Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Senso

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Boito, Camillo 2 occorrenze

Nel primo istante non la vide, perché la camera sembrava un grazioso incendio, e gli occhi restavano abbacinati. Le tappezzerie, i canapè, le poltrone, tutto era di stoffa rossa, d'un rosso roseo brillante, con certi disegni gialli sinuosi, come a fiamma; e il sole del tramonto, caldo, vivo, d'oro, entrava dalle due finestre spalancate, gettando sul rosso e sul giallo della stanza certi lumi incandescenti e certi lustri, che somigliavano a fuochi e a scintille. Un odore di essenze, acuto, inebbriante, si effondeva dalla toletta a trine e a ricami, dove, sotto al baldacchino, tenuto in aria volando da un putto alato, luccicavano dinanzi alla cornice dello specchio, tutta a fiori di vetro, innumerevoli vasetti di metallo bianco e pettiniere e saponiere e ampollette di cristallo terso e ninnoli d'ogni maniera. Il prete, entrando, si sentì una vampa alla testa: avrebbe voluto fuggire. La donna lo chiamò con voce soave come un liuto lontano. Era sdraiata sopra un sofà nel solo angolo ombroso della stanza, lungo il lato delle finestre, in fondo, lì dove le pieghe delle ampie tende scemavano sui fianchi la luce e lasciavano come una insenatura fra il parato ed il muro. - Si metta qui, signor curato, qui accanto, in questo seggiolone. Mi sento così debole, che appena appena posso parlar sottovoce. Il prete rispose ruvido: - Scusi, ho fretta. Sono venuto perché il medico mi aveva detto ch'ella era malata e aveva bisogno di me. Posso servirla in qualcosa? - Sono malata, e come! Ma quel dottore sventato non capisce nulla. Ella. signor curato, dotto e santo com'è, può dirmi una parola, che mi conforti, che mi rianimi e, col ridonarmi la fede in me stessa e nelle cose del mondo, tornarmi forse la salute del corpo. Il mio male sta qui -. Si toccò il seno. Era coperta d'una vesta a fiorami, che lasciava vedere tutto il collo, una parte del petto candido e il principio delle spalle rotonde, sulle quali cadevano, sciolti, i suoi capelli increspati, d'un biondo rossigno. Principiavano bassi, in riccioletti matti. Il naso appiccicato alla fronte, quasi senza incavo, con un piano vigoroso e largo; le narici gonfie, da cui la donna sbuffava alle volte al pari d'una cavalla araba; le labbra tumide, le gote piene, e il mento rientrante davano a quel viso un non so che di pecorino e lascivo. Il cinabro della bocca era anzi un poco troppo vivace, il roseo delle guance un poco troppo sfumato, e la forma delle brune sopracciglia un poco troppo sottilmente arcuata per poter credere che l'arte non ci entrasse in nulla. E sotto gli occhi cerulei stava un lividetto, che li faceva sembrare più grandi. Era bella insomma alla sua maniera e carnale. Il prete rimaneva in piedi. Ella si alzò con fatica, andò verso di lui, lo prese per mano e, condottolo due passi innanzi, lo fece sedere nel seggiolone. Poi, guardandolo fisso, come se ella si destasse in quel punto, stirò le braccia, che le maniche larghe lasciarono vedere quasi fino alle ascelle; e il petto si arrotondò fieramente. Tornò a buttarsi sul sofà, lasciando cadere a terra dal piede destro la pantofola ricamata. Gli occhi cerulei erano diventati di bragia. La voce non aveva più la stanchezza e la dolcezza di prima. Vi dominava un timbro secco, strozzato, rabbioso, quando disse al prete interrottamente: - Mi dica un po', Don Giuseppe, perché mi sfugge? Perché non vuole vedermi più? Quand'io passo nel villaggio a cavallo della mia mula, perché mi chiude in faccia le imposte della sua casa? Dopo avermi ricevuta in principio quattro volte nella canonica, perché ha ora dato l'ordine di non lasciarmi entrare, nemmeno quando io reco il denaro dei poveri? Non posso metter piede in sagrestia; è molto che non mi caccino, come un cane, fuori di chiesa. Mi si rimandano i doni che faccio al tempio. Con qual diritto? Chi può mai rifiutare le offerte che si porgono a Dio? - Sbalzò in piedi e si piantò di contro il prete, domandando: - L'odio, signor curato, è forse una virtù cristiana? Il curato affermò pacatamente, ma con la voce che tremolava: - L'odio del male è una virtù cristiana. - Virtù cristiana, reverendo, è l'amore. Me lo insegnarono da fanciulla, quando andava in chiesa alla dottrina; me lo hanno ripetuto al confessionale. Poi, divenuta donna, vidi che l'amor vero mi rialzava l'anima, mi purificava lo spirito, mi avvicinava al cielo. L'amor vero passò, e, giuro, senza mia colpa. Allora, abbandonata, povera, gettata in una società piena di seduzioni e di corruzioni, cascai nella finzione dell'amore. Ma la finzione dell'amore, non è amore, è odio; è l'odio anzi più vile, abbietto, pauroso, straziante che si possa provare. Quest'odio m'uccide. Il cuore intanto arde, e cerca da molti anni invano il refrigerio di un affetto violento e sincero. Ho bisogno dell'amore che brucia. Il prete, afferrando con un supremo sforzo di volontà i pensieri, che svanivano dalla sua testa, mormorò: - Calmatevi, poverina, mettete in pace la fantasia eccitata dalle sventure e dalle colpe della vostra vita. Fate di desiderare una sola cosa, il bene. Uscite da queste sozzure d'inganni e di vizii, in cui si trascina e imbratta la vostra esistenza. Tornate sola e povera, ma pentita e buona. Allora tutti vi dovranno amare, perché, amando voi, ameranno la virtù. - Anche voi, Don Giuseppe, mi amerete anche voi? E gli prese la mano, e la strinse, e il prete s'avvicinò. La donna continuava sommessamente: - Don Giuseppe, guidatemi. Insegnatemi la via, conducetemi dove vi piace. Sarò la vostra schiava. Sarò, se vorrete, la vostra santa. Il vostro cuore dev'essere grande e nobile, deve specchiare il cielo, come i vostri occhi. Mi piacete perché siete bello, perché siete candido, perché indovino che non avete mai amato, perché voglio essere il vostro primo peccato, il vostro primo rimorso. Datemi il vostro amore, Don Giuseppe, il vostro amore. La donna, arrovesciata sul sofà, teneva sempre con le due mani la mano del prete, il quale tremava dalla testa ai piedi. Il sole era tramontato; la camera diventava buia. Ma, mentre la femmina ripeteva le ultime parole, sembrò al curato che d'improvviso un soffio fresco gli passasse sul fronte; e di repente gli comparve davanti la figura tetra e sanguinosa del suo Cristo dell'inginocchiatoio, solo che il volto, anziché piegato e morto, era vivo e guardava minaccioso e fierissimo. Il prete scattò e, prima che la donna potesse pronunziare una sillaba, era uscito dalla stanza. Quando il servo con la livrea turchina e con le mostre cremisi vide scappare il prete dalla villa, quasi correndo, senza voltarsi, come se dietro le spalle lo minacciasse il demonio, sorrise maliziosamente, ponendosi l'indice della mano destra sulla punta del naso.

