Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La scuola di ballo

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Loria, Arturo 1 occorrenze

Una perfezione sognata, un'odalisca da gran principe era davanti ai suoi occhi e li sentiva ciechi, abbacinati. Bevve, si alzò, venne vicino a lei che il grido aveva impaurito e: «Brava! Brava!» mormorò con una voce arrochita di cui gli altri uomini provarono disgusto e gelosia. «Brava!» ripetè. «Lasciatevi vedere, odalisca. Questa è la gran notte del mio povero Caffè arabo. Ho sempre sognato d'esser arabo» confessò traboccando di mescolate emozioni. «L'amore dev'esser più bello per loro.» L'uscita destò una secca, ironica ilarità negli ospiti e l'irritata protesta del magrino dagli occhiali che si mise a spiegare come ogni popolo abbia delle idee sbagliate a questo proposito sugli altri. Per sua esperienza tutto il mondo era paese. Trascinato da una foga vendicativa, non si peritò a dire che molti uomini capiscono l'amore solo in maschera, dimostrandosi degni di quella o di quell'altra categoria internazionale di viziosi. La ragazza, tornata al suo posto per mangiare il dolce e la frutta, appariva impensierita di tutto quello sfogo contro il fascino orientale, e un po' s'accigliava e un po' rideva con un'altra se stessa che l'era allegra compagna nell'avventura. Il meticcio ridacchiava coi professori e i commercianti, affermando che le città europee insegnavano a tutti i popoli in materia d'amore, perfino a lui, misto di razze lussuriose e raffìnatissime. Il caffettiere taceva non sapendo se sentirsi offeso o no dal discorso del magrino, però, siccome aveva l'odalisca seduta accanto, prendeva vantaggio di arie da padrone tenendo la mano sulla spalla di lei che non ci faceva caso: ogni tanto s'alzava a offrir vino in giro per ricordare agli altri che erano suoi ospiti. Fu bussato alla saracinesca. «È mia moglie certamente» fece il giocoliere per calmare la nuova inquietudine che veniva a tutti da quel colpo. «Viene a prendermi: siam d'accordo così.» Intanto l'inserviente aveva aperto. La donna meschina e grigia esitò sulla soglia, smarrita di non riconoscer nessuno di quegli uomini travestiti. «Entrate, entrate presto» ruggì il padrone. «Avete paura, o volete che tutti ficchino il naso negli affari nostri?» Impaurita ella si fece avanti: scrutava tutti con gli occhi rossi di piagnona. Scoprì finalmente il marito: allora corse a lui come a un porto di salvazione. «Beh! Sedetevi, mangiate, bevete, già che siete venuta» gli fece il caffettiere indispettito da quella presenza miserevole e di cattivo augurio. «E voi, presentatela, vostra moglie, a questi signori. Mi dispiace proprio, ma per lei non ho un altro costume da odalisca.» Tutti risero forte, anche il giocoliere che l'aveva messa a tavola e le porgeva i piatti di dolci come a dirle: "To', godi, e poi va' a raccontare alla gente ch'io son cattivo!". Si vide tentennar d'ira la testa grigia di lei. «Non lo vorrei neanche» rispose umilmente e, reclinando il capo, si mise a piangere. «Siete cattivo» disse la ragazza al caffettiere, e si mosse per offrir le sue consolazioni alla vecchia. Egli le tenne dietro, scusandosi che aveva voluto fare uno scherzo innocente, senza offese. Volle versar da bere alla sua vittima, riempirle di biscotti una gran borsa nera di tela cerata, protestando la sua amicizia con parole e carezzine. Rasserenata la vecchia, e finiti quei convenevoli, il padrone annunziò che il caffè sarebbe stato servito nel sotterraneo. «Molti di loro non lo conoscono, perché non si son mai azzardati a scenderci anche quando era una cosa allegra. Andiamo?» In fondo alla sala una ringhiera faceva riparo al pericolo di precipitar giù per una scala aperta al livello del pavimento. L'ospite scese per primo. Contro l'ultimo scalino una porta tagliata entro una nicchia portava scritto: "Notti d'Oriente". «Vedete?» fec'egli volgendosi a guardar gl'invitati che scendevano dietro a lui. Spinse la porta e girò una chiavetta di luce elettrica. Insieme a un odore un po' sgradevole di cantina e di stoffe rinchiuse usci dall'antro una fioca luce verde, rossa e azzurra, che si divise in macchie oleose sulla pietra degli scalini. «Avanti a tutti l'odalisca» fece il caffettiere che sentiva la ragazza