Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbacinati

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Scritti giovanili 1912-1922

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Longhi, Roberto 2 occorrenze

Allora esso avrebbe potuto finalmente iniziare la sua azione di sintesi estetica sul nostro spirito; e i grandi laghi immobili e vaporanti dei toni lanciare ai nostri occhi i loro piatti riflessi abbacinati.

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Fasce sdraiate degli architravi, delle cornici di poco aggetto, fasce verticali dei pilastrini appianati che Piero additò per la prima volta a Rimini all'uso pittorico, specchi di marmi abbacinati, laghi policromi di pavimento, paraste leggere, medaglioni, ogni forma architettonica serve a Bellini come aveva servito a Piero nelle scene d'affresco o nella flagellazione d'Urbino. Vedete, però, con quale cura Bellini evita la colonna; forse con altrettanta quanta ne pone Antonello nel ricercarla per chiaroscurare.

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Scultura e pittura d'oggi. Ricerche

265861
Boito, Camillo 1 occorrenze
  • 1877
  • Fratelli Bocca
  • Roma-Torino- Firenze
  • critica d'arte
  • UNIFI
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Chi si mette adesso all’impresa di volerla imitare ha propriamente gli occhi abbacinati.

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Senso

656380
Boito, Camillo 2 occorrenze

Nel primo istante non la vide, perché la camera sembrava un grazioso incendio, e gli occhi restavano abbacinati. Le tappezzerie, i canapè, le poltrone, tutto era di stoffa rossa, d'un rosso roseo brillante, con certi disegni gialli sinuosi, come a fiamma; e il sole del tramonto, caldo, vivo, d'oro, entrava dalle due finestre spalancate, gettando sul rosso e sul giallo della stanza certi lumi incandescenti e certi lustri, che somigliavano a fuochi e a scintille. Un odore di essenze, acuto, inebbriante, si effondeva dalla toletta a trine e a ricami, dove, sotto al baldacchino, tenuto in aria volando da un putto alato, luccicavano dinanzi alla cornice dello specchio, tutta a fiori di vetro, innumerevoli vasetti di metallo bianco e pettiniere e saponiere e ampollette di cristallo terso e ninnoli d'ogni maniera. Il prete, entrando, si sentì una vampa alla testa: avrebbe voluto fuggire. La donna lo chiamò con voce soave come un liuto lontano. Era sdraiata sopra un sofà nel solo angolo ombroso della stanza, lungo il lato delle finestre, in fondo, lì dove le pieghe delle ampie tende scemavano sui fianchi la luce e lasciavano come una insenatura fra il parato ed il muro. - Si metta qui, signor curato, qui accanto, in questo seggiolone. Mi sento così debole, che appena appena posso parlar sottovoce. Il prete rispose ruvido: - Scusi, ho fretta. Sono venuto perché il medico mi aveva detto ch'ella era malata e aveva bisogno di me. Posso servirla in qualcosa? - Sono malata, e come! Ma quel dottore sventato non capisce nulla. Ella. signor curato, dotto e santo com'è, può dirmi una parola, che mi conforti, che mi rianimi e, col ridonarmi la fede in me stessa e nelle cose del mondo, tornarmi forse la salute del corpo. Il mio male sta qui -. Si toccò il seno. Era coperta d'una vesta a fiorami, che lasciava vedere tutto il collo, una parte del petto candido e il principio delle spalle rotonde, sulle quali cadevano, sciolti, i suoi capelli increspati, d'un biondo rossigno. Principiavano bassi, in riccioletti matti. Il naso appiccicato alla fronte, quasi senza incavo, con un piano vigoroso e largo; le narici gonfie, da cui la donna sbuffava alle volte al pari d'una cavalla araba; le labbra tumide, le gote piene, e il mento rientrante davano a quel viso un non so che di pecorino e lascivo. Il cinabro della bocca era anzi un poco troppo vivace, il roseo delle guance un poco troppo sfumato, e la forma delle brune sopracciglia un poco troppo sottilmente arcuata per poter credere che l'arte non ci entrasse in nulla. E sotto gli occhi cerulei stava un lividetto, che li faceva sembrare più grandi. Era bella insomma alla sua maniera e carnale. Il prete rimaneva in piedi. Ella si alzò con fatica, andò verso di lui, lo prese per mano e, condottolo due passi innanzi, lo fece sedere nel seggiolone. Poi, guardandolo fisso, come se ella si destasse in quel punto, stirò le braccia, che le maniche larghe lasciarono vedere quasi fino alle ascelle; e il petto si arrotondò fieramente. Tornò a buttarsi sul sofà, lasciando cadere a terra dal piede destro la pantofola ricamata. Gli occhi cerulei erano diventati di bragia. La voce non aveva più la stanchezza e la dolcezza di prima. Vi dominava un timbro secco, strozzato, rabbioso, quando disse al prete interrottamente: - Mi dica un po', Don Giuseppe, perché mi sfugge? Perché non vuole vedermi più? Quand'io passo nel villaggio a cavallo della mia mula, perché mi chiude in faccia le imposte della sua casa? Dopo avermi ricevuta in principio quattro volte nella canonica, perché ha ora dato l'ordine di non lasciarmi entrare, nemmeno quando io reco il denaro dei poveri? Non posso metter piede in sagrestia; è molto che non mi caccino, come un cane, fuori di chiesa. Mi si rimandano i doni che faccio al tempio. Con qual diritto? Chi può mai rifiutare le offerte che si porgono a Dio? - Sbalzò in piedi e si piantò di contro il prete, domandando: - L'odio, signor curato, è forse una virtù cristiana? Il curato affermò pacatamente, ma con la voce che tremolava: - L'odio del male è una virtù cristiana. - Virtù cristiana, reverendo, è l'amore. Me lo insegnarono da fanciulla, quando andava in chiesa alla dottrina; me lo hanno ripetuto al confessionale. Poi, divenuta donna, vidi che l'amor vero mi rialzava l'anima, mi purificava lo spirito, mi avvicinava al cielo. L'amor vero passò, e, giuro, senza mia colpa. Allora, abbandonata, povera, gettata in una società piena di seduzioni e di corruzioni, cascai nella finzione dell'amore. Ma la finzione dell'amore, non è amore, è odio; è l'odio anzi più vile, abbietto, pauroso, straziante che si possa provare. Quest'odio m'uccide. Il cuore intanto arde, e cerca da molti anni invano il refrigerio di un affetto violento e sincero. Ho bisogno dell'amore che brucia. Il prete, afferrando con un supremo sforzo di volontà i pensieri, che svanivano dalla sua testa, mormorò: - Calmatevi, poverina, mettete in pace la fantasia eccitata dalle sventure e dalle colpe della vostra vita. Fate di desiderare una sola cosa, il bene. Uscite da queste sozzure d'inganni e di vizii, in cui si trascina e imbratta la vostra esistenza. Tornate sola e povera, ma pentita e buona. Allora tutti vi dovranno amare, perché, amando voi, ameranno la virtù. - Anche voi, Don Giuseppe, mi amerete anche voi? E gli prese la mano, e la strinse, e il prete s'avvicinò. La donna continuava sommessamente: - Don Giuseppe, guidatemi. Insegnatemi la via, conducetemi dove vi piace. Sarò la vostra schiava. Sarò, se vorrete, la vostra santa. Il vostro cuore dev'essere grande e nobile, deve specchiare il cielo, come i vostri occhi. Mi piacete perché siete bello, perché siete candido, perché indovino che non avete mai amato, perché voglio essere il vostro primo peccato, il vostro primo rimorso. Datemi il vostro amore, Don Giuseppe, il vostro amore. La donna, arrovesciata sul sofà, teneva sempre con le due mani la mano del prete, il quale tremava dalla testa ai piedi. Il sole era tramontato; la camera diventava buia. Ma, mentre la femmina ripeteva le ultime parole, sembrò al curato che d'improvviso un soffio fresco gli passasse sul fronte; e di repente gli comparve davanti la figura tetra e sanguinosa del suo Cristo dell'inginocchiatoio, solo che il volto, anziché piegato e morto, era vivo e guardava minaccioso e fierissimo. Il prete scattò e, prima che la donna potesse pronunziare una sillaba, era uscito dalla stanza. Quando il servo con la livrea turchina e con le mostre cremisi vide scappare il prete dalla villa, quasi correndo, senza voltarsi, come se dietro le spalle lo minacciasse il demonio, sorrise maliziosamente, ponendosi l'indice della mano destra sulla punta del naso.

