Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Al tempo dei tempi. Fiabe e leggende delle Città  di Sicilia

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Perodi, Emma 1 occorrenze

gli rideva in faccia, perché il nome non lo sapeva e abati ce ne erano tanti e tanti. Se ne tornò dunque al mulino con le pive nel sacco e prese a perseguitare il piccino che s'era figurato dovesse portare la ricchezza in casa sua, e che invece doveva campare a sue spese, perché a chi poteva renderlo ? A desinare il mugnaio non permise più al bimbo di stare a tavola con lui, la moglie e il loro figlio. Gli faceva mettere un po' di minestra in un tegamino rotto e nero, e lo mandava a mangiare col gatto e col cane per terra, in un cantuccio. A dormire non volle più che stesse in camera con loro ; gli fece mettere un po' di paglia in uno stanzino buio, e lì lo teneva, e quando il figlio lo chiamava a baloccarsi con lui, il mugnaio diceva : - Lascialo stare ; quello lì non è fatto per baloccarsi ; se vuol mangiare un pezzo di pane deve guadagnarselo e deve ripagare a tua madre il latte che gli ha dato e il resto. Quello lì non è tuo fratello ! - Così il piccino crebbe, ed appena potè zampettare dovette lavorare dalla mattina alla sera a coltivar la terra, ed ebbe appena da sfamarsi : sempre e poi sempre marito e moglie gli ripetevano : - Ti teniamo per carità ; meritavi che ti si fosse abbandonato in un bosco. - Una sera il Principino, poteva avere un dieci anni, chiedeva al figlio del mugnaio un'arancia. - Dammela, fratuzzu dammela! - Ma tu non sei fratello mio ! - rispose l'altro. - Se tu fossi mio fratello te la darei, a te non te la do. Tu sei figlio di un'altra madre. Va'-e cercala tua madre in Palermo. La conosci tu? L'hai mai veduta? Che bella madre ! Come si cura del figliuolo ! - Queste stesse parole il Principino se l'era sentite dire tante volte, ma non ci s'era potuto assuefare e gli facevano sempre una gran pena. Zitto zitto se ne andò a piangere nello stanzino buio e fra le lacrime diceva : - È mai possibile che il mio babbo e la mia mamma non si rammentino di me? Che mi abbiano abbandonato in questo modo per farmi patire tanto ? Ma non ha cuore di madre la mia? - Aveva appena terminato di proferire questa domanda, che lo stanzino fu illuminato da un debole chiarore e in mezzo a quel chiarore comparve una donna pallida pallida, scarna scarna e avvolta in un gran lenzuolo bianco. - Che possono fare i morti per i vivi ? - disse la donna con un fil di voce. - Io morii quando tu nascesti, figlio mio, e su te non ho potuto vegliare. Tuo padre, il principe di Cattolica, ti affidò a un abate nel quale riponeva piena fiducia. Quel perfido, invece, si é impossessato del tuo. Va' a Palermo, istruisciti e quando sarai in età, chiedi che giustizia sia fatta. Io pregherò per te ! - Mentre il Principino sbalordito dall'apparizione e tutto tremante stava per rivolgerle una domanda, i contorni della figura si dileguarono, il chiarore svanì, ed egli si trovò di nuovo al buio, sulla paglia, ma meno afflitto, meno desolato di prima perché sapeva che sua madre vegliava su di lui. Glielo aveva detto dove doveva andare, ed egli subito le obbedì. Del resto glielo aveva detto anche il figlio della mugnaia che se ne andasse perché in quella casa era un intruso. Non appena fece giorno il Principino s'alzò dal suo giaciglio di paglia, uscì, e invece d' andare nel campo a lavorare, prese la via che conduceva a Palermo. Era digiuno, non aveva scarpe in piedi, eppure camminava senza sentir la fame nè i sassi della via: camminava pieno di speranza e di letizia. Giunse così a Porta Nuova, sotto il palazzo del Vicerè, ma era sfinito e si lasciò cadere in terra. Venne una ronda di guardie e il capo gli dette un calcio, dicendogli : - Alzati, mendicante ; qui non sono tollerati gli accattoni! - Si alzò e andò oltre, giù per il Cassaro, fino a Piazza Vigliena. Ma qui era l' ora della passeggiata e le dame passavano nei magnifici cocchi a quattro e sei cavalli, i cavalieri cavalcavano su focosi destrieri con ricche gualdrappe, ed altre guardie scacciarono il Principino, dicendogli : - Va' oltre, pezzente ! - E andò oltre, finché non giunse all'angolo di Via dei Chiavettieri, dove allora non c'erano altro