ridere, premuta dagli uomini complimentosi e struscioni. Ella si liberò e fu la prima a entrar nel sotterraneo. Era una saletta quadrata, dal soffitto a volta dipinto a stelle e ad arabeschi d'oro su fondo cupo: nel muro opposto all'ingresso una gran nicchia aveva dentro una sorta di trono o di alcova sormontata da un baldacchino a mezzelune d'argento. Intorno alla tazza asciutta di una fontanina posta nel centro c'eran divani e tavolinetti sui quali enormi vassoi d'ottone velati di polvere riflettevano sordamente il lume composito delle lampadine a vetri colorati, sospese in alto, giro giro. Dai tappeti e dai cuscini dei vari giacitoi veniva un seccume ch'entrava nelle nari e dava il sospetto di prurigine per. le parti che dovevan sedervisi. Il caffettiere cercò sotto una botola una chiavetta e il primo getto gorgogliante e faticoso della fontana sprizzò alto, si spense e risalì fino a una zona dove si caramellò di verde e di rosso. «Bene! Molto bello!» approvarono gli ospiti, ma rimanevano in piedi, aggirandosi tra i divani e i tavolini come se cercassero un pretesto per andarsene. «Sedetevi, signori. Avremo qui il caffè e i liquori.» Vinta l'esitazione, qualcuno cominciò a sedersi sui divani scricchiolosi provocando il cadere a terra di una pioggerella minutissima d'imbottiture ridotte in polvere. Era rimasta libera l'alcova. Là il padrone condusse la ragazza a sedersi. Egli aveva gli occhi un po' lustri e la mano carezzevole sulla schiena di lei. Vennero il caffè e i liquori. Essere in pena che non trovava posto né pace, la moglie del giocoliere cercava l'unica vicinanza del marito, il quale faceva di tutto per scansarla, seccato di vedere il suo meticcio scontento. Tenace, ella lo seguiva ad ogni cambiamento di posto. L'uomo, allora, insieme ad uno sguardo di minaccia, le offriva bicchierini di liquore in segno di squisita attenzione e tentava poi di lasciarla lì, accanto al vassoio delle bottiglie. Quando vide che la sua manovra era inutile, si buttò furibondo in un sofà, e l'attirò giù a sedere, fingendo una di quelle improvvise tenerezze ch'esibiscono i vecchi sposi tra molta gente. Il rumor dell'acqua e il vederla fornivano un senso fresco che ingoiava il secco entrato nelle nari insieme all'odore delle stoffe tarlate e imbevute di polvere. In quella tregua venne ad ognuno di prendere un aspetto indolente e orientale. Chi era già recline sul divano, vi si coricò, e con la testa in basso e le gambe alzate su qualche appoggio lasciava lo sguardo perdersi nelle nuvole di fumo odoroso che mandavano gl'incensi accesi dal padrone accanto all'alcova, o nella contemplazione dei piedi chiusi dentro le babbucce ricamate. Le voci eran divenute discrete, velate. Poi ci fu un silenzio, un invito al sogno e al sonno che i passi del cameriere che scendeva la scala, ruppero di sorpresa. Ognuno si ricompose e guardò all'alcova. Caffettiere e odalisca eran decentemente seduti un po' discosti l'un dall'altra, e meditavano, seri seri. C'era però intorno a loro il senso di una inquietudine dominata, di quella forse che segue al rifiuto della donna offesa da un troppo ardito tentativo. L'immobilità trasognata di lei poteva nascondere lo sdegno, la fissità quasi sofferente di lui, rivelava piuttosto quello speciale atteggiamento del punito che chiede perdono per poter ricominciare l'assalto col vantaggio di un tacito discorso che ha rotto i primi pudichi preliminari. Comunque ebbero tutti coscienza che un lavoro di seduzione spicciola era stato iniziato nel momento del loro riposo, e l'invidia creò un'ira serpeggiante da l'uno all'altro, tanto più che la ragazza, volgendosi al padrone sempre assorto nella sua afflizione, sorrise come a concedergli quel perdono. Un sottile desiderio di guastare l'intesa e prender vendetta invase gl'invitati maschi: la vecchia rideva e tuffava il capo grigio in seno al suo uomo, sguaiatamente letificata da quella atmosfera, ma dopo alcune parole di lui, sussurratele all'orecchio fra tigreschi sorrisi, finì in un pianto ancor più molesto dello sghignazzare di prima. Il caffettiere aveva preso una mano della ragazza e gliela carezzava sorridendo. La coppia seduta nell'alcova si isolava così, senza pensiero degli altri, che si sentiron considerati come dei cari eunuchi, testimoni