Gli occhi abbacinati riposavano in certe ombre cupe, lì dove si affondava un sottoportico o si stringeva una calle; e l'acqua brillava di tutti i verdi, rifletteva tutti i colori, si perdeva qua e là in buchi e striscie di un nero denso. Correvano e saltavano sulla fondamenta, la quale dalla parte del canale non aveva nessun riparo, dieci o dodici monelli, vociando a squarciagola. Ve n'erano di piccini e di grandetti. Uno dei piccoli, quasi nudo, grassotto, con i riccioletti biondi, che gli coronavano la faccia rosea e paffutella, faceva un chiasso da indemoniato, dando scappellotti, pizzicando i compagni e poi scappando via come un fulmine. Mi fermai a guardare, mentre Remigio mi raccontava le sue grandezze passate. A un tratto quel diavoletto di bimbo, non potendo in una corsa precipitosa fermare il piede al ciglio della fondamenta, volò nel canale. S'udì uno strido ed un tonfo, poi subito intronarono l'aria le grida di tutti quanti i ragazzi e di tutte quante le donne, le quali prima se la discorrevano nella via o guardavano dalla finestra; ma in quel clamore dominava lo strillo acuto, disperato, straziante della giovine madre, che, slanciatasi ai piedi di Remigio, unico uomo presente a quella scena, urlava: - Me lo salvi, per carità, me lo salvi! - Remigio, freddo, ghiacciato, rispose alla donna: - Non so nuotare -. Intanto uno dei fanciulli più grandi s'era buttato in acqua, aveva pigliato per i ricci biondi il piccino e lo aveva tirato a riva. Fu un attimo. Lo stridìo si mutò in applauso frenetico; donne e ragazzi piangevano di gioia; la gente correva da tutte le parti a vedere, e il putto biondo guardava intorno con i suoi occhioni celesti, maravigliato di tanto baccano. Remigio con uno strappo violento mi cavò dalla folla. L'altra volta che un poco il mio amante mi spiacque fu per questa cagione. S'era fatto udire nel caffè Quadri, ciarlando in tedesco a voce alta con alcuni impiegati tirolesi, a dir male dei Veneziani. Un signore, che stava in un canto, s'alzò di sbalzo, e piantandosi di contro a lui, che era in uniforme, gridò: - Vigliacco d'un militare - e gli buttò in faccia tre o quattro de' suoi biglietti da visita. Ne nacque un parapiglia. Il dì seguente i padrini dovevano combinare il duello; ma Remigio, avendo notato che il suo avversario era piccolo, mingherlino e gracilissimo, rifiutò la pistola, rifiutò la spada, e, benché la scelta delle armi spettasse allo sfidato, volle ad ogni costo la sciabola, sicuro com'egli era della forza del proprio braccio. Il Veneziano si piegò alla prepotenza; ma, prima del duello, era già in carcere, ed a Remigio veniva trasmesso l'ordine di andare immediatamente ad una nuova destinazione in Croazia. Quando seppi la cosa mi disperai: senza quell'uomo io non potevo vivere. Tanto feci presso la moglie del Luogotenente, e tanto si adoperò mio marito, sollecitato da me, presso il Governatore ed i Generali, che Remigio ottenne di venire mandato a Trento, dove io ed il conte dovevamo tornare appunto in quei giorni. Tutto fino allora era andato a seconda della mia cieca passione. * * * Da tre mesi non vedo questo mio scartafaccio. Non mi sono attentata di portarlo in viaggio, e mi doleva, confesso, di averlo lasciato a Trento. Riandando nella memoria i casi di tanti anni or sono, il cuore torna a palpitare e sento un'aura calda di gioventù, che mi spira d'intorno. Il manoscritto è rimasto serrato a tripla chiave nel mio scrigno segreto, dietro all'alcova della mia camera; e stava chiuso con cinque suggelli in una grande busta, su cui, prima di partire, avevo scritto a grossi caratteri: "Affido all'onore di mio marito il segreto di queste carte, ch'egli, dopo la mia morte, brucierà senza dissuggellarle". Me ne andai tranquillissima: ero certa che il conte, anche sospettando, avrebbe religiosamente adempiuto la volontà di sua moglie. Ho avuto adess'adesso dalla cameriera una notizia, che mi ha disgustata: l'avvocatino Gino prende moglie. Ecco la costanza degli uomini, ecco la saldezza delle passioni! - Contessa Livia, muoio, mi uccido; la sua immagine sparirà dal mio petto con l'ultima goccia del mio sangue; mi calpesti come uno schiavo, ma mi permetta di adorarla come una Dea -. Frasi da melodramma. Pochi mesi, e tutto svanisce. Amore, furore, giuramenti, lagrime, singhiozzi, non c'è più nulla! Schifosa natura umana. E a vedere quegli occhi neri in quella faccia smorta si sarebbe detto che vi lampeggiasse la sincerità profonda dell'anima appassionata. Come balbettavano le labbra e pulsavano le arterie e tremavano le mani e la persona tutta strisciava umile sotto a' miei piedi. L'avvocatino scrofoloso e miserabile meritò davvero il calcio che ricevette da me. Bifolco. E chi sposa? Una scioccherella di diciotto anni, che i suoi parenti non hanno voluto condurre in casa mia, perché la contessa Livia, si sa, è donna troppo galante; una scipita con due mele ingranate per guance, le mani corte, grasse e rosse, i piedi da stalliere, e un'aria impertinentina da santarella, che consola. E l'uomo il quale piglia una tale bamboccia ha osato amarmi e dirmelo! Sento le brace sul viso ... * * * Il mio ufficiale di sedici anni addietro, se non era un grand'uomo, era almeno un vero uomo. Mi stringeva alla vita in modo da stritolarmi, e mi mordeva le spalle facendomele sanguinare. Cominciavano a diffondersi delle vaghe voci di guerra, poi le solite notizie contradditorie e le consuete smentite: armano, non armano, sì, no; intanto un certo movimento insieme febbrile e misterioso si propagava dai militari ai civili, i treni della ferrovia principiavano a ritardare, a portare giù nuovi soldati e cavalli e carriaggi e cannoni, mentre i giornali non ismettevano di negare pur l'ombra dell'armamento. Io, senza badare agli occhi miei, credevo ai giornali, tanto il pensiero di una guerra mi spaventava. Temevo per la vita dell'amante; ma temevo anche più il distacco lungo, inevitabile, che avrebbe dovuto seguire tra noi due. A Remigio, in fatti, l'ultimo dì di marzo fu ordinato di recarsi a Verona. Ottenne, innanzi di partire, due giorni di permesso, che passammo insieme, senza lasciarci mai un minuto, nella misera camera di un'osteria sul laghetto di Cavedine; ed egli mi giurava di venire presto a vedermi, ed io gli giuravo di andare a Verona quando non avesse potuto muoversi di lì. Nel dargli l'ultimo abbraccio gli gettai nella tasca un borsellino con cinquanta marenghi. Il conte, ritornando dalla campagna, mi trovò, dieci o dodici giorni dopo la partenza di Remigio, smagrita e pallida. Soffrivo in realtà moltissimo. Di quando in quando sentivo delle accensioni alla testa e mi venivano dei capogiri, tanto che tre o quattro volte, barcollando, dovetti