Gli occhi abbacinati riposavano in certe ombre cupe, lì dove si affondava un sottoportico o si stringeva una calle; e l'acqua brillava di tutti i verdi, rifletteva tutti i colori, si perdeva qua e là in buchi e striscie di un nero denso. Correvano e saltavano sulla fondamenta, la quale dalla parte del canale non aveva nessun riparo, dieci o dodici monelli, vociando a squarciagola. Ve n'erano di piccini e di grandetti. Uno dei piccoli, quasi nudo, grassotto, con i riccioletti biondi, che gli coronavano la faccia rosea e paffutella, faceva un chiasso da indemoniato, dando scappellotti, pizzicando i compagni e poi scappando via come un fulmine. Mi fermai a guardare, mentre Remigio mi raccontava le sue grandezze passate. A un tratto quel diavoletto di bimbo, non potendo in una corsa precipitosa fermare il piede al ciglio della fondamenta, volò nel canale. S'udì uno strido ed un tonfo, poi subito intronarono l'aria le grida di tutti quanti i ragazzi e di tutte quante le donne, le quali prima se la discorrevano nella via o guardavano dalla finestra; ma in quel clamore dominava lo strillo acuto, disperato, straziante della giovine madre, che, slanciatasi ai piedi di Remigio, unico uomo presente a quella scena, urlava: - Me lo salvi, per carità, me lo salvi! - Remigio, freddo, ghiacciato, rispose alla donna: - Non so nuotare -. Intanto uno dei fanciulli più grandi s'era buttato in acqua, aveva pigliato per i ricci biondi il piccino e lo aveva tirato a riva. Fu un attimo. Lo stridìo si mutò in applauso frenetico; donne e ragazzi piangevano di gioia; la gente correva da tutte le parti a vedere, e il putto biondo guardava intorno con i suoi occhioni celesti, maravigliato di tanto baccano. Remigio con uno strappo violento mi cavò dalla folla. L'altra volta che un poco il mio amante mi spiacque fu per questa cagione. S'era fatto udire nel caffè Quadri, ciarlando in tedesco a voce alta con alcuni impiegati tirolesi, a dir male dei Veneziani. Un signore, che stava in un canto, s'alzò di sbalzo, e piantandosi di contro a lui, che era in uniforme, gridò: - Vigliacco d'un militare - e gli buttò in faccia tre o quattro de' suoi biglietti da visita. Ne nacque un parapiglia. Il dì seguente i padrini dovevano combinare il duello; ma Remigio, avendo notato che il suo avversario era piccolo, mingherlino e gracilissimo, rifiutò la pistola, rifiutò la spada, e, benché la scelta delle armi spettasse allo sfidato, volle ad ogni costo la sciabola, sicuro com'egli era della forza del proprio braccio. Il Veneziano si piegò alla prepotenza; ma, prima del duello, era già in carcere, ed a Remigio veniva trasmesso l'ordine di andare immediatamente ad una nuova destinazione in Croazia. Quando seppi la cosa mi disperai: senza quell'uomo io non potevo vivere. Tanto feci presso la moglie del Luogotenente, e tanto si adoperò mio marito, sollecitato da me, presso il Governatore ed i Generali, che Remigio ottenne di venire mandato a Trento, dove io ed il conte dovevamo tornare appunto in quei giorni. Tutto fino allora era andato a seconda della mia cieca passione. * * * Da tre mesi non vedo questo mio scartafaccio. Non mi sono attentata di portarlo in viaggio, e mi doleva, confesso, di averlo lasciato a Trento. Riandando nella memoria i casi di tanti anni or sono, il cuore torna a palpitare e sento un'aura calda di gioventù, che mi spira d'intorno. Il manoscritto è rimasto serrato a tripla chiave nel mio scrigno segreto, dietro all'alcova della mia camera; e stava chiuso con cinque suggelli in una grande busta, su cui, prima di partire, avevo scritto a grossi caratteri: "Affido all'onore di mio marito il segreto di queste carte, ch'egli, dopo la mia morte, brucierà senza dissuggellarle". Me ne andai tranquillissima: ero certa che il conte, anche sospettando, avrebbe religiosamente adempiuto la volontà di sua moglie. Ho avuto adess'adesso dalla cameriera una notizia, che mi ha disgustata: l'avvocatino Gino prende moglie. Ecco la costanza degli uomini, ecco la saldezza delle passioni! - Contessa Livia, muoio, mi uccido; la sua immagine sparirà dal mio petto con l'ultima goccia del mio sangue; mi calpesti come uno schiavo, ma mi permetta di adorarla come una Dea -. Frasi da melodramma. Pochi mesi, e tutto svanisce. Amore, furore, giuramenti, lagrime, singhiozzi, non c'è più nulla! Schifosa natura umana. E a vedere quegli occhi neri in quella faccia smorta si sarebbe detto che vi lampeggiasse la sincerità profonda dell'anima appassionata. Come balbettavano le labbra e pulsavano le arterie e tremavano le mani e la persona tutta strisciava umile sotto a' miei piedi. L'avvocatino scrofoloso e miserabile meritò davvero il calcio che ricevette da me. Bifolco. E chi sposa? Una scioccherella di diciotto anni, che i suoi parenti non hanno voluto condurre in casa mia, perché la contessa Livia, si sa, è donna troppo galante; una scipita con due mele ingranate per guance, le mani corte, grasse e rosse, i piedi da stalliere, e un'aria impertinentina da santarella, che consola. E l'uomo il quale piglia una tale bamboccia ha osato amarmi e dirmelo! Sento le brace sul viso ... * * * Il mio ufficiale di sedici anni addietro, se non era un grand'uomo, era almeno un vero uomo. Mi stringeva alla vita in modo da stritolarmi, e mi mordeva le spalle facendomele sanguinare. Cominciavano a diffondersi delle vaghe voci di guerra, poi le solite notizie contradditorie e le consuete smentite: armano, non armano, sì, no; intanto un certo movimento insieme febbrile e misterioso si propagava dai militari ai civili, i treni della ferrovia principiavano a ritardare, a portare giù nuovi soldati e cavalli e carriaggi e cannoni, mentre i giornali non ismettevano di negare pur l'ombra dell'armamento. Io, senza badare agli occhi miei, credevo ai giornali, tanto il pensiero di una guerra mi spaventava. Temevo per la vita dell'amante; ma temevo anche più il distacco lungo, inevitabile, che avrebbe dovuto seguire tra noi due. A Remigio, in fatti, l'ultimo dì di marzo fu ordinato di recarsi a Verona. Ottenne, innanzi di partire, due giorni di permesso, che passammo insieme, senza lasciarci mai un minuto, nella misera camera di un'osteria sul laghetto di Cavedine; ed egli mi giurava di venire presto a vedermi, ed io gli giuravo di andare a Verona quando non avesse potuto muoversi di lì. Nel dargli l'ultimo abbraccio gli gettai nella tasca un borsellino con cinquanta marenghi. Il conte, ritornando dalla campagna, mi trovò, dieci o dodici giorni dopo la partenza di Remigio, smagrita e pallida. Soffrivo in realtà moltissimo. Di quando in quando sentivo delle accensioni alla testa e mi venivano dei capogiri, tanto che tre o quattro volte, barcollando, dovetti appoggiarmi alla parete o ad un mobile per non cadere. I medici, che mio marito, premuroso ed inquieto, volle consultare, ripetevano, stringendosi nelle spalle: - Affare di nervi -; mi raccomandarono di far moto, di mangiare, di dormire e di stare allegra. Eravamo alla metà dell'aprile ed oramai gli apprestamenti si facevano senza maschera: militari d'ogni sorta ingombravano le vie; marciavano i battaglioni al suono delle bande e dei tamburi; volavano sui loro cavalli gli aiutanti di campo; i vecchi generali, un po' curvi sulla sella, passavano al trotto seguiti dallo Stato maggiore, baldo, brillante, caracollante. Quei preparativi mi riempivano di paure fantastiche. L'Italia voleva passare a fil di spada tutti quanti gli Austriaci; Garibaldi, con le sue orde di demonii rossi, voleva scannare tutti quelli che gli sarebbero capitati in mano: si presagiva un'ecatombe. Avevo le furie in corpo: da Verona in sei settimane m'erano capitate quattro lettere sole. La posta si può dire che non esistesse più; bisognava consegnare, pregando e pagando, i fogli a qualcuno che, disposto ad affrontare gli ostacoli e gli interminabili ritardi del viaggio, avesse necessità e ardire di recarsi da un luogo all'altro. Io, non potendo più vivere nelle angoscie, in cui mi teneva notte e giorno il silenzio o volontario o innocente di Remigio, m'ero risoluta di tentare il viaggio; ma come fare senza che mio marito ne sapesse nulla? come fare io donna e sola e giovane e bella in mezzo alla brutalità dei soldati, resi più audaci dalla disciplina allentata e dal pensiero degli stessi pericoli a cui andavano incontro? Una mattina, all'alba, dopo una eterna notte di smanie, m'ero addormentata, quando a un tratto un romore mi sveglia; apro gli occhi e mi vedo accanto Remigio. Mi parve un sogno. L'aurora illuminava già di luce lieve e rossastra la camera; scesi con un balzo dal letto per chiudere le tende dell'alcova, e si cominciò sotto voce a discorrere. Ero inquieta; il conte, che dormiva a due stanze d'intervallo, poteva sentire, poteva venire; i domestici potevano avere visto il mio amante entrare furtivamente a quell'ora. Egli mi rassicurò con poche parole impazienti: aveva picchiato, come altre volte, ai vetri della finestra terrena, dove la cameriera dormiva; ella pian piano gli aveva aperto il portone, ed era entrato senza che nessuno sospettasse di nulla. Della cameriera m'importava poco, giacché sapeva ogni cosa; ma il peggio stava nell'uscire: bisognava spicciarsi. Tornai a sbalzare dal letto; andai ad origliare all'uscio della stanza di mio marito: russava. - Ti fermi a Trento, non è vero? - Sei matta. - Qualche giorno almeno? - È impossibile. - Uno? - Parto fra un'ora. Rimasi accasciata; il mio cuore, pieno un minuto prima di gaie speranze, si riempì d'affanni e di paure. - E non tentare di trattenermi. In tempo di guerra non si scherza. - Guerra maledetta! - Maledetta sì. Dovrà essere terribile, a quanto pare. - Senti, non potresti fuggire, non potresti nasconderti? Ti aiuterò. Non voglio che la tua vita sia messa in pericolo. - Fanciullaggini. Mi scoprirebbero, mi piglierebbero, e sarei fucilato per disertore. - Fucilato! - Ho bisogno di te. - La mia vita, tutto. - No. Duemilacinquecento fiorini. - Dio, come faccio? - Vuoi salvarmi? - Ad ogni costo. - Senti dunque. Con duemilacinquecento fiorini i due medici dell'ospedale e i due della brigata mi fanno un certificato di malattia, e vengono a visitarmi ogni tanto per confermare presso il Comando una mia infermità qualunque, la quale mi renda inabile affatto al servizio. Non perdo il mio grado, non perdo il mio soldo, scanso ogni pericolo e rimango a casa tranquillo, zoppicando un poco, è vero, per una sciatica maligna o per una lesione all'osso della gamba, ma quieto e beato. Troverò qualche impiegatuzzo con cui giuocare a briscola; berrò, mangierò, farò le lunghe dormite; avrò la noia di stare a casa nel giorno, ma la notte, sempre zoppicando un poco per prudenza, mi potrò sfogare. Ti piace? - Mi piacerebbe, se tu fossi a Trento. Verrei da te ogni giorno, due volte al giorno. Già quando ti credono malato, stare a Verona o a Trento non è lo stesso? - No, i regolamenti vogliono che il militare malato stia nella sede del Comando, sotto la continua e coscienziosa vigilanza dei medici. Ma, appena finita la guerra, tornerò qua. La guerra sarà fiera, ma breve. - Mi amerai sempre, mi sarai sempre fedele, non guarderai nessun'altra donna? Me lo giuri? - Sì, sì, te lo giuro; ma l'ora passa, e i duemilacinquecento fiorini mi occorrono. - Subito? - Sicuro, devo portarli con me. - Ma nello scrignetto credo di avere appena una cinquantina di napoleoni d'oro. Tengo sempre poco denaro. - Insomma, trovali. - Come vuoi ch'io li trovi? Posso chiederli a mio marito a quest'ora, così, con quale pretesto, per darli a chi? - L'amore si conosce dai sacrifizii. Non mi ami. - Non ti amo? io che ti darei volentieri tutto il mio sangue. - Queste sono parole. Se non hai denaro, dammi i gioielli. Non risposi e mi sentii impallidire. Accortosi della impressione che mi avevano fatto le sue ultime parole, Remigio mi serrò tra le braccia di ferro, e mutato tono, ripeté più volte: - Sai che ti amo infinitamente, Livia mia, e ti amerò finché avrò un soffio di vita; ma questa vita salvamela, te ne scongiuro, salvala per te, se mi vuoi bene. Mi prendeva le mani, e le baciava. Ero già vinta. Andai alla scrivania a prendere le tre piccole chiavi dello scrignetto: temevo di far romore; camminavo in punta di piedi, benché avessi i piedi nudi. Remigio mi accompagnò nel gabinetto dietro l'alcova; serrai l'uscio, perché il conte non potesse udire, ed aperto lo scrigno con qualche difficoltà, tanto ero agitata, ne trassi un fornimento intiero di brillanti, mormorando: - Ecco, prendi. Costò quasi dodicimila lire. Troverai da venderlo? Remigio mi tolse di mano l'astuccio; guardò i gioielli e disse: - Usurai ce n'è dappertutto. - Sarebbe un peccato il darlo via per poco. Cerca modo di poterlo ricuperare. Mi piangeva il cuore. Il diadema specialmente mi stava tanto bene. - E i denari me li dai? - chiese Remigio, - mi farebbero comodo. Cercai nello scrigno i napoleoni d'oro, che avevo messi in un mucchietto, e, senza contarli, glieli diedi. Mi baciò e, frettolosamente, fece per uscire. Lo trattenni. Con un atto d'impazienza mi respinse, dicendo: - Se ti preme la mia vita, lasciami andare. - Fa piano, non senti che gli stivali scricchiolano? E poi, aspetta. Voglio vedere se c'è la cameriera; bisogna ch'ella venga ad accompagnarti. La cameriera, infatti, attendeva in una stanza vicina. - Mi scriverai subito? - Sì. - Ogni due giorni? Volevo dare un ultimo bacio all'amante mio, che amavo tanto: era già sparito. Aperte le invetriate, guardai nella via. Il sole indorava le alte cime dei monti. Innanzi al portone stavano discorrendo fra loro il mozzo di stalla ed il guattero. Alzarono gli occhi e mi videro; poi videro uscire dal palazzo Remigio, che camminava in fretta con le tasche dell'abito rigonfie. Tornai a letto e piansi tutto il giorno: l'energia della mia natura era fiaccata. Il medico la mattina appresso trovò che bruciavo e che avevo una gran febbre; ordinò il chinino, che non presi: avrei voluto morire. Una settimana intiera dopo la visita di Remigio la cameriera mi portò con la sua solita placidezza una lettera, che, appena vista, le strappai di mano rabbiosamente: avevo indovinato, era di lui, la prima dopo la sua partenza, e mi posi a leggerla con sì furiosa avidità che, giunta alla fine, dovetti ricominciare: non ne avevo capito nulla. Me la ricordo ancora oggi parola per parola, tante volte la lessi e tante volte i casi terribili, che la seguirono, me ne fecero risovvenire: "Livia adorata, M'hai salvato la vita. Ho venduto l'astuccio a un Salomone qualunque, per poco, a dire il vero, ma in queste circostanze di trambusti e di spaventi non si poteva esigere di più, duemila fiorini, i quali sono bastati a riempire la vorace pancia dei medici. Prima di dovermi ammalare ho trovato una bella stanza verso l'Adige in via Santo Stefano al numero 147 (scrivimi a questo indirizzo), grande, pulita, con una anticamera tutta per me, da cui si esce direttamente sulla scala; mi sono provvisto di tabacco, di rum, di carte da giuoco e di tutti i volumi di Paolo di Koch e di Alessandro Dumas. Non manco di compagnia piacevole, tutti maschi (non ti agitare), tutti scrocconi, e se non fosse che devo parere zoppo e che di giorno non posso uscire di casa, mi direi l'uomo più felice del mondo. Certo, mi manca una cosa, la tua persona, cara Livia, che adoro e che vorrei avere il dì e la notte fra le mie braccia. Dunque non ti dar pensiero di nulla. Io leggerò le notizie della guerra fumando; e quanti più Italiani e Austriaci se ne andranno all'inferno tanto più ci avrò gusto. Amami sempre come io t'amo; appena la guerra sarà finita e questi cani di dottori, i quali mi costano un occhio della testa, m'avranno lasciato in pace, correrà ad abbracciarti, più ardente che mai, il tuo REMIGIO". La lettera mi lasciò sconcertata e disgustata, così mi parve volgare; ma poi, nel tornarvi su, a poco a poco mi persuasi che il tono in cui era scritta fosse affettatamente leggiero e gaio, e che l'amante avesse fatto un crudele, ma nobilissimo sforzo nel contenere l'impeto del suo cuore, tanto per non gettare nuova esca nella mia passione, che era già un incendio, e per quietarmi un poco l'animo, ch'egli sapeva terribilmente ansioso. Ristudiai la lettera in ogni frase, in ogni sillaba. Avevo bruciate tutte le altre quasi appena ricevute; serbai questa in un taschino del portamonete, per cavarnela spesso quando ero sola, dopo avere serrato a chiave gli usci della stanza. Tutto mi confermava nella mia credenza benevola: quelle espressioni d'affetto mi apparivano tanto più potenti quanto più erano rapide, e quei periodi grossolani e cinici mi si presentavano alla fantasia sublimi di generoso sacrifizio. Avevo tanto bisogno di credere che la mia smania trovasse una scusa nella smania dell'altro; e la viltà di lui mi riempiva il seno d'entusiasmo, purché io credessi di esserne la cagione. Ma il mio cervello galoppante non si fermava qui. Chi sa, pensavo tra me, chi sa che questa lettera sia tutta un magnanimo inganno! Forse egli è già partito per il campo, forse egli sta di contro al nemico; ma, più curante di me che di lui, non volendo farmi morire negli sbigottimenti e nei terrori, m'addormenta con la menzogna pietosa. Appena un tale pensiero si fece adito nel mio spirito, me ne sentii tutta invasa. Le insonnie, l'avversione al mangiare, i disturbi fisici contribuivano ad una vera esaltazione mentale. Vivevo quasi nella solitudine. Già la mia società s'era andata via via restringendo, poiché le famiglie nobili trentine, avverse alle opinioni politiche del conte, avevano da un pezzo lasciato con bel garbo lui e me affatto in disparte; i giovani, frementi d'italianismo, ci sfuggivano senza riguardi e ci odiavano; gl'impiegati del paese, non sapendo come la guerra sarebbe andata a finire, per non rischiare di compromettersi né in un modo né in un altro, oramai si astenevano dal mettere piede in casa nostra: vedevamo, in somma, qualche nobile austriacante, spiantato e parassita, qualche alto funzionario tirolese, duro, testardo, puzzolente di birra e di cattivo tabacco. I militari non trovavano più l'agio né la voglia di occuparsi di me. La mia relazione col tenente Remigio, conosciuta da tutti, eccetto che da mio marito, aveva accresciuto il mio isolamento, il quale, del resto, m'era gradito, anzi necessario nello stato d'animo in cui da un po' di tempo vivevo. Remigio, dopo la lettera famosa, non aveva più scritto. Sognavo per lui de' pericoli, che mi apparivano tanto più orrendi quanto più erano incerti. Avrei potuto sopportare forse la sicurezza dei rischi d'una battaglia; ma il non sapere se il mio amante andasse alla guerra o no, era un dubbio che mi faceva impazzire. Scrissi a Verona ad un generale che conoscevo, a due colonnelli, poi a qualcuno di quegli ufficialetti, i quali mi avevano tanto corteggiato a Venezia: nessuno rispose. Tempestavo Remigio di lettere; niente. Intanto le ostilità principiarono: la vita civile era soppressa; la ferrovia, le strade non servivano ad altro che ai carriaggi delle munizioni, delle ambulanze, delle proviande, agli squadroni di cavalleria, che passavano in mezzo a nuvoli di polvere, alle batterie, che facevano tremare le case, ai reggimenti di fanteria, che si svolgevano l'uno dopo l'altro interminabili, sinuosi, striscianti come un verme, il quale volesse abbracciare nelle sue enormi spire tutta quanta la terra. Una mattina calda, affannosa, il 26 del giugno, capitarono le prime notizie di una battaglia orribile: l'Austria era disfatta, diecimila morti, ventimila feriti, le bandiere perdute, Verona ancora nostra, ma vicina a cedere, come le altre fortezze, all'impeto infernale degli Italiani. Mio marito era in villa, e doveva starci una settimana. Suonai con furia; la cameriera non veniva; tornai a suonare; si presentò all'uscio il domestico. - Dormite tutti? maledetti poltroni. Fammi venire subito il cocchiere, ma subito, intendi? Qualche minuto dopo entrò Giacomo sbigottito, abbottonandosi la livrea. - Da qui a Verona quante miglia ci sono? Stette un poco a pensare. - Dunque? - ripresi stizzita. Giacomo faceva i suoi conti: - Da qui a Roveredo circa quattordici; da Roveredo a Verona dovrebbero essere ... non saprei ... ci si mette con due buoni cavalli dieci ore, poco più, poco meno, senza contare le fermate. - Ci sei mai stato con i cavalli da Trento a Verona? - No, signora contessa; andai da Roveredo a Verona. - Fa lo stesso. Da qui a Roveredo so bene anch'io che occorrono due ore. - Due ore e mezzo, scusi, signora contessa. - Dunque due e dieci fanno dodici in tutto. - Mettiamo tredici, signora contessa, e di buon trotto. - Quanti cavalli ha preso con sé il padrone? - La sua solita cavallina morella. - Ne restano quattro in scuderia. - Sì, signora padrona: Fanny, Candida, Lampo e lo stallone. - Potresti attaccarli tutti quattro? - Insieme? - Sì, insieme. Giacomo sorrise con una cert'aria di benevola compassione: - Scusi, signora contessa, non è possibile. Lo stallone ... - Ebbene, attacca gli altri tre. - Lampo ha una sciancatura, povero Lampo, non può neanche trascinarsi al passo. - Attacca dunque come al solito Fanny e Candida, in nome di Dio - gridai, pestando i piedi, e soggiunsi: - Domattina alle quattro. - Sarà servita, signora padrona; e, scusi, per regolarmi nella biada da portar via, dove si va? - A Verona. - A Verona, misericordia! In quanti giorni? - Dalla mattina alla sera. - Signora padrona, scusi, ma questo proprio non si può. - Ed io lo voglio, hai capito? - replicai con accento così imperioso che il pover'uomo trovò appena il coraggio di balbettare: - Abbia compassione di me. Accopperemo le due cavalle, e il padrone mi caccerà sulla strada. - La responsabilità è mia. Obbedisci e non pensare ad altro - e gli diedi quattro marenghi. - Ti darò il doppio quando saremo tornati, ad un patto per altro, che tu non dica niente a nessuno. - Per questo non c'è pericolo; ma gl'ingombri della strada, carri, i cannoni, le prepotenze dei soldati, le seccature dei gendarmi? - Ci penso io. Giacomo piegò il capo, rassegnato, ma non persuaso. - A che ora giungeremo a Verona? - Quando vorrà il cielo, signora padrona; e sarà un miracolo se ci arriveremo vivi, lei, signora padrona, io e le due povere bestie. Per me poco importa, ma per lei e per le bestie! - Bene, alle quattro dunque, e silenzio. Se taci avrai quello che ti ho promesso, se parli ti licenzio sui due piedi e senza salario. Hai inteso? Bada che tutti, anche la cameriera, devono credere che andiamo a San Michele, dalla marchesa Giulia. Giacomo, rannuvolato, s'inchinò ed uscì dalla stanza. All'alba ero in carrozza, e via. Avevo chiuso le tendine degli sportelli, e guardavo da un angolo ai fantaccini trafelati e polverosi, i quali credendo che nel cocchio stesse un qualche gran personaggio, si schieravano lungo i fossati; alcuni facevano il saluto militare. Di quando in quando bisognava rallentare la corsa con mio fiero dispetto, o a dirittura fermarsi alcuni minuti per aspettare che i pesanti e cigolanti carri avessero lasciato libero il passo: le cose per altro andavano assai meglio di quello che avesse predetto Giacomo. Una pattuglia di gendarmi a cavallo fermò la carrozza, ma il sergente, vedendo che c'era dentro una signora, si contentò di gridare cavallerescamente: - Buon viaggio -. Più giù di Roveredo, a Pieve, ci si trattenne a rinfrescare un poco; poi a Borghetto, staccate le giumente, che non ne potevano più, passammo tre ore buone, che mi parvero tre anni, rannicchiata com'ero nella carrozza, udendo i lamenti e le bestemmie dei soldati, i quali si lasciavano cascare in terra a squadre per pochi istanti vicino all'osteria, sotto la scarsa ombra degli alberi magri, e mangiavano un tozzo di pagnotta e bevevano un sorso d'acqua. Avrò chiamato dieci volte Giacomo, il quale veniva allo sportello con tanto di grugno, sforzandosi di parere composto, e si toglieva il cappello, e ripeteva: - Signora contessa, ancora dieci minuti -. Si ripigliò, quando Dio volle, il cammino. L'Adige, che costeggiavamo, era quasi asciutto, i campi sembravano arsi, la strada brillava d'un candore abbagliante, non si vedeva una macchia nel cielo azzurro, le pareti della carrozza bruciavano, e in quell'afa grave, in quella densa polvere, io mi sentivo soffocare. La fronte mi gocciolava e battevo i piedi per l'impazienza. Non badai alla Chiusa: ascoltavo lo scoppiettìo della frusta di Giacomo. A Pescantina si tornò a rinfrescare: le buone bestie camminavano a stento, e a giungere a Verona ci volevano ancora dieci lunghe miglia. Il sole era scomparso in un nimbo di fuoco. Sempre carri e soldati, ronde di gendarmi, polvere, e a momenti un frastuono assordante e uno stridore acuto di ferramenta, a momenti un mormorio confuso e pauroso, nel quale si distinguevano gemiti e imprecazioni e le strofe di qualche canzonaccia oscena, cantata da voci strozzate. Fino ad ora eravamo scesi con la corrente degli uomini e dei veicoli, ora ci s'incontrava in qualche vettura d'ambulanza, in qualche compagnia pedestre di militari leggermente feriti, col braccio al collo, una fasciatura alla testa, verdi in volto, curvi, zoppicanti, laceri. E Remigio, Remigio! Gridavo a Giacomo di battere le bestie col manico della frusta. Cominciava a far notte. S'arrivò alle mura di Verona verso le nove; e tanto era il timor panico, tanto il trambusto, che nessuno badò alla carrozza, e si poté giungere all'albergo della Torre di Londra senz'altri intoppi. Non c'era più una camera, non c'era un buco dove poter dormire, né in quell'albergo, né, per quanto mi assicurarono, in nessuna altra locanda della città: tutto era stato requisito per gli ufficiali. I cavalli, morti di stanchezza, vennero legati nel cortile; Giacomo doveva attendere ad essi; io finalmente sbalzai a terra. Mi feci accompagnare a piedi da un ragazzaccio nella via Santo Stefano al numero 147. Si dovette camminare più volte su e giù nella strada, guardando all'alto delle porte, innanzi di distinguere nel barlume dei rari fanali il numero della casa. Se Remigio c'era, volevo fargli una improvvisata: le mie membra tremavano tutte d'impazienza e di desiderio, ma poteva essere a letto, poteva stare in compagnia di qualcuno, e, sebbene volessi ad ogni costo vederlo subito, pure mi sembrò di dover mandare il ragazzo avanti in esplorazione. Era furbo e capì al volo: doveva suonare, chiedere del tenente per una faccenda urgentissima, insistere perché gli aprissero, salire, dirgli una fandonia qualunque, per esempio che un signore, del quale s'era scordato il nome e che alloggiava all'albergo della Torre di Londra, bramava, senza ritardo, avere notizie della sua salute. Il fanciullo nel venir fuori aveva da lasciare aperti l'uscio del quartiere e la porta di strada. Io mi nascosi sul fianco della casa, in un chiassuolo tra la via ed il fiume. Il fanciullo suonò. S'udì una voce rabbiosa dall'ultimo piano: - Chi è? - Sta qui il tenente Remigio Ruz? - L'altro campanello, quello di mezzo: alla malora. Il fanciullo suonò all'altro campanello. Passò un minuto, che mi sembrò interminabile, e nessuno comparve; il ragazzo tornò a suonare; allora dal secondo piano una voce di donna chiese: - Chi è? - Sta qui il tenente Remigio Ruz? - Sì, ma non riceve nessuno. - Ho bisogno di parlargli. - Domattina dopo le nove. - No, questa sera. Hanno paura dei ladri? Passò un altro minuto e finalmente la porta si aprì. Remigio c'era! la gioia mi spezzava il cuore: mi si offuscò la vista e, non potendo reggermi sulle gambe, m'appoggiai alla muraglia. Poco dopo il fanciullo tornò: s'era fatto mandare al diavolo, ma aveva potuto lasciare l'uscio e la porta socchiusi. Mi tornarono le forze, diedi qualche moneta all'astuto monello, e, strisciando, entrai nella casa. Avevo previsto che mi sarebbero occorsi i fiammiferi; al pianerottolo del secondo piano v'erano due usci, sopra uno dei quali stava appiccato il biglietto da visita di Remigio; spinsi l'imposta, che cedette, ed entrai senza romore in una stanza quasi buia. Toccavo la cima delle mie speranze, sentivo già le braccia dell'amante mio, per il quale avrei dato senza esitare tutto quello ch'io avevo e la mia vita insieme, schiacciarmi impetuosamente sopra il suo largo torace, sentivo i suoi denti incidere la mia pelle, e pregustavo un mondo inenarrabile di allegrezze furiose. La consolazione mi fiaccava: dovetti sedermi sopra una seggiola, che stava accanto all'ingresso. Udivo e vedevo come se fossi immersa in un sogno: avevo perso il senso della realtà. Ma qualcuno lì d'appresso rideva rideva: era un riso di donna stridulo, sguaiato, sgangherato, che a poco a poco mi destò. Ascoltai, mi rizzai e, trattenendo il respiro, m'avvicinai ad un uscio spalancato, dal quale si vedeva in una vasta camera illuminata. Io stavo nell'ombra, né mi si poteva scorgere. Oh, perché in quel punto Dio non mi accecò! V'era una tavola, co' resti d'una cena; v'era, dietro alla tavola, un largo canapè verde su cui Remigio, sdraiato, faceva per gioco il solletico sotto l'ascella ad una ragazza, la quale sghignazzava, si sbellicava, si dimenava, si contorceva tutta, sforzandosi invano di svincolarsi dalle mani dell'uomo, che le dava baci sulle braccia, sul collo, sulla nuca, dove capitava. Io non mi potevo più muovere; ero inchiodata al mio posto, con gli occhi fissi, le orecchie tese, la gola arsa. L'uomo, stufo della burla, afferrò alla vita la ragazza, mettendosela a sedere sulle ginocchia. Allora cominciarono i discorsi, interrotti spesso da scherzi e da carezze. Sentivo le parole, il senso mi sfuggiva. A un tratto la donna pronunciò il mio nome. - Mostrami i ritratti della contessa Livia. - Li hai visti tante volte. - Mostrameli, te ne prego. L'uomo, rimanendo disteso sul canapè, alzò un lembo della tovaglia, aperse il cassetto della tavola e ne cavò delle carte. La ragazza, diventata seria, cercò fra quelle i ritratti e li guardò lungamente, poi: - È bella la contessa Livia? - Lo vedi. - Non mi capisci: voglio sapere se ti par più bella di me. - Nessuna donna mi può parer più bella di te. - Vedi, in questa fotografia il vestito da ballo lascia scoperte le braccia intiere e le spalle giù giù - e la fanciulla s'accomodava la camicia, confrontando con il ritratto: - Guarda, ti sembro più bella? L'uomo la baciò in mezzo al petto, esclamando: - Mille volte più bella. La fanciulla, accanto alla lucerna, fissando negli occhi l'uomo, che sorrideva, pigliò ad uno ad uno i quattro ritratti, e lenta lenta li lacerò ciascuno in quattro pezzi; e lasciava cadere quei brani sulla tavola in mezzo ai tondi e ai bicchieri. L'uomo continuava a sorridere. - Ma tu, cattivo, le dici pure di volerle bene. - Sai che glielo dico il meno possibile; ma ho bisogno di lei, e non saremmo qui insieme, cara, se non m'avesse dato il danaro che sai. Quei maledetti medici me l'hanno fatta pagar salata la vita. - Quanto t'è rimasto? - Cinquecento fiorini, che sono già in parte sfumati. Bisogna scrivere a Trento alla cassa: ogni parola dolce, un marengo. - Eppure - disse la donna con gli occhi pieni di lagrime - eppure mi pesa. L'uomo se la tirò vicina vicina sul canapè verde, mormorando: - Lagrime non ne voglio. In quel punto il cuore mi si rivoltolò dentro: l'amore era diventato esecrazione. Mi trovai nella strada. Andavo senza sapere dove; mi passavano accanto nella oscurità, urtandomi, gruppi di soldati, barelle, da cui venivano gemiti lunghi o strilli di dolore, qualche cittadino frettoloso, qualche contadino spaurito; nessuno badava a me, che scivolavo lungo i muri delle case ed ero vestita tutta di nero con un fitto velo sul volto. Riescii ad un largo viale piantato di alberi cupi, dove il fiume, corrente alla mia destra, rinfrescava un poco l'aria affannosa. L'acqua si perdeva quasi nelle tenebre; ma non mi venne, neanche per un attimo, la tentazione del suicidio. Era già nato in me, senza ch'io neppure me ne fossi avveduta, un pensiero bieco, ancora indeterminato, ancora annebbiato, il quale m'invadeva adagio adagio l'anima intiera e la mente, il pensiero della vendetta. Avevo offerto tutto a quell'uomo, ero vissuta per lui, senza di lui m'ero sentita morire, con lui ero salita in cielo; ed il suo cuore, i suoi baci egli li dava ad un'altra! La scena a cui avevo assistito, mi si dipingeva tutta dinanzi; vedevo ancora sotto a' miei occhi quelle lascivie. Infame! Corro per lui, superando ogni ostacolo, sprezzando ogni pericolo, gettando nel fango il mio nome: corro ad aiutarlo, corro a confortarlo, e lo trovo sano, più bello che mai e nelle braccia di una donna! E lui, che mi deve tutto, e la sua ganza, calpestano insieme la mia dignità ed il mio affetto e mi scherniscono e mi vituperano. E sono io che pago le loro orgie; e quella donna bionda si vanta, nuda, di essere più bella di me; e lui, lui (m'era serbato questo supremo obbrobrio) la proclama lui stesso più bella! Tante emozioni m'avevano affranto: l'ira, che bolliva dentro di me, aveva messo in tutto il mio corpo una febbre ardente, che mi faceva tremare le gambe. Non sapevo dove fossi; non volevo, né potevo farmi accompagnare da un passante fino all'albergo per chiudermi di nuovo nella carrozza; mi posi a sedere sulla sponda del fiume, fissando gli occhi nel cielo nero. Non trovavo requie; rientrai nelle vie della città; impazzivo; cascavo di fatica; da diciotto ore non avevo mangiato. Mi trovai per caso di contro ad una modesta bottega da caffè, e, dopo avere più volte girato innanzi alla vetrina, parendomi che non ci fosse nessuno, andai a pormi nel canto più lontano e scuro, ordinando qualcosa. Nell'angolo opposto, sdraiati sullo stesso sofà rosso, che circondava la sala vasta, bassa, umida e mezza buia, stavano due militari, fumando e sbadigliando. Poco dopo entrarono due altri ufficiali; un giovinetto, che poteva avere diciannove anni, lungo, smilzo, con i baffetti sottili, ed un uomo sui quaranta, tozzo, pesante, con il muso pavonazzo a bitorzoli ed a bernoccoli, le larghe sopracciglia nere come il carbone e due mustacchi sotto il naso grosso così folti ed irti che parevano setole; aveva in bocca una pipa boema, corta nel cannello, ma enorme nel camino, dalla quale uscivano ampie nubi di fumo, che andavano l'una dopo l'altra ad annerire il soppalco. Il giovinetto andò dritto a salutare gli ufficiali nell'angolo. Sentii che diceva: - Ne ho visti morire quaranta in due ore nella sala delle operazioni sotto i ferri dei chirurghi, i quali buttavano via braccia e gambe come se giuocassero al pallone, e trapanavano e aggiustavano teste ... - Bisognerebbe che aggiustassero quelle dei nostri generali - brontolò il Boemo, ghignando. Nessuno badava a me. Entrò, sola, una ragazza, pareva una crestaia, e si pose a sedere a lato dell'ufficialetto magro, chiedendogli ad alta voce: - Me lo paghi un caffè? Dopo alcuni discorsi, ai quali non posi attenzione, uno dei militari sdraiati disse alla ragazza, senza muoversi: - Sai, Costanza, ho visto il tuo tenente Remigio - Quando? - chiese la femmina. - Oggi. Sono andato da lui. Era insieme con Giustina. La conosci Giustina? - Sì, quella biondona, che ha tre denti rimessi. - Non me ne sono accorto. - Guardala bene. E come sta Remigio? - Qualche doloretto alla gamba, che lo fa guaire ogni tanto, e zoppica un poco, ecco tutto. È stata proprio una malattia provvidenziale quella. Gli altri arrischiano la pelle, si logorano nelle fatiche, nei calori d'inferno, nella fame, in tutte le maledizioni di questa guerra, e lui mangia, beve e sta allegro e trova chi lo mantiene. - Chi vuoi che lo mantenga quel buon mobile? - Una signora. - Una vecchia bavosa. - No, mia cara, una signora bella, giovane e, per giunta, milionaria e contessa e innamorata matta di lui. - E paga le bellezze del tenente? - Gli dà del danaro, e molto. - Povera sciocca! - Remigio la chiama la sua Messalina. Non me ne ha detto il casato, ma mi ha confidato ch'è di Trento e che ha nome Livia. C'è nessuno qui che sia pratico di Trento? L'ufficialetto smilzo disse: - M'informerò io e vi riferirò ogni cosa domani a sera, se saremo a Verona. Contessa Silvia, non è vero? - Contessa Livia, Livia, ricordatelo bene - gridò l'ufficiale sdraiato. Costanza riprese: - Ma Remigio è malato per davvero? - Oh per questo poi sì. Capisci bene che non la si dà a bere a quattro medici: uno del reggimento di Remigio, un altro scelto dal generale in un altro reggimento e due dell'ospedale militare. Ogni tre giorni vanno a visitarlo; palpano la gamba - e picchiano e tirano e lo fanno strillare. Una volta svenne. Ora sta meglio. - Finita la guerra, guarita la gamba insistette la Costanza. - Non lo dite neanche per ischerzo - osservò il secondo ufficiale sdraiato, il quale fino allora non aveva fatto sentir la sua voce. - Sai che per il solo sospetto di un inganno il tenente ed i medici verrebbero fucilati in ventiquattt'ore, l'uno come disertore dal campo di battaglia, gli altri come complici e manutengoli? - E se la meriterebbero, per Dio - esclamò ruggendo il Boemo senza cavarsi la pipa di bocca. L'ufficialetto aggiunse: - Il generale Hauptmann non aspetterebbe neanche ventiquattr'ore. A queste parole l'idea, che già mi stava in nebbia nel cervello, splendette di vivissima luce; avevo trovato, avevo risoluto. - Il generale Hauptmann! - ripetevo tra me. Le vampe, che mi salivano al capo, m'obbligarono a togliere del tutto il velo dalla faccia; bruciavo: chiamai perché mi portassero dell'acqua. Gli ufficiali, che allora s'accorsero di me, mi furono tutti attorno. - O la bella donna! - Ha bisogno di qualcosa? - Vuole un bicchierino di Marsala? - Possiamo tenerle compagnia? - Aspetta qualcuno? - Occhi stupendi! - Labbra da baci! - L'ufficialetto magro mi si era cacciato accanto sul sofà: essendo il più giovane voleva mostrarsi il più ardito. Mi svincolai dalle sue mani e cercai di alzarmi per fuggire, ma due altri mi trattenevano; il Boemo sudicio guardava e fumava. Mi rivolsi a lui gridando: - Signore, sono una gentildonna, m'aiuti e mi accompagni a casa, alla Torre di Londra -. Il Boemo si fece largo, dando degli spintoni di qua e di là e mandando quasi con le gambe all'aria l'ufficialetto novello; poi, duro, serio, mettendo in tasca la pipa, m'offerse il braccio. Uscii con lui. Durante la via, che non era lunga, mi disse poche e rispettose parole. Io gli chiesi chi fosse il generale Hauptmann, dove avesse il suo uffizio e altre notizie, le quali mi premevano per le mie buone ragioni. Seppi come il generale del Comando stesse in Castel San Pietro. Il portone dell'albergo rimaneva spalancato, benché il tocco dopo mezzanotte fosse suonato da un pezzo: c'era un grande andirivieni di militari e di borghesi. Ringraziai l'ufficiale, che puzzava di maledetto tabacco, e m'accomodai alla meglio sui cuscini della mia carrozza, posta in un angolo del cortile. Stracca morta com'ero, m'assopii tosto; ma mi destò in sussulto il picchiare forte di una mano sullo sportello. La voce rauca e volgare del Boemo ripeteva: - Sono io, signora contessa, io che vorrei dirle, col debito ossequio, una sola parola. Abbassai il cristallo, e l'ufficiale mi porse qualcosa: era il mio portamonete, dimenticato sulla tavola della bottega da caffè, mentre stavo per pagare e successe il tafferuglio. Lo avevano trovato e riportato i tre compagni di lui, il quale disse con gravità solenne: - Non manca né una carta, né un soldo. - Ma le carte sono state lette? - e pensavo alla lettera di Remigio, l'unica serbata da me e che non avrei voluto per cosa al mondo vedermi uscire di mano. - No, signora contessa. Sono stati visti i suoi biglietti da visita e il ritratto del tenente Remigio: niente altro, lo dichiaro sul mio onore. La mattina seguente, prima delle nove, mi feci condurre nella mia carrozza al Comando della fortezza. L'erta mi pareva interminabile: gridavo a Giacomo di frustare i cavalli. Una folla di militari d'ogni colore, di feriti, di popolani, ingombrava il piazzale innanzi al Castello; ma giunsi senza ostacoli all'anticamera degli uffizii, dove un vecchio invalido pigliò il mio biglietto da visita. Dopo qualche minuto ritornò, dicendomi che il generale Hauptmann mi pregava di passare nel suo quartiere privato, e che appena sbrigati certi affari urgentissimi, sarebbe venuto a presentarmi il suo omaggio. Fui condotta attraverso logge, corridoi e terrazze in una sala, che dominava dalle tre larghe finestre la città intiera. L'Adige, interrotto da' suoi ponti, si torceva in una S, avente la prima delle sue pancie a' piedi del monticello su cui sorge Castel San Pietro, e la seconda a' piedi di un altro bruno castello merlato; e sorgevano dalle case i culmini e le torri delle vecchie basiliche; e in un largo spazio si vedeva l'ovale enorme dell'Arena antica. Il sole mattutino rallegrava l'abitato ed i colli, e dall'una parte indorava le montagne, dall'altra gettava una luce placida sulla interminabile pianura verde, sparsa di villaggi bianchi, di case, di chiese, di campanili. Entrarono nella sala con fracasso di risa e salti due bimbe, le quali avevano il volto color di rosa e i capelli biondi paglierini. Vedendomi, di primo botto rimasero impacciate, ma poi subito si fecero coraggio e mi vennero accanto. La più grandicella disse: - Signora, s'accomodi. Vuole che vada a chiamare la mamma? - No, fanciulla mia, aspetto il tuo babbo. - Il babbo non l'abbiamo ancora visto stamane. Ha tanto da fare. - Lo voglio vedere io il babbo - gridò la più piccina. - Gli voglio tanto bene io al babbo. In quella entrò il generale, e le bimbe gli corsero incontro, gli si avviticchiarono alle gambe, tentavano di saltargli sulle spalle; egli prendeva l'una e l'alzava e le dava un bacio, poi prendeva l'altra; e le due pazzerelle ridevano, e negli occhi del generale spuntavano due lagrime di tenerezza beate. Si volse a me, dicendo: - Scusi, signora; s'ella ha figliuoli mi compatirà -. Si mise a sedere in faccia a me, e soggiunse: - Conosco di nome il signor conte, e sarei lieto se potessi servire in qualcosa la signora contessa. Feci un cenno al generale perché allontanasse le bambine, ed egli disse loro con voce piena di dolcezza: - Andate, figliuole mie, andate, dobbiamo parlare con la signora. Le bambine fecero un passo verso di me come per darmi un bacio; voltai la testa; se ne andarono finalmente un poco mortificate. - Generale - mormorai - vengo a compiere un dovere di suddita fedele. - La signora contessa è tedesca? - No, sono trentina. - Ah, va bene - esclamò, guardandomi con una cert'aria di stupore e d'impazienza. - Legga - e gli porsi in atto risoluto la lettera di Remigio, quella che avevo ritrovata nel taschino del portamonete. Il generale, dopo avere letto: - Non capisco; la lettera è indirizzata a lei? - Sì, generale. - Dunque l'uomo che scrive è il suo amante. Non risposi. Il generale cavò di tasca un sigaro e lo accese, s'alzò da sedere e si pose a camminare su e giù per la sala; tutt'a un tratto mi si piantò innanzi e, ficcandomi gli occhi in volto, disse: - Dunque, ho fretta, si sbrighi. - La lettera è di Remigio Ruz, luogotenente del terzo reggimento granatieri. - E poi? - La lettera parla chiaro. S'è fatto credere malato, pagando i quattro medici - e aggiunsi con l'accento rapido dell'odio: - È disertore dal campo di battaglia. - Ho inteso. Il tenente era l'amante suo e l'ha piantata. Ella si vendica facendolo fucilare, e insieme con lui facendo fucilare i medici. È vero? - Dei medici non m'importa. Il generale stette un poco meditabondo con le ciglia aggrottate, poi mi stese la lettera, che gli avevo data: - Signora, ci pensi: la delazione è un'infamia e l'opera sua è un assassinio. - Signor generale - esclamai, alzando il viso e guardandolo altera - compia il suo dovere. La sera, verso le nove, un soldato portò all'albergo della Torre di Londra, dove finalmente mi avevano trovato una camera, un biglietto, che diceva così: "Domattina alle quattro e mezzo precise verranno fucilati nel secondo cortile di Castel San Pietro il tenente Remigio Ruz ed il medico del suo reggimento. Questo foglio servirà per assistere alla esecuzione. Il sottoscritto chiede scusa alla signora contessa di non poterle offrire anche lo spettacolo della fucilazione degli altri medici, i quali, per ragioni che qui è inutile riferire, vennero rimandati ad un altro Consiglio di guerra. GENERALE HAUPTMANN". Alle tre e mezzo nella notte buia uscivo a piedi dall'albergo, accompagnata da Giacomo. Al basso del colle di Castel San Pietro gli ordinai che mi lasciasse, e cominciai sola a salire la strada erta; avevo caldo, soffocavo; non volevo togliermi il velo dalla faccia, bensì, sciolti i primi bottoni dell'abito, rivoltai i lembi dello scollo al di dentro; quel po' d'aria sul seno mi faceva respirare meglio. Le stelle impallidivano, si diffondeva intorno un albore giallastro. Seguii de' soldati, che girando il fianco del Castello, entrarono in un cortile chiuso dagli alti e cupi muri di cinta. Vi stavano già schierate due squadre di granatieri, immobili. Nessuno badava a me in quel brulichìo silenzioso di militari e in quelle mezze tenebre. Si sentivano le campane suonare giù nella città, dalla quale salivano mille romori confusi. Cigolò una porta bassa del Castello, e ne uscirono due uomini con le mani legate dietro la schiena; l'uno magro, bruno, camminava innanzi ritto, sicuro, con la fronte alta; l'altro, fiancheggiato da due soldati, che lo reggevano con molta fatica alle ascelle, si strascinava singhiozzando. Non so che cosa seguisse; leggevano, credo; poi udii un gran frastuono, e vidi il giovane bruno cadere, e nello stesso punto mi accorsi che Remigio era nudo fino alla cintura, e quelle braccia, quelle spalle, quel collo, tutte quelle membra, che avevo tanto amato, m'abbagliarono. Mi volò nella fantasia l'immagine del mio amante, quando a Venezia, nella Sirena, pieno di ardore e di gioia, m'aveva stretta per la prima volta fra le sue braccia d'acciaio. Un secondo frastuono mi scosse: sul torace ancora palpitante e bianco più del marmo s'era slanciata una donna bionda, cui schizzavano addosso i zampilli di sangue. Alla vista di quella femmina turpe si ridestò in me tutto lo sdegno, e con lo sdegno la dignità e la forza. Avevo la coscienza del mio diritto, m'avviai per uscire, tranquilla nell'orgoglio di un difficile dovere compiuto. Alla soglia del cancello mi sentii strappare il velo dal volto; mi girai e vidi innanzi a me il grugno sporco dell'ufficiale Boemo. Cavò dalla bocca enorme il cannello della sua pipa, e, avvicinando al mio viso il suo mustacchio, mi sputò sulla guancia ... * * * L'avevo detto io che l'avvocatino Gino sarebbe tornato. Bastò una riga: Venite, faremo la pace perché capitasse a precipizio. Ha piantato quella bamboccia della sua sposa una settimana innanzi al giorno destinato pel matrimonio; e va ripetendo ogni tanto, stringendomi quasi con la vigoria del tenente Remigio: - Livia, sei un angelo!