obbligatori di un tale approccio amoroso. Nessuno protestò con un grido o con un gesto all'orrore dell'immagine, ma ad un vendicativo resultato ciascuno giunse ugualmente fissando la ragazza ed esprimendole senza vergogna il proprio bisogno di consolazione fisica, chiedendo, implorando per pietà un segno, un cenno che lo chiamasse il favorito. Il caffettiere, turbato dai suoi ricordi e dalla ricchezza delle impressioni e delle speranze nuove, s’era distratto; però manteneva la mano sulla spalla di lei. Quell'avanzata collettiva di desiderio e di passione fu una rivelazione improvvisa per la ragazza che sussultò di sgomento. Il suo compagno, così avvertito, rise imprudentemente con la prontezza con la quale grida lo scottato, e gli altri aggiunsero alla loro ira quella per esser stati scoperti nel tentativo malizioso. Tutti risero, dopo, ma silenziosamente, come se capissero la loro sfortuna e disincantati vi si rassegnassero. Ma un resultato lo avevano ottenuto togliendo a lei l'incoscienza della sua posizione. La ragazza sorrideva, ora, non sapendo cos'altro fare, mentre da ogni parte le veniva risposto con una amorevolezza che prendeva impegno di nutrirla, di vestirla, di mantenerla e amarla quanto una sposa. Emanava da quegli egoismi una bontà nuova per lei, avvezza a star coi giovani: era una rinuncia a tormentarla per gelosia del suo passato, era un comprender largo, un prometter più cure che passione; ed ella capì il proprio valore relativo agli uomini ch'aveva d'intorno. Non le parvero più vecchi, né ripugnanti nelle loro profferte, anche perché il costume esotico li salvava da una rivelazione precisa delle brame, concedendo al loro contegno una fantastica libertà da attori che fanno la pantomima. Però uno tra tutti la turbava: era il meticcio. In lui non c'era influsso del travestimento: prometteva in modo chiaro larghi compensi. Eppure lo vedeva bello, così bruno di pelle e armonioso nei movimenti, ne indovinava come un futuro pericolo i successi tra le invidiate donne dei varietà, ne subiva il fascino d'uomo notturno, danzatore e bevitore vizioso. Era tentata e provocata da quella fredda attesa, e avrebbe voluto vederlo goloso e ridicolo come gli altri per non trovarsi più davanti al rischio che lui rappresentava d'una vita per la quale ricordava l'orrore appreso da bambina nei discorsi uditi in casa, pieni d'ingiurie e di maledizioni. Dovette volger sugli altri lo sguardo per sentirsi la bianca caduta in un'oasi di predoni paciocconi e paterni. «È vero:» confessò liberamente «ero affamata stasera. Da ieri mattina non mangiavo» e le parve con quella frase di rinunziare ad ogni attrattiva per il meticcio lussuoso, di ritornare a un mondo capace di sentir certe miserie di buona figliola. Un sospiro affannoso le ridette coscienza che il caffettiere era seduto accanto a lei. Si volse a guardarlo e sorrise di gratitudine quand'egli mormorò: «Poverina! Poverina!». Reclinando il capo si vide indosso il bel costume di donna araba e n'ebbe vergogna, desiderò di distogliere da sé tanti sguardi che dopo la sua confessione eran divenuti speranzosi e vivaci quasi per effetto di un liquore generoso. Un po' inquieta si accomodò, raccogliendosi tutta in un gesto pudico, poi vide l'altra donna dai capelli grigi come una protezione, un'ancora di salvezza, e con un cenno gentile la chiamò a sé. Quella venne correndo: il marito lanciò al meticcio un'occhiata di trionfo. Da quel momento il caffettiere temette le male arti della vecchia e non pensò più che al modo più sbrigativo di sbarazzarsi di lei e di tutti i suoi ospiti. S'alzò e salì nel caffè. Ci fu un silenzio d'attesa. La vecchia aveva strinto affettuosamente la ragazza e: «Bimba mia» le sussurrava «la fortuna va presa per i capelli. C'è qui un signore che può farvi un avvenire. Pensate che a giorni sarà padrone di un teatro di varietà. M'avete capito?». Intanto il meticcio s'era avvicinato fingendo d'osservar gli arabeschi dipinti nell'alcova, ma niente sfuggiva agli altri che sorridevano e ammiccavano, sebbene il giocoliere esprimesse a gesti che non ne vedeva il perché. Silenzioso e monumentale il padrone riapparve sulla porta del sotterraneo. Comprese il maneggio avvenuto nella sua assenza: la megera tentava, a favore del suo rivale, la