Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abate

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LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679057
Perodi, Emma 5 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
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Cecco avrebbe voluto domandare se era andata a letto perché si sentiva male; ma tacque indispettito, e la Regina prese a dire: Tanti ma tanti anni fa, il Papa era in guerra con l'imperatore Federigo, e questi, per creargli impicci, mandò a chiamare un santo abate del monastero di Strumi, che apparteneva all'ordine di Vallombrosa, per nome Giovanni Ungheri, e lo creò Papa sotto il nome di Calisto III. Questo abate, prima di partire dal monastero, ordinò a un orefice una bellissima corona d'oro e, fattala ornare di pietre preziose, la pose in capo a una Madonna di legno, grande al naturale, che era nella chiesa del monastero, considerando che la scelta dell'Imperatore fosse avvenuta per ispirazione della Madonna, di cui egli era devotissimo. Dopo aver fatto questo donativo, Calisto III lasciò Strumi, e fu eletto in sua vece un certo frate Lamberto, di origine tedesca, uomo molto avaro e cupido di ricchezze. Questo abate Lamberto, tutte le volte che si trovava in chiesa a pregare, posava gli occhi sulla corona d'oro della Madonna, e tutte le volte pensava che era un peccato di lasciare infruttifere tante migliaia di fiorini quanti ne valeva quella corona, mentre una di similoro avrebbe fatto la stessa figura. Un giorno capitò nel monastero un orefice di Arezzo, per ridorare una croce che l'abate soleva portare in processione, e fra' Lamberto, nel parlare con l'artefice, venne a ragionare della famosa corona e di quello che era costata. - Ora vale anche di più, - disse l'orefice, - perché chi l'ha lavorata è morto, e tutto ciò che è uscito dalle sue mani ha raddoppiato di costo. L'abate, nel sentir questo, disse all'orefice: - È un'imprudenza di lasciare una cosa di tanto valore esposta alla tentazione del primo venuto; sapresti tu farmi una corona eguale a quella, ma di metallo più vile, e ornarla di gemme false? La vera allora si terrebbe riposta e non si metterebbe fuori altro che nei giorni solenni. - Saprei ben farla, e così somigliante che neppure papa Calisto riuscirebbe a riconoscere quella donata da lui, dalla mia. - Allora mettiti al lavoro; - replicò l'abate, - ma bada bene di non rivelare a nessuno il segreto. L'orafo tornò ad Arezzo, e dopo poco tempo portava all'abate Lamberto una corona perfettamente eguale alla vera. Il cupido frate, dopo averlo pagato, si affrettò a scendere in chiesa e, approfittando di un momento in cui nessuno lo vedeva, tolse di sul capo della Madonna la corona preziosa, vi pose la falsa e, nascondendo sotto lo scapolare il gioiello, andò nella sua cella per guardarla bene e giudicare quanto ci avrebbe guadagnato vendendola. In paese c'era un uomo che trafficava in Romagna, e pensava di affidarla a costui per venderla. L'abate era tutto occupato in questi calcoli, quando sentì bussare all'uscio e comparve il frate sagrestano col viso tutto rabbuffato: - Padre abate, - disse tremando, - in chiesa è avvenuto un miracolo. - I miracoli che avvengono in chiesa non possono spaventare un buon cristiano: parla. - Mentre accendevo le lampade dinanzi all'immagine della Madonna, questa ha incominciato a scrollare il capo, prima piano e poi forte, e le è caduta di testa la corona. - L'avrai inciampata con la canna che regge il moccolino. - Padre abate, no; e poi in chiesa c'era molta gente, e ora si sarà già sparsa per il paese a narrare il miracolo. La cella dell'abate, intanto, si era empita di altri frati, e uno di essi, che era tenuto in conto di molto sapiente perché copiava continuamente antichi manoscritti ornandoli di belle iniziali fregiate, disse: - È naturale che la Madonna abbia gettata in terra la corona. La Santa Madre del Signore non vuole il dono di un frate che è divenuto antipapa a dispetto di Sua Santità Alessandro III, eletto nel conclave dei cardinali. La spiegazione che fra' Ilario dava del miracolo, confortò molto l'abate. - Avete parlato saggiamente, - diss'egli, - e noi metteremo un'altra corona sulla testa della Beatissima Vergine. E, senza indugiare, scese in chiesa, raccolse la corona falsa, e avviatosi nella stanza dov'eran conservati gli oggetti preziosi, tolse da un armadio una corona d'argento che egli stesso posò sul capo della Madonna. Quella sera, a refettorio, non si parlò d'altro che del miracolo, e nel castello di Strumi, come pure in paese, tutti traevano da quel rifiuto della Vergine l'augurio che ella si volesse costituire protettrice di papa Alessandro e della Lega dei comuni contro l'imperatore Federigo Barbarossa. - Vedete! - dicevano i paesani, - già due antipapi, creati da Federigo, sono periti di mala morte; presto toccherà anche a Giovanni Ungheri, il quale avrebbe fatto meglio a non cambiare l'abbazia di Strumi con la tiara che non gli viene