che botteghe di fabbro, e appunto in una di quelle botteghe entrò il Principino, che aveva fame, e disse al padrone : - Mi prenda come garzone ; ho voglia di lavorare e sono forte. Domani e nei giorni seguenti mi guadagnerò il pezzo di pane che ora le chiedo per non morir di fame. - Questa domanda d'imprestito e non di elemosina, il tono con cui era fatta e l' aspetto dignitoso del fanciullo, coperto di pochi stracci, commossero il capo mastro, che subito lo fece ristorare, se lo prese in casa e lo mise a tirare il mantice. Il ragazzo lavorò sempre con zelo; non c'era caso che si imbrancasse con i monelli di strada; se lo mandava a riportare il lavoro o a comprar qualcosa, tornava subito, non parlava, non chiedeva nulla e si contentava del cibo che era abbondante e buono in confronto di quello che gli dava con tanto mal garbo il mugnaio; e se la moglie del fabbro gli dava qualche oggetto di vestiario, ringraziava con effusione e aggiungeva : - Mia madre, che è in Paradiso, pregherà per lei e per la sua famiglia! - Così di giorno in giorno il garzone si faceva voler più bene e ormai era come uno di casa. Appunto per la confidenza che aveva con lui, il fabbro una volta gli domandò : - Ma insomma, si può saper di chi sei figlio e come si chiamano i tuoi genitori ? - Non li ho mai conosciuti. Fui messo a balia da una mugnaia, un abate mi portò al mulino quando avevo pochi mesi, pagò per un po' di tempo il baliatico e poi non si fece più vivo, e allora il mugnaio e la moglie presero a maltrattarmi e a rinfacciarmi il pane che mi davano. Non rammento che maltrattamenti, rimproveri e fatiche, - aggiunse il ragazzo con un sospiro. - Ma non hai proprio nessun indizio de' tuoi genitori? - II poverino non voleva narrare l' apparizione della madre perché quel segreto era la sua sola gioia e la sua sola ricchezza. Per questo alla domanda del fabbro rispose : - Che so? m' hanno detto che sono figlio del principe di Cattolica e che quel perfido abate s'è impossessato di tutti i miei beni. - Era presente al discorso la moglie del fabbro, la quale provò un senso di pietà sentendo che quel ragazzo, figlio di principi, nato in un palazzo, in mezzo all'oro, dovesse fare tutte le faticacce. - Senti, - disse al marito - io non posso vedere che questo ragazzo fatichi a questo modo. Non sarebbe meglio farlo studiare, invece che lavorare ? Anche se non ricupererà i suoi beni, una volta istruito ci darà sempre aiuto, perché è tanto buono e riconoscente ! Del resto la figlia nostra non potrebbe tirare avanti la bottega ! e lui lo farà bene, avendo un po' d'istruzione. - Il fabbro si lasciò convincere dalle parole della moglie e tolse il Principino di bottega a tirare il mantice, lo mise a scuola e spese di bei quattrini per fargli insegnare prima a leggere e scrivere e fare di conto, e poi il latino, le scienze e tutto quello che si insegnava allora. Intanto il Principino raggiunse l'età maggiore e il fabbro fece fare l'albero genealogico della famiglia di Cattolica, cavò tutti gl'incartamenti e gli atti per intentar lite all'abate e provare che non lui, ma il giovinetto era l'erede dei titoli e delle ricchezze. Incominciò il processo, e l'abate, che sapeva d'aver torto marcio, non si stancava di mandar rotoli di doppie d'oro, ora ai giudici, ora al presidente del tribunale. E via via che il tempo passava e che si avvicinava il momento della sentenza, quei rotoli aumentavano di volume. Il fabbro, poveretto, si limitava a pagar gli avvocati e faceva già un gran sacrifizio, ma non aveva mezzi per battersi con l'abate a rotoli di belle doppie di Spagna. E quando dopo due anni venne pronunziata la sentenza, fu, naturalmente, favorevole all'abate. S'appellarono, e il fabbro, che non voleva darsi per vinto, vendette diverse case per sostener le spese e non badava a spendere; ma l'altro ungeva sempre le ruote, e ogni momento rinfrescava la memoria dei giudici e del presidente a forza di rotoli di belle doppie d'oro sonanti e, naturalmente, vinse. Il Principino, vedendo i gran sacrifizi fatti dal fabbro per lui, lo pregò e lo supplicò di non continuare la causa. - Lasci che mi metta a lavorare in qualche modo per rifarla delle spese incontrate per me, - gli diceva - ma rinunzi a far valere i miei diritti. Io