bella fanciulla, ma si tenne calmo, per non compromettere con un errore la vittoria che sentiva di meritare. «Mi dispiace molto» annunziò «ma l'ora di chiusura per un locale come il mio è già passata. Non vorrei trovarmi a delle seccature.» Tutti si levarono in piedi. «No, no: c'è tempo ancora per un bicchierino. Lo dicevo così, tanto per avvertire.» Il magrino dagli occhiali s'avanzò risolutamente verso l'alcova. «Signorina» disse «le sono molto grato. Lei ha dato un po' di sorriso a noi uomini per solito poco allegri» e le baciò rispettosamente la mano. «Spero d'incontrarla ancora.» Fece un inchino al caffettiere. «Serberemo il ricordo di questa bella serata. Vi auguro di trovar presto un'iniziativa felice.» I due professori fecero dei saluti più sbrigativi e lo seguirono su per la scaletta. «La scienza è partita» gridò il padrone, e c'era nella sua voce la maliziosa attesa di veder presto partire anche l'industria e il commercio. I rimasti compresero e vennero a salutare la ragazza. «È tardi» disse ella scendendo dall'alcova «anch'io devo partire.» «Allora signorina, io e mia moglie possiamo accompagnarvi.» Il caffettiere lanciò un'occhiata furibonda al giocoliere, ma lo vide corazzato, imperturbabile, allora tentò una estrema difesa del suo bene. «Vi dico che la signorina l'accompagnerò io. Sta lontano di casa e intendo offrirle il viaggio in carrozza.» «Se è così, m'arrendo» rispose l'altro vedendo che il meticcio gli faceva segno di lasciar andare, e si diresse con la moglie verso la scala. Il meticcio, il padrone e la ragazza lo seguirono. Giunti su nel caffè, le voci dei primi chiusi nello stambugio col servizievole cameriere ricordarono che bisognava mutar d'abiti. «La signorina aspetterà che i signori abbiano finito» disse il caffettiere col tono di un ordine, e spinse tutti, anche la vecchia, nell'anditino. «Andate ad aiutar vostro marito» le impose. La porta dello spogliatoio nessuno l'aveva rinchiusa. Gli ospiti pigiati là dentro buttavano via i mantelli e i giubbetti restando in camicia con acrimoniosa, deliberata mancanza di rispetto verso la donna destinata a un altro. Qualcuno veniva in sala ancor sbracalato per abbottonarsi, tossicchiava e rientrava nell'andito donde un terzo usciva già vestito, tornando alla solita vita disadorna e compassata. Gli addii furono cortesi, ma senza gratitudine. Il meticcio venne a stringer la mano del caffettiere, gli sorrise come a un rivale buon vincitore, poi si volse a salutar lei che lo sentì tanto sicuro della sua rivincita che con un gesto vago gliela promise per l'avvenire. «Quando han fatto andrò anch'io a vestirmi» disse ella. «Come? Anche voi?» sussurrò piano ma disperatamente il caffettiere e girò gli occhi intorno per sincerarsi che nessuno poteva udire. «Restate ancora un po', ve ne prego. Ho da dirvi una cosa» e si precipitò ad aiutare un ospite che faticava a infilarsi la giacca. Mentre tutti salutavano al passaggio della saracinesca alzata a metà, egli si teneva accanto a lei, vigile, e sospettoso come un carceriere che teme d'aver concesso troppo ai visitatori. L'ultima schiena nera s'abbassò sotto il bandone: egli n'afferrò l'appiglio, tirò giù con forza e spinse fino in fondo, aiutandosi col piede. S'accorse allora del cameriere. « Quanto hai fatto di mancia?» domandò. «Poca roba, se devo dire la verità.» «Pigliati quello che c'è nel cassetto e va' a dormire. Per i nostri conti ci vedrem domattina a casa mia.» Commosso, il cameriere volle stringere in un abbraccio il suo padrone, poi a inchini esprimere alla ragazza la sua devozione anche per lei. Indugiava a partire, fermo nel centro della sala, come volesse fare un malinconico saluto al caffè. Infine sentendosi di troppo, sparì silenziosamente per il corridoio della cucina. «E ora torniamo giù» propose dolcemente il caffettiere. «Parleremo meglio. Voi siete la mia gazzella, non è vero?» e gli tremava d'ansia la voce. Non attese risposta: girò la chiave della luce per spegnere i tre ordini illuminanti della sala. Gli altri di fuori videro il caffè sparire nel buio, la casa ricomporre la sua architettura fin giù al marciapiedi solo un lucore rimase dietro ai vetri che veniva da. profondo mistero della notte araba.

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