da Dio. L'abate Lamberto, impensierito da quel fatto e da tutti i discorsi che suscitava, appena fu nella sua cella pensò esser prudente cosa il nascondere la corona in un ripostiglio a lui solo noto, e non parlar di venderla con anima viva. In seguito, tutto si sarebbe calmato; e quando il fatto fosse dimenticato, poteva, senza pericolo, mandare il gioiello magari anche in Francia. Egli dormì pacificamente, e, destato dalla campana che sonava a mattutino, andò in chiesa. Ma appena si presentò sulla porta che dal monastero metteva nel coro, ecco venirgli incontro molti frati spaventati. - Padre abate, - dicevano, - mentre stavamo a far la giaculatoria alla Madonna, l'immagine ha incominciato a muovere la testa, prima piano e poi tanto forte che la corona d'argento è caduta in terra: questa non è la corona dell'abate Giovanni, dell'antipapa; qui sotto c'è un mistero! L'abate Lamberto li calmò dicendo che probabilmente egli aveva posato male la corona e per questo era caduta; ma tanto lui quanto i suoi monaci, quella mattina, dissero distrattamente il mattutino e furon lieti che terminasse: l'abate, per tornar nella sua cella a meditare sull'accaduto; i monaci, per riunirsi fra loro e commentare lo strano avvenimento, del quale, ora, neppur fra' Ilario sapeva dare spiegazione, perché la corona d'argento era un donativo della buona contessa Matelda di Toscana, e la Madonna non poteva rifiutare un ornamento che veniva dalla pia dama. Perché dunque quel fatto avveniva tanto per la corona dell'antipapa Calisto, quanto per quella di colei che aveva lasciati i suoi feudi alla chiesa? - Misteri! - sentenziò fra' Ilario, e tornò ai suoi manoscritti, che gli facevano dimenticare le cose di questo mondo, e anche quelle del mondo di là. Dopo la refezione, l'abate Lamberto adunò i suoi monaci e propose loro di mettere un'altra corona alla Madonna e di legargliela sulla testa con un filo di argento. E tutto il convento andò in processione a togliere dall'armadio una bella corona di argento, ornata di smalti e portata a Strumi da Guido di Besagne, il capo dei conti Guidi di Casentino, l'unico superstite della potente famiglia, che aveva i suoi feudi in Romagna. Egli aveva regalata quella corona alla Madonna di Strumi in ringraziamento di una grazia da lui ottenuta, ed era un pregevole lavoro di Bisanzio. Questa volta l'abate non osò mettere la corona in testa alla Madonna; aveva la coscienza sudicia e temeva che l'immagine santa facesse un terzo miracolo per isvergognarlo in presenza di tutti: perciò disse a fra' Ilario: - Salite voi sulla scala e legate forte la corona in testa alla Vergine. Fra' Ilario prese un filo d'argento e un paio di tanaglie, e assicurò ben bene la corona sulla testa della Madonna, per modo che, per togliervela, sarebbe occorsa una lima. Quando questo lavoro fu terminato, l'abate Lamberto ordinò ai suoi monaci d'inginocchiarsi, e poscia intuonò la Salve Regina Ma neppur dopo questa preghiera era più tranquillo, perché gli pareva che la Madonna tenesse fissi su lui gli occhi che avevano perduto l'espressione buona e dolce, e s'erano fatti severi. Neppur quello sguardo crucciato della Madre di Gesù, bastò a farlo ravvedere. Con poca fatica avrebbe potuto togliere la corona dal nascondiglio e metterla nell'armadio al posto della falsa; ma quando pensava al valore di quel gioiello, sentiva ridestarsi in cuore tutta la sua cupidigia, e gli pareva già di vedere le belle monete d'oro che ne avrebbe ricavate, vendendolo. Allora i due miracoli gli apparivano cosa naturalissima, e diceva che la corona falsa e quella d'argento eran cadute perché nella fretta non le aveva bene accomodate sul capo della sacra immagine. L'abate Lamberto fece anche quella notte tutto un sonno, e avrebbe dormito fino a tardi se le campane non lo avessero destato per andare a mattutino. Scese in chiesa, a passo lento, come si conveniva a un uomo rivestito di un'alta carica, ma giunto sulla porta si fermò. Che volevano dire quelle genuflessioni dei monaci, quel silenzio e tutte quelle lampade accese, nella chiesa ancor buia? Fra' Ilario, che lo aveva scòrto fermo sul limitare della chiesa, glielo disse in poche parole. Un istante prima, mentre i monaci recitavano la giaculatoria, la Madonna aveva alzato le braccia e, staccatasi la corona, l'aveva gettata sul pavimento dov'era ancora. A questo racconto l'abate Lamberto impallidì, tremò, e non ebbe coraggio di accostarsi alla immagine. - Adunate il Capitolo, - suggerì fra' Ilario all'abate. - Aduniamolo, - rispose questi. Prima che il sole fosse alto, tutti i monaci che facevan parte del Capitolo erano convenuti in una grande sala attigua alla cella dell'abate, e questi stava seduto nel fondo di essa, sotto un baldacchino, perché gli spettavano gli stessi onori che ai signori di feudi, e aveva giurisdizione sulle terre dipendenti dall'abbazia di Strumi, e diritto di vita e di morte sugli abitanti. Tutti i monaci aspettavano che l'abate cominciasse a parlare, ma l'abate