _ disse Simpson: _ io, per esempio, al nastro che lei ha fruito or ora, "Un goal di Rasmussen", avrei certo messo la fascia bianca invece di quella rossa. In generale, a me i nastri rossi interessano poco; però mi hanno detto che già sta nascendo in America un mercato nero di nastri: escono misteriosamente dagli studi della NATCA e vengono incettati da ragazzi che possiedono dei Torec clandestini fabbricati alla meglio da radiotecnici di pochi scrupoli. Bene, i nastri rossi sono i più ricercati. Ma forse non è un male: un giovane che si comperi un pestaggio in una cafeteria è difficile che poi vi prenda parte in carne ed ossa. _ Perché? Se uno ci prende gusto ... Non sarà come per i leopardi, che quando hanno assaggiato il sangue d' uomo poi non possono più farne a meno? Simpson mi guardava con un' aria curiosa. _ Già, lei è un intellettuale italiano: vi conosco bene, voialtri. Buona famiglia borghese, quattrini abbastanza, una madre timorata e possessiva, a scuola dai preti, niente servizio militare, nessuno sport di competizione, salvo forse un po' di tennis. Una o più donne corteggiate senza passione, una sposata, un lavoro tranquillo per tutta la vita. È così, non è vero? _ Be' , non proprio, almeno per quanto mi riguarda .... _ Sì, in qualche particolare mi potrò essere sbagliato, ma la sostanza è questa, non lo neghi. La lotta per la vita è elusa, non avete mai fatto a cazzotti, e ve ne resta la voglia fino alla vecchiaia. In fondo, è per questo che avete accettato Mussolini: volevate un duro, un lottatore, e lui, che non lo era ma neanche era stupido, ha recitato la parte finché ha potuto. Ma non divaghiamo: vuol vedere che gusto c' è a fare a pugni? Ecco qui, si metta il casco e poi mi dirà. Io ero seduto, gli altri intorno a me stavano in piedi. Erano tre, avevano delle maglie a righe e mi guardavano sogghignando. Uno di loro, Bernie, mi parlava in un linguaggio che, a pensarci dopo, compresi essere un americano fortemente gergale, ma allora lo capivo bene, e lo parlavo anche: anzi, ne ricordo perfino qualche termine. Mi chiamava bright boy e goddam rat, e mi derideva, a lungo, con pazienza e crudeltà. Mi derideva perché ero un Wop, e più precisamente un Dago; io non rispondevo, e continuavo a bere con studiata indifferenza. In realtà provavo collera e paura insieme; ero consapevole della finzione scenica, ma gli insulti li avevo ricevuti e mi bruciavano, e poi la finzione stessa riproduceva una situazione non nuova, anche se mai avevo potuto abituarmici. Avevo diciannove anni, ero tarchiato e robusto, ed ero veramente un Wop, un figlio di immigrati italiani; mi vergognavo profondamente di esserlo, e insieme ne ero fiero. I miei persecutori erano autentici persecutori, miei vicini di rione e nemici fin dall' infanzia: biondi, anglosassoni e protestanti. Li detestavo, e insieme li ammiravo un poco. Non avevano mai osato affrontarmi apertamente: il contratto con la NATCA aveva offerto loro una splendida occasione e l' impunità. Sapevo che loro ed io eravamo stati tutti quanti scritturati per una registrazione, ma questo non toglieva nulla al nostro odio reciproco; anzi, il fatto stesso di avere accettato danaro per picchiarmi con loro raddoppiava il mio astio e la mia collera. Quando Bernie, imitando il mio linguaggio, disse: _ Uocchie 'e màmmeta! Madonna Mmaculata! _ e mi spedì un bacio burlesco sulla punta delle dita, afferrai il boccale di birra e glielo scagliai sul viso: vidi colare il suo sangue, e mi sentii riempire di un' esultanza feroce. Subito dopo rovesciai il tavolo, e tenendolo davanti come uno scudo cercai di raggiungere l' uscita. Ricevetti un pugno nelle costole: lasciai cadere il tavolo e mi avventai contro Andrew. Lo colpii alla mascella: volò all' indietro e si fermò stordito contro il bancone, ma intanto Bernie si era riavuto, e lui e Tom mi spinsero in un angolo sotto una gragnuola di colpi allo stomaco e al fegato. Ero senza fiato e non li vedevo che come ombre indistinte; ma quando mi dissero: _ Su, bimbo, chiedi pietà, _ feci due passi avanti, poi finsi di cadere, ma invece mi slanciai su Tom a testa bassa, come un toro che carichi. Lo atterrai, incespicai nel suo corpo e gli caddi addosso; mentre tentavo di rialzarmi ricevetti un furioso uppercut al mento, che mi sollevò letteralmente da terra e mi sembrò dovesse staccarmi la testa dal busto. Persi coscienza, la riacquistai sotto l' impressione di una doccia gelata sul capo, poi tutto finì. _ Basta, grazie, _ dissi a Simpson massaggiandomi il mento che, chissà perché, mi doleva ancora un poco. _ Ha ragione lei: non avrei nessuna voglia di ricominciare, né sul serio né per trasferta. _ Neanch' io, _ disse Simpson: _ l' ho fruito una sola volta e mi è bastata. Ma credo che un Wop autentico potrebbe trovarci una certa soddisfazione, se non altro per il fatto di combattere uno contro tre. Secondo me, questo nastro la NATCA lo ha inciso proprio per loro; sa bene, non fanno mai nulla senza una ricerca di mercato. _ Io credo invece che lo abbiano inciso per quegli altri, per i Biondi-Anglosassoni-Protestanti, e per i razzisti di tutte le razze. Pensi che godimento raffinato, sentirsi soffrire nei panni di chi si vuole fare soffrire! Be' , lasciamo andare. Che cosa sono questi nastri a fascia verde? Che significa "Encounters"? Il signor Simpson sorrise: _ È un eufemismo bello e buono. Sa, anche da noi la censura non scherza. Dovrebbero essere "incontri" con illustri personalità, per clienti che desiderano avere una breve conversazione con i grandi della terra. In effetti qualcuno ce n' è: guardi qui, "De Gaulle", "Francisco Franco Bahamonde", "Konrad Adenauer", "Mao Tse-tung" (sì, sì, anche lui c' è stato: è difficile capire i cinesi), "Fidel Castro". Ma hanno solo funzione di copertura: per la massima parte si tratta di tutt' altro, sono nastri sexy. L' incontro c' è, ma in un altro senso, insomma: vede, sono altri nomi, che sui giornali si leggono di rado in prima pagina .... Sina Rasinko, Inge Baum, Corrada Colli .... A questo punto cominciai a sentirmi arrossire. È un difetto noioso, che mi porto dietro dall' adolescenza: basta che io pensi "vuoi vedere che adesso arrossisco?" (e nessuno può impedirsi di pensare), ed ecco che il meccanismo scatta: mi sento diventare rosso, mi vergogno di diventarlo, e così lo divento ancora di più, finché comincio a sudare a grosse gocce, mi viene la gola secca e non riesco più a parlare. Quella volta lo stimolo, quasi casuale, era partito dal nome di Corrada Colli, la modella-indossatrice resa famosa dal noto scandalo, per la quale mi ero improvvisamente accorto di provare una simpatia salace, mai confessata ad alcuno e nemmeno a me stesso. Simpson mi osservava, esitante fra il riso e l' allarme: infatti, il mio stato di congestione era così evidente che non avrebbe potuto decentemente fingere di non essersene accorto. _ Non si sente bene? _ mi chiese alla fine: _ vuole prendere una boccata d' aria? _ No, no, _ dissi ansimando, mentre il mio sangue rifluiva tumultuosamente alle sue sedi profonde: _ non è niente, mi capita spesso. _ Non vorrà mica dirmi, _ fece storditamente Simpson, _ che è il nome della Colli che l' ha ridotto in codesto stato? _ Abbassò la voce: _ ... o forse era anche lei del giro? _ Ma no, cosa mai le viene in mente! _ protestai io, mentre il fenomeno si ripeteva con intensità doppia, smentendomi sfacciatamente. Simpson taceva perplesso: faceva mostra di guardare fuori della finestra, ma ogni tanto mi scoccava una rapida occhiata. Poi si decise: _ Senta, siamo fra uomini, e ci conosciamo da vent' anni. Lei è qui per provare il Torec, vero? Ebbene, quel nastro io ce l' ho: non faccia complimenti, se si vuol cavare questo gusto non ha che da dirmelo. La cosa resta fra noi, è evidente; poi, guardi, il nastro è ancora nella sua custodia originale, sigillato, e io non so neppure esattamente che cosa contenga. Magari è la cosa più innocente del mondo; ma in ogni caso, non c' è niente da vergognarsi. Credo che nessun teologo ci troverebbe nulla a ridire: chi commette il peccato non è mica lei. Su, via, metta il casco. Ero in un camerino di teatro, sullo sgabello, volgevo le spalle allo specchio e alla toilette, e provavo una viva impressione di leggerezza: mi accorsi subito che era dovuta al mio abbigliamento molto ridotto. Sapevo di aspettare qualcuno: infatti qualcuno bussò all' uscio, ed io dissi: _ Vieni pure _. Non era la "mia" voce, e questo era naturale; era invece una voce femminile, e questo era meno naturale. Mentre l' uomo entrava mi voltai verso lo specchio per accomodarmi i capelli, e l' immagine era la sua, quella di lei, di Corrada, mille volte vista sui rotocalchi: suoi gli occhi chiari, da gatto, suo il viso triangolare, sua la treccia nera avvolta intorno al capo con perversa innocenza, sua la pelle candida: ma dentro la sua pelle stavo io. Intanto l' uomo era entrato: era di statura media, olivastro, gioviale, portava un maglione sportivo e aveva i baffi. Provai nei suoi riguardi una sensazione di estrema violenza, e distintamente bipartita. Il nastro mi imponeva una sequenza di ricordi appassionati, alcuni pieni di desiderio furioso, altri di ribellione e di astio, e in tutti compariva lui, si chiamava Rinaldo, era mio amante da due anni, mi tradiva, io ero pazza di lui che finalmente era tornato, e insieme la mia vera identità si irrigidiva contro la suggestione capovolta, si ribellava contro la cosa impossibile, mostruosa che stava per accadere, adesso, subito, lì sul divano. Soffrivo acutamente, ed avevo la percezione vaga di armeggiare intorno al casco, di cercare disperatamente di staccarmelo dal capo. Come da una lontananza stellare mi giunse la voce tranquilla di Simpson: _ Che diavolo fa? Che cosa le succede? Aspetti, lasci fare a me, se no strappa il cavo _. Poi tutto si fece buio e silenzioso: Simpson aveva tolto la corrente. Ero furibondo. _ Che scherzi sono questi? A me, poi! Un amico, di cinquant' anni, sposato e con due figli, garantito eterosessuale! Basta, mi dia il cappello e si tenga le sue diavolerie! Simpson mi guardava senza capire; poi si precipitò a controllare il titolo del nastro, e si fece pallido come la cera. _ Mi deve credere, non mi sarei mai permessa una cosa simile. Non me n' ero proprio accorto. È stato un errore: imperdonabile, ma un errore. Guardi qui: ero convinto che l' etichetta fosse: "Corrada Colli, una serata con", e invece è: "Corrada Colli, una serata di". È un nastro per signora. Io non l' avevo mai provato, glielo avevo detto prima. Ci guardammo con reciproco imbarazzo. Benché fossi ancora molto turbato, mi tornò a mente in quell' istante l' accenno di Simpson alle possibili applicazioni didattiche del Torec, e stentai a reprimere uno scoppio di riso amaro. Poi Simpson disse: _ Eppure, non così di sorpresa ma sapendolo prima, sarebbe forse anche questa un' esperienza interessante. Unica: nessuno mai l' ha fatta, anche se i greci l' attribuivano a Tiresia. Già quelli le avevano studiate tutte: pensi che di recente ho letto che già avevano pensato di addomesticare le formiche, come ho fatto io, e di parlare coi delfini come Lilly. Gli risposi seccamente: _ Io no, non vorrei provare. Provi lei, se ci tiene: poi mi racconta _. Ma la sua mortificazione e la sua buona fede erano tanto evidenti che ebbi compassione di lui; appena fui un po' rinfrancato cercai pace e gli chiesi: _ Cosa sono questi nastri con la banda grigia? _ Mi ha perdonato, vero? La ringrazio, e le prometto che starò più attento. Quella è la serie "Epic", un esperimento affascinante. _ "Epic"? Non saranno mica esperienze di guerra, Far West, Marines, quelle cose che piacciono tanto a voialtri americani? Simpson ignorò cristianamente la provocazione. _ No, l' epica non c' entra per niente. Sono registrazioni del così detto "effetto Epicuro": si fondano sul fatto che la cessazione di uno stato di sofferenza o di bisogno .... Ma no, guardi: vuole concedermi l' occasione di riabilitarmi? Sì? Lei è un uomo civile: vedrà che non dovrà pentirsene. Poi, questo nastro "Sete" io lo conosco bene, e le posso assicurare che non avrà