La scuola di ballo

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Loria, Arturo 1 occorrenze

Una perfezione sognata, un'odalisca da gran principe era davanti ai suoi occhi e li sentiva ciechi, abbacinati. Bevve, si alzò, venne vicino a lei che il grido aveva impaurito e: «Brava! Brava!» mormorò con una voce arrochita di cui gli altri uomini provarono disgusto e gelosia. «Brava!» ripetè. «Lasciatevi vedere, odalisca. Questa è la gran notte del mio povero Caffè arabo. Ho sempre sognato d'esser arabo» confessò traboccando di mescolate emozioni. «L'amore dev'esser più bello per loro.» L'uscita destò una secca, ironica ilarità negli ospiti e l'irritata protesta del magrino dagli occhiali che si mise a spiegare come ogni popolo abbia delle idee sbagliate a questo proposito sugli altri. Per sua esperienza tutto il mondo era paese. Trascinato da una foga vendicativa, non si peritò a dire che molti uomini capiscono l'amore solo in maschera, dimostrandosi degni di quella o di quell'altra categoria internazionale di viziosi. La ragazza, tornata al suo posto per mangiare il dolce e la frutta, appariva impensierita di tutto quello sfogo contro il fascino orientale, e un po' s'accigliava e un po' rideva con un'altra se stessa che l'era allegra compagna nell'avventura. Il meticcio ridacchiava coi professori e i commercianti, affermando che le città europee insegnavano a tutti i popoli in materia d'amore, perfino a lui, misto di razze lussuriose e raffìnatissime. Il caffettiere taceva non sapendo se sentirsi offeso o no dal discorso del magrino, però, siccome aveva l'odalisca seduta accanto, prendeva vantaggio di arie da padrone tenendo la mano sulla spalla di lei che non ci faceva caso: ogni tanto s'alzava a offrir vino in giro per ricordare agli altri che erano suoi ospiti. Fu bussato alla saracinesca. «È mia moglie certamente» fece il giocoliere per calmare la nuova inquietudine che veniva a tutti da quel colpo. «Viene a prendermi: siam d'accordo così.» Intanto l'inserviente aveva aperto. La donna meschina e grigia esitò sulla soglia, smarrita di non riconoscer nessuno di quegli uomini travestiti. «Entrate, entrate presto» ruggì il padrone. «Avete paura, o volete che tutti ficchino il naso negli affari nostri?» Impaurita ella si fece avanti: scrutava tutti con gli occhi rossi di piagnona. Scoprì finalmente il marito: allora corse a lui come a un porto di salvazione. «Beh! Sedetevi, mangiate, bevete, già che siete venuta» gli fece il caffettiere indispettito da quella presenza miserevole e di cattivo augurio. «E voi, presentatela, vostra moglie, a questi signori. Mi dispiace proprio, ma per lei non ho un altro costume da odalisca.» Tutti risero forte, anche il giocoliere che l'aveva messa a tavola e le porgeva i piatti di dolci come a dirle: "To', godi, e poi va' a raccontare alla gente ch'io son cattivo!". Si vide tentennar d'ira la testa grigia di lei. «Non lo vorrei neanche» rispose umilmente e, reclinando il capo, si mise a piangere. «Siete cattivo» disse la ragazza al caffettiere, e si mosse per offrir le sue consolazioni alla vecchia. Egli le tenne dietro, scusandosi che aveva voluto fare uno scherzo innocente, senza offese. Volle versar da bere alla sua vittima, riempirle di biscotti una gran borsa nera di tela cerata, protestando la sua amicizia con parole e carezzine. Rasserenata la vecchia, e finiti quei convenevoli, il padrone annunziò che il caffè sarebbe stato servito nel sotterraneo. «Molti di loro non lo conoscono, perché non si son mai azzardati a scenderci anche quando era una cosa allegra. Andiamo?» In fondo alla sala una ringhiera faceva riparo al pericolo di precipitar giù per una scala aperta al livello del pavimento. L'ospite scese per primo. Contro l'ultimo scalino una porta tagliata entro una nicchia portava scritto: "Notti d'Oriente". «Vedete?» fec'egli volgendosi a guardar gl'invitati che scendevano dietro a lui. Spinse la porta e girò una chiavetta di luce elettrica. Insieme a un odore un po' sgradevole di cantina e di stoffe rinchiuse usci dall'antro una fioca luce verde, rossa e azzurra, che si divise in macchie oleose sulla pietra degli scalini. «Avanti a tutti l'odalisca» fece il caffettiere che sentiva la ragazza ridere, premuta dagli uomini complimentosi e struscioni. Ella si liberò e fu la prima a entrar nel sotterraneo. Era una saletta quadrata, dal soffitto a volta dipinto a stelle e ad arabeschi d'oro su fondo cupo: nel muro opposto all'ingresso una gran nicchia aveva dentro una sorta di trono o di alcova sormontata da un baldacchino a mezzelune d'argento. Intorno alla tazza asciutta di una fontanina posta nel centro c'eran divani e tavolinetti sui quali enormi vassoi d'ottone velati di polvere riflettevano sordamente il lume composito delle lampadine a vetri colorati, sospese in alto, giro giro. Dai tappeti e dai cuscini dei vari giacitoi veniva un seccume ch'entrava nelle nari e dava il sospetto di prurigine per. le parti che dovevan sedervisi. Il caffettiere cercò sotto una botola una chiavetta e il primo getto gorgogliante e faticoso della fontana sprizzò alto, si spense e risalì fino a una zona dove si caramellò di verde e di rosso. «Bene! Molto bello!» approvarono gli ospiti, ma rimanevano in piedi, aggirandosi tra i divani e i tavolini come se cercassero un pretesto per andarsene. «Sedetevi, signori. Avremo qui il caffè e i liquori.» Vinta l'esitazione, qualcuno cominciò a sedersi sui divani scricchiolosi provocando il cadere a terra di una pioggerella minutissima d'imbottiture ridotte in polvere. Era rimasta libera l'alcova. Là il padrone condusse la ragazza a sedersi. Egli aveva gli occhi un po' lustri e la mano carezzevole sulla schiena di lei. Vennero il caffè e i liquori. Essere in pena che non trovava posto né pace, la moglie del giocoliere cercava l'unica vicinanza del marito, il quale faceva di tutto per scansarla, seccato di vedere il suo meticcio scontento. Tenace, ella lo seguiva ad ogni cambiamento di posto. L'uomo, allora, insieme ad uno sguardo di minaccia, le offriva bicchierini di liquore in segno di squisita attenzione e tentava poi di lasciarla lì, accanto al vassoio delle bottiglie. Quando vide che la sua manovra era inutile, si buttò furibondo in un sofà, e l'attirò giù a sedere, fingendo una di quelle improvvise tenerezze ch'esibiscono i vecchi sposi tra molta gente. Il rumor dell'acqua e il vederla fornivano un senso fresco che ingoiava il secco entrato nelle nari insieme all'odore delle stoffe tarlate e imbevute di polvere. In quella tregua venne ad ognuno di prendere un aspetto indolente e orientale. Chi era già recline sul divano, vi si coricò, e con la testa in basso e le gambe alzate su qualche appoggio lasciava lo sguardo perdersi nelle nuvole di fumo odoroso che mandavano gl'incensi accesi dal padrone accanto all'alcova, o nella contemplazione dei piedi chiusi dentro le babbucce ricamate. Le voci eran divenute discrete, velate. Poi ci fu un silenzio, un invito al sogno e al sonno che i passi del cameriere che scendeva la scala, ruppero di sorpresa. Ognuno si ricompose e guardò all'alcova. Caffettiere e odalisca eran decentemente seduti un po' discosti l'un dall'altra, e meditavano, seri seri. C'era però intorno a loro il senso di una inquietudine dominata, di quella forse che segue al rifiuto della donna offesa da un troppo ardito tentativo. L'immobilità trasognata di lei poteva nascondere lo sdegno, la fissità quasi sofferente di lui, rivelava piuttosto quello speciale atteggiamento del punito che chiede perdono per poter ricominciare l'assalto col vantaggio di un tacito discorso che ha rotto i primi pudichi preliminari. Comunque ebbero tutti coscienza che un lavoro di seduzione spicciola era stato iniziato nel momento del loro riposo, e l'invidia creò un'ira serpeggiante da l'uno all'altro, tanto più che la ragazza, volgendosi al padrone sempre assorto nella sua afflizione, sorrise come a concedergli quel perdono. Un sottile desiderio di guastare l'intesa e prender vendetta invase gl'invitati maschi: la vecchia rideva e tuffava il capo grigio in seno al suo uomo, sguaiatamente letificata da quella atmosfera, ma dopo alcune parole di lui, sussurratele all'orecchio fra tigreschi sorrisi, finì in un pianto ancor più molesto dello sghignazzare di prima. Il caffettiere aveva preso una mano della ragazza e gliela carezzava sorridendo. La coppia seduta nell'alcova si isolava così, senza pensiero degli altri, che si sentiron considerati come dei cari eunuchi, testimoni obbligatori di un tale approccio amoroso. Nessuno protestò con un grido o con un gesto all'orrore dell'immagine, ma ad un vendicativo resultato ciascuno giunse ugualmente fissando la ragazza ed esprimendole senza vergogna il proprio bisogno di consolazione fisica, chiedendo, implorando per pietà un segno, un cenno che lo chiamasse il favorito. Il caffettiere, turbato dai suoi ricordi e dalla ricchezza delle impressioni e delle speranze nuove, s’era distratto; però manteneva la mano sulla spalla di lei. Quell'avanzata collettiva di desiderio e di passione fu una rivelazione improvvisa per la ragazza che sussultò di sgomento. Il suo compagno, così avvertito, rise imprudentemente con la prontezza con la quale grida lo scottato, e gli altri aggiunsero alla loro ira quella per esser stati scoperti nel tentativo malizioso. Tutti risero, dopo, ma silenziosamente, come se capissero la loro sfortuna e disincantati vi si rassegnassero. Ma un resultato lo avevano ottenuto togliendo a lei l'incoscienza della sua posizione. La ragazza sorrideva, ora, non sapendo cos'altro fare, mentre da ogni parte le veniva risposto con una amorevolezza che prendeva impegno di nutrirla, di vestirla, di mantenerla e amarla quanto una sposa. Emanava da quegli egoismi una bontà nuova per lei, avvezza a star coi giovani: era una rinuncia a tormentarla per gelosia del suo passato, era un comprender largo, un prometter più cure che passione; ed ella capì il proprio valore relativo agli uomini ch'aveva d'intorno. Non le parvero più vecchi, né ripugnanti nelle loro profferte, anche perché il costume esotico li salvava da una rivelazione precisa delle brame, concedendo al loro contegno una fantastica libertà da attori che fanno la pantomima. Però uno tra tutti la turbava: era il meticcio. In lui non c'era influsso del travestimento: prometteva in modo chiaro larghi compensi. Eppure lo vedeva bello, così bruno di pelle e armonioso nei movimenti, ne indovinava come un futuro pericolo i successi tra le invidiate donne dei varietà, ne subiva il fascino d'uomo notturno, danzatore e bevitore vizioso. Era tentata e provocata da quella fredda attesa, e avrebbe voluto vederlo goloso e ridicolo come gli altri per non trovarsi più davanti al rischio che lui rappresentava d'una vita per la quale ricordava l'orrore appreso da bambina nei discorsi uditi in casa, pieni d'ingiurie e di maledizioni. Dovette volger sugli altri lo sguardo per sentirsi la bianca caduta in un'oasi di predoni paciocconi e paterni. «È vero:» confessò liberamente «ero affamata stasera. Da ieri mattina non mangiavo» e le parve con quella frase di rinunziare ad ogni attrattiva per il meticcio lussuoso, di ritornare a un mondo capace di sentir certe miserie di buona figliola. Un sospiro affannoso le ridette coscienza che il caffettiere era seduto accanto a lei. Si volse a guardarlo e sorrise di gratitudine quand'egli mormorò: «Poverina! Poverina!». Reclinando il capo si vide indosso il bel costume di donna araba e n'ebbe vergogna, desiderò di distogliere da sé tanti sguardi che dopo la sua confessione eran divenuti speranzosi e vivaci quasi per effetto di un liquore generoso. Un po' inquieta si accomodò, raccogliendosi tutta in un gesto pudico, poi vide l'altra donna dai capelli grigi come una protezione, un'ancora di salvezza, e con un cenno gentile la chiamò a sé. Quella venne correndo: il marito lanciò al meticcio un'occhiata di trionfo. Da quel momento il caffettiere temette le male arti della vecchia e non pensò più che al modo più sbrigativo di sbarazzarsi di lei e di tutti i suoi ospiti. S'alzò e salì nel caffè. Ci fu un silenzio d'attesa. La vecchia aveva strinto affettuosamente la ragazza e: «Bimba mia» le sussurrava «la fortuna va presa per i capelli. C'è qui un signore che può farvi un avvenire. Pensate che a giorni sarà padrone di un teatro di varietà. M'avete capito?». Intanto il meticcio s'era avvicinato fingendo d'osservar gli arabeschi dipinti nell'alcova, ma niente sfuggiva agli altri che sorridevano e ammiccavano, sebbene il giocoliere esprimesse a gesti che non ne vedeva il perché. Silenzioso e monumentale il padrone riapparve sulla porta del sotterraneo. Comprese il maneggio avvenuto nella sua assenza: la megera tentava, a favore del suo rivale, la bella fanciulla, ma si tenne calmo, per non compromettere con un errore la vittoria che sentiva di meritare. «Mi dispiace molto» annunziò «ma l'ora di chiusura per un locale come il mio è già passata. Non vorrei trovarmi a delle seccature.» Tutti si levarono in piedi. «No, no: c'è tempo ancora per un bicchierino. Lo dicevo così, tanto per avvertire.» Il magrino dagli occhiali s'avanzò risolutamente verso l'alcova. «Signorina» disse «le sono molto grato. Lei ha dato un po' di sorriso a noi uomini per solito poco allegri» e le baciò rispettosamente la mano. «Spero d'incontrarla ancora.» Fece un inchino al caffettiere. «Serberemo il ricordo di questa bella serata. Vi auguro di trovar presto un'iniziativa felice.» I due professori fecero dei saluti più sbrigativi e lo seguirono su per la scaletta. «La scienza è partita» gridò il padrone, e c'era nella sua voce la maliziosa attesa di veder presto partire anche l'industria e il commercio. I rimasti compresero e vennero a salutare la ragazza. «È tardi» disse ella scendendo dall'alcova «anch'io devo partire.» «Allora signorina, io e mia moglie possiamo accompagnarvi.» Il caffettiere lanciò un'occhiata furibonda al giocoliere, ma lo vide corazzato, imperturbabile, allora tentò una estrema difesa del suo bene. «Vi dico che la signorina l'accompagnerò io. Sta lontano di casa e intendo offrirle il viaggio in carrozza.» «Se è così, m'arrendo» rispose l'altro vedendo che il meticcio gli faceva segno di lasciar andare, e si diresse con la moglie verso la scala. Il meticcio, il padrone e la ragazza lo seguirono. Giunti su nel caffè, le voci dei primi chiusi nello stambugio col servizievole cameriere ricordarono che bisognava mutar d'abiti. «La signorina aspetterà che i signori abbiano finito» disse il caffettiere col tono di un ordine, e spinse tutti, anche la vecchia, nell'anditino. «Andate ad aiutar vostro marito» le impose. La porta dello spogliatoio nessuno l'aveva rinchiusa. Gli ospiti pigiati là dentro buttavano via i mantelli e i giubbetti restando in camicia con acrimoniosa, deliberata mancanza di rispetto verso la donna destinata a un altro. Qualcuno veniva in sala ancor sbracalato per abbottonarsi, tossicchiava e rientrava nell'andito donde un terzo usciva già vestito, tornando alla solita vita disadorna e compassata. Gli addii furono cortesi, ma senza gratitudine. Il meticcio venne a stringer la mano del caffettiere, gli sorrise come a un rivale buon vincitore, poi si volse a salutar lei che lo sentì tanto sicuro della sua rivincita che con un gesto vago gliela promise per l'avvenire. «Quando han fatto andrò anch'io a vestirmi» disse ella. «Come? Anche voi?» sussurrò piano ma disperatamente il caffettiere e girò gli occhi intorno per sincerarsi che nessuno poteva udire. «Restate ancora un po', ve ne prego. Ho da dirvi una cosa» e si precipitò ad aiutare un ospite che faticava a infilarsi la giacca. Mentre tutti salutavano al passaggio della saracinesca alzata a metà, egli si teneva accanto a lei, vigile, e sospettoso come un carceriere che teme d'aver concesso troppo ai visitatori. L'ultima schiena nera s'abbassò sotto il bandone: egli n'afferrò l'appiglio, tirò giù con forza e spinse fino in fondo, aiutandosi col piede. S'accorse allora del cameriere. « Quanto hai fatto di mancia?» domandò. «Poca roba, se devo dire la verità.» «Pigliati quello che c'è nel cassetto e va' a dormire. Per i nostri conti ci vedrem domattina a casa mia.» Commosso, il cameriere volle stringere in un abbraccio il suo padrone, poi a inchini esprimere alla ragazza la sua devozione anche per lei. Indugiava a partire, fermo nel centro della sala, come volesse fare un malinconico saluto al caffè. Infine sentendosi di troppo, sparì silenziosamente per il corridoio della cucina. «E ora torniamo giù» propose dolcemente il caffettiere. «Parleremo meglio. Voi siete la mia gazzella, non è vero?» e gli tremava d'ansia la voce. Non attese risposta: girò la chiave della luce per spegnere i tre ordini illuminanti della sala. Gli altri di fuori videro il caffè sparire nel buio, la casa ricomporre la sua architettura fin giù al marciapiedi solo un lucore rimase dietro ai vetri che veniva da. profondo mistero della notte araba.

VORTICE

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Oriani, Alfredo 1 occorrenze