appoggiarmi alla parete o ad un mobile per non cadere. I medici, che mio marito, premuroso ed inquieto, volle consultare, ripetevano, stringendosi nelle spalle: - Affare di nervi -; mi raccomandarono di far moto, di mangiare, di dormire e di stare allegra. Eravamo alla metà dell'aprile ed oramai gli apprestamenti si facevano senza maschera: militari d'ogni sorta ingombravano le vie; marciavano i battaglioni al suono delle bande e dei tamburi; volavano sui loro cavalli gli aiutanti di campo; i vecchi generali, un po' curvi sulla sella, passavano al trotto seguiti dallo Stato maggiore, baldo, brillante, caracollante. Quei preparativi mi riempivano di paure fantastiche. L'Italia voleva passare a fil di spada tutti quanti gli Austriaci; Garibaldi, con le sue orde di demonii rossi, voleva scannare tutti quelli che gli sarebbero capitati in mano: si presagiva un'ecatombe. Avevo le furie in corpo: da Verona in sei settimane m'erano capitate quattro lettere sole. La posta si può dire che non esistesse più; bisognava consegnare, pregando e pagando, i fogli a qualcuno che, disposto ad affrontare gli ostacoli e gli interminabili ritardi del viaggio, avesse necessità e ardire di recarsi da un luogo all'altro. Io, non potendo più vivere nelle angoscie, in cui mi teneva notte e giorno il silenzio o volontario o innocente di Remigio, m'ero risoluta di tentare il viaggio; ma come fare senza che mio marito ne sapesse nulla? come fare io donna e sola e giovane e bella in mezzo alla brutalità dei soldati, resi più audaci dalla disciplina allentata e dal pensiero degli stessi pericoli a cui andavano incontro? Una mattina, all'alba, dopo una eterna notte di smanie, m'ero addormentata, quando a un tratto un romore mi sveglia; apro gli occhi e mi vedo accanto Remigio. Mi parve un sogno. L'aurora illuminava già di luce lieve e rossastra la camera; scesi con un balzo dal letto per chiudere le tende dell'alcova, e si cominciò sotto voce a discorrere. Ero inquieta; il conte, che dormiva a due stanze d'intervallo, poteva sentire, poteva venire; i domestici potevano avere visto il mio amante entrare furtivamente a quell'ora. Egli mi rassicurò con poche parole impazienti: aveva picchiato, come altre volte, ai vetri della finestra terrena, dove la cameriera dormiva; ella pian piano gli aveva aperto il portone, ed era entrato senza che nessuno sospettasse di nulla. Della cameriera m'importava poco, giacché sapeva ogni cosa; ma il peggio stava nell'uscire: bisognava spicciarsi. Tornai a sbalzare dal letto; andai ad origliare all'uscio della stanza di mio marito: russava. - Ti fermi a Trento, non è vero? - Sei matta. - Qualche giorno almeno? - È impossibile. - Uno? - Parto fra un'ora. Rimasi accasciata; il mio cuore, pieno un minuto prima di gaie speranze, si riempì d'affanni e di paure. - E non tentare di trattenermi. In tempo di guerra non si scherza. - Guerra maledetta! - Maledetta sì. Dovrà essere terribile, a quanto pare. - Senti, non potresti fuggire, non potresti nasconderti? Ti aiuterò. Non voglio che la tua vita sia messa in pericolo. - Fanciullaggini. Mi scoprirebbero, mi piglierebbero, e sarei fucilato per disertore. - Fucilato! - Ho bisogno di te. - La mia vita, tutto. - No. Duemilacinquecento fiorini. - Dio, come faccio? - Vuoi salvarmi? - Ad ogni costo. - Senti dunque. Con duemilacinquecento fiorini i due medici dell'ospedale e i due della brigata mi fanno un certificato di malattia, e vengono a visitarmi ogni tanto per confermare presso il Comando una mia infermità qualunque, la quale mi renda inabile affatto al servizio. Non perdo il mio grado, non perdo il mio soldo, scanso ogni pericolo e rimango a casa tranquillo, zoppicando un poco, è vero, per una sciatica maligna o per una lesione all'osso della gamba, ma quieto e beato. Troverò qualche impiegatuzzo con cui giuocare a briscola; berrò, mangierò, farò le lunghe dormite; avrò la noia di stare a casa nel giorno, ma la notte, sempre zoppicando un poco per prudenza, mi potrò sfogare. Ti piace? - Mi piacerebbe, se tu fossi a Trento. Verrei da te ogni giorno, due volte al giorno. Già quando ti credono malato, stare a Verona o a Trento non è lo stesso? - No, i regolamenti vogliono che il militare malato stia nella sede del Comando, sotto la continua e coscienziosa vigilanza dei medici. Ma, appena finita la guerra, tornerò qua. La guerra sarà fiera, ma breve. - Mi amerai sempre, mi sarai sempre fedele, non guarderai nessun'altra donna? Me lo giuri? - Sì, sì, te lo giuro; ma l'ora passa, e i duemilacinquecento fiorini mi occorrono. - Subito? - Sicuro, devo portarli con me. - Ma nello scrignetto credo di avere appena una cinquantina di napoleoni d'oro. Tengo sempre poco denaro. - Insomma, trovali. - Come vuoi ch'io li trovi? Posso chiederli a mio marito a quest'ora, così, con quale pretesto, per darli a chi? - L'amore si conosce dai sacrifizii. Non mi ami. - Non ti amo? io che ti darei volentieri tutto il mio sangue. - Queste sono parole. Se non hai denaro, dammi i gioielli. Non risposi e mi sentii impallidire. Accortosi della impressione che mi avevano fatto le sue ultime parole, Remigio mi serrò tra le braccia di ferro, e mutato tono, ripeté più volte: - Sai che ti amo infinitamente, Livia mia, e ti amerò finché avrò un soffio di vita; ma questa vita salvamela, te ne scongiuro, salvala per te, se mi vuoi bene. Mi prendeva le mani, e le baciava. Ero già vinta. Andai alla scrivania a prendere le tre piccole chiavi dello scrignetto: temevo di far romore; camminavo in punta di piedi, benché avessi i piedi nudi. Remigio mi accompagnò nel gabinetto dietro l'alcova; serrai l'uscio, perché il conte non potesse udire, ed aperto lo scrigno con qualche difficoltà, tanto ero agitata, ne trassi un fornimento intiero di brillanti, mormorando: - Ecco, prendi. Costò quasi dodicimila lire. Troverai da venderlo? Remigio mi tolse di mano l'astuccio; guardò i gioielli e disse: - Usurai ce n'è dappertutto. - Sarebbe un peccato il darlo via per poco. Cerca modo di poterlo ricuperare. Mi piangeva il cuore. Il diadema specialmente mi stava tanto bene. - E i denari me li dai? - chiese Remigio, - mi farebbero comodo. Cercai nello scrigno i napoleoni d'oro, che avevo messi in un mucchietto, e, senza contarli, glieli diedi. Mi baciò e, frettolosamente, fece per uscire. Lo trattenni. Con un atto d'impazienza mi respinse, dicendo: - Se ti preme la mia vita, lasciami andare. - Fa piano, non senti che gli stivali scricchiolano? E poi, aspetta. Voglio vedere se c'è la cameriera; bisogna ch'ella venga ad accompagnarti. La cameriera, infatti, attendeva in una stanza vicina. - Mi scriverai subito? - Sì. - Ogni due giorni? Volevo dare un ultimo bacio all'amante mio, che