sorprese. Cioè sì, sorprese ne avrà, ma lecite e oneste. Il calore era intenso: mi trovavo in un desolato paesaggio di rocce brune e sabbia. Avevo una sete atroce, ma non ero stanco e non provavo angoscia: sapevo che si trattava di una registrazione Torec, sapevo che alle mie spalle c' era la jeep della NATCA, che avevo firmato un contratto, che per contratto non bevevo da tre giorni, che ero un disoccupato cronico di Salt Lake City, e che fra non molto avrei bevuto. Mi avevano detto di procedere in una certa direzione, e io camminavo: la mia sete era già allo stadio in cui non solo la gola e la bocca, ma anche gli occhi si seccano, e vedevo accendersi e spegnersi grosse stelle gialle. Camminai per cinque minuti, incespicando fra i sassi, poi vidi uno spiazzo sabbioso circondato dai ruderi di un muretto a secco; al centro c' era un pozzo, con una fune e un secchio di legno. Calai il secchio e lo tirai su pieno d' acqua limpida e fresca; sapevo bene che non era acqua di fonte, che il pozzo era stato scavato il giorno prima, e che l' autocisterna che lo aveva rifornito era poco lontano, parcheggiata all' ombra di una rupe. Ma la sete c' era, era reale e feroce e urgente, e io bevvi come un vitello, immergendo nell' acqua tutto il viso: bevvi a lungo, dalla bocca e dal naso, arrestandomi ogni tanto per respirare, tutto pervaso dal più intenso e semplice dei piaceri concessi ai viventi, quello di restaurare la propria tensione osmotica. Ma non durò a lungo: non avevo bevuto neppure un litro che l' acqua non mi dava più alcun piacere. Qui la scena del deserto svanì e fu sostituita da un' altra assai simile: ero in una piroga, in mezzo a un mare torrido, azzurro e vuoto. Anche qui la sete e la consapevolezza dell' artificio e la sicurezza che l' acqua sarebbe venuta: ma questa volta mi stavo domandando da che parte, perché intorno non si vedeva che mare e cielo. Poi emerse a cento metri da me un sommergibile tascabile con la scritta NATCA II, e la scena giunse a compimento con una deliziosa bevuta. Mi trovai poi successivamente in una prigione, in un vagone piombato, davanti a un forno vetrario, legato a un palo, in un letto d' ospedale, e ogni volta la mia sete breve ma tormentosa veniva più che compensata dall' arrivo dell' acqua gelata o di altre bevande, in circostanze sempre diverse, e per lo più artificiose o puerili. _ Lo schema è un po' monotono e la regia è debole, ma lo scopo è senza dubbio raggiunto, _ dissi a Simpson. _ È vero, è un piacere unico, acuto, quasi intollerabile. _ Questo lo sanno tutti, _ disse Simpson: _ ma senza il Torec non sarebbe stato possibile condensare sette soddisfazioni in venti minuti di spettacolo, eliminando del tutto il pericolo, e quasi del tutto la parte negativa dell' esperienza, e cioè il lungo tormento della sete, inevitabile in natura. È questa la ragione per cui tutti i nastri Epic sono antologici, cioè sono fatti di centoni: infatti sfruttano una sensazione sgradevole, che conviene sia breve, ed una di sollievo, che è intensa, ma breve per sua natura. Oltre alla sete, ci sono in programma vari nastri sulla cessazione della fame e di almeno dieci qualità di dolori, fisici e spirituali. _ Questi nastri Epic, _ dissi, _ mi lasciano perplesso. Può essere che dagli altri qualcosa di buono si possa anche cavare: all' ingrosso, lo stesso bilancio sostanzialmente attivo che si ricava da una vittoria sportiva, o da uno spettacolo naturale, o da un amore in carne ed ossa. Ma di qui, da questi giochetti frigidi alle spese del dolore, che cosa si può spremere se non un piacere in scatola, fine a se stesso, solipsistico, da solitari? Insomma, mi sembrano una diserzione: non mi sembrano morali. _ Forse ha ragione, _ disse Simpson dopo un breve silenzio: _ ma la penserà ancora così quando avrà settant' anni? o ottanta? E la può pensare come lei quello che è paralitico, quello che è legato a un letto, quello che non vive che per morire? Simpson mi illustrò poi brevemente i nastri cosiddetti "del super-io", a fascia blu (salvataggi, sacrifici, esperienze registrate su pittori, musici e poeti nel pieno del loro sforzo creativo), e i nastri a fascia gialla, che riproducono esperienze mistiche e religiose di varie confessioni: a proposito di questi, mi accennò che già alcuni missionari ne avevano fatta richiesta per fornire ai propri catecumeni un campione della loro futura vita di convertiti. Quanto ai nastri della settima serie, con la fascia nera, essi sono difficilmente catalogabili. La casa li raccoglie tutti quanti, alla rinfusa, sotto la denominazione "effetti speciali": in buona parte si tratta di registrazioni sperimentali, ai limiti di quanto è possibile oggi, per stabilire quanto sarà possibile domani. Alcuni, come Simpson mi aveva accennato prima, sono nastri sintetici: cioè, non registrati dal vivo, ma costruiti con tecniche speciali, immagine per immagine, onda per onda, come si costruiscono la musica sintetica e i disegni animati. In questo modo si sono ottenute sensazioni mai esistite né concepite prima: Simpson mi raccontò anche che in uno degli studi NATCA un gruppo di tecnici sta lavorando a comporre su nastro un episodio della vita di Socrate visto da Fedone. _ Non tutti i nastri neri, _ mi disse Simpson, _ contengono esperienze gradevoli: alcuni sono destinati esclusivamente a scopi scientifici. Vi sono ad esempio registrazioni eseguite su neonati, su nevrotici, su psicopatici, su geni, su idioti, perfino su animali. _ Su animali? _ ripetei sbalordito. _ Sì, su animali superiori, dal sistema nervoso affine al nostro. Esistono nastri di cani: "grow a tail!" dice entusiasticamente il catalogo, "fatevi crescere una coda!"; nastri di gatti, di scimmie, di cavalli, di elefanti. Io di nastri neri, per ora, ne ho uno solo, ma glielo raccomando per concludere la serata. Il sole si rifletteva abbagliante sui ghiacciai: non c' era una nuvola. Stavo planando, sospeso sulle ali (o sulle braccia?), e sotto di me si svolgeva lentamente una valle alpina. Il fondo era a duemila metri almeno più basso di me, ma distinguevo ogni sasso, ogni filo d' erba, ogni increspatura dell' acqua del torrente, perché i miei occhi possedevano una straordinaria acutezza. Anche il campo visivo era maggiore del consueto: abbracciava due buoni terzi dell' orizzonte e comprendeva il punto a picco sotto di me, mentre invece era limitato verso l' alto da un' ombra nera; inoltre, non vedevo il mio naso, anzi, alcun naso. Vedevo, udivo il fruscio del vento e lo scroscio lontano del torrente, sentivo la mutevole pressione dell' aria contro le ali e la coda, ma dietro questo mosaico di sensazioni la mia mente era in una condizione di torpore, di paralisi. Percepivo soltanto una tensione, uno stimolo simile a quello che solitamente si prova dietro allo sterno, quando si ricorda che "si deve fare una cosa" e si è dimenticato quale: dovevo "fare una cosa", compiere un' azione, e non sapevo quale, ma sapevo che la dovevo compiere in una certa direzione, portarla a termine in un certo luogo che era stampato nella mia mente con perfetta chiarezza: una costa dentata alla mia destra, alla base del primo picco una macchia bruna dove finiva il nevaio, una macchia che adesso era nascosta nell' ombra; un luogo come milioni di altri, ma là era il mio nido, la mia femmina e il mio piccolo. Virai sopravvento, mi abbassai sopra un lungo crestone e lo percorsi raso terra da sud verso nord: adesso la mia grande ombra mi precedeva, falciando a tutta velocità i gradoni d' erba e di terra, le schegge e i nevati. Una marmotta-sentinella fischiò due, tre, quattro volte, prima che io la potessi vedere; nello stesso istante scorsi fremere sotto di me alcuni steli di avena selvaggia: una lepre, ancora in pelliccia invernale, divallava a balzi disperati verso la tana. Raccolsi le ali al corpo e caddi su lei come un sasso: era a meno di un metro dal rifugio quando le fui sopra, spalancai le ali per frenare la caduta e trassi fuori gli artigli. La ghermii in pieno volo, e ripresi quota solo sfruttando lo slancio, senza battere le ali. Quando l' impeto si fu esaurito uccisi la lepre con due colpi di becco: adesso sapevo cosa era il "da farsi", il senso di tensione era cessato, e drizzai il volo verso il nido. Poiché si era fatto ormai tardi, presi congedo da Simpson e lo ringraziai per la dimostrazione, soprattutto per l' ultimo nastro, che mi aveva soddisfatto profondamente. Simpson si scusò ancora per l' incidente: _ Certo bisogna stare attenti, un errore può avere conseguenze impensate. Volevo ancora raccontarle quello che è successo a Chris Webster, uno degli addetti al progetto Torec, col primo nastro industriale che erano riusciti a incidere: si trattava di un lancio col paracadute. Quando volle controllare la registrazione, Webster si trovò a terra, un po' ammaccato, col paracadute floscio accanto. A un tratto il telo si sollevò dal suolo, si gonfiò come se soffiasse un forte vento dal basso verso l' alto, e Webster si sentì strappato da terra e trascinato lentamente all' insù, mentre il dolore delle ammaccature spariva di colpo. Salì tranquillamente per un paio di minuti, poi i tiranti diedero uno strappo e la salita accelerò vertiginosamente, tagliandogli il fiato: nello stesso istante il paracadute si chiuse come un ombrello, si ripiegò più volte per il lungo, e di scatto si appallottolò e gli aderì alle spalle. Mentre saliva come un razzo vide l' aereo portarglisi sopra volando all' indietro, con il portello aperto: Webster vi penetrò a capofitto, e si ritrovò nella carlinga tutto pieno di spavento per il lancio imminente. Ha capito, non è vero? Aveva infilato nel Torec il nastro a rovescio. Simpson mi estorse affettuosamente la promessa di tornare a trovarlo a novembre, quando la sua raccolta di nastri sarebbe stata completa, e ci lasciammo a notte alta. Povero Simpson! Temo che per lui sia finita. Dopo tanti anni di fedele servizio per la NATCA, l' ultima macchina NATCA lo ha sconfitto, proprio quella che gli avrebbe dovuto assicurare una vecchiaia varia e serena. Ha combattuto col Torec come Giacobbe con l' angelo, ma la battaglia era perduta in partenza. Gli ha sacrificato tutto: le api, il lavoro, il sonno, la moglie, i libri. Il Torec non dà assuefazione, purtroppo: ogni nastro può essere fruito infinite volte, ed ogni volta la memoria genuina si spegne, e si accende la memoria d' accatto che è incisa sul nastro stesso. Perciò Simpson non prova noia durante la fruizione, ma è oppresso da una noia vasta come il mare, pesante come il mondo, quando il nastro finisce: allora non gli resta che infilarne un altro. È passato dalle due ore quotidiane che si era prefisso, a cinque, poi a dieci, adesso a diciotto o venti: senza Torec sarebbe perduto, col Torec è perduto ugualmente. In sei mesi è invecchiato di vent' anni, è l' ombra di se stesso. Fra un nastro e l' altro, rilegge l' Ecclesiaste: è il solo libro che ancora gli dice qualcosa. Nell' Ecclesiaste, mi ha detto, ritrova se stesso e la sua condizione: "... tutti i fiumi corrono al mare, e il mare non s' empie: l' occhio non si sazia mai di vedere, e l' orecchio non si riempie di udire. Quello che è stato sarà, e quello che si farà è già stato fatto, e non vi è nulla di nuovo sotto il sole"; ed ancora: "... dove è molta sapienza, è molta molestia, e chi accresce la scienza accresce il dolore". Nei rari giorni in cui è in pace con se stesso, Simpson si sente vicino al re vecchio e giusto, sazio di sapienza e di giorni, che aveva avuto settecento mogli e ricchezze infinite e l' amicizia della regina nera, che aveva adorato il Dio vero e gli dèi falsi Astarotte e Milcom, e aveva dato veste di canto alla sua saggezza. Ma la saggezza di Salomone era stata acquistata con dolore, in una lunga vita piena d' opere e di colpe; quella di Simpson è frutto di un complicato circuito elettronico e di nastri a otto piste, e lui lo sa e se ne vergogna, e per sfuggire alla vergogna si rituffa nel Torec. S' avvia verso la morte, lo sa e non la teme: l' ha già sperimentata sei volte, in sei versioni diverse, registrate su sei dei nastri dalla fascia nera.

