Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abate

Numero di risultati: 40 in 1 pagine

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IL BENEFATTORE

662588
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1901
  • CARLO LIPRANDI EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Racconti 2

662702
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1894
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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A sant'Antonio abate non avea mandato ogni giorno un corvo con la pagnottina al becco? Il Padre della misericordia avrebbe certamente ripetuto il miracolo per lui, visto che voleva far penitenza di tutti i peccati picchiandosi giorno e notte il petto con un sasso, piangendo lagrime di sangue! La Salara lo attendeva in campagna, e si era preparata un bel discorso per intenerirlo. A questo scopo aveva condotto là anche il ragazzo, che da tre giorni metteva a sacco le piante dei carciofi e delle fave, e correva come un frugolo dietro le farfalle, tra i seminati, pestandoli senza pietà, quantunque la mamma lo sgridasse e lo inseguisse per scapaccionarlo: - Fermo, diavolino! Arriva tuo padre! - Ma don Ilario non si era fatto vivo, neppure tre giorni dopo che gli esercizi spirituali dei galantuomini erano terminati; né si sapeva niente di lui. Era sparito di casa senza dir motto a nessuno; e la gente lo diceva andato via a farsi frate, impazzito dagli scrupoli. Mentre la Salara, piú sporca e piú cenciosa, si abbrustoliva al sole, con gli occhi alla strada, sperando di vederlo spuntare da un momento all'altro, e temendo di veder spuntare invece il fratello di don Ilario, per cacciarla via lei e il suo mulo - colui non lo chiamava altrimento - don Ilario, con un vecchio giubbone d'albagio, legato ai fianchi a guisa di tonaca da una corda di ampelodesmo, scalzo, recitando rosari e litanie, dormendo qualche ora, a riprese, rompendosi le costole sul nudo masso, faceva penitenza nella grotta di Rapicavoli, e attendeva l'arrivo del corvo che il Signore doveva spedirgli con la pagnottina al becco, come a sant'Antonio eremita. Per precauzione però egli aveva portato con sé una mezza dozzina di pagnottelle e un po' di cacio fresco, da servirgli nei primi giorni, caso mai il corvo del Signore fosse tardato a venire. Al quinto giorno, pagnottelle e cacio eran terminati; e don Ilario, pieno di fede, dopo il tramonto, s'era disteso per terra, coi crampi allo stomaco, rasegnato alla volontà di Dio, prendendo quei crampi in gastigo dei propri peccati; e non gli era riuscito di dormire neppure un minuto. E, insieme coi crampi, eran sopraggiunte le tentazioni. Si vedeva la Salara dinanzi gli occhi; e non quella lurida e stracciata, ma la giovane di vent'anni addietro, bianca e rossa, fresca al pari di una rosa, come quando era venuta in campagna pel raccolto delle ulive, e lui l'aveva sedotta, lusingandola con mille promesse, non mantenute neppure dopo averne avuto un figliuolo. Don Ilario si segnava, mormorava orazioni, afferrava disperatamente la disciplina e picchiava sodo su le sue spalle di peccatore, per vincere le insidie del diavolo che gli presentava quella immagine di peccato mortale, riaccendendogli nel sangue desideri ch'egli credeva estinti per sempre. Ah! Il diavolo voleva cosí farlo ricadere nella colpa, per poi portarselo via su le corna tra le fiamme dell'inferno: - No, tentazione maledetta! Agnusdei chitolli speccata mundi! - Ma neppure quel latino aveva giovato. - Che nottata eterna! - Vedendo i primi chiarori dell'alba, don Ilario si era sentito rassicurare. Affacciatosi alla bocca della grotta, spiava il cielo bianchiccio e la vasta campagna sottoposta, tutta verde di seminati; e intanto si premeva lo stomaco con le braccia, per attutire gli stiracchiamenti e i crampi venuti a torturarlo piú insistenti e piú forti. La sua fede, in verità, non vacillava ancora al sesto giorno; ma egli già cominciava a pensare che il corvo messaggero di Dio doveva aver preso la via piú lunga per arrivare lassú fra le rocce ... Appunto, ecco il corvo che aliava in alto, gracchiando, facendo larghi giri, accostandosi, allontanandosi, abbassandosi quasi a fior di terra e risalendo ad ali spiegate, remigando lento per l'aria! ... Non doveva essere quello spedito da Domineddio colla pagnottina al becco, se no non sarebbe rimasto cosí lontano, a tessere e ritessere circoli nell'azzurro del cielo, facendo straluccicare le penne al sole, gettando attorno per la campagna i suoi crà crà crà! ... Allora don Ilario rammentò le parole di padre Francesco: - Non fate come il corvo, che dice cras! cras! domani, domani! - E si fece animo. Quel corvo forse era mandato ad annunziargli l'invio del pane per domani. Le lagrime gli spuntarono dagli occhi, e una gran commozione gli rammollí le gambe: - Signore misericordioso! - Però stese una mano, strappò un cesto di acetosella e cominciò a masticarlo; poi ne strappò un altro, poi un altro; e andò a bere un sorso d'acqua alla fonte accosto. - Gli antichi eremiti non facevano cosí? - Gli parve anzi che l'acetosella avesse un sapore squisito, senza dubbio per grazia divina, perché un'altra volta egli non aveva finito di masticarla, tanto gli era parsa cattiva. Riprese il rosario e le litanie, e recitò un centinaio di volte gli atti di fede, di speranza, di carità e di contrizione nel corso della giornata, fino a sera. Verso il tramonto, il corvo tornò ad aliare per la campagna, facendo larghi giri, gracchiando piú forte nel silenzio della sera, crà, crà, crà. Ma la dimane, e il giorno appresso, non si fece neppur vedere. I crampi, acutissimi, insoffribili, spingevano don Ilario a rivoltolarsi per terra, con gran zufolio negli orecchi, con la vista intorbidata e la lingua arida, rastiante e incollata al palato. Il Signore voleva dunque gastigarlo a quel modo, lasciandolo in balia delle tentazioni? ... Ah, Madonna dei sette dolori! Ah san Giuseppe protettore! A un tratto gli parve di sentirsi chiamare e vedere, su l'entrata della grotta, un'ombra apparire e sparire; certo il diavolo in persona! E si nascose la faccia tra le mani, invocando tutti i santi del paradiso: - Gesú! ... Maria! ... Giuseppe! ... - La mattina dopo, alla voce della Salara che lo chiamava: - Don Ilario! don Ilario! - alle scosse delle mani che l'avevano afferrato per un braccio, egli aprí a stento gli occhi; e sentiva un subitaneo gran ristoro al buon profumo di quel piatto di maccheroni che la Salara gli aveva portato. - Don Ilario! ... don Ilario! ... Pazzo da catena! Sareste morto di fame, se non vi avesse scoperto il vaccaro! - - Quei maccheroni, - soleva dire don Ilario, tutte le volte che ne riparlava, - quei maccheroni me li avrà, forse, portati il diavolo sotto le sembianze della Salara; ma ci fu anche la volontà di Dio. Se il Signore avesse voluto farmi sciogliere dal legame con la Salara, avrebbe mandato il corvo, come fece con sant'Antonio eremita. - E perciò tu sei ora un sant'Antonio al rovescio - conchiuse un giorno suo fratello. - Quegli, oltre al corvo, aveva il porco; tu invece hai la troia!- Catania, 20@ 20 aprile 1888@. 1888.

Racconti 3

662745
Capuana, Luigi 4 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Oh, d'aspetto, bell'asino alto, robusto, di magnifico pelame, da scambiarsi con uno di quei famosi di Pantelleria, ma cosí testardo, cosí capriccioso, cosí maligno tiratore di calci e morsicature che il povero abate, cavalcandolo, si raccomandava l'anima a Dio. - Voscenza l'ha viziato! - gli diceva la mezzadra. E lui le credeva, in buona fede. Come mai avea potuto viziarlo, se gli avea sempre lasciato fare quel che voleva? Pareva che il triste animale si divertisse a dargli fastidio, e con tale malizia, Signore benedetto! Per un po' di strada trottava tranquillo, con le orecchie ritte, la testa alta quasi orgoglioso di portare addosso un buon servo di Dio. Ma al primo ciuffo di erba che incontrava lungo lo stradone eccolo fermo a brucare, quasi non avesse la pancia già piena di orzo e di paglia! Invano il povero abate lo tirava per la briglia, gli batteva i fianchi coi tacchi degli stivali, giacché non usava sproni; l'asino faceva il comodo suo. E finito quel delizioso pasto, si metteva a ragliare, a ragliare, a far la giravolta, a caracollare, ad andare avanti e indietro prima di avviarsi verso il fondo di cui ben conosceva la strada. Arrivato però al punto dove la viottola biforcava, l'asino prendeva a sinistra invece che a destra, ostinatamente impegnando una lotta con l'abate che tirava invano la briglia. Salti, ragli, giravolte, sgambetti, fino a che qualche contadino che passava, presolo pel morso, non lo metteva su la giusta strada. - Questo, domine, non è animale per voi -. Glielo ripetettero tante volte, che all'ultimo l'abate «Castagna» si decise a disfarsene. Accompagnato dal mezzadro, lo condusse alla fiera di Belverde e là, tra la calca della gente e delle centinaia di bestie, attese che si presentasse un compratore. L'asino attirava gli occhi. Si sarebbe detto che volesse invitar le persone ad acquistarlo, cosí altero teneva il collo, cosí ritte le orecchie, cosí impazientemente agitava la coda. Il mezzadro, tra parecchi fermatisi a osservare l'animale, ne tesseva l'elogio: - Forte come un mulo, vivace come un cavallo. Infaticabile, e poi cosí manso da potersi affidare a un bambino! - Lo tastava, gli passava la mano su la schiena quasi a fargli maggiormente rilucere il pelo, lo faceva spasseggiare su e giú per far risaltare le belle gambe asciutte, gli tirava in su le labbra perché ne osservassero la dentatura e si convincessero dell'età, quattr'anni appena. L'abate, con gli occhiali verdi e l'ombrello rosso aperto per ripararsi il sole, stava là, tenendo abbassati gli occhi e stringendo le labbra. Sembrava mortificato di tutti quegli elogi alla sua bestia e prestava attento orecchio alla discussione impegnata intorno al prezzo con uno che finalmente si era deciso a concludere il negozio. - Dieci once! In parola di onore è regalato! - Facciamo otto, compare! - Né la vostra né la mia parola: - disse il mezzadro - otto once e quindici tarí! Ecco il padrone; potete contargli il danaro -. L'abate «Castagna» alzò gli occhi, aperse le labbra a un dolce sorriso e fece atto di voler parlare - Ah! - esclamò il compratore. - Neppure un grano di piú! - Sta bene, sta bene. Debbo però avvertirvi ... - Niente! - replicò l'altro. - Lasciatemi dire. Per scrupolo di coscienza debbo però avvertirvi ... - Voscenza intaschi il danaro. Oramai il contratto è concluso, come davanti a notaio, con questi testimoni - disse il mezzadro. - Va bene - replicò l'abate. E preso pel petto della giacca il compratore lo tirò in disparte. - Sentite: è vero, l'asino è forte, infaticabile, ma quanto ad esser manso! ... Sentite: per scrupolo di coscienza debbo avvertirvi che, invece, è caparbio, capriccioso, morditore, tiratore di calci, intrattabile ... Se ora vi conviene ... - E quel pezzo d'imbroglione ... ! - Dovettero mettersi in mezzo i testimoni per impedire che colui non si azzuffasse col mezzadro. E l'asino quasi volesse schernire il padrone, si diè a ragliare, tra le risate della gente. Da che il Signore si era portata via in Paradiso suor Celeste, l'abate «Castagna» tra i mezzadri che lo spogliavano a man salva e i finti poveri che trovavano molto comodo il vivere alle sue spalle andando a lamentargli miserie in casa da mattina a sera, spesso spesso digiunava anche senza averne l'intenzione. Il prevosto, che era uomo di mondo e gli voleva un po' bene, alla sua maniera, lo ammoniva tutti i giorni, in sacrestia: - Santo, sí, diventate pure santo; ma sciocco, neppure un santo dev'essere sciocco! I poveri, la carità, non dico di no; i poveri sono fratelli di Gesú Cristo ... Ma bisogna distinguere. Io, prima di dare un grano di elemosina, ci penso su due volte, se chi la chiede se la merita, o no, davvero. Ci sono poveri che se la scialano meglio di voi e di me. E dico voi, cosí, per dire. Vi siete ridotto uno scheletro. E i vostri mezzadri sono grassi che scoppiano, e comprano buoi e fondi ... Voi tenete gli occhi fissi al cielo ... Abbassateli un po' e guardate attorno ... Santo sí; sciocco, no! Picchia oggi, picchia domani, l'anima ingenua dell'abate «Castagna» cominciò ad entrare in diffidenza di sé e degli altri. - Consigliatemi voi, signor prevosto! - Il prevosto lo squadrò da capo a piedi quasi volesse pesarlo e scrutarlo dentro; poi rimase un momento pensoso. Non era uomo di mondo per niente; correva voce che facesse anche lo strozzino; ma allora pensava di trar d'impiccio quel povero sciocco pur proponendogli un affare. - Dovreste fare un vitalizio. - Con chi, Dio mio? - Con me, se non vi dispiace. Stima di beni, calcoli giusti; la casa, da abitarvi fino alla morte. Venite a trovarmi, piú tardi, dal notaio Stella; ne riparleremo con comodo. Il paradiso ve lo siete già guadagnato; ve lo sareste guadagnato anche con meno. Dovete mutar vita. Santo, sí; ma sciocco, no! Datemi retta! - Povero abate «Castagna»! non gli erano riusciti i matrimoni, non gli era riuscito bene neppure il darsi a Dio facendosi prete! Forse non gli sarebbe riuscito neppure il vitalizio, ora che intendeva mutar tenore di vita. Santo non osava credersi; gran peccatore anzi, egli si umiliava innanzi a Dio! Sciocco però era stato ed era! Se ne accorgeva forse troppo tardi! E durante molte nottate, non potendo pigliar sonno, avea fantasticato di servirsi del vitalizio per quel po' che occorreva ai suoi ristretti bisogni, e accumulare il resto per fondare una buon'opera di carità, se il Signore gli dava la vita. Lo ripeté al prevosto, firmato l'atto: - Se il Signore mi darà vita! - Il Prevosto, dentro di sé, aveva detto: - Speriamo di no! - Ma il Signore, per punirlo, allungò gli anni all'abate «Castagna», che rimase un bravo sacerdote, se non fu un santo, e non si macerò piú con digiuni e penitenze per divenirlo a ogni costo. Ingrassò anzi, diventò proprio una castagna, quasi per onorare il suo nomignolo, non ostante che il prevosto lo guardasse ogni giorno con certi occhiacci da buttargli un maleficio addosso! E ogni sei mesi, quando l'abate gli si presentava per esigere la mezza rata del vitalizio, il prevosto lo guardava sbalordito, quasi non potesse credere ai suoi occhi e stentasse a riconoscere in quella vescica piena di sugna - com'egli diceva - il misero corpicciolo che lo aveva tratto in inganno. - Sempre piú grasso! - e pareva ringhiasse. - Per grazia di Dio! - rispondeva umilmente l'abate «Castagna». - Mangiate troppo! Vi prenderà qualche accidente, Badate! Vi si è fin raccorcito il collo! Cattivo segno! Badate! - Voleva impaurirlo, mettergli questa pulce nell'orecchio. - Siamo qua! Quando il Signore ci chiama ... - E l'abate intascava cheto cheto i quattrini. Parve che Domeneddio si divertisse a fare un dispetto a quello strozzino di prevosto! Chiamò prima lui, non si sa se in paradiso o all'inferno, e, otto giorni dopo, l'abate «Castagna» certamente in paradiso.

. - No, caro abate, - rispose il dottor Maggioli. - Lo scimmione morí ... di amore, sentimentalmente; e, forse, compose dei versi come un trovatore o un poetino qualunque; ma li compose nel suo linguaggio e nessuno li capí! - Dottore! Vuol darcela a ingoiare troppo grossa! - Niente affatto, baronessa! Era avvenuto quel che il professore Schitz avea divinato. Poiché la scatola cranica non opponeva piú resistenza, la massa cerebrale avea potuto facilmente aumentare di volume, di circonvoluzioni, e le sensazioni da esse tramandate ai nervi, vi si trasformavano in sentimenti, in maniera primitiva, s'intende. E cosí il povero scimmione, dopo quattro o cinque mesi, libero dalla cuffia e dall'impiastro, si trovava trasformato (prego lor signori di non ridere quantunque la cosa sembri ridicola) in innamorato sentimentale ... E di chi? Della vecchia serva! La guardava con occhiate cosí languide, le indirizzava certi gridi d'intonazione cosí raddolcita quando la vedeva andare per la terrazza ed innaffiar i fiori, a sciorinare la biancheria su le cordicelle tese da un capo all'altro; l'accarezzava cosí delicatamente ora ch'ella aveva ripreso a spulciarlo, da non potersi dubitare di quel che avveniva dentro il cervello del povero animale. I maschi delle scimmie - è notissimo - non sono molto riserbati nelle dimostrazioni dei loro istinti amorosi. E lo sapeva pure la vecchia serva del professore che spesso era scappata via facendosi il segno della santa croce, come davanti all'apparizione d'un demonio ... Ma ora lo scimmione del professore Schitz era mutato. Appariva proprio un innamorato sentimentale; prendeva pose da rêveur , col dito d'una delle sue mani appoggiato alla guancia, con la testa inclinata tristamente da un lato. La vecchia, appunto perché bruttissima, era il suo ideale di bellezza: né poteva averne altro naturalmente, da quello scimmione che era. «E ha avuto un nuovo grido, un nuovo suono, una nuova parola! - esclamava trionfalmente il professore. - È la sua dichiarazione di amore». Dichiarazione che rimaneva inascoltata perché, dopo che il professore aveva detto alla vecchia: «Lo scimmione è innamorato di te!» la vecchia non voleva piú saperne di dargli le solite cure. E il poveretto languiva, languiva come un innamorato sentimentale qualunque. E un giorno ... «Mi pento di aver sperimentato su questo povero animale - ripeteva il professore Schitz, vedendolo morire di consunzione. - Pur troppo, aumento d'intelligenza apporta aumento di dolori! Se avessi potuto prevedere!» E non seppe prevedere neppure quel che seguí. Un giorno - è certo - lo scimmione, disperato di non veder corrisposto il suo amore, fece come tutti gli innamorati violenti: si suicidò strozzandosi con la catena che lo teneva legato. Il professore Schitz ne fu inconsolabile -.

- E fuori di ogni miracolo, caro abate, se per miracolo lei intende la sovversione delle leggi della natura. Grandissimo miracolo certamente, maggiore di tutti quelli operati dalla scienza finora, se può e dee chiamarsi tale il costringere il nostro organismo a una funzione che la natura, non sappiamo perché (forse perché glien'ha regalate altre piú nobili e piú eccelse) ha conservato e riserbato per organismi inferiori nella scala degli esseri. - Ma, insomma ... Non ci tenga piú su la corda! - disse la baronessa. - Avevamo studiato medicina insieme nell'università di Bologna; io per campar la vita; egli, ricchissimo, pel solo gusto di studiare. E studiava seriamente, assai piú di noi che chiedevamo alla professione il nostro futuro sostentamento. Dopo la laurea, io ero stato nominato medico condotto in un paesetto dell'Umbria; egli aveva continuato ad approfondirsi nella fisiologia con intensa passione. Da vent'anni non sapevo piú notizie del mio collega, quando, al mio ritorno dall'America, c'incontrammo in ferrovia. Mi riconobbe lui. Io non avrei indovinato l'antico condiscepolo, bel giovane biondo, in quell'uomo maturo, precocemente incanutito e invecchiato, che mi sedeva in faccia in uno scompartimento di seconda classe. Fu una festa per tutti e due. E allora, tra tante altre cose, egli mi disse: «Vent'anni addietro ho fatto un sogno che non ho potuto piú levarmi di mente. Mi è sembrato che c'era da cavarne qualche cosa di grande, se fossi stato un Newton, un Galileo, un Volta. Ma sono un povero dilettante di fisiologia. Pure, ho avuto l'orgoglio di tentare ... Non si sa mai!» Aveva sognato di star a sedere nel suo studio. Tutt'a un tratto gli era venuto l'impulso di alzar le gambe, di accostarle, orizzontali ... e si era sentito portar via per la stanza in quella posizione, con le gambe ben tese, e aveva potuto fare il giro della stanza, sollevarsi fino al soffitto, ridiscendere, risalire, leggero come una piuma, sbalordito del fatto che non gli pareva sogno ma realtà. E nel sogno aveva pensato: «Ecco una maravigliosa scoperta che non è passata per la mente a nessun scienziato!» Giacché aveva pure capito in che modo lo stupefacente fatto fosse avvenuto. «Ho avuto l'orgoglio di tentare, e sono quasi riuscito» concluse. Lo guardai negli occhi, dubitando, ve lo confesso, dello stato normale della sua intelligenza. Egli capí, sorrise, e m'invitò ad andare a trovarlo nella sua villa, presso Cento. «Vivo solo colà, da anni, come un eremita. Questa è la prima volta che comunico a qualcuno il gran problema che mi occupa e che credo già vicino ad essere risoluto vittoriosamente. Mi prometti di venire?» «Se credi - risposi - posso venire anche ora». La sua serietà mi aveva scosso, e la mia vivissima curiosità e il mio dubbio non volevano frapporre tempo in mezzo per convincersi se quella che nel mio interno qualificavo fissazione di allucinato, fosse o no proprio tale. Il tentativo di Piero Baruzzi, ripensandoci, non mi sembrava assurdo. Egli partiva dal fatto notissimo che il feto umano, nei primi stadi di formazione, somiglia a quello del pesce, poi del cane ... Dunque ha organi che, nella compiuta trasformazione in feto umano, si arrestano nel loro sviluppo, si atrofizzano, o si mutano in organi con funzione diversa. Che cosa diviene nel nostro corpo la vescica natatoria del pesce? Polmoni, organi di respirazione, dicono i fisiologi. Ma la trasformazione cancella ogni vestigio della primitiva funzione? Piero Baruzzi ha concluso di no; e il fatto ha confermato, riguardo alla vescica natatoria, la divinazione di lui. I polmoni sono poi davvero la trasformazione di quella vescica, o essa sussiste ancora, atrofizzata, resa inutile dal mezzo in cui l'uomo è destinato a vivere? Piero Baruzzi ha speso, coraggiosamente, ostinatamente, i migliori anni della sua vita in questa ricerca. Non posso entrare a discorrere, con particolari minuti, dei suoi difficilissimi studi. Io passavo di stupore in stupore, nel suo laboratorio, in quella villa solitaria posta in cima alla collina e circondata da macchinosi alberi di ulivi e di querce, stando ad ascoltare la chiara ed efficace esposizione dei suoi lunghi studi, dei suoi scoraggiamenti, delle sue gioie di scopritore fortunato. Ma il quasi sovrumano non furono in lui la pazienza, la precisione delle ricerche, il silenzio di tanti anni. Occorreva provare e per ciò trovare un soggetto su cui tentare il miracolo - la parola mi viene spontaneamente alle labbra - di sviluppare nel corpo umano quell'organo atrofizzato e in guisa da permettergli di manovrare nell'aria, come i pesci nel mare; di ridurre l'aria veicolo da eguagliare l'acque marine. Provò sopra di sé, in che modo non saprei dire, ma certamente martirizzando il suo povero corpo con operazioni dolorosissime, con tagli chirurgici, con mezzi che misero piú volte a repentaglio la sua nobile vita. Ed io lo vidi, con questi occhi, sollevarsi per aria, con le gambe riunite orizzontalmente, quasi servissero da timone; non ancora capace di attingere grandi altezze, capacissimo però di muoversi agevolmente in tutte le direzioni, quasi il suo corpo avesse perduto il peso ordinario ... E la prima volta credevo di essere in preda a un'allucinazione, suggestionato dalla sua eloquente parola, dalla strana evidenza del suo paradosso. Volle che giurassi di mantenergli il segreto, e di attendere che quella scoperta avesse raggiunto la perfezione. Ormai era sicuro del fatto suo. Quando lasciai la villa, Piero Baruzzi non mi sembrava piú un uomo, ma un Dio! Passarono altri cinque anni. Un giorno, finalmente, ricevei un suo laconico biglietto: «Vieni; faremo una gran prova all'aria aperta. Ti attendo per giovedí prossimo». Disgraziatamente quel giorno non potei andare e non fui in tempo di avvisarlo che sarei arrivato da lui il giorno dopo. Egli non attese. E la mattina di quel giovedí, alcuni contadini che lavoravano un campo là vicino videro librato in aria, a grande altezza, un animale mostruoso che andava, veniva, facendo ghirigori nello spazio, scotendo certe strane ali ... Egli, per ripararsi dal freddo, aveva indossato un mantello, e il vento e l'aria smossa ne agitavano le ampie falde ... Uno di quei contadini, spinto dall'idea di guadagnarsi un bel premio, vendendo lo sconosciuto uccello a un museo, spianò il fucile da militare che aveva là a portata di mano ... E il povero Baruzzi, colpito al ventre, precipitò giú, sfracellandosi il capo sur un masso. La sua mirabile scoperta era morta con lui! -

Demetrio Pianelli

663139
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Versione elettronica di testi relativi al periodo 800 - 900 Donna Folgore

663942
Faldella, Giovanni 3 occorrenze

. * mormorava l'avvocato Ilarione Gioiazza rimasto nell'anticamera con il prof. e abate Vigo Razzoni. E il padre droghiere romanizzato: * La tradurremo all'Ospizio del Santo Oblio ... Invece appunto in quella mattina la Contessa Nerina De Ritz nata Vispi ed Adriano Meraldi avevano lasciato il grand Hotel Lido per salire sull' Ofelia , che salpava verso l'Oriente. Dalla balaustra sotto il gabbiotto di prora la Contessa con un gomito sopra una spalla di Adriano scioglieva un inno intimo alla libertà coniugale ... Le onde che si increspavano alla fenditura mandavano immagini di ninfe plaudenti, sprizzanti ... Orazio e Virgilio, Camoens e Shakespeare, o maggiori poeti, che abbiate dato i migliori augurii del mare, dateli agli amanti nel concerto della poesia universale ... Esaurito l'amore di Venezia, andranno a fruire l'amore del Bosforo, così dolce di fosforescenza da meritare per un bacio la traversata mortale ... * Tutta per te! * faceva sentire Nerina ad Adriano con un premito di Odalisca ... Tutta per te ... Paese che vai, usanza che trovi ... A Costantinopoli sarai il mio sultano senza harem ... Io sarò la tua unica schiava ... Poi risaliremo tra le rive pittoresche del Danubio mezzo turco e mezzo cristiano nel cuore della Germania, e ci faremo santamente marito e moglie ... Bella silente premeditazione di santità! Tradire un nuovo marito, avendo riconosciuta l'insulsaggine di tradire un libero amante ... Ed Adriano, avvinto da quella ondata di capricci voluttuosi, pensava alla vittoria riservatagli quando moveva al gran conquisto per il concorso di Pompei ... Così ripigliato dai ricordi arcaici non poteva presentemente liberarsi del bagaglio letterario scolastico di un'immagine dantesca: Sicura, quasi rocca in alto monte, ... una puttana sciolta m'appare con le ciglia intorno pronte ... ... ... ... ... ... .. l'occhio cupido vagante ... Ed avrebbe voluto essere lui il feroce drudo del Purgatorio di Dante per flagellarla dal capo insin le piante. Mentre il vizio salpava libero, appena rinserrando immagini letterarie, le reali costrizioni imprigionavano o salvavano la Virtù perseguitata ed innocente.