amavo tanto: era già sparito. Aperte le invetriate, guardai nella via. Il sole indorava le alte cime dei monti. Innanzi al portone stavano discorrendo fra loro il mozzo di stalla ed il guattero. Alzarono gli occhi e mi videro; poi videro uscire dal palazzo Remigio, che camminava in fretta con le tasche dell'abito rigonfie. Tornai a letto e piansi tutto il giorno: l'energia della mia natura era fiaccata. Il medico la mattina appresso trovò che bruciavo e che avevo una gran febbre; ordinò il chinino, che non presi: avrei voluto morire. Una settimana intiera dopo la visita di Remigio la cameriera mi portò con la sua solita placidezza una lettera, che, appena vista, le strappai di mano rabbiosamente: avevo indovinato, era di lui, la prima dopo la sua partenza, e mi posi a leggerla con sì furiosa avidità che, giunta alla fine, dovetti ricominciare: non ne avevo capito nulla. Me la ricordo ancora oggi parola per parola, tante volte la lessi e tante volte i casi terribili, che la seguirono, me ne fecero risovvenire: "Livia adorata, M'hai salvato la vita. Ho venduto l'astuccio a un Salomone qualunque, per poco, a dire il vero, ma in queste circostanze di trambusti e di spaventi non si poteva esigere di più, duemila fiorini, i quali sono bastati a riempire la vorace pancia dei medici. Prima di dovermi ammalare ho trovato una bella stanza verso l'Adige in via Santo Stefano al numero 147 (scrivimi a questo indirizzo), grande, pulita, con una anticamera tutta per me, da cui si esce direttamente sulla scala; mi sono provvisto di tabacco, di rum, di carte da giuoco e di tutti i volumi di Paolo di Koch e di Alessandro Dumas. Non manco di compagnia piacevole, tutti maschi (non ti agitare), tutti scrocconi, e se non fosse che devo parere zoppo e che di giorno non posso uscire di casa, mi direi l'uomo più felice del mondo. Certo, mi manca una cosa, la tua persona, cara Livia, che adoro e che vorrei avere il dì e la notte fra le mie braccia. Dunque non ti dar pensiero di nulla. Io leggerò le notizie della guerra fumando; e quanti più Italiani e Austriaci se ne andranno all'inferno tanto più ci avrò gusto. Amami sempre come io t'amo; appena la guerra sarà finita e questi cani di dottori, i quali mi costano un occhio della testa, m'avranno lasciato in pace, correrà ad abbracciarti, più ardente che mai, il tuo REMIGIO". La lettera mi lasciò sconcertata e disgustata, così mi parve volgare; ma poi, nel tornarvi su, a poco a poco mi persuasi che il tono in cui era scritta fosse affettatamente leggiero e gaio, e che l'amante avesse fatto un crudele, ma nobilissimo sforzo nel contenere l'impeto del suo cuore, tanto per non gettare nuova esca nella mia passione, che era già un incendio, e per quietarmi un poco l'animo, ch'egli sapeva terribilmente ansioso. Ristudiai la lettera in ogni frase, in ogni sillaba. Avevo bruciate tutte le altre quasi appena ricevute; serbai questa in un taschino del portamonete, per cavarnela spesso quando ero sola, dopo avere serrato a chiave gli usci della stanza. Tutto mi confermava nella mia credenza benevola: quelle espressioni d'affetto mi apparivano tanto più potenti quanto più erano rapide, e quei periodi grossolani e cinici mi si presentavano alla fantasia sublimi di generoso sacrifizio. Avevo tanto bisogno di credere che la mia smania trovasse una scusa nella smania dell'altro; e la viltà di lui mi riempiva il seno d'entusiasmo, purché io credessi di esserne la cagione. Ma il mio cervello galoppante non si fermava qui. Chi sa, pensavo tra me, chi sa che questa lettera sia tutta un magnanimo inganno! Forse egli è già partito per il campo, forse egli sta di contro al nemico; ma, più curante di me che di lui, non volendo farmi morire negli sbigottimenti e nei terrori, m'addormenta con la menzogna pietosa. Appena un tale pensiero si fece adito nel mio spirito, me ne sentii tutta invasa. Le insonnie, l'avversione al mangiare, i disturbi fisici contribuivano ad una vera esaltazione mentale. Vivevo quasi nella solitudine. Già la mia società s'era andata via via restringendo, poiché le famiglie nobili trentine, avverse alle opinioni politiche del conte, avevano da un pezzo lasciato con bel garbo lui e me affatto in disparte; i giovani, frementi d'italianismo, ci sfuggivano senza riguardi e ci odiavano; gl'impiegati del paese, non sapendo come la guerra sarebbe andata a finire, per non rischiare di compromettersi né in un modo né in un altro, oramai si astenevano dal mettere piede in casa nostra: vedevamo, in somma, qualche nobile austriacante, spiantato e parassita, qualche alto funzionario tirolese, duro, testardo, puzzolente di birra e di cattivo tabacco. I militari non trovavano più l'agio né la voglia di occuparsi di me. La mia relazione col tenente Remigio, conosciuta da tutti, eccetto che da mio marito, aveva accresciuto il mio isolamento, il quale, del resto, m'era gradito, anzi necessario nello stato d'animo in cui da un po' di tempo vivevo. Remigio, dopo la lettera famosa, non aveva più scritto. Sognavo per lui de' pericoli, che mi apparivano tanto più orrendi quanto più erano incerti. Avrei potuto sopportare forse la sicurezza dei rischi d'una battaglia; ma il non sapere se il mio amante andasse alla guerra o no, era un dubbio che mi faceva impazzire. Scrissi a Verona ad un generale che conoscevo, a due colonnelli, poi a qualcuno di quegli ufficialetti, i quali mi avevano tanto corteggiato a Venezia: nessuno rispose. Tempestavo Remigio di lettere; niente. Intanto le ostilità principiarono: la vita civile era soppressa; la ferrovia, le strade non servivano ad altro che ai carriaggi delle munizioni, delle ambulanze, delle proviande, agli squadroni di cavalleria, che passavano in mezzo a nuvoli di polvere, alle batterie, che facevano tremare le case, ai reggimenti di fanteria, che si svolgevano l'uno dopo l'altro interminabili, sinuosi, striscianti come un verme, il quale volesse abbracciare nelle sue enormi spire tutta quanta la terra. Una mattina calda, affannosa, il 26 del giugno, capitarono le prime notizie di una battaglia orribile: l'Austria era disfatta, diecimila morti, ventimila feriti, le bandiere perdute, Verona ancora nostra, ma vicina a cedere, come le altre fortezze, all'impeto infernale degli Italiani. Mio marito era in villa, e doveva starci una settimana. Suonai con furia; la cameriera non veniva; tornai a suonare; si presentò all'uscio il domestico. - Dormite tutti? maledetti poltroni. Fammi venire subito il cocchiere, ma subito, intendi? Qualche minuto dopo entrò Giacomo sbigottito, abbottonandosi la livrea. - Da qui a Verona quante miglia ci sono? Stette un poco a pensare. - Dunque? - ripresi stizzita. Giacomo faceva i suoi conti: - Da qui