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I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

. - Ero rimasto abbacinato da quel lampo accecante senza poter scorgere più nulla. - Che si siano salvati? Lo sconosciuto crollò il capo, senza rispondere. - Che cosa faresti tu? - chiese il capitano. - Al tuo posto tornerei verso il lago. - A cercarli presso quel monastero? Lo sconosciuto fece un cenno affermativo. - Lo farò - rispose il capitano. - Non lascerò il Tengri-Nor se prima non avrò acquistato la certezza se sono vivi o se sono periti fra le onde. Macchinista, quante ore ti occorrono per riparare la macchina? - Sei ore per lo meno, signore. - Noi intanto rimonteremo le eliche di ricambio e accomoderemo alla meglio la stoffa dei piani inclinati. Si erano messi subito febbrilmente al lavoro, ansiosi di tornare sul Tengri-Nor per ritrovare il russo e il cosacco. Il capitano non era però molto tranquillo sulla sorte toccata ai due disgraziati. Non dubitava che Rokoff, forte come era e valente nuotatore, fosse riuscito a toccare la spiaggia e quindi chiedere ospitalità al monastero; era inquieto per Fedoro che non sapeva nuotare e che non possedeva la robustezza eccezionale del compagno. Nondimeno in fondo non disperava di poterlo ritrovare ancora vivo, essendo caduto quasi contemporaneamente al cosacco. - Chissà ... - mormorava, pur lavorando assieme allo sconosciuto. - Forse Rokoff lo ha veduto cadere e lo ha portato alla riva. So dove si trova quel monastero e andrò a chiederne conto a coloro che lo abitano. Se li hanno uccisi, farò cadere tante bombe ad aria liquida da non lasciare pietra su pietra. Dopo sette ore lo "Sparviero" era pronto. Il macchinista aveva rinnovato le lastre fuse dal fulmine e il capitano e il suo misterioso e taciturno compagno avevano riparato i danni sofferti dai piani, ricollocato a posto un nuovo timone e anche le eliche, ma la bufera non si era affatto calmata, anzi era aumentata e il vento soffiava più forte che mai dal sud. Era impossibile voler affrontare quelle raffiche che minacciavano di contorcere le ali o produrre nuovi e forse più gravi guasti. Il capitano, a malincuore, si vide costretto ad attendere che tutto quel diavolìo si calmasse. Per quaranta ore l'uragano imperversò con furia indicibile, scuotendo il fuso e facendolo persino talvolta scorrere sul suolo, poi a poco a poco cominciò a scemare di violenza, la grande corrente d'aria gelata si spezzò, prendendo altre direzioni. Era il momento d'innalzarsi e di far ritorno al Tengri-Nor. L'uragano li aveva spinti a oltre cento miglia dal lago santo, verso il Duka- Nor, un bacino di estensione considerevole che si trova in mezzo all'altipiano di Nagtshucha e disabitato, distanza che lo "Sparviero", anche con vento non favorevole, poteva superare in meno di tre ore, salvo incidente. La macchina volante, che ora funzionava perfettamente, s'alzò senza difficoltà, raggiungendo i cinquecento metri per poter superare le catene rocciose che si estendevano in tutte le direzioni, formando un caos di picchi e prese la corsa verso il sud, in direzione di Iadoro Gorupa. Due ore dopo si librava sul piccolo lago di Bul-tscho o del borace e un'ora più tardi passava, con velocità fulminea, sulla piccola borgata di Jador, senza nemmeno farsi notare dagli abitanti. Il Tengri-Nor non era che a poche centinaia di metri. Il capitano che si rammentava, quantunque un po' vagamente, dove si trovava quel monastero, diresse lo "Sparviero" verso la sponda occidentale, seguendone le sinuosità. Alcuni miseri villaggi apparivano come incrostati alle falde delle nevose montagne e qualche banda di cavalieri tibetani che guidava degli jacks domestici, carichi di mercanzie, si vedeva delinearsi sui sentieri che conducevano nell'interno della regione. Sul lago invece nessuna barca, forse in causa delle furiose ondate che ancora lo percorrevano e che si sfasciavano con furore contro le rocce delle rive. Lo "Sparviero" aveva percorso una trentina di miglia, quando il capitano, che si era collocato a prora, scorse, piantata su una rupe, una massiccia costruzione che rassomigliava perfettamente a quella che gli aveva indicato Rokoff pochi momenti prima che la folgore scendesse sul fuso. Alcuni monaci che si trovavano dinanzi alla spianata che si prolungava verso il lago, avevano già scorto lo "Sparviero" e si erano gettati in ginocchio, alzando le mani verso gli aeronauti e mandando acute grida. Dal monastero accorrevano altri monaci e tutti si lasciavano cadere in ginocchio; mentre sulle terrazze echeggiavano strepitosamente gong e tam-tam. - Signore - disse il macchinista al capitano. - È quello il convento; mi ricordo di aver veduto quelle torri cinesi. - Anche a me sembra che sia lo stesso - rispose il comandante. - Puoi far scendere lo "Sparviero" su quella piattaforma? - Sì, signore. Le ali avevano cessato di funzionare e l'elica prodiera girava in senso opposto per arrestare lo slancio del fuso. Sorretto solamente dai piani, cominciò a scendere lentamente, adagiandosi proprio dinanzi al monastero. Un vecchio Lama, riconoscibile per la sua tonaca gialla, usciva in quel momento accompagnato da altri monaci. Vedendo il capitano scendere dal fuso, gli si era avvicinato dicendogli: - Finalmente! Sono due giorni che vi attendevo! Udendo quelle parole, pronunciate in lingua cinese, il capitano non aveva potuto trattenere un gesto di stupore. - Voi mi aspettavate! - esclamò. - Chi vi ha detto che io sarei venuto qui? - I due figli di Buddha caduti nel lago e che io avevo ospitato nel mio monastero. Voi siete il loro fratello, è vero? - Sì ... e li avete raccolti vivi? - chiese il capitano, con accento di gioia. - Erano approdati qui, sotto la rupe. - Conducetemi subito da loro, presto. - Ahimè! - gemette il Lama. - Non sono più nel mio monastero. Il Bogdo-Lama di Dorkia me li ha portati via e non ho avuto il coraggio di resistere ai suoi ordini. Oh! Ma anch'io avrò un figlio di Buddha perché li surrogherete, anzi ne avrò tre e non li cederò, dovessi barricare le porte del mio monastero. - Sì, noi rimarremo qui tutti - disse il capitano, che aveva ormai compreso che i suoi amici erano stati creduti per esseri divini. - Prima però devo comunicare ai miei fratelli degli ordini datimi dal dio che impera nel nirvana. - Volete recarvi al monastero di Dorkia? - È necessario. - Il Bogdo-Lama terrà anche voi prigionieri e non vi lascerà più. - Sono prigionieri i miei fratelli? - Sì, e guardati da centinaia e centinaia di monaci. Il capitano corrugò la fronte. - È potente il Bogdo-Lama di Dorkia? - chiese. - Comanda a tutta la regione, e se vuole può radunare parecchie migliaia di montanari. - Credete voi che non lascerà in libertà i miei fratelli, se io andassi a reclamarli? - No, perché ormai su tutte le rive del lago si è sparsa la voce che due figli dell'Illuminato sono scesi dal cielo e se il Bogdo-Lama dovesse lasciarli in libertà perderebbe gran parte della sua celebrità. Sono certo che egli farà di loro, due Buddha viventi. - La vedremo - disse il capitano che aveva compreso persino troppo. - Quando avrò liberato i miei fratelli tornerò. - Volete andarvene? - Devo obbedire a mio padre. - Io ve lo impedirò - disse il monaco, con voce risoluta. - Ho perduto gli altri; tratterrò voi non volendo essere da meno del Bogdo-Lama. - Provatevi - rispose semplicemente il capitano, balzando sopra la balaustrata e facendo un segno al macchinista. Il Lama si era rivolto verso i suoi monaci, gridando: - Fermate i figli di Buddha! Nessuno invece si era mosso. Un terrore superstizioso li aveva inchiodati al suolo, vedendo lo "Sparviero", che per loro doveva essere qualche aquila terribile, agitare le sue immense ali. - Che Buddha vi maledica! - gridò il Lama, furioso. - Voi non siete suoi figli! Siete degli stranieri. Il capitano non si era nemmeno preso la briga di rispondere. Che cosa gl'importava che quel monaco si fosse accorto che era un uomo di razza bianca, e che non aveva mai avuto a che fare con Buddha! A lui bastava di aver saputo dove si trovavano il russo e il cosacco. Lo "Sparviero", con una rapida volata, aveva raggiunto i quattrocento metri e filava a tutta velocità sul lago, dirigendosi verso il sud. Nondimeno il capitano non era interamente soddisfatto delle buone nuove avute. Come strappare ora i suoi due amici al potente Bogdo-Lama che li teneva prigionieri nel suo monastero? Era quello che si domandava senza trovare una risposta. Sapeva dove si trovava quel convento, perché la sua carta lo segnava, ma non bastava. Bisognava trovare il modo di liberare i due Buddha viventi fra parecchie centinaia di monaci e forse sotto gli occhi di migliaia di pellegrini e probabilmente armati, non avendo i tibetani l'abitudine di deporre i loro moschettoni e i loro coltellacci nemmeno quando entrano nei templi a pregare. Era bensì vero però che poteva disporre di mezzi potenti, quali le sue tremende bombe ad aria liquida, più che sufficienti per smantellare anche una fortezza, ma lanciandole senza sapere dove si trovavano rinchiusi Rokoff e Fedoro, li esponeva al pericolo di saltare assieme ai monaci. - Che cosa farai? - gli aveva chiesto lo sconosciuto, quando lo "Sparviero" ebbe perduto di vista il monastero. - È ciò che stavo domandandomi - aveva risposto il capitano. - Bombarderai il convento? - Potrei uccidere anche loro. - Che quei monaci non fuggano, vedendo il tuo "Sparviero"? - Ne dubito. - Spaventali con qualche bomba. - Pensavo precisamente a questo. Intanto prepariamone alcune; poi vedremo cosa si potrà fare. Il capitano, non volendo farsi scorgere dai rivieraschi onde giungere improvvisamente sul monastero per produrre maggior effetto, aveva dato ordine al macchinista di tenersi lontano dalle sponde. Lo "Sparviero" s'avanzava velocissimo quantunque il vento non fosse interamente cessato. Su quelle regioni è rarissimo che non si faccia sentire in causa delle immense montagne e del numero infinito di gole che hanno diverse direzioni. Era quasi mezzogiorno, quando il capitano che si era collocato a prora, munito d'un cannocchiale, scoperse all'estremità d'una penisoletta, un grosso ammasso di costruzioni, sormontato da alcune cupole che il sole faceva scintillare vivamente come se fossero d'oro. - È Dorkia - disse allo sconosciuto che lo interrogava. - Mi hanno detto che solo quel monastero ha cupole dorate, quindi non possiamo ingannarci. - Sono pronte le bombe? - Ne ho preparate cinque. - Basteranno per distruggere Dorkia e anche i villaggi vicini. - Macchinista, innalziamoci a cinquecento metri, onde tenerci fuori di portata dalle armi da fuoco. - Temi che ci facciano cattiva accoglienza? - chiese lo sconosciuto. - Che cosa vuoi? Non sono tranquillo. - Se i tuoi amici si sono fatti credere figli del cielo o di Buddha i monaci dovrebbero riceverci con grandi onori. - E se si fossero accorti che erano invece due stranieri? Tu hai veduto se il Lama di quel convento si è ingannato sul nostro vero essere. - Uccidono gli stranieri qui? - E fra i più atroci tormenti, se non godono alte protezioni - rispose il capitano. - Porta in coperta anche dei fucili e teniamoci pronti a tutto. Riprese il cannocchiale puntandolo verso il monastero, che non si trovava allora che a sei o sette miglia di distanza. A un tratto fece un gesto di stupore. - Il Lama mi ha parlato di pellegrini accorsi a Dorkia da tutte le parti del lago, eppure io non vedo nessuno sulla penisola, né sulle terrazze! Il monastero pare deserto: che cos'è avvenuto? - Che abbiano condotto via i tuoi amici? - chiese lo sconosciuto, che era tornato allora sul ponte portando parecchi fucili. - E dove? - Se il Dalai-Lama di Lhassa, informato della discesa dal cielo di due figli di Buddha li avesse reclamati? - In tal caso - disse - sarebbero perduti. Chi oserebbe andarli a strappare a quel possente pontefice? Lhassa ha migliaia e migliaia d'abitanti, ha truppe cinesi e anche bastioni armati d'artiglierie. Ma no, è impossibile che in così breve tempo abbiano potuto condurli sino a quella città attraverso strade quasi impraticabili. Li raggiungeremo ancora in viaggio e daremo battaglia alla scorta. Andiamo ad assicurarci se sono stati condotti via. Guardò nuovamente, con maggior attenzione. - Eppure non vi è anima viva, né sulla