Egli cogli occhi abbacinati non la vedeva ancora bene, aveva la testa pesante, la bocca pastosa. - I bambini sono già andati a messa con Anastasia, - seguitò Caterina: - Se avessi visto, quando abbiamo provato loro le vestine nuove! Ada si è messa a piangere. - Perché? - Voleva un nastro celeste alla cintura, come quello di Carlino. Caterina si era appressata al letto. Portava il solito abito di lanetta azzurro-cupa, che dava un bel risalto alle sue carni fresche di bionda; l'abito aveva, secondo la moda oramai vecchia di qualche anno, le maniche a sbuffi verso la spalla e la gonna, quasi corta, pieghettata sui fianchi. Il suo viso calmo, con un principio di pinguedine sotto le guance, aveva sempre la stessa espressione di bontà; qualche lentiggine le macchiava i pomelli, gli occhi troppo rotondi e quasi bianchi non dicevano gran cosa, ma il suo sorriso era dolce come sempre. - Non ti alzi? - Sì, aspetta. - Ti aiuterò io: ho mandato i bambini a messa, perché, così vestiti di nuovo, con me non sarebbero stati fermi, in chiesa. Carlino era in un orgasmo incredibile. Io andrò sola alla messa delle dieci e mezzo in S. Bartolomeo, poi torno a casa per condurli a fare un giro nel corso. Sono tanto carini così, li vedrai! Egli si era svegliato, al solito, in quella camera, nella quale tutto gli era famigliare. Il mobilio in noce si componeva di un letto, due comò, l'armadio collo specchio, un tavolino da toeletta e due portacatini, uno per lui e uno per Caterina, nascosti nell'angolo dietro l'armadio. Ma i comodini erano ricoperti di un piccolo ricamo bianco ad uncinetto, perché i candelieri e i bicchieri dell'acqua per la notte non ne sciupassero la lustratura. L'aria ed il sole avevano riempito allegramente la camera. Caterina andò nella saletta a prendergli i panni già spazzolati. - Avresti potuto spogliarti qui, stanotte. - Non volevo disturbarti. - Ti ho sentito ugualmente. Alzati, dunque, vado a prenderti l'acqua fresca. Egli si accorse di avere le ossa indolenzite. Improvvisamente quel pensiero dimenticato lo riassalse. Quando Caterina tornò con la brocca bianca nella mano, egli guardava la parete con gli occhi spaventati. - Muterò l'asciugatoio dopo; per questa mattina ti puoi ancora servire del vecchio; - e ne aveva già tolto un altro dal comò, a lunga frangia candida, ornato da due grandi lettere sottili, a colori rosso e turchino. Ma siccome l'altro non si alzava, si voltò ad osservarlo. - Mi sembri pallido: hai dormito male? - No, no, - rispose nervosamente, allungando un piede fuori dalle lenzuola per cercare le pantofole; poi così in camicia, coi piedi nudi, venne a mirarsi nello specchio della toeletta. Infatti aveva l'aria sparuta; chiazze plumbee gli macchiavano la pelle, gli occhi gli si erano affossati; si vide dimagrito, invecchiato, con un senso doloroso di sorpresa. - Tu hai qualche cosa, - disse nuovamente Caterina, venuta per di dietro a guardare nello specchio. - Ti dico di no: chiudi piuttosto i vetri della finestra. - Con questo bel sole! Intanto li chiudeva. - Ti farò un caffè, se hai rimasto qualche cosa d'indigesto nello stomaco. Finalmente fu solo. Tutta la lunga tempesta della notte gli si ripresentava nella memoria, piuttosto indolenzita che calmata dal sonno pesante di quelle poche ore, e gli ricominciava nella coscienza quella novità insopportabile del sentirsi straniero nella propria casa. Daccapo il freddo lo sorprendeva, così in camicia, malgrado il tepore dell'aria e l'impeto rutilante del sole, che passava trionfalmente attraverso i vetri. Per rischiararsi la mente si affrettò a tuffare il viso nel catino. Ordinariamente la sua toeletta era svelta e poco accurata; si lavava il viso, poi colla spazzola si ravviava i capelli, non aveva altre abitudini di culto per sé medesimo. Ma dopo essersi asciugato davanti allo specchio, si vide colla stessa faccia di prima, anzi gli occhi gli si tornavano a gonfiare. Quindi si rimise la camicia del giorno innanzi cogli stessi abiti. - Ma come! - esclamò Caterina rientrando nella camera, dopo aver lasciato il caffè a precipitare lentamente entro la cocoma sul focolare della cucina: - non ti cangi il vestito? Hai ancora la camicia di ieri, oggi che è domenica. Egli alzò le spalle, ma l'altra insisteva. - Che importa? - Lo hai sempre fatto tutte le domeniche. - Non lo farò più. - Che cosa? Per non spiegarsi egli tentò di sorridere scrollando la testa; però pensava che altri, vedendolo a quel modo, poteva fare la stessa osservazione di Caterina. Dovette andare con lei in cucina a prendere il caffè. Sul fornello fumava la pentola, una coscia di capretto infilata nello spiedo stava entro un piatto sulla tavola, poiché in casa non avevano gatti; era questa una mania di Caterina. - Oggi Anastasia farà anche una piccola zuppa inglese per i bambini; avranno quest'altro piacere, dopo quello degli abitini nuovi. E la mamma sorrideva contenta nel pensiero della sorpresa, alla quale i piccini avrebbero battute le mani a tavola gridando. Poi l'interrogò sulla gita a Bologna: come mai aveva potuto fare tanto tardi? Che cosa era successo? - A proposito, aspetta: me n'ero scordata. E scappò, ritornando indi a poco colla faccia attonita. - L'hai presa tu? Avevano portata una lettera. - Sì, - egli rispose con voce strozzata. - Niente d'importante? - Niente. Dopo questa parola egli depose la tazza del caffè sul focolare, invece di accostarla alle labbra. - Vi avrò messo poco zucchero; a te piace che tutto sia dolce. - Già! Vuotò la tazza, e tornò nella camera per finire di vestirsi; aveva fretta di uscire. - Ma non aspetti i bambini? Eccoli! - ella gridò sporgendosi dalla finestra, che aveva riaperto. Due minuti dopo i fanciulli entravano trionfalmente nella camera, e correvano ad abbracciare le ginocchia del babbo, più guardingamente del solito in quella vanità dei vestitini nuovi. Al vederli così belli egli stentò a frenare le lagrime; cadde sopra una sedia e si mise a baciarli furiosamente; essi ridevano, Caterina sorrideva, ma Anastasia protestò. - Vuole dunque spiegazzare tutto, mio Dio! è proprio così; - e con una mano afferrando quella di Ada, l'aveva già tirata indietro. Carlino invece si era arrampicato sulle ginocchia del padre. - Io vado, - riprese Caterina, - tornerò a prendervi fra un'ora: non vi sporcate, piccini! Mi raccomando, Anastasia. - Io... come si fa? debbo preparare l'arrosto: riconduca i bambini a messa con lei. - Figurati! mi farebbero impazzire, adesso che l'hanno già ascoltata con te. - Ci baderò io, - egli esclamò con voce intenerita. - Allora facciamo così: siccome andrò dalla zia Matilde per mostrarglieli, vieni anche tu. È un pezzo che le dobbiamo una visita, ci sdebiteremo tutti insieme. Anastasia era passata nello stanzino per cangiare abito prima di rimettersi a cucinare; egli sempre più tremante entrò coi due fanciulli nella saletta. La prima cosa che vide, fu appunto il cavallo di Carlino, ancora sdraiato sopra la sedia, colla zampa rotta sino quasi alla spalla e le rotelle del piedestallo sgangherate. Il sogno misterioso della notte gli ritornò alla memoria, rinnovandogli la stessa angoscia, come se davvero un medesimo destino unisse suo figlio a quel giocattolo. Si era riseduto su quella sedia, mentre i bambini giravano intorno alla tavola svogliati. Non sapeva più che cosa dire loro. Una tenerezza di lagrime gli ammolliva il cuore; i due fanciulli erano belli, Ada maggiore di due anni, così abbigliata, aveva già della donnina nelle movenze. I magnifici capelli biondi, sciolti sulla schiena, brillavano nel fulgore dell'oro, incorniciandole il viso illuminato soavemente da due grandi occhi chiari, assai più vivi che quelli della mamma. Aveva una pelle di gelsomino e un'ineffabile freschezza sulla bocca; Carlino invece più tozzo, bruno, coi capelli corti e il nasino all'in su, pareva un contadinello, che si movesse goffamente, con quella pesantezza così esilarante nei bambini. - Siete stati a messa? - egli ricominciò. - Sì, - rispose Ada: - Amelia mi ha sempre guardata, poi mi mostrava alla mamma, perché ero meglio vestita io. - Ah la superbetta! e tu Carlino? - Lui non s'è voluto inginocchiare per non sporcarsi i calzoni. Infatti anche adesso tornava a mostrarli superbamente così puliti, senza una appannatura al ginocchio. Egli dovette alzarsi per resistere alla emozione; lo spettacolo di quella letizia, così primaverile ed inconsapevole, gli produceva come uno stordimento doloroso; avrebbe voluto dir loro qualche cosa, ed invece stentava a frenare certe grida, che gli salivano impetuosamente dal cuore. Che cosa aveva dunque deciso nella notte? Una debolezza gli era rimasta in tutti i nervi da quei sogni, nei quali doveva aver sudato come sotto un accesso di febbre. Tratto tratto le mani gli tremavano. - Che cos'hai, babbo? - chiese improvvisamente Ada, impressionata dalla fissazione del suo sguardo. Invece di rispondere egli rientrò nella camera per prendere la rivoltella dal tiretto del comodino; ma poté cacciarsela appena nella tasca interna della giacca, che i due fanciulli gli erano daccapo fra le gambe. - Andiamo in cucina, - disse con un ultimo sforzo. Anastasia aveva riacceso il fuoco ed infilava lo spiedo nel girarrosto. - Ecco! - proruppe subito: - perché qui? vuole che si sporchino? Se la signora Caterina vedesse... Carlino si era già troppo appressato al focolare. - Indietro, marmottina: vedete un poco! gli hanno messo l'abitino nuovo solamente da un'ora. Allora egli dovette sorridere e ritirarsi coi due fanciulli sopra una sedia presso la tavola, lasciandosi sgridare; ma l'altra, che doveva preparare di nascosto la zuppa inglese, e temeva soprattutto un rabbuffo dalla padrona se i bimbi avessero macchiato le vesti, seguitava: - Lo sa pure anche lei che debbo preparare quella cosa: perché stanno qui? - Non aver paura, ci bado io. - Sì, lei! ci saranno dei guai anche oggi. Ma Ada, col suo garbo di donnina, l'ammansì chiedendole quale minestra avrebbe fatto in quella domenica. - Il risotto alla milanese. Ada batté le mani. - Indietro adunque; state tranquilli col papà, o vi mando via tutti. La cucina, piccola, non riceveva luce che da un cortiletto morto; v'era una madia e un largo tavolo rettangolare appoggiato al muro. La pentola gorgogliava fra lo scoppiettio della fiammata accesa per l'arrosto. Padre e figli rincantucciati dietro la tavola si facevano delle carezze in silenzio: egli li aveva ricinti con un braccio e lisciava loro i capelli coll'altra mano. - Dammi un soldo, - domandò improvvisamente Carlino. - E a me? - proruppe Ada. - Tu sei già una donnina. Il complimento fece effetto. Egli si era tratto un soldo dalla tasca, lasciando che Carlino glielo ghermisse di mano come un gatto. - Che cosa ne farai? non hai nemmeno la tasca. Ma osservando quel soldo, il fanciullo si accorse che era bucato. - Cambiamelo. - No, non lo spendere oggi, avvezzati a risparmiare. Era esausto. Si volse ad Anastasia, scappando nella propria camera a prendervi il cappello: - È tardi, io debbo andare. Un minuto dopo riapriva, col cappello in testa, l'uscio della cucina, che dava sull'anticamera; i fanciulli erano ancora presso la tavola esaminando il buco di quel soldo. - Anastasia, mi capisci? quella cosa cerca di farla grande. Che siano contenti, che siano contenti! * * * Era uscito di casa quasi fuggendo, ma appena sulla strada la vivezza della luce lo arrestò. Passava molta gente, una indefinibile allegrezza si espandeva nell'aria col suono delle voci da tutta la festività delle faccie e delle vesti; le finestre sembravano aperte alla letizia sopra le botteghe chiuse nella tranquillità del riposo. Egli si sentì stravagante. Istintivamente si riadattò il cappello sulla testa ed allentò il passo, dirigendosi verso la barriera, oltre la quale si scorgevano le ali troppo alte del ponte in ferro fra il borgo e la città e subito dopo, nell'avvallamento del suolo, un grosso gruppo di case dipinte di giallo. Fuori, la via di circonvallazione era fiancheggiata da masse enormi di sabbia che s'imbiancava al sole; di quando in quando un parapetto giallognolo impediva alle carrozze e ai passanti di pericolare nel fiume, già scarso di acqua fra le ripe scabre e senza piante. Ma anche lì proseguiva la festa della domenica. I soliti operai non trascinavano su per le ripe, col viso adusto, i calzoni rimboccati fin sopra il ginocchio, ansando e vociando, le carriole cariche di sabbia sgocciolante. Non passavano carrette: i contadini allegri ritornavano dalla città ai campi, dopo la messa; piccoli scolari vagabondavano nell'ozio e nella incertezza del chiasso, col quale stordirsi. Infatti le loro scaramuccie accadevano sempre nel pomeriggio. Di qua e di là del fiume i campi si stendevano sotto al sole, in una gioia verde, lampeggiante di sorrisi nel tremolio delle foglie, mentre gli uccelli festanti in quel mese degli amori si inseguivano per l'aria rapidi e bruni, o s'arrestavano talvolta sulla cima flessibile di una fronda quasi ad ammirare l'incantevole mattino. Egli solo camminava cupamente preoccupato. Lungi, dinanzi ai suoi occhi, le prime vette dell'Appennino sfumavano il proprio verde sul ceruleo dell'aria, entro una leggerezza di vapore trasparente. Alla prima svolta, fra mucchi di ghiaia e di sabbia, si fermò a guardare il cimitero dei cavalli: era un lembo di terra sommossa, a picco sul fiume, brulla e triste; dirimpetto biancheggiava silenziosa una pila da riso, che il padrone milionario aveva per capriccio chiusa da gran tempo, e le sue bocche da acqua, vuote ed aride, rimanevano indarno inclinate sul fiume dentro un'ombra, che rendeva anche più cupa la loro tenebrosa profondità. Un ragazzo in bicicletta gli passò rasente a volo. Egli lo seguì macchinalmente cogli occhi, e lo perdette in cima alla salita, dalla quale sparve strisciando come una rondine. Non sapeva ancora dove andare; ma la città gli faceva paura in quel giorno. Tutti vi erano sfaccendati, la requie della domenica rendeva la gente più occupata dei fatti altrui e più dura verso coloro che non potevano né riposarsi né godere del riposo comune. Oltrepassò il ponte, bel ponte di un arco solo, che la gente chiamava Rosso, non si sa perché; poco lungi il camino tozzo ed alto di un mulino a vapore fumava malgrado la domenica, un vecchio cane bracco era sdraiato al sole dinanzi alla porta, alcune anitre si dondolavano pesantemente col collo ripiegato, frugando del becco il terreno intorno. Volse a sinistra per un sentiero, che fra la riva e gli orti, passando dietro il cimitero monumentale, benché i monumenti vi siano scarsi e brutti, si allontanava per ombre incerte di acacie. Allora, finalmente solo, respirò. Al di sotto, il fiume non era più che un canalaccio dal letto melmoso, nel quale l'acqua stagnava in lunghe pozzanghere opache; di fianco, invece, gli orti lussureggiavano. La gamma dei loro verdi vibrava tutta nella luce, mentre la poca terra scoperta era così umida e scura che, guardando bene, si sarebbe creduto di vederne salire i vapori nel sole. Ma egli camminava invece a testa bassa, preoccupato dall'angusto sentiero slabbrato, pel quale non sarebbe stato molto difficile mettere il piede in fallo. Guardò se v'erano pescatori, qualcuno di quei maniaci, che venivano spesso a passare lunghe ore seduti sopra uno sghembo della sponda, con una canna e una lunga lenza inutile. Nessuno! I muraglioni muffosi del cimitero arrivavano fino quasi sul fiume. Quel sentiero malinconico e mezzo invisibile era prediletto dagli amanti e dai vecchi per un bisogno di solitudine, forse meno dissimile fra loro che non paia. Egli vi era passato poche volte, quasi sempre con un gruppo d'amici, in una di quelle giornate, nelle quali, per ammazzare la noia della solita passeggiata per lo Stradone, l'unico passeggio pubblico della città, si cercava di commettere qualche facile stravaganza. Ma alla prima svolta, dove un viottolo sfiancava lungo il nuovo muro del cimitero, si arrestò; una voce sottile canterellava la celebre e delicata romanza della Mignon: Non conosci il bel suol che di porpora ha il ciel... l'opera data in quell'inverno al teatro comunale. Era una voce di uomo, incerta nelle parole e nell'aria, che pareva fremere di una curiosità triste. Si turbò; istintivamente gli era ritornato nella memoria che lungo quel sentiero, negli anni andati, erano avvenuti parecchi suicidii, tutti di giovani operai, forse spaventati dalle crudeli esigenze della vita. L'ultima volta erano stati due ragazzi di appena vent'anni, morti insieme avendone avvisato prima gli amici, che non avevano voluto crederlo e non seppero poi indovinarne il motivo. Si erano ammazzati colla stessa rivoltella, l'uno dopo l'altro, ed erano rimasti sul sentiero col cranio aperto, sanguinolenti, vestiti cogli abiti di festa, quasi per una suprema ironia. Ma la voce ripeteva sempre la stessa domanda di Mignon, povera abbandonata nel freddo di un paese nebbioso, che risognava i trionfi abbaglianti del sole sulla marina napoletana, dove tutto è musica ed incanto, festa ed oblio. E a pochi passi, nell'ombra di un albero piegato a capanna, vide disteso sui cuscini entro una carriola quel ragazzo, che conosceva già. Era il figlio di un ortolano, caduto piccino da un albero e rimasto colle reni fracassate; lo aveva veduto mille volte alla finestra sul grande viale del cimitero, ma si meravigliò nel trovarlo ora alla estremità dell'orto, sulla ripa del fiume, solo, cantando come un uccello fra il verde. La sua sventura era di quelle, alle quali non si vuol pensare; non viveva che dalla cintura in su, sempre così coricato, col volto appannato dall'ombra stessa della sua vita. Eppure viveva. Impetuosamente egli se ne chiese il perché, mentre l'altro cantava sempre quella romanza nella sicurezza di non essere udito da alcuno, sognando forse come Mignon un altro cielo più bello ancora che in quel mattino di maggio pur così pieno di profumi, nel silenzio trepidante del meriggio. Egli, morto a metà, cantava. Con una mano si reggeva ad un ramoscello dell'albero, tenendo il viso in alto, colle spalle quasi nella siepe, così che si distingueva appena tra il fogliame la sua figura. Poi tacque. L'orto era deserto: un uccello pigolò dall'altra ripa del fiume; lontano, ad un campanile suonò ancora una messa. Per non farsi vedere dal malato, scese dal sentiero verso l'acqua e non risalì che oltre il cimitero; ma rimaneva sempre come in un fondo, tra ciuffi di alberette, che nascondevano ogni orizzonte. Era fuggito di casa, istintivamente, per nascondere la propria emozione; invece, fra quella viridezza della campagna, dentro al suo silenzio e alla sua luce, si sentiva nuovamente disorientato. Quindi un'altra paura gli cresceva: nella fretta di evitare la città non aveva temuto anzitutto che un incontro col signor Bonoli o con lo strozzino, a quest'ora naturalmente piccati da un desiderio crudele di curiosità a suo riguardo. Avevano presentato essi medesimi la cambiale in pretura? Il caso era poco probabile; secondo il solito, colle più vecchie convenienze del mestiere, lo strozzino doveva aver finto una qualche girata, giacché tutti i suoi pari sono sempre provvisti delle così dette teste di ferro. Ma egli, incontrandolo, non avrebbe saputo qual contegno tenere; non lo odiava, anzi per una di quelle condiscendenze imposte dalla pratica della vita, riconosceva che, agendo in tal modo, colui faceva solamente il proprio interesse. Di che cosa lagnarsi? Ma dinanzi alla sua faccia di sparviero disseccato, con quegli occhi metallici, la bocca che non sorrideva mai, gli sarebbe stato impossibile resistere. Sotto l'argine del fiume, lungo il ripiano della sponda, erano aperte ancora alcune cavità di alberi abbattuti da gran tempo, che un'erba minuta aveva tappezzato finamente. Il sole dardeggiava, aliavano farfalle, un soffio di scirocco scuoteva mollemente le cime già pesanti dei grani. Si fermò per udire qualche cicala stridere; invece dal fiume ascese la nota dolce e gorgogliante di un rospo. Allora calò dall'argine per nascondersi entro una di quelle buche, all'ombra di una vecchia quercia dai rami rachitici e il tronco giallastro come di una ruggine d'oro. L'erba era soffice. Cavò di tasca la rivoltella a canna corta, nichelata, del calibro dodici: stette lungamente contemplandola, come in una di quelle distrazioni attonite, che ci sorprendono talvolta: l'arma piccina riverberava. Si sarebbe servito di essa? Perché? E quando si è morti? Era già molto difficile morire; ma e dopo? Sino a quel giorno egli non ci aveva mai pensato. Come accade sempre, specialmente finché si è giovani, la morte non aveva esistito per lui; sapeva che, essendo nato, morrebbe, ma questa soluzione lontana ed inevitabile non aveva mai pesato sulla sua coscienza. Non si capisce veramente di dover morire, sino a che il pensiero della morte non si allarga come un'ombra nel mezzo del nostro spirito. Tutto è così facile nella prima parte dell'esistenza! Funzioni ed abitudini vi si ripetono favorevolmente, si mangia, si passeggia, si chiacchiera, si ride, si dorme; poi il mattino vi desta, intorno a voi tutto prosegue: la moglie, i bimbi, la serva, la casa alternano i propri motivi senza un pensiero che tutto ciò sia effimero, che basti la presenza di un insetto a produrvi lo scompiglio, o la morte appiattata in ogni ombra possa in un istante distruggere tutto senza ragione, senza traccia. Si vive così, come se la morte non fosse, in una sicurezza d'immortalità. Invano in tutte le case qualcuno si ammala e muore; si fanno i funerali, la gente li guarda passare distratta, ognuno preoccupato dei propri interessi, in una febbre continua di passioni, e non ci si pensa più. Coloro, che amarono quel morto, piangono qualche giorno, gli altri non dànno importanza al caso o parlando della morte, che li aspetta, rimangono indifferenti come a cosa che verrà poi, un poi problematico nella data ed insignificante finché la data non arriva. Egli era stato come gli altri. Aveva veduto morire il babbo e la mamma senza risentirne troppo dolore. Certo avrebbe desiderato loro più lunghi anni, ma essendo troppo giovane per aver provato gli scoramenti della suprema vigilia, quando la vita non sa più distrarsi dal computo dei propri ultimi giorni, aveva trovato naturalissimo che i vecchi se ne andassero. Invece adesso si trovava dinanzi alla morte nella pienezza di tutte le proprie forze. Non era né credente né incredulo; come nella maggior parte della gente, la vita spirituale era cominciata per lui coll'insegnamento religioso, senza che la religione modificasse troppo il suo sentimento, pur lasciando nel suo pensiero impronte non cancellabili. La concezione cristiana, poco comprensibile nei dogmi e nella tragedia della sua morale, rimaneva quindi la base di tutti i suoi giudizi, sotto la solita indifferenza mondana. Così aveva sposato Caterina anche in chiesa e battezzati i bambini, trovando giustissimo di apprendere loro la religione, che egli non praticava più. E in quella indefinibile cultura guadagnata un po' dovunque, nei caffè, su per i giornali, massa informe di idee e di sentimenti contradditorii, solamente la forza della tradizione durava: la religione era cosa da non parlarne, poiché non se ne sarebbe potuto mai sapere qualche cosa di preciso, ma forse era così, e in fondo ne convenivano tutti, anche coloro che affettavano di spregiarla pubblicamente. Le sue riflessioni non erano mai andate più oltre. Caterina non lo aveva mai vessato per la sua indifferenza religiosa: egli viveva come gli altri nella inconsapevolezza della propria contraddizione, fra un barlume di fede e un pettegolezzo di miscredenza, trionfando di entrambi col non pensarci. Ma la morte, improvvisamente, gli stava davanti nella propria immobilità. Aveva avuto paura. Morire era, prima di tutto andarsene; ma per quanto la natura ripugnasse a tale sparizione e tutte le malattie fossero spaventevoli appunto per questo, non era difficile il fissarvisi. Già nella notte lo aveva fatto: andarsene, piuttosto che restare per la tortura del processo e della prigione!, molto più che la morte essendo inevitabile, si trattava solo di sceglierne il momento, quando tutto il resto delle condizioni nella vita diventava intollerabile. Così, quasi non pensandoci, aveva già abbracciato questo punto di vista: era stato un lavorìo lento, inavvertito del suo spirito, subito dopo il tremendo distacco prodottovi dalla lettura di quella lettera. Quanto poteva soffrire, l'aveva già sofferto nella notte: lo sentiva, era sicuro che per una simile crisi non ripasserebbe più. Si muore forse due volte? La morte è tutta nello sforzo per staccarci dalla vita; se lo era detto, capiva di aver ragione. Il suo pensiero risoluto, quantunque torpido, andava sino in fondo: si sarebbe ucciso! Non aveva deciso il modo, ma il tempo era misurato ormai su quel giorno; era così, non voleva ritornarci più sopra: morire per sé medesimo e per la sua famiglia, alla quale non sarebbe più che d'imbarazzo e di disonore, ecco tutto! Ma il momento dopo, quel momento che pure ci doveva essere, giacché il tempo avrebbe seguitato egualmente, quando egli non sarebbe più, dove sarebbe egli in quel momento? Tutto finiva lì? La religione diceva di no, la maggioranza della gente d'accordo colla religione, e quelli ancora che si vantavano di non crederle, rimanevano perplessi dinanzi al problema. Finire! Sarebbe stato semplice, ma non era chiaro. Che cosa significava allora tutto il prima? La sua testa si perdeva. Confuse memorie gli ritornavano di ammaestramenti, di fatti, di uomini, che si erano trovati come lui dinanzi al grande quesito, e che egli aveva udito a parlarne. Tutti avevano tremato. Il primo momento dopo la morte, la possibilità di un'altra vita, quindi di un giudizio su quella trascorsa, di una vita in un altro mondo, mentre il nostro corpo resterebbe a putrefarsi in questo, di una vita incomprensibile e tuttavia di una supposizione così inevitabile al nostro pensiero, era senza dubbio ciò che rendeva spaventevole la morte, incerto quanto ognuno di noi compie prima d'incontrarla. Senza questo mistero che cosa sarebbe stato il suicidio? Poiché suicidandosi si è sicuri di sottrarsi a tutti i guai, non vi sarebbe dal canto della vita alcuna difficoltà: si ha forse paura di addormentarsi, pur non essendo sicuri del risveglio? Il problema era dunque nel momento dopo la morte. L'esperienza e la scienza umana non avevano trovato un modo per inoltrarsi in quest'ombra; tutti vi arrivavano nella medesima ignoranza, colla stessa angoscia, il più grande come il più piccolo, per sparire silenziosamente, mentre la religione sola dichiarava di averne penetrato il mistero colla parola di Dio. Non di meno la sua spiegazione era oscura; se no come la gente avrebbe seguitato a dubitare? Vi era dunque Dio? Era lui che, volendoci così oscuramente soggetti al suo volere, distribuiva con tanta inesplicabile parzialità la gioia e il dolore? Malgrado l'impossibilità di comprendere il mondo senza un creatore e di sottrarsi alla concezione poetica del cristianesimo, una rivolta gli saliva dal cuore contro questa ingiustizia della vita, che quasi sempre prodigava gli spasimi più micidiali ai più innocenti. Egli stesso ne era stato mille volte testimonio: che cosa non soffrivano i poveri, mentre i ricchi finiscono per annoiarsi non trovando abbastanza divertimenti? Se dopo morte non vi era altro, i signori diventavano ben sciocchi nel fare l'elemosina ai poveri, e questi lo erano anche di più non depredando in qualunque modo i ricchi. Perché fare l'elemosina? Tutto era caso, il fortunato non doveva logicamente che conservare la fortuna a se stesso. Invece non accadeva così: i poveri sopportavano, i ricchi li soccorrevano; forse v'era parità di dolori in tutti, perché i ricchi si suicidavano anche più facilmente dei poveri. Lo aveva sentito dire molte volte, aveva potuto notarlo egli stesso. La morte non era solo in fondo alla vita, ma la colpiva ad ogni istante da per tutto; i bambini vi soccombevano spesso prima di nascere o appena nati, si moriva sempre, in qualunque grado, nelle più inverosimili circostanze: ingegno, ricchezza, danaro non servivano a nulla, la gloria o l'infamia non toglievano niente a quest'uguaglianza della morte, la virtù e il vizio vi conducevano colla stessa rapidità; e dopo, un eguale oblio copriva tutti i defunti, la medesima spensieratezza seguitava nei viventi. Pensando alla morte si finiva col non potere uscire più da tale pensiero: ecco perché la gente non voleva fermarvisi. Tutte queste riflessioni gli toglievano di sentire il dolore della propria posizione; una specie di tranquillità gli si era fatta nello spirito, come una luce fredda, entro la quale tutto gli appariva lontanamente. La sua testa, poco abituata alle meditazioni, si distraeva già nelle sensazioni di quel meriggio. Qualche raggio, filtrando fra le foglie, gli produceva sugli abiti chiazze luminose e scottanti. Il bisogno di muoversi lo riprese. Tutta quella meditazione sul suicidio non gli aveva aggiunto che un terrore di più nella coscienza: se la vita significava qualche cosa, doveva essere ordinata ad uno scopo, che i capricci degli uomini non saprebbero mutare, e quindi tutto si riuniva nella morte come dinanzi ad un tribunale. Le menzogne, i sofismi, le oblivioni così comode e frequenti nella vita, si dissipavano nel suo ultimo istante: tutti vi si trovavano egualmente nudi davanti al proprio passato. Ecco perché si provano talora rimorsi, che ci costringono a condannare le nostre azioni più proficue, o ci impediscono l'abbandono alle nostre tendenze più personali: egli stesso forse non si trovava ora davanti alla necessità del suicidio che per aver voluto sacrificare i propri doveri di marito e di padre ad un ignobile capriccio. Era una sentenza di quella giustizia segreta, che corregge ogni errore dell'altra, e piega tutte le fronti sotto il mistero di Dio? Ma Dio permetteva agli uomini di suicidarsi? Vi erano un inferno ed un paradiso, come affermano i preti con tanta sicurezza, vivendo tuttavia al pari di coloro i quali non volevano crederci? Perché tanti grandi uomini non avevano ammesso una seconda vita? Per quanto questi problemi fossero insolubili, egli credeva di sentire adesso una grande verità nel suicidio: l'uomo, togliendosi la vita, espiava in tale dolore tutto quanto poteva aver commesso, giacché seguitando a vivere non avrebbe potuto soffrire di più. Era quindi inutile voler cercare oltre la vita qualche cosa che non doveva dipenderne; poi vi era questa differenza: gli uomini, uccidendo, sentivano tutti di commettere un delitto, mentre uccidendosi sentono solo di essere infelici. Infatti egli non sapeva altro, non era sicuro di aver ragione, ma la sua tristezza nell'accettare la morte era scevra dai rimorsi, che avevano accompagnato tante altre sue colpe. Questa volta non avrebbe fatto male ad alcuno sottraendosi ad una condanna, che in lui colpirebbe Caterina e i bambini. Sciaguratamente non v'era altra soluzione. Il suo suicidio non era rifiuto della vita, perché non se ne era anzi sentito mai così pieno: vivere nella propria casa tranquilla con Caterina e i bambini, amministrare il piccolo patrimonio, aiutarlo con qualche guadagno, fare la partita al caffè, mandare innanzi i figli finché, diventati grandi, non avessero più bisogno di lui, sarebbe stato un idillio, era l'idillio di quasi tutta la gente! Egli doveva invece suicidarsi, appunto per averlo reso impossibile. Il suo suicidio non aveva quindi le ribellioni pessimiste, che sole possono renderlo tale; come quei coscritti, che affrontano la morte agli avamposti, perché fuggendo dovrebbero sopportare umiliazioni e pene troppo amare, egli non avrebbe voluto né la battaglia né la morte, e subendo l'una e l'altra si riconosceva senza volontà. Era così, perché era così. Questa conclusione vuota fu l'ultima. Allora, perché era venuto lì? Che cosa vi aveva risoluto? Sulla campagna luminosa e calda il cielo si era fatto di una serenità abbagliante, nell'aria passavano ondate di fremiti. Eppure avrebbe dovuto aver deciso qualche cosa, essersi preparato per quella giornata! Vi era ancora una speranza? Come contenersi? Questa domanda non ne nascondeva che un'altra: era dunque stabilito? Tale decisione restava però fuori del suo spirito, giacché non ne provava ancora tutto il peso. - Che cosa faccio qui? - si chiese con un sussulto. A casa sua pranzavano circa al tocco e mezzo: lo aspettavano, manderebbero fuori la serva a cercarlo. Si figurò vivamente la scena. Se non tornava più a casa, dove passare tutta la giornata? Rimaneva perplesso, tutte le angoscie della notte lo riassalivano, eppure non gli veniva nella mente di poterlo finire subito. Più tardi, di notte, solo, in qualche altro luogo, ma allora no. Era impossibile. Si era assegnato un giorno, vi aveva diritto. Poi gli sembrava di avere molte altre cose da fare, lettere da scrivere, vedere qualcuno, rientrare ancora fra gli altri, prima di non vederli più. Aveva bisogno della notte, adesso tutto lo distraeva. Si avviò per ritornare, ma appena ebbe presa questa decisione, ridivenne triste triste; sentì che tutto era finalmente stabilito, non tornerebbe più in campagna, non rivedrebbe più quel luogo. Era la sua ultima passeggiata da solo, che nessuno conoscerebbe mai, e nella quale aveva risoluto di morire. Comminava a testa bassa, non sentiva più la vivezza dell'aria, la vampa del sole, il fresco del verde: il suo sguardo si chinava su quel letto di fiume melmoso, squallido, abbandonato, senza un rumore né un guizzo nelle pozzanghere d'acqua indolenti sotto al sole. E l'idea della morte seguitava nel suo spirito come quel letto di fiume invisibile fra i campi. * * * - Perché, vedi, - gli diceva Caterina sul finire del pranzo, - io sono persuasa che ella ci lascierà tutto. Capisco che non è gran cosa, in ogni modo sarà la dote per Ada, ma bisogna che non seguitiamo a trattarla così. Tu hai sempre detto che la zia Matilde non ti ha amato, e pare anche a me che sia così. Non so, - ella seguitava con quel suo buon senso di donna, nella quale la tranquillità del temperamento favoriva l'equilibrio dello spirito, - se tu abbia ragione sostenendo che ella ti voglia ancora male per un vecchio rancore contro la tua povera mamma, però dovresti mutare contegno verso di lei. - Che cosa vuoi che faccia? - egli rispose, preso nell'interesse di quei discorsi, che preparavano l'avvenire. Infatti Caterina lo aveva subito sgridato per non essersi fatto vedere in quella visita alla zia Matilde, dopo che ella imprudentemente l'aveva avvisata della sorpresa. E sarebbe stata davvero tale, s'egli vi fosse andato, giacché per una antipatia istintiva cansava sempre quella vecchia parente; ma questa, inciprignita naturalmente dal non vederlo arrivare, aveva finito con lo strapazzare Caterina come di un cattivo scherzo. Caterina, irritata dall'insuccesso, dopo aver troppo contato sul magnifico effetto dei bambini, non aveva poi badato all'aria abbattuta di lui. Non di meno il pranzo era proseguito abbastanza bene. Per fortuna i bambini, lieti dei vestiti nuovi e più liberi nei vecchi, che la serva aveva loro rimesso per il pranzo, si erano abbandonati al più vispo chiacchierio, mentre la mamma ogni tanto li sgridava dolcemente per frenarli ed egli acconsentiva con un sorriso. Quindi il discorso era ritornato sulla zia Matilde, la quale avendo oltrepassato i settant'anni non poteva ancora campare molto. Con quella ingenuità di egoismo propria degli eredi, Caterina valutava tranquillamente tale probabilità, traendone una lunga serie di conseguenze per se stessa e per i figli, molto più che i modi di lui con la vecchia le avevano sempre dato pensiero. Ella credeva alla buona, quantunque modesta posizione della propria casa, ma coll'antiveggenza delle madri, quando amano, cominciava a preoccuparsi dell'avvenire. Il suo affetto era specialmente per la bambina. Le difficoltà sempre più tristi per le ragazze di trovare un discreto partito, le avevano messo in cuore una specie di pessimismo, unica sua reazione contro la vita, della quale aveva sempre accettato il corso blando senza chiedersi di più. Ma Ada, che a giudicare da quel momento doveva crescere molto bella, avrebbe avuto bisogno di una certa dote per accasarsi convenientemente dopo la buona educazione, che ella pensava di darle anche a costo dei più gravi sacrifici; su questo argomento Caterina, così arrendevole, non voleva intendere ragioni. - Tu manderai avanti Carlino. Era questa la risposta, quando egli le faceva osservare che per mettere Ada nell'educandato di Fognano occorreva una grossa spesa annuale, mentre poi le ragazze uscendo dal convento non sapevano far nulla per la vita. Caterina, invece, sognava d'interessare a questo suo disegno prediletto la vecchia zia Matilde. - Che cosa vuoi dunque che faccia un giorno Ada? La maestra, la sarta? La fanciulla, già viziata dalle troppe carezze, scuoteva la testa con una smorfietta, ed egli non sapeva come replicare. Quindi colla facilità delle donne a vedere già realizzati i propri sogni, Caterina s'inteneriva orgogliosamente sull'avvenire, vedendo Ada mescolata a tutte le signorine delle migliori famiglie, e più bella di loro fare appena uscita di convento un grande matrimonio. - Stasera, poco prima dell'Ave Maria, ritorneremo dalla zia Matilde per scusarci: verrai anche tu, non me lo negare. Io ti ho sempre lasciato fare quando hai voluto: ti ho forse mai disturbato? - proruppe ad un suo moto; - e poi non si tratta di me o di te. Oramai per noi è finita: che cosa ci può accadere? Invecchieremo così alla meglio, ma essi hanno bisogno di una buona posizione. Tu hai sempre voluto che Carlino debba andare all'università; io ti approvo, ma debbo preoccuparmi anzitutto dell'altra. Io sono la mamma. Un uomo nella vita arriva sempre a cavarsela, ma una donna se non trova presto marito, senza una buona posizione, può essere perduta. - La zia non ci lascierà nulla, - egli osservò: - sai pure che è pazza per quella sua figlioccia. - Lo dici tu, io non lo credo. Sarebbe da parte sua una ingiustizia: è capitale di famiglia, deve ritornare a noi. - Deve! - Non si può gettare via il capitale della famiglia. Egli s'irritò. - Molti lo fanno. - Hanno torto. Adesso ti diverti a farmi arrabbiare: verrai anche tu? - Non ci andiamo, mamma, la zia Matilde mi fa paura, - protestò Ada agitandosi sulla sedia. La zuppa inglese, portata trionfalmente da Anastasia sopra un piatto oblungo, interruppe la conversazione; i fanciulli batterono le mani strepitando, ma la mamma ne tagliò subito col cucchiaio la metà per serbarla all'indomani. - Lascia che la mangino tutta, - egli disse, intenerito dalla smorfia dei bambini. - Ma che cos'hai oggi? mi contraddici sempre. Egli aveva mangiato quasi come al solito, obliandosi nelle abitudini di tutti i giorni, fra il pettegolezzo dei fanciulli, le chiacchiere della moglie e le osservazioni di Anastasia, che si vantava per la riuscita del pranzo. Però gli era parso che questa, di quando in quando, lo scrutasse. - Perché non ne mangia lei? - gli chiese infatti, vedendolo dare la propria porzione a Carlino. Allora Ada s'ingelosì. - Lascia lascia, egli è più piccolo di te. Ma sulla fine dei pranzo l'allegria scemava. I fanciulli non gridavano più, sorvegliandosi a vicenda, malgrado l'attenzione che mettevano a forbire il piatto della crema; Caterina, ricaduta nella preoccupazione della zia Matilde non parlava. Improvvisamente egli si sentì scoppiare il cuore: non esisteva già più per loro. - In quale stato pranzeranno domani! Eppure nulla era ancora mutato intorno. La saletta, quieta come sempre, aveva la stessa aria di pulizia e di modesta agiatezza; la tovaglia, essendo domenica, era bianca, il cavallo di Carlino dormiva dimenticato sopra quella sedia. Tutto invece sarebbe sossopra domani: forse il vecchio mansionario scenderebbe lui pure, attirato inconsciamente dalla paura della morte. Chi sà quali pianti, quali commenti! Dove sarebbe allora il suo cadavere? - Lei non sta bene; - lo destò la voce brusca d'Anastasia. - Io! - Io dunque? proprio lei, che cosa ha? - Infatti anch'io ti ho osservato. - Ma non ho niente! dammi piuttosto da bere, ecco. Che cosa debbo avere? Avete paura che muoia? Aveva cercato di fare la voce scherzosa, affrettandosi a bere per dissimulare il turbamento, ma quell'ultima parola lo trascinò. - Bah! se dovessi anche morire... - Che discorsi sono questi? Siccome