a Roveredo circa quattordici; da Roveredo a Verona dovrebbero essere ... non saprei ... ci si mette con due buoni cavalli dieci ore, poco più, poco meno, senza contare le fermate. - Ci sei mai stato con i cavalli da Trento a Verona? - No, signora contessa; andai da Roveredo a Verona. - Fa lo stesso. Da qui a Roveredo so bene anch'io che occorrono due ore. - Due ore e mezzo, scusi, signora contessa. - Dunque due e dieci fanno dodici in tutto. - Mettiamo tredici, signora contessa, e di buon trotto. - Quanti cavalli ha preso con sé il padrone? - La sua solita cavallina morella. - Ne restano quattro in scuderia. - Sì, signora padrona: Fanny, Candida, Lampo e lo stallone. - Potresti attaccarli tutti quattro? - Insieme? - Sì, insieme. Giacomo sorrise con una cert'aria di benevola compassione: - Scusi, signora contessa, non è possibile. Lo stallone ... - Ebbene, attacca gli altri tre. - Lampo ha una sciancatura, povero Lampo, non può neanche trascinarsi al passo. - Attacca dunque come al solito Fanny e Candida, in nome di Dio - gridai, pestando i piedi, e soggiunsi: - Domattina alle quattro. - Sarà servita, signora padrona; e, scusi, per regolarmi nella biada da portar via, dove si va? - A Verona. - A Verona, misericordia! In quanti giorni? - Dalla mattina alla sera. - Signora padrona, scusi, ma questo proprio non si può. - Ed io lo voglio, hai capito? - replicai con accento così imperioso che il pover'uomo trovò appena il coraggio di balbettare: - Abbia compassione di me. Accopperemo le due cavalle, e il padrone mi caccerà sulla strada. - La responsabilità è mia. Obbedisci e non pensare ad altro - e gli diedi quattro marenghi. - Ti darò il doppio quando saremo tornati, ad un patto per altro, che tu non dica niente a nessuno. - Per questo non c'è pericolo; ma gl'ingombri della strada, carri, i cannoni, le prepotenze dei soldati, le seccature dei gendarmi? - Ci penso io. Giacomo piegò il capo, rassegnato, ma non persuaso. - A che ora giungeremo a Verona? - Quando vorrà il cielo, signora padrona; e sarà un miracolo se ci arriveremo vivi, lei, signora padrona, io e le due povere bestie. Per me poco importa, ma per lei e per le bestie! - Bene, alle quattro dunque, e silenzio. Se taci avrai quello che ti ho promesso, se parli ti licenzio sui due piedi e senza salario. Hai inteso? Bada che tutti, anche la cameriera, devono credere che andiamo a San Michele, dalla marchesa Giulia. Giacomo, rannuvolato, s'inchinò ed uscì dalla stanza. All'alba ero in carrozza, e via. Avevo chiuso le tendine degli sportelli, e guardavo da un angolo ai fantaccini trafelati e polverosi, i quali credendo che nel cocchio stesse un qualche gran personaggio, si schieravano lungo i fossati; alcuni facevano il saluto militare. Di quando in quando bisognava rallentare la corsa con mio fiero dispetto, o a dirittura fermarsi alcuni minuti per aspettare che i pesanti e cigolanti carri avessero lasciato libero il passo: le cose per altro andavano assai meglio di quello che avesse predetto Giacomo. Una pattuglia di gendarmi a cavallo fermò la carrozza, ma il sergente, vedendo che c'era dentro una signora, si contentò di gridare cavallerescamente: - Buon viaggio -. Più giù di Roveredo, a Pieve, ci si trattenne a rinfrescare un poco; poi a Borghetto, staccate le giumente, che non ne potevano più, passammo tre ore buone, che mi parvero tre anni, rannicchiata com'ero nella carrozza, udendo i lamenti e le bestemmie dei soldati, i quali si lasciavano cascare in terra a squadre per pochi istanti vicino all'osteria, sotto la scarsa ombra degli alberi magri, e mangiavano un tozzo di pagnotta e bevevano un sorso d'acqua. Avrò chiamato dieci volte Giacomo, il quale veniva allo sportello con tanto di grugno, sforzandosi di parere composto, e si toglieva il cappello, e ripeteva: - Signora contessa, ancora dieci minuti -. Si ripigliò, quando Dio volle, il cammino. L'Adige, che costeggiavamo, era quasi asciutto, i campi sembravano arsi, la strada brillava d'un candore abbagliante, non si vedeva una macchia nel cielo azzurro, le pareti della carrozza bruciavano, e in quell'afa grave, in quella densa polvere, io mi sentivo soffocare. La fronte mi gocciolava e battevo i piedi per l'impazienza. Non badai alla Chiusa: ascoltavo lo scoppiettìo della frusta di Giacomo. A Pescantina si tornò a rinfrescare: le buone bestie camminavano a stento, e a giungere a Verona ci volevano ancora dieci lunghe miglia. Il sole era scomparso in un nimbo di fuoco. Sempre carri e soldati, ronde di gendarmi, polvere, e a momenti un frastuono assordante e uno stridore acuto di ferramenta, a momenti un mormorio confuso e pauroso, nel quale si distinguevano gemiti e imprecazioni e le strofe di qualche canzonaccia oscena, cantata da voci strozzate. Fino ad ora eravamo scesi con la corrente degli uomini e dei veicoli, ora ci s'incontrava in qualche vettura d'ambulanza, in qualche compagnia pedestre di militari leggermente feriti, col braccio al collo, una fasciatura alla testa, verdi in volto, curvi, zoppicanti, laceri. E Remigio, Remigio! Gridavo a Giacomo di battere le bestie col manico della frusta. Cominciava a far notte. S'arrivò alle mura di Verona verso le nove; e tanto era il timor panico, tanto il trambusto, che nessuno badò alla carrozza, e si poté giungere all'albergo della Torre di Londra senz'altri intoppi. Non c'era più una camera, non c'era un buco dove poter dormire, né in quell'albergo, né, per quanto mi assicurarono, in nessuna altra locanda della città: tutto era stato requisito per gli ufficiali. I cavalli, morti di stanchezza, vennero legati nel cortile; Giacomo doveva attendere ad essi; io finalmente sbalzai a terra. Mi feci accompagnare a piedi da un ragazzaccio nella via Santo Stefano al numero 147. Si dovette camminare più volte su e giù nella strada, guardando all'alto delle porte, innanzi di distinguere nel barlume dei rari fanali il numero della casa. Se Remigio c'era, volevo fargli una improvvisata: le mie membra tremavano tutte d'impazienza e di desiderio, ma poteva essere a letto, poteva stare in compagnia di qualcuno, e, sebbene volessi ad ogni costo vederlo subito, pure mi sembrò di dover mandare il ragazzo avanti in esplorazione. Era furbo e capì al volo: doveva suonare, chiedere del tenente per una faccenda urgentissima, insistere perché gli aprissero, salire, dirgli una fandonia qualunque, per esempio che un signore, del quale s'era scordato il nome e che alloggiava all'albergo della Torre di Londra, bramava, senza ritardo, avere notizie della sua salute. Il fanciullo nel venir fuori aveva da lasciare aperti l'uscio del quartiere e la porta di strada. Io mi nascosi sul fianco della casa, in un chiassuolo tra la via ed il