non posso permettere che lei vada in rovina, continuando una lite che l'abate saprà sempre vincere perché dispone di tanti mezzi. - In queste cose non t'ingerire. Io ho una figlia sola e la sua dote è assicurata. Di quel che ho guadagnato con le mie braccia sono padrone di fare quel che voglio, e intendo di continuare la lite, dovessi rimetterci anche la camicia. Lasciami pensare al mezzo di richiamare al dovere questi giudici comprati dall'abate, e poi.... - II Principino intanto si struggeva dalla pena, non perché desiderasse le ricchezze, ma perché, andandone al possesso avrebbe potuto rendere al fabbro tutto quello che aveva speso nella lite. S'accorgeva bene che in casa avevano limitato le spese, che la moglie aveva impegnato l'oro, che nessuno si faceva più un vestito nuovo. E tutto perché ? Per quel processo che non finiva mai. Una notte il Principino non poteva dormire, agitato da mille pensieri, uno più doloroso dell'altro. A un tratto esclamò : - Madre mia, aiutami tu, non permettere che il tuo figlio non possa sdebitarsi con questa brava gente che lo ha raccolto povero, estenuato dalla fame e che per lui ha fatto tanto ; madre mia, aiutami ! - II giovane Principe, dopo questa invocazione, sentì una manina delicata accarezzargli la fronte e una voce debole debole e lontana lontana, disse : - Figlio mio, nessuno ti può aiutare, se non il re di Spagna. Lui solo ti può far rendere giustizia. Figlio mio, abbi dunque pazienza, costanza e fermezza ! - La voce tacque, ma, il giovane Principe si sentì consolato, e ogni volta che parlava col fabbro (sempre parlavano della lite, perché, si sa, la lingua batte dove il dente duole) gli ripeteva : - Nessuno ci può aiutare, se non il re di Spagna. Lui solo ci può far rendere giustizia. Ci vuoi pazienza, costanza e fermezza ! - II fabbro, a forza di sentir questo, si convinse che, di fatto, il Re solo poteva far rinsavire i giudici e, zitto zitto, di nascosto anche alla moglie, vende un' altra casa e le annunzia che deve partire per certi suoi affari. Invece s'imbarca per la Spagna, sbarca a Barcellona, piglia pratica alla Sanità e se ne parte per Madrid. A palazzo non conosceva nessuno e non era vestito come le persone di Corte ; per questo tutti lo sbirciavano con disprezzo, ma egli non ci badava. Era giorno di udienza e il Re riceveva tutti. Dopo lungo aspettare il fabbro fece passare l' ambasciata al Re, disse che veniva da Palermo e fu ricevuto. Appena alla presenza del Re, che era nientemeno che Carlo V, disse, gettandosi in ginocchio : - Maestà, grazia per il principe di Cattolica ! - Il Re lo guardò maravigliato perché non pareva davvero un Principe, e lo invitò a rialzarsi ed a parlare. Il fabbro allora cavò fuori tutte le carte che comprovavano le ragioni del Principino e le copie delle sentenze. Il Re, senza indugio, le esaminò, chiamò un suo giureconsulto a esaminarle, poi un altro ancora, e vedendo che si commetteva a Palermo certe nefandezze, esclamò : - Povero me, come sono ben servito ! Così si amministra in Sicilia la giustizia in mio nome ? - Proprio così, Maestà, - rispose il fabbro - soltanto chi ha quattrini ha ragione, anche quando commette una sfacciata usurpazione. - Ma questo non accadrà più, - assicurò il Re, e preso penna, carta e calamaio, scrisse una lettera per il Vicerè che doveva esser comunicata ai giudici, la munì del suo reale suggello e consegnandola al fabbro, disse: - Tenete, andate in Sicilia e abbiate fiducia che nessuno oserà più trasgredire agli ordini miei. - II fabbro, tutto consolato e pieno di speranza tornò a Palermo, consegnò la lettera del Re al Viceré, fece riaprire la causa, ebbe di nuovo una sentenza contraria e non se ne curò. Però il Principino se ne afflisse molto, e la notte dopo che fu pronunziata la sentenza, non riuscì mai a dormire. Sempre invocava la madre ed esclamava : - Madre mia, ma la giustizia è proprio morta a Palermo ? Come, non è rispettata neppure la volontà del Re ? Come, dovrò vedere quel perfido abate godersi i beni della mia famiglia e non potrò neppure rimborsare quest'eccellente popolano dei sacrifizi che fa per me? Non vedi, madre mia, che s'è disfatto di tutto quel che possedeva , non vedi che stenta per mantenere tuo figlio ? Non credi che