penisola, né sulle rive vicine - disse. - Il monastero è deserto. Macchinista, aumenta la velocità più che puoi. Lo "Sparviero" precipitava la corsa. Con una volata fulminea superò la distanza e si librò sopra i tetti e le cupole del monastero, descrivendo un largo giro intorno a quell'ammasso di fabbricati. Cosa strana! Il più profondo silenzio regnava dappertutto e non si vedeva alcuno né alle finestre, né sulle terrazze, né sui poggioli delle torri, né sul piazzale. - Che siano fuggiti tutti? - si chiese il capitano, le cui apprensioni aumentavano di momento in momento. - È impossibile che un monastero così famoso, abitato da centinaia di monaci, sia stato da un istante all'altro abbandonato. - Che stiano pregando in quel tempio gigantesco? - chiese lo sconosciuto. - E i pellegrini? - Saranno tornati ai loro villaggi. - Non ne sono convinto, ma lo sapremo subito. Il capitano fece abbassare lo "Sparviero" dinanzi al piazzale, strappò la coperta di tela cerata che riparava la mitragliatrice e scaricò tutte le canne. Le detonazioni si ripercossero rumorosamente fra i fabbricati, ma nessun monaco comparve. - Se ve ne fosse qualcuno, si sarebbe mostrato - disse il capitano. - Come spieghi questa fuga? - chiese lo sconosciuto. - Che ci abbiano veduto giungere e che temendo che noi volessimo rapire i due prigionieri si siano rifugiati in qualche luogo? - Col mio cannocchiale li avrei veduti. - Ho scorto un villaggio entro terra. - L'ho osservato anch'io. - Andiamo a domandare a quegli abitanti dove sono andati i monaci. - Sì, ed a spiegare questa inesplicabile scomparsa di tanta gente - rispose il capitano. A un suo cenno il macchinista fece dopo aver descritto un altro giro intorno una roccia enorme, sulla quale sorgeva un piccolo gruppo di capannucce pietra e di fango seccato. In dieci minuti lo "Sparviero" raggiunse il villaggio, ma anche quello sembrava disabitato. Nessun montanaro si vedeva aggirarsi attorno alle capanne, né nei campicelli dissodati chissà con quali fatiche, su quell'altura. - Ciò è inesplicabile! - esclamò il capitano, nel momento in cui lo "Sparviero" toccava il suolo. - Che qui sia scoppiata la guerra o che delle bande di briganti devastino le rive del lago, fugando tutti gli abitanti? - Signore ... là ... un uomo che fugge! - esclamò in quel momento il macchinista. Il capitano, con una rapida mossa, aveva afferrato un fucile e si era slanciato fra le capanne, seguito dallo sconosciuto. Un uomo vestito di pelli, cercava di celarsi in mezzo ad alcune betulle, che crescevano dietro al villaggio. Il capitano in pochi salti lo raggiunse, afferrandolo pel collo. Il montanaro, un vecchio che zoppicava, non aveva osato opporre resistenza, anzi si era lasciato cadere in ginocchio, tendendo le mani con gesto supplichevole e balbettando alcune parole incomprensibili. - Conosci la lingua cinese? - chiese il capitano con voce minacciosa. - Sì, signore, la comprendo - rispose lo zoppo. - Non fatemi mangiare dalla vostra aquila; sono un vecchio che non ha mai fatto male ad alcuno. - Se ti è cara la vita, rispondimi. - Parlate - disse il vecchio, con voce tremante. - Perché sono fuggiti i monaci di Dorkia? - Non sono fuggiti, signore. - Dove sono andati? - Il vecchio additò un'alta montagna che giganteggiava verso il sud-ovest. - Lassù - disse. - A cosa fare? - Non so ... vi erano due uomini bianchi come voi ... che si dicevano figli di Buddha ... - Avanti. - Ignoro che cosa sia successo ... so però che dopo essere stati adorati, sono stati condannati ... - A morte? - chiese il capitano, impallidendo. - A essere mangiati vivi dalle aquile. - Dove? - Sulla cima di quella montagna. - Quando sono stati condotti lassù? - Stamane. - Dai monaci? - E da migliaia di pellegrini - rispose il tibetano. - Ah! Canaglie! Me la pagheranno! - gridò il capitano. - Che siano già giunti sulla cima? - La via è lunga ... lo ignoro. - Giurami che hai detto la verità. - Sul grande Buddha. - Partiamo senza perdere un istante - disse il capitano. - Forse giungeremo in tempo per salvarli. Si era lanciato verso lo "Sparviero", seguito dallo sconosciuto. Un momento dopo la macchina s'innalzava volando verso la montagna segnata dal tibetano, la quale sorgeva a circa mezza dozzina di miglia verso l'ovest. Era una piramide enorme, che doveva toccare i tremila metri e che sorgeva isolata fra un gruppo di monti minori. Tutti i suoi fianchi erano coperti di neve; solamente alla base si vedeva un po' di vegetazione, dei gruppi di pini e di abeti. Lo "Sparviero" si elevava rapidamente, battendo poderosamente e precipitosamente le ali per raggiungere quell'altezza considerevole. Anche le eliche orizzontali turbinavano vertiginosamente, imprimendo al fuso un fremito sonoro. L'aria diventava di momento in momento più rarefatta, rendendo la respirazione degli aeronauti assai penosa. Si trattava di raggiungere i settemilanovecento e forse gli ottomila metri d'elevazione, trovandosi già il lago a quattromilaseicentotrenta sul livello del mare. Solamente i tibetani, abituati a quell'atmosfera, potevano resistere senza provare alcun disturbo. Perfino il capitano si sentiva ronzare gli orecchi e girare il capo come se fosse ubriaco. Lo sconosciuto poi si era lasciato cadere su una cassa tenendosi la testa stretta fra le mani e respirando affannosamente. Raggiunti i settemila metri, lo "Sparviero" prese la corsa verso l'enorme montagna, provocando una fortissima corrente d'aria. Ora il freddo era così intenso a quell'altezza, che le balaustrate di metallo si erano coperte quasi istantaneamente di ghiaccioli e che l'alito degli aeronauti, appena uscito dalle loro labbra, si convertiva in nevischio. Il capitano, dopo essersi avvolto in coperte di lana di molto spessore, si era messo in osservazione a prora, tenendo il cannocchiale puntato sulla vetta della piramide. Quantunque la distanza fosse ancora notevole, gli pareva d'aver veduto due punti oscuri ergersi sulla cima, fra il candidissimo strato nevoso. - Che siano Rokoff e Fedoro? - si era chiesto. - Se giungessimo troppo tardi? Macchinista, aumenta ancora, fino a far scoppiare la macchina! I due punti neri diventavano più distinti. Sembravano due esseri umani appesi a un palo o a una croce sormontata da alcuni stracci svolazzanti al vento. Dei punti più piccoli, che non si potevano ancora discernere, volteggiavano intorno, ora alzandosi e ora abbassandosi. Che cos'erano? Aquile forse, pronte a precipitarsi sulla preda a loro offerta dal miserabile Bogdo-Lama di Dorkia? Il capitano lo supponeva. - I fucili da caccia! - gridò. - Preparate i fucili da caccia e innalziamoci ancora! ... Rokoff e Fedoro sono lassù! Lo sconosciuto, strappato dal suo torpore da quei comandi, con uno sforzo supremo si era alzato, barcollando come un ebbro. - Perché i fucili?- chiese. - E le bombe? - Le aquile! Le aquile! Stanno per dilaniarli! - gridò il capitano. - Guardate! Ah! I miserabili! Lo "Sparviero"" aveva raggiunto la piramide, ma si trovava ancora troppo basso per raggiungere il vertice. Interruppe bruscamente la sua marcia orizzontale e ricominciò ad elevarsi, inclinandosi verso poppa per avere maggior slancio. Sulla cima della piramide, proprio sulla vetta, si vedevano Fedoro e Rokoff a dibattersi disperatamente e si udivano a urlare colla speranza di spaventare le aquile che giravano intorno a loro, pronte a dilaniarli coi robusti rostri e coi poderosi artigli. I due disgraziati, che indossavano ancora le tonache dei monaci, erano legati a una specie di croce, l'uno accanto all'altro, sormontati da una bandiera di feltro bianco, su cui si vedevano dipinte delle lettere. Quindici o venti aquile volteggiavano ora sopra e ora intorno a loro mandando acute grida, sfiorandoli colle loro poderose ali per stordirli prima di cominciare a farli a pezzi vivi. Entrambi si dibattevano disperatamente, cercando di far cadere la croce, ma erano legati così solidamente da non poter liberare né le mani né i piedi. Già un'aquila, più ardita delle altre, si era posata sulla cima della croce, pronta a spaccare il cranio del cosacco, che si trovava più vicino, quando comparve lo "Sparviero", il quale aveva finalmente superato l'orlo della piramide tronca. Contemporaneamente rimbombarono due spari e il vorace volatile, colpito in pieno, capitombolava al suolo. Due grida era sfuggite ai disgraziati, che già credevano di sentirsi dilaniare, due grida di gioia suprema: - Lo "Sparviero"! Il capitano! Poi seguirono una serie di detonazioni: era la mitragliatrice che tempestava le altre aquile, fracassando le loro ali o fulminandole sul colpo. Lo "Sparviero" si era adagiato sulla cima della montagna e il capitano e lo sconosciuto, quantunque storditi, si erano slanciati a terra. - Rokoff! Fedoro! - gridò il comandante, mentre il macchinista continuava a far tuonare la mitragliatrice per fugare i volatili sopravvissuti alla prima scarica e che non volevano decidersi ad abbandonare le prede. - Per le steppe del Don e anche dell'inferno! - urlò Rokoff. - Liberateci, signore! Le canaglie! I miserabili! Andiamo a sterminarli tutti! Urrà per lo "Sparviero"! Il capitano, che aveva portato un coltello, s'arrampicò sulla croce e liberò entrambi dalle corde che li avvincevano. Fedoro, assiderato, istupidito, mezzo asfissiato, si era subito abbandonato fra le braccia dello sconosciuto, borbottando con voce appena intelligibile: - Grazie ... Aveva il sangue al naso e anche agli orecchi in causa dell'estrema rarefazione dell'aria. Lo si dovette portare sullo "Sparviero", perché non si reggeva più. Rokoff invece, appena liberato, si era messo a correre verso l'estremità opposta del piccolo altipiano, coi pugni chiusi, gli occhi scintillanti d'ira. - Signor Rokoff! - gridò il capitano. - Dove correte? Siete impazzito? Il cosacco pareva che non lo udisse nemmeno e che non provasse lo stordimento che s'impadroniva sempre più dei suoi compagni. Quando giunse sul margine estremo, un urlo selvaggio gli sfuggì. - Eccoli! Cane d'un lama, avrò la tua pelle! Il capitano lo aveva raggiunto. - Venite ... lo "Sparviero" ci attende ... è pericoloso fermarci quassù ... la rarefazione ... - Guardateli! - gridò Rokoff, furioso. - Scendono la montagna. - Ma chi? - I buddisti ... i monaci ... gli assassini ... Il capitano guardò abbasso. Sotto di lui, sei o settecento metri più giù, una lunga fila di persone, composta di monaci e di montanari, scendeva i fianchi della montagna, fermandosi di quando in quando per guardare verso la cima. Erano almeno tre o quattromila persone e buona parte di esse armate di moschettoni e di lance. - Eccoli quelli che volevano fare delle nostre ossa delle pillole da dare da mangiare ai cani - disse Rokoff. - Lasciate che vadano ad appiccarsi altrove - rispose il capitano. - Promettetemi di passarvi sopra. - Sì, ma fuori di portata dei loro fucili. - Andiamo allo "Sparviero". Ripresero la corsa e raggiunsero il fuso, dove il macchinista stava facendo sorseggiare a Fedoro un bicchiere di vecchio ginepro, per rimetterlo un po' dalle emozioni provate e per riscaldarlo. - Partiamo! - disse il capitano. - Non è prudente fermarsi troppo a simili altezze. Si erano imbarcati tutti. Lo "Sparviero" attraversò il piccolo altipiano e scese il versante opposto, dirigendosi là dove i pellegrini e i monaci calavano. Questi si erano subito accorti della presenza di quel mostruoso uccello che piombava dalle cime del nevoso colosso con rapidità fulminea, come se volesse schiacciarli. Un immenso urlo di terrore si era alzato fra quelle centinaia e centinaia d'uomini, ripercuotendosi lungamente nelle vallate, poi era subentrato un profondo silenzio. Pareva che tutti, monaci e pellegrini, fossero impietriti dallo spavento. Alcuni si erano lasciati cadere al suolo, nascondendosi il viso fra le cappe villose dei loro mantelloni. Rokoff si era curvato sulla prora del fuso, per farsi meglio vedere e agitava le braccia come se scagliasse sui suoi assassini delle maledizioni. D'un tratto si slanciò verso la macchina, afferrò una cassa di zinco ripiena d'acqua e la precipitò in mezzo alla folla terrorizzata, urlando: - Prendete! Ecco il saluto dei Buddha viventi! Quante persone avesse accoppate o storpiate, non lo poté sapere perché già lo "Sparviero" era lontano, volando in direzione del Tengri-Nor.