taceva. Fra' Ilario allora prese a dire: - Fratelli, finché si trattava della prima corona caduta dalla testa dell'immagine della Madonna, si poteva supporre che la Madre di nostro Signore avesse orrore di un donativo fattole da un antipapa, cioè da un nemico della Chiesa fondata da Pietro per ordine di Gesù; in quanto alla seconda corona si poteva ammettere che il nostro abate non l'avesse collocata solidamente sul capo dell'immagine; ma oggi voi tutti avete veduto l'atto della Madonna; che cosa ne pensate? - Miracolo! Miracolo! Miracolo! - si udì ripetere da tutte le bocche, - Miracolo sì, ma il miracolo è stato fatto a uno scopo; questo è l'effetto, ma la causa di questo miracolo, qual è? Un profondo silenzio si fece nella sala, e allora l'abate Lamberto, ripreso imperio su se stesso, prese a dire: - Fratelli, mi pare atto da ribelli il voler indagare la mente della gloriosa Madre di Gesù; sottoponiamoci al volere di Lei e non tentiamo più di alienare da Strumi la sua valida protezione, volendole porre in testa una corona che rifiuta; chiniamo la testa e preghiamo. L'astuto abate, con questo scappavia, aveva creduto di rimediare a tutto, e i monaci, assuefatti all'obbedienza, accettarono la proposta dell'abate, il quale, alzatosi dal ricco seggiolone, ordinò ai fratelli di seguirlo in chiesa, e congiungendo le mani si avviò avanti a tutti verso l'altare. Entrato che fu in chiesa, s'inginocchiò dinanzi alla Madonna, sopra un guanciale di drappo d'oro, e intonò le litanie. Si era fatto appena il segno della croce, quando tutti i monaci, che tenevano gli occhi fissi sull'immagine, dettero un grido. La Madonna, lentamente, aveva alzato il braccio destro e, puntando l'indice sull'abate, lo accennava agli altri. Frate Lamberto spalancò gli occhi, dette un grido e cadde tramortito per terra; i monaci fuggirono spaventati, e intanto l'abate rimase disteso sulle lastre di pietra, senza che nessuno gli desse aiuto. - È dannato! è dannato! - si sentiva bisbigliare per il monastero dai monaci sgomenti, che andavano a rinchiudersi nelle celle per pregare. Il sagrestano e fra' Ilario ebbero compassione dell'abate, e dopo poco ritornarono in chiesa per veder se si era riavuto. - Io ritengo che sia morto, - diceva il sagrestano, - e allora che sarà stato mai dell'anima sua? - No, fratello, non è morto. La Madonna, che è così pietosa anche per i più ostinati peccatori e intercede il Divin Figlio per loro, non può aver permesso che l'abate Lamberto muoia in peccato, poiché la sua anima certo non è scevra di macchie. Solleviamolo di qui, portiamolo nella sua cella e forse potremo guarirlo. Fra' Ilario, che nel copiare manoscritti dell'abbazia aveva imparato a conoscere la virtù di certe erbe medicinali, quando ebbe collocato l'abate sul letto, lasciò il sagrestano a guardia del malato e andò in cerca dei semplici che credeva lo potessero guarire; ma per quanto gli aprisse la bocca, gli facesse inghiottire decotti e gli applicasse degli empiastri, l'abate Lamberto non apriva gli occhi e non dava segno di vita. I monaci, sempre impauriti, udendo fra' Ilario andare e venire sotto i loggiati del cortile, mettevano ogni tanto il capo fuori dell'uscio della cella e domandavano notizie. Fra' Ilario passava, scrollando la testa come per dire che non c'era nulla di nuovo. Il sagrestano rimase tutta la notte a vegliare l'abate; ma il monaco, vinto dalla stanchezza, chinò il capo sul petto e s'addormentò saporitamente. Egli avrebbe dormito fino a giorno, senza rammentarsi di suonar mattutino, se non lo avessero destato grida strazianti. Aprì gli occhi e vide l'abate seduto sul letto, con gli occhi sbarrati e fuori della testa, che accennava la porta, che era in faccia al letto, ed era stata aperta senza sapere da chi né come. E da quella porta vide lentamente entrare l'immagine della Madonna, col volto crucciato, fermarsi in fondo al letto e accennare l'abate. Il sagrestano non volle veder altro. Scappò via come un pazzo, facendo svolazzare la tonaca bianca per i loggiati e per i corridoi, e giunto in sagrestia si attaccò alle campane e suonò all'impazzata, finché non gli rimase in mano la fune. I monaci si destarono credendo che l'abbazia bruciasse; la gente del paese si spaventò, e tutti, senza pensare a vestirsi, scapparon dal letto: i monaci, per correr in chiesa; la gente, per andar sulla piazza a veder quello che accadeva. Il sagrestano spalancò le porte della chiesa, e ai frati che giungevano dal convento e ai terrazzani che entravano di fuori non sapeva dir altro che: - La Madonna! La Madonna! Allora tutti guardarono, e si accòrsero che la sacra immagine non era più al suo posto. Questa sparizione agghiacciò ognuno dalla paura, e il popolo cadde in ginocchio atterrito, mentre i monaci fuggirono nelle celle. Fra' Ilario andò in quella dell'abate, e con grande meraviglia vide la Madonna appiè del letto e il malato per terra, malamente caduto e livido in faccia. Allora riunì i monaci e disse che la Madonna bisognava riportarla