UNA SERENATA AI MORTI

663950
Faldella, Giovanni 2 occorrenze

Questi giudizi autorevoli come nessun altro, e meritati, devono avere largamente compensato il Faldella della critica severa, acerba, non sempre spassionata che gli mossero in tempi diversi parecchi giornali umoristici, il celebre grammatico piemontese abate Perosino nel giornale scolastico "Il Baretti" ed altri giornalisti, più o meno sacerdotali, in giornaletti di provincia. Il caso occorso a Giovanni Faldella coi lettori della "Gazzetta piemontese", doveva rinnovellarsi, l'anno appresso, con quelli del "Fanfulla". Nel 1874 appunto, il giovane scrittore mandava al giornale romano i suoi nuovi Reisebilder, cioè quelli di Geromino sindaco di Monticella: e li intitolava amenamente con un motto proverbiale Viaggio a Roma senza vedere il papa. Lavoro questo inzuppato di sano umorismo italiano, e ricco di osservazioni finissime, e salienti nella festevolezza inarrivabile e scoppiettante delle frasi. Esso piacque, segnatamente alla clientela maschia del giornale; ed eguale accoglienza ottenevano le caratteristiche corrispondenze che egli, in quel torno di tempo, mandava da Torino al "Fanfulla" stesso firmandole Pofere Maurizie: onde fu con frasi mirifiche che di lì a poco la direzione del giornale dava l'annunzio della prossima pubblicazione di un nuovo lavoro del Faldella, Un serpe. Storielle in giro, strombettando che d'allora in poi l'appendice del "Fanfulla" si sarebbe innalzata ad altezze vertiginose ed inesplorate. Ma contrariamente ad ogni previsione, dopo tre sole appendici il romanzo rimase in asso; e dal giornale, per necessaria logica di fatti, scomparivano simultaneamente le corrispondenze di Pofere Maurizie, a cui succedeva, nella carica, l'avv. Vitale, che assumeva il pseudonimo foscoliano di Jacopo. Quel cambiamento a vista era successo per cagione di talune lettrici del "Fanfulla", delicate oltre la misura, e troppo use alla proverbiale eleganza di Fantasio, al discreto pettegolezzo parigino di Folchetto, alle riguardose scollacciature di Neera, e ai chlichés concernenti una mezza dozzina di signore della haute che, colle loro acconciature e cogli abiti trinati, vellutati, profumati, e tagliati da Wort o dalla Tua, ritornavano, regolarmente come le fasi della luna, a rimpolpettare la rubrica conservatrice intitolata High life. Siffatte lettrici del "Fanfulla" che pure avevano sopportata la gioiosa meraviglia del sindaco Geromino nel corpo del giornale, protestarono poi, strillarono contro il Serpe in appendice: protestarono, strillarono contro quella insolente freschezza di salute paesana, contro quel gorgoglìo insolito di frasi audaci, senza leccature melliflue. Poverette! Battistina, un bel pezzo saldo di ragazza fiorente, dalle guance colorite come una mela appiuola, esuberante di salute e di letizia; il medico Giannozzi, suo padre, devoto adoratore del bollito cotto a punto, che tirava via fra la gaiezza provinciale del paesaggio monferrino, cavalcando la sua brava mula, detta la Giggia, dall'allegra sonagliera, - urtavano, sconquassavano troppo i loro sentimenti di eleganza convenzionale, il romanticismo sciroppato del loro cuoricino: onde erano parate a gridare shocking! come le zitellone inglesi. E la direzione piegavasi ossequente alla gentile volontà femminea, alla vezzosa e profumata turba di leggitrici, onde onoravasi il giornale cavaliere. In seguito, allorché ad un redattore del "Fanfulla" accadde di raccattare, nel compartimento di un carrozzone di ferrovia, un numero del "Caffaro" che recava in appendice un bozzetto del Faldella, quel redattore si divertì, per sfoggio di umorismo, a cincischiarne alcuni monconi di periodi barbaramente. Allora l'antico Pofere Maurizie, giustamente irritato di quell'operazione, ripicchiò a dovere sulla "Gazzetta piemontese letteraria" il crudo umorista che non rispose più colpo. Nel frattempo, il Faldella, disgustatosi della letteratura giornalistica, in un momento di umor nero, accettò l'invito che gli veniva fatto di riprendere l'avvocatura, come collaboratore in uno dei primari uffici vercellesi di cause civili. E per un mesetto egli allora disputò davanti al tribunale civile di Vercelli; disputò di sortumi d'acqua, di vizi redibitori, e di separazioni coniugali, comprimendo le aspirazioni artistiche turbinose che gli avvampavano sempre per la mente feconda; ma non passò gran tempo che egli se ne ritornò al villaggio natio, nemico definitivo dell'avvocatura. Un chierico con vocazioni secolaresche che butta il collare alle ortiche, un prigioniero politico, che saluta coi liberi tacchi il selciato della patria libera, sono immagini sbiadite per rappresentare la felicità del bozzettista, che ha dato addio ai codici ed alla toga, riprendendo gli antichi amori artistici. Imperocché non era stato nella "Gazzetta piemontese" o nel "Fanfulla" che egli aveva iniziate le sue prime avvisaglie artistiche e i suoi primi studi letterari. Nel 1865, allorché era studente di legge all'università di Torino, aveva cominciato a pubblicare nel "Novelliere della Domenica" del Pietracqua un suo discorsetto: La festa di Dante, estratto da un imparaticcio di commedia inedita, poiché egli in quell'epoca andava scrivendo commedie e poesie italiane e piemontesi che riservava agli amici. Nel 1868, conseguita la laurea, si era inscritto nell'ufficio dell'avvocato deputato Luigi Ferraris, che poi divenne ministro dell'Interno, sindaco di Torino, conte, senatore ecc. Ma in quello studio, mentre sfiorava con parsimonia qualche fascicolo di liti, si regalava sovratutto colla lettura di libri di filosofia, di storia e curiosità giuridiche, scartabellandovi con un che d'intuizione dell'avvenire gli atti del Parlamento. Nel principio del 1869 egli, in unione coll'avvocato Muggio, con l'ingegnere Mora, e col prof. Coggiola, fondava in Torino un giornale letterario: "Il Velocipede, Gazzettino del giovane popolo". Il quale sia nella forma, sia nell'indole, mostrava apertamente di procedere in retta linea dal "Dagherotipo", il giornale brofferiano del 1840. Giovanni Faldella, in omaggio al titolo d'attualità, onde aveva decorato quel suo foglio, vi assunse il meteorico pseudonimo di Spartivento; e a malgrado dell'audacia di quel battesimo, vi svolse una prosa sempliciona a contorni ristretti, piuttosto secca, puristica e giustiana; poiché del Giusti egli era assai nutrito, e, scrivendo, non lasciava per anco intieramente libero adito alle originalità della sua mente. Ed il Mora, il quale ora è un fortunato costruttore di case e di teatri in Roma nuova, dove informa con venustà plastica i suoi ideali artistici, vi pubblicava contemporaneamente briose spumeggiature carnevalesche e la Dinamica del Velocipede, curiosissimo lavoro, testo dei velocipedisti. Il "Velocipede" dilettò per qualche tempo i buoni torinesi che si compiacevano di quel titolo, essendoché allora essi amavano assai il vedere di notte, nei larghi viali della città, spuntare d'improvviso nell'ombra, passare e sparire come razzi, come lucciole impazzite nella ventata di un turbine, le lanterne dell'economico e rotatorio bucefalo venutoci in voga. Ma l'entusiasmo nei fondatori andò presto evaporando, ed il giornale via via si faceva clorotico; cosicché si pensò di cederlo all'avvocato Nicetti, ferace ingegno e temperamento generoso da letterato estemporaneo e transitorio, il quale trasformatone poi il titolo, forse rimase in dubbio se dovesse farne l'organo didascalico della democrazia, o piuttosto l'organo ufficiale scientifico della pollicoltura italiana pei gentiluomini di campagna. Della prosa, che il Faldella scodellò su quel giornale, doveva in processo di tempo galleggiare e conservarsi un solo frammento a cura del dottore Senatore Paolo Mantegazza, il quale lo raccolse e lo dispose con evidente compiacenza, in uno dei suoi celebrati almanacchi, ad illustrazione del Ratafià di Andorno, gloria di quella terra come Pietro Micca. Intanto il Faldella si era inscritto alla fiorentissima società Dante Alighieri, che allora raccoglieva in Torino quanti giovani d'ingegno sentivano la nobile smania di calmare le inquietudini intime e primaverili nella libera espansione e discussione d'ogni idea artistica, scientifica e letteraria. Quella società era sorta in Torino nel 1864 per iniziativa degli studenti del 3o corso del liceo Cavour - e si era successivamente accresciuta di matricolini universitari, sicché dalla sala dei primi tempi (all'ultimo piano della casa che sta di fronte al palazzo di Carignano) poté trasportare la sede nell'ampio Anfiteatro di Chimica. Ne furono promotori, Cerri, Nizza, Palberti, Cesare Nani, G. C. Molineri, Giuseppe Sarti, Luigi Guelpa, Galateo, Felice Maissa e Roberto Sacchetti, e ne fu presidente per tre volte Pietro Delvecchio, il quale dirigendo quei tumulti di verginità intellettuale seppe formarsi quello spirito cortese, facile e destro e quel sorriso duttile che ora lo accompagna e lo rende simpatico nella scabrosa vita parlamentare. Nella Dante fecero le prime prove d'eloquenza Federico Pugno, Benedetto Marsano e Ernesto Pasquali - ed ivi Giuseppe Giacosa fece udire i suoi primi versi, fra cui la Cantica sul Materialismo, declamandola con una sonorità drammatica sentimentale, che sollevava l'entusiasmo. Ivi Giovanni Camerana, severo ed ardente cultore di arte e di poesia vi scandiva tragicamente i suoi versi cesellati. Quanto quei giovani fossero appassionati sinceramente dell'arte e della letteratura, si può arguire dal seguente aneddoto che Giacosa raccontò in una lettera al Capuana pubblicata dal Risorgimento di Torino, e che il Capuana raccolse nei suoi studi di letteratura contemporanea. La Dante, cedendo alle proposte de' soci più seri, aveva cominciato a discutere alcuni problemi scientifici, sociali, immaginosi, ecc. come il materialismo, lo spiritualismo, la riabilitazione della donna ecc. In fine della discussione si votava la tesi. Una domenica del 1871, al tempo della Comune di Parigi, racconta il Giacosa "si stava per votare, quando entrò nell'aula uno dei poeti, un finissimo disegnatore e coloritore di paesaggi in versi, ora grave e rigido magistrato (il Camerana), il quale, intesa appena qualche proposizione, più pallido e con voce più cavernosa del solito, tenendo in mano un dispaccio telegrafico, tremando per un'emozione profondissima, vibrò queste parole: "Mentre noi diciamo delle corbellerie, bruciano al Louvre i capolavori di Rubens e di van Dyck". Fu un affare finito e non si votò più nulla. In quella folla di giovani, Giovanni Faldella riuscì presto uno dei più notevoli e dei più notati. Alle adunanze pubbliche domenicali che si tenevano dalla Società, interveniva la parte più colta e più curiosa della cittadinanza torinese, a cui piaceva la letteratura; intervenivano assai signore e signorine, forse mosse essenzialmente da simpatie per quella scapigliatura di turbolenti autori in erba. Il Faldella, in una di quelle adunanze, sorse con Antonio Galateo, anima fervida e gentile di oratore lirico, a difendere i romanzi del generale Garibaldi; e poiché nelle adunanze successive l'avvocato Pugno e Giuseppe Giacosa parafrasando ed esaltando una critica di Vittorio Bersezio contro i predetti romanzi, vollero confutarne la difesa, il Faldella replicò loro con ampollosità quasi umoristica di pensiero patriottico. Egli sostenne che il genio ha una potenzialità universale, quantunque in alcune parti possa difettare per mancanza di applicazione e di preparazione. "Davanti ad un uomo grande - egli sostenne - non dobbiamo dimenticare la sostanzialità dei suoi meriti principali. Rimpetto a Garibaldi non siamo pubblico o critici davanti ad un autore, ma soldati e correligionari davanti ad un condottiero e ad un pontefice che deve tuttavia guidare la sua nazione alla sacra meta di Roma. Quindi per nessun modo dobbiamo diminuirne il prestigio. "Se l'eroe, dopo aver compiti fatti grandi e magnifici, vuole ancora rivolgerci generose ed amorevoli parole, noi accogliamole con affetto e riverenza, ancora che non le troviamo vergate con le seste o misurate sulla lavagna. Teniamole in serbo e guardiamole gelosamente come la prima lettera di una sorella, l'ultimo scritto del babbo, o il ricordino di nostra madre... "Se Garibaldi dorme qualche volta nei suoi romanzi, aliquando dormitat Homerus. Io penso che Garibaldi possa riposare di santa ragione, senza che altri lo mandi a letto... Quando Egli entrò liberatore a Napoli prendendo stanza nel palazzo d'Angri, un'immensa folla si accalcava per visitarlo ed acclamarlo. Si annunziò a quella folla che il Generale stanco dormiva. Immantinenti la folla si ritrasse indietro; e tutti camminarono sulla punta dei piedi; e pareva si fosse formato per lo spazio di una lega un circuito di silenzio intorno al Generale, che dormiva". E conchiudeva fra uno scroscio d'applausi: "Lontani mille leghe da lui imitiamo anche noi quel riverente silenzio". Il discorso veniva tosto riprodotto dal "Velocipede". In questa stessa epoca il Faldella, oltre le letture sciorinate alla Società Dante Alighieri, smaltiva ad una Società democratica, L'Avvenire dell'Operaio, che si radunava in un sotterraneo di piazza San Carlo, alcune lezioni veramente libere. Tali letture e lezioni come: Il fine dell'uomo e il perché dei Carabinieri Reali, L'albero della scienza, La storia del mondo, Crescite et multiplicamini ecc. si trasfusero poi nelle Dicerie popolari che più tardi pubblicava sulle "Serate italiane". In esse cominciava ad accentuarsi l'individualità artistica ed apostolica dell'oratore. Ma l'apogeo fulgido della sua vita di lecturer doveva raggiungerlo alla Dante Alighieri con Vita ed Amore, controcicalata a una drammatica lettura sul suicidio fatta dal socio Michele Termidoro, robusto e nutrito ingegno, casellatosi poscia capo ufficio nelle strade ferrate dell'Alta Italia. La lettura tragica di Termidoro, a cui aumentava la intonazione funebre il nome bizzarramente rivoluzionario del conferenziere, commosse talmente gli astanti che se ne volle il bis alla festa annuale della Società, riunione solenne, in gala, con accompagnamento di musica ed intervento delle autorità; ed il Faldella vi contrappose Vita ed Amore quale soavità di rorida speranza, che gli valse l'applauso affettuoso delle signore e signorine. Entrambi i dissertatori vi furono festeggiatissimi: Termidoro come baritono, il Faldella come tenore. Della Società caratteristica questi veniva poscia eletto vicepresidente; ed in essa, cedendo a istinti salubri di allegria, con Giacosa, Molineri, Pugno, Galateo, ecc. egli si prestava a combinare stupende discussioni in versi martelliani. I moniti presidenziali, le scampanellate, tutto doveva essere in versi martelliani; anche le interruzioni. Ed il Camerana austero poeta, in una di quelle divertenti adunanze sorgeva, girava intorno lo sguardo aquilino, e dopo una pausa di aspettazione si rimetteva gravemente a sedere, sillabando come un Torquemada: "Non chiedo la parola!...". Ma in quella fucina, fra la gravità non simulata di taluni momenti, nei quali sprizzavano pensieri alti e generosi, e la farsa acuta ed ironica, si temperavano pure saldamente molti fra i migliori caratteri e si snodavano alcuni fra i più elastici ingegni del Piemonte che ora onorino la coltura nazionale. Nel 1871 il Faldella sparve da Torino per rifugiarsi nella sua nativa Saluggia e proseguirvi eremiticamente nuovi studi, osservando, mulinando e scrivendo; e vi fu eletto Consigliere Provinciale, sopraintendente scolastico, e si occupò a fondare una società artigiana con annessa biblioteca circolante, fino a che nel 1873 se ne andò alla Esposizione Mondiale di Vienna, donde la sua Gita col lapis. In quell'epoca egli passando per Milano, conobbe Salvatore Farina, Emilio Praga, Arrigo Boito, Luigi Gualdo; e nell'avvicinarsi di quegli ingegni che si affiatavano a vicenda, senza nulla perdere delle proprie caratteristiche, si andava preparando miglior avvenire all'Arte della nostra giovane letteratura nuova. In quell'epoca scarseggiavano i giornali letterari popolari in Italia; la maggioranza dei lettori volgevansi di preferenza ai lavori di Francia, poiché da noi punto o poco si produceva in fatto di letteratura facile ed amena. Per le biblioteche e per i gabinetti di lettura si posavano soltanto riviste dotte, mensili; riviste non scevre di pedanteria, riservate a scrittori troppo noti e maturi, dagli ideali defunti; schiave della tradizione, gravi di erudizione, esse non trovavano che pochi sonnecchiosi lettori. Mancava il soffio, il sentimento della modernità che rendesse la vita nuova, e soddisfacesse le menti avide dei giovani irrequieti in quella plumbea artificiosa atmosfera letteraria. Onde, quando il prof. Molineri fondava in Torino le "Serate italiane", con intenti più largamente popolari, esse si onorarono in breve della cooperazione di quanti nuovi ingegni scattavano fuori di squadro in Piemonte ed in Lombardia. In esse il Faldella, che già aveva collaborato nella "Rivista minima" di Milano, cominciò a pubblicare le sue Figurine state scritte in parte qualche tempo prima in campagna, nella schietta freschezza dei paesaggi, senza convenzionalismo, con acuta osservazione ed intuizione della vita reale. Carluccio - Lord Spleen - Dies - Galline bianche e galline nere - Sull'organo - High Life contadina - I fumaiuoli - Gioberti e Radescki - La figliuola di latte - Un amore in composta - Gentilina - La vita nell'aia, vi passarono come zaffate di benefica aria frizzante, in uno schioppettìo di buonumore salubre, eccitando la curiosità dei giovanotti, e anche delle ragazze, ma di quelle non troppo artefatte e illanguidite dalla panna del romanticismo di convenzione. Erano scene, bozzetti di vera vita nostrale colta, appunto, oggettivamente; e odoravano come i paesaggi migliori della Sand, in Fadette, André, François le Champi. Così spiccava meglio la singolarità dello scrittore; così mostravansi ad altro pubblico quelle originalità di frasi, quel paragoni violenti nella loro giustezza che dovevano rinnovargli smoderate critiche da un lato, accrescendogli dall'altro lettori allegri e caldi ammiratori: immagini e paragoni come: "... spira un freddo acuto che sa d'aceto" e "... il marchese diventò per la rabbia una frittata verde". Più largamente si spiegava la potenzialità del coloritore, e la facoltà di rendere con tocchi rapidi e precisi la realtà delle cose; come ad esempio, nei Fumaiuoli: "... mi trovai nel salotto terreno, dove scopersi illuminata da una lampada, tutta la ripienezza e la felicità di una famiglia: un figliuolo deputato; un babbo cogli occhiali verdi e con la papalina da notaio; una sposa bionda e lustra per la contentezza; una suocera tutta cuffia, tutta faccende, tutta gomiti; un cane pelliccione che indorava la sua lana ricevendovi dentro la luce del petrolio; un gatto tristo che rantolando studiava una marachella contra il cane nella divisione della broda; una gabbia di canarini e l'almanacco del Mantegazza". Le Figurine, l'anno appresso, si pubblicavano in volume dalla Tipografia Editrice Lombarda; e di esse si occuparono assai i critici con brio e larghezza notevole di giudizi. Vittorio Bersezio nella "Gazzetta piemontese" dell'11 ottobre 1875 dedicava loro un'appendice di forma maiuscola e vivace, e poiché ebbe reso omaggio all'autore riconoscendogli un'intelligenza eletta che si giovava di una capacità osservativa specialissima, d'un sentimento artistico non comune e d'una squisitezza concettosa di tratti degna della buona scuola del vero umorismo, che vanta a suo antesignano Sterne, ed a suoi più illustri campioni Heine, Gian Paolo Richter, Thackeray e Dickens, soggiungeva: "La ragione dei principali difetti del Faldella è codesta appunto: di voler dipinger troppo, di volere colla parola rappresentare colori e sottocolori, tinte e mezze tinte, perleggiamenti di luce, effetti di chiaroscuro, ondeggiamenti di linee, tratti figurativi di uomini e di cose, che non sono nel dominio dell'espressione del pensiero che si giova delle lettere dell'alfabeto". Ed Alberto Rondani scrivendo dello stesso libro nella "Gazzetta d'Italia" del 10 dicembre 1875 così si esprimeva parlando dell'autore: "I suoi quadri sono di una diligenza ed accuratezza fiamminghe; ma come le tele fiamminghe e le scene lillipuziane di Meissonnier, fanno l'effetto del vero, sono anzi il vero tale e quale, e ne simulano le proporzioni". Ed il Degubernatis nella "Rivista Europea" segnalava il Faldella come quegli che aveva il primo gran merito di non somigliare ad alcuno dei suoi valenti compagni in letteratura, e di far valere un proprio carattere: pittore, anzi ogni cosa, pittore efficace di quadretti di genere. Ma per converso sorgeva l'avvocato V. G. Vitale a scaraventargli contro una critica veemente nella "Nuova Torino" del 9 luglio 1875, con la firma teatrale di Frou Frou. Frou Frou, dopo aver chiamato nottate le "Serate italiane" e dopo aver annunciato che il Faldella avrebbe fatto uno studio profondo sulle oche della Lomellina, per riscontro alle galline e ai tacchini della Vita nell'aia, così lo giudicava: "Faldella è convinto che la letteratura è un orologio. Sicuro; quando scrive fa come il meccanico ginevrino, il quale si adatta la lente all'occhio, cerca tutti i pezzi, li forbisce, li incastra, dà loro il colpetto di vite e poi mette l'orologio in vetrina. "Egli razzola, come i suoi gallinacci, nei dizionari, ne cava fuori parole, parole e parole, quelle che fanno più rumore, che sono sentite a Torino e credo in Italia come vi son veduti i Cinesi; le appiccica insieme e dà loro un po' di lucido inglese. Se da quell'accozzamento, ne sbuccia fuori qualche idea, è un di più; tanto meglio; se no, in quel mosaico, vi caccia dentro la storia della nonna, del gatto, del cimitero, del villaggio, del tramonto, della luna, delle stelle, cose vecchie quanto Noè, e così lui ha fatto l'articolo, il libro, ed ha risposto allo scopo delle "Nottate italiane "". Ma il Vitale con franchezza esemplare ebbe a ricredersi in seguito, ed in un articolo che firmava Jacopo, pubblicato sull'"Eco dell'industria" di Biella, nel numero dell'11 settembre 1879, dopo confessato il peccato di Frou Frou, scriveva: "Devo proprio dire che Faldella è forse il primo della scuola piemontese a scrivere, e non lo sembra agli occhi di tutti, perché non lo vuole lui, e s'ingegna a non parerlo. Leggere un foglio staccato di Faldella, almeno uno di quei fogli che mi passarono sott'occhi alcuni anni, fa, è volersi chiamar addosso l'itterizia. Faldella è minuzioso come una monaca, elegante come un fraticello di Montecassino, capriccioso come una damina fresca di collegio. Infilza le parole come fossero perle, le allinea, le lustra, le invernicia, le ricama, le fa ballare, le strofina, le ingarbuglia, le mette in convulsioni, come se avesse lui la tarantola addosso, o meglio per vaghezza di veder tutto quest'arruffio di cenci in aria a sfregarsi e dargli il luccichìo, di cui è vago il suo occhio largo, delicato e fine. "Faldella è un giocoliere espertissimo del dizionario. De Amicis ama la frase liquida, pura come un ruscelletto del Biellese... "Faldella, meno maraviglioso pittore, è un osservatore gigante, che studia con coscienza la sua prediletta campagna, e le cose più volgari sa rendere splendide e piacevoli... "La sua campagna è piena di luce, di chiassi, di voli, di profumi e di passioni; i suoi contadini sono vivi come i soldati dei bozzetti militari di De Amicis, ma più uomini, più veri, meno di maniera, meno languidi. "Nuoce a questa magnifica virtù di ricreazione la passione che egli ha delle parole, e per cui, se non si pazienta un po' a tenergli dietro e ad acclimatarsi col suo stile, si finisce di essere ristucchi. "Faldella adora la parola, non il dizionario, e ne conia. Per lui la parola è un suono, è una veduta, è un monile, e ne crea, senza paura, impipandosi della Crusca, fiero come un granatiere napoleonico. Quando lo si legge, si è costretti a raccomandarsi ogni dieci minuti al dizionario, e spesso vanamente, cosa che mette in bollore il sangue e dà il tetano a chi non è forte in pazienza. "Sarà tutto puro e glielo consento fino a un certo punto, ma, anche Fanfani era purissimo, eppure le sue novelle mi sono costate più sudori, che la mezza traduzione fatta in versi di Lucano. È vero che Faldella ha un ingegno incomparabilmente maggiore al povero Fanfani, ma quella sua ricercatezza di parole, quella sua fabbricazione a ruota perpetua, quel suo rispolverare vocaboli usati, quel toscaneggiare che sa molte volte di becerume colto in piazza della Signoria, quel ricamare ragnatele sulla punta di un ago, è uno scapricciarsi da Sardanapalo, che non può sempre piacere al lettore. Capisco bene che lui scrive per piacer suo, ma quando si stampa, non c'è malaccio ad esser meno ghiribizzosi e più temperanti nei propri gusti. "La malattia delle parole in quell'ingegno così vasto, così ricco d'idee, che non ha l'uguale qui in Piemonte, lo fa cascare sovente in vere stramberie, in volgarità paradossali. È il ricco che butta sulla strada a manciate i brillanti, e nella furia lancia i libri, le vesti, la penna, il calamaio - e il suo vaso da notte!". Meritava riportare integralmente questa smagliante bibliografia quale schietta e calorosa, cavalleresca ricognizione per parte di un antico avversario letterario, e poscia avversario politico; poiché siffatte dichiarazioni non si riscontrano soventi nel campo letterario sempre troppo propizio alle bizze ed alle invidie di mestiere. Nel 1876 il Faldella per mezzo della Casa Editrice di Gaetano Brigola, pubblicava Le conquiste, narrazione accozzata in volume con Il male dell'arte e Variazioni sul tema. Nelle Conquiste svolgonsi i casi pietosi di Fiorina; ed il concetto di una ragazza, che ricusa di sposare il seduttore, ne è nuovo; ma è troppo dottoresca, troppo politica l'ultima lettera di Fiorina morente a Marino Dallestro, onde il lettore si raffredda. Nel Male dell'arte, si svelano, con acutezza di analisi, le angosce di un artista incompleto dolorante nell'ansia della manifestazione. Vi sono tratti lampeggianti, bellissimi, come: "Non vi è urlo di belva, bisbiglio di uccello, parola fine di Manzoni o cannonata di Victor Hugo, accomodati a significare gli effetti d'amore. Esso ci tappa i vani dell'esistenza, ci accende i ceri dell'anima, la illumina a giorno, trae l'uomo in cima al suo arco; imperocché l'uomo non può essere di più su questa terra che innamorato". E si conclude con umorismo angoscioso: "Il male dell'arte sconvolge la natura delle cose; fa uccidere una moglie e piangere sul romanzo di un merlo o sulla etisia di un fiore", Ma è d'uopo dire che la mossa della narrazione, la quale si fa per mezzo di un plico postale, e la ragione di essa, sono evidentemente artificiose. Le variazioni sul tema delle conquiste, riescono un idillio sinfonico, brioso, che si accompagna con un sorriso di simpatia; e leggendo si vorrebbe poter augurare lietamente ogni felicità agli sposi, quando il fidanzato dice ai suoi amici: "... io ho dinanzi a me una gioia, una purezza, un tremore misterioso, che nascono nell'ordine come il vento, e la primavera". Ma, nonostante gli amoreggiamenti dolci e carezzevoli dell'arte, la elezione del Faldella al gran consiglio della Provincia ed i lavori di esso, lo solleticavano eccitandolo a maggiori cariche pubbliche; le gualdane politiche lo attiravano con le seduzioni di nuovi orizzonti umani a scrutarsi e lo prendeva acre voglia di vibrare il suo sguardo d'artista nelle fermentazioni degli animi ambiziosi, cui ubbriaca lo scintillìo del potere alto. Onde, nel 1876, poiché ebbe ottenuta la cresima politica del trentennio, presentavasi candidato al Collegio di Crescentino con un'arguta lettera campagnuola, bozzetto politico, pubblicato in supplemento apposito festivo della "Gazzetta piemontese"; e da tale supplemento credo sia originata l'attuale "Gazzetta letteraria" annessa alla "Piemontese", che si pubblica in Torino. In quel bozzetto egli fra le altre cose scriveva: "Io mi sono lasciato persuadere ad accettare la candidatura offertami per le seguenti ragioni espresse, meglio che da nessun altro, dal più magniloquente fra i pubblicisti romani. "Dice questo tale nel principio dei suoi dialoghi De Republica che la partecipazione alla vita pubblica è uno dei più importanti nostri doveri, per adempiere al quale dobbiamo abbandonare eziandio la soavità varia degli studi, variam suavitatem studiorum". E via via, svolgeva le sue idee, i suoi intendimenti, i suoi concetti politici ed amministrativi, largamente liberali, in vista della maggior felicità possibile dei suoi concittadini. E corroborava opportunamente il suo dire con testi latini che tornavano tratto tratto come le bullette vigorose di una predica, con frequenti richiami ai pensieri, ai giudizi di quel gentil cavaliere che fu Massimo d'Azeglio, ministro e pittore di paesaggi, ed ammiratore dei larghi fianchi e dei seni audaci delle belle figliuole di Rocca di Papa. Ma tutto ciò non valse al bozzettista la conquista dello scanno politico. Quel collegio era allora infeudato alla personalità valorosa, mirifica e luccicante del generale Bertolè Viale, di destra pura; e non fu poco scandalo per i giornali di destra vedere il Faldella nella sua gioconda giovinezza di idee e di fatti piantarsi contro l'ex ministro della guerra, per contendergli, con disinvoltura democratica, i voti di quelle popolazioni. Nello scacco, il giovane scrittore raccoglieva nondimeno tale numero di voti da ingagliardire le maggiori speranze per l'avvenire; e per consolare l'animo della momentanea ferita politica, egli tornò a tuffarsi fra i flessuosi abbracciamenti dell'arte sua, e scrisse Verbanine, dolcezza da idillio che l'editore Casanova di Torino ora sta componendo in volume elegante, da esposizione nazionale, illustrato maestrevolmente con originalità e perfezione di tocco dal Ricci valente pittore ligure. Nel maggio del 1878 i proprietari ed il direttore della "Gazzetta piemontese" incaricavano Faldella della corrispondenza da Roma al loro giornale, carica già sostenuta da egregi uomini politici ed onorevoli deputati, come il Trompeo, il Lacava e il Marazio. Ed il Faldella rifacendo la via del suo Geromino sindaco di Monticella, riprendeva nella capitale i suoi studi di osservazione. Assunto lo pseudonimo barbarico e battagliero di Cimbro, egli iniziava una serie di lettere notevoli per i concetti sereni e per le vedute che spingeva lontane nella fisiologia politica. Quelle lettere erano vieppiù notevoli per la forma inusitata in un giornale quotidiano, forma scultoria e pittoresca nella sua bizzarria; così a mano a mano, dalle altezze critiche della tribuna della stampa nella Camera ed in Senato; dallo studio accurato e scrutatore dei più appariscenti uomini parlamentari, nell'ambiente elettrico, saturo di passioni e di livori, dentro cui annaspano gli uomini di governo, egli maturava meglio i suoi giudizi e i suoi pensieri di letteratura politica, appianandosi in questo verso le vie dell'avvenire. Ma questo egli faceva in armonia colla sua coscienza di artista e scrittore. In quello stesso anno egli visitava l'Esposizione mondiale di Parigi, della quale principiava una rivista umoristica in appendice della "Piemontese", spumeggiante, arguta, degna di fare il paio col viaggio di Geromino alla capitale d'Italia; ed era nuovamente il sindaco di Monticella col suo buon senso quadrato di campagnuolo che ne faceva le spese; ma quella rivista lasciò poscia in tronco, occupandosi a pubblicare in volume il suo Viaggio a Roma senza vedere il papa che ottenne così cresimato dal pubblico e dai critici accoglienza anche più festosa. Ed in seguito nel 1879, pur durando nel suo ufficio di corrispondente romano della "Piemontese", pensava a rivedere ed ultimare un altro suo lavoro intensamente meditato, uno dei più mirabili che egli abbia scritto: Rovine, edito poscia in volume dalla tipografia Editrice Lombarda, con due figurine: Degna di morire e La laurea dell'amore. Rovine erano già comparse sulle "Serate" col titolo: Il figlio della signora dei cani e in appendice al giornale il "Movimento" di Genova col titolo: Un letterato inedito, ma l'autore può dirsi rifacesse tutta l'opera sua per pubblicarla in volume. Il protagonista delle Rovine è un ignoto e disgraziato ingegno piemontese, gagliardo e vivacissimo; uno dei più caratteristici soci della Dante Alighieri, dove egli esercitava su tutti i suoi colleghi influenza grandissima, a volte decisiva; era una vigoria, un polline artistico fecondatore che distruggeva se stesso trasmettendosi negli altri. E ben meritava il povero e possente artista, a cui forse non fece difetto che qualche qualità secondaria per l'arte, ma indispensabile per la riuscita nelle asprezze e nelle lotte della esistenza; ben meritava le pagine calde, colorite, cesellate dall'affetto, di Giovanni Faldella. Rovine sono quindi come scrisse l'autore stesso "... la biografia del Letterato inedito, figlio della Madre dei cani". La mossa ne è commovente, potentissima: "Uno scolaro usciva dal ginnasio dominato dall'appetito e dalla contentezza. Era riuscito il secondo della scuola, cosa che non gli era mai capitata nella vita; lo gattigliava a fior di pancia un vuoto voluttuoso; gli splendeva in testa la speranza di un accessit; udiva già il suo nome tintinnare nella distribuzione dei premi, sentiva muoversi leggera leggera la bisaccia dei libri sulle spalle; pensava ai grissini e ai peperoni del desco materno, all'effetto luminoso che avrebbe prodotto il suo annunzio in casa; e con una fame, che avrebbe addentato i pilastri dei portici, egli disprezzava le bacheche dei confettieri, disprezzava gli zamponi dilembati rossamente, i tagli dei presciutti marmoreggiati succosamente, il morbido ed acuto gorgonzola e tutte le altre ghiottonerie, che dalla vetrina di un salumaio agganciano le viscere di uno scolaretto. "Come era fulgido Pinotto sotto i portici di Po! "Svoltò in una di quelle forme di torrioni, che sono i cortili torinesi; infilò una scaletta. Sembrava si arrampicasse a quattro gambe; sembrava avesse le ali; sembrava una rana; sembrava un'anitra; sembrava abboccasse con la testa curva l'orlo di ogni gradino; a momenti che non sembrava quel poveretto? Finalmente eccolo sul suo pianerottolo. Oh! quanta luce egli getterà fra i suoi cari con la notizia che finalmente egli è riuscito il secondo della scuola! Ma appena egli pose i piedi nel tinello, si smorzò la sua luce; ché trovò nell'atmosfera della stanza e nei volti di sua mamma e di sua sorella quella mutezza plumbea, che assumono le famiglie nelle più rilevate calamità casalinghe, quando è giunto il telegramma della morte del nonno, o quando è venuto l'usciere per una esecuzione mobiliare. "Pinotto fece uno sforzo e non riuscì.... ne fece un altro e riuscì a dire: - Mamma! Carolina! Se sapeste!...". Ma la notizia che il povero ragazzo recava con tante carezze del pensiero e con tanti palpiti del cuore, non eccita neppur l'ombra d'un sorriso; i suoi non gli badano più che tanto; la mamma non lo guarda neppure in faccia, e solo la sorella "con una voce da vitella sgozzata" gli dice che il cane, "che Glafir ha la t... osse; - e giù uno scoppio di pianto". Allora Pinotto "scaraventò contro la finestra la sua bisaccia, il cui bottone di acciaio ruppe un vetro; quindi scappò come un fulmine, scappò senza il cappello in testa". Le pagine che seguono, scritte con diligenza analitica e indagatrice, anatomizzano e spiegano l'indole dell'animo e la natura dell'intelligenza di Pinotto, a mano a mano che egli progredisce negli anni. Sono tutte le infelicità irrimediabili di un nobile ingegno, d'una robusta esistenza che si accumulano fatalmente per cagione di Glafir "un cagnolino tozzo, dal collo corto e dalle gambe cortissime, grasso come una caciuola marzolina, pigro come una marmotta, che tossiva e starnutiva con mille stenti e putiva come un avello"; perché Glafir aveva preso il posto del figliuolo nel tepore della famiglia. Ed è Glafir che ruba le carezze a Pinotto, gli amareggia il cuore, gli avvelena il carattere, gli sconforta il pensiero; è Glafir che lo renderà inedito, miserabile, pezzente, e gli farà maledire la vita. Ma, curioso ricorso storico di giustizia, di equità animale, quando, dopo molteplici casi, egli sarà ridotto all'estrema miseria, sarà un altro cane che lo assisterà con pietosa fedeltà; Fido! - un cane miserabile come il suo padrone. Erano soli in una topaia: "...estenuato - Pinotto - lasciò andare le mani spossate; chiuse gli occhi, tossì più forte e si sentì nella bocca il sapore plumbeo del sangue caldo, mentre gli girava addosso il senso di un freddo marmoreo. "Credeva d'avere sulle ginocchia il muso di Fido, il quale invece dimorava là lontano, tutto turbato per lo stato di lui; ogni po' usciva sul ripiano, per vedere se c'era qualcheduno da avvertire, e poi rientrava e stava lì con quei suoi occhioni aperti, quasi volesse medicare il padrone con le guardate amorose. "Questi sognava, e credendo di palpare le orecchie a Fido, borbottava: - Grazie, Fido!... Eccellenza... "Egli scorgeva luminosamente ed ampiamente l'apparizione che lo aveva seguitato da più giorni. Era la Madonna, e la Madonna era sempre sua madre. Era tutta santa, tutta augusta, tutta fulgida di stelle... Lo riceveva e lo irradiava d'oro, d'amore e di sole... "Ed era stato Fido il parlamentario, che lo aveva presentato e fatto ricevere. Essa aveva cominciato a parlare con Glafir, e si erano scambiate alcune note...". In questa pagina strana e commovente, mostrasi tutta la forza del Faldella come colorista, e stilista; vi è pieno il senso della misura, è esattamente intuita l'astrazione ideale del moribondo. L'Ignoto protagonista di questo lavoro del Faldella morì all'ospedale in Firenze nel 1875; e le "Serate italiane" ne pubblicarono allora una sentita necrologia. Il Faldella stesso, saldo nelle amicizie e tenace custode d'affetti, alcuni anni appresso, allorché pubblicò coi tipi del Roux Un idillio a tavola, primo volume del Serpe stroncato nel "Fanfulla", volle dedicarlo alla pietosa e forte memoria dell'amico G. M., del quale le Rovine sono appunto la biografia. Ed il Capuana, il sapido ed energico novellatore siciliano, che insieme col Verga ha tanti ammiratori, non dubitò un momento di illustrare le Rovine, cernendone pensieri, giudizi e notizie, per ricostruire il Profilo di Un ignoto nei suoi Studi di letteratura contemporanea (Seconda serie). Egli in quello studio robusto, già pubblicato nel 1879 sul "Corriere della Sera" di Milano, come bibliografia delle Rovine del Faldella, mostravasi benevolo critico del nostro scrittore, e gli attribuiva soprattutto l'ironia incosciente, osservando che gli arcaismi, gli stridori di forma sono per lui un affare di tavolozza. Riguardevoli giudizi pronunziarono pure del Faldella altri critici che sono parimenti essi stessi poeti o novellieri valenti; ed in prima il suo amicissimo e caro agli italiani ed agli stranieri Salvatore Farina, G. C. Molineri, G. Caprin, il Robustelli, Ferdinando Fontana, Leopoldo Marenco, Vittorio Turletti, Corrado Corradino, ecc. - P. G. Molmenti gli consacrò un capitolo nel secondo volume delle sue Impressioni letterarie. Al Molmenti Faldella dedicò: Degna di morire. Degna di morire (figurina nera) è una gentilissima mestizia, gioiellata in poche pagine: è la storia semplice di Elena Floresin. Elena che nei balli campagnoli "volava fervente e felicissima con gli uni e con gli altri; a quando a quando in riga o in danza si vedeva scrollare la gemmea testa ed era per scuotere un bacio che le si era avventato come un calabrone". Ma doveva ucciderla il sole in un mattino di aprile, nel quale ella "sciorinava sul ballatoio la biancheria di bucato". Il sole "... le faceva correre palpiti di calore crescente dal suo altoforno empireo: i suoi raggi cocenti fremitavano: e cremandola le artigliavano la testa come carezze di leone amoroso". La novella prosegue pietosamente con un luccichìo caldo e commovente di frasi: "Quattro giorni dopo Elena era distesa sopra un fianco nel suo letticciuolo con le braccia riverse fuori delle lenzuola in segno di eternale stanchezza. Pareva che le sue labbra sfarfallassero: dormo; non toccatemi in eterno. E niuno era ardito di toccarla in quel momento, salvo una mosca. Pareva che la morte l'avesse ridotta in marmo cogliendola nell'ascesa di un palpito, e conservando nel cadavere verginale tutte le tumide promesse di una splendida Eva". La laurea dell'amore - Trittico nuziale (figurina così divisa: Lui ? Lei ? Tutt'e due insieme) non ha nulla a che fare col noto lavoro del Droz: Monsieur, Madame et Bébé. In essa il bébé non c'entra, ma verrà indubbiamente dopo, poiché la morale della novella è il trionfo sano e possente di due sposi, ossigenati a dovere in una vivace freschezza campagnuola. È una figurina che si legge piacevolmente, con un sorriso, e fa sorgere il desiderio carezzevole di cacciarsi in un compartimento riservato d'un carrozzone di ferrovia, per libare la vita trasvolando lontan lontano con una gioconda fanciulla rapinata in isposa. Di questo volume occupavasi largamente il Cameroni in due appendici al "Sole" di Milano nel settembre del 1879; e ne scriveva in proposito: "La passione di Faldella per l'originalità già da alcuni anni mi ha reso simpatico questo giovane scrittore piemontese, benché lambiccato nei concetti e nella forma: "Mentre dalla maggior parte dei nostri novellieri si trascura la frase, l'autore delle Figurine e delle Conquiste la accarezza fin troppo, le dà il minio, la polvere di riso ed i nèi. Mutatis mutandis e ridotte di molto le proporzioni, si potrebbero attribuire al Faldella quelle censure di preziosità, cui lo Zola mosse a Cladel nel famoso articolo sui Romanzieri contemporanei, inserito nel Figaro dello scorso dicembre. Appunto perché artista e non soltanto novellatore, egli sa giovarsi della ricchezza della nostra lingua, ma troppo di sovente manca di naturalezza nell'espressione proprio come il Cladel". In prova il critico fornisce uno scampolo di florilegio faldelliano: "Rilevarsi da quel coperchio di dolore, che lo aveva offuscato; il baratro della umiliazione e della crudeltà materna; strusciarsi per avere l'accessit; ? i capelli di due vecchie, che lucevano come fili di ferro elettrici; ? il lecchetto irresistibile; ? la religione condensata in un brodo consumato di ideale evangelico; ? una pugnalata di voce; ? spiattellarsi innanzi al sole come un ninfale eliotropio". Rilevata la bizzarria di queste frasi, e poscia poste in sodo le buone qualità dello scrittore piemontese, il Cameroni soggiunge: "... questa volta (nella simpatia per il Faldella) mi trovo onorato da ottima compagnia, giacché ricordo benissimo le parole d'elogio di quell'incontentabile buongustaio, che fu il Camerini, per l'autore della Gita con il lapis a Vienna". Venute le elezioni generali del 1880, il Faldella spinto dagli amici spolverava il suo bozzetto politico, e si ripresentava al Collegio di Crescentino solamente tre o quattro giorni prima della votazione: e vi otteneva un nuovo fiasco; ma un fiasco di quel buono, propiziatore di prossima vittoria; che gli succedeva di riportare di lì a poco, nel 1881. Il generale Bertolè?Viale andavasene in Senato, ed il Faldella otteneva il seggio elettorale del suo collegio confortato da settecento e più voti di suffragio ristretto. Alla Camera prese naturalmente posto a sinistra fra le congratulazioni e le condoglianze degli amici, che temevano la politica togliesse all'arte l'ingegno suo, o almeno lo guastasse nei suoi ingranaggi corrosivi. Ma il Faldella sullo scanno di deputato rimase tranquillamente quale egli era e quale aveva annunciato di voler essere nel suo bozzetto politico, dove scriveva: "... io non posso approvare la eunucheria politica, di cui si vantano pochissimi fra gli artisti e i letterati moderni, la quale non credo scusabile nemmanco con il voto di castità politica fatto dal Beato Alessandro Manzoni". Ed invero, abbiamo avuto fuori d'Italia e presso noi esempi confortanti di uomini di Stato che non trascurarono di ricrearsi la mente colle geniali occupazioni artistiche a cui li portava l'indole dell'ingegno loro, fossero pur condottieri di popoli o di Governi. Il Faldella deputato ebbe maggior agio a completare le osservazioni che aveva già intraprese come giornalista su le turbolenze della politica; e da quelle osservazioni poté trarre i materiali per la futura sua storia politica e aneddotica del parlamento italiano. Intanto senza più essere il corrispondente ordinario, egli continuò a mandare corrispondenze alla "Piemontese", ma corrispondenze di lusso. Il suo primo discorso alla Camera egli lo pronunziò nella tornata del 16 marzo 1881, allorché discutevasi la proposta di legge per un concorso edilizio a Roma con annessa costruzione d'un palazzo dei Lincei. Sorse a battagliare contro l'amico suo personale, e collega nel Consiglio della Provincia di Novara, l'illustre Quintino Sella, cui anch'egli cordialmente amava e italianamente ammirava; sorse quando la Camera snervata per lunga discussione era insofferente, e vi battagliò, con venustà di forma letteraria insolita od impropria per quel luogo e con originalità esilarante di idee. Poiché ebbe protestato di aver passata la vita sua modestissima nello studio delle lettere, dichiarò di non essere eccitato da un estro paragonabile a quello di Erostrato, se combatteva specialmente l'erezione di edifizi, i quali hanno rapporto colla cultura intellettuale. E poiché aveva narrato che in certi paesi di montagna la scuola si fa nelle stalle, faceva scoppiare per l'aula una larga risata, dicendo: "... che dire delle maestre? Con umilissimi stipendi, sono in pietose condizioni, da cui possono più spesso rilevarsi meglio con mezzi estetici, che con meriti didascalici, tanto che i comuni prima di nominarle richieggono la fotografia". E corroborava il suo concetto proseguendo: "Or bene, o signori, io domando se allora quando noi vediamo giacere l'istruzione elementare in così basso grado, noi possiamo deliberare tre milioni e mezzo per elevare un nuovo edificio in Roma all'alta scienza... "Io non ammetto tutte le durezze che contro le Accademie hanno scagliato alcuni liberi ingegni, come Brofferio, Baretti, Giusti, Beranger, ecc. Le Accademie, come quasi tutte le istituzioni umane, hanno la loro parte buona e la loro parte cattiva. "Secondo quello che ci insegna giustamente l'onorevole Sella, esse possono riuscire utili per la forza dell'unione, tesoreggiando capitali scientifici, e anche semplicemente mediante la pubblicità e la réclame. Ma esse possono altresì degenerare in società di mutua ammirazione e di altrui disconoscimento, o in società politiche, fossero pure associazioni costituzionali; posson far prevalere la forma alla sostanza, promuovere lo studio delle cose inutili, e propagare alcuni determinati vizi scientifici e letterari". E poscia con estro crescente di ironia gioviale, eccitava nuova e maggiore ilarità nei colleghi - resi attenti, soggiungendo: "Quanto alla mutua ammirazione - promossa dalle Accademie - ci restano a documenti i tipi comici, nella storia dei costumi fatta dalla vera commedia; ci resta, nel Poeta fanatico di Goldoni, lo stupendo conte Ottavio, presidente d'Accademia che, al finire di ogni sproloquio o di ogni recitazione, abbraccia l'accademico Lelio, l'accademico Florindo, l'accademica Rosaura, e stringe anche al seno con trasporto l'accademico Brighella!". Ed in quel suo estro, sparando citazioni, motti, giudizi, l'oratore confortava gli accademici a rimanersene paghi della dotazione di 100 mila lire e del Campidoglio per tenervi le loro adunanze, e ricordando come agli uomini d'ingegno poco o nulla abbiano soccorso le Accademie, continuava: "...Mentre in Francia, in Germania ed in Inghilterra gli autori già ricevevano lucro decoroso dal pubblico, e da noi i pingui canonici accademici ottenevano stampati dalle tipografie regie i magni volumi, i cui fogli sono tagliati solo dai legatori di libri, Carlo Botta vendeva la sua Storia dell'Indipendenza d'America per pagare i medicinali della moglie; e per pubblicare la sua Storia d'Italia in continuazione a quella del Guicciardini, dovette ricorrere all'obolo di pochi sottoscrittori. A questi soli si deve, se il tipo della devozione patria eroica, il tipo di Pietro Micca sorse e raggiò in quella italica prosa sfolgorante". Ed il sidereo Filopanti a tuonare: bravo Faldella! mentre la Camera applaudiva, pur mantenendosi di parere contrario. E non valse all'oratore svolgere con moto lirico una nuova onda calda di pensieri: "Io mi esalto perfino ricordando che re Umberto e la regina Margherita distribuirono i premi ai Lincei, spettacolo forse più bello di quell'altro, dell'onorevole Quintino Sella, che fece alzare i Lincei in piedi all'arrivo del maresciallo Moltke, cui Rovani giudicò l'Attila del calcolo sublime. Tutti questi quadri, al pari di quello di Vittorio Amedeo che osservando la persistenza di un lumicino in una soffitta torinese vi scopre un povero studioso e lo converte nel ministro Bogino o al pari di quello di re Umberto che col ministro Baccelli si insediò alla scuola di sanscrito del professore Lignana nella Sapienza di Roma, tutti questi quadri per me sono degni non solo dell'"Illustrazione universale" dei fratelli Treves, ma del perenne mosaico... "A questo mondo non vi è nulla che più ci scaldi e rischiari la fronte e ci schiuda l'avvenire meglio della scienza... Ma facciamo altresì la scienza applicata in azione. Quei milioni che volete consacrare ad un palazzo inutile, diamoli all'igiene, alla spaziosa, luminosa viabilità che sono conquiste moderne". Ma la legge a malgrado di questo e di altrui discorsi, che la battevano in breccia, venne approvata; e nei giornali, che intesero male dall'alto della tribuna nella persona dei loro reporter, il Faldella venne tacciato poco meno che di barbaro analfabeta! Barbaro lui che si era persino lagnato, perché i famosi volumi, cui l'Accademia dei Lincei partorisce e stampa ogni anno con elevatissima spesa, giacessero intonsi nella biblioteca della Camera! Continuò per un pezzo lo scalpore contro la barbarie di Cimbro Faldella; però bisogna dire che quello scalpore non fu accolto dall'ingegno sensitivo, tenace ma equilibrato dell'illustre Sella. Questi forse fraintendendo il discorso per la distanza dell'oratore dal banco della Commissione, gli aveva bensì risposto con accesa eloquenza, come se il Faldella (ciò che non era) avesse preteso mandargli in malora la scienza e la lingua latina. Ma, cessato quel bollore, si dimostrò buon amico del Faldella, il quale testè in alcuni Ricordi necrologici del compianto grand'uomo raccontava a tale proposito sulla "Gazzetta piemontese" il seguente aneddoto: "Allorché alla Camera un giovine deputato con balda coscienza contrastò uno straordinario sussidio che credeva intempestivo per un palazzo all'Accademia dei Lincei prediletta del Sella, questi se ne risentì, rispondendogli oltre misura. Tale eloquente risentimento inspirò un facile poeta, che schiccherò lì per lì un sonetto e lo mandò al banco della Commissione, dove il Sella sedeva relatore della legge per il concorso edilizio a Roma. Ignoro se quel sonetto fosse semplicemente arguto, o spinoso, od attizzino, imperocché non lo lessi, né seppi il nome del poeta. Esso era certamente contro al giovane deputato. Il Sella, scorsi quei quattordici versi, li comunicò al suo vicino e collega della Commissione, l'on. Del Zio, il quale forse poco prima lo aveva intrattenuto sulla opportunità scientifica di pubblicare finalmente, magari con l'ausilio dei Lincei, il formidato e condannato Triregno del Giannone, tenuto troppo occulto nelle sole due copie superstiti conservate dalla Biblioteca nazionale di Napoli e dall'Archivio reale di Torino. "L'on. Del Zio, percorso alla sua volta il sonetto, immantinenti vi scrisse in calce il motto della Sand: "Non toccate le fronde giovani! " quindi restituì il fogliolino al Sella. Questi fu preso, quasi commosso dall'improvviso ricordo di quella sentenza; lacerò o mandò a riporsi il sonetto; e d'allora in poi non tralasciò occasione per attestare