Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abati

Numero di risultati: 6 in 1 pagine

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Le buone maniere

202621
Caterina Pigorini-Beri 1 occorrenze
  • 1908
  • Torino
  • F. Casanova e C.ia, Editori Librai di S. M. il re d'Italia
  • paraletteratura-galateo
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Dal canto loro le istitutrici specialmente, perchè ormai gl'istitutori sono andati in disuso dal giorno che gli abati hanno cessato di essere possibili, cureranno di ornarsi di tutte quelle amabilità che rendono attraente una donna, la quale senza essere nata a servire non ha posizione propria pel comando. L'istitutrice e la damigella di compagnia non hanno al certo una condizione molto invidiabile, ma l'hanno però sempre degna di ogni rispetto, se da una parte sanno spogliarsi dalle smancerie dell'affettazione, e dall'altra dagli atti arcigni, dalle parole dure e dagli acerbi rimproveri. La pedanteria deve essere esclusa come la disinvoltura troppo lieta o specialmente beffarda. Esse debbono sapere che la loro condizione le costringe ad essere simpatiche; e per esserlo debbono curare perfino il loro abbigliamento in modo che corrisponda a quel comandamento categorico dei francesi: avere il fisico dell'impiego - le physique de l'emploi. Poste in una condizione che tocca al capo e ai piedi della gerarchia, esse debbono saper essere gl'intermediarii pietosi del perdono e della carità nelle famiglie, come quei cuscini, a così dire, che impediscono gli urti, arrotondano gli angoli, attutiscono i rumori e gli strofinii; e lasciare nelle famiglie il ricordo d'una custodia mite e gentile quasi di fate benefiche, il cui nome richiama negli anni tardi un sorriso di compiacimento e una lagrima sugli occhi di coloro che ne provarono i benefici influssi. È a questo patto che le famiglie si cementano e che gli uomini diventano benevoli l'uno verso l'altro in un comune desiderio di rendersi tollerabili.