Carlino aveva finito di pulire il piatto coi ditini, egli vinto da un impeto di tenerezza si sporse, afferrandolo sotto le ascelle, e se lo mise sulle ginocchia. Il piccino rideva superbo. - Hai ancora il soldo? No? lo avrai nell'altro abitino. - Eccolo, papà: guarda il buco. - Di' alla mamma che ci passi dentro un cordoncino, e te lo metta al collo. Mi hai promesso di non spenderlo: manterrai la promessa? Vuoi più bene a me o alla mamma? Carlino esitava. - Hai ragione, hai ragione: lei è migliore di me; va a prendere il tuo cavallone. Così poté alzarsi per accendere lo zigaro. - Dunque siamo intesi; stasera verrai anche tu dalla zia Matilde, - tornò ad insistere Caterina. - No, non vengo. Vedrai che domani verrà lei da te. - Tu scherzi sempre. - Già! Si era rimesso il cappello per uscire, scordandosi di scrivere quelle lettere; la paura lo riprendeva. Se fosse rimasto ancora qualche tempo, non avrebbe più saputo come andarsene; poi capiva che, solo coi bambini anche per un momento, sarebbe scoppiato a piangere. Fortunatamente il pranzo aveva durato sino alla solita ora, nella quale usciva a prendere il caffè. - Me ne vado, - disse due volte, - senza riuscire a decidersi. Caterina si era alzata per andare in cucina, egli la seguì; avrebbe voluto voltarsi per stringere in un abbraccio furioso le teste dei fanciulli, ma Anastasia rientrava già per sparecchiare. - Va pure, siamo intesi! - ripeté Caterina una ultima volta. Per risposta egli le diede un gran bacio sulla bocca, fuggendo subito dopo. Caterina rimase sorridendo di quella soluzione. * * * Nel caffè, a quell'ora, la gente era già affollata intorno ai tavolini, che lasciavano appena un varco sotto il loggiato: regnava l'allegria, le voci si alzavano scherzose. Al suo apparire molti lo salutarono, mentre altri si ritraevano per fargli posto nel solito crocchio; egli invece si sentiva freddo di dentro. Quel nuovo aspetto di festa nel pomeriggio lo turbava. Per un momento aveva pensato di andare nell'altro grande caffè aperto all'angolo del palazzo Rondinini, frequentato dai più grossi signori, quasi tutti naturalmente di parte moderata, per incontrarvi il Bonoli e lo strozzino, che di rado vi mancavano. Poi una paura irragionevole, che tutti a quell'ora sapessero già della sua cambiale falsa mandata in pretura, lo aveva sorpreso. Perché non lo saprebbero? Se Roberti certamente non ne aveva parlato con altri prima di partire, il pretore poteva bene averne fatto a qualcuno la confidenza; il caso non era molto probabile, e non di meno, nell'odio improvviso, che si sentiva in cuore contro quel giovane magistrato, adesso divenuto inevitabilmente il suo padrone, si ostinava a dubitare. Del signor Bonoli invece e dello strozzino, più interessati e quindi più facili a tale propalazione, quasi quasi non sospettava: il perché non avrebbe saputo dirlo. Quando nello svoltare dalla fontana vide quel pezzo di loggiato, dinanzi al caffè così gremito di gente, fu per arrestarsi, ma parecchi dovevano già aver guardato verso di lui. Colla bruschezza, che dalla lettura di quel biglietto gli aveva così profondamente mutato il carattere, si decise quindi ad andare innanzi. Se altra volta si fosse battuto in duello, avrebbe creduto di risentirne quell'emozione indefinibile allorché i padrini, dopo avervi tratta la camicia e legato il fazzoletto al polso in qualche angolo appartato, vi dicono improvvisamente, con voce breve: - Andiamo. Non gli accadde nulla. I discorsi erano gli stessi degli altri giorni; a un tavolino alcuni radicali, tutta gente della piccola borghesia, vestiti a festa, e quindi con un'aria più importante e una più grossolana affettazione di chiasso, ciaramellavano di politica; altri parlavano d'affari, più in là un crocchio di giovanotti discuteva di donne, naturalmente in termini vivaci ed osceni, i camerieri andavano e venivano, mescolandosi spesso alla conversazione con una famigliarità poco rispettosa, e nondimeno punto antipatica in quelle abitudini di provincia. Sotto il portico cominciava a passare qualche ragazza: allora tutti gli occhi si voltavano e prorompevano giudizi sommarii, espressioni scoppiettanti come razzi. Quel giorno non v'era alcun argomento speciale di pettegolezzo. Egli sedette. Il cameriere, ragazzotto piccolo e pallido, in giacchetta nera, gli portò al solito il caffè senza averne aspettato l'ordine, e gli sorrise deponendolo sul tavolo. Appoggiato colla schiena ad una colonna egli guardava il Duomo. L'enorme portone di mezzo era socchiuso, e sull'arco del suo vano si agitava lievemente un drappo rosso, segnacolo di qualche festa religiosa in quel giorno; la scalinata di granito pareva più bianca nel sole, la fontana gorgogliava da tutti i propri zampilli, avvolta in un pulviscolo d'acqua tenue come un vapore. Tutto quel largo dinanzi al Duomo sino in fondo alla piazza rimaneva deserto, nessun fiacchero stazionava ancora presso il caffè, l'omnibus del grande albergo era già ritornato dalla stazione; solo qualche bicicletta passava tratto tratto nel vuoto, silenziosamente. Siccome quella gente non sapeva ancora nulla della sua disgrazia e, sapendola, si sarebbe subito scostata, colle cautele così pronte ed assennate dell'egoismo, egli tra la distrazione di quei discorsi tornava a ricordarsi tutto quanto sapeva sopra ognuno degli interlocutori. Pochi avevano una posizione solida ed equilibrata, ed anche questi pochi non avrebbero probabilmente davanti ad un giudice, capace di legger loro nelle coscienze, saputo giustificarne l'origine o il modo: tutti gli altri vivevano come lui, fuori della propria orbita naturale, rammendando ogni mattina gli strappi di ogni sera, nella stessa impotenza di frenare i propri vizi o di guadagnare abbastanza per alimentarli senza pericolo. A vederli così vestiti e con tale disinvoltura giuliva, un estraneo avrebbe potuto crederli ricchi e felici, mentre ognuno celava nella propria vita qualche ignobile controscena di compromissioni domestiche o commerciali, vergogne di donne comprate o vendute, orrori di figli assassinati nell'avvenire per inconfessabili passioni. Eppure sarebbero domani i suoi giudici perspicaci, perché sommerebbero tutte le loro osservazioni su lui, e condannerebbero, avvelenando la condanna di scherni, per quella inconsapevole necessità in tutti di separarsi da coloro, che soccombono nella vita. Era così, non poteva essere altrimenti; se no la gente per compiangerlo avrebbe dovuto condannare se stessa. Egli solo si era scioccamente messo in tale condizione di suicidio, mentre gli altri facendo di peggio sapevano restare a galla. Però questa spiegazione superficiale non gli bastava: un'altra forza oscura spingeva innanzi la vita d'illusione in illusione, di guaio in guaio, sino alla fine, che interrompeva tutto senza risolvere nulla. La moglie, i figli, quanti restano dopo, prorompono in lamenti contro il morto, cercano di rassettare la posizione, e invece tornano a comprometterla con la medesima serie di vizi e di sciocchezze. Era questa l'eterna ridda, l'eterna morale: i figli si lagnano dei padri e, divenuti padri, sacrificano l'interesse dei figli al proprio: le donne, per lo più morigerate come ragazze, si abbandonano da spose e da madri ad ogni sorta di eccessi: i patrimoni oscillano, si scompongono, si ricompongono attraverso un tafferuglio di rapine, di leggi, di prodigalità, di avarizie, di casi tragici o fortunati, nei quali non si capisce nulla, ed è impossibile resistere. Tuttavia in quel momento egli falsario, deciso a morire della propria colpa senza chiedere soccorso ad alcuno, si sentiva migliore di quanti lo circondavano. Un orgoglio doloroso gli gonfiava la coscienza. Invece di scusarsi ai propri occhi come aveva tentato più volte nella notte, si compiaceva quasi ad ingrandire l'accusa, spremendone un'acre vanità. Non era egli pronto a morire? Che gl'importava di tutta quella gente? Quale di loro, malgrado tutte le vanterie, che avrebbero fatto sul suo conto, affermando l'uno contro l'altro di averlo conosciuto benissimo, saprebbe solamente indovinare le sue nuove sensazioni in quell'ora? Era una specie di alterezza, che gli faceva guardare intorno come dall'alto: qualche cosa di profondo e di freddo, che doveva somigliare alla emozione del comando supremo per un generale, nel momento di arrischiare sopra l'ultima idea la vita di migliaia e migliaia di uomini. La morte innalza sempre. Invece di scrutare nella sua oscurità, il che lo avrebbe daccapo atterrito, si guardava indietro come per una lontananza, nella quale le cose e gli uomini perdevano coll'esattezza del rilievo quasi tutta la propria importanza. Che cosa era mai la vita, a pensarci bene? Egli avrebbe sempre seguitato a quel modo, con le solite soste al caffè, sempre fra quelle persone, quei discorsi, senza una speranza mai di mutare, di salire, di provare qualche cosa di nuovo. Null'altro. Tant'era dunque andarsene prima che la vita divenisse solamente un seguito interminabile di ore nel vuoto di una prigione, e dopo, più tristamente, un fuorviare fra la folla per evitare certe persone, per cansare certi sguardi; poi, rabbuffi strazianti in casa dalla moglie e dai figli, fuori un bisogno sempre più umiliante di trovare un impiego, un modo egualmente indispensabile ed impossibile di guadagno. - Oh! non dici niente oggi? - gli si volse Cavina, un giovane mastro-muratore dalla fisonomia malaticcia, che la passione e una tal quale raffinatezza di gusto nella musica rendevano al tempo stesso simpatico ed un po' avversato. - Pensi ai miei debiti o ai tuoi? - seguitò con lo scherzo solito fra di loro, che, troppo desiderosi di spendere, finivano collo sbertarsi reciprocamente sulle angustie della propria posizione. Egli sussultò. - Sono così, non lo so; - ma gli parve subito dopo di avere risposto male. Il muratore confessava che sarebbe andato volentieri alla prima rappresentazione del Lohengrin: c'era tempo ancora, un treno partiva sulle quattro. - Bisognerebbe avere cinquanta franchi da buttar via. - Perché cinquanta franchi? - Sai, dopo il teatro viene la cena, la donnetta... Si rideva: altri sarebbero partiti con lui per Modena, avendo in tasca i cinquanta franchi, meno ancora per ascoltare la musica del Lohengrin che per il piacere della gita. Allora Romani ebbe un impeto di sdegno. - Perché spendere cinquanta franchi? Sono cose che bisogna lasciarle fare ai signori. - Ai signori! - un altro replicò celiando - ma sono un signore anch'io, quando spendo cinquanta franchi in una sera: vuol dire che per quella sera ho cinquanta franchi di rendita. Tutti risero. Romani si accorse trepidando di essersi lasciato trasportare dalla collera contro quella falsa facilità del vivere, che lo aveva condotto all'ultimo punto: quindi per distrarre l'attenzione rimise il discorso sul Lohengrin. Allora tutti protestarono: non sarebbe mancato altro che, non potendo assistere alla rappresentazione, ne avessero dovuto subire la disquisizione da Cavina. Ma questi, che parlava benino, non resistette; da pari suo aveva letto troppo o si ricordava abbastanza le spiegazioni del mito lohengriniano. - È un gran bel finale, - concluse dopo non molto, giacché s'imbrogliava nel patto fra Elsa e Lohengrin; - nessuno muore, eppure è una tragedia. Lohengrin ritorna in cielo col cigno: è un motivo, che fa venire la pelle d'oca, lo stesso motivo, col quale viene rimandato il cigno nel primo atto; ma nessun musicista avrebbe mai saputo trovarne uno uguale. Poi è di una naturalezza! - seguitò animandosi: - Lohengrin canta perché non deve morire, mentre in tutti gli altri finali italiani si ammazzano il tenore e la donna obbligandoli a cantare con tutte le loro forze. Ciò è falso: un ferito, un moribondo non possono cantare; sì, altro che cantare in quel momento! - Ma in teatro... - Che c'entra? In teatro si deve rappresentare la verità. Il finale del Rigoletto è bello, lo concedo anch'io, ma la donna trapassata da un colpo di spada come potrebbe cantare? Sono convenzionalismi, che hanno fatto il loro tempo: io dico che la musica deve rispettare le situazioni drammatiche, e non pretendere di far cantare in condizioni impossibili. C'è l'orchestra appositamente: perché il maestro non la fa cantare invece del tenore o della donna? Sì! il duetto della barella nella Forza del Destino! Don Alvaro ferito a morte, che urla come un dannato! Tiriamo via. Io credo che non solo un moribondo o un ferito, ma nemmeno un condannato a morte, proprio all'ultimo momento, lo si possa far cantare. Che cosa ne pensi tu, Romani? - Mi pare che hai ragione. - Perché? Si sono visti tanti condannati salire il patibolo indifferentemente, - disse un altro. - Indifferentemente! Metti loro una mano sul cuore... Ti sentiresti tu di cantare nei loro panni? - ripeté ostinandosi in questa, che a lui pareva una grande idea novella in arte. Ma la conversazione deviò ancora. * * * Mentre il passeggio della gente cresceva pel largo del Duomo e sotto i portici, gli avventori del caffè si diradavano. Le donne sfilavano vestite a colori vivaci, in ritardo dalla moda e non pertanto esagerandola con una volgarità di tagli e d'intenzioni, alle quali la goffaggine del portamento finiva col dare un non so che di maschile. Egli, divenuto più perspicace, interrogava curiosamente ogni fisonomia per indovinare sotto la sua maschera della domenica il segreto di tutti i giorni. Quindi si accorse che in quella bruttezza di quasi tutte le donne mancava appunto ciò che avrebbe potuto riscattarla, l'incantevole e delicata debolezza del sesso. Fu come una rivelazione per lui. Invece colei, che lo aveva perduto, era donna nel più profondo significato della parola. La paragonò mentalmente per cinque minuti a quante passavano, senza arrivare alla spiegazione della sua superiorità: in che cosa consisteva? Dove era adesso? S'immaginava nemmeno che egli potesse trovarsi così? Erano le cinque. Fuori di porta Montanara, per lo Stradone, il passeggio doveva essere incominciato. Daccapo non seppe che cosa fare. Dinanzi all'altro caffè la larga distesa dei tavolini arrivava insino al palco della banda, senza un avventore; si ricordò del primo pensiero, svoltando alla fontana, di andare piuttosto a quel caffè, dove capitavano il signor Bonoli e lo strozzino. Allora non aveva osato, adesso gliene ritornava un desiderio malato. Siccome era rimasto solo al proprio tavolo, si alzò senza salutare alcuno, giunse in fondo al portico, ne discese i gradini, e si mise all'ultimo tavolino presso l'ultima colonna. Chiese il Secolo ed un gelato. Ma, così solo, gli tornava la paura. - Quanto ci vorrà ancora, prima che sia sera? Rapidamente pensò ai nuovi incontri, ai discorsi che dovrebbe ascoltare, a quelli cui sarebbe inevitabile rispondere, alle combinazioni, ai casi inavvertiti tutti gli altri giorni. Avrebbe potuto tradirsi senza accorgersene. Di quando in quando rimaneva senza forze, in una attonitaggine, dalla quale lo toglieva la sensazione improvvisa del pianto, che stava per sfuggirgli. A quanto doveva compiere nella notte aveva deciso di non pensarci, anzi era sorpreso di scordarsene tratto tratto. Come avveniva ciò? Nessuna di quelle terribili strette, di quei dolori trafiggenti, sotto ai quali nella notte aveva creduto tante volte di svenire, gli si era ancora rinnovato: le ore passavano, dandogli solamente una sensazione vacua, come se ne provano assistendo a certi spettacoli senza prendervi interesse. In tale momento il luogo più deserto era appunto il caffè, ma il suo isolamento avrebbe finito coll'essere notato anche lì. Dove andare? Non aveva nulla da fare; e poi a che scopo lo avrebbe fatto? In questa impassibilità stava già la morte. Oramai era fuori del mondo, non apparteneva più a nessuno, non aveva più nulla. La vecchiezza non deve essere altro che la lenta progressione di questo sentimento, l'abbandono reciproco di tutti verso uno e di uno verso tutti per una solitudine annebbiata, silenziosa, immobile. Aveva acceso un altro sigaro. Guardò alle notizie del giornale senza fermarsi ad alcuna, poi le appendici lo attrassero: Un Idillio tragico, di Bourget; I milioni della scema, di Montfermeil: nel primo la scena era a Montecarlo, nei saloni da gioco rutilanti d'oro, invasi da una folla cosmopolita, di tutti i costumi, di tutti i gradi, di tutte le fortune. L'autore dipingeva finamente e rapidamente; egli ebbe la sensazione di quell'ambiente, nel quale la gente andava per tentare di non morire, ottenendo da una vincita la guarigione della propria vita anemica di oro, di fede, di speranza, di amore, perché presso alla morte tutto si fa pallido. E in quella folla, nella quale l'egoismo delle disperazioni non permette lo scambio di alcun sentimento, e fra quelle le pupille chine e vacillanti sui tavoli nello stesso sogno di riscatto; fra quel silenzio, che neppure il delirio della salvezza improvvisa o la sùbita rivelazione della morte arrivano a turbare; in mezzo a quella moltitudine famelica di ozio e di ricchezza, dentro il profumo dei fiori, l'incendio dei lampadari, la pompa abbacinante di un lusso divoratore, Bourget aveva messo due incantevoli figure di donne, sorridenti in un dialogo di amore. Egli ne lesse le prime battute affascinato, arrestandosi in fondo all'appendice, quasi colla stessa sensazione che se si fosse urtato in un muro. A Montecarlo il suicida tenta di forzare ancora una volta la fortuna; può bastare un solo scudo per ritornare felice e trionfante alla vita. Quanti vi avevano vinto la posta della propria esistenza! Quanti altri l'avevano perduta! Erano più i primi o i secondi? Quanti suicidii si compiono all'anno in Italia, in Europa? Egli non lo sapeva, ma se qualcuno gliene avesse detto la cifra enorme, gli sarebbe parsa esagerata: nullameno ebbe come una vaga visione di questi volontari della morte, strano esercito senza generale e senza disciplina, che tutti gli anni si esauriva sino all'ultimo soldato, e si rinnovava tutti gli anni inutilmente. Ogni suicida credeva di agire solo: qualche volta morivano a poca distanza l'uno dall'altro, egualmente separati dalla differenza dei motivi. Chi poteva dire davvero il perché di un suicidio? Egli stesso non avrebbe saputo definire il proprio caso; le ragioni erano molte, forse una per una non sarebbero bastate, forse neppure la loro somma diventava decisiva... Egli ci aveva pensato molto, poi si era accorto di non poter concludere. Era a questo punto, quando Gualtiero Ponti gli batté la mano sulla spalla: - Anche tu leggi il nuovo romanzo di Bourget: bisognerebbe invece, mio caro, poter andare a Montecarlo e vincere. - Vincendo, che cosa faresti tu? - Mi divertirei. - Come? - Seguiterei a giocare. E l'allegro giocatore, del quale aveva il giorno prima tentato di scontare indarno la cambiale, rise al pensiero di chiudere così la parentesi della propria vita. - E la cambiale? - chiese. - No, è stato impossibile. - Allora? - Allora! L'altro si era voltato a guardare una donna. - Ma quando sarai rovinato? - domandò Romani, che provava un bisogno crudele di affliggerlo, benché quello scapestrato non gli avesse fatto alcun male. Gualtiero Ponti si contentò di alzare le spalle. - Andiamo a fare un giro per lo Stradone? fra poco verranno Tamberi, Marzocchi; sai, questa notte Marzocchi ha perduto settecento lire, io mi ero rifatto, poi ho finito col perderne settantacinque. Ceniamo insieme? Non si era ancora seduto. Era un giovanotto piccolo, brutto, coi baffi a spazzola, la testa rotonda e già calva, che mostrava indifferentemente, giacché si era tratto il cappello per asciugarsi il sudore, rimanendo così a capo scoperto; un tic nervoso gli faceva di quando in quando scattare le dita della mano destra. - Tu non ci pensi dunque? - insisté ancora Romani. - A che cosa serve il pensarci? * * * Non c'era altra filosofia nella vita: sciaguratamente non bastava, perché giungeva il momento di dover pensare per forza. Finirebbe così anche colui? Istintivamente rispose di no, conoscendolo troppo bene per supporlo capace di un simile sforzo. Tuttavia in quel momento, per una specie di giustizia che si sentiva dentro, avrebbe avuto bisogno di credere che per lui pure sarebbe venuta quell'ora insopportabile di espiazione. Quindi n'ebbe come uno scatto violento. - Te ne vai? chiese l'altro, vedendolo alzarsi. - No, debbo fare una lettera. - Va' dentro nella sala a scriverla: ti aspetto qui. Infatti qualche cosa bisognava che scrivesse. La prima idea fu di rivolgersi alla zia Matilde per raccomandarle i bambini; non voleva dir altro, non ne sarebbe stato capace. Si era messo all'ultimo tavolino presso la porta, che dava nella seconda sala del bigliardo: notò che due vecchi lo guardavano. Aveva la mano ferma. Gualtiero Ponti si affacciò dalla strada alla vetrina; allora egli si affrettò. Cara zia, 2 maggio 1896. Vi raccomando i miei bambini, abbiate pietà di loro che sono innocenti; io sconto tutte le mie colpe colla morte. E firmò, avvolgendo come al solito tutta la firma dentro il riccio dell'ultima i. - Hai fatto presto, - gli disse Ponti avvicinandosi. L'altro aveva già chiuso la lettera nervosamente, la mano gli tremava nello scrivere l'indirizzo. - Dammela: te la getto nella buca, mentre vado dal tabaccaio a comprare le sigarette, altrimenti potresti scordartene, come accade quasi sempre a me. Romani rimaneva perplesso; se impostava la lettera, la cosa diventava irrevocabile. Una nebbia di sangue gli salì dal cuore agli occhi. Quasi senza comprenderlo, si cercò in tasca il soldo per il francobollo. - Va! ce lo metto io, - disse Ponti colla mano tesa per ricevere la lettera. Quindi la prese senza guardare la soprascritta, e uscì dal caffè. Romani non si poteva muovere, ma pensava, rabbrividendo: - In ultimo, vi è sempre qualcuno che vi spinge. * * * Poiché avevano mutato luogo alla stazione ferroviaria, costruendone poco lontano un'altra più ricca e più goffa, la strada fuori di Porta Vecchia a quell'ora non era più frequentata come in altri tempi. Egli dopo aver errato per molte vie della città, aveva finito per infilare quella; il sole si piegava al tramonto, dalla campagna veniva una frescura di verde umido e di piante in fiore. S'imbatté in don Procopio, il mansionario, che abitava al disopra di lui; il vecchio ottantenne girava ancora solo, con passo abbastanza sicuro senz'altro appoggio che un bastone dal pomo di avorio ingiallito. Era vestito del solito vecchio soprabito con una leggera mantellina al disopra, tutto lindo e rasato di fresco: i capelli bianchi, troppo lunghi, gli uscivano in ciuffi dagli orecchi. - Lei! - esclamò Romani. Il vecchio gli sorrise, scoprendo due ammirabili fila di denti troppo lunghi, di un bianco gialliccio. Romani si era fermato. - Dove va? - disse, cedendo finalmente al bisogno di una conversazione. - Poco lungi, figliuolo mio. Nihil est longe a Deo: è l'avvertimento di Santa Monica al suo figlio Agostino. Ma l'accento tranquillo contrastava con la lirica minaccia del motto latino. - Sono stato sino alla sbarra della ferrovia. - Ritorni ancora indietro con me. - Nella sera si fa fresco, io sono vecchio e mi avvicino al termine. - Che importa? - proruppe l'altro: - bisogna ben finirla una volta con questa vita. - Eh! finirla... finirà certo. Quando si è giovani si parla male della vita, perché non se ne capisce il pregio, e al più piccolo contrasto si pensa persino male di Dio. - Perché dunque permette egli tante infamie? Perché vi è della povera gente, che deve morire in miseria dopo aver fatto ogni sforzo per non meritarla, mentre i farabutti riescono sempre in quello che vogliono? - Lo sapremo dopo, figliuolo mio: finché viviamo, bisogna rispettare la vita come un dono di Dio. - Poteva tenerselo. Ma siccome la voce gli aveva tremato, il vecchio si fermò a guardarlo in viso. - Non vi è altro in questo mondo che la vita: che cosa volete vi sia di più importante? - Come mai dunque certuni se la tolgono? - Pazzie, suggerimenti del demonio! Tutti i dolori passano, è questione di pazienza: dopo, pensandoci, si resta sempre sorpresi di aver disperato. Vedete, io che sono vecchio, ho avuto anch'io le mie disgrazie, i dispiaceri... e poi, se si potesse ricominciare, ricomincerei. - Lei non può avere sofferto veramente nella vita; bisogna esserci dentro per provarla e comprendere come alle volte non c'è altro modo di cavarsela che andandosene. A che cosa serve la pazienza, quando non c'è più alcuna speranza? - Volete farmi parlare perché sono prete, non è vero? Oggi tutti i giovani, che discorrono con noi, pretendono d'imbarazzarci; ma voi stesso in questo momento non potete essere al caso di giudicare sulle tristi condizioni, che spingono certi infelici al suicidio. Romani si era arrestato, aspettando la sua opinione, ma il vecchio tacque. Andava adagio, soffermandosi spesso a guardare quelli che incontravano, mentre una collera sorda spingeva l'altro a bestemmiare davanti a questo prete, il quale pretendeva naturalmente di rappresentare Dio e di poter parlare in suo nome. Quindi seguitò: - Si fa presto a dire che uno, il quale si uccide, è pazzo; ma se non lo fosse? Moltissimi dànno prova del massimo sangue freddo sino all'ultimo istante. - Pazzi, pazzi! La chiesa permette appunto il loro seppellimento in terra benedetta, perché li considera pazzi. Ma se non c'è altro al mondo che la vita, la quale ci fu data per guadagnarne un'altra migliore! Lasciate correre, sono fandonie delle moderne filosofie; ma intanto tutti questi filosofi e questi poeti, che bestemmiano la vita, tirano a campare. - E quelli che si ammazzano? - Matti! - Non è vero! - proruppe: - Vi sono delle circostanze, nelle quali il suicidio diventa l'azione più onesta e più utile, che un uomo possa fare. E poi, perché si deve tribolare tanto? Se Dio... - Non bestemmiare, figliuolo mio. - Non bestemmio; se Dio fosse giusto... - Andiamo, andiamo, - ripeté il vecchio, alzando un pochino la canna in segno di disapprovazione; ma il fischio della vaporiera li interruppe. Si fermarono, il cantoniere chiudeva dinanzi a loro la barriera. - Passa il vapore, lo vedremo, - disse il prete, voltandosi verso la stazione invisibile, alla quale il treno doveva essersi arrestato. Anche Romani non parlava più; l'affermazione così sicura di quel vecchio sulla vita lo aveva scosso; capiva che confessandogli anche la propria tragedia, non solo non lo avrebbe commosso abbastanza da farlo vacillare nelle proprie convinzioni, ma nemmeno da intenerirlo. I vecchi non si appassionano più per alcuno, ma, chiusi in se stessi, si nutrono dei propri giorni, adagio, come per farli durare maggiormente. Quindi rimaneva irritato; il bisogno di discutere, senza rivelarlo, il proprio suicidio, lo tormentava sempre più dolorosamente. I dubbi filosofici, i terrori religiosi della mattina lungo l'argine del fiume, tornavano a sopraffarlo dinanzi a quel prete, che rappresentava la doppia rivelazione della vita e della religione. Egli doveva sapere per aver provato, e perché credeva senz'alcuna incertezza. Lo esaminò. La sua faccia esprimeva una calma senza nessuna vivacità, adesso che la vita era per lui ridotta al minimo; non diceva nemmeno più la messa, tutto si riduceva al pranzo e a quella passeggiata. Eppure era come tutti gli altri; nessuno voleva pensare alla morte. Egli invece fremeva. Dopo aver lasciato impostare quella lettera, un nuovo orgasmo lo aveva obbligato a muoversi, quasi a fuggire, solo nelle strade, per non tradirsi con qualche scoppio irrefrenabile. Che cosa gli importava della vita? In quel momento, pur di finirla subito, avrebbe accettato anche la morte più dolorosa. Era la rivolta degli animali deboli, che trovano nella disperazione il coraggio dell'attacco. Quel prete di una religione, che secondo la gente ha un balsamo per tutti i dolori, non aveva indovinato in lui, non aveva sentito niente nella sua voce! Un sorriso amaro gli contrasse le labbra. Un altro fischio acuto, prolungato, fendé l'aria; s'intesero gli scoppi di un'enorme respirazione che si avvicinava, si vide in alto uno stendardo azzurrognolo di fumo, e il treno passò alla barriera rapido, nero, perdendosi nella campagna, che si assopiva languidamente sotto il tramonto. Don Procopio lo aveva seguito cogli occhi: - Quello sarà sempre giovane, mentre i nostri cavalli, - e si batté una gamba colla canna - non vanno oramai più! Romani era diventato pallido come un cencio; nei suoi occhi sbarrati vi era la fissità dell'agonia, che non vede più o vede già troppo lontano. * * * Non aveva potuto parlarne nemmeno col prete. Questa impossibilità di trovare un'anima, nella quale riversare tutta l'angoscia della propria, gli era diventata uno spasimo maggiore della stessa necessità di uccidersi. Sino dalla notte, dopo la lettura di quella lettera, resisteva all'angoscia di rivoltarsi per terra mordendo qualche cosa: invece aveva dovuto comporsi una maschera simile al volto di tutti i giorni, perché nessuno si accorgesse di quello che soffriva. Gli pareva di essere un sonnambulo, colla coscienza di non poter più uscire dal proprio sogno. La vita seguitava intorno a lui più intensa di prima; la luce animava le cose, l'aria vibrava, alitavano profumi, i rumori salivano dalla terra mescendosi in una sonorità inesauribile, dentro la quale passava un'altra infinità di musiche, mentre la gente affaccendata di sé medesima sembrava non accorgersi neppure del tramonto imminente. Non poteva essere che così. Era come di quelle danze che i più piccoli insetti fanno nei raggi del sole: volano, si riproducono senza posa, in una confusione ardente ed instancabile, e quello che si arresta un istante, cade non visto nell'ombra, sulla terra. Nessuno può fermarsi al dramma o alla morte di un altro, perché il dramma è in tutti, e tutti debbono morire; la pietà è appena un sorriso, che si volge ai feriti capaci di rialzarsi; per quelli che soccombono, la disattenzione previene già l'oblio. Egli stesso non sapeva più che cosa dire agli altri; si sentiva come una di quelle foglie galleggianti nel fosso sotto il temporale del suo sogno: che cosa avrebbe potuto dire una di quelle foglie morte alle erbe dei margini sbattute dalla corrente? Il problema della morte è più lontano e più in alto della vita, dove il tempo dilegua nell'eternità; e quando l'anima s'affaccia nuda a tale problema, se non vi scorge qualche cosa nel buio, ciò vuol dire che la luce della lampada accesa dalla religione in quelle insondabili profondità si è spenta. Il giorno cadeva. Un vapore si distendeva pel cielo, abbassandosi lentamente sull'aria, che si raffreddava; gli oggetti si velavano incertamente, la moltitudine pareva calmarsi. Però le sue voci si facevano più inquiete, tutti i passi si affrettavano. Le grida degli uccelli erano cessate all'improvviso nell'oscurità misteriosa del fogliame: dentro le finestre, prima incendiate dal sole, il buio si era fatto denso come un panno nero, le strade piene di popolo avevano una ondulazione di marcia sotto la notte imminente. Egli aveva oramai finito quel giorno. Le campane della sera disperdevano il proprio gemito nel silenzio delle lontananze, come un'invocazione saliente dalla terra dinanzi al terrore delle tenebre, che stavano per sommergerla. Nell'agonia di tale fine, che non aveva mai avvertito prima di allora, gli parve che la morte sfiorasse tutte le cose. Quanto era succeduto in quel giorno, non succederebbe più, era già perduto irrevocabilmente dove tutto si perde, ciò che fu e ciò che dovrà essere, perché la vita non è appunto che una evanescenza, un suono di suoni, un'ombra di ombre vagolanti in un infinito infinitamente remoto. La sua anima si ravvolse nel lungo brivido di quella solitudine, che solamente il pensiero avrebbe potuto riempire. Poi il crepuscolo si oscurò ancora, le prime stelle spuntarono dalla volta del cielo, mentre per la città si accendevano i primi fanali, fra un mormorio più indistinto di voci, al disopra della folla, che dileguava nella oscurità delle strade. Ma le stelle crescevano sempre nel cielo opaco, troppo grandi e troppo vivide perché la notte potesse appannarle: miriade di mondi viventi di un'altra vita inesplicabile alla nostra, malgrado tutte le rivelazioni della scienza e della fede. Che cosa c'era lassù? Più alto di lassù? Dio? Un minuto dopo la morte, questa domanda sarebbe ancora possibile? * * * Egli soccombeva all'umiltà di un annichilimento finale. La sua volontà si era disciolta al pari di ogni altra cosa nell'ombra, come in un ritorno alla primordiale indeterminatezza dell'essere; non soffriva più. Persino quest'ultimo dubbio, balenatogli più in alto, oltre lo splendore delle stelle, si era spento con tutto quanto moriva intorno a lui, nella dissoluzione della notte. Che importava il motivo della morte, quando bisognava morire? Il medesimo silenzio penetrava in tutti i cuori, la stessa ombra in tutte le teste: non si poteva essere immortali; perché noi pretendevamo dunque di esserlo? Vi era differenza nella morte? Che cosa era il suicidio? Si muore di tutto, tutti si suicidano, giacché ogni gioia troppo intensa, ogni dolore troppo acuto ci costa forse un giorno: qualunque opera ci toglie quella parte di noi stessi, colla quale la compimmo; i nostri figli sono i nostri parassiti sino al giorno che, non potendo più nutrirsi di noi, ci abbandonano per soccombere altrove. In qualsivoglia momento la morte è sempre la stessa: un terrore, un'angoscia, e la soffocazione in fondo. Non ci si pensa, perché tutte le idee adunate intorno alla morte, paradisi, inferni, non riproducono che teatralmente il nostro oggi sullo sfondo di una notte senza domani. Quando l'ora della morte è suonata bisogna rassegnarsi: non è sempre così davanti a tutte le difficoltà della vita? Si chiudono gli occhi, e si ingoia il bicchiere dell'olio di ricino, come fanno i bambini. Una carrozza, che gli passò accanto fragorosamente, coi fanali accesi, gli ridiede la visione del treno sbuffante, fumante, coi grandi occhi sbarrati nella notte, come se venisse contro di lui, e tutta la terra intorno tremasse sotto la violenza del suo impeto. * * * - Vieni con me dalla Marietta: è arrivata una ragazza d'Imola. Romani alzò la testa, Gualtiero Ponti seguitava: - Venturini dice che è bella, vieni con me: poi ceneremo. Ma sebbene la domanda fosse insistente, la voce rimaneva fredda; Romani stava seduto alla cantonata del caffè Rondinini, in quell'ora pieno di gente, sotto il chiarore rossastro dei lampioni a petrolio: tutti erano vestiti a festa. Era la prima ora del passeggio notturno, per la piazza e sotto il loggiato dei signori; le ragazze passavano a frotte negli abiti chiari, sorridendo fra gli sguardi, che le cercavano avidamente. Romani si era seduto, solo, a quell'angolo. Una stanchezza malata aveva finito di vincerlo, dopo tutte quelle corse fuori e dentro la città: si era cacciato per molti vicoli, sino alle mura, che da Porta Pia vanno a Porta Montanara dirimpetto alla linea delle colline, e anche là aveva trovato la stessa gente, coppie di amanti, torme di bambini, crocchi di mamme, e, tratto tratto, un vecchio, che passava come un'ombra nell'ombra sempre più densa della sera. Gli era rimasta negli orecchi la cantilena di alcune voci. - Dove ti sei nascosto oggi, che non ti ho più visto? - ridomandò Ponti. - Ho girato. - Solo? - Così... non sempre, - si corresse, ricordando l'incontro con don Procopio. - Dunque vieni? - No. - Perché? Vieni. - Non ne ho voglia. Sopraggiunse un altro, al quale Ponti fece la stessa proposta, e che accettò. Romani rimase solo daccapo. Perché non aveva accettato? Era stato un rifiuto istintivo, ripugnante, quasi di un ferito, che qualcuno, stupido o villano, invitasse a ballare, poiché gli era accaduto di ricusarsi così nella giornata ad altri inviti, sempre colla stessa sensazione amara di disgusto. Il passaggio delle donne, che talvolta a quell'angolo gli sfioravano quasi il ginocchio colla gonnella, lo tirava inconsciamente ad altri pensieri: qualche profumo vaporante dalle vesti errava nella sera, nomi femminili salivano dai crocchi vicini a lui, mentre al di là della strada, in quel largo dinanzi al loggiato, fra i tavolini, molto signore si erano già fermate, e i camerieri correvano affaccendati, recando o togliendo i bacili. La festa diventava più tentatrice nelle ombre della notte; pochi bambini erano ancora in giro, nell'aria agitata da uno scirocco leggero soffiavano improvvise caldezze. Le donne, quasi belle a quell'ora, avevano nel passo qualche cosa di diverso, un'ondulazione, che gli abiti festivi rendevano più provocante, quindi voltavano il capo allungando i sorrisi, o si chiamavano fra loro a sussurrare una confidenza non difficile ad immaginarsi. Egli si accorgeva di osservare tutto questo intorno a sé. E quell'invito brutale di Ponti gli ritornava più insistente dalla varietà di quella scena trepida di voci e di fruscii femminini. Perché aveva adunque rinunciato? Fra la folla delle donne ne distinse alcune, delle quali in gioventù era stato l'amante: passavano come le altre, sedotte e seduttrici, in quella prima notturna promessa della primavera. Si capiva, si vedeva che la gente, immemore delle proprie sciagure, o magari a cagione di queste, voleva esaltarsi gaudiosamente in tutte quelle sensazioni, che, risvegliate dai rapidi contatti della strada, nei brevi incontri ai caffè, ingrosserebbero a cena fra la crapula dei discorsi e la fiamma dei bicchieri, per irrompere più tardi nei convegni colle donne irritate dalla troppo lunga attesa. Egli stesso aveva fatto così mille volte, senza riflettervi. Conosceva quelle stanze della Marietta, nell'angolo di un vicolo, sopra un'osteria, poco lungi dalla piazza. La Marietta, non ancora vecchia, pareva quasi un uomo alla durezza della fisonomia e con quella voce grossa. Raramente capitava da lei qualche bella ragazza. Se avesse seguito Ponti, non vi sarebbero in due rimasti più di mezz'ora, giacché in quel luogo si entrava e si usciva, avendo preso tra le braccia per cinque minuti una donna incognita, come lungo la strada i carrettieri si arrestano talvolta ad una bettola e vi bevono un litro in piedi, presso il banco dell'oste. Anche Camilla doveva spesso aver fatto come le altre, prestandosi all'amore momentaneo, nel baratto assurdo di un bacio contro uno scudo, senza piacere, senza pudore, senza memoria. Si ricordano forse certe cose e certi appuntamenti? Ma se ciò non fosse, forse la gente impazzirebbe; tutto nella vita ha la propria immagine falsa, l'amore e la gloria, il vizio e la virtù, e quando il sangue fermenta improvviso, o l'anima non resiste più alla visione di sé medesima, si ricorre a queste falsificazioni come ad un rimedio, che placa il male senza ingannarlo e ci lascia, nella prostrazione dello sforzo compito, una più pronta facilità al riposo. Il suo sguardo frugò rapidamente la strada, che da quell'angolo del caffè Rondinini saliva parallelamente al Corso, per vedere se Ponti ritornava, pentendosi già in cuore di non averlo seguito. Tutto quell'incubo di morte, così soffocante da venti ore, gli faceva schizzare dalla coscienza un desiderio acuto, quasi stridente, di gustare anche una volta quel piacere che, falsato, rimane pur sempre senza confronto con alcun altro. Perché resistere? Aveva egli paura che gliene fosse domandato conto dopo la morte? Come quei condannati, cui era tutto permesso nell'ultimo giorno, e che si sentivano prendere subitamente da golosità frenetiche, egli avrebbe voluto adesso una donna a qualunque costo; era quasi un orgoglio di sfida lanciato al mistero della tomba, un estremo impeto di profanazione contro tutto quanto stava per abbandonare. Le stesse contraddizioni, delle quali nel giorno aveva tanto sofferto, gli si mutavano in un bisogno anche più spasmodico di afferrare per l'ultima volta la vita nel suo momento più intenso, e spremerla, col superbo sottinteso della morte, in una sola stretta. Pregustava già una gioia acre nel constatare l'inintelligenza della donna davanti all'orrore imminente di tale tragedia, con quella falsità di carezze sempre uguali nell'amore gratuito o venduto. Sul marciapiede di contro, rasente all'ultimo gradino della grande scalinata, in quel momento passò l'Anitra, una donna di trent'anni, cui il portamento dei fianchi troppo bassi aveva meritato questo nomignolo: era sola, vestita al solito con una certa modestia, malgrado il proprio mestiere di etèra plebea. Si alzò di scatto per seguirla, nessuno gli aveva badato. Dovette passare attraverso molti