la più cordiale cortesia al giovine deputato statogli aperto contraddittore". No! Il Faldella non era stato barbaro. Egli fin da quell'occasione avrebbe potuto soggiungere ciò, che appena accennò poi incompletamente nel banchetto di Torino, cioè che le Accademie nido di gente arrivata, giubilazione degli ingegni, sono non solo le meno abili ad ogni nuova scoperta onde possa onorarsi lo spirito umano, ma soventi vi sono ostili. Esempio l'Accademia delle scienze di Francia a cui Napoleone I aveva mandata, per il parere, la memoria di Fulton che gli proponeva la navigazione a vapore. La grave Accademia, con dotta ilarità, rilasciava all'inventore una ufficiale patente di utopista. Altro esempio, se vuolsi guardare a tempi più lontani, l'Accademia di Salamanca. Essa insorgeva contro Cristoforo Colombo e lo dichiarava pazzo per la sua divinazione di nuove terre. Il Faldella tornò a parlare alla Camera nella tornata del 20 giugno 1881, allorché si discuteva la riforma elettorale, e vi sostenne strenuamente lo scrutinio di lista. Nel suo discorso non mancarono le originalità. Fra le altre per sostenere che l'allargamento del suffragio e lo scrutinio di lista avrebbero diminuite le corruzioni elettorali, egli uscì fuori a dire: "Nelle biografie dei grandi uomini politici dell'Inghilterra narrasi precisamente quanto essi hanno speso per la loro prima o seconda elezione. Si aggiunge di Beniamino Disraeli che una gentile signora gli suppeditò le copiose ghinee occorrenti perché gli fosse sbarrato l'arringo politico. E qui voglio l'onorevole Serena il quale oggi ha argutamente immaginato che Dante Alighieri non sarebbe eletto deputato collo scrutinio di lista. Onorevole Serena! Senza essere poeta sovrano, chi circonda il suo nome coll'aureola dell'arte, e si imprime nel pubblico con la sua potenza letteraria, ben può pretendere a quella notorietà, che è sufficiente per la riuscita nello scrutinio di lista. Oh! Dante Alighieri sarebbe un candidato sicuro nello scrutinio di lista. Per lo contrario io nutrirei i miei famosi dubbi per la sua riuscita nel collegio uninominale. Con tutto il fascio radioso del suo genio, il poeta resterebbe nella tromba, se rimanesse povero in canna, come è costume dei poeti, e se una pietosa dama non scendesse ad apprestargli le migliaia di lire, come fece la Ninfa Egeria all'autore dell'Endimione". E terminando il succoso e serrato suo discorso dichiarò: "È una voce falsa ma molto diffusa che noi ricusiamo lo scrutinio di lista per non sentenziare noi stessi a certa morte politica... Ma, signori, non lasciamo accreditare neppure materialmente quella voce col fatto di una votazione ostile. La storia darebbe certamente tristo giudizio di noi in paragone di quei Parlamenti e di quegli ordini rappresentativi che seppero fare innanzi al mondo nobili rinunzie. "La famosa assemblea nazionale francese, che dichiarò i diritti dell'uomo, interdisse, con zelo soverchio, a tutti i suoi membri la rielezione... "Negli ordini della Repubblica fiorentina era statuito che i magistrati scaduti non potessero rieleggersi salvo che trascorso un dato tempo. Questi insegnamenti non sono scevri di sapienza; indicandoci i benefici di avvicendare gli uomini alla cosa pubblica per evitare le cancrenose ambizioni e per usufruire ognora fresche e riposate virtù". Ma poscia l'oratore soggiunse: "Però il pericolo della sommersione nello scrutinio di lista ci sarà solo per me deputato novellino che devo molto ai vincoli di affetto paesano e di poesia domestica ecc.". E fu meno felice nella chiusa, poiché volle ostentare, un po' troppo, la sicurezza che lo scrutinio di lista dovesse riuscire letale alla sua rielezione. Lo Zanardelli, relatore dottissimo di quella legge, nella perorazione del suo splendido discorso pronunziato nella tornata del 21 giugno 1881 faceva onorevole menzione delle parole del Faldella dicendo: "Questo trionfo (della nuova legge elettorale) farà sì che nelle elezioni, come notò l'on. Crispi, siano veramente nazionali le gare; non solo assicurerà gli altri vantaggi, dei quali ho parlato: ma esso dimostrerà, come ieri disse con nobili parole l'onorevole Faldella, che noi possediamo una virtù, la quale nella vita pubblica vale da sola a riscattare molte colpe, l'oblio di noi stessi...". Nella sua vita parlamentare, Faldella preoccupato delle condizioni economiche del suo collegio per la scarsa viabilità, domandava e patrocinava due ponti sul Po, ed un altro sulla Dora Baltea; ed otteneva che una sua aggiunta venisse in parte accolta nella legge delle nuove opere stradali; e poscia nell'adunanza del 24 giugno 1882 pronunciava anche un discorso in favore della ferrovia Chivasso?Casale, accumulando argomenti vinicoli e strategici in favore di essa con vittoriosa mitraglia di parole assennate. Ma, ciò malgrado, venute le elezioni generali del 1882 con suffragio allargato e scrutinio di lista, egli come aveva preveduto, forse allora incredulo in se stesso, fu ripagato dai suoi elettori di una buona sconfitta. Ritornato alla tranquillità ridente del suo quieto villaggio, alla vita casalinga e raccolta; tornato alle sue contemplazioni e meditazioni, fuori del turbine affannoso della politica, che logora gli spiriti, egli riprese con maggiore intensità di lavoro i suoi studi; e poiché della politica gli durava il sapore acre, avendo poco prima delle ultime elezioni già pubblicato un volume della sua Salita a Montecitorio (1878?1882) col sottotitolo: Il paese di Montecitorio, Guida alpina di Cimbro, proseguì in quella via palpitante di passioni, e addensò pagine su pagine di politica artistica. E così pubblicò successivamente: I pezzi grossi (Scarpellate), I Caporioni (Profili), Dai fratelli Bandiera alla dissidenza (Cronaca), volumi che della Guida parlamentare sono il seguito galoppante. Siffatta opera, nella quale sotto nuovo aspetto mostravasi l'ingegno suo di cronista politico nella serenità e nell'argutezza critica dei giudizi - egli dedicava a Luigi Roux, ora deputato del Collegio di Cuneo, già direttore dell'Organo della Pentarchia, in allora soltanto direttore della "Gazzetta piemontese", e col Favale, editore dell'opera stessa che gli era intitolata. "Un giorno, gli scrisse il Faldella, il rustico autore di Un viaggio a Roma senza vedere il papa, Geromino, sindaco di Monticella, fu da te, dal tuo illustre predecessore e dai tuoi egregi colleghi, ghermito agli ozi campestri e letterari del suo villaggio e spinto alla batteria elettrica della corrispondenza giornalistica, egli nato per meditare e stintignare una pagina al mese... Ora spetta sovra tutto a te il sopportarne le conseguenze, accettando la cordiale dedicatoria di questo libro". Il concetto dell'opera è chiaramente reso manifesto nella lettera, colla quale gli Editori accompagnavano il secondo volume: I pezzi grossi. "Nel primo volume dell'opera l'autore, col titolo Il paese di Montecitorio, ha voluto dare, come si suol dire, una pittura dei luoghi, dove si svolgerà man mano l'opera medesima: dall'atrio del palazzo deputatesco agli uffici della segreteria, dalle sale della presidenza agli archivi, dagli ambulatori alla questura, dalla tribuna pubblica al banco dei ministri, il Faldella ha fatta una minuta descrizione della residenza del Parlamento animandola, come hanno bene avvertito i lettori di quel primo volume, coi ricordi storici che si addensano così gloriosamente affollati in quei luoghi, e coi profili dei personaggi che si incontrano ad ogni pietra di quel Paese. Compiuta così la descrizione dei luoghi, l'autore entra nella materia del secondo volume: I pezzi grossi, che sono estese fisiologie dei principali uomini politici. Seguito dei Pezzi grossi sarà il volume dei Caporioni. E siccome parecchi di questi appartennero al partito d'azione, parve opportuno all'autore di raggruppare intorno ad essi gli episodi più drammatici del nostro Risorgimento: onde uno speciale volume sarà la cronaca patriottica: Dai fratelli Bandiera alla dissidenza ed al trasformismo. Percorso il mondo parlamentare nelle sue cuspidi individuali, gioverà all'autore considerarlo nelle masse dei partiti, donde un volume sui partiti parlamentari ed un altro sui partiti extra?parlamentari, ed un altro ancora di Vedute e scene: e siccome dopo tanta vivisezione parlamentare è doveroso rendere omaggio alle tombe dei campioni della Camera, di cui è più recente il lutto, una parte dell'opera sarà Necropoli. E finalmente una parte sarà dedicata a quel ramo del Parlamento, dove in vigile riposo si archiviano i veterani dell'intelligenza, del censo, del patriottismo e delle maggiori cariche, donde un ultimo volume: Scorsa al Senato". A proposito di codesta Storia parlamentare che si disegna a linee larghe ed a tratti vigorosi, e si ispira a concetti elevati nella serenità degli schietti giudizi, - Nino Pettinati, elegante scrittore ligure?subalpino, con una venatura di anglosassone nel temperamento poiché di madre inglese, onde conserva nell'aspetto una gentilezza da Lord Byron sminuito, scrisse argutamente nella "Gazzetta letteraria" di Torino del 28 aprile 1883: "Alcuni che furono sin qui avvezzi a gustare e carezzare nel Faldella l'arguto pittore delle Figurine, l'umoristico narratore dei Viaggi a Roma e a Vienna, l'incisivo novelliere delle Rovine e recentissimamente il mesto romanziere del Serpe, veggendo oggidì il Faldella assumere la gravità e l'ufficio di questa Salita a Montecitorio ne restano sorpresi un poco e fors'anco dubbiosi di più. Generalmente parlando in Italia, da Brofferio, da Manzoni e da Cantù in poi, i letterati sono così poco storici e gli storici così poco letterati! Havvi - chieggono - nell'autore delle Conquiste la stoffa dello storico? e qualunque titolo abbiano i suoi lavori non saranno sempre romanzi? - Costoro a nostro avviso non hanno posto bene mente all'indole dell'ingegno del Faldella e non hanno seguite le fasi ch'esso ha traversato da qualche tempo in qua. Il Faldella è interessante novelliere, è vero, ed i suoi racconti hanno un'attrattiva non comune; ma bisogna pur riconoscere che la immaginativa e la novità non sono mai state le maggiori doti dei suoi lavori, sibbene la finezza dell'osservazione e l'acutezza delle rassomiglianze, le quali vincono di gran lunga in lui le qualità inventive. Come osservatore pochi superano il Faldella, e pochi del pari hanno maggior felicità nell'afferrare delle cose osservate le qualità caratteristiche, sviscerarne, per così dire, l'indole e il segreto, penetrarne l'essenza e riprodurle coi loro propri colori. Un autore moderno ha detto che difficilmente lo scrittore ed il lettore si capiscono bene, perché essi seguono strada inversa, vale a dire che lo scrittore va dal pensiero all'espressione, il lettore dall'espressione al pensiero. Al lettore di Faldella di rado è avvenuto di non comprendere la vita che spira dalle pagine di lui; imperocché il Faldella non arzigogola in espressioni soggettive e non getta mai il suo Io fra lo spettatore e i personaggi; ma per mezzo suo i personaggi medesimi si disegnano colle loro stesse azioni abilmente messe in luce. "In questa felicità di intuizione oggettiva unita ad uno stile quasi sempre incisivo e scultorio anche nella rappresentazione di sentimenti di minore importanza e talora anche ridevoli, in un desiderio continuo di curare dei personaggi e delle cose anche i menomi particolari e i tratti più fuggevoli, in uno studio continuo e zoliano di non dipartirsi dalla verità dei tipi quasi sempre imitati dalla vita reale, chi non riconosceva già nel Faldella le principali, se non tutte le qualità necessarie allo storico diligente e fedele? Ma abbiamo detto che bisogna pur tenere conto delle fasi che l'ingegno del Faldella ha traversate. Chi ignora infatti com'egli raccolto un dì nella mite atmosfera degli studi letterari campagnuoli, chiamato dipoi nelle officine giornalistiche a mirar più da vicino gli ingranaggi delle quotidiane vicende sociali, venisse in ultimo attratto nel grande agone parlamentare, rappresentante della Nazione egli stesso, e divenisse così testimonio e insieme attore del teatro politico contemporaneo? Allora l'ingegno dell'osservatore accurato, il fedele intuitore delle figure e dei caratteri, l'umorista flagellatore dei vizi in quel nuovo orizzonte si sentirono indubbiamente rafforzare: alla scarsezza della qualità inventiva suppliva largamente la realtà di tutti quelli obbiettivi veri e viventi; il poeta non doveva più tentar voli, ma bastava allo studioso di concentrarsi bene nelle ricerche e nelle osservazioni: l'estro dell'artista non aveva più bisogno di immaginare azioni e persone per sentirsi acceso a scattare in una artistica creazione: ma gli bastava appunto l'osservazione della realtà per iscoprire dove fossero il bello ed il buono artistico e far colla loro riproduzione un'opera d'arte. Così il passaggio dal romanziere allo storico si compiva; il poeta e il narratore non si elidevano, ma dandosi la mano si completavano; e l'autore delle Rovine veniva così alle assaggiature della Roma borgbese ed ora finalmente alla Salita di Montecitorio. E noi teniamo assai a far notare come nella nuova veste del Faldella storico non sia affatto cessato l'artista cui abbiamo applaudito sin qui, imperocché mentre quest'osservazione da un lato ci spiega la fase evolutiva del suo ingegno, dall'altro ci dà la chiave per bene intendere ed assaporare il suo lavoro storico che è di una caratteristica tutta speciale". Ed è vero. Siamo le mille miglia lontani dalla storia d'Italia dello Zini con quelle sue preziosità di frasi atticamente gravi, ma plumbee nella loro massa faticosa. Qui la storia è cronaca spigliata, allegra soventi, e a quando a quando, severa; severa nobilmente nelle elevazioni patriottiche, nei lampeggiamenti civili dell'epopea che fece la Nazione. Nel primo volume: Il paese di Montecitorio, vi è come la fisiologia del palazzo di Montecitorio, studiato in sé stesso, nei suoi abitanti, nei suoi frequentatori e negli ordinamenti amministrativi che regolano la vita politica e parlamentare dei rappresentanti della Nazione. Vi è arguzia, umorismo, ironia; a volta a volta, si illuminano medaglioni, miniati con amore, e frammenti scultorî a colpi audaci e vigorosi. Ne scattan fuori figure di letizia senile, come quelle dei veterani delle ardimentose insurrezioni per la libertà. Tali sono le figure del dott. Ripari e del vecchio bibliotecario della Camera Giovanni Scovazzi, fiero bandito di primo catalogo secondoché leggevasi in un numero della "Gazzetta piemontese" del 1833 che ne recava la condanna a morte unitamente alle condanne di Giuseppe Mazzini e Giovanni Ruffini. Tale è la figura dell'on. Del Zio il quale "ha una testa vigorosa di frate che dal castello di un campanile suoni a stormo e spari fucilate per una rivoluzione". Tale è la figura di Quirico Filopanti, l'amante universale, che si tolse nel 1873 il suo vero nome di Barrili; asceta pitagorico che vive spartanamente di acqua e di pane, e che "ci ha il giubbone nero, un po' roso, ma tuttavia pulito; ci ha il gran colletto bianco; ci ha le stelle in cielo, ci ha delle consolanti aspirazioni in testa; ci ha l'Italia a Roma; si tiene sicuro dell'avvenire nel nome del popolo e di Dio, ed egli è stoicamente felice". E via via, dalla biblioteca della Camera agli stalli dell'aula; dall'atrio del palazzo di Montecitorio alla Tribuna della stampa, a quelle della Corte, della diplomazia, della Presidenza e delle Signore; dal discorsino di esordio del deputato novellino, al discorsone ministro del deputato stagionato che porta tutta una sezione del museo di numismatica appesa alla catena dell'orologio; dalla sala di ricevimento al selce di Cordigliani ed alla rivoltella di Maccaluso; tutto vi passa intuito, scrutato, pennelleggiato con forza, verbalizzato con scrupolo. Ci si potranno bensì, qua e là, notare gonfiezze, superfluità, minuzie che rallentano, e deviano l'attenzione, stancano; ma sono mende che scompaiono in confronto delle numerose pagine ponderate, salde, elevate, concettose che interessano, svelandoci gli intimi congegni pei quali si muove, si agita e si manifesta nel lavoro legislativo la nostra rappresentanza nazionale. Nei Pezzi grossi, l'artista scalpellatore modella a mano a mano le figure di Domenico Farini, Marco Minghetti, Quintino Sella, Domenico Berti ed Agostino Depretis, intorno ai quali raggruppansi negli sfondi altre individualità minori, di più modesta indole. Lo studio sul Farini, che sale dolcemente a involgere tutta la famiglia dei Farini, riesce affettuoso, direi carezzevole, ed è fatto con schietta precisione, poiché l'autore è dirimpettaio di abitazione allo scalpellato personaggio nei silenzi campestri di Saluggia, dove l'ex presidente della Camera villeggia ogni anno fra le memorie venerate del padre, della madre e della nonna. Deboluccio, forse, lo studio sul Minghetti, quantunque questi vi sia considerato in due modi; come oratore, e poscia nella politica e nella storia. Assai bello e vigoroso invece quello su Quintino Sella, dove narra di re Umberto che ospite dei Sella nella Villa di S. Gerolamo nell'agosto del 1880, a preghiera del figliuolo sale a visitarne la madre, Rosa Sella, che per la grave età e la cagionevole salute non può scendere a inchinare Sua Maestà. Al Faldella erompe dall'anima una possente lirica aleggiante, generosamente patriottica, che sintetizza la rigenerazione della patria. Il filosofo di Cumiana, dall'aspetto prelatizio, Domenico Berti, evoluzionista per indole, è scrutato con acume. Ed Agostino Depretis coi suoi trenta e più anni di esperienza parlamentare e con tutto il suo bagaglio di uomo di Stato, bagaglio di pranzi politici, discorsi patriottici, programmi di Stradella e piacevolezze accorte di diplomatico magistrale - viene a sua volta anatomizzato con pazienza, ricercato nelle sue vigorie e nelle sue debolezze; viene scolpito e ritratto nelle pagine del libro in più pose; e tutte danno un magnifico padre guardiano; come l'emblema del tempo eterno che governa. Nel terzo volume della Salita a Montecitorio, I Caporioni profilati sono Cairoli e Zanardelli che tengono il campo con una cavalcata di eroi minori: Cairoli a cui l'autore inneggia come a patriotta, come a Bajardo: Cairoli discusso come Presidente dei ministri, nei suoi due ministeri; Zanardelli, dal vasto ingegno democratico, che come ministro dell'Interno si irrigidisce nelle sue convinzioni di larga libertà cittadina, si allarga nel mare magno della scienza giuridica col libro L'avvocatura, e si condensa con pazienza da benedettino nella dotta relazione per la riforma elettorale politica. Nel quarto volume, ultimo comparso della serie, cioè nella cronaca Dai fratelli Bandiera alla dissidenza, l'autore, risalendo alle prime imprese politiche che via via andarono preparando il trionfo della libertà e della nazionalità ed illustrando particolarmente la impresa audacissima del Pisacane a Sapri, scolpisce con felicità di esecuzione la figura violenta e generosa del Nicotera, lo ritrae con finitezza di tocco, nelle varie fasi della sua vita politica a impreveduti colpi di scena e di audacia. Vi studia le bizze fegatose dell'irrequietissimo agente di Cavour e storico d'Italia Giuseppe La Farina. Vi analizza il carattere metallico ed inflessibile di Francesco Crispi. E poscia ci presenta Agostino Bertani, patriotta saldo e antico, uomo politico rigido e fegatoso, dall'aspetto funereo, fatale; papa dell'estrema sinistra come lo sintetizza l'autore, Bertani ne appare dogmatico nei suoi discorsi alla Camera; vi appare quale uomo che stia sempre teso come un telescopio a guatare i misteri del futuro, o come Geremia profeta piagnucoloso quando prevedeva un'immensità di mali a Gerusalemme baldracca. E attorno attorno, le relative figure secondarie e terziarie, i paesaggi, gli sfondi, le prospettive aeree e terrestri che richiamano lo studio principale. Certamente nel corso di quest'opera, vasta e pensata, si avvertono mende, imperfezioni, giudizi non sempre a sufficienza comprovati dai fatti; ma è giustizia affermare che gli uomini politici, che ne formano maggior argomento, sono resi nel loro momento più caratteristico, tratteggiati a punto nelle manifestazioni loro più notevoli; e queste manifestazioni, coordinate all'azione politica generale. Gli aneddoti curiosi e nuovi abbondano; i giudizi pronunciati da altri autori su uomini e cose vengono raggruppati in modo da produrre l'effetto più notevole. Con questi volumi il Faldella ha provato chiaramente quanto opportunamente egli citasse nel suo programma l'opinione di Cicerone che opinava dovessero letterati e scienziati adoperarsi nella vita politica, per quanto lo acconsentiva loro l'ingegno, poiché si può adempiere agli obblighi di cittadino senza trascurare l'arte che li nobilita. Onde Nino Pettinati ebbe ragione di scrivere su tale proposito: "Si è detto sin qui, ed è diventata una frase fatta come tante altre, che in Italia la politica guasta i letterati e che il battesimo di Montecitorio è quasi l'estrema unzione degli scrittori. Faldella, che pure è stato un eccellente deputato come se lo sanno i suoi antichi elettori, è lì per ismentire la sciocca credenza. Il Faldella facendosi lo storico del nostro Parlamento contemporaneo ha dimostrato come oggidì la politica e l'arte in Italia sono più vicine che mai a fondersi e compenetrarsi: egli, continuando il grave incarico a cui si è sobbarcato, sta per provare come oggidì la nostra letteratura non ha più bisogno di pascersi di soli ideali e di astratti desideri per sentirsi ispirata, ed ispirando a sua volta, adempiere la sua missione civile. Questa missione letteraria, della quale si fa campione il Faldella, si ravvisa nel continuo dramma della vita quotidiana, nei giornalieri episodi del paese moderno che s'agita, che lavora, che dimanda, che progredisce; e a questa missione sentono di adempiere egualmente l'uomo politico che arringa generosamente dai banchi parlamentari, e l'artista scrittore che chiuso nel romito della sua stanza raccoglie nella storia l'eco di quelle arringhe e le riscalda al fuoco dell'arte riformatrice". Nel 1881, il Faldella aveva iniziata, coi tipi dei Roux e Favale la pubblicazione di Un serpe, quello stroncato nel "Fanfulla"; e al primo volume: Idillio a tavola, seguirono, a mano a mano, il Consulto medico e la Giustizia del mondo, uscita di recente, che suggella il ciclo delle Storielle in giro. Questa trilogia, nonostante la festività della forma, il brio dello stile e le spumeggiature esilaranti delle frasi, come in ogni altra opera dell'autore, - ha un fondo largo di mestizia, lascia a poco a poco ed inconsciamente filtrare nell'animo del lettore uno scoraggiamento funereo; segnatamente nell'ultimo volume vi è un'allegria che sa di pianto. L'azione semplice, improntata d'un forte carattere di verità, si svolge dapprima a Scozzeringo, soleggiato e ridente villaggio monferrino; si prosegue a Torino, Firenze, Roma, e si queta come per un filosofico ricorso storico, nell'iniziale villaggio. Vi è studiata e ritratta con evidenza ammirabile la vita del villaggio; le passioni che in esso si accendono per minuzie a cagione dell'orizzonte ristretto e della mancanza di ampi sbocchi alla fermentazione fisiologica, vi salgono e ribollono intuite, analizzate maestrevolmente. I personaggi scattano vivi e solidi in gran parte, come il dottore Giannozzi, Battistina sua figliuola, il conte senatore Baudone, l'arciprete Don Lanterna ecc. Altri sono alquanto indeterminati, come la diafana Rosilde, figliuola del conte, che pare una gentile figurina d'alabastro, scesa da un acquasantiere. Il dottorino Tristano Clessidra, il bieco figliuolo di nessuno, che una vampa d'odio consuma ed illividisce, quegli che dà il titolo vischioso alla trilogia, non è forse il personaggio meglio reso; non pare sia sempre estremamente vero. Vi è un che di artificioso nei suoi atti improvvisi ed eccessivi, segnatamente nella Giustizia del mondo, i quali atti male corrispondono alle premesse del suo carattere: le superano per gli effetti. Egli gioisce troppo della sua abbiezione morale, gustando la voluttà acre del fango; troppo si compiace di avvelenare la felicità altrui, per solo desiderio del male, poiché non vi è nessun interesse proprio che lo muova; troppo chiaro egli vede in sé stesso, poiché con manifesta ostentazione si diletta soverchiamente a porre sopra i suoi giornali?libelli il marchio di un titolo come: Il Serpe ? La Vipera ecc. I bricconi non ammettono mai di esser tali; si sarebbe quasi tentati a credere che il dottorino abbia letto anche lui il titolo Un serpe che raggruppa i tre volumi, e siasi ingegnato per quanto poteva a giustificarlo. E la vita giornalistica, i retroscena politici dove domina il magno commendator Nevone; dove si scorge il profilo carezzevole di una di quelle tali profumate, che con vocabolo di sensualismo moderno ora si dicono le orizzontali, pare anche sentano alquanto di manierismo. Bisogna dire che l'autore, quando ne scrisse, non avesse pur avuta occasione di analizzare e cogliere dal vero, come è suo costume, le misteriosità della vita nei grandi centri mondani e politici. Altro appunto che pure egli si merita assai è quello dei nomi che usa. Soventi essi frizzano troppo la caricatura, e ricordano assai quelli umoristici del teatro piemontese. E quando non vogliono essere una caricatura, pare cerchino di esprimere anticipatamente il carattere della persona che li porta. In questi volumi il dottorino si chiama Tristano, perché è un briccone; sua madre si chiama per antonomasia la signora Orrenda, perché bruttissima; il conte senatore, perché grasso, naturalmente ha un nome che per questa sola ragione suona come un otre: Baudone; don Lanterna, l'arciprete, ha la grazia di questo nome, perché l'autore gli destinava una statura da corazziere o da tamburo maggiore; e, mancomale, lo speziale si chiama Pasticca: il nome meno medicinale che l'autore gli poteva dare, secondo il suo sistema. Così via via. I nomi sono una grande difficoltà, ma se ne deve aver cura, poiché la verosimiglianza loro ringagliardisce l'effetto, e rende più veri i personaggi. Onde il Faldella dovrebbe seguire, a preferenza, il sistema del Balzac, il quale - come è noto - andava copiando dalle insegne delle botteghe i nomi che gli occorrevano per la sua grandiosa Commedia umana. Ma a parte ciò; a parte talune scene troppo accentuate, troppo colorite, vi sono, in codesta trilogia, pagine d'una freschezza e d'una verità insuperabili, vive scenette di villaggio rese a perfezione, nelle quali alita un che di umorismo incosciente; come quando il flebotomo Clementino Riondella, messo alla porta dal dottor Giannozzi, cui era andato a domandare audacemente la mano della figliuola, trovandosi vestito da guardia nazionale per la solennità, pensa alla maestrina Cornelia. - Clementino pensò: "Tanto Battistina non può essere mia! tanto bisogna cambiare... E cambiare adesso come di qui a poco, tanto fa... Ora sono già vestito! Perché dovrei vestirmi un'altra volta? Perché dovrei sciupare l'acconciatura? Poi il regno di una buona moglie è in cucina... e Cornelia è una imperatrice in cucina... E poi me lo ha suggerito il medico stesso, il padre di Battistína... "Così ragionando fece fronte in dietro". E entrò dalla maestra, che cucinava, la quale "staccatasi dal fornello gli corse incontro". "Aveva il viso di bragia, i capelli zingareschi, il labbro inferiore morescamente rovesciato, l'occhio giudaico. "Era una ragazza capace di cogliere un marito al volo e di imbullettare un ragazzo alla sua prima freddura. "Clementino si pose la mano destra alla visiera del kepì, e si avanzò verso Cornelia con passo militare. Essa ritrosì di pari passo, dicendogli: "- Spettacolo! "E poi: - Ah! bricconcello di un cerusichino! Ha proprio il buon tempo che lo incalza. Sentiamo un po', che cosa è venuto a fare da me il signor capitano? "Clementino senza levare la mano dalla visiera fece bocca da ridere e rispose: "- Sono venuto da lei, signora maestra, a vedere se ha da vendermi dei lupini... "A quelle parole la maestra, con smanceria vergognosetta portò l'avambraccio sugli occhi: ninnò il suo personcino e disse: "Birichino di un cerusichino!... "E faceva più volteggiamenti che parole: sollevò il suo grembiule, e con esso ventilò, sfiorò il volto di Clementino, il quale montava su, su, in excelsis, in visibilio. Egli finì con l'afferrare le due mani di Cornelia, che fingevano stracca riluttanza, le serrò in un mucchietto dentro le sue palme, e poi, ondulando la bocca nel desiderio aereo di un bacio e musicando sottilmente la voce, disse: "- Cornelia? Dunque sì? "- Si...