questo sia uno strazio per me ? - L'infelice, dopo questa invocazione sentì un alito freddo sfiorargli il viso e due labbra gelate si posarono sulle sue, e quindi la solita voce affettuosa pronunziò lentamente queste parole : - Figlio mio, abbi pazienza, costanza e fermezza. Io pregherò per te. - E suggellando la promessa con un lungo bacio, si allontanò. Il fabbro sbraitava per la sentenza dei giudici, e tante ne disse che stavano per arrestarlo; ma il Vicerè non lo permise perché aveva nelle mani la lettera del Re e temeva qualche guaio serio. Il Principino, intanto, a tutti gli sfoghi del suo benefattore, rispondeva invariabilmente con le parole della madre : - Ci vuol pazienza, costanza e fermezza ! - Ma che pazienza ! - gridò una volta il fabbro. - Te lo faccio vedere io che cosa ci vuole! - E vende l'ultima casetta che possedeva con la bottega e tutto, e se ne va in Ispagna di nuovo. La moglie, che fino a quel momento non s'era lagnata e le era parso tutto giusto quel che il marito aveva fatto per il Principino, quando vide chiuder la bottega e dovette lasciar la casa, divenne una vipera. - Mio marito è pazzo ! - diceva a chi non voleva sentirla - è pazzo da legare! S'è mai veduto che un padre dia fondo a tutto quello che ha, riducendo la famiglia alla miseria, per far valere i diritti di uno che non è neppur suo parente ? Ecco qui, la nostra Angelina, non per vantarmi, era la ragazza più ricca di tutto il rione, e ora ha appena la camicia ! Chi se la piglierà così nuda bruca ? Nessuno. Ed ella ci rimprovererà sempre di averla sacrificata. - Non lo farò mai, mamma, - disse la fanciulla. - Io sono felice e non mi dispiace punto di non trovar marito. Sto bene così. Non vi pentite di quel che avete fatto per il Principino; io vorrei col mio lavoro, aiutarlo.- Angelina era abilissima nel fare ricami sulla tela, riproducendovi cacce, cortei reali e tante altre cose, che davano un pregio singolare alla biancheria. Ella si mise a lavorare e lavorava per le nobili dame e guadagnava tanto da campare sè e la madre mentre il fabbro viaggiava per la Spagna. Il Principino s'era rimesso a lavorare pure, e così la moglie del fabbro non mancava di nulla. Ecco che il fabbro sbarca a Barcellona, giunge a Madrid e si presenta al Re. - Maestà, il Vicerè di Sicilia ne fece un bel conto della vostra lettera ! - II Re si turbò. - Che sentenza hanno pronunziato i giudici ? - domandò. - Una bella sentenza ! Hanno dichiarato che l' abate ha tutto il diritto di valersi dei beni del principe di Cattolica e che il Principino è un truffatore. E l' abate se la gode nel palazzo e il Principino tira il mantice e suda a battere da mane a sera il ferro sull'incudine ! - Al Re vennero i brividi nel sentir questo. Poi incominciò a gridare e a battere i piedi. Prese la corona e la scaraventò contro il muro dicendo : - Che mi vale questa corona se non sono Re in Palermo ? - Poi prese lo scettro e lo scaraventò in terra dicendo : - A che mi vale questo scettro se non comando nulla in Sicilia e i giudici comandano più di me? - Poi prese il manto d'ermellino e lo strappò tutto, dicendo : - A che mi vale questo manto mentre nel mio Regno mi contano quanto Pulcinella ? - II fabbro, nel vederlo così infuriato, credeva che se la sarebbe presa anche con lui e l'avrebbe mandato a marcire in qualche prigione o a remare su qualche galera. Invece il Re, tutto buono si volse a lui e, mettendogli in mano una borsa piena di doppie d'oro, gli disse : - Andate a Palermo e udrete di gran notizie! - Il pover uomo ringraziò ed uscì lesto lesto. Più presto che potè s'imbarcò su una nave che faceva vela per la Sicilia e con quelle doppie d'oro rabbonì la moglie e levò il Principino da battere il ferro sull'incudine e da limare chiavi e toppe. Ma torniamo al Re. Subito subito fece chiamare un suo fido servitore. - Don Josè, - gli disse - io debbo partire per un lungo viaggio, ma non voglio partire da Re. Qui farete credere che sono all'Escurial a far gli esercizi religiosi e che non voglio esser disturbato, avete capito ? - Maestà, sì. - Procuratemi un vestito da abate, ma vecchio e bisunto, tagliatemi i baffi, fatemi la chierica.... - Don Josè credeva che il Re fosse impazzito. - Presto, don Josè, andate e stasera portatemi