gruppi di donne, ma dai loro sguardi si accorse subito di essere sospettato, perché andava troppo dritto su quella traccia. Sapeva dove ella abitava: un vicolo remoto, lercio, dal nome purissimo "Delle Vergini": ma l'Anitra rasentò la fontana a sinistra. Si era accorta di lui. Allora egli non osò più accelerare il passo, il pentimento lo ripigliava. Ella proseguiva adagio, con quel suo pesante ondulamento delle anche, che si distingueva bene nell'ombra rotta dai fanali. I capelli neri le facevano un grosso mazzo sulla nuca. La gente si rarefaceva ancora, lungi dalla piazza, l'ombra s'infittiva: egli passò sull'altro marciapiede per essere più libero. - Perché non la fermo? - si chiese, senza saper rispondere. Tuttavia quell'orgasmo gli durava, si sentiva battere il cuore, come altre volte recandosi a qualche convegno passionale; aveva i sensi irritati e quella leggerezza, che il desiderio della donna sembra dare a tutto il corpo. L'altra rivolse la testa. Egli la riconobbe: il suo viso tondo dalle guance troppo rosse, col mento quasi da bambina, gli occhietti chiari. Gli parve di distinguere persino quella riga grassa sotto il collo, la cosa che più in lei gli era piaciuta. - Non ha altro lei! Anche Camilla, che cosa aveva di più? Quando si è eccitati, si farebbero delle pazzie per loro, e dopo non ne resta niente. Le donne sono tutte uguali: Caterina getterà qualche urlo, poi non ci penserà più, come le altre. Gli sciocchi siamo noi, a credere che esse ci amino. Chi ama? Io stesso, che mi sono rovinato per questo, amo forse Camilla adesso? Intanto proseguiva sul marciapiede, sempre alla stessa distanza. Un uomo fermò l'Anitra, che girò ancora la testa indietro; egli si arrestò, mentre i due invece seguitavano innanzi chiacchierando a bassa voce. Allora svoltò al primo vicolo allungando il passo per ritornare in piazza. Erano le otto e mezzo. Improvvisamente, tra quella moltitudine festiva, si ricordò di una biroccia incontrata nel pomeriggio, lungo la strada di circonvallazione, dinanzi al nuovo macello. L'aveva guardata con una sensazione di stupore, poi non ci aveva pensato altro. Era una delle solite biroccie, verniciate di turchino, dalle ruote alte, tirata da un grande mulo secco; un vecchio carrettiere senza giacca le veniva di fianco, con un mozzicone di frusta nelle mani e una pipetta quasi senza cannuccia fra i denti. Egli si era dovuto ritrarre sull'orlo del fosso per non lasciarsi schiacciare, seguendola collo sguardo sino alla svolta della strada, dove il canale si allarga in una immensa pozzanghera. La biroccia, colma di stracci e scossa da un triste tremito di paralisi, pareva tratto tratto stridere lamentosamente sotto il cumulo delle miserie, che le gonfiavano i fianchi. Gli stracci, gettati gli uni sugli altri a palate, si confondevano in un colore sudicio, dentro al quale qualche cosa biancheggiava ancora, un rimasuglio di candore fra tutte quelle immondizie lasciate indietro dalla vita, e nullameno raccolte da qualcuno per viverne. Egli aveva veduto tutto alla prima occhiata, l'aggrovigliamento di quei cenci tessuti con ogni sorta di fibre, lacerati, sfrangiati, coperti di macchie e di croste, che ricordavano altre piaghe, esalandone ancora il puzzo grasso e penetrante. Una polvere cinerea ondeggiava sopra di essi ad ogni traballone senza potersene staccare, mentre la massa, scrollandosi con una mollezza di carne in putredine, rabbrividiva ancora sotto un volo di mosche affamate. E sopra i suoi fianchi, lievi brandelli riaccendevano tratto tratto nel sole qualche pallore di lino o luccicore di seta, tosto soffocato dalla bigia pesantezza degli altri stracci, che si spostavano senza cadere, come se tutte le loro morti vi si tenessero avvinghiate. Una fetida nausea di cadaveri veniva da quella bara, coi segni tuttavia visibili della vita passata, già fermentante nell'ultima dissoluzione. Tutto lì dentro era stato nuovo in altri giorni: quante migliaia di gente vi aveva lasciato il segreto della propria esistenza! Quanto vino, quanto sudore, quante lacrime, quanto sangue vi erano caduti! Quanti sogni vi rimanevano ancora, che sparirebbero nella medesima buca! Dalla camicia della vergine al mantello del soldato, dalla fascia del bimbo al grembiule del beccaio, dalla veste che tutto un popolo aveva ammirato, all'abito che l'accattone aveva lasciato solamente morendo, forse nulla di quanto la vita umana aveva adoperato per nascondere la propria nudità, mancava in quella bara. Il pensiero avrebbe potuto frugarvi senza fine, come dentro un cimitero. Egli ne aveva ricevuto confusamente questa impressione nella fugacità di un istante, poi aveva riflettuto che dovevano essere stracci troppo sordidi per cangiarsi in carta dopo il solito imbianchimento, e destinati quindi come concime a qualche grassa coltivazione. Adesso la visione immonda gli ritornava in piazza come un finale ironico, che conchiudesse quella festa, trattando allo stesso modo gli abiti e coloro che li portavano. Infatti la bellezza nella vita non dura più della primavera nell'anno: uno splendore di qualche mattino, una purità sorridente di cielo, qualche dolcezza nei tramonti, poi il sole brucia tutto daccapo, e l'autunno imputridisce quanto il sole ha bruciato, e l'inverno seppellisce quanto l'autunno ha imputridito. Quella folla di immemori era attesa come lui dalla morte a un gomito improvviso della strada: uno per uno avrebbero provato la stessa angoscia subitanea nel crollo di tutto il passato, davanti alla impenetrabile oscurità dell'avvenire. E vi arriverebbero forse peggio di lui, logori, maculati di putredine come i cenci di quella biroccia, esalando già prima di morire il fetore della decomposizione sepolcrale. Forse valeva meglio andarsene così, ancora intatto, nella pienezza delle proprie forze e del proprio dolore. La gente condanna i suicidi per dispetto della paura, che questi non hanno avuto. Un pensiero bizzarro gli solcò la mente: se la gente, volendo, potesse non morire mai, vi sarebbero egualmente dei suicidi? Qualcuno si ammazzerebbe ancora, per odio della vita? Il problema era troppo profondo nella sua stravaganza, perché egli potesse trovarne la soluzione, ma vi pensò nondimeno qualche tempo. Sapeva che le bestie non si suicidavano, pur essendo esposte a tutti gli stessi mali fisici della umanità. Era dunque l'anima che anelava alla morte, era la mente che si ribellava alla inutilità dello spasimo! Infatti la povera gente, quella che vive più materialmente, non pensa mai al suicidio: non la fame uccide, ma l'umiliazione di mostrarsi affamato fra la gente satolla. Chi nacque accattone, mendica per tutta la vita, e trova forse la felicità in quest'ozio; chi invece è costretto da un disastro a questuare, non potrà mai perdonare né a se stesso né agli altri lo strazio di tale subordinazione. La sua angoscia in quel momento stava appunto nel sentirsi come un mendicante fra la folla allegra e spendereccia, che non gli avrebbe dato un soldo. Essere espulso dal mondo, come sono cacciati i poveri importuni dalla porta, quando si commise l'errore di lasciarla loro oltrepassare! - La carità? - pensava. - Ma, se ci scacciamo l'un l'altro da tutti i posti, se dovendo tutti morire, la morte degli altri non ci tocca nemmeno... Dov'è la carità? Anch'essa è un lusso di certi istanti: si dà qualche cosa, perché la momentanea gioia di chi riceve aumenta la nostra giocondità. È come nei pranzi: ci vogliono degli invitati; ma si amano forse i proprii invitati? Bisogna essere in molti ad una festa di ballo; ma la soddisfazione di ognuno è appunto nel primeggiare sugli altri, vedendoli così segretamente iracondi del piacere loro tolto. * * * Sapeva che non vi sarebbe entrato, ma da venti minuti passeggiava sull'altro marciapiede, dinanzi alla porta della propria casa. La gente si era diradata anche nella piazza, solo nei due grandi caffè, più vivamente illuminati, proseguiva la festa della domenica. Poche donne passeggiavano ancora. Egli si era diretto verso casa, per abitudine: Caterina doveva aspettarlo e, non vedendolo comparire, avrebbe certamente pensato che volesse evitare un nuovo discorso sulla zia Matilde. Lungo la strada notò molte finestre illuminate; era quella l'ora più dolce, dalle nove alle nove e mezzo, quando le donne rientravano, e si andava a cena chiacchierando della giornata, con quella contentezza di non aver lavorato, e non pensando ancora alle necessità dell'indomani. Egli si riproduceva nella mente la scena di Caterina coi fanciulli a tavola; questi volevano senza dubbio l'altra metà della zuppa inglese serbata a pranzo per il giorno dopo, mentre ella, indispettita per la nuova assenza di lui, si ostinava nel rifiuto. Improvvisamente, questo piccolo dolore dei bambini, prodotto dalla sua assenza, gli divenne intollerabile. - La mia assenza! - si ripeté sottolineando questa parola, della quale si era inconsapevolmente servito. Caterina era poi andata dalla zia Matilde? Questa domanda lo forzava a riflettere sull'orario, secondo il quale la posta distribuiva le lettere; ma si persuase subito che la sua non sarebbe recapitata prima delle nove, all'indomani. Chi era il postino, che faceva il servizio per il rione della zia Matilde? Forse essa, riconoscendo la calligrafia, avrebbe aperto la lettera prima ancora che quegli avesse potuto uscire di casa: e allora? In un baleno vide tutto il dramma dopo la propria morte, ma così rapidamente, in una luce così intensa, che non poté sostenerla. Camminava senza accorgersene, a testa bassa, con tale fiacchezza, che qualcuno fra i rari passanti avrebbe necessariamente finito col notarlo; arrivava dal campanile di San Lorenzo, il più alto della città, nel mezzo della strada, sino alla barriera. La notte era stellata, il fiume, ridivenuto quasi secco fino dalla mattina, non mormorava più come nella notte antecedente; i primi fanali del borgo illuminavano sinistramente le alte spalliere del ponte in ferro. A forza di andare su e giù, la coscienza tornava ad assopirglisi nel ritmo stesso di quell'impulso, ma nel passare dinanzi alla propria porta alzava sempre gli occhi. Due finestre v'erano illuminate, quella della saletta da pranzo e, all'ultimo piano, l'altra della camera da letto di don Procopio. Se non che la luce filtrando appena di fra le griglie, diventava impossibile sorprendere nell'interno il passaggio di un'ombra. Si ricordò dei progetti con Caterina nel primo periodo del matrimonio per un restauro alla facciata della casa: sarebbe stata una spesa di quasi duemila lire, alla quale avevano rinunciato senza fatica. Caterina invece avrebbe desiderato di accomodare qualche stanza nel podere a Santa Lucia in Vado per potervi villeggiare di qualche guisa nell'estate. Anche quello era stato un sogno impossibile. Tutto dileguava, per sempre! Si dovrebbe vendere ogni cosa dopo, quasi subito, in mezzo a una disperazione piena di rimproveri contro di lui: eppure egli non ne soffriva più in quel momento. Come se il grande distacco si fosse già compito, vedeva tutto a una distanza troppo grande, con quella indifferenza che ci lasciano le cose impossibili alla nostra volontà. In lui non sopravviveva che l'abitudine, quel fascio di rapporti indefinibili, onde l'uomo è legato alla propria casa, quella incapacità di pensare sé medesimo in modo diverso dal come si è vissuti, tutte quelle impronte incancellabili, colle quali la vita compose la nostra fisonomia spirituale. La casa, con quanto vi stava dentro, era come una parte di lui stesso. Il tempo passava. Quella passeggiata lenta, uguale, aveva finito coll'attrarre l'attenzione delle due guardie daziarie sedute al fresco fuori della gabella; si erano alzate e lo spiavano. Allora egli diè volta bruscamente, ma quando fu al campanile non seppe andare oltre. Voleva vedere quella finestra ancora una volta. L'orologio della piazza sonò le dieci e un quarto, il lume passava sempre attraverso le griglie: allora si ricordò che Caterina soleva spesso la sera ripassare la lezione dell'indomani a Ada. - Finché c'è il lume non me ne vado, - borbottò ostinatamente. Ma le guardie si erano messe a passeggiare, e venivano verso di lui: dovette tornare indietro. Per un momento pensò di salire con un pretesto, salutare tutti e scappare; titubava, si sentiva affranto. Ritornò ancora, ma siccome le guardie stavano ferme in mezzo alla strada, a quaranta passi dalla gabella, fumando, si persuase di essere sorvegliato. Quasi ciò potesse distogliere i sospetti, traversò la strada per venire sull'altro marciapiede, volgendo daccapo la schiena alla propria casa. Poi un passo sollecito gli risuonò dietro. - Oh tu, Romani! - Tu, Landi? - Esci di casa? - Sì. - Io non ho potuto cenare a casa mia: un'altra scena con quella linguaccia di mia moglie! Vado al Falcone, accompagnami. * * * Aveva già bevuto due ponci, seduto all'ultimo tavolino di sinistra nella prima sala, col gomito appoggiato sulla cassa di vetro, nella quale si conservavano le paste. Gaudenzi, l'impiegato del telegrafo, non si era ancora veduto, l'avv. Guglielmi doveva essere al club, quel vecchio maestro chiacchierino giocava nell'altra sala, e s'udiva spesso la sua voce in falsetto salire fra scoppi di risa. Una malinconia fredda gli era penetrata sino dentro le carni, come certe umidità notturne, contro le quali non sembra giovare alcuna bontà di panni. Nel caffè, pieno degl'insoliti avventori domenicali, il chiasso cresceva più villano; erano gruppi di artieri in gazzarra dal pomeriggio, vestiti con pretensiosità plebea, dalle faccie inintelligenti e vanitose. Quasi tutti portavano un piccolo cappello a cencio sull'orecchio, e tentavano sui divani o sugli sgabelli la posa più provocante, giacché pareva loro una specie di conquista quel bere ai tavoli, dove per solito sedevano i signori. Nei loro discorsi, quasi tutti di politica, ritornava sempre la stessa frase con voce sempre più alta, o con accento più marcato, mentre in fondo ai loro sguardi vaghi nel primo imbambolimento dell'ebbrezza, s'accendevano piccole fiamme. E i più irrequieti si guardavano intorno, cercando qualcuno dall'aspetto signorile per la compiacenza di potersi momentaneamente, davanti a lui, mostrare in una ostilità mimica. Egli vedeva tutto questo senza che alcuno gli badasse, perché non era mai stato veramente un signore. Colla testa abbandonata sull'alta spalliera rossa del divano, una mano in tasca, osservava i cerchi di fumo turchiniccio allontanarsi, dilatandosi lievemente dalla punta dello zigaro, nell'aria già greve di tutti quegli aliti. Al momento di entrare sotto il loggiato aveva rivolto la testa verso il grande orologio della piazza, illuminato: segnava le dieci e mezzo. Le ore, così lente nel giorno, si erano tuttavia involate con una rapidità raccapricciante. Si tastò la rivoltella nella tasca sinistra della giacca, pensando un'altra volta, con un senso d'impazienza, come non avesse incontrato né lo strozzino, né il signor Bonoli, né il pretore, che dovevano conoscere il suo dramma. Credeva che la loro vista sarebbe bastata a raddoppiargli l'energia, almeno per quella necessità d'ingannarli sino all'ultimo col fingersi indifferente. Invece, per tutta quella lunga giornata, nulla era venuto ad aiutarlo: aveva recitato troppo bene dissimulando. La sua fine doveva compiersi come per qualunque altra malattia, senza né ricevere né dare ad altri alcuna insolita emozione. Perché? A che cosa serve la morte? Perché era nato? Se non vi erano perché, tale infinita inutilità diventava il più profondo dei misteri. Nel bisogno di scostarsi dall'ultimo momento, il suo pensiero fluttuava daccapo all'urto delle sensazioni, che gli si rinnovavano nella memoria. Il babbo e la mamma, pieni per lui di tenerezza, lo avevano allevato in un bel sogno di avvenire, addormentandosi per sempre nella tristezza sconsolata di una disillusione finale; egli aveva amato i proprii bambini, rifacendo sopra di essi il medesimo sogno. Perché? Questa parola lo sbalzava da un altro lato; Camilla era passata una sera dinanzi a lui, si erano parlati, egli aveva provato un rimescolamento profondo, non aveva capito più bene, si era rovinato per lei senza accorgersene, e senza che ella se ne accorgesse. Perché? Lo strozzino, d'accordo col signor Bonoli, aveva portato la sua cambiale falsa al pretore: volevano mandarlo in galera? Volevano costringerlo al suicidio? Perché? Che cosa importava loro? Era così. Tutte le vite si rompono come bicchieri l'uno contro l'altro, senza che alcuno abbia mai potuto leggervi la marca di fabbrica, o indovinare chi verrà a raccoglierne i cocci. Solamente allora si accorgeva di aver sempre agito senza un perché; tutta la sua esistenza non aveva un solo atto necessario, che la spiegasse, all'infuori dell'avere mangiato e dormito, due bisogni istintivi per mantenerla. Il resto rimaneva inesplicabile. Camilla e Caterina erano entrate nella sua vita quasi allo stesso modo, egli non aveva riflettuto in nessuno dei due casi; era diventato padre così, perché le donne rimangono gravide, ecco tutto, e aveva allevato i figli per un altro istinto. Gli affari, i divertimenti dipendevano sempre dalle circostanze, anche quando si voleva combinarli con ogni studio possibile: perché dunque si pensava e si soffriva tanto? La sua mente ritornava alle meditazioni della mattina su quell'argine del fiume, nel silenzio della campagna, con un nuovo terrore degli stessi problemi. Ma invece di domandarsi se Dio era, e come ci giudicherebbe nel momento dopo la morte, si sentiva sopraffare dal mistero primordiale della vita. La nozione, per lui oscura ed inevitabile, di un creatore, non faceva che rendere ancora più inintelligibile il quesito: perché si nasce? Anche se Dio esistesse, e dovesse punirci o premiarci dopo morti, la ragione di averci voluto in questo mondo non si vedeva. Se egli era Dio, che cosa poteva importargli di noi? La nostra vita non spiegava sé medesima, mentre l'antagonismo fra la sua legge e la nostra volontà, per lui che ne doveva sapere anticipatamente il risultato, diventava una ridicolaggine. Che bisogno c'era di nascere, per dover pensar sempre senza capire nulla di nulla, soffrirne di tutte le sorta, e morire non avendo compito niente? Essendo cattivi, aggraviamo l'uno contro l'altro le nostre disgrazie, essendo buoni, ci aiutiamo scambievolmente contro il male che non abbiamo fatto, ma che ci tocca patire ad ogni modo. E davanti a questa tenebrosa fatalità del male, che si varia nella vita per tutta la gamma del dolore, dalla più lieve fitta corporea alla più larga lacerazione spirituale, egli tornava sempre a chiedersi, con l'insistenza spaventata di un bambino: perché si nasce? Un terrore fantastico gli faceva pensare a qualche potere mostruoso, che dirigesse il mondo e vi rinnovasse continuamente tutte le crudeli necessità: così i viventi dovevano divorarsi a vicenda per mangiare, e straziarsi l'un l'altro per godere. Infatti, non vi era gioia nella società, che non fosse un dolore per qualcuno; non nasceva nel mondo un individuo, senza essere composto coi resti di altri morti, non si poteva respirare, senza uccidere milioni di microbi, senza inghiottirne altri milioni, che dovevano ucciderci. La legge suprema era dunque la morte: nessuno vi sfuggiva, nessuno aveva torto o ragione davanti ad essa. L'immaginazione esaltata da quella crisi troppo lunga, gli si smarriva in una continua evanescenza di quadri orribili, che mettevano in quel suo sonnambulismo una specie di incubo. La sua faccia era diventata bianca, cogli occhi fissi, mentre il chiasso delle voci e il tinnìo dei bicchieri nelle sottocoppe e nei bacili cresceva sempre da tutti i tavoli. - Ho qualche cosa sullo stomaco, portami un bicchierino di cognac, - disse. Il cameriere si affrettò sorridendo; il padrone, bell'uomo, già cameriere nello stesso caffè pochi anni prima, si accostò fumando in una elegante pipa di schiuma, a testa di cavallo. - Che cosa ha mangiato, signor Romani? - gli chiese cortesemente. - Non lo so neppur io. - Forse dipende anche da tutta questa gente! - l'altro soggiunse a bassa voce, girando intorno un'occhiata di disprezzo. Si era seduto famigliarmente sopra uno sgabello accanto a lui. - Questa sera la sua partita è andata a monte. Ha letto la nuova appendice del Secolo ? - e si allungò per prendere dal banco un fascio di giornali: - a me pare bella assai. Romani rimaneva distratto. - Ecco Montalti! - esclamò il padrone, vedendo entrare quello scrivano storpio, che venne diritto al loro tavolo; poi capitò Cavina, il muratore wagneriano; Rotoli, il vecchio maestro chiacchierino, che aveva finito la partita nell'altra sala, si fermò anch'esso dinanzi a loro. Era quasi la stessa conversazione di tutte le altre sere. Il padrone ricominciò il discorso sul nuovo romanzo del Secolo - Idillio tragico -di Bourget, spiegando come gli paresse bello, perché Montecarlo vi era dipinto colla massima esattezza. Egli vi era stato, da giovane, nelle proprie peregrinazioni di cameriere. Ma lo scrivano, socialista malcontento, protestò: quello era un romanzo aristocratico, buono a nulla, giacché gli scrittori di vero ingegno non potevano occuparsi che delle miserie popolari. - Ho letto anch'io qualche appendice di questo nuovo romanzo del Bourget, - e pronunziò il nome come era scritto. Allora Cavina lo corresse, corsero frizzi. - Tu sei un wagneriano. - E me ne vanto. - Wagner era socialista. - Va! se daranno il Lohengrin in carnevale, vedrai quanto popolo vi andrà, - ribatté l'altro, che intanto aveva preso il Secolo per leggere le notizie dei teatri. Fortunatamente nessuno di loro si sentiva in vena quella sera, poi vi era troppa gente nel caffè, e Montalti davanti alla brutalità di quelle sbornie, che stavano già per scoppiare, non osava i soliti sproloquii. La voce fessa e la sillabazione troppo staccata e monotona, colla quale declamava, gli avrebbero attirato dal pubblico qualche villana interruzione. Si misero a parlare di donne: anche Cavina quella sera era stato in casa della Marietta. - La ragazza era bella? - chiese Montalti con un luccicore di gatto negli occhi. - C'è ancora, parte col diretto di un'ora dopo mezzanotte. Romani si voltò: - E dove va quel treno? - Bella! a Bologna. Rimase perplesso: - Ci sono altri treni? - Prima di giorno? Quello che da Bologna ritorna per Ancona alle tre, e l'altro che arriva da Ancona verso le quattro e mezzo, perché rimane ancora impedita la linea di Porretta. - Ah! - Deve partire, signor Romani? - gli si volse il padrone. - Sì, - e la voce gli si era fatta quasi dolce. - Dove vai? - domandò Cavina. - Non lo so. - Un mistero dunque? - Grande. Tutti sorrisero. Ma il baccano domenicale li teneva in disagio. Lo scrivano, malgrado le declamazioni socialiste, sapeva di essere poco gradito; Cavina era sospettato di aristocrazia per i modi abbastanza garbati e quella istintiva predilezione della grande arte, che lo traeva imprudentemente a ridere delle commedie e delle musiche gustate dal popolino; il vecchio maestro, benché simpatico per la dolce ingenuità del carattere e l'onestà della lunga vita, s'irritava troppo, nella lieta viridezza di tutte le proprie forze, contro ogni critica alla parte moderata. Egli era rimasto dentro la formula cavourriana, condannando ad alta voce tutti gli eccessi politici e le demenze atee dei nuovi rivoluzionari. - Eh, maestro! - esclamò Cavina; - ecco qui altri due suicidii a Torino; non c'è più religione. - Voi lo dite per ischerzo, giovinastro. - Come si sono ammazzati? - domandò Romani. - Uno si è avvelenato, l'altro si è gettato sotto il treno. E Cavina lesse i due incisi di cronaca, secchi, terribili. - I giornali non dovrebbero nemmeno stampare certi fatti, - disse il maestro: - le teste leggere si esaltano e, una volta esaltate, li commettono più facilmente. - Allora io sono una testa pesante. Possono raccontarne dei suicidii, io non mi suiciderò mai, - replicò Cavina. - Chi può dirlo? - ribatté Romani. - Io! Stai pur sicuro. Ammazzarsi per amore o per debiti, giacché la gente si ammazza quasi sempre per queste due cause? Per amore? Se una donna non ti vuole, ve ne sono sempre troppe disposte a prenderti; e quanto ai debiti, aspetterò che si ammazzino prima i creditori. Se io non ho quattrini per pagarli, mi pare che nell'imbarazzo ci siano essi. Si rise. Romani non rispose. - La gente si ammazza, perché la società è in isquilibrio, - sentenziò Montalti. - Si è sempre ammazzata in tutti i tempi, dev'essere una malattia. - Colpa di non credere in Dio; la nostra vita ha il suo scopo altrove. - Quale? - domandò Romani al maestro. - Quale? - ripeterono ad una voce Cavina e Montalti. - Dio..., - cominciò il maestro. - Non deve aver parlato molto chiaro, - interruppe sorridendo il padrone, - perché si discute ancora su quello che ha detto. Fatto sta che, quando la gente sta male, se ne va; non c'è altro di evidente. Nessuno può dire che non si ammazzerà... le circostanze sono tante! Tutti si arrestarono perché, pochi mesi prima, l'altro suo socio nel caffè si era appunto suicidato con un colpo di rivoltella alla tempia destra. Però Montalti, che voleva sempre dire l'ultima parola scientifica, propose il problema: - Quale categoria di persone dà minor contingente al suicidio? - I preti, perché stanno meglio di tutti, - si affrettò a rispondere il padrone. - I milionari, - ribatté Montalti, con quell'acre accento d'invidia, proprio a quasi tutti i socialisti quando parlano di signori. - T'inganni; c'era appunto venerdì sul Secolo un articolo, non ricordo più di quale scienziato, che spiegava come le probabilità del suicidio aumentino in ragione della ricchezza. - Non può esser vero, - si ostinò Montalti. - Lei, maestro? - tagliò corto il padrone. - Coloro che non sentono più la religione. - Lo sapevo... Romani doveva dire ancora la sua, ma dal tavolo prossimo due o tre operai si erano voltati, udendo il quesito, ed ascoltavano le risposte. Uno proruppe: - Lo dico io: i beccamorti! essi sanno meglio degli altri che la morte è brutta: la morte è come una donna, ma finché non ci pare bella, non commettiamo la sciocchezza di sposarla. - Bene! - fu gridato in coro. - Un bicchierino a Matteo! - Questo voglio offrirlo io, - disse il padrone alzandosi: - mi sei piaciuto nella risposta. * * * Guardava il grande orologio nero fra le due scansie gialle, al disopra della porta. Gli altri se n'erano andati in gruppo, e a poco a poco quasi tutti i tavolini erano rimasti deserti, mentre l'aria della notte, entrando leggera dalla bussola spalancata sul portico, spazzava i vapori dei ponci e dei sigari. Dal fondo della cucina giungeva, tratto tratto, un tintinno dei bacili e dei bicchieri, che il facchino lavava forse per la centesima volta nella giornata. Collo sguardo fisso sul quadrante dell'orologio, egli misurava il muoversi lento della grande freccia, che segnava i minuti; ne mancavano undici a mezzanotte. A quell'ora in punto uscirebbe dal caffè. Il sangue gli batteva a grosse ondate sul cervello, facendogli vacillare la vista. Adesso era quella paura materiale, che i nervi non possono più sopportare nella estrema imminenza della catastrofe, quando il pericolo cessa oramai di esser tale per il compiersi stesso del fatto. Non c'era più tempo di riflettere, di soffrire: fra pochi minuti sarebbe entrato nell'orbita della esecuzione. Quindi tutto quanto aveva patito nel giorno gli si condensava in uno spasimo solo, attanagliandogli ogni fibra del corpo e dell'anima; sentiva, dentro, un incalzare di sensazioni, una ressa di idee, uno sbaraglio di memorie, come quando un falco piomba sopra una nidiata di pulcini e ne ghermisce uno a volo, risalendo al cielo con un solo colpo d'ala, e tutti gli altri si sbandano esterrefatti fra le erbe alte del campo. Il suo sguardo era diventato così acuto, che distingueva veramente quel minimo spostarsi a gradi delle frecce. Tutta la sua vita stava ancora in quel piccolo segmento, interrotto dalle cifre nere e madreperlate del X e del XI, due spazi che si sarebbero riempiti con due dita. Non aveva altro. Avrebbero potuto offrirgli chi sa che cosa, e non sarebbe bastato ad allungargli di un altro dito la vita. Il padrone era tornato dietro il banco, e si era messo a contare dei soldi da una scodella di legno. Romani pensava: - Non ho più che otto minuti. La freccia gira senza sapere il perché, ma se sbagliasse, il tempo passerebbe egualmente nella stessa misura: non si può fermarlo. Ecco qui, questi ultimi otto minuti sono inutili, vuoti, come tutto il resto della mia esistenza! Che cosa posso fare? Rimango qui, non mi muovo, eppure il tempo mi trascina. Debbo finire prima di essere logorato: quando l'orologio si ferma, è forse logoro? Finirò così; una ruota che s'incaglia, e la freccia si ferma. Anche la vita è un circolo come quello dell'orologio: tutte le ore sono identiche, non significano nulla; il tempo non è soggetto all'orologio, più che la vita non dipende da noi. Potrei essere il più potente uomo del mondo, e tutta la mia volontà non saprebbe da questo posto arrestare quella freccia, che va sempre... È già passato un altro minuto. Debbo essere pronto. Si portò ambo le mani al volto, strofinandoselo violentemente come per destarsi. Nel caffè entrò un altro gruppo d'operai, più avvinazzati di quelli che n'erano usciti, ma per fortuna si fermarono in fondo agli ultimi due tavolini presso la bussola. Vide il padrone uscire dal banco e passargli dinanzi per servire prontamente i nuovi avventori, perché i camerieri erano in quel momento nel retrobottega. - Debbo decidermi! Non capiva che questo, la necessità ultima, la stretta suprema, senza nome, nella quale già soffocava. Tutto il resto non esisteva più. La febbre gli faceva battere i polsi, tremava in quell'incertezza dello smarrimento finale, che toglie tutte le direzioni, pur sentendosi nel profondo certi impeti, simili ai guizzi della candela che si spegne. Aveva appoggiato la testa sopra ambo le mani, per non guardare più l'orologio; gli pareva di ascoltarlo, benché non l'udisse. - Appena mi alzo di qui, sarò morto! Caterina, i miei bambini saranno già altre persone; adesso sono ancora mia moglie e i miei bambini... per cinque minuti. Poi, più nulla. Non c'è altro. Ho fatto il possibile inutilmente; quella prima cena all'Aquila d'oro mi ha ammazzato, mi ha ammazzato quella donna, che non ho amato; non la conosco nemmeno, adesso, ella non mi conosce più. Domani ci sarà ancora il sole, senza di me. Non ho più che due o tre minuti... È impossibile, sento che è impossibile, non avrò mai il coraggio di uccidermi! Non lo aveva: la testa gli pesava sempre più sulle mani, come una cosa morta. Si tastò ancora la rivoltella nella tasca. - Con questa, no. * * * Il medesimo gruppo, dal quale Matteo si era voltato per dare anch'egli la propria soluzione al problema proposto da Montalti, rientrò vociando nel caffè; erano stati a bere nella liquoreria sotto il campanile della piazza, e ritornavano per bere. Parve che vedendolo ancora a quel posto, si decidessero unanimemente, senza consultarsi, con una di quelle intese da ubbriachi, a gettarsi sul suo tavolo. Egli spaventato si alzò. In un lampo aveva veduto sulla faccia di Matteo, invanito di quella prima risposta, l'intenzione di riparlarne; si voltò verso il banco, ma era già tardi. Il gruppo lo circondava; avevano gli occhi imbambolati, e sui volti madidi quella espressione vaga di spavalderia ostile. Il padrone ripassò dietro il banco, mentre uno dei più briachi cadeva quasi di peso sopra uno sgabello borbottando: - Cognac! - Beva un bicchierino con noi, signor Romani; ho risposto bene poco fa, non è vero? - Mi sei piaciuto, Matteo, - tornò a dirgli il padrone con accento di sottile canzonatura: - bisogna bere per trovare simili risposte. - Adesso vogliamo bere tutti insieme; anche lei, signor Romani. In quel momento Romani vide le freccie dell'orologio sovrapporsi segnando mezzanotte; così in piedi, n'ebbe come un colpo di martello sul cuore, ma avvertiva ancora benissimo quanto gli accadeva intorno. Senza rispondere, fece atto di andarsene. - Questo poi no, - insisté un compagno di Matteo, mentre il padrone diceva: - Se ne va, signor Romani? - Addio, Enrico! - rispose questi tendendogli la mano. L'accento e la forma del saluto erano così insoliti, che l'altro ne rimase sorpreso, però fu pronto a stringergliela. Romani si mosse: allora Matteo volle sbarrargli la via, ma l'altro lo respinse con un gesto. Si alzò un mormorio di disapprovazione. - Va là, - uno gli gridò dietro, - che anche tu sei un bel signore, per fare così l'aristocratico! Il padrone, invece, gli teneva dietro con occhio pensoso, avendo sentito la sua mano tutta bagnata di un sudore diaccio. * * * Romani traversò il portico con passo tentennante, e si fermò nel largo, davanti alla fontana. La notte era sempre bruna, ma piena di stelle, i fanali avevano un chiarore pallido, velato, come il murmure della fontana chiusa entro quella funerea cancellata a palle di ottone. - No! - rispose ad un pensiero, che lo avrebbe condotto a porta Appia, passando ancora una volta sotto le finestre di casa. Pel loggiato, e per quel largo, non si vedeva alcuno; abbassò la testa, e si avviò verso il corso Garibaldi, che conduceva difilato alla vecchia stazione ferroviaria. Una forza oscura lo spingeva in linea retta, come una cosa, mentre la sua mente acquistava, grado a grado, una certa lucidità: come sempre, la fascinazione della meta lo aveva preso, appena entrato nell'orbita della esecuzione, eccitandogli quel coraggio fisico proprio degli animali. Nella luce opaca della notte le case perdevano i piccoli particolari delle proprie fisonomie, le sonorità anche più lievi sembravano attardarsi nell'aria. Egli sentiva solo di andare, appoggiandosi come sulla sensazione medesima del proprio passo sul marciapiede, così che, nel passare dinanzi ad ogni porta, l'interruzione del muro gli faceva un'impressione meno rapida e tuttavia lontanamente simile a quella degli alberi fuggenti agli sportelli dei vagoni, quando il treno corre veloce. Prima di arrivare alla grande barriera fiancheggiata da due casotti giallognoli, rigati e rabescati come due grandi gabbie da canarino, verdeggiava sul piazzale di una chiesa un piccolo giardino dominato da un alto abete storpio alla cima. Il getto esile della fontana, sprizzante da un sasso e ricadente sopra una minima vasca, sembrava un singulto di bambino nella notte: un ranocchio mise uno strido gutturale e tacque subito. Nessuna finestra era illuminata. Il cancello della barriera apparve alto, massiccio, coi lampioni sulle due grosse colonne centrali; al di fuori nereggiavano i tigli dei due viali fra le case del sobborgo. Egli vide da lontano la guardia passeggiare, fumando uno zigaro, dinanzi alla gabella; nella notte nessun rumore, nessun incontro. La guardia gli aperse colla chiave il piccolo cancello a sinistra, pel quale passavano i pedoni, e rinchiuse. Egli ne risentì la scossa, l'ultima che gli dava la città; piegò a sinistra per la via di circonvallazione, lungo il canale fiancheggiato da due alte file di pioppi bruni, ombrelliferi. L'aria era più fresca, il silenzio diverso: cori di ranocchi si rispondevano a distanza nella notte, passavano dei brividi nell'aria, qualche fronda dormendo pareva percossa da un'ala fuggente, un odore di terra e di verde saliva da per tutto. Egli allentò il passo. Sapeva che avrebbe preso per la scorciatoia del Borghetto, prima d'arrivare al nuovo macello, per salire l'argine sinistro del fiume, presso al grande ponte della ferrovia. La distanza dalla barriera al Borghetto era breve; sulla sinistra sorgevano alcune case nuove di fabbri, di falegnami, di piccoli bottegai, il commercio dei quali viveva appunto non pagando dazio. Egli andava sempre innanzi spinto da quella forza oscura, che in noi sembra sostituire la volontà, quando questa non è più sufficiente a dirigere la vita. Il sonno della campagna era però meno profondo che quello della città: le piante sognavano, e la loro respirazione e i loro fremiti turbavano l'aria; miriadi d'insetti, amanti o lavoratori notturni, vi si muovevano, la terra medesima non aveva quella insensibilità dei selciati e dei marciapiedi. I suoi occhi perdevano la fissità atonica, la frescura tornava a vivificargli la pelle. Improvvisamente gli apparve davanti la vasta pozza, nella quale si allargava il canale, immota come un grande antico specchio appannato; le due righe dei pioppi nascondevano le mura della città. Il Borghetto, formato da un solo vicolo, aveva un unico fanale in fondo: vi passò. La strada, pessimamente selciata, sfiancava, avvallando, per un sentiero fra un'alta siepe e un ruscello, poco più largo di un fosso. Odori immondi e penetranti crescevano appunto dove finivano le case. Dovette badare al come poneva i piedi per non cadere; l'argine s'alzava di contro. La sua linea, biancheggiante pel sentiero che le orme vi avevano impresso e che l'erba orlava scuramente, spiccava nello sfondo dell'aria, simile ad una larga striscia d'argento. Quando vi fu salito, abbassò gli occhi sul fiume vacuo, del quale i grandi archi del ponte in pietra e laggiù la spalliera dell'altro in ferro nascondevano le estremità, quindi si volse contro le mura. Solo la chiesa di sant'Ippolito col suo campanile, e l'altro di san Lorenzo e quello della piazza si distinguevano bene: il resto era una massa cupa, incerta, nell'ombra. Egli n'era già fuori per sempre. E allora gli parve, stando fermo, che la città si allontanasse, oscillando lentamente dinanzi a lui. * * * La notte era bruna. Nell'aria vagavano sentori di foglie e quell'indefinibile aroma, che la terra fecondata sembra alitare nel maggio: l'erba era umida, le stelle brillavano sul silenzio notturno pieno di sussurri. Dentro al fiume larghe pozzanghere s'illuminavano tratto tratto di tenui chiarori, mentre laggiù, sul ponte di ferro, i lampioni parevano contigui, e più lontano l'ombra oscillava. Oltre gli argini del fiume non si coglieva che un avvallamento della tenebra in una invisibile profondità, dalla quale si sentivano salire le preoccupazioni terrifiche della notte. Le linee del paesaggio, circoscritto dagli argini e dai ponti, si confondevano oscuramente, pur serbando lo stesso aspetto regolare intorno a quella cavità del fiume, rimasto senz'acqua e senza voce. Non si vedevano case: solo il ponte della ferrovia aveva un biancicore roseo di muro, sulla cima del quale fantasticamente alto, guardava nella notte il grande occhio rosso del disco. Egli vi si incantò. La colonna di ferro sotto il disco si distingueva appena, giacché il piano della ferrovia, sfuggendo dai parapetti del ponte, vaniva esso pure dinanzi a quella enorme pupilla rossa senza una oscillazione. Così ebbe daccapo paura: i fanali lontani dell'altro ponte in ferro sparivano nella loro chiarezza come dentro un bagliore, mentre quel rotondo occhio rosso non illuminava, e vedeva e doveva essere visto ad un'immensa distanza, come una scolta ciclopica sulla ferrovia deserta nella notte. Era rimasto in piedi, inchiodato sul sentiero biancastro. Dal ruscello, che per una larga chiavica passando sotto l'argine sboccava nel fiume, la nota tremula di un rospo s'interruppe timidamente; gruppi lontani di ranocchi gracidavano con violenza, coprendo un vocìo sottile di grilli, che si confondeva d'intorno. Dopo aver guardato da ogni canto si voltò ancora verso la città; dietro la sua lunga massa, bruna come una scogliera di notte, pallidi chiarori sembravano uscire da invisibili cavità; ma non pensò più che egli era vissuto là dentro per trentasei anni. Solamente guardava. * * * Sul ponte della ferrovia il casello del guardiano era illuminato; egli strisciò guardingamente lungo il parapetto pel sentiero lasciato dall'alta ghiaia, sulla quale poggiavano le rotaie, affrettando il passo per non lasciarsi sorprendere, giacché si ricordava come fosse severamente proibito di transitare per le linee della ferrovia. Non sapeva se il guardiano avrebbe fatto la ronda d'ispezione prima dell'arrivo del treno, ma quel divieto bastava in tale momento a fargli paura. La strada ferrata si allungava dinanzi a lui dritta, piana, nera, con quei due regoli sottili, in una uniformità e in un silenzio inesprimibile: nessuna traccia, nessun suono, nessun segno. Aveva voltato la schiena al disco, e scorgeva dinanzi a sé per cento metri un filo luminoso sulla costola interna delle rotaie; null'altro. Quel piano troppo stretto