ì si...ì! - rispose Cornelia, strascicando un sibilo come lo zeffiro. - Si...ì. - E buttò indietro la capigliatura mora?zingaresca, che discese vorticosamente a invaderle le spalle; e spalancò l'occhio giudaico verso il soffitto. "Le braciuole scoppiettavano al fuoco dentro la maiolica di Castellamonte: e sprizzavano zaffate colme di un profumo da far mangiare i morti. Furono l'incenso, il tiamo ed il cinnamomo di una promessa nuziale". (Per capire l'entratura dei lupini, occorre notare che in taluni paesi del Piemonte l'ambasciata per la visita ad una ragazza da marito si comincia col pretesto, che si è venuti a vedere, se ci sono dei lupini a vendere.) La narrazione del consulto medico, la lotta scientifica fra il vecchio medico dell'antica scuola, ed il novello dottorino di scuola recentissima, è stupenda; seguono paesaggi di una freschezza inimitabile, scene di campagna che par di vedere veramente, quadretti resi con zelo, con scrupolo da pittore fiammingo; onde G. De Abate, in un sonetto che dedicò di recente all'autore sulla "Gazzetta letteraria" di Torino, ebbe ragione di dire di lui: "Egli è il Michetti delle mie pianure". Non importa per la definizione che le scene del consulto siano sulle colline del Monferrato; imperocché il Faldella si è manifestato pittore da bosco e da riviera, da pianura e da collina. Nei volumi del nostro paesista vi è - come dice Giacinto Stiavelli, che trova nel Faldella un investigatore profondissimo delle cose, uno stilista accurato e brioso come nessun altro - vi è da raccogliere una fiorita, la più olezzante, di osservazioni fine, profonde o bizzarre, quali le seguenti. "Le ragazze che amano si sentono pesare a loro stesse, e non possono muovere con disinvoltura le loro persone. Esse portano dentro loro degli universi. L'amore inchioda loro il cuore; e tutto il lecchetto del mondo restante non potrebbe più farle muovere e correre con vivezza. "...L'amore, anche turato bene, può durare incarcerato un estate, due estati, sette estati; ma ce ne viene poi uno così caldo e veemente che l'amore fa saltare il tappo e schizza via". L'azione, senza troppi aggrovigliamenti, è interessante, perché vi palpita veramente la vita, e si svolge via via, con inflessibile logica di disgrazie, che sono sempre la grande parte dell'esistenza; onde, attraverso l'allegria della forma, si sente un largo fondo di mestizia che sale fino a invadere tutto nella chiusa: Rassegna funebre. In quest'ultima parte, a beneficio della contessina Rosilde, ideale bellezza da Immacolata Concezione, angiolo diafano che si immalinconisce senza pur lo strascico di un marito degno di sublimarla a maternità, si ingemma un sonetto di Giovanni Camerana, "poeta austero, smagliante e profondo"; sonetto inedito per una Madonna nera, ispirato forse dal Nome di Maria del Manzoni, ma che olezza d'uno schietto sentimento di devozione campagnuola: Ave Maria, che dalla nicchia d'oro Nella rigida tua veste ingemmata, Negra in viso, ma bella, ascolti il coro, L'ingenuo coro della pia borgata. Ave Maria, di stelle incoronata, Curvo e triste nell'ombra io pur t'imploro; La valle imbruna, è il fin della giornata, Coi mandrian dell'Alpe io pur ti adoro. Tu che salvi dall'ira del torrente, Tu azzurra visïon nell'uragano, Tu ospizio fra le nevi ardue, tu olente Aura, in che orror mi affondo, in che agonia, L'onta, il ribrezzo, il gran buio crescente, Tu lo sai, tu lo vedi; - ave, Maria. E questo sonetto che la pia e mesta contessina ingioiellava "nel suo aureo libro di devozione alla pagina delle litanie della Vergine" finiva per essere imparato a mente anche dal confessore di lei, l'arciprete don Lanterna - una delle più riuscite figure del romanzo. - Egli "trovava densa di grandiosità quell'invocazione bisognosa di fede che negli abissi della noia e dell'angoscia accomuna al povero contadinello l'artista, l'erudito, il ricco; vera dimostrazione del gran circolo più che cristiano, umano, più che umano, psicologico, spirituale". E concludeva: "La più sincera estrinsecazione della fede si è la carità: unica speranza, unica promessa di letizia". Tutto sommato la trilogia del Faldella riesce uno dei più notevoli, robusti e sani lavori che siansi, in tal genere di letteratura, pubblicati in questi ultimi tempi: è un lavoro donde spira un potente alito di verità, e la cui lettura, mesta dopo tutto, fa aleggiare il pensiero in alti orizzonti con più intensa avidità del bene. Ma la Giustizia del mondo, quantunque ultimo volume che sia apparso del Faldella, non è il suo scritto più recente; nel 1882 la Casa Editrice di Angelo Sommaruga pubblicava in Roma colla consueta ed arrischiata sua eleganza di formato, di caratteri e di fregi, pubblicava di lui: Roma borghese. Assaggiature, opera pensata e scritta assai tempo dopo il Serpe, e che ora tocca già alla sua seconda edizione. Codeste assaggiature si riannodano, nel concetto, al Viaggio di Geromino a Roma; e l'autore ci annunzia già che verranno seguite da altri studi sullo stesso argomento. Lo scopo di tale studio ce lo rivela l'autore nella prefazione al volume; prefazione che ha intitolata: Interno ragionamento per un'opera completa. "...io avrei proprio in mente di intraprendere un lavoro che non fosse perfettamente inutile, un lavoro su Roma borghese (la chiamerei così, non per omaggio alla principesca famiglia di tal nome, ma per antitesi a Roma pretina, volendo dire Roma borghese per dire Roma secolarizzata; lo capisce un cretino). "Nel mio lavoro vorrei raggruppare e fondere tutte le mie osservazioni fatte in un quattrennio filato di corrispondente giornalistico alla "Gazzetta piemontese". La presente condizione storica di Roma è riguardevolissima, perché unica nella storia. Imperocché la città che da due millenni e mezzo ne ha già viste e fatte tante, non è mai stata quale è oggi: diventata capitale della libera nazione italiana, e rimasta capitale del mondo cattolico; monarchica, e munita di molta licenza dai superiori per le pubblicazioni e le dicerie più rivoluzionarie". Con questi intendimenti, egli ci ha dati quattro saggi notevolissimi. Il primo, Colonie buzzurre, è la fisiologia dei quartieri alti di Roma nuova, fatta con felicità di tocco, da acquarellista innamorato: "I quartieri nuovi dell'alta Roma si accampano come una consolazione, un rimprovero e un insegnamento a certi quartieri della bassa Roma confusi, addossati, lerci, affatto ciechi o neppure leccati dal sole, ricchi di pulci; acciocché anch'essi si lascino saettare dai dardi e rinsanguare dai rivi di vita nuova. "I gruppi delle nuove vie intitolate alle battaglie e agli assedi più belli del Risorgimento nazionale (Goito, Pastrengo, Palestro, San Martino, Gaeta) o nei nomi valorosi di Casa Savoia (Carlo Alberto, Vittorio Emanuele, Umberto, Amedeo,) o in quelli insigni e benemeriti di Cavour, Farini, Mazzini ecc. si contrappongono ai gruppi delle vecchie vie coi titoli imbruttiti di santi (San Stefano del Cacco, Santa Maria in... Cacaberis) o con quelli dei più umili mestieri (sediari, canestrati, chiavari, coronari), o con quelli degli stranieri Avignonesi, Portoghesi, Greci, Aragonesi, Spagnuoli ecc.". L'autore rende, con fresca vena di umorismo, l'interno di talune famiglie d'impiegati piemontesi dalle rendite sottili e dalle bocche numerose e voraci, che meditano e rimeditano, col bilancio alla mano, la spesa di un soldo, quale era appunto la famiglia Berleris: "Tutti gli otto bambini, avviluppati in un lusso di tovaglioli intorno al collo, pranzavano con un solo uovo lessato col guscio (a la greuja). Scocciato sulla punta, si piantava nell'ovarolo o nella saliera, in mezzo alla tavola. I bambini, per ordine di età, vi intingevano il pane grissino dentro. Una volta, Emanuele, il più piccino e più birichino, sprofondò due volte di seguito nell'ovo il suo grissino; e la mamma, spiritata, gridò: - Guarda che 't chërpe. Bada che scoppi!". E Faldella prosegue cesellando squisitamente, per finire con uno slancio lirico, augurando la fusione dei vari tipi italiani in nuove ebbrezze di forza e d'amore, colla speranza che "crescano figli forti e illuminati, che congiungano gli esempi di Furio Camillo e di Camillo Cavour, di Pietro Micca, di Cola da Rienzi e di Ferruccio...". Così, sognando con epico sentimento di patria rigenerata, gli par di vedere "le statue equestri di Emanuele Filiberto e di Marco Aurelio camminare di conserva e passare sotto il futuro grand'arco di Vittorio Emanuele, glorioso come quelli di Settimio Severo, di Tito e di Costantino". Il secondo studio intitolasi L'Arcadia, e nella prima parte è divertentissimo. L'autore incamminandosi la sera del 7 marzo 1880 verso il Serbatoio dell'Arcadia romana (palazzo Altemps) credeva "di dover scendere in iscavi" a ritrovare e "ricostruire una bellezza di mondo antico, il mondo metastasiano del Settecento, delle villanelle artificiali, srugginite, merlettate, profumate, incipriate, scollacciate, e palpitanti nei tiepidi avorii, e dei pastorelli di ciccia prelatizia, le zazzere mantecate, le facce rosse e lisce come pesche nocciuole, l'alito di rosolio, e i fruscianti codazzi serici di porpora o di viola: il mondo di Amarilli e di Mirtillo, di Corisca ed Ergasto, di Dorinda e di Dameta, di Fillide e di Elpino, di Aurisba e di Comante ecc.". Egli descrivendo la sala affollata del serbatoio ha fatto un quadro ammirabile, degno del pennello di Ruysdael. "In fondo della sala c'è una galleria per il pubblico di minor conto, come a dire seminaristi e pedine, mogli e figliuole dei maggiordomi clericali, parrucchieri, tonsori delle chieriche; nella platea fittamente insediati abatini di primo canto, abatoni, domenicani dal collo ingrassato nel bianco scapolare, facce tonde di minori o nulla osservanti, cappuccini austeri, asciutti, colle palpebre soccallate, la barba che lista il petto, ambe le mani sul rialzo delle ginocchia accavallate; nelle sedie chiuse un canestrone di canonici, monsignori, prelati lustri inzuppati di rigoglio come frutte mature, mozzette violacee a iosa, una fiera di vescovi e arcivescovi, e finalmente nei seggioloni d'orchestra una mezza serqua e più di cardinali: Alimonda, Meglia, Davanzo, Pecci, Pellegrini ecc., dal rosso zucchetto sigillato sulla cervice come un'ostia da lettere". Quindi, pennelleggiate sempre con vigoria di colorito, sfilano le moderne pastorelle appetitose che rendono gli occhi lustri ai seminaristi; sfilano turgide nella descrizione del Bosco Parrasio, ricetto estivo sul Gianicolo; ma il bozzetto così spigliato nella mossa ed in tutta la prima parte, si impiomba sul fine in una stanchezza improvvisa, ed avvizzisce in un sermone che l'autore volle fare a giustificazione presente e passata della belante ed infiocchettata Accademia. Viene poscia nel volume La morte di un giornalista, e sono pagine commoventi dedicate a Salvatore Farina, che narrano con forte e pietoso sentimento di fraterna amicizia la morte di Roberto Sacchetti, l'autore di Cesare Mariani, di Tenda e castello, Castello e cascina, Candaule, ed Entusiasmi; l'amico ed il confortatore di Praga, del quale continuò le Memorie del Presbiterio, ultimandole e dettandone pochi giorni prima di morire, dal letto, la prefazione. Roberto Sacchetti "consumatosi nella lotta" era venuto a Roma quale corrispondente ordinario della "Piemontese", quando il Faldella assidevasi in Montecitorio, ed i due amici continuarono fraternamente la loro vita di giornalisti; ma la morte doveva abbattere d'improvviso il Sacchetti nella pienezza della sua gagliardia intellettuale; il lavoro eccessivo, a cui si condannava, lo aveva prostrato. Il Faldella lo ha ritratto stupendamente con squisitezza di tocco: "Sacchetti era silenzioso. Davanti alle prime impressioni, egli non era espansivo: raccoglieva, filtrava, assimilava... guardava fissamente mutolo coi suoi occhi orientali e colle tempie rosse e secche. Diventava poi espansivo parlando e scrivendo, quando si trovava nel secondo periodo di riferire le cose mentalmente elaborate, digerite... "Allora eterizzava, elettrizzava, polarizzava, magnetizzava, fecondava, completava le impressioni sue ed anche quelle sentite da altri". E più oltre, quando narra degli ultimi momenti del povero artista, l'autore ha un'elevazione gagliarda nella mestizia, che turba profondamente l'animo: "Eravamo nella camera io, il domestico di Mora, un selvaggio della campagna romana, e la giovane portinaia, Isolina, una Ofelia toscana. "Mi ricordo, come di una visione, dell'apparizione d'una giovane signora, sconosciuta, forse una compagna di collegio di qualche signora parente di Sacchetti, la quale le aveva telegrafato per quell'ufficio di misericordiosa assistenza. "Quella signora elegante, esile e bella, con un collo sottile che pareva un gambo di fiore, fu l'ultima coraggiosa infermiera che si curvò sul letto dell'ammalato. "Egli, che conservava forse il sentimento estetico, se ne dimostrava negli occhi contento, come all'apparizione di un angelo al suo capezzale di morte... e interrogava me collo sguardo, quasi per saperne il nome. Le sue mani, l'una nelle mie mani, e l'altra nelle mani della signora, brancicavano con soddisfazione di pace; sopravvenivano telegrammi che mi invitavano a baciarlo. Lo baciai sulla fronte...". E Roberto Sacchetti passò serenamente. Vien quarto ed ultimo assaggio di Roma borghese, Un viaggiatore piemontese, il quale è nientemeno che il capitano Celso Cesare Moreno, celebre nei due mondi e speciale martello, per qualche tempo, del giornalismo italiano, uomo di merito e di azione dopo tutto, tipo da capitan Dodero, o da viaggio straordinario di Jules Verne, tipo che il Faldella ha studiato e pennelleggiato con vivacità ed energia nel suo gustoso studio. Nello scrivere queste assaggiature il Faldella tenne certo a mente il consiglio di Giosuè Carducci; l'aria circola frizzante a ravvivare i periodi; vi è minor affastellamento di colori, quindi il colorito è più discernibile e vivace; e l'originalità dello scrittore vi appare più salda nella sapiente parsimonia dei vocaboli scelti con più acume, disposti con più misura; onde un effetto più intenso. Lo scrittore, via via, si è venuto facendo meno arzigogolato e più elaboratamente individuale; cosicché la sua potenzialità è maggiore. Infatti il lettore meglio si assimila le sue idee, e più nette scorge le cose che egli rende con frase immaginosa e nuova. Faldella usa sempre largamente i paragoni, e questa è una sua ricchezza, poiché per mezzo dei paragoni si pone in evidenza il nesso arcano che collega tutto, uomini e cose, ogni più varia manifestazione in una colossale ed eloquente parentela. Certo non sempre le immagini sono esatte; e per voler troppo rappresentare a volte egli si sforza, falla il segno, fa sorgere una nebbia di frasi sulle cose, o si confonde in pieno barocco; allora ne vengono fuori certi suoi periodi che molti giornali si compiacquero a porre in evidenza, tacendone quelli di bellezza tersa e cristallina: ne vengono fuori trovate di questa sorta: "La signorina Battistina, con le mani ìncrocicchiate sui ginocchi, con il busto leggermente penzolo come statua della fiducia in Dio, o come colomba che stesse per pigliare il volo, con un sorriso da cherubino sul bottone delle labbra e gli occhi bucati da tagli di diamante, annuiva, applaudiva ecc.". E quest'altra: "L'arciprete si fregò le mani, e poi, ripostosi un dito nella fossetta della gola, fece dei nastri per la stanza". Forse sarebbe stato più chiaro, più esatto dire che faceva la spola per la stanza, ché dei nastri non ne lasciava davvero. Questa frase fare dei nastri, per il passeggiare lungamente e ripetutamente nello stesso luogo, che si dice pure fare le volte del leone in gabbia, quantunque sia una frase adoperata dal Giusti nell'Epistolario e da Edmondo De Amicis e sia usitatissima in Toscana, specialmente a Pescia, che ha una piazza lunga e stretta, dove la gente va a fare i così detti nastri, è una frase che mi sa di tenia. E la frase dialettale monferrina "dormir sodo come una ripa" ha una pretesa omerica senza fondamento. Ad ogni modo, come ebbe a scrivere Théophile Gautier in Fortunio, ogni montagna suppone una vallata, come una torre suppone un pozzo; né si può avere l'altezza siderea senza la profondità equivalente. E un artista indipendente, come il Faldella, che colla squisitezza di un temperamento eccezionale ritrae colla penna il mondo da lui osservato ed intuito; e lo rende colle sensazioni genuine che gli sorgono spontaneamente ed improvvise nell'animo e nella mente, subisce inevitabili prostrazioni tanto maggiori quanto più è affinato il suo senso artistico. Ed in quelle prostrazioni inconsce, pur producendo immagini per la ressa delle idee, egli deve necessariamente riuscire meno felice e meno efficace. E fors'anco, segnatamente nei suoi primi lavori, per la foga che gli prese di ingolfarvi dentro una quantità di piemontesismi, di frasi scelte e di modi di dire classici, di proverbi locali, senza badare se ne meritassero l'alto onore, o se fossero locuzioni già corrotte destinate a sparire dall'uso, o a restringersi in una limitata cerchia vitale, accadde che molte parti dei suoi lavori rimasero incomprensibili dalla maggioranza dei lettori; e quindi affette da una tal quale paralisi progressiva. Ma il suo stile si è col tempo forbito, si è fatto più lucido, quindi dà più facili effetti, talché gli aumentano ogni giorno i lettori; i quali, fatta la bocca, mordono con festevolezza avida, nel frutto un po' agretto ma sano, ma tonico. Ed ora, anche oltre le immani ondulazioni dell'Atlantico, egli conta lettori; poiché, di recente, un immenso giornale americano ha pubblicato un succoso studio su di lui. "Una gentile signora, - ricorda Nino Pettinati - artista essa stessa, paragonava testè i libri del Faldella a certe musiche tedesche. A primo udirle - essa scriveva - e specialmente per chi non v'abbia l'orecchio un poco avvezzo, sembra che riescano soverchiamente affollate di note, di astruserie, di piccinerie, talora persino di stonature e di caricature. Ma poi riudendole bene si comincia a sentire che sotto tutto quell'avviluppo la melodia si svolge piana, dolce, ineffabilmente espressiva, e alla fine quando si cerca un modo di semplificarle, queste musiche, ci si accorge che ognuna di quelle note, di quelle astruserie, di quelle stonature è la melodia medesima...". Paragone signorile codesto, che esprime con fínezza di gusto artistico, l'effetto che veramente fanno le pagine dello scrittore piemontese. Sul finire dello scorso anno 1883, nell'affermarsi della Pentarchia politica in opposizione al Patriarcato di Stradella, il Faldella, invitato specialmente da Giuseppe Zanardelli e dal Roux, si risolvette ad essere collaboratore straordinario del nuovo giornale di opposizione diretto dal predetto deputato Roux "La Tribuna". Lo si vide allora ricomparire a Roma a meriggiare sul Corso, tranquillo osservatore ed investigatore della via; a furettare appassionatamente in mezzo a bibliotecari stagionati e preti tabaccosi, tra i libri vecchi, tarlati, ammonticchiati il mercoledì sui banchi di Campo di Fiori, come in ogni ricettacolo di carte stampate; lo si vide extra muros a passeggiare serenamente riflessivo fra ruderi venerandi insieme con amichevoli ed eleganti compagnie. Ma nella "Tribuna" egli scrisse pochissimi articoli politici; a quando a quando vi pubblicava invece pensati articoli di arte, riviste, studi letterari, sociali; così vi scrisse con acume di Flaubert, con finezza di Sbarbaro, con intendimenti filosofici del carnevale, con elevatezza di concetti e di giudizi in morte di Francesco De Sanctis ecc. Poscia d'un tratto sparve, e si seppe che, avido di paesaggio e di sole, era corso a rifugiarsi nel suo villaggio. Giovanni Faldella è di mezzana statura e di robusta complessione; ha testa forte, voluminosa, fronte ampia, pallida, vigorosa, da pensatore; capigliatura violenta, foltissima a ondulazioni castane, occhi miopi ceruli, d'una dolcezza femminea, i quali, come quelli del Daudet, vedono tutto e tutti, soccorsi dalla concavità delle lenti; ha naso dritto, accentuato, guance colorite dalla salute, baffi e barba d'un color alquanto più chiaro dei capelli: una barbetta "appuntata e lunghetta che ricorda il profilo degli antichi mitologici protettori delle selve, grandi adoratori di profumi campestri, di gradazioni di tinte verdi, di succhi d'erba, di rezzi e di boschi intricati" come scrisse di lui il nomade, fertile, audace e geniale poeta socialista lombardo Fernando Fontana. Fra le curve morbide dei baffi si scorgono soventi le sue labbra rosee a schiudersi ad un sorriso buono. Ha indole quieta ma capace di scatti improvvisi che tosto si posano; cammina sollecito, e lietamente contento della vita che lo accarezza, e dell'arte che gli procura profonde, intense ed intime soddisfazioni. Chiacchiera volontieri, con abbandono fiducioso, ed è espansivo cogli amici intimi, colora le frasi a rapidi tocchi, con smaglianti pennellate di parole immaginose, e rifugge dalle noie, da ogni lavoro che non torni armonico alla sua indole libera, alle sue tendenze intellettuali. Sente profondamente l'amicizia, e ne diede ampia ed affettuosa prova nell'assistenza che fece, con altri amici, al povero Roberto Sacchetti agonizzante; simpatizza vivamente per i caduti, per quanti soccombono alle strette della necessità, pur avendo ingegno, ma che non trovano la loro via; per quanti si ribellano alle pressioni ed ai freni artificiosi della esistenza, alle ingiustizie elevate soventi a dignità di legge, dimostrando in tal guisa di essere qualche cosa, una individualità che abborre dall'assorbimento e dallo scoloramento. E sovrattutto egli ama gli spazi ampi all'aria aperta, ossigenata, le linee quiete e grandiose della campagna che baciano l'immensità azzurrina del cielo. Nella sua Saluggia, egli vagabonda osservando e meditando. E nella pace fruttifera della sua camera da lavoro, fra gli alti scaffali che salgono, densi di volumi antichi e moderni, ad intonacare le pareti, fra il silenzio alto che gli è necessario, appena ombrato dalla gaia pispilloria degli uccelli fra gli alberi, egli accatasta le sue nitide cartelle, miniando, con serena coscienza di artista, le idee che gli si affollano festosamente in capo, facendo rivivere le cose studiate con amore, i paesaggi ed i costumi contadini che analizza con estrema finezza, e le scene tormentose dei grandi centri, nei quali si è tuffato come l'ape operosa nel fiore a raccogliere l'essenza mellifera. Ed a Saluggia egli ha composto i suoi migliori lavori, forse perché l'ingegno suo si fa più potentemente produttore sotto l'alito carezzevole della mamma venerata, che in lui giustamente s'inorgoglisce; sotto l'azione della parola tonica, altamente onesta del padre suo, buon vecchio dalla vita intemerata, medico dotto e benefico del suo paesello del quale fu sindaco sin dal Regno di Carlo Alberto, amico caro a Luigi Carlo Farini, con cui faticò eroicamente per combattere il colera in quelle terre, uomo di ingegno aperto e vivace, al quale solo una modestia eccessiva e l'amore ineffabile della casa, della famiglia e del villaggio tolsero di rendersi più largamente noto prendendo più intensamente parte alla vita pubblica. Ed in quel mite e dolce ambiente patriarcale Giovanni Faldella, ormai nella piena virilità del suo forte ingegno, che assurge spiccatamente fra gli ingegni più vigorosi ed originali dei nostri giorni, ci potrà dare nuove opere improntate a gagliardia di concetti e ad elevatezza di intenti, nella schietta rappresentazione della vita. CARLO ROLFI Roma, aprile 1884.