STORIA DI DUE ANIME

682509
Serao, Matilde 1 occorrenze

Lo sguardo vi si fermava, attratto, allucinato, abbacinato da tutto quell'oro; e sottraendosi a stento, aveva impressioni più dolci, più pacate, sull'argento della corona, sull'argento della raggiera di spade, sul biancore mite del soggolo: e, infine, l'occhio si posava sulla fascia trambasciata della Dolente e ne riceveva l'impressione più pietosa, poichè il sentimento espresso così vivamente dal pittore, aveva avuto la cornice dalle vesti, dal manto e dagli ornamenti, poichè i simboli e gli emblemi nel lutto dell'abito, nel fasto lugubre dell'oro, nella corona chiusa, nelle spade e nel fazzoletto intriso di lagrime, completavano l'opera dell'arte e della pietà. - Quanto è bella! - mormorò Fortunatina, una delle due ricamatrici, ingenuamente, mitemente. - Quanto è bella! - ripetette l'altra, mitemente, ingenuamente. - Tu ci devi assistere, Madonna Addolorata - disse donna Raffaellina Galante, piamente. - A te ci raccomandiamo - disse, a bassa voce, Gaetano Ursomando. - Tu pensa a noi, Maria - disse lo storpio. Ultimo, a capo basso, quasi a sè stesso, desolatamente, Domenico Maresca, soggiunse, ultimo: - Nelle tue mani, Maria, nelle tue mani! Si bussò, alla porta, mentre essi dicevano alla Dolente l'animo loro umile e triste. Nessuno udì, veramente, distratto da quel momento culminante, ove le loro fatiche materiali avevan avuto il termine e la loro anima semplice poteva sfogare i sentimenti repressi. Dopo un minuto, si bussò alla porta, di nuovo, rapidamente e vivacemente: - Chi è? - chiese, di dentro, Domenico, con accento diffidente. - Aprite, dunque! - esclamò una voce imperiosa. Domenico riconobbe quella del duca. E, con molta precauzione, presa la grossa chiave, aprì per metà una impannata, lasciandogli appena lo spazio per entrare e richiudendo subito a chiave. - La Madonna? - gridò il gentiluomo, senza levar gli occhi. - Eccola. Vedendola innanzi a sè, quale l'aveva pensata nei suoi sogni spasimanti di peccatore contrito, quale l'aveva immaginata, nelle sue ore di abbattimento mortale, quale l'aveva desiderata, nelle sue ore di disperata e vana penitenza, vedendola nell'aureola di splendor tetro come egli l'aveva invocata nella sua dedizione spirituale, nella ricchezza funebre dell'oro simile alle coltri dei cadaveri, vedendola negli occhi disperati, nel cuore trapassato, sotto una corona pesante che ne accasciava il picciol capo arrovesciato, e sotto il manto mortuario, innanzi alla realtà della sua visione e della sua preghiera, il gentiluomo sussultò, il suo viso si decompose ed egli vacillò, come se svenisse. Gli dettero una sedia: vi cadde: e nulla sapendo più, nulla vedendo e nulla udendo, come un essere misero e caduco, fra quei miseri e caduchi, egli si nascose la faccia fra le mani, scoppiando in pianto. Niuno osò accostarsi a lui, pronunziare una parola. Quella povera gente, attese, mutamente, in attitudine di rispetto, che la emozione del duca avesse tutto il suo sfogo. E, presto, negli occhi imperiosi del gentiluomo, le lagrime si disseccarono; con uno sforzo di dissimulazione, il suo viso si ricompose, riassunse l'aspetto freddo e orgoglioso che persisteva, sempre, anche nel pallore crescente, anche nelle linee consumate. Fermo sulle sue gambe, egli si levò, andò ai piedi della immensa statua, per vederne meglio i particolari, vi girò attorno lentamente, osservando tutto con minuzia, portando in questo esame come la glacialità di un mercante. E, infine, ritornato innanzi al ricco e nobile simulacro della Dolente, egli disse, con tono breve e asciutto, a Domenico Maresca: - Avete fatto una bella cosa. Sono contento. Il pittore dei santi accennò con un inchino, con la testa, senza nulla rispondere. E l'altro, seccamente: - È pronta per essere trasportata? - Prontissima. - Sta bene. Vi rammentate, Maresca?! miei uomini verranno a prenderla, dopodomani mattina, all'alba. V'incomoderete qui, voi stesso, a quell'ora, per darne la consegna. - Certo. - Scelgo quell'ora, per evitare la curiosità della gente. Le persone che io manderò, sono molto esperte e fanno l'imballaggio con rapidità. Massima rapidità, segretezza massima. È inteso? - È inteso, signore. - Un'altra cosa essenziale. Oggi e domani la vostra bottega sarà chiusa, non voglio che vi entri nessun curioso, nessun indiscreto. Oggi è festa, naturalmente; ma se per domani vi dà fastidio, tener chiuso, compenserò questo fastidio. - È inutile. Riposeremo, domani, dopo tante fatiche. - Chi conserva la chiave di questa bottega, Maresca? - Io. - Voi, personalmente? - Personalmente. - Non vi fidate di nessuno. Promettetemi che la porterete via, questa chiave, a casa vostra, che non l'affiderete a nessuno, e che dopodomani, all'alba, verrete qui, solo, a riaprire, per la consegna. - Lo prometto. - Non mando a rilevare domani, la Madonna, per mie ragioni particolari; e me ne dispiace, ve lo assicuro. Ho aspettato tanto, e, ora, queste ventiquattro ore mi seccano. Non vi è che fare! Alle volte, nè la volontà, nè il danaro, bastano a togliere un ostacolo materiale. Pure, Maresca, mi fido di voi che, per contentare il mio desiderio, nessuno vedrà, qui, la mia Madonna e nessuno saprà ove io la mando. È il mio desiderio! Che fate, ora, quando me ne sarò andato? - Se vi piace, chiuderemo. - Ecco. È festa. Chiudete subito. Raccolti in un angolo, lontani, in una paziente aspettativa, gli altri nulla avevano udito di questo dialogo, avvenuto a bassa voce. Ancora una volta, il gentiluomo mise gli occhi sul viso della Dolente e ve li tenne, intenti, ardenti, riflettenti un dolore torbido e intimo. Poi, scosse il capo, e mettendo la mano in tasca, ne cavò il portafogli. - Per voi, Maresca - gli disse, consegnandogli un biglietto azzurro di mille lire. Il pittore dei santi ringraziò semplicemente, chiudendo in un vecchio e sdrucito portafogli il prezzo delle sue lunghe e buone fatiche. E, man mano, il gentiluomo donò cento lire alla ricamatrice, cinquanta allo stuccatore Ursomando, venti lire a ognuna delle due ragazze ricamatrici, dieci lire al piccolo sciancato, e ognuno di costoro volendo esplodere nei vivi e verbosi ringraziamenti meridionali, ognuno, commosso della sua generosità, volendo baciargli la mano, egli ebbe due o tre atti imperiosi e duri, per non essere ringraziato, nè a voce, nè con gesti. - Addio, Maresca - egli disse dalla porta, uscendo. E in quel senso di sorpresa generale che aveva destato, in quella gente semplice, il suo contegno strano, la ricamatrice ebbe un moto di spalle, una parola definitiva: - Poveretto... chi sa!. La comitiva, lentamente, si sciolse: ognuno di coloro che aveva passato dei mesi intorno alla grande effigie e che, ora, non l'avrebbe vista più, si licenziò da essa, con una breve orazione, con un segno di croce, passandole innanzi, salutandola con un inchino: le due ragazze si inginocchiarono, baciandole il lembo della veste, su cui anche le loro abili mani avevano intessuto l'oro, in lavoro silenzioso, e che, adesso, era diventata sacra, benedetta da Dio, messa sulla statua benedetta, parte istessa della Madonna Addolorata. - Ci vediamo dopodomani, verso mezzogiorno - disse il pittore dei santi, a Gaetano Ursomando e al ragazzo, volendo obbedire rigorosamente agli ordini del duca. - Ci vediamo - dissero quelli, andandosene, abituati a una obbedienza cieca: e contenti del dono avuto, del riposo, di tutto. Alle loro spalle, Domenico Maresca chiuse a chiave la porta della bottega e restò un momento, solo, davanti alla Madonna Addolorata. Poichè, nella sua perfetta onestà, egli voleva mantenere in tutto e per tutto la parola data al gentiluomo, voleva partire, anche lui, subito, rinserrando preziosamente il simulacro dietro le pesanti, duplici porte della sua bottega. Non l'avrebbe vista, sino all'alba del secondo giorno, in cui la Dolente doveva lasciare per sempre la bottega, ove era stata circa tre anni, non l'avrebbe vista più: così egli aveva promesso e così doveva mantenere. E senza parole, si appoggiò col capo, col viso, ai piedi della Dolente, calzati di sandali, nudi nei sandali, e immobili sul piedistallo, quasi li avesse pietrificati lo spasimo: senza parole, egli mise la sua bocca su quei piedi, che, pure esciti dalle sue mani di artista, adesso, benedetti, consacrati, formavano parte di una figura divina, formavano parte di un simbolo di dolore e di pietà. In quell'atto di reverenza, di umiltà, di abbandono, il pittore dei santi concentrò tutta la sua anima semplice, e raccolse tutto il suo spirito semplice, e adorando la Dolente, dandole l'ultimo saluto, affidò a Lei, nella vita, nella morte, la sua salvazione. Malgrado il sonno profondo in cui era immerso, Domenico Maresca, percepì, a un tratto, di trovarsi nelle tenebre. Ma non giungeva ad aprire gli occhi, combattendo contro il suo torpore: quando, anche lo colpì il puzzo di uno stoppino spento nell'olio, un puzzo forte e disgustoso che finì per svegliarlo. Aprì gli occhi: era all'oscuro. La piccola lampada, accesa innanzi a una immagine di san Domenico Guzman, la piccola lampada, con cui egli era stato avvezzato a dormire, da quando era piccino, consuetudine diventata invincibile, si era spenta. Ciò accadeva, talvolta, quando la serva si dimenticava di rifornirla di olio, dell'acqua, o dimenticava di cambiarvi il lumino consunto. E, immancabilmente, questo piccolo incidente, aveva il potere di risvegliare Domenico, qualunque fosse il sonno in cui era tenuta e abbattuta la sua persona. - Bisogna riaccendere la lampada - egli pensò, male risvegliato, ancora. Con la mano, cercando di non far rumore, tastò sul tavolino da notte, per cercarvi la scatola dei fiammiferi. Non la potette trovare ed ebbe un moto di delusione e di lassezza, con la testa sull'origliere: temeva di risvegliare Anna; costei era abituata a dormire sempre, con la lampada accesa o spenta, e s'irritava assai di essere svegliata, quando Domenico faceva del rumore, per riaccendere la lampada, burlandosi, amaramente, di lui, come di un bimbo pauroso che non sapesse dormire all'oscuro. Domenico rimase qualche minuto immobile, sveglio, guardando nell'ombra, tendendo l'orecchio, a udire il respiro di Anna. - Dorme profondamente - disse, fra sè. E pensò di alzarsi, pianissimo, senza disturbarla, per riaccendere la lampada. Quella profonda oscurità, lo opprimeva, da un canto, e gli dava una inquietudine singolare, dall'altro: sentiva che non si sarebbe riaddormentato, se non rivedeva la fioca luce del lumino, nel bicchiere rosso innanzi a san Domenico. Con una cautela di movimenti, arrestandosi ad ogni secondo, per non produrre neppure uno scricchiolìo del letto, egli mise fuori le gambe, trovò le pianelle, si levò in piedi: tastò lungamente sul tavolino da notte, dove si ricordava di aver deposta, senz'altro, come ogni sera, una scatola di fiammiferi. Niente. Come fare? La sua inquietudine misteriosa lo eccitava sempre più: egli fece qualche passo, distese la mano, trovò sulla sedia, a piedi del letto, i suoi panni, infilò i suoi calzoni. Poichè in camera non vi erano fiammiferi, poichè nella sua giacca non ne avrebbe ritrovati, perchè non fumava, voleva andare in cucina, ove ne avrebbe trovati. Levando i passi, con una lentezza singolare, per non farsi udire, a tastoni, fermandosi, barcollando, eppur continuando il suo cammino, egli uscì dalla stanza da letto. - Meno male che Anna non si è svegliata - disse, fra sè, con un sospiro di sollievo. Con la consuetudine che aveva, da tanti anni, della sua piccola casa, si diresse all'oscuro, senza troppo inciampare, verso la cucina. Da che, l'anno scorso, Anna aveva licenziato la vecchia Mariangela ed egli non aveva avuto il coraggio di opporvisi, e la poveretta aveva dovuto prendere, a giorno fisso, implacabilmente, la via del paesello ove era nata, e donde mancava da tutta una vita, essi avevano cambiato due o tre domestiche, per capriccio di Anna, per lo più, o perchè erano indolenti, insolenti, mangione. - L'ultima, una giovine, vi stava da un paio di mesi miracolosamente, poichè Anna sembrava proteggerla molto: ma lei, come le altre, andava via dalla casa, la sera, dopo il pranzo e dopo aver rigovernato le stoviglie. Era Anna che aveva voluto così, dicendo che si nauseava di tenere a dormire in casa queste donne sudicie, che sciupavano la biancheria, che forse, avrebbero portato degli insetti nel letto e nella casa. Era, anche, una economia, poichè le domestiche che vanno via di sera, si compensano meno delle altre, che restano a dormire. Domenico che aveva fatto compiere, vilmente, il sacrificio di Mariangela, nulla aveva tentato di osservare, a questi mutamenti. Il dietrostanza oscuro dove, un tempo, dormiva la fedele Mariangela, era vuoto: e in quella notte, in quel silenzio, mentre si avviava alla cucina, Domenico pensò, che, in altri tempi, tante volte, quando si era alzato, a quell'ora, Mariangela si era svegliata subito, con quel senso fine dei cani di custodia, e gli aveva chiesto se voleva qualche cosa. Nulla, ora; la casa era deserta di quell'antica fedeltà, e Mariangela aspettava la morte, in vita divota e solinga, ad Airola, in un piccolo paese di montagna. Sospirando, tastando qua e là, Domenico finì per mettere le mani sopra una scatola di fiammiferi da cucina, di legno, dalla capocchia di zolfo. Bisognava contentarsi, poichè gli era impossibile continuare la sua notte nelle tenebre. - Povera Mariangela! - mormorò fra sè. Rientrò nella camera da letto, smorzando di nuovo i passi, diminuendo quasi il respiro, per non turbare il riposo di Anna, sua moglie. La lampada spenta era collocata sovra un cassettone, a sinistra del letto coniugale, dal lato di Domenico: appoggiato al cassettone, egli strofinò due fiammiferi, prima di avere la fiamma fosforica e male odorante, tossi per il fosforo, e riaccese il lumino, sempre tenendo le spalle voltate al letto, cercando, per