gli limitava la vista, mentre una impressione gelida gli veniva da quelle due rotaie inamovibili, che non si sarebbero toccate mai. Di qua e di là della strada i campi bassi s'affondavano in un'ombra più densa, dentro la quale si distinguevano appena i ciuffi dei primi grandi alberi. Ma i suoi occhi guardavano sempre sulle rotaie quel tenue filo luminoso, che sembrava avanzare con lui. Finalmente era solo. A quell'ora, in quel luogo, per quella strada non passava alcuno; sentì di non essersi mai trovato in una solitudine simile. Vedeva la ghiaia tersa, quasi vi fosse stata posta da poco tempo, e le rotaie luccicargli dinanzi, brunite. Quindi si ricordò di esservi trascorso in vagone molte volte, di notte e di giorno, senza prestarvi attenzione: chi guarda alla ferrovia? Gli occhi sfuggono sul paesaggio che scompare. Adesso invece la solitudine di quella strada, così diversa da tutte le altre, l'opprimeva. Si fermò al quinto palo del telegrafo, volgendosi indietro, verso la stazione. Incontrò il grande occhio rosso del disco fiso sopra di lui, e laggiù un riverbero largo d'incendio prossimo a spegnersi gl'indicò il luogo della stazione. Pareva molto più lontano che non fosse. D'un tratto, nel silenzio della notte, udì il grosso orologio di sant'Ippolito battere le ore dal campanile; le contò rattenendo il respiro. - Due quarti dopo mezzanotte, - esclamò voltandosi istintivamente verso Forlì, donde doveva giungere il treno. * * * Dall'altro lato della strada un'ombra passò con una lanterna nella mano; istintivamente egli girò dietro il palo del telegrafo, abbracciandovisi per non scivolare dall'alta ripa, e tenne il fiato. La lanterna nell'allontanarsi lentamente allungava un riverbero oscillante sulla vicina rotaia, si udiva la ghiaia stridere sotto un passo pesante. Era la ronda del guardiano; dal fondo della notte doveva presto spuntare la prima luce del treno. Il guardiano vigilava, secondo il solito, quel tratto di linea di là del ponte, perché non vi accadessero disgrazie; a un certo punto la lanterna di un altro guardiano avrebbe risposto alla sua, e il disco muterebbe il proprio rosso ardente in un vivido color verde. Romani sapeva tutto questo, giacché in una bella notte d'estate, l'anno prima, se lo era fatto spiegare dal guardiano sul ponte, ove aveva fatto sosta con alcuni amici. Quella notte gli risorse nella mente coi più minuti particolari; si ricordò dell'immenso soprabito biancastro, una meraviglia fra gli eleganti del paese, che allora portava Mario Angelini. Anche questi era morto. Ma una paura lo tenne nascosto, così abbracciato al palo, togliendogli ogni facoltà di ragionare; aveva pensato che il guardiano nella propria ronda potesse passare dal suo lato, e allora scoprendolo gli avrebbe necessariamente intimato di andarsene. Che cosa rispondere in questo caso? Avrebbe l'altro indovinato il vero motivo? Il palo ogni tanto vibrava, percosso da tremiti improvvisi. Era un dispaccio che passava irresistibile, invisibile sul filo, o una oscillazione, che questo, mosso dall'aria della notte, imprimeva al palo? La sua attenzione rimase per qualche tempo divisa fra il brontolio interno del palo e il luccicore saltellante della lanterna già molto lontana. - Ritornerà dal mio lato? Lo credette istantaneamente, quindi svegliandosi come da un sogno, che quel ritorno avesse già rotto, si disse: - Me ne vado. Nuovamente tutto dipendeva da questo caso. Un'angoscia di speranza lo soffocò, accorgendosi della vivezza dei raggi che la lanterna retrocedeva; sarebbe bastato che un suo bagliore traversasse la strada e gli battesse sul viso ad impedire la disgrazia, per la quale appunto si ordinavano le ronde. La lanterna si avvicinava sempre. Allora tornò a tremare di essere scoperto, ma, per una reazione quasi di collera contro sé medesimo, si mise di sbieco, perché lo spessore del palo lo nascondesse meglio. Voltandosi, laggiù, vide una luce. * * * Era il treno, ma non era ancora che una fiammella misteriosa nella notte. Pareva immobile, tutto rimaneva immoto intorno, il guardiano era scomparso dentro il casello: nel silenzio tranquillo dell'aria non un soffio, il fiume taceva. Un brivido del palo gli passò per tutto il corpo facendolo tremare a verga a verga, mentre, laggiù, quella fiammella rimaneva sempre così piccola e ferma. Un impeto freddo gli raggomitolò l'anima in uno di quei terrori sùbiti, senza nome, dei sogni. E strinse violentemente il palo guardando. La fiamma appariva rossastra come in un'aureola, entro la quale pareva di scorgere le larghe maglie tremule di una rete nera. La sua immaginazione si rappresentò subito la marcia rapida, folgorante, del treno apparentemente fermo per la sua stessa velocità, con quei due immensi occhi di fuoco, che gli rischiaravano la strada. Veniva da lungi, andava lungi, nero, veloce, misterioso, fatale. Nulla poteva arrestarlo; il suo respiro era mostruoso; ansava, soffiava fumo senza perdere la lena, senza spossarsi nel palpito enorme, scivolando sulle rotaie che tremavano, sfondando la notte inconsapevole. Non aveva meta, si arrestava, ripartiva; la gente spariva nei suoi vagoni neri, tappezzati all'interno come stanze, vi si obliava chiacchierando, in una fede sicura al mostro immane, che non aveva mai saputo nulla e non saprebbe mai nulla di coloro, che viaggiavano nel suo ventre. Di giorno e di notte, in qualunque stagione, sotto il sole, sotto la pioggia, sulla neve, andava sempre; il suo tremito diventava più profondo traversando i ponti, il suo respiro si faceva asmatico sotto i tunnels, dai quali prorompeva con un fischio trionfale d'ironia avventandosi giù per le valli, e non di meno ubbidendo docile alla mano, che gl'imponeva di rallentarsi dinanzi alle prime case di un villaggio. Era la forza stessa del sole diventato carbone, che si sprigionava daccapo in un altro fuoco; era la giovinezza eterna del moto, che crea tutte le giovinezze. Si ricordò la frase invidiosa di don Procopio: come è sempre giovane, è sempre come la prima volta che lo si guarda! In un attimo, la sua fantasia aveva riveduto tutti i quadri e tutti i sogni della vita. Quel treno misterioso nella notte trasportava indifferentemente gli uomini e le merci, i dolori e le gioie, era esso medesimo tutta la vita nella sua corsa perpetua che nulla può fermare, nella sua insensibilità, nella sua fiamma, nel suo rombo, nel suo orgoglio vincitore di ogni ostacolo. Bastava salirvi per sfuggire subito a tutte le proprie difficoltà, e non essere più che uno sconosciuto fra sconosciuti, in viaggio verso una meta non confessata, a ricominciare sopra una terra nuova la vita quasi consunta in un'altra. Tutto diventava piccolo dinanzi al prodigio di un treno: impotenza ed impossibilità non sono che conseguenza di un luogo, risultati di un ambiente, mentre la vita sempre giovane, corre sempre, si rinnova, si perpetua, dimentica, divora il tempo e lo spazio, bella come il sole che l'accese, più lunga del sole che si spegnerà. L'uomo non è più nulla, se vuole contraddire o dominare la vita, non ne può saper nulla, non vi deve mutar nulla: la morte vera è quando il nostro corpo si rompe da sé, ma allora la vita intorno non se ne accorge. Bisogna vivere come si può, più che si può, bisognerebbe poter vivere sempre. Un tremito profondo del palo lo scosse; la campagna sempre addormentata non si accorgeva che il treno l'oltrepassava vigile ed indifferente come il pensiero. Allora l'umiliazione, che gettandosi sotto quel treno ne sarebbe stato stritolato senza produrvi nemmeno una scossa sensibile, lo vinse. E se il macchinista, avvertendo il caso, arrestasse la corsa, quel cadavere di uno sconosciuto, che faceva perdere qualche minuto al treno, non sarebbe stato che uno spiacevole incidente per tutti. - Perché si sarà gettato sotto il treno? - si sarebbero appena domandato tra di loro gl'impazienti. - Ma s'intendeva già il suo rombo, si distinguevano i due fanali rossi, dilatati, abbacinanti; la terra incominciava a tremare, l'aria palpitava, dalla notte desta di soprassalto uscivano sussurri inquieti, giù pei campi alcune voci spaurite sembravano richiamarsi. Egli sentì tutto questo. Come se le fiamme dei fanali gli fossero entrate per gli occhi nel cervello, non vedeva più, mentre la stessa convulsione spasmodica lo faceva stringersi sempre più violentemente al palo, che oscillava quasi scosso da una bufera. Era tardi, non c'era più tempo. Il treno gli fuggiva agli occhi enorme, nero, con quel ventaglio di fiamma dinanzi, respingendo tutto col suo respiro di fornace; dalle rotaie parevano sprizzare fiammelle, una colonna di fumo illuminata internamente si distendeva sopra di lui, dietro di lui, come una bandiera: e al disotto, fra lunghe fessure, si distingueva ancora una vivezza di braciere, dal quale sfuggivano faville e bracie, che cadevano e si spegnevano. Egli si volse; il disco guardava col grande occhio verde, lungi dal disco un trenta passi l'ombra del guardiano protendeva ancora la lanterna nera col piccolo vetro rotondo. Nessuno sospettava adunque di una disgrazia. Sarebbe stato uno slancio, uno scricchiolio e più nulla. Davanti alla rapidità spaventevole del treno capì che egli avrebbe potuto essere anche più rapido, gettandosi bocconi sulla rotaia per lasciarsi passare sul collo l'immane valanga. Quest'ultima sensazione gli durò, quando il treno col proprio vento non lo scuoteva più così abbracciato al palo; e i vagoni neri s'inseguivano quasi contigui nell'ombra, e dai finestrini si travedevano dentro gabinetti illuminati, rossi, scuri, in una nudità di legno, o non si vedeva nulla, mentre i vagoni fuggivano chiusi sino alla cima, oscuri e sinistri come catafalchi. * * * La notte non mutava. Seduto presso quel palo, colle gambe abbandonate giù per la ripa erbosa, aveva ancora nella fantasia ansante quella visione. Aveva ascoltato il fischio d'arrivo e quello di partenza, gli ultimi rumori e gli ultimi tremiti nella notte, con l'angoscia che si prova solo sfuggendo momentaneamente alla morte. Nessuno fra quanti viaggiavano su quel treno si era certamente immaginato che a quel palo qualcuno fosse rimasto in dubbio di gettarsi sotto le ruote per finirla colla esistenza; ciarlavano o dormivano, nel pensiero dell'arrivo, trasportati dalla corrente della vita, più impetuosa ancora del treno. Potervi s alire e vivere, null'altro! Egli lo aveva sentito con una intensità, che gli rovesciava nella coscienza tutte le ragioni della morte. Il treno gli era apparso dentro una poesia strana ed imperiosa: la sua forza, il suo impeto esprimevano un trionfo costante nell'orgoglio del suo stesso prodigio. Ognuno dei viaggiatori, rapiti dalla sua foga, avrebbe potuto essere già sfinito nelle novissime disillusioni della morte, e non avrebbe meno provato, nel profondo della coscienza, la vittoria di quella corsa. Ma gli era rimasta nella fantasia quella successione di gabinetti rossi, coi divani a mezzo ricoperti dai grandi, grossolani merletti bianchi, sui quali aveva traveduto qualche testa di donna. Qualcuna andava forse a Parigi, un sogno che egli aveva rifatto tante volte inutilmente, ciarlando cogli amici nelle dolci notti di estate, quando, non sapendo come meglio ammazzare il tempo, andavano sino alla barriera per veder passare il treno della mezzanotte. Egli si ricordava le invidie provate nei brevi tragitti dinanzi ai viaggiatori esteri, così riconoscibili alla disinvolta eleganza del vestito e dei più minuti comodi di viaggio: erano i felici, i veri padroni del mondo, pei quali i climi non avevano inconvenienti e le stagioni mutavano indarno. Il lusso di queste esistenze superiori gli riappariva davanti come un quadro rosso di quegli scompartimenti di prima classe, ammantellati di ricami bianchi, con delle teste di donne soffuse di un tenue pallore. Tutto era bello: i cuoi delle valigie avevano tinte esotiche, i fermagli sprizzavano raggi fra il disordine soffice dei veli, degli scialli, delle coperte gettate alla rinfusa, in alto, sulla piccola rete. Si fumava, si chiacchierava, alcuni leggevano il giornale. Invece egli era venuto in quella notte per gettarsi sotto il treno. Si strinse con ambe le mani la testa per riordinarvi i pensieri: perché dunque non lo aveva fatto? Non seppe rispondere. * * * Ma voleva farlo. Sentiva sempre la suprema inutilità del suicidio, quantunque non gli tornasse nella mente un ricordo della famiglia abbandonata, e non gli rampollasse dal cuore un rimpianto della vita trascorsa. Dopo quella lunga giornata, era rimasto veramente solo. La morte, balenatagli così terribilmente nel primo tumulto di quella lettera, lo aveva poco a poco affascinato come il vuoto, nel quale nessuno sguardo può fissarsi lungamente: egli aveva resistito precipitandosi da ogni lato, ma perdendo sempre qualche cosa in ogni sforzo, sentendo svellersi dal profondo del proprio essere una per una tutte le più sottili radici. Doveva essere così, perché la coscienza arriva sempre nuda dinanzi alla morte. L'anima affacciandosi all'infinito non può essere che sola: i morenti mutano allora fisonomia, poiché sono già assenti prima di essere morti, mentre tutto quanto formava la loro vita non ha più nemmeno il valore di un passato, e il futuro non traspare ancora dalla torbidezza del mistero finale. Così solo, non aveva più né coraggio né paura. Lungamente pensò al tempo che gli rimaneva da passare in quella posizione. Nessuno lo aveva sospettato durante il giorno, nessuno lo aveva ancora visto, nessuno quindi lo vedrebbe su quella strada. Chi poteva pensare che egli stesse per morire? Quale influenza poteva avere la sua morte? Solamente la sua volontà vegliava ancora nell'attesa dell'ultimo momento. * * * Per quella necessità di far pure qualche cosa finché si è vivi, macchinalmente si cercò nelle tasche un sigaro per fumare, ma non ne aveva: poi si sdraiò lungo il sentiero, sul margine della ripa, perché quella posizione, così seduto, gli aveva indolenzito la schiena. La terra gli diede sotto la nuca una impressione di frescura. A sinistra, nel cielo, si era formato un largo, sottile velo scuro, le stelle splendevano piccole e rade. Tutto taceva. Al di sopra di quel silenzio assonnato, la vigilia eterna degli astri rompeva le ombre dell'infinito, ma la tenebra sulla campagna era così densa che tutto vi era naufragato. Il suo sguardo salì attratto dal tremolio di quei fuochi di bivacco, e si perdette nella loro confusione. La volta cerula si allontanava ugualmente, da qualunque punto l'occhio la contemplasse, per una distesa trasparente come le fiammelle che vi bruciavano nella inutilità della loro distanza senza misura. Nella sua mente oscura egli non riceveva che questa impressione. Le poche nozioni scientifiche apprese nelle scuole non avevano potuto dargli un concetto vivente del cielo; le stelle, come tanti mondi simili alla terra, probabilmente popolati come la terra, erano rimaste per lui un'idea vuota, un'ipotesi smentita ad ogni notte dall'apparenza del fatto. Il suo pensiero, troppo piccolo, come quello del popolo, per accogliere le spiegazioni della scienza, ritornava involontariamente alla primitiva concezione poetica del cielo, una volta azzurra, punteggiata di fanali e magnificamente spiegata sul mondo. Ma tutto era sulla terra. Questa rappresentazione immutabile per lo spirito umano e contro la quale nessuna scienza potrà prevalere, non gli dava anche adesso che una sensazione di stupore; per concepire le stelle come tanti mondi uguali al nostro, avrebbe dovuto immaginarsele spente, e allora gli sarebbe parso di non poterle più vedere; quindi l'enormità del loro mistero, moltiplicata per l'infinito del loro numero e per quello anche più terribile dei destini, che vi si svolgevano, avrebbe soffocato istantaneamente il suo pensiero. Egli guardava quel cielo senza una piega, velario diafano e costellato, che avvolgeva la terra oscura, tutta piena di dormienti destinati a morire, mentre l'anima gli si assopiva sempre più in un torpore di coma. Il lungo, dissolvente lavoro dell'agonia si era omai compito dentro di lui: un vuoto aveva inghiottito il suo spirito, e tutto quanto gli restava di vita non era più che un moto di abitudini. Tale ultimo stadio gli dava appunto quella calma, che appare sempre così inesplicabile nei condannati a morte. * * * In quella torpidezza così simile al sonno, che teneva la campagna, il suo corpo si riposava dalla stanchezza della lunga giornata. La frescura era blanda, l'aria tranquilla. Sdraiato lungo il sentiero, colla testa in alto, non vedeva più nella strada ferrata né il disco, né il palo del telegrafo: solo i fili neri di questo, tesi sopra il suo capo, formavano come una scalea di un significato misterioso, mentre gli steli alti del fieno si ripiegavano sul margine della ripa a toccargli le vesti, o cedevano sotto la sua mano distratta, inumidendogliela. Se qualche cosa avesse attraversato la notte in quel momento, soffio o voce, il suo spirito l'avrebbe seguita come si muovono nell'aria le piume di essa più lievi. Il sopore gli si faceva sempre più profondo, la vita vegetale della terra l'invadeva. Era per lui come un benessere di albero sbattuto dal vento, arso dal sole nel giorno, e che di notte ridiventa fresco, e dalle foglie ristorate manda un murmure indistinto. Qualche stella sembrava tremolare nel sorriso della propria luce, altre si stringevano a gruppi entro un albore diafano, e altre più remote scintillavano tratto tratto, quasi barattando segnali di scolte. Ma tutto era pace anche lassù: una dolcezza di riposo si spandeva su tutte le cose; perfino il fiume aveva cessato di muoversi, e i ranocchi adunati nelle pozzanghere dei campi non gracidavano più. * * * Un lungo brivido gli discese dal pensiero giù per le reni, mentre un fischio stridente, quasi di un proiettile, gli passava sulla testa. Il fischio seguitava rompendosi nell'acutezza di appelli ripetuti, la terra tremava: prima ancora di essersi potuto levare in piedi aveva scorto nuovamente la pupilla verde del disco dilatata nell'ombra, e al disotto di essa, sulla ghiaia della strada, un chiarore che si muoveva colla lanterna del guardiano. Era il treno delle tre, un misto, che veniva da Bologna. Rimase dritto, cogli occhi laggiù, spalancati sulla luce saliente dalla stazione invisibile. Non aveva raccolto di terra il cappello, si sentiva un continuo soffio agghiacciato sulla faccia, la gola gli si era improvvisamente disseccata. Sbirciò due o tre volte il vetro verde del disco, sorvegliando l'ombra del guardiano; non tremava, ma era come se tutto tremasse intorno a lui. Aspettava in una tensione, che non gli permetteva di fare un moto neppure coll'anima. Aveva i capelli irti e la bocca aperta: il suo sguardo s'illuminava di una profonda chiarezza interna. Il fischio ricominciò, poi a un certo momento parve un urlo, che l'immane respiro della macchina già in moto soffocasse; stridé ancora. La lanterna del guardiano si era alzata. Si vedevano distintamente i due fanali rossi e, più in alto, una oscillazione oscura di fumo: egli guardava ancora, attonito, senza respirare, scosso dal tremito convulso della terra, che pareva sfuggirgli sotto i piedi. La sua vita non aveva più che alcuni minuti secondi. La macchina ebbe uno sbuffo più violento. Rapidamente, inconsapevolmente, si gettò bocconi colla testa sulle rotaie; la rotaia tremava. Egli guardava venire la macchina, ma non vedeva più che un immenso ventaglio di fiamma alto come una parete, la terra oscillava sotto di lui; chiuse gli occhi e sentì sulla ghiaia, nel medesimo attimo, il palpito del proprio cuore e i battiti dell'orologio. Istintivamente aperse le braccia puntando le palme sulla ghiaia, abbacinato dall'immenso fulgore di quell'incendio, che si precipitava contro di lui rugghiando. I suoi occhi sostennero per un istante l'urto, non capiva, non sentiva; poi gli parve che il ventaglio di fiamme si sollevasse, si vide la macchina lanciata a volo sulla testa, come un'enorme arco di ponte che ardesse, un vento impetuoso gli sferzò il volto, mentre la terra squarciata da un ultimo sforzo si apriva sotto di lui. - No, no! - ebbe appena il tempo di urlare, ritraendo disperatamente la testa, che la macchina gli era forse già a soli venti metri. Un torrente nero; solido, alto: un soffio gelido ed irresistibile lo gettò quasi giù dalla ghiaia, sulla quale puntellava ancora le mani, raggricchiato nello sforzo istintivo di farsi più piccolo, senza potersi muovere, chiudendo gli occhi ad ogni vano fra vagone e vagone, come ad una scudisciata che gli fendesse a mezzo le pupille. E il treno enorme, vertiginoso, freddo, nero non finiva. All'ultimo vagone egli rotolò sul sentiero. Quando si rialzò non vide più il treno. * * * Egli se ne andava lungo il sentiero, a testa bassa. Una vergogna amara di quanto gli era accaduto aumentava sulla sua coscienza, come dopo la pioggia in certe pozzanghere cresce l'acqua. Si era gettato sotto il treno cedendo alla pressione di una forza interna che lo spingeva, e la sua ragione, rianimata dal fracasso della macchina, aveva avuto irresistibilmente paura. La sua volontà, incapace di qualunque sforzo, non si era più mossa, quando puntato sulle mani, colla testa rasente ai predellini dei vagoni, aveva sentito sfilare ruinosamente tutto il treno. L'aria, che fuggiva smaniando fra i larghi raggi delle ruote, gli schiaffeggiava il volto gelato da uno di quegli orrori fantastici, pei quali nella notte i fanciulli perdono la voce. Egli non si era immaginato la morte così enorme, con quella onnipotenza di uragano! Adesso tutta la sua natura di uomo timido ed inetto ripigliava il sopravvento. Una specie di buon senso gli diceva sommessamente che aveva avuto ragione di aver paura: lo spettacolo del treno, veduto colla testa sulle rotaie, era qualche cosa d'inesprimibile, d'insopportabile. Le rotaie oscillavano sotto la sua fronte, quasi come il filo del telegrafo quando il vento soffia impetuoso, la terra reboava, quel ventaglio di fiamma, formato dalla congiunzione dei due fanali, si dilatava sempre come per la spinta di una eruzione, dalla quale sfuggiva in alto un'immensa colonna di fumo. Era una scossa saltellante di valanga, con un rombo di tuono fra schianti di baleni e un vento freddo e una minaccia fulminea che rovesciava, dissolveva tutto dinanzi a sé. Perciò non aveva resistito. Per un solo istante si era irrigidito nel duello, premendo la tempia sul ferro gelido della rotaia collo sguardo ardente su quell'incendio; sarebbe abbisognato che il treno non fosse stato più che a tre metri, e allora forse il delirio stesso gli avrebbe fatto mantenere la posizione. Ma uno spavento lo aveva avviluppato, e lo cacciava nuovamente per quel sentiero nella notte tranquilla. Dove andare? Sentiva di avere ancora paura della morte, che gli era quasi passata addosso con quel treno oscuro e fiammeggiante, nell'impeto procelloso di una vittoria: ne aveva rimasto l'abbarbaglio negli occhi e il vento nei capelli. La sua faccia non gli sarebbe parsa più la medesima, se avesse potuto vederla; era di un pallore lapideo, cogli occhi vitrei e una specie di smorfia immobile sulla bocca. Come tutti i toccati dalla morte, aveva mutato. Nel suo stesso terrore gli rimaneva qualche cosa di estraneo alla vita, un senso di profondità interminabili, un freddo di caduta per una ruina di abissi. Infatti quel treno non gli era parso che si allontanasse per la strada ferrata, ma era dileguato per lo spazio, come il tuono, in uno di quei rapimenti che accendono a razzi le stelle. * * * Si arrestò. Aveva camminato per qualche miglio, senza por mente alla diversità della sottoposta campagna nella tenebra. Si accorse di essere tutto bagnato di sudore e di rugiada, il luogo non pareva mutato, e le rotaie gli si perdevano sempre dinanzi a pochi passi sul piano oscuro della strada. - Diranno che ho avuto paura! Infatti lo avrebbero detto, vedendolo così. Era stato lo sbigottimento inevitabile della morte, giacché il coraggio non è appunto che uno sforzo contro di esso, che la gente non vorrebbe mai vedere in coloro che debbono morire. Il soldato, il condannato titubante divengono istantaneamente spregevoli; bisogna che entrambi fingano il disprezzo, quasi la provocazione, perché tutti si esaltino in questa vittoria della volontà umana. Ma il suicida, che si vantò, per una qualunque ragione, di gettare la propria esistenza come un cencio immondo dietro di sé, non ha più diritto alla paura. In questo caso la gente insorge contro il falso temerario, che voleva sottrarsi alla pressione della morte, più greve ancora di quella dell'aria, giacché ci mantiene aderenti alla vita malgrado tutti i dolori: e le contumelie diventano la rivincita dell'umiliazione, che il coraggio inesplicabile di ogni suicida infligge alla moltitudine sempre invocante la morte e singhiozzante di viltà ad ogni sua apparizione. Chi l'ha voluta davvero, non può ritornare nella vita. È una consacrazione come quella che la religione pratica sui propri sacerdoti, i quali non sanno più riconfondersi cogli altri uomini. Egli si rappresentava tutto questo oscuramente, nelle scene che ne sarebbero seguite a casa sua e nel caffè. Si ricordava di alcuni, che avevano annunziato il proprio suicidio, di altri ancora più infelici, che vi erano sopravvissuti rimanendo per tutti un oggetto di scherno. Se egli fosse tornato addietro, avrebbe intoppato nella ilarità di tutto il paese, unanime, dopo una simile commedia, nel giudicare anche più abbietto il suo dramma. Poi, conosceva la zia Matilde, che appena aperta quella lettera ne avrebbe gettato le alte grida per tutta la casa e per le strade, correndo da Caterina. Come intercettare quindi quella lettera? Perché intercettarla? Per quanti sforzi avesse voluto fare, non gli sarebbe riuscito di tornare indietro: la sua anima vuota non amava, non si doleva più, ma, sola dinanzi a sé medesima, assisteva come uno spettatore al supremo duello della volontà contro l'istinto. Se non che, finite tutte le ragioni del vivere, la vita resisteva ancora al pari di ogni involucro alla pressione che doveva spezzarla, ed egli provava un'ultima indicibile vergogna per se stesso nel riconoscersi così pauroso. Solo una specie di testardaggine, un impegno col proprio orgoglio, l'obbligavano a morire. Aveva sempre la rivoltella in tasca, ma non pensò nemmeno un istante a servirsene; dopo quel primo infelice esperimento, temeva di fracassarsi la testa senza uccidersi, perdendosi così in un'altra fine peggiore di tutte le morti. Infatti un suicida sopravviveva ancora in paese, dopo essersi asportato con un colpo di pistola quasi tutta la parte inferiore del volto: era un giocatore non vecchio, che da quel giorno non aveva più osato uscire di casa, e pel quale la serva, diventata sua moglie, cercava l'elemosina. Ma se avesse potuto davvero analizzare sottilmente se stesso, in quella ripugnanza ad uccidersi con la rivoltella avrebbe scoperto qualche altra cosa, poiché a quel modo si sarebbe veramente ucciso da sé, mentre invece non voleva che morire. Gettarsi sotto il treno e lasciarsi schiacciare! Non egli avrebbe distrutto sé medesimo, ma un'altra forza, un mostro vivente, ansante, il più prodigioso uscito dalla mente umana. Egli sentiva un'ironia nella antitesi della propria debolezza contro tale onnipotenza, nel mutare quello stupefacente veicolo di vita in uno strumento di supplizio. Era come una vendetta contro la società, che lo costringeva a morire colla assurda contraddizione delle proprie leggi coi propri costumi. Infatti il suo suicidio non aveva altro motivo. La natura non ha bisogno del nostro concorso per ucciderci, il mondo solo ci condanna al suicidio: quando la nostra presenza non vi è più possibile, sentiamo la necessità di morire, per non durare come un rimasuglio fra la gente. La società non è pari alla natura, nella quale anche i residui hanno un valore. Ognuno crea se stesso in una classe o in una funzione con indelebili caratteri, ma, distruggendo questa personalità, non gli rimane né posto, né gruppo. Allora erompe la contraddizione fra l'istinto che vorrebbe vivere, e la ragione che non sa più trovarne il modo. Infatti egli non aveva, coll'imprudenza di quella cambiale falsa, sciupato che la propria condizione in paese, così che potendo trasportarsi altrove non avrebbe quasi nulla perduto. La morte, cui si umiliava, era un omaggio al giudizio della società, un tragico complimento all'importanza della classe, nella quale era nato. Come marito, come padre, come uomo, egli consentiva a non poter vivere se non come aveva vissuto fino allora, mentre intorno a lui le migliaia e migliaia vivevano egualmente bene entro la condizione, nella quale sarebbe precipitato; ma poiché la nostra vita è anzitutto spirituale, una mutazione della sorte vi ha infinitamente più importanza che qualunque altra della natura. Dalle più grandi tragedie ai più minuscoli drammi, non si tratta mai che di suicidio, di una immolazione che l'individuo fa di se stesso alla società, come vittima espiatoria delle colpe altrui o delle proprie. Quindi la vergogna dell'aver avuto paura lo mordeva anche allora, che nessuno se n'era potuto accorgere. L'orgoglio necessario al suicidio, quella esaltazione di sentirsi maggiore degli altri, appunto gettando ciò che è tutto per essi, gli era venuta improvvisamente meno. Vile come coloro, per non somigliare ai quali moriva, si era gettato disperatamente indietro dalla rotaia, invece di lasciarvisi sfracellare. Egli aveva provato confusamente, in quei brevi istanti, una specie di compiacenza ironica e superba al pensiero di insudiciare col proprio sangue il lucido cerchio delle ruote, arrestandone forse, magari per un secondo, la marcia trionfale. Lo avrebbero visto fracassato, irriconoscibile, inorridendo in quella inesprimibile paura della morte, che gela istantaneamente tutti i cuori! Sarebbe stata la sua rivincita dopo morte, perché anche il suicidio ha bisogno di averne una. * * * Seduto accanto al palo, coi gomiti sulle ginocchia e la fronte fra le palme, piangeva. Dopo aver girato lungamente innanzi e indietro per il sentiero, in un orgasmo di febbre, era ritornato allo stesso punto, vinto dal fascino misterioso, contro il quale lottava. Era stata una corsa miserabile di fanciullo smarrito per la notte che si sente aggredito a ogni tratto nell'invisibile e non osa gridare nemmeno inciampando. Non poteva decidersi, non sapeva andarsene; qualche altro treno doveva passare prima di giorno. Quando rivide quel palo, ne provò un sollievo come di una meta; la luce del disco era sempre rossa, lontanamente la stazione aveva quel largo riverbero d'incendio. Qualche lagrima calda gli scivolava fra le mani e le guance, sciogliendosi con un sottile bruciore di sale. Era l'ultimo pianto, quello che non si sente più, perché tutto è già morto di dentro: i suoi occhi piangevano, come talvolta le ferite lasciano uscire goccia a goccia il sangue, mentre il moribondo sente ancora che col sangue se ne va la vita. La natura stessa esprime talvolta un simile pianto in certi squallori di paesaggi autunnali su praterie opache, sotto un cielo grigio, senza un vivente che le attraversi e senza case; o fra roccie appannate e riarse, in una nudità di cadavere. E vi è un dolore sotto le pietre, e pare un pianto l'umidità che l'aria del crepuscolo vi lascia. * * * Un gallo cantò. L'aria era ancora così scura, ma il sereno del cielo principiava ad imbiancare in una purezza sempre più scialba: le stelle adesso rade perdevano quel tremolio che le ingrandiva, ogni vapore si era disciolto. Senza che ne apparissero ancora i segni, l'alba si avvicinava. Nell'aria più fredda altri brividi passavano, simili a sussurri mano mano più intensi. Toccò un ciuffo d'erba sull'orlo della ripa, e ne ritrasse le dita imperlate di rugiada. Da quell'altezza della strada cominciava a discernere la campagna. Gli alberi scoprivano già le cime, disegnando la regolarità dei loro filari; poi un altro gallo cantò e un crocchio di rane volle rispondergli, ma la loro voce notturna si spense all'improvviso. Gli parve di udire come uno schiaffo di imposte nel muro, una luce apparì. Non era più la notte. Laggiù il grande riverbero della stazione si appannava, mentre dietro le mura della città quel vapore luminoso aveva cessato di salire dalle strade invisibili, e in alto, molto in alto, i tre campanili spiccavano rigidamente. Un freddo gli strinse lo stomaco. Sebbene il casello del guardiano sembrasse chiuso, si allontanò guardingamente dal palo, perché sul margine della strada, nell'aria sempre più diafana, sentiva di apparire a tutta la campagna. Gli alberi si scrollavano lievemente, sibili d'insetti, tintinni misteriosi preludevano alla grande sinfonia del giorno. Una luce approdava all'ultimo orizzonte respingendo la tenebra, che si orlava di riflessi evanescenti in lunghe strisce, talvolta simili a nuvole stracciate. Ma più che dell'albore, egli aveva paura dei suoni. Le cose più mattiniere intorno a lui si erano già deste; dentro le frondi qualche ala batteva per spigrirsi, mentre gli ultimi sogni strisciavano impalpabili sugli occhi ancora socchiusi. Seguì per qualche minuto il volo spaurito di una nottola, rivedendola ogni volta, con una specie di compiacenza egoistica, traballare sempre più incerta e precipitarsi nuovamente giù nell'ombre più dense, ad ogni chiarore che si diffondeva nell'aria. Si era allontanato mezzo miglio dal palo, ma la città e il ponte di ferro si vedevano ancora. Se non avesse avuto così paura del giorno, gli sarebbe sembrato ancora notte; infatti, laggiù, i fanali rimanevano accesi, appena l'ultima linea dell'orizzonte si era rischiarata, e qualche gallo impaziente aveva lanciato il primo squillo della propria diana. Ma i suoi sensi, vibranti di un ultimo orgasmo, gli rendevano manifesti i più impercettibili segni. Non poteva più ricapitolare quanto gli era accaduto nella notte, sentiva solamente una vergogna crescente, intollerabile di essere ancora lì, senza un motivo. Per tutta la notte era stato solo, adesso invece la luce gli addenserebbe intorno tutti i viventi: il suo coraggio non potrebbe resistere, sarebbe ripreso, ricacciato a forza indietro, più in basso, per sempre, sotto la propria ruina, inconsolabile, immutabile, inutile. Tutto ridiventava un pericolo. Guardava, ascoltava convulsamente; la notte non era più simile a se stessa; la sua frescura, la sua tranquillità, il suo sonno avevano mutato; una inquietudine agitava ogni suono e dava un accento di trepidazione a tutte le voci. La solitudine si riempiva. Guardò l'orologio, ma non distinse i numeri sul piccolo quadrante, e non osò accendere un fiammifero. Dovevano essere le quattro: forse a quella distanza l'orologio di sant'Ippolito si sarebbe ancora udito; poi n'ebbe paura. Qualunque voce gli faceva male; nell'aria colse un vagare di aromi, altri effluvii che s'innalzavano verso il mattino. A che ora passerebbe il primo treno? Sbigottito si voltò verso il disco, ancora così rosso, ma di un rosso meno luminoso. Per le altre strade della campagna la gente doveva aver ricominciato il proprio passaggio, i lattivendoli, gli ortolani, tutti coloro che soddisfano ai primi bisogni della città; nei due grandi caffè della piazza, sempre aperti, nottambuli col volto livido dalla veglia troppo prolungata comincerebbero a parlare di separarsi, perché odiavano istintivamente l'alba e la sua ripresa coraggiosa del lavoro sotto la immutabile necessità dell'andare avanti. Anch'egli era un nottambulo, l'ultimo, per l'ultima volta. Nel tormento di quella paura, soffriva alla preparazione lenta del giorno, più ammirabile forse che lo scoppio stesso del sole trionfante daccapo a sollecitare coi propri raggi tutti i viventi. Egli allora non si muoverebbe, informe cadavere per sempre. Ma non voleva esser visto prima, non aveva bisogno delle sollecitazioni, che gli aumentavano intorno. Se ne andrebbe, se ne andrebbe ad ogni modo, nella disperazione di non aver potuto nulla comprendere, senza la giustificazione di quanto aveva sofferto! Meglio la notte, il buio senza vita: un silenzio eterno e la sicurezza del nulla, perché non vi poteva essere altro, dopo! Il suo odio alla vita glielo rivelava chiaramente. Egli, che aveva tanto patito il giorno innanzi nella rottura graduale di ogni vincolo, adesso non soffriva più che la fretta, colla quale gli pareva di sentirsi cacciato; non v'era altro tempo da perdere. Fra venti o trenta minuti, da quella posizione tutti avrebbero potuto scorgerlo. I canti dei galli si erano venuti ripetendo, poi un muggito aveva dominato tutte le voci. I pioppi tornavano a stormire colla battuta secca della grandine, i salici sibilavano, le quercie sussurravano appena. Da un olmo sotto la strada un gridìo di passere, subitaneo come una risata, lo fece trasalire. Ormai egli stesso avrebbe potuto discernere lungo il binario un uomo a grande distanza, e tuttavia era ancora presto. Si fermò al primo palo del telegrafo, sdraiandosi daccapo sul sentiero per nascondersi. Stava in agguato, coll'occhio teso sulle ultime lontananze della strada, l'orecchio aperto sospettosamente a tutte le voci; le erbe alte, fradice di rugiada, gli bagnavano il volto percosso tratto tratto da un tremito, che gli echeggiava sonoramente sino al fondo dell'anima. Ma tutte le forze gli erano improvvisamente tornate: era l'attacco finale di quel duello troppo lungo colla morte, senza più alcuna incertezza, e più orribile nell'impossibilità di muoversi. Tutto il suo odio si era mutato in coraggio, quasi la morte, che gli verrebbe incontro su quel treno, dovesse avere una forma umana come la sua. Il suo tetro scheletro, colle occhiaie vuote e la lunga falce, gli riappariva nella fantasia cogli altri fantasmi della espiazione cristiana evocati dall'ultimo dubbio: ma temeva solamente di non poter durare per tutta la lunghezza della prova. Il suo sforzo supremo era di non pensar più, non voleva più nulla davanti. La sua coscienza era giunta finalmente al disprezzo della vita, di questa farsa stupida ed atroce, che nessun Dio poteva aver voluto, perché vi si soffre solamente, e coll'amore di un minuto vi si chiamano altri a soffrire e a morire: ecco tutto! Il resto era menzogna. E davanti a questa imperscrutabile necessità il suo individuo urlava nello spasimo di non poter inabissare tutta la terra e, strappando con un gesto titanico dal cielo l'immenso manto stellato, ravvoltolarvisi come in una bandiera nemica, e spirare ultimo sulla ruina finale di quanto era stato. - Ah! - gridò balzando in piedi, immemore di ogni riguardo. Era il treno. Nel pallore crescente della tenebra la sua luce appariva simile a quella di un palloncino roseo librato nell'aria, ma egli non vedeva che la morte. Era scattato in piedi alla prima scossa del terreno come ad un appello, protendendo il volto in una impazienza quasi insolente della fine. Aveva negli occhi un chiarore di cristallo e sulla faccia una fisonomia di marmo. Rimase così immobile, colla volontà tesa contro il treno, calcolando mentalmente la rapidità della sua corsa. Un fremito d'orgoglio lo scosse ancora, nel vederlo già così vicino che si discernevano distintamente i due fanali; aprì le braccia ad un gesto inesprimibile, e si gettò sulla rotaia abbandonato. Era caduto, quasi colla fronte sul ferro, gli occhi rivolti al treno. Avanzò la testa per poggiare il collo sulla rotaia, lasciando penzolare il capo nel vano come da una ghigliottina. Il freddo del ferro alla gola gli fece passare questo paragone nel pensiero. Ma allora tutte le forze lo abbandonarono, si decomposero per le scosse della terra, che gli passavano per tutto il corpo colla violenza di continue scariche elettriche. Si raggricchiò, chiuse gli occhi, travolto dal fragore precipite che già l'investiva; il ferro della rotaia gli friggeva quasi sotto il collo, una vampa gli aveva ventato sugli occhi, mentre nel terrore delirante, ineffabile, di quella cosa senza nome, la sua volontà caparbiamente disperata, come quella di un bambino, ripeteva: - Non importa, non importa! Con un ultimo sforzo premé ancora il collo sulla rotaia. Poi un'estrema convulsione di turbine, di abisso, di valanga, d'incendio, lo fece quasi rivoltolare sopra se stesso; aprì gli occhi nella fiamma, e per una paura più terribile gridò: - Mio Dio! Ma l'enorme macchina gli era già passata furiosamente sulla testa, soffocando nel proprio fracasso di cateratta l'inutile parola. FINE