Pagina 148

Al tempo dei tempi

219472
Emma Perodi 1 occorrenze
  • 1988
  • Salani
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
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gli rideva in faccia, perchè il nome non lo sapeva e abati ce ne erano tanti e tanti. Se ne tornò dunque al mulino con le pive nel sacco e prese a perseguitare il piccino che s'era figurato dovesse portare la ricchezza in casa sua, e che invece doveva campare a sue spese, perchè a chi poteva renderlo? A desinare il mugnaio non permise più al bimbo di stare a tavola con lui, la moglie e il loro figlio. Gli faceva mettere un po' di minestra in un tegamino rotto e nero, e lo mandava a mangiare col gatto e col cane per terra, in un cantuccio. A dormire non volle più che stesse in camera con loro; gli fece mettere un po' di paglia in uno stanzino buio, e lì lo teneva, e quando il figlio lo chiamava a baloccarsi con lui, il mugnaio diceva: - Lascialo stare; quello lì non è fatto per baloccarsi; se vuol mangiare un pezzo di pane deve guadagnarselo e deve ripagare a tua madre il latte che gli ha dato e il resto. Quello lì non è tuo fratello! - Così il piccino crebbe, ed appena potè zampettare dovette lavorare dalla mattina alla sera a coltivar la terra, ed ebbe appena da sfamarsi: sempre e poi sempre marito e moglie gli ripetevano: - Ti teniamo per carità; meritavi che ti si fosse abbandonato in un bosco. - Una sera il Principino, poteva avere un dieci anni, chiedeva al figlio del mugnaio un'arancia. - Dammela, fratuzzu, dammela! - Ma tu non sei fratello mio! - rispose l'altro. - Se tu fossi mio fratello te la darei, a te non te la do. Tu sei figlio di un'altra madre. Va' e cercala tua madre in Palermo. La conosci tu? L'hai mai veduta? Che bella madre! Come si cura del figliuolo! - Queste stesse parole il Principino se l'era sentite dire tante volte, ma non ci s'era potuto assuefare e gli facevano sempre una gran pena. Zitto zitto se ne andò a piangere nello stanzino buio e fra le lacrime diceva: - È mai possibile che il mio babbo e la mia mamma non si rammentino di me? Che mi abbiano abbandonato in questo modo per farmi patire tanto? Ma non ha cuore di madre la mia? - Aveva appena terminato di proferire questa domanda, che lo stanzino fu illuminato da un debole chiarore e in mezzo a quel chiarore comparve una donna pallida pallida, scarna scarna e avvolta in un gran lenzuolo bianco. - Che possono fare i morti per i vivi? - disse la donna con un fil di voce. - Io morii quando tu nascesti, figlio mio, e su te non ho potuto vegliare. Tuo padre, il principe di Cattolica, ti affidò a un abate nel quale riponeva piena fiducia. Quel perfido, invece, s'è impossessato del tuo. Va' a Palermò, istruisciti e quando sarai in età, chiedi che giustizia sia fatta. Io pregherò per te! - Mentre il Principino sbalordito dall'apparizione e tutto tremante stava per rivolgerle una domanda, i contorni della figura si dileguarono, il chiarore svanì, ed egli si trovò di nuovo al buio, sulla paglia, ma meno afflitto, meno desolato di prima perchè sapeva che sua madre vegliava su di lui. Glielo aveva detto dove doveva andare, ed egli subito le obbedì. Del resto glielo aveva detto anche il figlio della mugnaia che se ne andasse perché in quella casa era un intruso. Non appena fece giorno il Principino s'alzò dal suo giaciglio di paglia, uscì, e invece d'andare nel campo a lavorare, prese la via che conduceva a Palermo. Era digiuno, non aveva scarpe in piedi, eppure camminava senza sentir la fame nè i sassi della via: camminava pieno di speranza e di letizia. Giunse così a Porta Nuova, sotto il palazzo del Viceré, ma era sfinito e si lasciò cadere in terra. Venne una ronda di guardie e il capo gli dette un calcio, dicendogli: - Alzati, mendicante; qui non sono tollerati gli accattoni! - Si alzò e andò oltre, giù per il Cassaro, fino a Piazza Vigliena. Ma qui era l'ora della passeggiata e le dame passavano nei magnifici cocchi a quattro e sei cavalli, i cavalieri cavalcavano su focosi destrieri con ricche gualdrappe, ed altre guardie scacciarono il Principino, dicendogli: - Va' oltre, pezzente! - E andò oltre, finchè non giunse all'angolo di Via dei Chiavettieri, dove allora non c'erano altro che botteghe di fabbro, e appunto in una di quelle botteghe entrò il Principino, che aveva fame, a disse al padrone: - Mi prenda come garzone; ho voglia di lavorare e sono forte. Domani e nei giorni seguenti mi guadagnerò il pezzo di pane che ora le chiedo per non morir di fame. - Questa domanda d'imprestito e non d'elemosina, il tono con cui era fatta e l'aspetto dignitoso del fanciullo, coperto di pochi stracci, commossero il capo mastro, che subito lo fece ristorare, se lo prese in casa e lo mise a tirare il mantice. Il ragazzo lavorò sempre con zelo; non c'era caso che s'imbrancasse con i monelli di strada; se lo mandava a riportare il lavoro o a comprar qualcosa, tornava subito, non parlava, non chiedeva nulla e si contentava del cibo che era abbondante e buono in confronto di quello che gli dava con tanto mal garbo il mugnaio; e se la moglie del fabbro gli dava qualche oggetto di vestiario, ringraziava con effusione e aggiungeva: - Mia madre, che è in Paradiso, pregherà per lei e per la sua famiglia! - Così di giorno in giorno il garzone si faceva voler più bene e ormai era come uno di casa. Appunto per la confidenza che aveva con lui, il fabbro una volta gli domandò: - Ma insomma, si può saper di chi sei figlio e come si chiamano i tuoi genitori? - Non li ho mai conosciuti. Fui messo a balia da una mugnaia, un abate mi portò al mulino quando avevo pochi mesi, pagò per un po' di tempo il baliatico e poi non si fece più vivo, e allora il mugnaio e la moglie presero a maltrattarmi e a rinfacciarmi il pane che mi davano. Non rammento che maltrattamenti, rimproveri e fatiche, - aggiunse il ragazzo con un sospiro. - Ma non hai proprio nessun indizio de' tuoi genitori? - Il poverino non voleva narrare l'apparizione della madre perchè quel segreto era la sua sola gioia e la

Contessa Lara (Evelina Cattermole)

220065
Storie d'amore e di dolore 1 occorrenze
  • 1893
  • Casa editrice Galli
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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Pagina 193

Manon

233285
Adami, Giuseppe 2 occorrenze
  • 1922
  • Edizioni Alpes
  • Milano
  • teatro - commedia
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Le dissertazioni degli abati, noi ce le concediamo a dosi piccole. Così, di tanto in tanto, le signore abbandonano le grate per ritirarsi qui con me, in un piccolo angolo, a far chiacchiere...

Pagina 73

Vestono da abati. - DES GRIEUX appare estremarnente pallido e stanco, ma sul suo volto e nei suoi occhi è un'espressione quasi mistica. - TIBERGE si stacca da lui e si avvicina al gruppo degli ABATINI che è presso la porta dell'anfiteatro, interrogando).