fiume. Il fanciullo suonò. S'udì una voce rabbiosa dall'ultimo piano: - Chi è? - Sta qui il tenente Remigio Ruz? - L'altro campanello, quello di mezzo: alla malora. Il fanciullo suonò all'altro campanello. Passò un minuto, che mi sembrò interminabile, e nessuno comparve; il ragazzo tornò a suonare; allora dal secondo piano una voce di donna chiese: - Chi è? - Sta qui il tenente Remigio Ruz? - Sì, ma non riceve nessuno. - Ho bisogno di parlargli. - Domattina dopo le nove. - No, questa sera. Hanno paura dei ladri? Passò un altro minuto e finalmente la porta si aprì. Remigio c'era! la gioia mi spezzava il cuore: mi si offuscò la vista e, non potendo reggermi sulle gambe, m'appoggiai alla muraglia. Poco dopo il fanciullo tornò: s'era fatto mandare al diavolo, ma aveva potuto lasciare l'uscio e la porta socchiusi. Mi tornarono le forze, diedi qualche moneta all'astuto monello, e, strisciando, entrai nella casa. Avevo previsto che mi sarebbero occorsi i fiammiferi; al pianerottolo del secondo piano v'erano due usci, sopra uno dei quali stava appiccato il biglietto da visita di Remigio; spinsi l'imposta, che cedette, ed entrai senza romore in una stanza quasi buia. Toccavo la cima delle mie speranze, sentivo già le braccia dell'amante mio, per il quale avrei dato senza esitare tutto quello ch'io avevo e la mia vita insieme, schiacciarmi impetuosamente sopra il suo largo torace, sentivo i suoi denti incidere la mia pelle, e pregustavo un mondo inenarrabile di allegrezze furiose. La consolazione mi fiaccava: dovetti sedermi sopra una seggiola, che stava accanto all'ingresso. Udivo e vedevo come se fossi immersa in un sogno: avevo perso il senso della realtà. Ma qualcuno lì d'appresso rideva rideva: era un riso di donna stridulo, sguaiato, sgangherato, che a poco a poco mi destò. Ascoltai, mi rizzai e, trattenendo il respiro, m'avvicinai ad un uscio spalancato, dal quale si vedeva in una vasta camera illuminata. Io stavo nell'ombra, né mi si poteva scorgere. Oh, perché in quel punto Dio non mi accecò! V'era una tavola, co' resti d'una cena; v'era, dietro alla tavola, un largo canapè verde su cui Remigio, sdraiato, faceva per gioco il solletico sotto l'ascella ad una ragazza, la quale sghignazzava, si sbellicava, si dimenava, si contorceva tutta, sforzandosi invano di svincolarsi dalle mani dell'uomo, che le dava baci sulle braccia, sul collo, sulla nuca, dove capitava. Io non mi potevo più muovere; ero inchiodata al mio posto, con gli occhi fissi, le orecchie tese, la gola arsa. L'uomo, stufo della burla, afferrò alla vita la ragazza, mettendosela a sedere sulle ginocchia. Allora cominciarono i discorsi, interrotti spesso da scherzi e da carezze. Sentivo le parole, il senso mi sfuggiva. A un tratto la donna pronunciò il mio nome. - Mostrami i ritratti della contessa Livia. - Li hai visti tante volte. - Mostrameli, te ne prego. L'uomo, rimanendo disteso sul canapè, alzò un lembo della tovaglia, aperse il cassetto della tavola e ne cavò delle carte. La ragazza, diventata seria, cercò fra quelle i ritratti e li guardò lungamente, poi: - È bella la contessa Livia? - Lo vedi. - Non mi capisci: voglio sapere se ti par più bella di me. - Nessuna donna mi può parer più bella di te. - Vedi, in questa fotografia il vestito da ballo lascia scoperte le braccia intiere e le spalle giù giù - e la fanciulla s'accomodava la camicia, confrontando con il ritratto: - Guarda, ti sembro più bella? L'uomo la baciò in mezzo al petto, esclamando: - Mille volte più bella. La fanciulla, accanto alla lucerna, fissando negli occhi l'uomo, che sorrideva, pigliò ad uno ad uno i quattro ritratti, e lenta lenta li lacerò ciascuno in quattro pezzi; e lasciava cadere quei brani sulla tavola in mezzo ai tondi e ai bicchieri. L'uomo continuava a sorridere. - Ma tu, cattivo, le dici pure di volerle bene. - Sai che glielo dico il meno possibile; ma ho bisogno di lei, e non saremmo qui insieme, cara, se non m'avesse dato il danaro che sai. Quei maledetti medici me l'hanno fatta pagar salata la vita. - Quanto t'è rimasto? - Cinquecento fiorini, che sono già in parte sfumati. Bisogna scrivere a Trento alla cassa: ogni parola dolce, un marengo. - Eppure - disse la donna con gli occhi pieni di lagrime - eppure mi pesa. L'uomo se la tirò vicina vicina sul canapè verde, mormorando: - Lagrime non ne voglio. In quel punto il cuore mi si rivoltolò dentro: l'amore era diventato esecrazione. Mi trovai nella strada. Andavo senza sapere dove; mi passavano accanto nella oscurità, urtandomi, gruppi di soldati, barelle, da cui venivano gemiti lunghi o strilli di dolore, qualche cittadino frettoloso, qualche contadino spaurito; nessuno badava a me, che scivolavo lungo i muri delle case ed ero vestita tutta di nero con un fitto velo sul volto. Riescii ad un largo viale piantato di alberi cupi, dove il fiume, corrente alla mia destra, rinfrescava un poco l'aria affannosa. L'acqua si perdeva quasi nelle tenebre; ma non mi venne, neanche per un attimo, la tentazione del suicidio. Era già nato in me, senza ch'io neppure me ne fossi avveduta, un pensiero bieco, ancora indeterminato, ancora annebbiato, il quale m'invadeva adagio adagio l'anima intiera e la mente, il pensiero della vendetta. Avevo offerto tutto a quell'uomo, ero vissuta per lui, senza di lui m'ero sentita morire, con lui ero salita in cielo; ed il suo cuore, i suoi baci egli li dava ad un'altra! La scena a cui avevo assistito, mi si dipingeva tutta dinanzi; vedevo ancora sotto a' miei occhi quelle lascivie. Infame! Corro per lui, superando ogni ostacolo, sprezzando ogni pericolo, gettando nel fango il mio nome: corro ad aiutarlo, corro a confortarlo, e lo trovo sano, più bello che mai e nelle braccia di una donna! E lui, che mi deve tutto, e la sua ganza, calpestano insieme la mia dignità ed il mio affetto e mi scherniscono e mi vituperano. E sono io che pago le loro orgie; e quella donna bionda si vanta, nuda, di essere più bella di me; e lui, lui (m'era serbato questo supremo obbrobrio) la proclama lui stesso più bella! Tante emozioni m'avevano affranto: l'ira, che bolliva dentro di me, aveva messo in tutto il mio corpo una febbre ardente, che mi faceva tremare le gambe. Non sapevo dove fossi; non volevo, né potevo farmi accompagnare da un passante fino all'albergo per chiudermi di nuovo nella carrozza; mi posi a sedere sulla sponda del fiume, fissando gli occhi nel cielo nero. Non trovavo requie; rientrai nelle vie della città; impazzivo; cascavo di fatica; da diciotto ore non avevo mangiato. Mi trovai per caso di contro ad una modesta bottega da caffè, e, dopo avere più volte girato innanzi alla vetrina, parendomi che non ci fosse nessuno, andai a pormi nel canto più