in chiesa in processione e che probabilmente era voluta andare a benedire l'abate prima che morisse, perché questa volta era morto davvero. Infatti le sue membra si erano irrigidite, ed egli era ghiaccio come un pezzo di marmo. Alcuni monaci ubbidirono, altri non poterono, perché lo spavento li teneva inchiodati nel letto; ma, come Dio volle, la processione si fermò e la Madonna, collocata sopra una barella, fu riportata in chiesa sul piedistallo. Fra' Ilario, aiutato da due monaci meno paurosi degli altri, vestì il corpo dell'abate della bianca tonaca e dello scapolare; lisciò la sua lunga barba, congiunse le mani del morto, e, dopo avergli messo sul petto la croce d'oro e le insegne del suo grado, lo fece portare in mezzo alla chiesa per rimanervi esposto. Appena la notizia della visita della Madonna nella cella dell'abate e della morte di lui si sparse nel contado, venne la gente a frotte e, credendo che Lamberto fosse santo, ognuno voleva toccarlo e portar seco una reliquia del defunto. Così, chi gli stracciava un pezzetto di tonaca, chi qualche pelo della barba, chi i capelli. La sera, quando due novizî furono lasciati a guardia del cadavere per pregare, l'abate pareva un Ecce Homo Ma la chiesa era quasi buia, la nottata lunga, e i due novizi s'addormentarono a un certo punto senza neppure terminare un De profundis che avevano incominciato; e nel destarsi, trovarono il cadavere con una gamba fuori della bara, per cui, invece di ricomporlo, scapparono per il monastero. Fra' Ilario, che fu tra i primi a correre in chiesa, confortò i monaci dicendo che i cadaveri si muovono talvolta perché i muscoli si rilasciano ; e alla meglio ricondusse la calma negli animi agitati, ma consigliò che il cadavere fosse presto calato nell'avello per far cessare tutte le cause di paura e di sgomento. E, come fra' Ilario aveva suggerito, fu fatto. La salma dell'abate fu calata quella mattina stessa nel sotterraneo, dopo essere stata aspersa di acqua benedetta; la pesante lapide di pietra cadde con fracasso sul pavimento e ne fu chiusa l'apertura. Quel giorno fu detto l'uffizio dei morti, e la mattina dopo venne cantata una messa per il riposo dell'anima dell'abate. Il popolo era tutto adunato in chiesa, i monaci avevano indossato i paramenti neri e gialli e stavano aggruppati intorno all'altare, quando tutti gettarono un grido. La lapide che chiudeva l'avello si alzava lentamente, e da quella sbucava fuori la testa livida di fra' Lamberto, con gli occhi sbarrati e la barba spelacchiata dai fedeli. - È risuscitato! È risuscitato! - si sentiva gridare. Fu un fuggi fuggi generale. La gente si affollava alla porta per uscire, le donne urlavano, il monaco che diceva la messa scappò col calice in mano, gli altri si sbandavano per il convento, e in breve in chiesa non rimase altri che l'abate, il quale faceva sforzi sovrumani per sollevare sempre più la lapide e aprire un varco alla sua persona. Vi riuscì finalmente, ed estenuato, cadendo ogni dieci passi, giunse alla sua cella senza esser veduto da alcuno. Ma qui le forze gli mancarono e rimase lungamente disteso per terra. I monaci s'eran chiusi in tre o quattro nelle celle e non osavano fiatare; fra' Ilario soltanto, dopo il primo momento di paura, tornò in chiesa, vide la lapide ancora sollevata, guardò nell'avello, e scorgendo la bara vuota si diede a cercare l'abate per il convento. "Forse non era morto; - pensava, - e chi sa, poveretto, quant'ha sofferto?" Nell'entrare in camera lo vide lungo disteso per terra, e corse a prendere vino e cibo per ristorarlo. Dopo poco l'abate Lamberto aprì gli occhi e, veduto frate Ilario accanto a sé, gli disse con voce spenta: - Fratello, volete farmi la carità di ascoltare la mia confessione? - Dite pure, abate reverendo, - rispose il monaco. Lamberto allora si accusò di tutti i suoi peccati di cupidigia, fino a quello della sostituzione della corona. - Ora mi rimane da dire il più grosso! - esclamò. - Dite pure, abate reverendo, io vi ascolto, e la misericordia di Dio è grande. L'abate narrò minutamente le tentazioni alle quali aveva soggiaciuto, i calcoli avari che avea fatti, l'indifferenza con cui aveva accolto gli avvertimenti palesi della Madonna. - Sono un gran peccatore! - disse terminando la confessione. - Siete pentito, sinceramente pentito? - gli domandò fra' Ilario. - Tanto pentito e sgomento del mio misfatto, che se mi diceste di andare in Terra Santa in pellegrinaggio a farmi trucidare dagli infedeli, vi andrei. - Non è questo che io v'impongo, ma bensì di ripetere pubblicamente in chiesa l'accusa contro voi stesso, e di venire in processione al nascondiglio a prender la corona per rimetterla con le vostre mani sulla testa della Vergine Santissima. - Ebbene, fra' Ilario, fate bandire per tutta la terra di Strumi che oggi stesso tutto il popolo sia adunato in chiesa prima del vespro per udir la confessione dell'abate. È inutile dire che la chiesa era gremita di gente quando l'abate vi scese sorretto da fra' Ilario e