cautela, di nascondere le sue operazioni. Vide che l'olio non mancava e che il lumino era nuovo: esso si era spento, non da sè, ma dalla mano di qualcuno che lo aveva annegato nell'acqua. Nella stanza si diffuse un pallido chiarore. Domenico si voltò verso il letto. Esso era vuoto, deserto, Anna non vi era. Egli si accostò di più, per vedere meglio. Il letto era deserto e vuoto: Anna non vi era. Si avvicinò moltissimo, toccò, con le mani, le coltri un po' rimboccate donde la donna si era levata, toccò l'origliere, in un incavo rotondo donde la testa della donna si era sollevata, toccò tutto il letto, con le mani, due volte. Era vuoto e deserto, Anna non vi era. E fulmineamente, una certezza gli squarciò tutte le fibre e tutta l'anima: Anna lo aveva abbandonato. Anna era fuggita. Non credette a un caso singolare, a un accidente bizzarro, a una combinazione qualsiasi, che attenuasse o contradicesse l'orrenda verità: tutta la orrenda verità gli fu palese, senza velo d'illusione alcuna. Come coloro che, in un istante, apprendono il massimo male, che li abbatte e li travolge, come coloro che sono toccati, in un istante, in un solo istante, dalla folgore del dolore, una vertigine lo colse, più forte, più forte, lo gittò sovra una sedia, ai piedi del letto, fatto vasto e deserto, donde Anna era fuggita; e nei giri larghi, ove egli perdeva conoscenza, girando attorno a lui, il letto, la stanza, la casa, la città, l'universo, in questi giri, in cui si sprofondava la sua conoscenza, egli pensò: - Io muoio, va bene. Ma non morì. Qualche minuto dopo, o molti minuti dopo, non intendendo bene la misura del tempo, supponendo che fosse passato un secolo di dolore o un secondo di altissimo dolore, Domenico Maresca si ritrovò solo, caduto di traverso sovra una sedia, sovra dei panni, solo, in quella stanza, solo, innanzi a quel letto, solo, in quella casa, in quella notte. E il terrore di quella solitudine, di quel silenzio, di quella penombra, un freddo terrore lo colse: si levò, come un pazzo, accese le due candele steariche nei candelieri, sulla toilette di merletto, escì nel salotto, accese il grande lume a petrolio, che era sul tavolino centrale, corse in istanza da pranzo, accese la sospensione, la luce si diffuse dapertutto, nelle poche stanze della piccola casa, tutto fu chiaro e fu chiara la solitudine, e fu chiaro il deserto di quella casa, una solitudine ultima, irrevocabile, un deserto ove neppure la voce di una familiare, di una serva sarebbe venuta ad aiutare la disperazione dell'uomo, che era stato abbandonato e che aveva fatto la luce per avere, quasi, il senso più largo e più estremo del suo abbandono. Tutto era a posto, tutto era in ordine, nella stanza da pranzo, nel salottino, ma tutto vi aveva un aspetto funebre, di dimora, ove, un tempo, fosse stata la vita di esseri palpitanti, vibranti e donde questa vita si fosse ritratta, per sempre. Sgomento, come folle, vacillante, egli corse di nuovo nella stanza da letto: là, ai piedi del letto, vi erano, dal lato ove dormiva la moglie, le pianelline sue: sovra la sedia era disposta la sua vestaglia di lana azzurra, le braccia pendenti, aperte, come in atto di ineluttabile disperazione. - Oh Anna, Anna! - gridò, vanamente, l'abbandonato. Il suo grido stesso, in quella camera muta, gli ridestò nel cuore, smarrito e straziato, dei tumultuosi sentimenti d'ira, di gelosia, di amara e beffarda curiosità, dei sentimenti novelli nella sua natura mite e fiacca, un impeto di collera come non ne aveva mai avuto, tutta la collera repressa in quegli anni d'infelicità e dì oppressione, un furor di anima debole che si è maturato per anni: e gittandosi sulla vestaglia azzurra, con le mani, coi denti, coi piedi, la lacerò, la fece a brandelli, la pestò, imprecando al nome di Anna. - Assassina, assassina della vita mia, assassina! - gridava, solo, nella stanza vuota. E si slanciò, per compiere qualche altra vendetta manuale contro le vesti, contro la biancheria di Anna, per soddisfare quel desiderio cruento e fugace che aveva di strappare, di svellere, di rompere, di calpestare, si slanciò contro il settimanile di Anna, che era a destra del letto, aprì il primo cassetto ove era la chiave, aprì il secondo, il terzo, il quarto, tutti, tirandoli violentemente, sbattendoli nel richiuderli: erano vuoti, lisci, vuoti, vuoti. - Ha portato via la sua roba, tutta la sua roba! - gridò, ancora, esterrefatto. E si arrestò, vinto da un tremito nervoso così forte, così forte, che le sue mani non potettero più rinchiudere l'ultimo cassetto. Andò a un grande armadio a specchio, ove erano le vesti e i mantelli di Anna; era socchiuso. lo schiuse perfettamente: vuoto, liscio, le gruccie sospese e libere, non una veste, non una giacchetta. Traversò di nuovo la casa, andò nella stanzetta ove, un tempo, aveva dormito Mariangela e ove vi erano altri due armadi, di biancheria e di vestiti. Tutta la roba di Anna mancava. Il corredo di biancheria così ricco e così elegante, per cui egli aveva speso tanto denaro, tre anni prima, e di cui ella non aveva usato che una parte, tutti gli abiti donatile nelle nozze, dopo le nozze, tutti, sino ad uno, da mattina, portatole dalla sarta, due giorni prima, e di cui Domenico aveva saldata la nota, tolto via, portato via, la roba pagata col danaro del pittore dei santi, non un fazzoletto lasciato, non un nastrino, non un cencio di merletto. Freddamente, da tempo, Anna non solo aveva premeditata questa fuga, ne aveva dovuto combinare, lungamente, il piano, ma lo aveva dovuto eseguire, giorno per giorno, ora per ora, da tempo! Sì, ella era partita, nella notte, un'ora prima, forse, due ore prima, appena lo aveva visto, immerso, il pittore dei santi, in una densità profonda di sonno. ma non si porta via, tanta roba, di notte. - La roba, via, prima, - egli pensò, amaramente - e lei, questa notte, quest'assassina della mia vita! Tremando, nella persona, nelle mani, come se avesse il ribrezzo della febbre terzana, egli ritornò in camera da letto: gittò uno sguardo sulla sveglia. Erano le quattro del mattino. - Questa notte, due ore fa: non sola. Con Mariano Dentale - pensò, ancora, mordendosi le labbra, in un accesso impotente di furore geloso, nella inanità dell'uomo tradito e abbandonato. E insieme al nome del bel giovinotto così beffardo, così seducente nella sua insolenza, insieme a questo nome che, per tre anni, era stato l'incubo segreto della sua anima, un ricordo lo colpì, dandogli un nuovo sussulto di spavento. Non aveva inteso dire che Mariano Dentale doveva partire per l'America, per farvi fortuna, non lo aveva udito, così vagamente, due o tre volte, negli ultimi tempi, mentre Anna era assorta, muta, indifferente, come sempre, Anna che, certo, era partita con lui. Con qual danaro? Con qual danaro? Mariano Dentale era un pezzente. Con qual danaro? Un pezzente! I gioielli di Anna Dentale, quelli, cioè, che suo marito le aveva donati alle nozze, e nelle sue feste, durante tre anni, qualche altro dono avuto, dal compare, dai parenti, erano chiusi, ordinariamente, in uno dei tiretti, il superiore, del cassettone di Domenico, e per maggiore sicurezza, alla loro volta, erano tutti raccolti in un cassetto di sicurezza, di ferro, non molto grande, di cui Domenico teneva la chiavettina. Quando aveva bisogno di adornarsi, Anna cercava la chiave del cassettino e, per lo più, la restituiva immediatamente a suo marito, con una smorfia di sarcasmo, per quella diffidenza. Accanto a questo cassettino, dei gioielli, ve ne era un secondo più grandicello, di cui teneva sempre la chiavettina Domenico, non affidandola mai a sua moglie, e in esso, da anni, erano chiusi quei titoli di rendita al portatore che suo padre gli aveva lasciati, circa trentamila lire, raccolte dopo una vita di lavoro. In verità, con il matrimonio, con le spese consecutive, Domenico Maresca ne aveva dovuto distaccare e vendere, di titoli, per dodicimila lire e ve ne erano, quindi, rimasti solo diciottomila, non toccate più, naturalmente, dopo, presa solo la rendita, poichè i guadagni del pittore dei santi erano bastati a fare andare innanzi la casa. Anna sapeva che, lì dentro, vi era tutta la piccola fortuna di Domenico: ma aveva sempre finto di non saperlo, di non interessarsene, uscendo dalla camera, con un'alzata di spalle, quando egli apriva il tiretto del cassettone, quando immergeva il viso nel fondo, per schiudere misteriosamente il cofanetto di ferro. Dopo, Domenico richiudeva e metteva la chiave del cassettone nel taschino del suo panciotto, ove già erano le chiavettine dei due cofanetti di ferro. Folle di spavento, dunque Domenico Maresca afferrò i suoi panni, frugò nel taschino del panciotto: nessuna delle tre chiavi vi era: si voltò al cassettone, e vide che il tiretto, come il settimanile, come tutti gli armadi, era socchiuso: folle di spavento, lo aprì tutto, vi cercò, con gli occhi, freneticamente, i due cassettini di ferro. Non vi erano. Tastò con le mani, come aveva tastato il letto, donde Anna era fuggita: i due cofanetti non vi erano più, più, essa li aveva portati via, essa aveva rubato i gioielli, essa aveva rubato il denaro. - Assassina e ladra! - gridò il povero pazzo, nella notte, maledicendo l'infame. E volle uscire, correr per le vie, correr dietro ai due ladri del suo onore, della sua felicità, della sua fortuna, volle raggiungerli, ove si trovavano, essi che si portavan via tutto, quei due ladri ma più ladra lei, che gli toglieva la sua persona e che gli derubava quanto egli aveva, tutto, tutto, glacialmente, cinicamente, come una scellerata. Oh li avrebbe ritrovati, non potevan esser lontani, non potevano essersi imbarcati, quella notte istessa, per l'America, sarebbe andato in questura, avrebbe fatto dei telegrammi per fermarli, per arrestarli. Diciottomila lire, tutto quello che egli aveva. tutto, portato via, dalla donna, dal suo amante! Voleva uscire, cominciò a vestirsi frettolosamente, mettendosi le scarpe, la camicia di giorno, i calzoni, un panciotto, la giacchetta, frugando macchinalmente nelle tasche, dove aveva poche lire spicciole, tre o quattro, forse: aprì il portafogli ove aveva riposto le mille lire dategli dal duca, per la Madonna Addolorata. Non vi erano. La sera, le aveva fatte vedere ad Anna, con un sorriso di soddisfazione, ed ella appena le aveva guardate, nella sua alterigia signorile. Prima di fuggire, scelleratamente, Anna aveva rubato anche quelle, lasciando suo marito con le poche lire che aveva, egli, in saccoccia. - Ladra, ladra! - gridò ancora, lui, nei singhiozzi che gli salivano dal petto, Frugandosi, ancora, nelle tasche della giacchetta, non trovò la chiave della bottega dei santi. Rovesciando le sedie, urtando nei mobili, senza cravatta, afferrando macchinalmente il cappello, in anticamera, egli escì di casa, si dirupò per le scale oscure, ritrovando, a stento, la via, nel piccolo portone senza portinaio ove essi abitavano, e di cui i battenti erano chiusi solo con un lucchetto. Nella via Donnalbina, l'oscurità era grande, egli corse in piazza Ecce Homo , rasentando le mura, con la consuetudine antica che non lo faceva sbagliare, anche attraverso il delirio fisico e morale che lo trasportava: traversò, di corsa, la piazza Madonna dell'Aiuto, e si precipitò contro le porte della bottega dei santi. Come i cassetti, e i tiretti del settimanile, come le porte degli armadii, come i tiretti del cassettone, le porte della bottega erano leggermente schiuse: entrandovi, Domenico inciampò nella chiave, che era caduta per terra, lasciatavi dai fuggiaschi, dai due ladri. Il delirante non si ricordò, più tardi, come egli aveva acceso il grande lume a petrolio, che aveva, dietro, un grande riflettore di metallo: certo che, ai suoi occhi, che tanti successivi spettacoli terribili avevano veduto, l'ultimo spettacolo si offerse. La bottega dei santi era svaligiata e devastata. Dal petto e dalle spalle del san Sebastiano erano state strappate le freccie di argento e lo stucco che si era rotto, qua e là, mostrava il fondo di creta, il fondo di legno; dalla mano del san Giovannino era stata tolta la mazza pastorale di argento e, nella fretta, il braccio si era spezzato per metà; dalla mano di santa Filomena era stata strappata la penna di argento, e da un san Francesco, da un san Cataldo, da un san Gregorio, erano state svelte le aureole di argento, più grandi, più piccole, onde erano incoronate le loro teste. Due di questi santi, più piccoli, erano stati arrovesciati dal loro piedistallo, per derubarne il prezioso metallo che li adornava; un terzo, il san Cataldo, giaceva per terra, a faccia sul suolo. Nel mezzo della bottega, la Dolente appariva denudata, derubata di tutto. Le avevano tolto la massiccia corona di argento dal capo, il manto carico di oro, le sette spadine confitte nel petto e che erano anche di argento massiccio, la veste carica di oro: disadorna, svestita, ella aveva la sua sottana nera, di tela forte, mezza discinta, per la rabbiosa fretta degli svaligiatori, e si vedeva la tunica di mussola bianca, come una camicia: mentre, sul capo denudato, in alto, ove erano dipinti leggermente i capelli, vi era un buco, prodotto dalla furia di tirar via la corona di argento e il manto che vi erano inchiodati: le bende e il soggolo pendevano lacerati, sul petto: dalla mano distesa era stato tolto persino il fazzoletto. E il furto sacrilego, quel furto che offendeva infamemente la immagine di Maria Addolorata, che aveva mutilato e spezzato le immagini dei santi, che aveva tolto sacrilegamente, da queste immagini benedette e consacrate, gli ornamenti benedetti e sacri, questo furto era completo, perfetto, tutto ciò che poteva valer danaro, dalle vesti della Dolente che costavano seimila lire di oro, alle piccole aureole di argento dei santi che ne costavano dieci, tutto, tutto era sparito, e la Madonna era spogliata, col capo infranto, i santi erano