Pagina 75

Il marito dell'amica

245053
Neera 1 occorrenze
  • 1885
  • Giuseppe Galli, Libraio-Editore
  • Milano
  • Verismo
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Una giovane vestita di bianco, con due cerchi plumbei sotto agli occhi, cantò l'aria di Gluk nell'Orfeo: «Che farò senza Euridice» e le marchese civettuole scomparvero, scomparvero gli abati e i cavalieri in spadino. Una fiamma calda di passione serpeggiò nella folla; molte testine si agitarono languidamente seguendo il ritmo della musica; le occhiate divennero più profonde; più intensi i rossori delle labbra morsicate dietro i ventagli. Sofia mormorava piano a Bandini : - Com'è bello! - e la sua manina, sotto il guanto di pelle bigia, premette la mano del giovane, così, come per caso; restando per qualche minuto ferma sulla mano di lui. Il concerto terminò colla composizione orignale di un nuovo maestro; una rapsodia violenta che scosse dalle membra gentili il torpore della seduta, tra il chiudersi dei ventagli, tra il grazioso affacendarsi delle pezzuole riposte e delle trine spiegazzate che tornavano a stendersi sotto una intelligente carezza. La mantiglia di Sofia le era scivolata dalle spalle; Bandini gliela rimise, indugiandosi, intanto che ognuno si disponeva alla partenza; e standole vicino colle mani errabonde intorno ai veli, le mormorò all'orecchio: - Mi è antipatica la vostra amica; ha la serietà di un inquisitore. - È buona - rispose Sofia, convinta. E uscirono insieme. Nell'atrio incontrarono Emanuele. - Che miracolo! S'è mai visto mio marito così previdente? Il professore tutto chiuso nel suo pastrano e leggermente impacciato, si scusò: - Temevo che non aveste cavaliere. Una carrozza era pronta; le due signore si posero nel fondo. Emanuele additò un posto a Bandini, ma questi ringraziò molto contrariato dicendo di dover andare per un'altra strada; Emanuele sedette solo, davanti alle signore. Maria, rannicchiata nel suo cantuccio, ascoltava una impressione di malessere crescente; la ascoltava per studiarla, per rintracciarne le cause. Era il dolore di aver trovato Emanuele sposo di un'altra? Era, ma non del tutto. Maria si sentiva a disagio fra quelle due persone a cui doveva egualmente mentire, e cercava il modo di uscirne al più presto senza parere ingrata verso Sofia. Avvezza a una vita di pensiero, quella esistenza meschina e superficiale la irritava e le faceva male; vedeva chiaramente la china per cui Sofia scivolava e avrebbe volulo richiamarla a' suoi doveri, ma si chiedeva se ne aveva il diritto e se era abbastanza pura per poterlo fare. L'ambiente tiepido del concerto, la melodia dei suoni, la corrente sensuale che aveva dischiuso tanti sorrisi, e accese tante scintille negli sguardi procacemente ricambiati; tutta quell'onda l'onda di mollezza, di abbandono, quel profumo di gentile peccato diffuso in ogni atomo, l'aveva momentaneamente prostrata. Nella oscurità della carrozza, scorgeva la massa nera formata dal corpo di Emanuele, a un breve tratto da lei; i loro abiti si toccavano. Come mai i loro pensieri non si sarebbero incontrati? - Non ho veduto al concerto la Guidobelli - disse improvvisamente Sofia. - Si capisce - rispose Emanuele - poiché si trova già da cinque o sei giorni sul lago, nella villa di Ormani. - È contento il marito? - chiese Sofia con una vocetta squillante. - Contentissimo. Fra un mese al più saranno divisi legalmente. La cosa parve naturale a Sofia, ed anche al professore, che aggiunse: - Egli ha già pronto il conforto. - La Rina Lucci, non è vero? - Si dice. - Dovrà allora abbandonare il suo capitano. - O tenerli entrambi. Il silenzio si rifece su queste parole. La carrozza andava avanti lentamente, nelle vie semi buie dei sobborghi lontani dal centro. Tratto tratto un fanale sull'angolo di una viuzza o al di sopra di una bottega gettava nell'interno un rapido sprazzo; fu in uno di questi momenti che Maria vide lo sguardo di Emanuele rivolto su di lei e ne provò un senso di tormento che tradusse rincantucciandosi più ancora nel buio. La sua gran calma era messa a una dura prova, nè ella stessa avrebbe saputo dire se più temeva la vittoria o la sconfitta. Giunta a casa si fermò a discorrere con Sofia cinque minuti, in piedi, tra due usci. Sofia le disse che il giorno dopo doveva andare ancora a trovare il suo bambino, che sarebbe tornata subito, e appena appena fosse rimesso in salute l'avrebbe condotta anche lei a trovarlo. Non glielo voleva mostrare brutto, giù di ciera... Le