il vestito che v'ho chiesto. Non vi movete? Sono o non sono il rè di Spagna, d'Aragona, di Castiglia, di Leone, di Sicilia e del Nuovo Mondo ? Il discendente di Ferdinando e d'Isabella di Castiglia, sono o non sono Carlo V re e imperatore ? - Sì, Maestà, siete il più potente sovrano del mondo e sui vostri domini non tramonta mai il sole; ma appunto per questo, mi pare che l' etichetta richieda che il Re ne' suoi viaggi sia accompagnato.... - Al diavolo l' etichetta e tutto il resto, obbedite ! - E don Josè obbedì e la sera stessa portò il vestito da abate al suo Sovrano e dovette tagliargli i fieri baffi, la barbetta prepotente e col rasoio fargli una bella chierica nel centro della testa. Così trasformato il Re uscì dal Palazzo Reale di Madrid senza esser riconosciuto da nessuno, montò un ronzino, procurategli pure da don Josè e su quello pian piano percorse solo le strade maestre del suo Regno, accorgendosi che molte cose andavano male, che molte altre non erano come gli davano ad intendere ministri e cortigiani, e s' imbarcò finalmente a Barcellona. Una burrasca gettò la nave sulle coste di Trapani, dove il Re comprò un mulo e su quello si avviò alla capitale dell' isola. Ma se le cose andavano male in Ispagna, andavan peggio in Sicilia. Strade non ce n'erano, le campagne erano incolte e deserte, e il Re fu fermato tre volte nel viaggio dai malandrini. I primi gli presero la borsa con le monete d'oro, i secondi il mulo, i terzi, non potendo prendergli altro, gli levarono le scarpe con le fibbie d' argento, il mantello e l'abito talare, cosicché dovette fare il viaggio a piedi e scalzo e senza nulla che lo riparasse dal freddo e dalla pioggia. Figuriamoci che umore avesse quando pose finalmente il piede nella sua fedele città di Palermo. Se gli fosse capitato davanti il Vicerè che governava in suo nome, lo avrebbe per lo meno mandato alla forca. Fortuna che sapeva l' indirizzo del fabbro e andò a trovarlo! Il brav'uomo lo riconobbe subito e lo ristorò, lo calzò e lo vestì, altrimenti il Re sarebbe morto di fame ne' suoi felicissimi Stati. Il fabbro tempestò, fece l'ira di Dio perché di nuovo il Tribunale discutesse la causa e la discusse. Il Re quel giorno era nell'aula vestito da misero abate. A. un certo momento s'accorse che un giudice faceva una soperchieria, e pian piano disse : - Ma perché, signor giudice, non usate giustizia? - Ah, padre abate, occupatevi dei fatti vostri ! Se non ve ne andate, vi tiro il calamaio ! - II Re non voleva altro. Si sbottona la tonaca, si apre il colletto della camicia e fa vedere il Toson d'oro. I giudici rimasero come morti. - Giudici infami, - esclamò il Re drizzandosi - così vendete la giustizia ? Ordino e comando che subito questi cinque furfanti siano legati alle code dei cavalli e trascinati per la città. Voglio che il popolo veda che le loro ingiustizie, le loro infamie non sono approvate dal Re. - Subito questi giudici furono presi, legati alle code di focosi cavalli, trascinati per le strade e in un battibaleno erano bell'e morti. Poi furono squartati, scorticati e con la pelle dei giudici il Re fece fare tanti seggi e su questi seggi ordinò che sedessero sempre i giudici quando dovevano giudicare e condannare, perché non dimenticassero quel che era capitato ai loro predecessori. Il perfido abate perdette la causa e finì la vita in una prigione, e il Principino fu reintegrato nei suoi titoli e nei suoi beni e per riconoscenza sposò Angelina, la figlia del fabbro. Il Re fece alla sposa doni sontuosi e volle che le nozze fossero celebrate nella cappella Palatina, nel Palazzo Reale. Il Vicerè, poveretto, la passò brutta e così tutti i funzionari che governavano l' isola a nome del Re, il quale, facendo giustizia, si acquistò l' amore e la riconoscenza dei Siciliani. Il principe di Cattolica gli fece fare una statua che fu messa di fronte alla casa del presidente Airoldi nel Vicolo degli Agonizzanti. Il vicolo prese il nome di Cortile del Re, e la strada per la quale furon trascinati i giudici rei, fu chiamata la Calata dei Giudici e così si chiama ancora. Angelina e il Principe furono felici e contenti e lei fu Viceregina e il Principe Vicerè dell'isola per anni e anni.

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