spogliati, con le braccia rotte, con il costato aperto, e giacevano in terra, spezzati, e il sacrilegio era consumato, nella sua forma più oltraggiosa, più irreparabile, più orribile. Dato un urlo altissimo, Domenico Maresca, cadde, come morto, ai piedi di Maria Addolorata e vi giacque, per terra, come morto. Tutta la sera, una pioggia scrosciante accompagnata da larghe raffiche di vento, una improvvisa e violenta bufera di equinozio primaverile, aveva battuto le vie e le case napoletane: verso le colline già verdi e odorose, qualche tuono rumoreggiava, mentre, in città, nelle vie deserte, allagate di vasti specchi di acqua nerastra, per la ineguaglianza del selciato, i lampioni a gas diffondevano delle fantastiche, vacillanti luci gialle. Gli scrosci di pioggia ora rallentavano, quasi cessavano, per riprendere, dopo pochi minuti, con ira maggiore: il vento ora ravvolgeva a turbine la pioggia, come un gorgo, ora la sbatteva sul volto, come uno schiaffo. Laggiù, verso santa Maria la Nova, verso Santa Maria dell'Aiuto, non un viandante, non un'ombra: altro che il fracasso del temporale, più intenso nelle strade anguste, coi vortici di pioggia che vi si ingolfavano, col turbine del vento che vi si angustiava dentro. A quell'ora piuttosto tarda, la bottega dei santi era ancora aperta: attraverso i vetri sudici ed opachi delle sue impannate, un lume fioco trapelava. Dentro vi era un silenzio intenso, in contrasto col rumore affannoso e urlante della bufera, un silenzio che aveva qualche cosa di mortale. E tutte le cose vi erano restate come Domenico Maresca le aveva trovate: la spoliazione, il furto, la devastazione, il sacrilegio, vi apparivano, in tutta la loro realtà e in tutta la loro crudeltà. Ma queste cose orrende non avevano più, da che una giornata era trascorsa, una eterna giornata di stupore di desolazione e di disperazione, non avevan più la loro espressione impensata e violenta: sembrava che da tempo, oramai, quelle cose orrende fossero accadute: che da tempo, lo spettacolo loro avesse destato il lungo grido di orrore e che tutti gli echi, oramai, di tal grido, si fossero spenti: che la sventura, l'onta, l'infamia che esse rappresentavano, non fossero più la convulsione spasmodica di fatti inaspettati e brutali, ma la pacata e immanente desolazione senza confini, oltre l'anima, oltre il mondo, oltre il Cielo. Il momento altissimo, atrocissimo, era trascorso e la tragedia aveva toccato il suo culmine: già le vittime senza vita o viventi, parevano coperte dal tetro, pesante, ineluttabile manto della rassegnazione. Un solo lume a petrolio, portato dalla casa di Donnalbina, ardeva debolmente sovra la tavola, fra gli strumenti dell'arte, i mucchi delle biacche, i vaselli degli ori e degli argenti, i pennelli e le stecche. Contro il muro di fronte, la immensa ombra della Madonna Addolorata, che le ciniche mani avevan dispogliata delle sue vesti sontuose e dei suoi gioielli, si allungava, misteriosamente: e la statua era rimasta deturpata, come le mani dei due furenti spoliatori l'avevan lasciata: e tutti gli altri santi, derubati dei loro ornamenti, spezzati, protendevano, colpiti da quella poca luce, le loro linee sulle muraglie, in ombre fantasiose e lugubri. Quella penombra conveniva ad essi: meno si scorgeva il danno, e il sacrilegio si avvolgeva di incertezza, per gli occhi non avvezzi. Il grande lume dal vividissimo riflettore, era stato spento, e pareva che, in quella bottega, si vegliasse, da giorni, in silenzio, in penombra, intorno a una persona morente, intorno a una persona morta. Tendendo l'orecchio, un respiro penoso si udiva, infatti, interrotto, talvolta, da sospiri dolenti: non altro. In un cantuccio della sua bottega, sovra una sedia, coi gomiti appoggiati a un angolo estremo di un tavolino, Domenico Maresca vegliava, colà, come in una camera mortuaria. Era solo! I due poveretti suoi compagni di fatica, lo stuccatore Gaetano e il piccolo storpio Nicolino che, nella mattinata, qualcuno era andato a chiamare, per soccorso, avevano passato la giornata con lui, piangendo con lui, provando un dolore più semplice e più candido, non osando neppure consolarlo, non osando nominargli nè la fuggiasca che gli aveva tutto strappato, l'onore, la felicità, il denaro, nè il suo complice che l'aveva spinta al tradimento, al furto, al sacrilegio. E non gli erano stati di altro aiuto, che come triste compagnia. Non potevano essergli di altro aiuto: non lasciarlo solo, in preda all'abbattimento delle forze fisiche ed alla disperazione: erano restati lì, in bottega, chiusi con lui, fra le statue spogliate e manomesse, non osando toccarle, non osando neanche toccare il san Cataldo che era caduto con la faccia per terra, non osando quasi voltarsi alla Dolente, dal piccolo capo rotto, donde era stata strappata brutalmente la sua corona: e chiusi col pittore dei santi, in una taciturnità d'avvilimento, di sgomento, di stupore, non sapendo che cosa dirgli, comprendendo, così, vagamente, che nulla potevano dirgli e che nulla egli poteva udire. Avevano vegliato con lui, come si veglia con uno sventurato che ha perduto una persona amatissima, rapitagli da un destino avverso: senza parole, con movimenti cauti e lenti, lasciando trascorrere le ore. Per prendere un boccone, morenti di fame, come erano, verso la sera, uno alla volta, erano usciti, si erano allontanati, dandosi il cambio: e dal non aver egli neanche risposto, all'offerta di portargli qualche cosa, dal non aver neanche udito, forse, le loro discrete e umili insistenze, essi si eran convinti, che era meglio lasciarlo stare, immerso nel suo muto e atroce dolore. E quando egli li aveva rinviati, la sera, nel momento che principiava la tempesta di primavera, essi non avevano chiesto di restare, avevano obbedito, come erano avvezzi a obbedirgli, sempre. Così mentre la pioggia imperversava, colpendo i vetri delle impannate e il vento ne faceva scricchiolare i cardini, Domenico Maresca era solo, con i gomiti puntati sul tavolino e il volto nascosto fra le mani; solo, assorto, perduto nella vastità di uno strazio muto. Nè udì schiudere la porta, verso le dieci e mezza di sera, mentre, furiosamente, acqua e pioggia entravano dall'uscio e quasi spegnevano il fioco lume a petrolio; nè vide la donna che entrava, richiudendo subito con la chiave, e posando, in un angolo, un ombrello stillante di acqua, nè la vide asciugarsi con un fazzoletto le vesti tutte bagnate, passarsi il fazzoletto sul viso bagnato di pioggia. Mentre Fraolella faceva questo, teneva gli occhi fissi su quella massa immobile e accasciata, che formava il corpo di Domenico Maresca: ma la massa non si scosse, l'uomo era immerso, profondamente, nella sua contemplazione angosciosa. La giovine, allora, si accostò pianamente a lui, rasciugandosi le mani. Ancora del tempo era passato sul capo della graziosa e sventurata creatura: e malgrado la giovinezza, i segni della decadenza si erano fatti più palesi sul suo viso e sulla sua persona. Più gracili le forme, come se un malore intimo le avesse cominciate a distruggere, a venti anni, quando ogni essere fiorisce, e ha bellezza più vivida, e forza più salda. Più languido, più stanco l'andare, e le vesti come troppo larghe, cadenti, fluttuanti, con pieghe di abbandono. Portava una veste di lana viola pallida, guarnita goffamente di nastri rosa, e una camicetta di seta, di un rosa molto vivo, sovraccarica di galloncini di oro, di nastrini bianchi, di bottoncini: sulle spalle, uno dei suoi soliti scialletti, celeste questa volta: un insieme chiassoso, senza gusto, con quel carattere di vita viziosa, ahimè, indelebile, come una livrea di vergogna, come una livrea di disonore! Non portava più il cappello: e i suoi bei capelli folti erano acconciati pomposamente, in nodi, in ciocche, in ciuffi, in ricci, sempre nella forma più caratteristica delle poverette vagabonde, di cui si profila l'alto casco oscuro di capelli, nella notte, agli angoli delle vie. Assottigliato il viso, con gli zigomi sporgenti, carico di rossetto, con gli occhi dipinti, sotto, e le leggiadre palpebre, un tempo rosee e trasparenti, cariche anch'esse di un bistro azzurrino: e disegnata, col rossetto, la piccola fragola presso il mento, non più come un tempo, come una voglia, ma come un artifizio d'ignobile seduzione; e torbidi gli occhi, sempre torbidi, tristi, rassegnati, quasi servili, traversati, talvolta, da onde di collera servile, da onde di lagrime servili e inani. Ella si curvò sull'uomo assorto e, chetamente, lo chiamò. - Domenico, Domenico! Egli non udiva, forse, o giaceva in torpore doloroso. - Domenico, sono io, Fraolella , Domenico! - ella mormorò e poichè gli pareva di veder trasalire quella massa abbattuta, delicatamente, gli prese le mani, gliele distaccò dal viso, lo forzò dolcemente a guardarla, a riconoscerla. E nel guardarla, nel riconoscerla, il cuore di Domenico Maresca si franse: egli scoppiò a piangere singultando, balbettando, torcendo le mani: - Gelsomina... Gelsomina... hai visto, che mi è successo?.. hai visto, che mi hanno fatto?.. mi hanno ucciso... mi hanno assassinato... - Poveretto, poveretto, poveretto! - diceva lei, a bassa voce, ritta innanzi a lui, lasciandolo piangere. - Gelsomina... Gelsomina... perchè Anna non mi ha ucciso? Era meglio una coltellata nel cuore... era meglio uccidermi... era meglio... - Certo, è meglio morire - mormorò lei, con la sua voce dalla raucedine così forte, che ne aveva ottusa ogni armonia. - È meglio morire, che sopportare certe cose. - Oh Dio! oh Dio! - esclamava lui, battendosi dei pugni nella testa, in un nuovo accesso di disperazione, aridi gli occhi, adesso, e con la voce concitata. - Non far così, Domenico, - disse lei, tentando di prendergli le mani, tentando di tenergliele ferme. - Non far così, calmati, calmati!... - Ma lo sai, che Anna è fuggita in America, che non la vedrò più, che è morta, per me, che è come se fossi vedovo, mentre ella vive, con un altro, per un altro, lo sai? - Lo so - disse lei, crollando il capo. - Lo sai che ha portato via, dalla mia casa, diciottomila lire, tutto quello che io possedeva, tutto ciò che mi restava, della eredità di mio padre, e le mille lire, anche, che avevo in tasca, Gelsomina, anche quelle, perchè gliele aveva fatte vedere, lo sai? - Lo so - replicò lei, a testa china. - E lo sai, lo sai, che infamia ha commessa, qui, ove non era mai venuta, ove è entrata solo per rubare? Non le bastavano, a lei, a lui, quei denari miei, le fatiche del mio povero papà, non bastavano, le mie fatiche, è venuta qui, a rubare la Madonna, capisci, a rubare i santi, ha spogliato Maria Addolorata, si è portata tutto, per vender l'oro, per vender l'argento, in America, Gelsomina, questo, non lo sapevi? - Lo sapevo, lo vedo - disse ella, girando intorno gli occhi torbidi e tristi, dalle palpebre pesanti e oscure. - L'avresti creduto, tu, Gelsomina, che Anna mi avrebbe assassinato, l'avresti creduto? - Io l'ho sempre creduto - diss'ella, semplicemente. - Da prima? - Dal primo momento - ella soggiunse, con fermezza. - E non mi hai detto niente? Nessuno, mi ha detto niente! - Non dovevo dirti niente - ella soggiunse, ancora. - E perchè? Perchè? - Perchè tu l'amavi: perchè tu eri pazzo, Domenico - continuò lei, tristemente. - Ed era inutile dirti nulla. - E mi hai lasciato perdere, Gelsomina, tu che mi volevi bene! Tu dicevi, allora, di volermi bene! - Ti volevo bene e assai - disse la misera, con un tremito nella voce. - Come a nessuno, ti volevo bene! - E mi hai taciuto tutto! Non mi hai avvertito! Mi hai lasciato perdere, così, Gelsomina. - Anch'io mi sono perduta, Domenico! - dichiarò la disgraziata, a voce alta, con l'accento della verità. La verità, a un tratto, grandeggiò, fra quei due, si fece più alta di loro, s'impose a loro, luminosa, immensa, fatale, apparsa troppo tardi, fatale, troppo tardi, inutile e fatale. Tutto ciò che era stato e che era finito, per sempre, tutto ciò che avrebbe potuto essere e che mai più sarebbe stato, l'Irreparabile, l'Irreparabile si levava fra loro, e riempiva di sua fantastica e tragica presenza la bottega dei santi, tra le immagini rotte e deturpate, innanzi ai simulacri violati, nell'ora alta notturna, mentre imperversava, fuori, il temporale, e i due si guardavano, colpiti dalla medesima fatalità, trascinati, ognuno di essi, nel dolore, nel disonore, nel fango, per non aver visto a tempo, ove erano la verità e la vita. E l'uomo obbliò il suo immenso strazio, la sua anima si sollevò dal proprio pianto, egli sentì la comunanza di un'altra sciagura, assai più profonda della sua, perchè più oscura, più ostinata, più tetra, più inguaribile, sentì la miseria di un altro essere, la miseria del corpo e dell'anima, la miseria di un essere che lo aveva amato e del cui amore egli non si era accorto, la miseria di un essere che egli anche aveva amato, ma che non aveva saputo amare. - Ah povera, povera Gelsomina! - egli gridò. E poichè vide il volto di lei decomporsi, farsi livido, sotto il belletto, poichè vide quel sottil corpo giovanile tremare, egli prese la poveretta nelle sue braccia, per la prima volta, e con la castità della pietà infinita, paternamente, fraternamente, la strinse, tenne il picciol capo di lei sulla sua spalla e ne baciò, leggermente, i capelli, mentre ella singhiozzava, funebremente, con un singulto roco e penoso, ove vi era un lamento, un lamento di creatura colpita a morte, colpita senza speranza, senza rimedio, a morte. Gelsomina, lentamente, si sciolse dalle fraterne braccia di Domenico, si ravviò i capelli, si sedette presso a lui. Un'aridità improvvisa aveva diseccato le loro lacrime, e calmato i loro singhiozzi: l'aridità della pietà inane, della pietà vana, della pietà che non può diventare coraggio, energia, forza, della pietà che ha solo delle gelide lacrime, degli abbracci paterni, dei baci fraterni, della pietà che è un sentimento