da un altro monaco. Egli s'inginocchiò nel centro della navata maggiore, sulla lapide che chiudeva l'avello, e, a capo chino, incominciò a snocciolare la lunga corona dei suoi peccati. Finché disse che aveva venduto indulgenze, che s'era appropriato il denaro del povero, che aveva ingannata la gente in ogni modo, il popolo tacque, ma quando giunse a confessare di avere spogliato la Madonna del prezioso donativo di Giovanni Ungheri, allora da cento bocche uscì una terribile parola infamante: - Ladro! Ladro! L'abate Lamberto chinò la testa e continuò la confessione; poi, alzatosi, si avviò alla sua cella seguìto dai monaci, e poco dopo ritornava in chiesa recando sopra un guanciale la preziosa corona, che riponeva sulla testa della Madonna. Quindi, come se non credesse completa la espiazione, si fece portare la corona falsa, e, postasela in testa, disse: - Questa io la porterò sempre affinché tutti sappiano del mio peccato. Quello stesso giorno l'abate Lamberto rinunziava alla sua carica, vestiva l'abito da pellegrino e col capo grottescamente ornato della corona, partiva per Terra Santa. Da quel giorno la Madonna di Strumi rimase immobile sul piedistallo, e la preziosa corona non si mosse più dalla testa di lei. Intanto la fortuna dell'Imperatore era assai scemata in Italia, e Alessandro III, il Papa eletto nel conclave dei cardinali, acquistava sempre maggior potenza. L'antipapa Calisto III, eletto dall'Imperatore, fu preso dal rimorso, e dopo lunghe incertezze depose la tiara e si riconciliò col Papa vero, con Alessandro. Questi, per ricompensarlo della sua sottomissione, gli restituì l'abbazia di Strumi abbandonata da fra' Lamberto, che tornato dopo alcuni anni dal pellegrinaggio di Terra Santa, senza essersi mai tolto di capo la corona che gli attirava le beffe di quanti lo incontravano, venne a stabilirsi in un Eremo poco distante da Strumi, menando vita solitaria ed esemplare. Quando Lamberto venne a morte, lasciò detto che desiderava esser sepolto con quella corona, che era stata per lui una vera corona di spine. L'abate Giovanni Ungheri non rimase molto a governare l'abbazia di Strumi. Papa Alessandro lo nominò arcivescovo di Benevento e la sua carica passò all'abate Ridolfo, il quale, edificata l'abbazia di San Fedele a Poppi, andò a stabilirvisi abbandonando Strumi. Ora dell'abbazia e del palazzo non restano altro che pochi avanzi, sui quali è stata costruita una casa di contadini; ma chi scava nei dintorni, trova scheletri grandissimi, e chi dice che sian di monaci, chi dei conti Guidi. In quella casa ci andò sposa una mia sorella, e per questo so tanto bene vita, morte e miracoli dell'abate Lamberto e dell'antipapa. Le mura non parlano, la terra neppure, ma parlano gli uomini, e così parlando, la storia dell'abate Lamberto si è risaputa di padre in figlio e io ho potuto raccontarvela, - terminò la Regina. - Grazie, mamma, - disse Maso, - ma non sarò io che potrò raccontarla come voi; farei un bel pasticcio se mi risolvessi a farlo. - Io però la so benissimo, - disse l'Annina, - e non dubitate, nonna, che questa e le altre novelle che ci avete raccontate, le ho tutte qui, - e accennò il capo. - Così potessi narrarle ai miei nipotini, come fate voi! I Marcucci continuarono un bel pezzo a parlare del monastero di Strumi e delle sue vicende, senza accorgersi che Cecco era sparito alla chetichella. Tutta la sera era stato inquieto, pareva che non avesse terren fermo, e appena la mamma aveva cessato di narrare, era uscito dalla parte che metteva nel cortiletto della stalla, e una volta fuori s'era diretto a passi precipitati verso la casa di Vezzosa. In cucina il lume ardeva ancora e il padre della ragazza stava sull'uscio a fumar la pipa. - Buona sera, Momo? - aveva detto Cecco. L'altro aveva risposto, e da un discorso all'altro eran venuti a parlare delle veglie, e Cecco aveva domandato al contadino: - Come mai non ci avete mandate le vostre figliole stasera? - Oh! queste donne! - esclamò Momo. - Non sanno star d'accordo. Che volete che vi dica; la massaia ha rimproverato Vezzosa perché dice che coll'andar fuori a veglia la domenica, svia tutti quelli che verrebbero da noi a far due chiacchiere; e Vezzosa se l'è avuto a male ed è andata a letto. Vedete, io voglio bene alle figliuole ed è per loro che ho ripreso moglie; ma se sapevo che sarebbero state insieme come cani e gatti, vi giuro io che non avrei messo un'altra donna in casa. - La pace tornerà appena avrete maritate le figliuole, - rispose Cecco. - Maritarle! È una parola. Per Vezzosa s'era presentato un partito; Felice del Masi, lo conoscete? Ebbene, lei non lo vuole; la mi' moglie vorrebbe darglielo, e da qui scene continue, e addio pace! Cecco sossultò a quelle parole, ma non ebbe coraggio di spiegarsi. Bisognava che prima interrogasse la mamma, i fratelli, le cognate, e se il maggior numero di loro si fosse opposto al parentado con Vezzosa? Quella sera Cecco andò a letto tutto turbato e dormì male, cosa che non gli era accaduta mai.