mamme sono molto civette... La salutò, baciandola sulle guancie, e poi sul punto di allontanarsi: - Ah! mi dimenticavo; domani è il mio giorno di ricevimento; sarò a casa per l'ora delle visite, senza alcun fallo, ma se capitasse qualcuno, te ne prego, fa gli onori e scusami presso i miei amici. E scusami tu pure. Sotto l'apparente volubilità, l'accento di Sofia aveva qualche cosa di incerto, come un pensiero nascosto a stento nell'onda delle parole; Maria, nel salutarla di nuovo, sentì che le tremava la mano e si ritirò turbata da mille dubbi strani, inverosimili, malcontenta di una posizione dove tutto era mistero. Emanuele amava Sofia? Sofia gli sarebbe rimasta a lungo fedele? Sapeva ella qualche cosa del passato di lui? Egli si curava dell'avvenire di lei? Da qual parte stava la virtù? Chi soffriva più dei due?... Chi mentiva meglio? Queste e altre domande fluttuarono per alcun poco nella mente di Maria, confuse alle impressioni del concerto, all'attitudine spavalda di Bandini e a quella indifferente di Emanuele; ma tutte insieme non erano di natura tale da tenerla desta; al contrario le pesarono e le si aggravarono addosso finché trovò pace in sonno greve, senza sogni. All'indomani, era un bel mattino primaverile e gaio, il terzo da che Maria si trovava a Milano. Aprendo la finestra le parve di sentire un'onda di profumi che venissero a darle il buon giorno. Maria li respirò a lungo, sentendosi rinascere nella purezza dell'aria fresca. Appoggiata al davanzale, mentre respirava gli olezzi del sambuco e delle glicinie fiorite, le veniva in mente il suo meraviglioso giardino delle Estancias, dove tutta la flora americana pompeggiava nel massimo sviluppo, dov'ella aveva trovato la pace, dove tanti cuori di persone ignoranti e buone l'avevano amata sinceramente - e si domandò se era tornata nella sua patria per rivedere una vana amica e un amante infedele. Dovette pur confessare a sè stessa che la speranza di incontrarsi con Emanuele l'aveva spinta al lungo viaggio; e perchè la speranza non aveva oramai ragione di essere, poichò il passato era irrevocabilmente distrutto, a che restare? Da un alto ramo della glicinia si staccò una fogliolina lilla, attraversando lo spazio: roteò un istante portata da una folata di vento, leggera, iridescente, bagnata nei vapori biondi del mattino che la facevano scintillare come un ame tista, poi cadde a piombo sul viale, dove fu presto confusa nell'umida e grigia uniformità della sabbia. - Così è! - mormorò Maria a fior di labbro; e si staccò dalla finestra, tranquilla, ma con una punta di malinconia in fondo al cuore. Nella cameretta che le avevano assegnata e che serviva prima di studiolo, c'era una libreria. Maria incominciò a guardare distrattamente il titolo dei libri, quasi tutti romanzi e poesie, finchè la colpì il cartoncino di un piccola volume; quel cartoncino era giallo, con dei mazzi di rose rosse, somigliante a nessun altro; antico, puerile nelle sue aspirazioni di eleganza; aveva i tagli dipinti in color lacca e un nastrino verde, succinto, pendeva dal mezzo delle pagine. Ella sentì un palpito alla vista di quel libro, lo prese tremando; era Puschin, uno di quelli che aveva letti in compagnia di Emanuele, uno de' suoi più simpatici. Lo strinse nelle mani come un amico, e si pose a sfogliarlo febbrilmente, quasi dalle carte ingiallite potessero uscire fresche e vitali le illusioni d'una volta. Rilesse: «Le procelle delle passioni rinfrescano, rinnovellano, maturano i cuori di vent'anni e fanno loro produrre splendidi fiori e frutti; ma nell'età provetta e infeconda il ravvivamento degli affetti, non genera che doglia e pianto, simili alle piogge d'autunno, che sfrondano i boschi.» «Felice colui che si alza dal banchetto della vita prima di vedere il fondo del bicchiere. » E rimase col libro aperto, abbandonato sui ginocchi e sovr'esso gli occhi immobili pieni dì lagrime. Fu bussato all'uscio timidamente. Maria si alzò. Era la cameriera che veniva a chiederle se le occorresse la sua opera prima della colazione. - La colazione? - domandò Maria trasognata - Quante sono le ore? - Le dieci e mezzo. Il padrone è già nella sala da pranzo. Il padrone! Maria aveva dimenticato che la. sua amica non c'era, che il padrone sarebbe stato solo con lei. - No - rispose in modo reciso - non vengo a colazione. Favorite dire al mio domestico che si tenga pronto. Esco. Uscì difatti quasi subito, seguita da Pablo.

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