lontano e scuro, ordinando qualcosa. Nell'angolo opposto, sdraiati sullo stesso sofà rosso, che circondava la sala vasta, bassa, umida e mezza buia, stavano due militari, fumando e sbadigliando. Poco dopo entrarono due altri ufficiali; un giovinetto, che poteva avere diciannove anni, lungo, smilzo, con i baffetti sottili, ed un uomo sui quaranta, tozzo, pesante, con il muso pavonazzo a bitorzoli ed a bernoccoli, le larghe sopracciglia nere come il carbone e due mustacchi sotto il naso grosso così folti ed irti che parevano setole; aveva in bocca una pipa boema, corta nel cannello, ma enorme nel camino, dalla quale uscivano ampie nubi di fumo, che andavano l'una dopo l'altra ad annerire il soppalco. Il giovinetto andò dritto a salutare gli ufficiali nell'angolo. Sentii che diceva: - Ne ho visti morire quaranta in due ore nella sala delle operazioni sotto i ferri dei chirurghi, i quali buttavano via braccia e gambe come se giuocassero al pallone, e trapanavano e aggiustavano teste ... - Bisognerebbe che aggiustassero quelle dei nostri generali - brontolò il Boemo, ghignando. Nessuno badava a me. Entrò, sola, una ragazza, pareva una crestaia, e si pose a sedere a lato dell'ufficialetto magro, chiedendogli ad alta voce: - Me lo paghi un caffè? Dopo alcuni discorsi, ai quali non posi attenzione, uno dei militari sdraiati disse alla ragazza, senza muoversi: - Sai, Costanza, ho visto il tuo tenente Remigio - Quando? - chiese la femmina. - Oggi. Sono andato da lui. Era insieme con Giustina. La conosci Giustina? - Sì, quella biondona, che ha tre denti rimessi. - Non me ne sono accorto. - Guardala bene. E come sta Remigio? - Qualche doloretto alla gamba, che lo fa guaire ogni tanto, e zoppica un poco, ecco tutto. È stata proprio una malattia provvidenziale quella. Gli altri arrischiano la pelle, si logorano nelle fatiche, nei calori d'inferno, nella fame, in tutte le maledizioni di questa guerra, e lui mangia, beve e sta allegro e trova chi lo mantiene. - Chi vuoi che lo mantenga quel buon mobile? - Una signora. - Una vecchia bavosa. - No, mia cara, una signora bella, giovane e, per giunta, milionaria e contessa e innamorata matta di lui. - E paga le bellezze del tenente? - Gli dà del danaro, e molto. - Povera sciocca! - Remigio la chiama la sua Messalina. Non me ne ha detto il casato, ma mi ha confidato ch'è di Trento e che ha nome Livia. C'è nessuno qui che sia pratico di Trento? L'ufficialetto smilzo disse: - M'informerò io e vi riferirò ogni cosa domani a sera, se saremo a Verona. Contessa Silvia, non è vero? - Contessa Livia, Livia, ricordatelo bene - gridò l'ufficiale sdraiato. Costanza riprese: - Ma Remigio è malato per davvero? - Oh per questo poi sì. Capisci bene che non la si dà a bere a quattro medici: uno del reggimento di Remigio, un altro scelto dal generale in un altro reggimento e due dell'ospedale militare. Ogni tre giorni vanno a visitarlo; palpano la gamba - e picchiano e tirano e lo fanno strillare. Una volta svenne. Ora sta meglio. - Finita la guerra, guarita la gamba insistette la Costanza. - Non lo dite neanche per ischerzo - osservò il secondo ufficiale sdraiato, il quale fino allora non aveva fatto sentir la sua voce. - Sai che per il solo sospetto di un inganno il tenente ed i medici verrebbero fucilati in ventiquattt'ore, l'uno come disertore dal campo di battaglia, gli altri come complici e manutengoli? - E se la meriterebbero, per Dio - esclamò ruggendo il Boemo senza cavarsi la pipa di bocca. L'ufficialetto aggiunse: - Il generale Hauptmann non aspetterebbe neanche ventiquattr'ore. A queste parole l'idea, che già mi stava in nebbia nel cervello, splendette di vivissima luce; avevo trovato, avevo risoluto. - Il generale Hauptmann! - ripetevo tra me. Le vampe, che mi salivano al capo, m'obbligarono a togliere del tutto il velo dalla faccia; bruciavo: chiamai perché mi portassero dell'acqua. Gli ufficiali, che allora s'accorsero di me, mi furono tutti attorno. - O la bella donna! - Ha bisogno di qualcosa? - Vuole un bicchierino di Marsala? - Possiamo tenerle compagnia? - Aspetta qualcuno? - Occhi stupendi! - Labbra da baci! - L'ufficialetto magro mi si era cacciato accanto sul sofà: essendo il più giovane voleva mostrarsi il più ardito. Mi svincolai dalle sue mani e cercai di alzarmi per fuggire, ma due altri mi trattenevano; il Boemo sudicio guardava e fumava. Mi rivolsi a lui gridando: - Signore, sono una gentildonna, m'aiuti e mi accompagni a casa, alla Torre di Londra -. Il Boemo si fece largo, dando degli spintoni di qua e di là e mandando quasi con le gambe all'aria l'ufficialetto novello; poi, duro, serio, mettendo in tasca la pipa, m'offerse il braccio. Uscii con lui. Durante la via, che non era lunga, mi disse poche e rispettose parole. Io gli chiesi chi fosse il generale Hauptmann, dove avesse il suo uffizio e altre notizie, le quali mi premevano per le mie buone ragioni. Seppi come il generale del Comando stesse in Castel San Pietro. Il portone dell'albergo rimaneva spalancato, benché il tocco dopo mezzanotte fosse suonato da un pezzo: c'era un grande andirivieni di militari e di borghesi. Ringraziai l'ufficiale, che puzzava di maledetto tabacco, e m'accomodai alla meglio sui cuscini della mia carrozza, posta in un angolo del cortile. Stracca morta com'ero, m'assopii tosto; ma mi destò in sussulto il picchiare forte di una mano sullo sportello. La voce rauca e volgare del Boemo ripeteva: - Sono io, signora contessa, io che vorrei dirle, col debito ossequio, una sola parola. Abbassai il cristallo, e l'ufficiale mi porse qualcosa: era il mio portamonete, dimenticato sulla tavola della bottega da caffè, mentre stavo per pagare e successe il tafferuglio. Lo avevano trovato e riportato i tre compagni di lui, il quale disse con gravità solenne: - Non manca né una carta, né un soldo. - Ma le carte sono state lette? - e pensavo alla lettera di Remigio, l'unica serbata da me e che non avrei voluto per cosa al mondo vedermi uscire di mano. - No, signora contessa. Sono stati visti i suoi biglietti da visita e il ritratto del tenente Remigio: niente altro, lo dichiaro sul mio onore. La mattina seguente, prima delle nove, mi feci condurre nella mia carrozza al Comando della fortezza. L'erta mi pareva interminabile: gridavo a Giacomo di frustare i cavalli. Una folla di militari d'ogni colore, di feriti, di popolani, ingombrava il piazzale innanzi al Castello; ma giunsi senza ostacoli all'anticamera degli uffizii, dove un vecchio invalido pigliò il mio biglietto da visita. Dopo qualche minuto ritornò, dicendomi che il generale Hauptmann mi pregava di passare nel suo quartiere privato, e che appena sbrigati certi affari urgentissimi, sarebbe venuto a