Intanto i contadini, che vedevano marcire la loro uva sulle viti nel Pian di Campaldino, erano andati dall'abate di Strumi, che aveva nomea di santo, e gli avevan detto, con voce tremante e spaventata: - Abate maggiore, il lupo mannaro è in paese, e noi si perde la raccolta dell'uva. L'abate si era fatto spiegare il come e il perché di quella perdita, e dopo aveva detto: - Domani farò una processione fino alla casetta nel Pian di Campaldino e con l'acqua santa caccerò il lupo mannaro. Infatti il giorno dopo aveva adunato i suoi monaci, e, preceduto dalla croce, si era diretto al luogo dove tenevasi nascosto messer Spini. Egli era in un momento di calma e, seduto per terra col dorso appoggiato alla rozza parete, esprimeva a Teresona, che lo ascoltava con le lacrime agli occhi, l'ammirazione che ella gl'ispirava per la sua illimitata bontà. - Ti voglio bene, Teresa, - le diceva, - più che alla madre mia, più che alle sorelle, agli amici, alla patria stessa, e non saprei vivere senza di te. La donna, che stava sempre in ascolto temendo una sorpresa, udì salmodiare e, guardando da uno spiraglio della porta, vide la processione di monaci dirigersi alla volta della casupola. - Siamo perduti! - esclamò. E, senza cercar di fuggire, perché lo reputava inutile, s'inginocchiò e pregò fervidamente sant'Anna e la Vergine. In quel momento messer Spini fu assalito dalle convulsioni; egli incominciò ad urlare, e il suo corpo prese a un tratto l'aspetto orribile di una bestia villosa, con una testa enorme e una bocca fornita di zanne minacciose. L'animale, sempre urlando, si fece sulla porta, e pareva pronto a gettarsi addosso al primo che si accostasse. Il giovane monaco che recava la croce ed era in testa alla processione, appena vide il mostro, fuggì; l'abate che sperava tanto nell'acqua santa, se la diede a gambe, e in breve Teresona vide le tonache bianche dei monaci sparire dalla pianura di Campaldino. Quando nessuno più rimase in quei dintorni, messer Spini riprese sembianze umane e Teresona respirò. Tutti e due capirono che quella trasformazione era avvenuta per intervento celeste, e ringraziarono le loro Protettrici. Dopo qualche giorno messer Spini non fu più assalito dalle convulsioni. Soltanto quando qualcuno voleva avventurarsi vicino alla casa, mandava urli da lupo, e se v'era qualche spirito forte che si accostava con l'intendimento di uccidere il lupo mannaro nella sua tana, il fiorentino prendeva subito le sembianze del mostro e faceva fuggire il mal capitato. Così Teresona e l'esule rimasero padroni di una zona di terreno, dalla quale essi ricavavano in parte il nutrimento. La ragazza però non cessava d'industriarsi andando a vendere erbaggi a Bibbiena, e laggiù apprese che a Firenze non governava più il partito avverso a messer Spini, e che a questi era stato revocato il bando e la confisca dei beni. Tutta lieta ella andò a comunicare la notizia all'esule, il quale pianse di gioia e, approfittando della notte, volle subito partire per Firenze. Teresona fu molto afflitta da quella risoluzione del fiorentino e gli disse: - Signor mio, quando sarete in patria, ricordatevi qualche volta di me. - Ma tu mi accompagni! - rispose messer Spini, - mi sei stata compagna, sostegno, appoggio nella brutta sorte, sarai dunque la compagna dei giorni lieti. Così partirono, e dopo molti giorni di viaggio faticoso, messer Spini bussava alla porta del suo palazzo e, riconosciuto dai suoi concittadini, tornava al possesso del patrimonio e delle cariche del governo della Repubblica. Teresona aveva ripreso gli abiti femminili, ma non appariva più a nessuno così brutta come per il passato, forse perché messer Spini narrava a tutti la devozione di cui era stata capace quella creatura così buona e coraggiosa. Nonostante Teresona si sentiva a disagio nel bel palazzo, e ormai che messer Spini era guarito e ritornato in patria, ella voleva riandarsene in Casentino, per aver notizie del padre suo e ottenerne il perdono. Ma messer Spini non glielo concesse e, anzi, per dimostrarle la sua gratitudine, volle farla sua moglie. Teresona credé d'impazzire dalla gioia allorché il suo signore le comunicò questa risoluzione. Le nozze furono celebrate senza pompa nella cappella del palazzo Spini, dove la sposa visse lunghissimi anni venerata e stimata dal marito e dagli amici di lui, e dove morì in tarda età. Appena messer Spini e la Teresona furono partiti dal Casentino, certi contadini che passavano una mattina sul limitare della pianura di Campaldino videro il cadavere di un mostro, simile in tutto e per tutto a quello che aveva tanto spaventato l'abate maggiore di Strumi e tutta la processione. Essi andarono a raccontare a Poppi che il lupo mannaro era crepato, e allora il popolo dei dintorni, guidato dai proprietari della pianura, andò a vedere la bestiaccia che era stata per tanto