La tregua

679904
Levi, Primo 1 occorrenze

Avevano visi smunti, abbacinati, selvaggi: avvezzi a vivere, a operare, a combattere entro gli schemi ferrei dell' Autorità, loro sostegno e loro alimento, al cessare dell' autorità stessa si erano trovati impotenti, esanimi. Quei buoni sudditi, buoni esecutori di tutti gli ordini, buoni strumenti del potere, non possedevano in proprio neppure una parcella di potere. Erano svuotati e inerti, come le foglie morte che il vento ammucchia negli angoli riposti: non avevano cercato salute nella fuga. Ci videro, e alcuni fra loro mossero verso noi con passi incerti da automi. Ci chiesero pane: non nella loro lingua, bensì in russo. Rifiutammo, poiché il nostro pane era prezioso. Ma Daniele non rifiutò: Daniele, a cui i tedeschi avevano spento la moglie forte, il fratello, i genitori, e non meno di trenta parenti. Daniele, che della razzia nel ghetto di Venezia era il solo superstite, e che dal giorno della liberazione si nutriva di dolore, trasse un pane, e lo mostrò a quelle larve, e lo depose a terra. Ma pretese che venissero a prenderlo strisciando a terra carponi: il che essi fecero docilmente. Che gruppi di ex prigionieri alleati si fossero imbarcati a Odessa mesi prima, come alcuni russi ci avevano detto, doveva pure essere vero, poiché la stazione di Zmerinka, nostra temporanea e poco intima residenza, ancora ne portava i segni: un arco di trionfo fatto di frasche, ormai appassite, che reggeva la scritta "viva le Nazioni Unite" ed enormi orribili ritratti di Stalin, Roosevelt e Churchill, con motti inneggianti alla vittoria contro il comune nemico. Ma la breve stagione della concordia fra i tre grandi alleati doveva ormai volgere al termine, poiché i ritratti erano stinti e dilavati dalle intemperie, e furono deposti durante il nostro soggiorno. Sopraggiunse un imbianchino: eresse una impalcatura lungo la facciata della stazione, e fece sparire sotto uno strato di intonaco la scritta "Proletari di tutto il mondo, unitevi!" in luogo della quale, con un sottile senso di gelo, lettera dopo lettera ne vedemmo nascere un' altra ben diversa: "Vpere5d na Zapàd", "Avanti verso l' Occidente". Il rimpatrio dei militari alleati era ormai finito, ma altri convogli arrivavano e partivano verso sud sotto i nostri occhi. Erano tradotte russe anche queste, ma ben distinte dalla tradotte militari, gloriose e casalinghe, che avevamo visto transitare per Katowice. Erano le tradotte delle donne ucraine che ritornavano dalla Germania: donne soltanto, poiché gli uomini erano andati soldati o partigiani, oppure i tedeschi li avevano uccisi. Il loro esilio era stato diverso dal nostro, e da quello dei prigionieri di guerra. Non tutte, ma in gran parte, avevano abbandonato "volontariamente" il loro paese. Una volontà coartata, ricattata, distorta dalla menzogna e dalla propaganda nazista sottile e pesante, che minacciava e blandiva dai manifesti, dai giornali, dalla radio: tuttavia una volontà, un assenso. Donne dai sedici ai quarant' anni, centinaia di migliaia, contadine, studentesse, operaie, avevano lasciato i campi devastati, le scuole chiuse, le officine distrutte, per il pane degli invasori. Non poche erano madri, e per il pane avevano lasciato i figli. In Germania avevano trovato il pane, il filo spinato, un duro lavoro, l' ordine tedesco, la servitù e la vergogna: e sotto il peso della vergogna ora rimpatriavano, senza gioia e senza speranza. La Russia vincitrice non aveva indulgenze per loro. Tornavano a casa in carri merci, spesso scoperti, divisi orizzontalmente da un tavolato affinché fosse meglio sfruttato lo spazio: sessanta, ottanta donne per carro. Non avevano bagaglio: solo le vesti logore e stinte che portavano indosso. Corpi giovanili, ancora solidi e sani, ma visi chiusi ed acri, occhi fuggitivi, una conturbante, animalesca umiliazione e rassegnazione nessuna voce usciva da quei viluppi di membra, che si scioglievano pigramente quando i convogli fermavano in stazione. Nessuno le aspettava, nessuno sembrava accorgersi di loro. Di animali umiliati e domati erano la loro inerzia, il loro appartarsi, la loro dolente mancanza di pudore. Noi soli assistevamo con pietà e tristezza al loro passaggio, nuova testimonianza e nuovo aspetto della pestilenza che aveva prostrato l' Europa. Partimmo da Zmerinka alla fine di giugno, oppressi da una greve angoscia che era nata dalla delusione e dalla incertezza del nostro destino, e aveva trovato una oscura risonanza e conferma nelle scene cui a Zmerinka avevamo assistito. Compresi i "rumeni", eravamo millequattrocento italiani. Fummo caricati su una trentina di carri merci, che vennero agganciati ad un convoglio diretto a nord. Nessuno, a Zmerinka, seppe o volle precisarci la nostra destinazione: ma andavamo a nord, via dal mare, via dall' Italia, verso la prigionia, la solitudine, il buio, l' inverno. Malgrado tutto, stimammo buon segno che non ci fossero state distribuite scorte per il viaggio: forse questo non sarebbe stato lungo. viaggiammo infatti per soli due giorni e una notte, con pochissime fermate, attraverso uno scenario maestoso e monotono di steppe deserte, di foreste, di villaggi sperduti, di lente e larghe fiumane. Pigiati nei vagoni merci, si stava scomodi: alla prima sera, approfittando di una fermata, Cesare e io scendemmo a terra, per sgranchirci le gambe e trovare una migliore sistemazione. Notammo che in testa erano vari vagoni passeggeri, e un vagone infermeria: sembrava vuoto. _ Perché non ci saliamo? _ propose Cesare. _ È proibito, _ risposi io insulsamente. Perché infatti doveva essere proibito, e da chi? Del resto, avevamo già potuto constatare in varie occasioni che la religione occidentale (e tedesca in specie) del divieto differenziale non ha radici profonde in Russia. Il vagone infermeria non solo era vuoto, ma offriva raffinatezze da sibariti. Lavatoi efficienti, con acqua e sapone sospensioni dolcissime che attutivano le scosse delle ruote meravigliosi lettini appesi a molle regolabili, completi di lenzuola candide e coperte calde. Al capezzale del letto che avevo scelto, dono supererogatorio del destino , trovai addirittura un libro in italiano: "I ragazzi della via Paal", che non avevo mai letto da bambino. Mentre i compagni già ci dichiaravano dispersi, trascorremmo una notte di sogno. Il treno varcò la Beresina alla fine del secondo giorno di viaggio, mentre il sole, rosso come un granato, calando obliquo fra i tronchi con incantata lentezza, vestiva di luce sanguinosa le acque, i boschi e la pianura epica, cosparsa tuttavia di rottami d' armi e di carriaggi. Il viaggio terminò poche ore dopo, in piena notte, nel culmine di un violento temporale. Fummo fatti scendere sotto il diluvio, in una oscurità assoluta, rotta a tratti dai lampi. Camminammo per mezz' ora in fila indiana, nell' erba e nella melma, ciascuno aggrappato come un cieco all' uomo che lo precedeva, e non so chi guidasse il capofila approdammo infine, bagnati fino alle ossa, in un enorme edificio buio, semidistrutto dai bombardamenti. Continuava a piovere, il pavimento era fangoso e fradicio, e altra acqua cadeva dalle lacune del tetto: attendemmo il giorno in un dormiveglia faticoso e passivo. Sorse un giorno splendido. Uscimmo all' aperto, e solo allora ci accorgemmo di avere pernottato nella platea di un teatro, e di trovarci in un esteso complesso di caserme sovietiche danneggiate e abbandonate. Tutti gli edifici, inoltre, erano stati sottoposti a una devastazione e spoliazione tedescamente meticolosa: le armate germaniche in fuga avevano asportato tutto quanto era asportabile: i serramenti, le inferriate, le ringhiere, gli interi impianti di illuminazione e di riscaldamento, le tubazioni dell' acqua, perfino i paletti del recinto. Dalle pareti era stato estratto fin l' ultimo chiodo. Da un raccordo ferroviario adiacente erano stati divelti i binari e le traversine: con una macchina apposita, ci dissero i russi. Più di un saccheggio, insomma: il genio della distruzione, della controcreazione, qui come ad Auschwitz la mistica del vuoto, al di là di ogni esigenza di guerra o impeto di preda. Ma non avevano potuto asportare gli indimenticabili affreschi che ricoprivano le pareti interne: opere di qualche anonimo poeta-soldato, ingenue, forti e grezze. Tre cavalieri giganti, armati di spade, elmi e mazze, fermi su un' altura, in atto di spingere lo sguardo per uno sterminato orizzonte di terre vergini da conquistare. Stalin, Lenin, Molotov, riprodotti con affetto reverente nelle intenzioni, con audacia sacrilega negli effetti, e riconoscibili precipuamente e rispettivamente per i baffoni, la barbetta e gli occhiali. Un ragno immondo, al centro di una ragnatela grande come la parete: ha un ciuffo nero di traverso fra gli occhi, una svastica sulla groppa, e sotto sta scritto: "Morte agli invasori hitleriani". Un soldato sovietico in catene, alto e biondo, che leva una mano ammanettata a giudicare i suoi giudici: e questi, a centinaia, tutti contro uno, seduti sugli scanni di un tribunale-anfiteatro, sono degli schifosi uomini-insetti, dalle facce gialle e grige, adunche, travolte, macabre come teschi, e si ritraggono l' uno contro l' altro, come lemuri che fuggano la luce, respinti nel nulla dal gesto profetico dell' eroe prigioniero. In queste caserme spettrali, e in parte accampati a cielo aperto nei vasti cortili invasi dall' erba, bivaccavano migliaia di stranieri in transito come noi, appartenenti a tutte le nazioni d' Europa. Il calore benefico del sole incominciava a penetrare la terra umida, e ogni cosa intorno a noi fumava. Mi allontanai dal teatro di qualche centinaio di metri, inoltrandomi in un prato folto dove intendevo spogliarmi e asciugarmi al sole: e nel bel mezzo del prato, quasi mi attendesse, chi vidi se non lui, Mordo Nahum, il mio greco, quasi irriconoscibile per la suntuosa pinguedine e per l' approssimativa uniforme sovietica che indossava: e mi guardava dagli scialbi occhi di gufo, persi nel viso roseo, circolare, rossobarbuto. Mi accolse con cordialità fraterna, lasciando cadere nel vuoto una mia maligna domanda circa le Nazioni Unite che così mal governo avevan fatto di loro greci. Mi chiese come stavo: avevo bisogno di qualcosa? di cibo? di abiti? Sì, non potevo negarlo, avevo bisogno di molte cose. _ Si provvederà, _ mi rispose misterioso e magnanimo: _ io qui conto per qualche cosa _. Fece una breve pausa, e soggiunse: _ Hai bisogno di una donna? Lo guardai interdetto: temevo di non aver capito bene. Ma il greco, in ampio gesto, percorse colla mano tre quarti di orizzonte: e allora mi avvidi che in mezzo all' erba alta, sdraiate al sole, vicine e lontane, giacevano sparse una ventina di vaste fanciulle sonnacchiose. Erano creature bionde e rosee, dalle schiene poderose, dall' ossatura massiccia e dal placido viso bovino, vestite in varie foggie rudimentali e incongrue. _ Vengono dalla Bessarabia, _ mi spiegò il greco: _ sono tutte alle mie dipendenze. Ai russi piacciono così, bianche e spesse. Era una gran pagaille qui prima ma da quando me ne occupo io, tutto va a meraviglia: pulizia, assortimento, discrezione, e nessuna questione per i quattrini. È un buon affare, anche: e qualche volta, moi aussi j' y prends mon plaisir. Mi ritornò a mente, sotto nuova luce, l' episodio dell' uovo sodo, e la sfida sdegnosa del greco: _ Su, dimmi qualche articolo in cui io non abbia mai commerciato! _ No, non avevo bisogno di una donna, o per lo meno non in quel senso. Ci separammo dopo un cordiale colloquio e dopo di allora, essendosi posato il turbine che aveva sconvolto questa vecchia Europa, trascinandola in una contraddanza selvaggia di separazioni e di incontri, non ho più rivisto il mio maestro greco, né ho più sentito parlare di lui.

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