senza lena, della pietà che non ha fiamma e che nulla può distruggere, della pietà sterile che a nulla può dar vita. - Io sarei stato felice, se ti avessi sposato, Gelsomina - disse lui, con un rimpianto triste e vano, a occhi bassi. - Sì, tu saresti stato felice - replicò lei, a occhi bassi, con lo stesso tono. - Io ti avrei stimato e onorato come un benefattore e come un innamorato, Domenico. - Ahimè, io era cieco e sordo. in quel tempo! Una benda mi copriva gli occhi, Gelsomina. - Eppure io feci assai, per farti comprendere. Non ti rammenti, Domenico? Qui. venivo a cercarti, a parlarti, ogni sera. - Mi rammento, Gelsomina. - E tu non ti accorgevi di nulla. Tu guardavi le finestre del palazzo Angiulli, perchè tu amavi Anna, Domenico. - Lo sapevi, Gelsomina? - Lo sapevo, Domenico. Come potevo, ho tentato di staccarti da lei, ti ricordi, Domenico? - Mi ricordo, Gelsomina. - Ma non mi è riuscito, Domenico. - Non ti è riuscito, Gelsomina. - Non era possibile, Domenico. - Non era possibile, Gelsomina. Il dialogo continuava. Monotono, arido, quasi freddo, quasi essi facessero la storia di un lontanissimo passato. la storia di due altre persone, e non di loro due. - Dio mi ha punito della mia folle passione e del mio orgoglioso desiderio - disse lui, dopo un silenzio, riabbandonandosi all'egoismo della sua sciagura. - Raccomandati a Lui: Egli ti darà forza - mormorò Gelsomina, crollando il capo. - Io sono perduto - disse lui, cupamente. - Ci vuole coraggio: gli uomini debbono aver coraggio. - Avevo una moglie e una famiglia: non ho più nulla. - Dimentica quella donna: essa ha tentato di ucciderti. - Avevo una fortuna: non ho più un soldo. - Puoi lavorare ancora: il Signore ti manderà del lavoro. - Domani andrò in carcere, come ladro. - Tu? Tu? - Io! - Ma perchè? - Perchè Anna ha rubato le vesti della madonna, che costavano seimila lire, e gli argenti, e ogni cosa: perchè io debbo consegnare, domattina, la statua della Madonna a chi l'ha ordinata e pagata, sino all'ultima lira. - Dì che non è finita. - Non posso. Egli l'ha vista. finita. All'alba, la manda a prendere. - Va da lui, digli tutto. - Non so dove abita. - Cercalo, gittati ai suoi piedi. - Non so chi è. - Oh Dio! - esclamò lei, disperata. - Sono perduto, Gelsomina. Bisogna che dimentichi di esser un cristiano, e che mi uccida ai piedi di questa Madonna. - No - disse lei, con forza. - Bisogna che lo faccia. Non posso esser chiamato ladro. - Vuoi dannarti, dunque? - Anna mi ha messo nell'inferno, per la vita e per la morte - egli conchiuse, con l'ostinazione della follia. Ella lo guardò, stralunata. - Tu vuoi ucciderti - gli gridò, nel viso, tenendogli le mani, bruciandolo coi suoi sguardi, ove ardeva la vampa della disperazione. - Vuoi ucciderti? E che avrei dovuto fare io? Cento volte, avrei dovuto uccidermi, io! Ero una fanciulla buona, ti volevo bene, mi hai respinta, non mi hai voluta, ed io mi sono lasciata prendere, da uno qualunque, così, per debolezza, per tristezza, per non aver più che fare, di me. Non mi dovevo uccidere, forse, il giorno seguente al mio errore? Don Franceschino Grimaldi mi ha lasciata; e io, abbandonata, già perduta, ho rotolato sempre più giù, ogni giorno, perchè ero sola, perchè ero fiacca, perchè nessuno mi ha soccorso, neppure tu, perchè era impossibile, a un certo punto, di soccorrermi più. Ah quante volte la morte mi è parsa bella: e non mi sono uccisa! Io non ti posso dire la mia istoria, tutta quanta, Domenico, ma essa ti farebbe rabbrividire: non te la voglio dire, non devi saperla, non me la voglio ricordare, no, no: la volontà di morire l'ho avuta, ogni sera, ogni mattina, e non mi sono uccisa! Un tempo, due o tre anni fa, questa vita di vergogna mi dava da vivere, avevo degli abiti, dei cappelli: poi sono venuti degli infami, come Gaetanino Calabritto, degli altri, mi hanno oppressa, mi hanno maltrattata, mi hanno tolto tutto... Poi sono stata malata... all'ospedale, Domenico... ma non sono morta... e quando sono uscita, capisci... anche peggio... è stato anche peggio... Egli la udiva, smarrito, atterrato da quel tremendo racconto. - Chiedi al tuo stuccatore, Gaetano, dove sono io, adesso - disse ella, cupamente. - Egli abita dirimpetto alla mia casa. Stassera, mi ha incontrato. Giravo. Debbo girare. Mi ha raccontato tutto. E sono venuta qui, per dirti, Domenico, che se uno doveva uccidersi, dovrebbe uccidersi, sono io, io sola... io che era una buona ragazza... e che sono una disgraziata... - Ma tu non l'hai fatto! Tu non lo faresti? - No - ella disse, levandosi. - Aspetto che Dio mi tolga da queste tribolazioni. - Aspetti? - Aspetto. Deve venire il giorno... deve venire. Addio, Domenico. - Te ne vai adesso? te ne vai? - È tardi, debbo andare - diss'ella, con atto rassegnato, levando le spalle. - Mi lasci solo? - Non posso passar la notte, qui - soggiunse ella, con un sorriso amaro. - Ritornerai? domani? - No. Come posso venire, qua, di giorno? Dimentichi chi sono? Qui... da te... come sono... vedendomi tutti? No, non verrò. - Ma dove vederti, allora? - insistette ancora lui, nel suo bisogno di soccorso. - Oh non da me, non da me! - gridò lei, facendo un atto di ribrezzo. - Hai ragione - annuì lui, lentamente. E si guardarono in viso. Il destino li aveva avvicinati un tempo, ed essi tenevano nelle loro mani, la quiete e la dolcezza della loro vita, e l'avevano lasciata sfuggire, per ignoranza, per cecità, per timidezza, per debolezza: sovra loro, sovra le loro fragili anime, sovra le loro caduche compagini, era sorto un essere forte e crudele, una donna imperiosa e malvagia che li aveva combattuti, in nome dei suoi istinti di dominazione, di cupidigia, di potenza, li aveva combattuti, debellati, distrutti. E travolti dal turbine, sempre più, essi dovevano incontrarsi, ogni volta, per compiangersi, per piangere insieme, per esalare i lagni del loro dolore, ma incapaci, nella loro fiacchezza, di salvarsi, l'un l'altro, ma inetti ad agire, inetti a lottare, inetti a vivere, destinati, infine, ad aspettare che Iddio li liberasse dai triboli, ad aspettare la morte pacificatrice, solo quando il giorno della liberazione fosse venuto. Si guardarono, infelici come mai creature umane, in una notte bruna e tempestosa, furono infelici: e sentirono che nulla avevan più da dirsi: che le loro mani non dovevano toccarsi: che le loro vite dovevano separarsi: poichè la loro salvazione non era più in loro, ma fuor di loro, in mani misteriose, e chiuse, e alte, e supreme. Nella bottega dei santi, Domenico Maresca restò solo e piegò la testa sulle braccia, versando rade e fredde lacrime. Nella via, sotto la pioggia, la gracile ombra notturna di Gelsomina si allontanava, trascinando la stanca persona, e sul triste viso scendevano le rade e gelide lacrime.

Racconti fantastici

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Tarchetti, Iginio Ugo 1 occorrenze

Passando vicino al monumento che sorgeva prima nella valle e di cui pure non restavano che alcune pietre, l'uomo abbacinato che stava ancora seduto sopra un gradino rimasto intatto, mi disse porgendomi un fazzoletto bruttato di sangue: - recatelo alla signora del castello. Mi trovai assiso sulle rovine: la signora del castello era seduta al mio fianco eravamo soli - non si udiva una voce, un eco, uno stormire di fronde nella campagna - essa, afferrandomi le mani, mi diceva: - sono venuta tanto da lontano per rivederti, senti il mio cuore come batte .... senti come batte forte il mio cuore! ... tocca la mia fronte e il mio seno: oh! sono assai stanca, ho corso tanto; sono spossata dalla lunga aspettazione .... erano quasi trecento anni che non ti vedeva. -Trecento anni! -Non ti ricordi? Noi eravamo assieme in questo castello: ma sono memorie terribili! non le evochiamo. -Sarebbe impossibile; io le ho dimenticate. -Le ricorderai dopo la tua morte. -Quando-Assai presto. -Quando-Fra venti anni, al venti di gennaio: i nostri destini, come le nostre vite, non potranno ricongiungersi prima di quel giorno. -Ma allora? -Allora saremo felici, realizzeremo i nostri voti. -Quali-Li ricorderai a suo tempo .... ricorderai tutto. La tua espiazione sta per finire, tu hai attraversate undici vite prima di giungere a questa, che è l'ultima. Io ne ho attraversate sette soltanto, e sono già quarant'anni che ho compiuto il mio pellegrinaggio nel mondo: tu lo compirai con questa fra venti anni. Ma non posso rimanere più a lungo con te, è necessario che ci separiamo. -Spiegami prima questo enimma. -È impossibile ... Può avvenire però che tu lo abbia a comprendere. Ho rinfacciato ieri a lui la sua promessa; te ne ho restituito il mezzo, quei due volumi, quelle memorie scritte da te, quelle pagine sì colme di affetto .... le avrai? Se quell'uomo che ci fu allora sì fatale non t'impedirà di averle. -Chi-Tuo zio .... egli .... l'uomo della valle. -Egli? mio zio! -Sì, e lo hai tu veduto? -Lo vidi, e ti manda per me questo fazzoletto insanguinato. -È il tuo sangue, Arturo, diss'ella con trasporto, sia lodato il cielo! egli ha mantenuto la sua promessa. Dicendo queste parole la signora del castello sparve - io mi svegliai atterrito. Mio zio stette rinchiuso per due giorni nel suo appartamento: appena ne fu uscito mi precipitai nelle sue stanze per impadronirmi di quei volumi, ma non vi trovai che un mucchio di cenere; egli li aveva dati alle fiamme. Quale non fu però il mio terrore quando nel rimescolare quelle ceneri vi rinvenni alcuni frammenti che parevano scritti di mio pugno; e da alcune parole sconnesse che erano rimaste intelligibili, potrei ricostituire con uno sforzo potente di memoria degli interi periodi che si riferivano agli avvenimenti accennati oscuramente in quei sogni! Io non poteva più dubitare della verità di quelle rivelazioni; e benchè non giungessi mai ad evocare tutte le mie rimembranze per modo da dissipare le tenebre che si distendevano su quei fatti, non era più possibile che io potessi metterne in dubbio l'esistenza. Il castello nero era spesso nominato in quei frammenti, e quella passione d'amore che pareva legarmi alla signora del castello, e quel sospetto di delitto che pesava sull'uomo della valle vi erano in parte accennati. Oltre a ciò, per una combinazione singolare altrettanto che spaventevole, la notte in cui aveva fatto quel sogno era appunto la notte del venti gennaio: mancavano adunque venti anni esatti alla mia morte. Dopo quel giorno io non aveva dimenticato mai quel presagio, ma quantunque non ponessi in dubbio che vi fosse un fondo di verità in tutto quell'assieme di fatti, era riuscito a persuadermi che la mia gioventù, la mia sensibilità, la mia immaginazione, avevano contribuito in gran parte a circondarli del loro prestigio. Mio zio, morto sei anni dopo, mentre io era assente dalla famiglia, non aveva fatto alcuna rivelazione che si riferisse a quegli avvenimenti; io non aveva più avuto alcun sogno che potesse considerarsi come uno schiarimento od una continuazione di quelli; e degli affetti nuovi, e delle cure nuove, e delle nuove passioni erano venute a distogliermi da quel pensiero, a crearmi un nuovo stato di cose, un nuovo ordine di idee, ad allontanarmi da quella preoccupazione triste e affannosa. Non fu che diciannove anni dopo che io dovetti persuadermi per una testimonianza irrefragabile, che tutto ciò che io aveva sognato e veduto era vero, e che il presagio della mia morte doveva conseguentemente avverarsi. Nell'anno 1849, viaggiando al Nord della Francia, aveva disceso il Reno fin presso al confluente della piccola Mosa, e m'era trattenuto a cacciare in quelle campagne. Errando solo un giorno lungo le falde di una piccola catena di monti, mi era trovato ad un tratto in una valle nella quale mi pareva esser stato altre volte, e non aveva fatto questo pensiero che una memoria terribile venne a gettare una luce fosca e spaventosa nella mia mente, e conobbi che quella era la valle del castello, il teatro de' miei sogni e della mia esistenza trascorsa. Benchè tutto fosse mutato, benchè i campi, prima deserti, biondeggiassero adesso di messi, e non rimanessero del castello che alcuni ruderi sepolti a metà dalle ellere, ravvisai tosto quel luogo, e mille e mille rimembranze, mai più evocate, si affollarono in quell'istante nella mia anima conturbata. Chiesi ad un pastore che cosa fossero quelle rovine, e mi rispose: - Sono le rovine del castello nero; non conoscete la leggenda del castello nero? Veramente ve ne sono di molte e non si narrano da tutti allo stesso modo; ma se desiderate di saperla come la so io .... se .... -Dite, dite, io interruppi, sedendomi sull'erba al suo fianco. - E intesi da lui un racconto terribile, un racconto che io non rivelerò mai, benchè altri il possa allo stesso modo sapere, e sul quale ho potuto ricostruire tutto l'edificio di quella mia esistenza trascorsa. Quando egli ebbe finito, io mi trascinai a stento fino ad un piccolo villaggio vicino, d'onde fui trasportato, già infermo a Wiesbaden, e vi tenni il letto tre mesi. Oggi, prima di partire, mi sono recato a rivedere le rovine del castello - è il primo giorno di settembre, mancano sei mesi all'epoca della mia morte - sei mesi, meno dieci giorni - giacchè non dubito che morrò in quel giorno prefisso. Ho concepito lo strano desiderio che rimanga alcuna memoria di me. Assiso sopra una pietra del castello ho tentato di richiamarmi tutte le circostanze lontane di questo avvenimento, e vi scrissi queste pagine sotto l'impressione di un immenso terrore.» * ** L'autore di queste memorie, che fu mio amico e letterato di qualche fama, proseguendo il suo viaggio verso l'interno della Germania, morì il venti gennaio 1850, come gli era stato presagito, assassinato da una banda di zingari nelle gole così dette di Giessen presso Freiburgo. Io ho trovate queste pagine tra i suoi molti manoscritti, e le ho pubblicate.

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