tempo il terrore di tutto il paese. - Bruciamola! - disse uno. - Bruciamola! - risposero tutti. Allora lì per lì fu messa insieme una catasta di legne secche; la bestiaccia pelosa vi fu posta sopra a forza di stanghe, perché nessuno voleva toccarla, e in breve fu avvolta dalle fiamme e incenerita. Da quel giorno nessuno ha più udito né veduto il lupo mannaro in quei luoghi, e i contadini sono ritornati ogni anno a badare all'uva matura, senza essere turbati nelle loro veglie dagli urli del lupo. - E ora la novella è finita, - disse la Regina. In quel momento tornavano da Camaldoli il professor Luigi e la moglie, e con loro c'era anche l'Annina. - Come mai sei venuta? - le domandò la nonna. - Non so, - rispose la ragazza, - la signora mi ha detto che era meglio che passassi qualche giorno a casa, ed ho ubbidito. La signora Maria prese da parte la Carola e le disse che la signora Durini, sapendo che Carlo Buoni doveva tornare mercoledì o giovedì della settimana seguente, aveva creduto più conveniente che si abboccasse con l'Annina e le aprisse l'animo suo in casa dei genitori, piuttosto che alla villa dell'ispettore. Dopo quell'abboccamento le avrebbero rimandato la ragazza, dalla quale non intendeva separarsi fino al giorno del matrimonio. L'Annina doveva sospettar qualche cosa, perché era turbata e guardava tutti come se volesse leggere nell'animo dei suoi il segreto che era sicura le celavano; ma non domandò nulla, per il momento, ai grandi. Però, imbrancatasi con i piccini, che le avevano fatto una gran festa vedendola giungere, li aveva condotti nell'orto, e abilmente, senza dimostrare curiosità, li aveva interrogati. Essi erano stati tutti contenti di raccontarle che in settimana avevan avuto visite, che c'erano stati i Buoni, padre e figlio, e che durante la loro visita essi erano stati mandati via di cucina. - E dopo che hanno fatto? - domandò l'Annina. - Dopo aver molto parlato, il capoccia ci ha mandati a prendere l'aleatico; essi hanno bevuto, e son partiti per Poppi. Però il Vecchio, al ritorno, s'è fermato qui di nuovo. - E com'era il babbo? - Tutto felice, come quando torna dal mercato e ha venduto bene un paio di manzi. - E voi, che cosa avete supposto? - chiese di nuovo l'Annina. - Che il capoccia, la nonna, le nostre mamme e la Vezzosa hanno paglia in becco. L'Annina era troppo furba per non aver capito tutto. Il cuore le batteva forte forte, e quel certo mistero che ancora avvolgeva un fatto di cui non poteva aver più dubbio, le faceva provare una grande, una immensa felicità. Non sapeva spiegarsi come il sor Carlo avesse proprio scelto lei, e quando fu a letto, sicura che nessuno la vedeva, pianse e rise dalla grande felicità.

La notizia di questo fatto giunse fino al beato Romualdo, abate di Camaldoli, il quale scese con una lunga processione di frati del suo Eremo, portando in mano la croce, e si recò a benedire la bocca della caverna di Montecornioli. Il santo abate però disse che sotto quel fatto ci doveva essere un mistero, quando gli fu assicurato da un suo frate che dopo poche notti che la caverna era stata benedetta, erano ricomparsi i demoni a farvi la guardia. L'abate Romualdo ordinò preci e digiuni a tutti gli abitanti del paese di Montecornioli, per impetrare da Dio la liberazione da quel tremendo flagello; ma neppur questi valsero, e i demoni continuavano a mostrarsi. In quel frattempo Turno era ridotto al lumicino. Nella notte stessa dalla scomparsa degli angioli e della casa, egli, sentendosi opprimere da quelle gemme rubate ai poveri, invece di portarsele a casa e nasconderle sotto il mattone del pavimento, aveva scavato una buca in cantina e ve le aveva rimpiattate, e poi era andato a letto. Ma non aveva potuto dormire in tutta la notte, e nell'uscire la mattina per andare nel bosco a segar le legna, come faceva ogni giorno, aveva sentito tutta la gente sgomenta dall'apparizione dei demoni e dalla scomparsa degli angeli, che avevano recato nella notte di Natale tanti doni ai bimbi buoni, ai bimbi poveri di tutta la contrada. Quelle lamentazioni che udiva gli arrivavano al cuore, perché sapeva che senza la sua curiosità e il suo furto, gli angeli avrebbero continuato a beneficare i poverelli del paese. Egli si sentiva un gran malessere dentro e le braccia cionche come se non potesse fare nessun lavoro. Tutto il giorno vagò per il bosco evitando d'imbattersi negli altri boscaiuoli, e non si avviò a casa altro che a ora tarda. Ma prima di oltrepassare gli ultimi alberi, sentì uno sbatter d'ali sulla sua testa, e a un tratto vide un pipistrello, grosso come un'aquila, con gli occhi e la lingua di fuoco. Il pipistrello rimase ad ali aperte davanti a lui, e gli disse: - Turno, tu hai reso al Diavolo un gran servigio, scacciando gli angioli dalla caverna. Devi sapere che essi vi avevano nascosto il tesoro della regina Saba e