IL Santo

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Fogazzaro, Antonio 9 occorrenze

Don Clemente celebrò messa verso le sette, parlò coll' Abate e poi si recò all' Ospizio dei pellegrini. Trovò Benedetto addormentato con le braccia in croce sul petto, le labbra socchiuse, il viso composto a una visione interna di beatitudine. Gli accarezzò i capelli, lo chiamò sottovoce. Il giovine si scosse, alzò, smarrito, il capo, balzò dal letto, afferrò e baciò la mano a don Clemente che la ritrasse con un impeto di umiltà frenato subito dal suo pudore d'anima, dalla coscienza dignitosa del suo ministero. "Dunque?" diss'egli. "Il Signore ti ha parlato?" "Sono nella Sua volontà" rispose Benedetto "come una foglia nel vento. Come una foglia che non sa niente." Il monaco gli prese il capo a due mani, lo attirò a sé, gli posò le labbra sui capelli, ve le tenne a lungo in una silenziosa comunicazione di spirito. "Devi andare dall' Abate" diss'egli. "Dopo verrai da me." Benedetto lo fissò, lo interrogò senza parole: perché questa visita? Gli occhi di don Clemente si velarono di silenzio e il discepolo si umiliò in uno slancio muto ma visibile di obbedienza. "Subito?" diss'egli. "Subito." "Posso lavarmi al torrente?" Il Maestro sorrise: "Va, lavati al torrente." Lavarsi all'acqua che talvolta, per abbondanza di pioggie, suona nella valle Pucceia a levante del monastero e taglia di rigagnoli la via del Sacro Speco sotto Santa Crocella, era il solo piacere fisico che Benedetto si concedesse. Piovigginava; nebbie fumavano lente nel vallone alto, le tremole acque tenui si dolevano a Benedetto fuggendo attraverso la via, gli tacevano contente nel cavo delle mani, gl'infondevano per la fronte, gli occhi, le guance, il collo, fino al cuore, un senso della loro anima casta, dolce, un senso di bontà Divina. Benedetto si versò l'acqua sul capo largamente, e lo spirito dell'acqua gli alitò nel pensiero. Sentì che il Padre lo avviava per novo cammino, che ve lo avrebbe portato nella Sua mano potente. Benedisse riverente la creatura per la quale gli si era infuso tanto lume di grazia, l'acqua purissima; e ritornò all' Ospizio. Don Clemente, che lo attendeva nel cortile, trasalì al vederlo; tanto gli parve trasfigurato. Sotto la Selva umida dei capelli in disordine gli occhi avevano una quieta gioia celestiale, e lo scarno viso di avorio una spiritualità occulta quale fluiva dai pennelli del Quattrocento. Come poteva quel volto accordarsi con gli abiti contadineschi? Don Clemente si applaudì in cuor suo di un pensiero concepito nella notte e già espresso all' Abate: dare a Benedetto un vecchio abito di converso. Prima di concedere o rifiutare il proprio consenso, l' Abate voleva vedere Benedetto, parlargli. L' Abate aspettava Benedetto suonando un pezzo di sua composizione con le nocche delle dita, e accompagnando il suono con diabolici storcimenti delle labbra, delle narici, delle sopracciglia. Udito bussar discretamente all'uscio, non rispose né tralasciò di suonare. Terminato il pezzo, lo ricominciò, lo suonò una seconda volta da capo a fondo. Poi stette in ascolto. Fu bussato ancora, più lievemente di prima. L' Abate esclamò: "Seccatore!" E, strappati alcuni accordi, si pose a fare delle scale cromatiche. Dalle scale cromatiche passò agli arpeggi. Poi stette ancora in ascolto, per tre o quattro minuti. Non udendo più nulla, andò ad aprire, vide Benedetto che s'inginocchiò. "Chi è costui?" diss'egli, ruvido. "Il mio nome è Piero Maironi" rispose Benedetto "ma qui al monastero mi chiamano Benedetto." E fece l'atto di prender la mano dell' Abate per baciarla. "Un momento!" disse l' Abate, accigliato, ritraendo e alzando la mano. "Cosa fate qui?" "Lavoro nell'orto del monastero" rispose Benedetto. "Sciocco!" esclamò l' Abate. "Domando cosa state facendo qui davanti alla mia porta!" "Ero per venire da Vostra Paternità." "Chi vi ha detto di venire da me?" "Don Clemente." L' Abate tacque, considerò lungamente l'uomo inginocchiato, poi brontolò qualche cosa d'incomprensibile e finalmente gli porse la mano a baciare. "Alzatevi!" diss'egli ancora brusco. "Entrate! Chiudete l'uscio!" L' Abate, entrato che fu Benedetto, parve dimenticarlo. Inforcò gli occhiali, si pose a sfogliare libri e a leggere carte, voltandogli le spalle. Benedetto aspettava diritto in piedi, con ossequio militare, ch'egli parlasse. "Maironi di Brescia?" disse l' Abate, con la voce ostile di prima e senza voltarsi. Avuta la risposta, continuò a sfogliare e a leggere. Finalmente si levò gli occhiali e si voltò. "Cosa siete venuto a fare" diss'egli "qui a Santa Scolastica?" "Sono stato un gran peccatore" rispose Benedetto. "Iddio mi ha chiamato fuori del mondo e fuori ne son venuto." L' Abate tacque un momento, guardò fisso il giovine, disse con dolcezza ironica: "No, caro." Trasse la tabacchiera, la scosse ripetendo dei piccoli "no - no - no" quasi sotto voce, guardò nel tabacco, vi piantò le dita e levati gli occhi da capo su Benedetto, gli disse articolando lentamente le parole: "Questo non è vero." Ghermita la presa con il pollice, l'indice e il medio, alzò la mano rapidamente come per gettar il tabacco in aria e proseguì con il braccio alzato: "Sarà vero che siete stato un gran peccatore, ma non è vero che siate venuto fuori del mondo. Non siete né fuori né dentro." Fiutò rumorosamente la sua presa e ripeté: "Né fuori né dentro." Benedetto lo guardava senza rispondere. Vi era in quegli occhi qualche cosa di tanto grave e di tanto dolce che l' Abate riabbassò i suoi alla tabacchiera aperta, tornò a frugarvi, a giocherellare col tabacco. "Non vi capisco" diss'egli. "Siete nel mondo e non siete nel mondo. Siete nel monastero e non siete nel monastero. Ho paura che la testa vi serva come a vostro bisnonno, a vostro nonno e a vostro Padre. Belle teste!" Il viso di avorio di Benedetto si colorò lievemente. "Sono anime in Dio" diss'egli "Superiori a noi; e le parole Sue vanno contro un comandamento di Dio." "Fate silenzio!" esclamò l' Abate. "Dite di avere lasciato il mondo e siete pieno del suo orgoglio. Se volevate lasciare il mondo sul serio, dovevate cercare di farvi novizio! Perché non l'avete cercato? Avete voluto venir qua in villeggiatura, ecco la storia. O forse avevate degl'impegni a casa vostra, dei pasticci, mi capite! Nec nominentur in nobis. E avete voluto liberarvi per farne poi degli altri. E contate delle frottole a quel buon don Clemente, prendete il posto a un povero pellegrino, eh dite su, magari cercando di darla a intendere ai frati, che è facile, e a Domeneddio, che è difficile, con orazioni e sacramenti. Non dite di no!" Il lieve rossore si era dileguato dal viso di avorio, le labbra apertesi un momento a parole pacatamente severe non si muovevano più, gli occhi penetranti fissavano l' Abate con la dolce gravità di prima. E l' Abate parve inasprito da quel silenzio tranquillo. "Parlate, dunque!" diss'egli "Confessate! Non vi siete anche vantato di doni speciali, di visioni, che so io, di miracoli forse anche? Siete stato un gran peccatore? Mostrate che non lo siete ancora! Scolpatevi, se potete. Dite come avete vissuto, spiegate la vostra pretensione che Iddio vi abbia chiamato, giustificatevi di essere venuto a mangiare il pane dei frati a ufo, perché frate non avete voluto essere e quanto a lavorare avete lavorato ben poco!" "Padre" rispose Benedetto e il tôno severo della voce, la severa dignità del volto mal si accordavano con la mansuetudine umile delle parole, "questo è buono per me peccatore che da tre anni vivo, per lo spirito, nella mollezza e nelle delizie, vivo nella pace, vivo nell'affetto di persone sante, vivo in un'aria piena di Dio. Le Sue parole sono buone e dolcissime all'anima mia, sono una grazia del Signore, mi hanno fatto sentire con le loro punte quanto orgoglio vi è ancora in me che non lo sapevo, perché nel disprezzarmi da me sentivo piacere. Come servo, poi, della santa Verità, le dico che la durezza non è buona neppure con uno che inganna, perché forse la soavità lo farebbe pentire del suo inganno; e che nelle parole della Paternità Vostra non è lo spirito del nostro Padre solo e vero, al quale sia gloria." Nel dire "al quale sia gloria" Benedetto cadde ginocchioni, acceso in viso da un fervore augusto. "Sei tu, peccatore tristo, che vuoi fare il Maestro?" esclamò l' Abate. "Ha ragione, ha ragione" rispose Benedetto di slancio, affannosamente e giungendo le mani. "Ora Le dico il mio peccato. Desiderai l'amore illecito, mi compiacqui della passione di una donna ch'era d'altri come d'altri ero io e l'accettai. Lasciai ogni pratica di religione, non curai di dare scandalo. Questa donna non credeva in Dio e io disonorai Dio presso di lei colla mia fede morta, mostrandomi sensuale, egoista, debole, falso. Iddio mi richiamò colla voce dei miei morti, di mio Padre e di mia madre. Mi allontanai allora dalla donna che mi amava, ma senza vigore di volontà, ondeggiando nel mio cuore fra il bene e il male. In breve ritornai a lei, tutto ardente di peccato, conoscendo di perdermi e risoluto a perdermi. Non vi era più un atomo di volontà buona nell'anima mia quando una mano morente, cara, santa, mi afferrò e mi salvò." "Guardatemi bene" disse allora l' Abate senza farlo alzare. "Avete mai fatto sapere a nessuno ch'eravate qui?" "A nessuno. Mai." L' Abate rispose secco: "Non vi credo." Benedetto non batté ciglio. "Voi sapete" ripigliò l' Abate "perché non vi credo." "Lo suppongo" rispose Benedetto piegando il viso. "Peccatum meum contra me est semper." "Alzatevi!" comandò l'inflessibile Abate. "Io vi caccio dal monastero. Ora vi recherete a salutare don Clemente nella sua cella e poi partirete per non ritornare mai più. Avete inteso?" Benedetto assentì del capo, ed era per piegare il ginocchio all'omaggio di rito quando l' Abate lo trattenne con un gesto. "Aspettate" diss'egli. Rinforcò gli occhiali, prese un foglio di carta e vi scrisse, stando in piedi, alcune parole. "Cosa farete" disse scrivendo "quando sarete fuori?" Benedetto rispose piano: "Il bambino preso in braccia dal Padre mentre dormiva, sa egli cosa il Padre farà di lui?" L' Abate non replicò niente, finì di scrivere, pose il foglio in una busta, la chiuse, la tese, senza voltare il capo, a Benedetto che gli stava dietro le spalle. "Prendete" disse "portate a don Clemente." Benedetto gli chiese il permesso di baciargli la mano. "No, no, andate via, andate via!" La voce dell' Abate tremava di collera. Benedetto ubbidì. Appena fu nel corridoio udì l'uomo incollerito strepitare sul piano. Prima di entrare nella celletta di don Clemente, Benedetto si fermò davanti alla grande finestra che termina il corridoio. Ivi si era trattenuto, poche ore prima, il Maestro a contemplare i lumi di Subiaco pensando la nemica, la creatura di bellezza, d'ingegno, di naturale bontà, venuta forse a contendergli il suo figliuolo spirituale, a contenderlo a Dio. Ora il figliuolo spirituale era misteriosamente certo che la donna male amata da lui nel tempo del suo gravitare cieco e ardente sulle cose inferiori, aveva scoperto la sua presenza nel monastero e sarebbe venuta a cercarlo. Disceso dentro lo Spirito interno al proprio cuore, egli vi attingeva un pio sentimento del Divino ch'era pure in lei, ascoso a lei stessa, una mistica speranza che per qualche oscura via ella pure arriverebbe un giorno al mare di Verità eterna e di amore, che attende tante povere anime erranti. Don Clemente lo aveva udito venire e aperse a mezzo l'uscio della cella. Benedetto entrò, gli porse la lettera dell' Abate. "Debbo lasciare il monastero" diss'egli, sereno. "Subito e per sempre." Don Clemente non rispose, aperse la lettera. Letta che l'ebbe, osservò a Benedetto, sorridendo, che la sua partenza per Jenne era stata decisa fin dalla sera precedente. Vero, ma l' Abate aveva detto: per non ritornare mai più. Don Clemente aveva le lagrime agli occhi e sorrideva ancora. "Lei è contento?" disse Benedetto, quasi dolente. Oh, contento! Come avrebbe potuto dire il suo Maestro, quel che sentiva? Partiva il discepolo diletto, partiva per sempre, dopo tre anni di dolce unione spirituale; ma ecco, l'ascosa Volontà si era manifestata, Iddio lo toglieva dal monastero, lo chiamava per altre vie. Contento! Sì, afflitto e contento, ma della sua contentezza non poteva dire il perché a Benedetto. La parola Divina non avrebbe avuto valore per Benedetto s'egli non la intendeva da sé. "Contento, no" diss'egli. "In pace, sì. Noi c'intendiamo, vero? E adesso raccogliti per le mie parole ultime, che spero ti saranno care." Don Clemente, nel dir così a voce bassa, si colorò tutto di rossore. Benedetto piegò il capo a lui che gl'impose ambo le mani con dignità soave. "Desideri" disse la virile voce piana "dare tutto te stesso alla Verità Suprema, alla sua Chiesa visibile e invisibile?" Come se si fosse atteso a quell'atto e a quella domanda, Benedetto rispose pronto con voce ferma: "Sì." La voce piana: "Prometti tu, da uomo a uomo, vivere senza nozze e povero fino a che io ti sciolga della tua promessa?" La voce ferma: "Sì." La voce piana: "Prometti tu essere sempre obbediente all'autorità della Santa Chiesa esercitata secondo le sue leggi?" La voce ferma: "Sì." Don Clemente attirò a sé il capo del discepolo e gli parlò sulla fronte: "Ho chiesto all' Abate di poterti dare un abito di converso, perché uscendo di qua tu porti sopra di te almeno il segno di un umile ministero religioso. L' Abate, prima di decidere, ha voluto parlarti." Qui don Clemente baciò il discepolo in fronte, significando così il giudizio dell' Abate dopo il colloquio, chiudendo in quel bacio silenzioso parole di lode, non credute convenienti al suo carattere paterno né alla umiltà del discepolo. E non si avvide che il discepolo tremava da capo a piedi. "Ecco" diss'egli "quel che l' Abate scrive dopo averti parlato." Mostrò a Benedetto il foglio dove l' Abate aveva scritto: "Concedo. Fatelo partire subito perché io non sia tentato di trattenerlo." Benedetto abbracciò di slancio il suo Maestro e gli appoggiò la fronte a una spalla, senza parlare. Don Clemente mormorò: "Sei contento? Adesso te lo domando io." Ripeté due volte la domanda senza ottenere risposta. Venne finalmente un sussurro: "Posso non rispondere? Posso pregare un momento?" "Sì, caro, sì." Accanto al lettuccio del monaco, alta sopra l'inginocchiatoio, una grande croce nuda diceva: Cristo è risorto, configgi ora tu a me l'anima tua. Infatti qualcuno, forse don Clemente, forse un suo predecessore, vi aveva scritto sotto: "omnes superbiae motus ligno crucis affigat. " Benedetto si stese bocconi a terra, posò la fronte ov'eran da posare le ginocchia. Per la finestra aperta della cella uno scialbo lume del cielo piovoso batteva, di sghembo, sul dorso dell'uomo prosteso e dell'uomo ritto in piedi con la faccia levata verso la croce grande. Il mormorio della pioggia, il rombo dell' Aniene profondo avrebbero detto a Jeanne uno sconsolato compianto di tutto che vive sulla terra e ama. A don Clemente dicevano un consenso pio della creatura inferiore con la creatura supplice al Padre comune. Benedetto non li udiva. Egli si alzò, pacato in viso, vestì, a un cenno del Maestro, la tonaca di converso stesa sul letto, cinse la cintura di cuoio. Vestito che fu, si mostrò, aprendo le braccia e sorridendo, al Maestro, che si compiacque di vederlo così dignitoso, così spiritualmente bello in quell'abito. "Lei non ha inteso?" disse Benedetto. "Non ha pensato una cosa?" No, don Clemente aveva pensato che quella gran commozione di Benedetto fosse stata effetto di umiltà. Adesso capiva che altro gli sarebbe dovuto venire in mente; ma cosa? "Ah!" esclamò a un tratto. "Forse la tua Visione?" Certo. Benedetto si era visto morire sulla nuda terra, all'ombra di un grande albero, nell'abito benedettino; e argomento di non credere nella Visione giusta i consigli di don Giuseppe Flores e di don Clemente gli era stata la contraddizione di ciò con la sua ripugnanza strana per i voti monastici, venutagli sempre crescendo da quando aveva lasciato il mondo. Ora questa contraddizione pareva dileguarsi; pareva quindi risorgere la credibilità di un carattere profetico della Visione. Don Clemente ne conosceva questa parte e avrebbe potuto leggere nel cuore di Benedetto il suo sbigottimento al riaffacciarsi di un misterioso disegno Divino sopra di lui, il suo terrore di cadere in peccato di superbia. Non ci aveva pensato. "Non pensarci neppure tu" diss'egli. E si affrettò a mutar discorso. Gli diede una lettera e dei libri per l'arciprete di Jenne. Intanto l'arciprete lo avrebbe ospitato. Se dovesse restare a Jenne o no, ritornare, in questo caso, a Subiaco o recarsi altrove, glielo farebbe sapere la Divina Provvidenza. "Padre mio" disse Benedetto "proprio non penso cosa sarà di me domani. Penso unicamente questo: "magister adest et vocat me" ma non come una voce sovrannaturale. Ho avuto torto di non capire che il Maestro è presente sempre e chiama sempre: me, Lei, tutti. Basta farsi un po' di silenzio nell'anima, la sua voce si sente." Un raggio fioco di sole entrò nella cella. Don Clemente pensò subito che, se cessasse di piovere, la signora Dessalle verrebbe probabilmente a visitare il monastero. Non disse niente ma la sua inquietudine interna si tradì con un trasalire della persona, con un'occhiata al cielo, che significarono a Benedetto come fosse tempo di partire. Egli domandò in grazia di poter pregare, prima nella Chiesa di Santa Scolastica e poi al Sacro Speco. Il sole si nascose, ricominciò a piovere, Maestro e discepolo scesero insieme nella Chiesa, vi si trattennero in preghiera l'uno accanto all'altro e fu quello il loro solo addio. Benedetto prese la via del Sacro Speco alle nove. Uscì di Santa Scolastica inosservato, mentre fra Antonio stava confabulando col messo di Giovanni Selva. In quel momento, il lume del sole redivivo riaccese rapidamente i vecchi muri, la via, il monte; acuto gioire, ali veloci di uccelletti ruppero in ogni parte il verde, e alle sue labbra salì spontanea la parola: "Vengo."