presentarmi il suo omaggio. Fui condotta attraverso logge, corridoi e terrazze in una sala, che dominava dalle tre larghe finestre la città intiera. L'Adige, interrotto da' suoi ponti, si torceva in una S, avente la prima delle sue pancie a' piedi del monticello su cui sorge Castel San Pietro, e la seconda a' piedi di un altro bruno castello merlato; e sorgevano dalle case i culmini e le torri delle vecchie basiliche; e in un largo spazio si vedeva l'ovale enorme dell'Arena antica. Il sole mattutino rallegrava l'abitato ed i colli, e dall'una parte indorava le montagne, dall'altra gettava una luce placida sulla interminabile pianura verde, sparsa di villaggi bianchi, di case, di chiese, di campanili. Entrarono nella sala con fracasso di risa e salti due bimbe, le quali avevano il volto color di rosa e i capelli biondi paglierini. Vedendomi, di primo botto rimasero impacciate, ma poi subito si fecero coraggio e mi vennero accanto. La più grandicella disse: - Signora, s'accomodi. Vuole che vada a chiamare la mamma? - No, fanciulla mia, aspetto il tuo babbo. - Il babbo non l'abbiamo ancora visto stamane. Ha tanto da fare. - Lo voglio vedere io il babbo - gridò la più piccina. - Gli voglio tanto bene io al babbo. In quella entrò il generale, e le bimbe gli corsero incontro, gli si avviticchiarono alle gambe, tentavano di saltargli sulle spalle; egli prendeva l'una e l'alzava e le dava un bacio, poi prendeva l'altra; e le due pazzerelle ridevano, e negli occhi del generale spuntavano due lagrime di tenerezza beate. Si volse a me, dicendo: - Scusi, signora; s'ella ha figliuoli mi compatirà -. Si mise a sedere in faccia a me, e soggiunse: - Conosco di nome il signor conte, e sarei lieto se potessi servire in qualcosa la signora contessa. Feci un cenno al generale perché allontanasse le bambine, ed egli disse loro con voce piena di dolcezza: - Andate, figliuole mie, andate, dobbiamo parlare con la signora. Le bambine fecero un passo verso di me come per darmi un bacio; voltai la testa; se ne andarono finalmente un poco mortificate. - Generale - mormorai - vengo a compiere un dovere di suddita fedele. - La signora contessa è tedesca? - No, sono trentina. - Ah, va bene - esclamò, guardandomi con una cert'aria di stupore e d'impazienza. - Legga - e gli porsi in atto risoluto la lettera di Remigio, quella che avevo ritrovata nel taschino del portamonete. Il generale, dopo avere letto: - Non capisco; la lettera è indirizzata a lei? - Sì, generale. - Dunque l'uomo che scrive è il suo amante. Non risposi. Il generale cavò di tasca un sigaro e lo accese, s'alzò da sedere e si pose a camminare su e giù per la sala; tutt'a un tratto mi si piantò innanzi e, ficcandomi gli occhi in volto, disse: - Dunque, ho fretta, si sbrighi. - La lettera è di Remigio Ruz, luogotenente del terzo reggimento granatieri. - E poi? - La lettera parla chiaro. S'è fatto credere malato, pagando i quattro medici - e aggiunsi con l'accento rapido dell'odio: - È disertore dal campo di battaglia. - Ho inteso. Il tenente era l'amante suo e l'ha piantata. Ella si vendica facendolo fucilare, e insieme con lui facendo fucilare i medici. È vero? - Dei medici non m'importa. Il generale stette un poco meditabondo con le ciglia aggrottate, poi mi stese la lettera, che gli avevo data: - Signora, ci pensi: la delazione è un'infamia e l'opera sua è un assassinio. - Signor generale - esclamai, alzando il viso e guardandolo altera - compia il suo dovere. La sera, verso le nove, un soldato portò all'albergo della Torre di Londra, dove finalmente mi avevano trovato una camera, un biglietto, che diceva così: "Domattina alle quattro e mezzo precise verranno fucilati nel secondo cortile di Castel San Pietro il tenente Remigio Ruz ed il medico del suo reggimento. Questo foglio servirà per assistere alla esecuzione. Il sottoscritto chiede scusa alla signora contessa di non poterle offrire anche lo spettacolo della fucilazione degli altri medici, i quali, per ragioni che qui è inutile riferire, vennero rimandati ad un altro Consiglio di guerra. GENERALE HAUPTMANN". Alle tre e mezzo nella notte buia uscivo a piedi dall'albergo, accompagnata da Giacomo. Al basso del colle di Castel San Pietro gli ordinai che mi lasciasse, e cominciai sola a salire la strada erta; avevo caldo, soffocavo; non volevo togliermi il velo dalla faccia, bensì, sciolti i primi bottoni dell'abito, rivoltai i lembi dello scollo al di dentro; quel po' d'aria sul seno mi faceva respirare meglio. Le stelle impallidivano, si diffondeva intorno un albore giallastro. Seguii de' soldati, che girando il fianco del Castello, entrarono in un cortile chiuso dagli alti e cupi muri di cinta. Vi stavano già schierate due squadre di granatieri, immobili. Nessuno badava a me in quel brulichìo silenzioso di militari e in quelle mezze tenebre. Si sentivano le campane suonare giù nella città, dalla quale salivano mille romori confusi. Cigolò una porta bassa del Castello, e ne uscirono due uomini con le mani legate dietro la schiena; l'uno magro, bruno, camminava innanzi ritto, sicuro, con la fronte alta; l'altro, fiancheggiato da due soldati, che lo reggevano con molta fatica alle ascelle, si strascinava singhiozzando. Non so che cosa seguisse; leggevano, credo; poi udii un gran frastuono, e vidi il giovane bruno cadere, e nello stesso punto mi accorsi che Remigio era nudo fino alla cintura, e quelle braccia, quelle spalle, quel collo, tutte quelle membra, che avevo tanto amato, m'abbagliarono. Mi volò nella fantasia l'immagine del mio amante, quando a Venezia, nella Sirena, pieno di ardore e di gioia, m'aveva stretta per la prima volta fra le sue braccia d'acciaio. Un secondo frastuono mi scosse: sul torace ancora palpitante e bianco più del marmo s'era slanciata una donna bionda, cui schizzavano addosso i zampilli di sangue. Alla vista di quella femmina turpe si ridestò in me tutto lo sdegno, e con lo sdegno la dignità e la forza. Avevo la coscienza del mio diritto, m'avviai per uscire, tranquilla nell'orgoglio di un difficile dovere compiuto. Alla soglia del cancello mi sentii strappare il velo dal volto; mi girai e vidi innanzi a me il grugno sporco dell'ufficiale Boemo. Cavò dalla bocca enorme il cannello della sua pipa, e, avvicinando al mio viso il suo mustacchio, mi sputò sulla guancia ... * * * L'avevo detto io che l'avvocatino Gino sarebbe tornato. Bastò una riga: Venite, faremo la pace perché capitasse a precipizio. Ha piantato quella bamboccia della sua sposa una settimana innanzi al giorno destinato pel matrimonio; e va ripetendo ogni tanto, stringendomi quasi con la vigoria del tenente Remigio: - Livia, sei un angelo!

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