del re Salomone, salvato da Gerusalemme dopo la distruzione di quella città. Si erano ridotti qui dopo lunghe peregrinazioni e ad essi lo aveva confidato il Nazzareno. Se occhio umano riusciva a mirarlo, essi ne perdevano la custodia, e il tesoro passava nelle mani del nostro signore, Belzebù. Egli ora ti vuole ricompensare e ti permette di penetrare nella caverna e di sceglier magari lo scettro di Salomone e la corona di Saba. - Non voglio nulla! - diceva Turno tremando. - Non voglio nulla; è roba del Diavolo! - e si fece il segno della croce. Il pipistrello con gli occhi di fuoco cadde in terra come fulminato, e dove era caduto si aprì una buca fonda fonda, che ancora si chiama "Buca del Diavolo" e chi ci precipita non riesce a tornar più su. Turno, dopo questo fatto, tornò a casa come immelensito. La sua mamma non gli poté cavar di bocca neppur una parola assennata, perché vaneggiava come un matto. La sera gli venne la febbre, una febbre da cavalli, e nessuno sapeva da che derivasse. Così rimase un mese, fra la morte e la vita. Sua madre chiamò i medici a curarlo, ma essi non ci capivano nulla in quella malattia; chiamò le donne che sanno togliere il mal d'occhio, ma neppure quelle riuscirono a guarirlo; finalmente chiamò il curato a benedirlo, e allora Turno si sentì a un tratto sollevato, cessò di gridare e volle confessarsi. Dopo la confessione si comunicò, e appena si sentì in forze, scese in cantina, prese le gioie che vi aveva nascoste e se ne andò col bordone da pellegrino e col capo coperto di cenere, prima alla Verna, dove rimase in preghiera tre giorni, poi all'Eremo di Camaldoli, e finalmente alla Madonna di San Fedele a Poppi. Dinanzi a quella immagine egli depositò le gemme prese nel tesoro della caverna, e la collana e il diadema che nei giorni di festa ornano il collo e la testa della Madonna, sono ancora formate delle stesse perle e delle stesse gemme donate da Turno. Il quale, finché visse sua madre menò un'esistenza laboriosa, alternando il lavoro con le preghiere; ma alla morte della madre vendé la casetta, distribuendone il prezzo ai poveri, e poi andò a farsi frate a Camaldoli e per le sue virtù fu tenuto in concetto di santità. I montecorniolesi non hanno più veduto i diavoli con le spade fiammeggianti a guardia della caverna, ma nessuno ha osato mai di scavare il monte per impossessarsi delle ricchezze. Due ladri soltanto una volta vennero da lontano per rubare quello che sta nascosto nella caverna, ma sull'imboccatura furono tutti e due colpiti da una saetta, che li incenerì. Ma neppure i bimbi buoni, i bimbi poveri dei casolari sparsi sulla montagna hanno avuto più i ricchi doni, e questo fa supporre che in paese gli angeli non siano più tornati. La Regina tacque, e Cecco, il bell'artigliere, esclamò: Mamma, la memoria vi regge, ma una cosa sola avete dimenticato di raccontare a questi bimbi, che vi stanno a sentire a bocca aperta. - Che cosa? - domandò la Regina. La storia del turbante! - Non l'ho dimenticata; gliela serbo a domani sera, e per ogni festa del Natale ne ho un'altra. - Dunque, mamma, ne sapete tre solamente, perché tre son le feste di Ceppo? - esclamò l'Annina, una bimba vispa, che già aiutava in casa come una donnina. - No, no; intendo dire che ne ho in serbo anche per la sera di Capo d'anno, per quella di Befana e per le domeniche di gennaio. - Siete una gran nonna! - disse, mettendo la testa in grembo alla vecchia, un maschietto di capello rosso, con una testina sempre arruffata e certi occhietti furbi, nei quali si leggeva tutto quel che gli passava nella mente. - Peraltro la novella di stasera non mi capacita. - Perché? - domandò Cecco alzando Gigino e mettendoselo a cavalluccio sulle ginocchia. - Perché gli angioli non se la dovevano prendere con i bambini se Turno era sceso nella caverna. Mi pare che paghi il giusto per il peccatore, e a noi, a noi che ci si sforza di non far birichinate in tutto l'anno, quando vien la vigilia di Natale, non ci tocca nulla. - Son novelle! - sentenziò l'Annina, - e si raccontano così per divertire. Se ci credessi, io non porterei mai le pecore a pascere dalla parte di Montecornioli: avrei paura. - Però Gigino ha ragione, è un'ingiustizia! - dissero a mezza voce altri due piccinucci, che erano sempre del parere del Rossino. In quel momento si sentì alzare il saliscendi dell'uscio e le mamme tornarono con lo scialle tutto tempestato di sottilissimi cristalli di ghiaccio. Esse vuotarono sulla tavola una fazzolettata di brigidini e di confetti, sui quali i bimbi si gettarono avidamente. - Eccoli i nostri angioli! - esclamò l'Annina. - Ecco il mio angiolo! - disse Cecco abbracciando la sua vecchina. Dopo poco, grandi e piccini, tutti riposavano al podere dei Marcucci, e i bei sogni rallegravano la mente dei bimbi dormenti.

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