Don Clemente ne aveva ottenuto il permesso dal Padre Abate, stando lui, Giovanni, al monastero; e gliel'aveva detto subito. Verrebbe e condurrebbe seco quel garzone ortolano di cui gli aveva parlato, per farglielo conoscere. Così un'altra volta l'ortolano verrebbe solo e gl'insegnerebbe a rincalzar le patate nel campicello dietro la villa che Giovanni aveva pure preso in affitto per lavorarlo con le proprie mani. Questa del lavoro manuale era una piccola mania di Giovanni, venutagli tardi, che dispiaceva un poco a Maria, parendole cosa non più conveniente alle sue abitudini, alla sua età. La rispettava, però, e tacque. In quel momento la ragazza di Affile che li serviva entrò ad avvertire che quei signori stavano salendo la scala, e che la cena sarebbe pronta subito. Tre persone salivano infatti per la scaletta a chiocciola del villino. Giovanni scese loro incontro. Il primo era il suo giovane amico di Leynì, che si scusò, salutandolo, di precedere i compagni, due ecclesiastici. "Sono il cerimoniere" diss'egli. E li presentò lì sulla scala: "Il signor Abate Marinier, di Ginevra. Don Paolo Farè, di Varese, che Lei conosce già di nome." Selva rimase un po' perplesso ma poi si affrettò a far salire i suoi visitatori, li avviò alla terrazza dov'erano già disposte delle sedie. "E Dane?" diss'egli, inquieto a di Leynì, pigliando a braccetto."E il professor Minucci? E il Padre Salvati?" "Sono qui" rispose il giovine sorridendo. "Sono all'Aniene. Le racconterò, è tutta una storia, verranno subito" Intanto l' Abate Marinier esclamava uscendo sulla terrazza: "Oh, c'est admirable!" E don Paolo Farè, da buon comasco, mormorava:"sì, bello, bello," col tôno discreto di chi pensa:"Ma se vedeste il mio paese!". Sopraggiunse Maria, si rinnovarono le presentazioni e di Leynì raccontò la sua storia, mentre Marinier girava i piccoli occhi scintillanti per il paesaggio, dalla piramide di Subiaco, quinta fosca del chiaro sfondo di ponente, ai prossimi carpineti selvaggi del Francolano che serra, scuro e grande, il levante. Don Farè divorava con gli occhi Selva, l'autore di scritti critici sul Vecchio e Nuovo Testamento, e particolarmente di un libro sulle basi della futura teologia cattolica, che avevano innalzata e trasfigurata la sua fede. La storia del barone di Leynì era che alla stazione di Mandela tirava un gran vento, che il professore Dane temeva forte di esservisi buscata un'infreddatura, che sospettando di non trovare cognac in casa di un odiatore dell'alcool come il signor Selva, ed essendo anche l'ora in cui soleva pigliare ogni giorno due uova, s'era fermato all'Albergo dell' Aniene per avere le uova e il cognac ; che sulla terrazza della trattoria, verso il fiume, c'era troppa aria e negli stanzini attigui troppa poca; che si era fatto servire il suo pasto in una camera dell'albergo e aveva rimandato le uova due volte; che loro erano partiti a piedi lasciando il professore Minucci e il Padre Salvati a tenergli compagnia. Poiché il delicato, freddoloso professore Dane non c'era, Giovanni propose il cenare sulla terrazza. Ne smise però subito l'idea vedendo che garbava poco all' Abate di Ginevra. L'elegante, mondano Marinier, amico di Dane, aveva la stessa cura del proprio individuo, con maggiore dissimulazione e senza scuse di salute. Non aveva cenato all'Aniene con l'amico suo perché la cucina dell'Aniene gli era parsa, in una sua prima visita a Subiaco, troppo semplice, e sperava dalla signora Selva una cena francese. Di Leynì sapeva bene quanto la speranza fosse fallace; maliziosamente, non lo aveva istruito. Nel salottino da pranzo appena ci capivano i cinque commensali. Guai se fossero venuti anche gli altri due! Per Verità né l' Abate Marinier, né don Farè erano attesi. Altri, invece, mancava. Mancavano un frate e un prete, uomini conosciuti, che avrebbero dovuto venire dall'alta Italia. Si erano scusati l'uno e l'altro, per lettera, con vivo rincrescimento di Selva e di Farè pure, e del di Leynì. Marinier si scusò, invece, di essere venuto. Era stato Dane, il colpevole. E per don Paolo Farè il colpevole era stato di Leynì. Selva protestò. Amici di amici, come non sarebbero graditi? E tanto di Leynì quanto Dane sapevano di potere accompagnare persone di loro fiducia, persone che dividessero le loro idee. Maria non parlava; Marinier le piaceva poco. Anche le pareva che Dane e di Leynì avrebbero fatto bene a non portare altri senza avvertire. Parlò Marinier, dopo aver esplorato con gli occhi, aggrottando lievemente le sopracciglia, una zuppa di fave. "Io non so" diss'egli "se recheremo noia alla signora Selva discorrendo un poco adesso di quello che sarà poi il discorso della riunione." Maria lo rassicurò. Ella non avrebbe partecipato alla riunione ma pigliava moltissimo interesse allo scopo. "bene" proseguì Marinier "allora sarà molto utile per me che io conosca esattamente questo scopo, perché Dane me ne ha parlato non con tanta precisione, e io non posso esser sicuro di dividere le vostre idee in tutto." Don Paolo non seppe trattenere un gesto d'impazienza. Anche Selva parve un po' seccato, perché davvero un consenso in certe idee fondamentali era necessario. Senza di esso la riunione poteva riescire peggio che inutile, pericolosa. "Ecco" diss'egli "siamo parecchi cattolici, in Italia e fuori d'Italia, ecclesiastici e laici, che desideriamo una riforma della Chiesa. La desideriamo senza ribellioni, operata dall'autorità legittima. Desideriamo riforme dell'insegnamento religioso, riforme del culto, riforme della disciplina del clero, riforme anche nel supremo governo della Chiesa. Per questo abbiamo bisogno di creare un'opinione che induca l'autorità legittima ad agire di conformità sia pure fra venti, trenta, cinquant'anni. Ora noi che pensiamo così siamo affatto disgregati. Non sappiamo l'uno dell'altro, eccetto i pochi che pubblicano articoli o libri. Molto probabilmente vi è nel mondo cattolico una grandissima quantità di persone religiose e colte che pensano come noi. Io ho pensato che sarebbe utilissimo, per la propaganda dalle nostre idee, almeno di conoscerci. Stasera ci si riunisce in pochi per una prima intesa." Mentre Giovanni parlava, gli altri tenevano gli occhi sull' Abate ginevrino. L' Abate guardava nel suo piatto. Seguì un breve silenzio. Giovanni lo ruppe il primo. "Il professore Dane" diss'egli "non Le aveva detto questo?" "Sì sì" rispose l' Abate, levando finalmente gli occhi dal piatto "qualche cosa di simile." Il tono fu d'uno che approvasse poco. Ma perché, allora, era venuto? Don Paolo faceva smorfie di malcontento, gli altri tacevano. Vi fu un momento d'imbarazzo. Marinier disse: "Ne parleremo stasera." "Sì" ripeté Selva, tranquillo. "Ne riparleremo stasera." Pensava che avrebbe trovato nell' Abate un avversario e che Dane aveva commesso un errore di giudizio e di tatto invitandolo alla riunione. Si confortò in pari tempo con la tacita riflessione che l'udirsi rappresentare tutte le obbiezioni possibili sarebbe utile; e che un amico del professore Dane sarebbe almeno onesto, non propalerebbe nomi e discorsi ancora da tacersi. Invece il giovine di Leynì si crucciava di questo pericolo, sapendo quante e quanto diverse amicizie tenesse l' Abate Marinier in Roma, dove dimorava da cinque anni per certi suoi studi storici; e si crucciava di non avere saputo della sua venuta in tempo di scriverne ai Selva, per suggerir loro che intraprendessero la sua conquista incominciando dal palato. La mensa di casa Selva, sempre nitidissima e fiorita, era, quanto ai cibi, molto parsimoniosa, molto semplice. I Selva non bevevano vino mai. Il vino chiaretto, acerbetto di Subiaco non poteva che inasprire un uomo avvezzo ai vini di Francia. La ragazza di Affile aveva già servito il caffè quando arrivarono, a un punto, don Clemente a piedi da Santa Scolastica, Dane, il Padre Salvati, e il professore Minucci in un legno a due cavalli da Subiaco. Ma don Clemente, ch'era seguito dal suo ortolano, vista la carrozza movere verso il cancello del villino e non dubitando che portasse gente a casa Selva, affrettò il passo perché Giovanni e l'ortolano potessero vedersi, parlarsi un minuto, prima della riunione. I Selva e i loro tre commensali si erano levati da cena e Maria, uscendo, a braccio del cavalleresco Abate Marinier, sulla terrazza, vide, benché annotasse già, il benedettino sul ripido sentiero che sale dal cancello aperto sulla via pubblica. Lo salutò dall'alto e lo pregò di aspettare, a piè della scala, che gli facessero lume. Scese ella stessa col lume la scala a chiocciola, accennò a don Clemente di volergli parlare e diede un'occhiata significativa all'uomo che gli stava dietro le spalle. Don Clemente si voltò a costui, gli disse di stare ad attenderlo lì fuori sotto le rubinie; e saliti, al muto invito della signora, alcuni scalini, sostò ad ascoltarla. Ella gli parlò, frettolosa, dei suoi tre ospiti e particolarmente dell' Abate Marinier. Disse che stava in pena per suo marito il quale aveva posto tanto amore e tanta fede nell'idea di questa associazione cattolica e ora si troverebbe a fronte di una inattesa opposizione. Desiderava che don Clemente lo sapesse, che fosse preparato. Glielo diceva lei perché suo marito non poteva in quel momento lasciare i suoi ospiti. E si congedava, nel tempo stesso, da don Clemente, non avendo intenzione, lei donna e tanto ignorante, di assistere alla seduta. Forse lo avrebbe riveduto fra pochi giorni, al monastero. Non era il Padre foresterario, egli? Ella verrebbe forse fra tre o quattro giorni a Santa scolastica con una sua sorella ... A questo punto la signora Selva alzò involontariamente il lume per vedere meglio il suo interlocutore in viso, e subito se ne pentì come di un mancato rispetto a quell'anima certamente santa, certamente pari di virile e verginale bellezza all'alta, snella persona, al viso eretto abitualmente in atto quasi di franca modestia militare, tanto nobile nella fronte spaziosa, negli occhi cerulei chiari, spiranti a un punto dolcezza femminea e maschio fuoco. "Ci sarà pure" disse a bassa voce, vergognando di sé "un'amica intima di mia sorella, certa signora Dessalle." Don Clemente voltò la testa di scatto, e Maria n'ebbe il contraccolpo, tremò. Era dunque lui! Egli le rivolse subito il viso da capo. Era un po' acceso ma composto. "Scusi" diss'egli "questa signora, come si chiama?" "Chi? La Dessalle?" "Sì." "Si chiama Jeanne." "Che età può avere?" "Non lo so. Tra i trenta e i trentacinque anni direi." Adesso Maria non comprendeva più. Il Padre faceva queste domande con tanta indifferente calma! Ne arrischiò una essa pure. "Lei la conosce, Padre?" Don Clemente non rispose. Sopraggiungeva in quel momento il povero gottoso Dane, che con grande stento si era trascinato su dal cancello a braccio del professore Minucci. Erano amici di casa l'uno e l'altro; la signora Selva fece loro un'accoglienza gentile ma lievemente distratta. La seduta si tenne nello studiolo di Giovanni. Era così piccolo che il bollente don Farè, non potendosi tenere aperte le finestre per un dovuto riguardo ai reumi di Dane, vi si sentiva soffocare e lo disse con la sua rudezza lombarda. Gli altri finsero di non udire, meno di Leynì, che gli accennò silenziosamente di non insistere, e Giovanni che aperse l'uscio del corridoio e l'altro vicino che dal corridoio mette sulla terrazza. Dane sentì subito un odore di bosco umido e bisognò chiudere. Sullo scrittoio ardeva una vecchia lampada a petrolio. Il professore Minucci soffriva di occhi e chiese timidamente un paralume, che fu cercato, trovato e posto. Don Paolo si fremette dentro: "questa è un'infermeria!" e anche il suo amico di Leynì, a cui pareva che tante piccole cure si dovessero in quel momento dimenticare, ebbe uno spiacevole senso di freddo. Lo ebbe lo stesso Giovanni ma riflesso; sentì l'impressione che del Dane e forse anche del Minucci doveano riportare coloro, fra i presenti, che non li conoscevano. Egli li conosceva. Il Dane, con tutti i suoi reumi e i nervi e i sessantadue anni, possedeva, oltre al sapere grande, una indomita vigoria di spirito, un coraggio morale a tutta prova. Andrea Minucci, malgrado il biondo pelo rabbuffato, gli occhiali, certa rigidezza di movimenti, che gli davano un aspetto di erudito tedesco, era una giovane anima delle più ardenti, provata dalla Vita, non effervescente alla superficie come l'anima del prete lombardo, ma chiusa nel proprio fuoco, severa, probabilmente più forte. Giovanni prese la parola con animo franco. Ringraziò i presenti e scusò gli assenti, il frate e il prete, dolendosi però molto che mancassero. Disse che a ogni modo la loro adesione era sicura e insistette sul valore di quest'adesione. Soggiunse parlando più alto e più lento, tenendo gli occhi sull' Abate Marinier, che per ora stimava prudente non divulgare niente né della riunione, né delle deliberazioni che vi si prendessero; e pregò tutti a considerarsi legati al silenzio da un impegno di onore. Quindi espose l'idea che aveva concepita, lo scopo della riunione, un po' più diffusamente che non avesse fatto a cena. "E adesso" conchiuse "ciascuno dica quel che pensa." Seguì un silenzio profondo. L' Abate Marinier stava per parlare quando si alzò in piedi, stentatamente, Dane. Il suo pallido viso scarno, fine, pregno d'intelletto, era atteggiato a gravità solenne. "Io credo" diss'egli in un italiano esotico, rigido e tuttavia caldo di Vita "che trovandoci noi sul cominciamento di una comune azione religiosa, dobbiamo fare due cose; subito! Prima cosa! Dobbiamo raccogliere l'anima nostra in Dio, silenziosamente, ciascuno la sua, fino a sentire la presenza, in noi, di Dio stesso, il desiderio Suo stesso, nel nostro cuore, della Sua propria gloria. È questo che io faccio e prego fare con me." Ciò detto, il professore Dane s'incrociò le braccia sul petto, piegò il capo, chiuse gli occhi. Tutti si alzarono e, meno l' Abate Marinier, giunsero le mani. L' Abate se le raccolse al petto con un ampio gesto, abbracciando l'aria. Si poté udire un gemer dolce della lucerna, un passo al piano terreno. Marinier fu il primo a guardar sottecchi se gli altri pregavano ancora. Dane rialzò il capo e disse: "Amen." "Seconda cosa!" soggiunse. "Noi ci proponiamo di obbedire sempre l'autorità ecclesiastica legittima ..." Don Paolo Farè scattò. "Secondo!" Un vibrare di subiti pensamenti, un fremere sordo di parole non nate scosse ogni persona. Dane disse lentamente: "esercitata con le debite norme." Quel moto discese a un mormorio di consenso, posò. Dane riprese: "Ancora questo! Mai non sarà odio né su nostro labbro, né in nostro petto verso nessuno!" Don Paolo scattò da capo. "Odio no ma sdegno sì! Circumspiciens eos cum ira!" "Sì" disse don Clemente con la sua dolce voce velata "quando avremo edificato Cristo in noi, quando sentiremo una collera di puro amore." Don Paolo, che gli stava vicino, non rispose niente, lo guardò con le lagrime agli occhi, gli afferrò una mano per baciargliela. Il benedettino la ritrasse spaventato, tutto una fiamma in viso. "E non edificheremo Cristo in noi" disse Giovanni, commosso anche lui, felice di quel mistico soffio che gli pareva spirare nell'adunanza "se non purificheremo nell'amore le nostre idee di riforma; se, quando venisse il momento di operare, non ci purificheremo prima le mani e gli strumenti. Questo sdegno, questa ira che Lei, don Paolo, dice, è una grande potenza del Maligno sopra di noi, appunto perché ha un'apparenza e qualche volta, come nei Santi, una sostanza di bontà. In noi è quasi sempre vera inimicizia perché non sappiamo amare. La preghiera a me più cara dopo il Pater noster è la preghiera dell' Unità, la preghiera che ci unisce allo spirito di Cristo quando prega il Padre così: "ut et ipsi in nobis unum sint." Abbiamo sempre il desiderio e la speranza dell'unità in Dio con i fratelli che sono divisi da noi nelle idee. E adesso, dunque, dite se accettate la proposta di fondare l'associazione che io vi propongo. Prima discutete questo e poi, se la proposta è accettata, si vedrà in qual modo sia da porla in atto." Don Paolo esclamò impetuosamente che il principio nemmanco era da discutere e Minucci osservò in tono sommesso che lo scopo della riunione era stato conosciuto da tutti i presenti prima d'intervenire, che perciò, intervenendo, essi lo avevano implicitamente approvato, avevano implicitamente consentito di legarsi per un'azione comune, salvo appunto a decidere sui modi e le forme. L' Abate Marinier chiese di parlare. "Me ne rincresce veramente" diss'egli sorridendo, "ma per legarmi io non ho portato con me il menomo filo. Io sono pure di coloro che vedono molte cose andar male nella Chiesa e tuttavia, quando il signor Selva mi ha bene spiegato, prima a cena e ora qui, la sua idea che non avevo bene compresa dal mio amico professore Dane, mi si sono affacciate obbiezioni che credo serie." "Già" pensò Minucci che aveva udito parlare di certe ambizioni del Marinier "se vuoi far carriera non ti devi mettere con noi." E soggiunse forte: "Dica!" "In primo luogo, signori" cominciò il fine Abate "mi pare che abbiate principiato dalla seconda riunione. Dirò con un rispetto grande che voi mi parete bravissime persone, le quali si mettano festosamente a sedere per giuocare insieme alle carte, e non possono andare avanti perché uno ha le carte italiane, un altro le francesi, un altro le tedesche e non s'intendono. Io ho udito parlare di idee comuni, ma forse vi ha fra noi piuttosto una comunanza di idee negative. Noi siamo d'accordo, probabilmente, in questo, che la Chiesa Cattolica è venuta somigliando a un tempio antichissimo di grande semplicità originaria, di grande spiritualità, che il seicento, il settecento e l'ottocento hanno infarcito di pasticci. Forse i più maligni di voi diranno pure che vi si parla forte solamente una lingua morta, che le lingue vive appena vi si possono parlare piano e che il sole vi prende alle finestre un colore falso. Ma io non posso credere che siamo poi tutti d'accordo nella qualità e nella quantità dei rimedii. Prima dunque di iniziare questa frammassoneria cattolica, io credo che vi converrebbe intendervi circa le riforme. Dirò di più; io credo che anche quando fosse fra voi un pienissimo accordo nelle idee, io non vi consiglierei di legarvi con un vincolo sensibile come propone il signor Selva. La mia obbiezione è di una natura molto delicata. Voi pensate certo di poter navigare sicuri sott'acqua come pesci cauti, e non pensate che un occhio acuto di Sommo Pescatore o vice-Pescatore vi può scoprire benissimo e un buon colpo di fiocina cogliere. Ora io non consiglierei mai ai pesci più fini, più saporiti, più ricercati, di legarsi insieme. Voi capite cosa può succedere quando uno è colto e tirato su. E, voi lo sapete bene, il grande Pescatore di Galilea metteva i pesciolini nel suo vivaio, ma il grande Pescatore di Roma li frigge." "Questa è buona!" fece don Paolo con un sussulto di riso. Gli altri tacevano, gelidi. L' Abate continuò: "Non credo poi che con questa lega possiate far niente di buono. Le associazioni fanno progredire forse i salari, forse le industrie, forse i commerci; la scienza e la Verità, no. Le riforme si faranno un giorno, perché le idee sono più forti degli uomini e camminano; ma voi, armandole in guerra e facendole marciare per compagnie, le esporrete a un fuoco terribile che le arresterà per un pezzo. Sono gl'individui, i Messia, che fanno progredire la scienza e la religione. Vi è un Santo fra voi? Oppure sapete dove prenderlo? Prendetelo e mandatelo avanti. Parola ardente, grande carità, due o tre piccoli miracoli, suggeritegli quello che deve dire e il vostro Messia farà più che tutti voi insieme." L' Abate tacque e Giovanni prese la parola. "Forse il signor Abate" diss'egli "non ha potuto formarsi ancora un giusto concetto della unione che noi desideriamo. Noi ci siamo associati testé in una preghiera silenziosa e intensa, cercando di tenerci uniti nella Presenza Divina. Questo indica il carattere della nostra unione. Considerando i mali che affliggono la Chiesa, i quali, in sostanza, sono disaccordi del suo elemento mutabile umano con il suo elemento immutabile di Verità Divina, noi ci vogliamo unire in Dio Verità col desiderio ch' Egli tolga questi disaccordi; e vogliamo sentirci uniti. Una tale unione non ha bisogno di intelligenze circa idee particolari, benché alcuni di noi ne abbiamo alquante di comuni. Noi non pensiamo di promuovere un'azione collettiva né pubblica né privata per attuare una riforma o l'altra. Io sono abbastanza vecchio per ricordare i tempi del dominio austriaco. Se i patrioti lombardi e veneti si raccoglievano allora a parlare di politica, non era mica sempre per congiure, per atti di rivoluzione; era per comunicarsi notizie, per conoscersi, per tener viva la fiamma dell'idea. È questo che noi vogliamo fare nel campo religioso. Lo creda il signor Abate Marinier, quell'accordo negativo ch'egli diceva può bastare benissimo. Facciamo che si allarghi, che abbracci la maggioranza dei fedeli intelligenti, che salga nella gerarchia; vedrà che gli accordi positivi vi matureranno dentro occultamente come semi vitali dentro la spoglia caduca del frutto. Sì, basta un accordo negativo. Basta di sentire che la Chiesa di Cristo soffre, per unirci nell'amore di nostra Madre e almeno pregare per essa, noi e i nostri fratelli che, come noi, la sentono soffrire! Che ne dice, signor Abate?" L' Abate mormorò con un lievissimo sorriso: "C'est beau mais ce n'est pas la logique." Don Paolo scattò: "Ma che logica!" "Ah!" rispose il Marinier con una maligna faccia compunta. "Se rinunciate alla logica ...!" Don Paolo, tutto acceso, era per protestare ma il professore Dane gli accennò di chetarsi. "Noi non vogliamo rinunciare alla logica" diss'egli. "Solamente non è facile misurare il valore logico di una conclusione in materia di sentimento, di amore, di fede, come è facile misurare il valore logico di una conclusione in materia di geometria. Nella materia nostra il procedimento logico è occulto. Certo il mio caro amico Marinier, una delle menti acutissime che io conosco, non ha voluto dire questa cosa in risposta al mio caro amico Selva, che quando una persona molto amata da noi cade inferma, è necessario a noi di accordarci sulla cura che le faremo, prima di correre insieme al suo letto!" "Queste sono bellissime figure" disse l' Abate Marinier alquanto vivacemente. "Ma sapete bene che le similitudini non sono argomenti!" Don Clemente, che stava in piedi nell'angolo tra l'uscio del corridoio e la finestra, e il professore Minucci seduto presso a lui, fecero atto di parlare. Subito si arrestarono, volendo ciascuno dei due cedere la parola all'altro. Selva propose che prima parlasse il monaco. Tutti guardarono a quel nobile viso di arcangelo, arrossente ma eretto. Don Clemente esitò un poco, e quindi parlò con la sua voce soffice, velata di modestia: "Il signor Abate Marinier ha detto una cosa che io credo molto vera. Ha detto: ci vuole un Santo. Io pure lo credo. Chi sa? Io non dispero che possa già esistere." "Lui" mormorò don Paolo. "Ora" proseguì don Clemente "io vorrei dire al signor Abate Marinier: siamo in qualche maniera i profeti di questo Santo, di questo Messia, prepariamo le sue vie, che poi significa solo far sentire universalmente il bisogno di un rinnovamento di tutto che nella religione nostra è veste, non corpo della Verità, anche se questo rinnovamento sarà doloroso per certe coscienze. Ingemiscit et parturit! E far sentire tutto ciò stando sopra un terreno assolutamente cattolico, aspettando le nuove leggi dalle autorità vecchie, dimostrando però che se non si cambiano le vesti portate da tanto tempo, fra tante intemperie, nessuna persona civile si avvicinerà più a noi, e Dio non voglia che molti di noi le svestano senza permesso, per un disgusto insopportabile. Vorrei anche dire al signor Abate Marinier, se me lo permette: non abbiamo troppi timori umani!" Un mormorio caldo di assenso gli rispose e Minucci scattò tutto vibrante. Mentre parlava l' Abate Marinier, di Leynì e Selva lo avevano visto bollire accigliato; e appunto Giovanni, che conosceva il carattere fiero di quel mistico asceta, si era proposto, facendo parlare prima don Clemente, di dargli tempo a chetarsi. Egli scattò. La parola non gli veniva fluida, gli si rompeva per soverchio impeto, e rotta gli sgorgava dal labbro a ondate, precisa, però, e potente nel vigoroso accento romano: "Ecco! Non abbiamo timori umani! Noi vogliamo cose troppo grandi e le vogliamo troppo fortemente per avere timori umani! Noi vogliamo comunicare nel Cristo vivo, quanti sentiamo che il concetto della Via, della Verità e della Vita si ... si ... si ...- si dilata, ecco, si dilata nel nostro cuore, nella nostra mente! E rompe tante - come dirò? - vecchie fasce di formole che ci stringono, che ci soffocano, che soffocherebbero la Chiesa, se la Chiesa fosse mortale! Noi vogliamo comunicare nel Cristo vivente, quanti abbiamo sete - sete, signor Abate Marinier! Sete! Sete! - che la nostra fede, se perde di estensione, cresca di intensità - a cento doppi, cresca, viva Dio! - e possa radiare fuori di noi, e possa, dico, purificare come il fuoco, prima il pensiero e poi l'azione cattolica - ecco. Noi vogliamo comunicare nel Cristo vivente quanti sentiamo ch'Egli prepara una lenta ma immensa trasformazione religiosa per opera di profeti e di Santi, la quale si opererà con sacrificio, con dolore, con divisione di cuori; quanti sentiamo che i profeti sono sacri al soffrire e che queste cose non ci vengono rivelate dalla carne o dal sangue ma dall' Iddio vivo nelle anime nostre! Comunicare, vogliamo, tutti, di ogni paese, ordinare la nostra azione. Massoneria Cattolica? Sì, Massoneria delle Catacombe. Lei teme, signor Abate? Teme che si taglino tante teste con un colpo solo? Io dirò: dov'è la scure per un tal colpo? Uno alla volta tutti si possono colpire: oggi il professore Dane, ad esempio, domani don Farè, posdomani qui il Padre; ma il giorno in cui quella fantastica fiocina del signor Abate Marinier pescasse, attaccati a un filo, laici di grido, preti, frati, vescovi, cardinali fors'anche, quale sarà, ditemi, il pescatore, piccolo o grande, che non lascerà cadere nell'acqua, spaventato, la fiocina e ogni cosa? - Ma poi mi perdoni, signor Abate, se io dico a Lei e ai prudenti come Lei: dov'è la vostra fede? Esiterete voi, per paura di Pietro, a servire Cristo? Uniamoci contro il fanatismo che lo ha crocifisso e che avvelena ora la Sua Chiesa e se ne avremo a soffrire, ringraziamone il Padre: "beati estis cum persecuti vos fuerint et dixerint omne malum adversum vos, mentientes, propter me." Don Paolo Farè saltò in piedi e abbracciò l'oratore. Di Leynì si affisava in lui con occhi accesi di entusiasmo. Dane, Selva, don Clemente, l'altro frate tacevano, imbarazzati, sentendo, specie i tre ecclesiastici, che Minucci era trascorso troppo, che le sue frasi sulla estensione e la intensità della fede, sul timore di Pietro, non erano misurate, che tutta l'intonazione del suo discorso era stata troppo bellicosa e non si accordava né col mistico esordio di Dane né con le parole usate da Selva a delineare il carattere dell'unione proposta. L' Abate di Ginevra non aveva levato un momento dal viso di Minucci, mentr'egli parlava, i suoi piccoli occhi brillanti. Guardò l'amplesso di don Paolo con un misto d'ironia e di pietà, poi si alzò in piedi: "Sta bene" diss'egli. "Io non so se il mio amico Dane in particolare divida le opinioni del Signore. Veramente ne dubito un poco. Il Signore ha nominato Pietro. Ecco, mi pare che qui ci si dispone a uscire dalla barca di Pietro sperando forse di camminare sopra le onde. Io dico umilmente che non ho fede abbastanza e andrei subito al fondo. Io intendo di restare nella barca e forse tutt'al più adoperarvi qualche piccolo remo secondo la mia intenzione, perché, come ha detto il Signore, sono molto pauroso. È dunque necessario che ci separiamo e non mi resta che a domandarvi perdono di essere venuto. Ho anche bisogno di una piccola passeggiata per la mia vile digestione.- "Caro amico" soggiunse rivolgendosi a Dane "ci ritroveremo all'Aniene." E mosse verso Selva con la mano stesa, per accomiatarsi. Subito gli furono tutti attorno, meno don Paolo e Minucci, per non lasciarlo partire. Egli insisteva tranquillo, arrestava ora con un gelido sorrisetto, ora con una parolina graziosamente sarcastica, ora con un gesto elegante gli assalitori troppo veementi. Di Leynì si voltò a Farè, gli accennò di unirsi agli altri; ma il focoso don Paolo gli rispose con una violenta spallata, con una smorfia di fastidio. Intanto dal gruppo che attorniava il Marinier una voce toscana si alzò sopra le altre: "Stia bono! Non si è ancora deciso niente! Aspetti! Io non ho ancora detto la mia!" Era il Padre Salvati, scolopio, che aveva parlato; un vecchio dai capelli candidi, dal volto rubizzo, dagli occhi vivaci. "Non si è ancora deciso niente!" ripeté. "Io, per esempio, per l'unione ci sto ma io vorrei una cosa e i discorsi che si son fatti me ne arieggiano un'altra. Progresso intellettuale, sta bene; rinnovamento delle formole della fede secondo vogliono i tempi, sta bene; riforma cattolica, benissimo! Io sto con Raffaello Lambruschini, che era un grand'omo; io sto con i Pensieri di un solitario ma per il signor professore Minucci il carattere della riforma mi pare che avrebbe a essere sopra tutto intellettuale e questo, scusate ..." Qui Dane alzò la sua bianca, piccola mano di dama. "Permetta, Padre" diss'egli. "Il mio caro amico Marinier vede che si ritorna a discutere. Io lo prego di rimettersi a sedere." L' Abate levò un poco le ciglia in su, mise un sospiro scettico e obbedì. Gli altri sedettero pure, soddisfatti. Non si fidavano della discrezione dell' Abate, sarebbe stato un grosso guaio ch'egli fosse partito ab irato . Il Padre Salvati riprese a parlare. Egli era contrario a che s'imprimesse al movimento riformista un carattere sopra tutto intellettuale, non tanto per il pericolo di Roma quanto per il pericolo di turbare nella loro fede semplice una quantità immensa di anime tranquille. Voleva che l' Unione si proponesse anzi tutto una grande opera morale, il richiamo dei credenti alla pratica della parola evangelica. Illuminare i cuori era secondo lui il primo dovere di uomini, che aspiravano a illuminare gl'intelletti. Evidentemente non importava tanto di trasformare secondo un ossequio razionale la fede cattolica nella Bibbia, quanto di rendere effettiva la fede cattolica nella parola di Cristo. Bisognava dimostrare che generalmente dai fedeli si onora Cristo con le labbra ma che il cuore del popolo è lontano da lui; dimostrare quanto posto sia lasciato agli egoismi da certe pietà fervorose che credono santificarsi ... Qui don Paolo e Minucci brontolarono: "Questo non c'entra." Il Salvati esclamò che c'entrava benissimo e che avessero la bontà di aspettare. Continuò a dire di un pervertimento generale nel concetto del dovere cristiano intorno alla ricerca e all'uso della ricchezza, pervertimento difficilissimo a raddrizzare perché indurato da secoli e secoli nelle coscienze cristiane con la piena complicità del clero. "Il tempo, signori" esclamò il vecchio frate "domanda un'azione francescana. Ora io non ne vedo segno. Vedo antichi Ordini religiosi che non hanno più forza di agire sulla Società. Vedo una Democrazia Cristiana amministrativa e politica che non ha lo spirito di S. Francesco, che non ama la santa Povertà. Vedo una società di studi francescani; trastulli intellettuali! Io intenderei che noi si provvedesse all'azione francescana. Dico se si vuole una riforma cattolica!" "Ma come?" domandò Farè. Minucci brontolò seccato: "Non è questo." Selva sentiva disgregarsi le anime che si erano unite in un primo slancio. Sentiva che Dane, Minucci, probabilmente anche Farè, intendevano, com'egli stesso intendeva, iniziare un movimento intellettuale e che quella divampata francescana era venuta fuor di tempo e fuor di luogo. Era tanto più inopportuna quanto più calda di Verità viva. Perché molta Verità c'era senza dubbio nelle parole del Padre Salvati, egli lo riconosceva, egli che si era più volte dibattuto nel pensiero il dubbio se non convenisse promovere, per il bene della Chiesa un'azione piuttosto morale che intellettuale. Ma egli non sentiva in sé le attitudini all'apostolato francescano e non le vedeva negli amici suoi, neppure nel più ardente, Luigi Minucci, un solitario, un asceta schivo della folla come lui, Selva. Le ragioni del Salvati valevano a guastare e non a edificare. Giovanni sentiva segrete ironie andare al Marinier e anche al Dane, di cui si conoscevano i gusti poco francescani, il palato difficile, i nervi delicati, gli affetti dati a cagnolini e a pappagalli. Se si voleva riescire a qualche cosa, conveniva correre al riparo. "Mi perdoni" diss'egli "il carissimo Padre Salvati se io gli osservo che il suo discorso, tanto caldo di spirito cristiano, è intempestivo. Mi pare ch'egli consenta con noi nel desiderio di una riforma cattolica. Stasera non è davanti a noi che una proposta; quella di promuovere una specie di Lega fra quanti hanno lo stesso desiderio. Ora decidiamo questo!" Lo scolopio non si arrese. Non poteva comprendere una Lega inattiva, e un'azione secondo le idee degli intellettuali non gli piaceva. L' Abate ginevrino esclamò: "Je l'avais bien dit!" E si alzò per andarsene davvero, stavolta. Selva non lo permise, propose di sciogliere la seduta, pensando di richiamare l'indomani o più tardi il professore Dane, Minucci, di Leynì, Farè. Con Salvati non c'era niente a fare, ed era meglio lasciar partire Marinier dandogli a credere che tutto fosse andato a monte. Minucci indovinò il suo pensiero e tacque, l'inconsiderato don Paolo non capì nulla e strepitò che si doveva deliberare, votare subito. Selva, e per ossequio a Selva, di Leynì, lo fecero aspettare. Fremeva, però; fremeva contro lo svizzero, sopra tutto. Dane e don Clemente erano poco soddisfatti, quale per una ragione, quale per un'altra. Dane era molto irritato in cuor suo contro Marinier e si doleva di averlo portato con sé; don Clemente avrebbe voluto dire che le parole del Padre Salvati erano state molto belle e sante e non intempestive perché anzi era bene che ciascuno lavorasse giusta la vocazione propria, gl'intellettuali per una via, i francescani per un'altra. Colui che chiama provvederebbe a coordinare l'azione dei chiamati; le diverse vocazioni potevano benissimo stare insieme nella Lega. Avrebbe voluto dire così ma non fu pronto, lasciò passare il momento, anche per verecondia intellettuale, per paura di non dir bene, per un riguardo verso Selva, che desiderava evidentemente di troncare. E fu troncato, tutti si alzarono, uscirono sulla terrazzina, meno Dane e Giovanni. L' Abate Marinier intendeva recarsi l'indomani a Santa Scolastica e al Sacro Speco; poi, forse, ritornare a Roma per Olevano e Palestrina, una via nuova per lui. Chi gliela poteva indicare di lì? Gliela indicò don Clemente. Era la stessa che aveva percorso venendo da Subiaco. Passava lì sotto, valicava l' Aniene poco più a sinistra, sul ponte di S. Mauro, volgeva a destra, saliva verso i monti Affilani, là di fronte. L'aria veniva, odorata di boschi, dalla gola stretta ond'esce il fiume sonoro sotto i Conventi. Il cielo era coperto, salvo sul Francolano. Là sopra il gran monte nero tremolavano due stelle. Minucci le mostrò a di Leynì. "Guardi" diss'egli "quelle due stelline come sfavillano! Dante le direbbe le fiammelle di San Benedetto e di Santa Scolastica che sfavillano vedendo nell'ombra un'anima simile ad esse." "Voi parlate di Santi?" fece Marinier, accostandosi. "Io ho domandato poco fa se avete un Santo e vi ho augurato di possederne uno. Queste sono figure oratorie, perché so bene che non lo avete. Se lo aveste, il vostro Santo sarebbe subito ammonito dalla questura o spedito in China dalla Chiesa." "Ebbene?" rispose di Leynì "E se fosse ammonito?" "Se fosse ammonito oggi, sarebbe imprigionato domani." "Ebbene?" replicò il giovane. "E S. Paolo, signor Abate?" "Eh, mio caro, S. Paolo, S. Paolo ...!" Con questa reticenza l' Abate Marinier intendeva probabilmente dire che S. Paolo era S. Paolo. L'altro pensò invece che Marinier era Marinier. Don Clemente osservò che neppure tutti i Santi si potevano mandare in China. Perché non sarebbe laico il futuro Santo? "Questo lo credo" esclamò il Padre Salvati. Invece l'entusiasta don Faré si teneva certo che sarebbe Sommo Pontefice. L' Abate rise. "Idea semplice ed eccellente" diss'egli. "Ma io sento la carrozza che viene a pigliarci, Dane, me e chi vuol venire con noi a Subiaco; per cui vado a congedarmi dal signor Selva." Si chinò dal parapetto a cogliere una frondetta dell'olivo piantato nel terrazzo del piano inferiore. "Dovrò presentargli questo" disse. "E anche a Loro signori" soggiunse con un gesto grazioso, sorridendo. E uscì della terrazza. Si udì infatti, giù nella strada, il rumore di un legno a due cavalli che, venendo da Subiaco, girò lo scoglio sul quale la villetta è assisa e si fermò davanti al cancello. Pochi momenti dopo vennero nella terrazza Maria Selva e Dane col suo gran pastrano e il grandissimo cappello nero a cencio. Seguivano Giovanni e l' Abate. "Chi viene con noi?" disse Dane. Nessuno parlò. S'intesero, sul rumore fondo dell' Aniene, voci e passi che salivano dal cancello verso la villa. Minucci che stava sull'angolo di levante della terrazza, guardò e disse: "Signore. Due Signore." Maria trasalì. "Due Signore?" diss'ella. Balzò al parapetto, vide due figure chiare che salivano lentamente, facevano allora la prima svolta del ripido viottolo. Non era possibile distinguerne le forme, erano ancora troppo giù e faceva troppo scuro. Giovanni osservò che probabilmente si trattava di persone dirette al primo piano, a visitare i padroni di casa. Il professore Dane sorrise misteriosamente. "Potrebbero venire anche al secondo" diss'egli. Maria esclamò: "Lei sa qualche cosa!" e gridò abbasso: "Noemi! est-ce vous?" La voce limpida di Noemi rispose: "Oui, c'est nous!" Si udì un'altra voce femminile dirle forte: "Che bambina! Dovevi tacere!" Maria mise un piccolo grido di gioia e disparve, corse giù per la scala a chiocciola. "Lei sapeva, professore Dane?" fece Selva. Sì, Dane sapeva, aveva veduto a Roma la signora Dessalle, conosciuta da lui nella sua villa del Veneto, nella villa degli affreschi del Tiepolo. Suo fratello, il signor Carlino Dessalle, era rimasto a Firenze. Lei e la signorina d' Arxel volevano fare una sorpresa, gli avevano proibito di parlare. Il nome Dessalle richiamò alla mente di Selva, in un baleno, quello cui subito non aveva pensato, la presenza di don Clemente, il dubbio che fosse lui l'amante scomparso di quella signora, la necessità di evitare un incontro che poteva essere terribile per l'una e per l'altro. Del colloquio fra sua moglie e il Padre egli non sapeva, naturalmente. Intanto si udì Maria scender di corsa il sentiero, poi suonare le esclamazioni e i saluti festosi. Dane, inquieto per la troppo lunga fermata sulla terrazza, propose di scendere. Quelle Signore si erano certo servite della carrozza che veniva a prender lui! Anche don Clemente pareva molto inquieto. Selva si affrettò, dissimulando la commozione propria, di prenderlo a braccetto. "Se Lei non vuole imbarazzarsi con Signore" diss'egli "venga subito con me che La faccio passare dal Casino, per il sentiero alto." Il Padre parve contentissimo, i due partirono in gran fretta, il benedettino senza nemmeno salutare. "È anche tardi" diss'egli "Ho detto all' Abate, chiedendogli il permesso, che sarei ritornato alle nove e mezzo." Scesero a precipizio la scala a chiocciola; ma quando uscirono sul piazzaletto delle robinie, Jeanne Dessalle vi metteva il piede dall'altro capo con Maria e Noemi. Non era tanto buio, sotto le robinie, che Maria non potesse riconoscere suo marito e don Clemente nelle due ombre che uscivano di casa sua. Ella, che a fianco di Jeanne precedeva sua sorella, prontamente piegò e fece piegare a destra la sua vicina, verso il piccolo casino ch'è un'appendice della villa, voltando le spalle a questa. Dal canto suo, Selva, vedendo l'atto di sua moglie, prontamente sussurrò al Padre: "Scenda diritto, subito!" Ma non valse. Non valse perché Noemi, meravigliata di veder sua sorella svoltare a destra, si fermò esclamando: "Dove andate?" e don Clemente, forse per aver veduta questa signora ferma sulla sua via, invece di passare e scendere, andò a raccogliere l'ortolano che lo attendeva nell'angolo più oscuro del piazzaletto, dove il fianco della casa s'incontra col monte. Chiamò "Benedetto!" e si volse a Selva. "Se Lei volesse mostrargli il campicello?" Giovanni rispose: "A quest'ora?" mentre sua moglie diceva piano a Noemi: "C'è forestieri che partono, lasciamoli passare, restiamo qui al casino." Ella le accennò in pari tempo del capo così risolutamente che la Dessalle se ne avvide, pensò tosto a qualche mistero. "Perché?" disse. "Sono terribili?" E rallentò il passo. Invece Noemi che aveva afferrato l'intenzione della sorella, non però le ragioni occulte, mise troppo zelo a secondarla, abbracciò alla Vita le due compagne, le spinse verso il casino. Jeanne Dessalle ebbe un moto istintivo di ribellione, si voltò di botto dicendo: "che fai?" vide Selva che veniva alla loro volta e che subito salutò allargando le braccia, come per nascondere don Clemente, il quale, seguito dall'ortolano, passò frettolosamente a cinque passi da Jeanne, prese la discesa. Noemi, che al saluto di suo cognato si era pure voltata, corse ad abbracciarlo. Intanto Selva si compiacque di vedere che don Clemente era sfuggito all'incontro. Selva, scioltosi dall'abbraccio di Noemi, stese la mano a Jeanne, che non se ne avvide, mormorò, trasognata, qualche incomprensibile parola di saluto. In quel momento uscirono dalla villa Dane, Marinier, Faré, di Leynì, il Padre Salvati. I due Selva mossero loro incontro, lasciando Noemi e la Dessalle ad aspettare in disparte. I saluti di commiato furono abbastanza lunghi. Dane desiderava salutare anche la Dessalle. Maria non la scorse più dove l'aveva lasciata, suppose che lei e Noemi fossero entrate in casa girando alle loro spalle, s'incaricò dei saluti del professore. Finalmente quando i cinque discesero, accompagnati da Giovanni, si udì chiamare da Noemi: "Maria!" Un accento particolare nella voce di sua sorella le disse che era accaduto qualche cosa. Accorse; la signora Dessalle, seduta sopra un fascio di legna, nell'angolo lasciato cinque minuti prima dall'ortolano di Santa Scolastica, ripeteva con voce debole: "niente, niente, niente, adesso entriamo, adesso entriamo."Noemi, tutta palpitante, raccontò che l'amica si era sentita mancare a un tratto mentre quei signori discorrevano e che a lei era appena riuscito di trarla fino a quel fascio di legna. "Andiamo, andiamo" ripeté Jeanne e si sforzò di alzarsi, si trascinò, sorretta dalle altre due, fino all'uscio della villa, sedette sullo scalino, aspettando un po' d'acqua che poi assaggiò appena. Altro non volle e presto si rimise tanto da poter salire, adagio adagio, le scale. Si scusava ad ogni sosta e sorrideva; ma la fantesca che saliva innanzi col lume, a ritroso, venne quasi meno ella stessa vedendo quegli occhi smarriti, quelle labbra bianche, quel terribile pallore. La condussero al canapè del salottino; e là, dopo un momento di silenzioso abbandono a occhi chiusi, poté dire alla signora Selva, sorridendo ancora, ch'erano affetti di anemia e che c'era avvezza. Noemi e Maria si parlarono piano fra loro. Jeanne intese le parole "a letto" e assentì del capo con uno sguardo di gratitudine. Maria aveva disposto per lei e per Noemi la migliore camera del piccolo alloggio, la camera d'angolo opposta allo studio di Giovanni, dall'altra parte del corridoio. Mentre Jeanne vi si avviava stentatamente a braccio di Noemi, ritornò Selva che aveva accompagnato gli amici sino al cancello. Sua moglie ne udì il passo sulla scala, gli scese incontro, lo trattenne. Si parlarono al buio, sotto voce. Era dunque lui, ma come lo aveva riconosciuto? Eh, Giovanni aveva ben cercato di frapporsi, nel momento pericoloso, fra la signora e don Clemente, il Padre era anche passato quasi di corsa, ma egli aveva sospettato subito, perché la Dessalle non aveva quasi risposto al suo saluto, non gli aveva stesa la mano, era rimasta come una statua. Anche il Padre, quando aveva udito sulla terrazza ch'era arrivata la signora Dessalle, si era mostrato inquieto; poi aveva mostrato un vivo desiderio di evitarla; si era però serbato molto padrone di sé. Oh sì, molto padrone di sé! Questo era pure il giudizio di Maria che raccontò il suo colloquio con lui, lì in fondo alla scala. Marito e moglie salirono lentamente, compresi di quello straordinario dramma, di quel dolor mortale della povera donna, dell'impressione terribile che doveva aver riportato anche lui, dopo tutto, della notte che passerebbero l'uno e l'altra; pensosi di quel che accadrebbe l'indomani, di quel che farebbe lui, di quel che farebbe lei. "Per queste cose è bene di pregare, non è vero?" disse Maria. "Sì, cara, è bene. Preghiamo ch'ella sappia donare il suo amore e il suo dolore a Dio" rispose suo marito. Entrarono, tenendosi per mano, nella camera nuziale, divisa in due da un cortinaggio pesante. Si affacciarono alla finestra guardando il cielo, pregarono silenziosamente. Un alito di tramontana passò come un lamento per la quercia che pende sulla piccola Santa Maria della Febbre. "Povera creatura!" disse Maria. Parve a lei e a suo marito di amarsi anche più teneramente del solito e tuttavia sentirono ambedue, senza dirselo, che qualche cosa li tratteneva dal bacio dell'amore. Jeanne, appena Noemi ebbe chiuso dietro a sé l'uscio della loro camera, le si avvinghiò al collo, ruppe in singhiozzi irrefrenabili. La povera Noemi, avendo compreso, per l'effetto vedutone, che quell'ecclesiastico passato in fretta davanti all'amica sua era Maironi, si struggeva di pietà. Disse parole della più ardente, della più soave tenerezza con la voce di chi blandisce un bambino che soffre. Jeanne non rispondeva, singhiozzava sempre. "È quasi meglio, cara" si arrischiò a dire Noemi "è quasi meglio che tu sappia, che tu non possa illuderti; è quasi meglio che tu lo abbia veduto con quell'abito!" Stavolta udì rispondersi, fra i singhiozzi, tanti appassionati "no, no" così strani nel loro impeto quasi non doloroso, che ne rimase interdetta. Riprese quindi i suoi conforti ma più timidamente. "Sì, cara, sì, cara, perché non essendoci più rimedio ..." Jeanne alzò il viso tutto lagrimoso. "Non capisci che non è lui?" diss'ella. Noemi si sciolse, stupefatta, dalle sue braccia. "Come, non è lui? Tutto questo perché non è lui?" Ancora Jeanne le si lanciò al collo. "Non è quel frate che mi è passato davanti" disse fra i singhiozzi "è l'altro!" "Chi, l'altro?" "Quell'uomo che lo seguiva, che è partito con lui!" Noemi neppure se n'era accorta, di quest'uomo. Jeanne le strinse il collo da soffocarla, con un riso convulso.

C'era da aspettare alquanto perché alle nove o poco dopo tutte le chiavi del monastero si portano all' Abate. "Dunque mi permette" chiese Benedetto "di restare fuori?" Le altre volte che il Maestro glielo aveva permesso, egli era salito a passar la notte in preghiera sui greppi nudi del Colle Lungo, imminenti al monastero, o su quelli del Taleo o sulla costa petrosa che si taglia movendo dall'oratorio di Santa Crocella al bosco del Sacro Speco. Il Maestro esitò un poco, non ci aveva più pensato. E il discepolo gli era parso quel giorno più smunto, più esangue del consueto; temeva per la sua salute alquanto logora dalle fatiche del lavoro campestre, dalle penitenze, dal vivere disagiato. Glielo disse. "Non pensi al mio corpo" supplicò il giovane, umile e ardente. "Il mio corpo è infinitamente lontano da me! Abbia solo paura che io non faccia il possibile per conoscere la Volontà Divina!" Soggiunse che avrebbe pregato anche per aver lume circa questo incontro e che mai aveva sentito Iddio come pregando la notte sui monti. Il Maestro gli prese il capo a due mani, lo baciò in fronte. "Va" diss'egli. "E Lei pregherà per me?" "Sì, nunc et semper. " Passi nel corridoio. Una chiave gira nella toppa. Benedetto si dilegua come un'ombra. Il buon vecchio fra Antonio, portinaio del monastero, aperse, non mostrò di essersi atteso a vedere anche Benedetto, e con quel rispetto dignitoso in cui si confondevano la sua umiltà d'inferiore e la sua coscienza di onesto famigliare antico, disse a don Clemente che il Padre Abate lo attendeva nel suo alloggio. Don Clemente salì con un lanternino al corridoio grande dove mettevano l'alloggio dell' Abate e, poco discosto, la sua cella stessa. L' Abate, Padre Omobono Ravasio da Bergamo, lo stava aspettando in un salottino male rischiarato da una povera lucernina a petrolio. Il salottino, nella sua severa modestia ecclesiastica, non aveva di singolare che una tela del Morone, bel ritratto d'uomo, due piccole tavole con teste d'angeli di maniera luinesca, un piano a coda, carico di musica. L' Abate, appassionato per i quadri, la musica e il tabacco da fiuto, dedicava a Mozart e a Haydn gran parte del tempo non largo che gli concedevano i suoi doveri religiosi e le cure del governo. Era intelligente, alquanto bizzarro, ricco di una cultura letteraria, filosofica e religiosa ferma sdegnosamente sul 1850. Piccolo, canuto, aveva una fisonomia arguta. Certi suoi modi orobii, certe familiarità ruvide avevano meravigliato i monaci, avvezzi alle maniere squisitamente signorili del suo predecessore, nobile romano. Veniva da Parma ed era entrato in carica da soli tre giorni. Don Clemente gli s'inginocchiò davanti, gli baciò la mano. "Che mode avete voialtri a Subiaco?" disse l' Abate. "Fate venire le dieci alle undici?" Don Clemente si scusò. Aveva tardato per un dovere di carità. L' Abate lo fece sedere. "Figlio mio" diss'egli. "Voi soffrite il sonno?" Don Clemente sorrise, non rispose. "Ebbene" riprese l' Abate "voi ne avete buttato via un'ora e adesso io ho le mie ragioni di prendervene un altro poco. Vi devo parlare di due cose. Mi avete chiesto il permesso di recarvi a visitare certi signori Selva. Ci siete andato? Sì? Potete dirmi di essere tranquillo nella vostra coscienza?" Don Clemente fu pronto a rispondere con un lieve gesto di sorpresa: "Eh, sì!" "bene bene bene" fece l' Abate; e fiutò, contento, una grossa presa di tabacco. "Io non conosco questi signori Selva, ma c'è a Roma chi li conosce o crede di conoscerli. Non è uno scrittore, il signor Selva? Non ha scritto di religione? Mi figuro che sarà un rosminiano, a giudicare dalla gente che ce l'ha su con lui; gente indegna di allacciar le scarpe a Rosmini, ma intendiamoci! Rosminiani sicuri sono quelli di Domodossola e non quelli che hanno moglie, eh? Dunque stasera, dopo cena, ho ricevuto una lettera da Roma. Mi scrivono - un pezzo grosso, capite, - che appunto stasera si doveva tenere in casa di questo falso cattolico signor Selva un conciliabolo di altri insetti malefici come lui, e che probabilmente vi ci sareste recato anche voi, e che io dovevo impedirlo. Non so cosa avrei fatto, perché se parla il Santo Padre obbedisco, se non parla il Santo Padre rifletto; ma per vostra fortuna voi eravate già fuori. Del resto c'è della brava gente che scoverà qualche eretico anche in Paradiso. Adesso voi mi dite che la vostra coscienza è tranquilla. Dunque non devo credere alla lettera?" Don Clemente rispose che certamente a casa Selva non ci erano venuti né eretici, né scismatici. Vi si era parlato della Chiesa, dei suoi mali, di possibili rimedî, ma come lo stesso Padre Abate avrebbe potuto parlarne. "No, figlio mio" rispose l' Abate. "Ai mali della Chiesa e ai possibili rimedî non ci ho a pensar io. Ossia, ci posso pensare ma non ho a parlarne che a Dio perché ne parli poi Lui a chi tocca. E così fate anche voi. Tenete a mente, figlio mio! I mali ci sono e i rimedî ci saranno, ma questi rimedî, chi sa? possono essere veleni e bisogna lasciarli adoperare al Grande Medico. Noi, preghiamo. Se non si credesse alla comunione dei Santi, cosa si starebbe a fare nei monasteri? E in quella casa, figlio mio, per la nostra pace, non ci ritornare! Non me lo chiedere più!" Passando paternamente così dal voi al tu, l' Abate posò una mano affettuosa sulla spalla del suo monaco afflitto di non poter rivedere quei buoni amici e anche particolarmente di non poter l'indomani mattina conferire col signor Giovanni, avvertirlo del pericolo che correva Benedetto, avvisare insieme al riparo. "Sono cristiani aurei" diss'egli con voce sommessa, dolente. "Lo credo" rispose l' Abate "Credo che saranno migliori assai di questi zelanti che scrivono di queste lettere. Vedi che non faccio complimenti. Tu sei di Brescia, eh? bene, io sono di Bergamo. Noi si direbbe che sono piaghe. Sono infatti piaghe della Chiesa. Io risponderò a tôno. I miei monaci non prendono parte a congreghe di eretici. Ma tu a, casa Selva, non ci ritornerai." Don Clemente baciò rassegnato la mano del paterno vecchio. "Adesso all'altro argomento!" disse costui. "Apprendo che qui nell' Ospizio dei pellegrini, dove di regola non ci dovrebbe abitare stabilmente che il vaccaro, ci sta da tre anni un giovine che ci avete collocato voi; oh, col permesso del mio predecessore, s'intende! Un giovine che vi è molto legato, che voi dirigete spiritualmente, che fate anche studiare in biblioteca. Vero che lavora nell'orto, vero che mostra una pietà grande, ch'è di edificazione a tutti, ma però, siccome non pare che abbia intenzione di farsi religioso, questo suo soggiorno nell' Ospizio nostro dove occupa un posto da tre anni, è poco regolare. Cosa me ne potete dire? Sentiamo." Don Clemente sapeva che alcuni suoi confratelli, e non i più vecchi ma proprio i più giovani, non approvavano l'ospitalità concessa dall' Abate defunto a Benedetto. Neppure andava loro troppo a sangue che don Clemente e lui fossero tanto legati. Qualche dispiacere per questo, don Clemente l'aveva già avuto. Comprese che quei tali non avevano perduto tempo, che stavano già lavorando il nuovo Abate. Il suo bel viso si colorò di rossore. Egli non rispose subito, volendo prima spegnersi dentro il suo corruccio con un atto di perdono mentale; poi disse ch'era suo dovere e suo desiderio d'informarlo. "Questo giovine" diss'egli "è un tale Piero Maironi, di Brescia. Ell'avrà udito nominare la famiglia. Suo Padre, don Franco Maironi, sposò una donna senza nobiltà né ricchezza. Egli allora non aveva più i genitori, viveva colla nonna paterna, la marchesa Maironi, donna imperiosa, orgogliosa." "Oh!" esclamò l' Abate. "L'ho conosciuta! Uno spavento! Mi ricordo! A Brescia la chiamavano la marchesa Haynau! Aveva dodici gatti! Una gran parrucca nera! Mi ricordo! "Io non l'ho conosciuta che per fama" ripigliò don Clemente, sorridendo, mentre l' Abate si faceva passare con una buona presa di tabacco e un mugolio gutturale il cattivo sapore di quell'antipatica memoria. "La nonna, dunque, non volle assolutamente saperne di questo matrimonio disuguale. Gli sposi furono ospitati da uno zio della sposa, ella pure orfana. Lui, don Franco, si fece soldato nel 1859 e morì di ferite. Sua moglie morì poco dopo. Il figliuolo venne raccolto dalla nonna Maironi e, morta lei, da certi Scremin, suoi parenti veneti. La nonna lo lasciò ricchissimo. Sposò una figlia di questi Scremin, che disgraziatamente perdette la ragione poco dopo le nozze, credo. Lui ne fu afflittissimo, condusse Vita ritirata fino a che s'incontrò, per sua sventura, in una signora divisa dal marito. Allora venne un periodo di traviamento; traviamento di costume e traviamento di fede. Quando, pare un miracolo del Signore!, ecco che sua moglie viene a morire e nel morire ricupera la ragione, fa venire il marito, gli parla, muore come una Santa. Questa morte gli volta il cuore verso Dio, egli lascia la signora, lascia le ricchezze, lascia tutto, fugge di notte da casa sua senza dire a nessuno dove va. Siccome aveva conosciuto me a Brescia una volta che ci andai per una malattia di mio Padre, e sapeva ch'ero a Subiaco, siccome anche aveva caro il nostro Ordine e certe memorie della nostra povera Praglia, è capitato qua. Mi ha raccontato la sua storia, mi ha supplicato di aiutarlo a condurre una Vita di penitenza. Credetti che aspirasse a entrare nell' Ordine. Egli mi disse invece di non sentirsene degno, di non aver potuto ancora conoscere, circa questo punto, la Divina Volontà, di volere intanto far penitenza, lavorare colle proprie mani, guadagnarsi il pane, un poverissimo pane. Mi disse altre cose, mi parlò di certi fatti sovrannaturali che gli sarebbero intervenuti. Io ne parlai subito al Padre Abate di allora e si combinò così: alloggiarlo nell' Ospizio, farlo lavorare nella chiusura come aiuto all'ortolano e fornirgli il vitto magrissimo ch'egli desiderava. In tre anni non ha preso né vino, né caffè, né latte, né un uovo. Pane, polenta, frutta, erbaggi, olio, acqua pura: non ha preso altro. La sua Vita è stata una Vita di Santo, ciascuno glielo può dire. E si crede il più gran peccatore del mondo!" "Hm!" fece l' Abate, pensoso. "Hm! Capisco! Ma perché non entra nell' Ordine? Altra cosa: so che ha passato qualche notte fuori." Don Clemente sentì ancora corrersi un fuoco al viso. "In preghiera" diss'egli. "Sarà così ma forse non tutti crederanno. Sapete cosa dice Dante: "Sempre a quel ch'ha faccia di menzogna Dee l'uom chiuder la bocca quant'ei puote, Però che senza colpa fa vergogna." "Oh!" esclamò don Clemente arrossendo, nella sua dignità vereconda, per coloro che potessero aver concepito un vile sospetto. "Scusate, figlio mio" disse l' Abate. "Non si accusa. Si biasimano le apparenze. Non riscaldatevi. È meglio pregare in casa. E questi fatti soprannaturali, dite su, cosa sono?" Don Clemente rispose che erano state visioni, voci udite nell'aria. "Hm! Hm!" fece ancora l' Abate con un complicato gioco di rughe, di labbra e di sopracciglia, come se avesse inghiottito un sorso di aceto. "Avete detto che si chiama? ... Il nome proprio?" "Piero, ma quando è venuto ha desiderato separarsi da questo nome, mi ha pregato d'imporgliene un altro. Ho scelto Benedetto; mi parve il più appropriato." L' Abate, a questo punto, espresse la volontà di vedere il signor Benedetto e ordinò a don Clemente di mandarglielo l'indomani mattina, dopo il coro. Allora don Clemente si turbò un poco, dovette confessare che non poteva prometterlo assolutamente perché appunto anche in quella notte il giovine era uscito a pregare ed egli non sapeva con certezza a quale ora sarebbe rientrato. L' Abate s'inquietò molto, borbottò una sequela di rimbrotti e di riflessioni acide. Don Clemente si decise perciò a raccontare l'incontro colla signora Dessalle, l'antica amante, quel ch'era poi seguito per via, la sua idea di mandare Benedetto a Jenne e di farvelo rimanere fino a che la signora non fosse partita. Il superiore lo ascoltò a ciglia aggrottate, con un continuo brontolîo sordo. "Qui" esclamò finalmente "si torna a san Benedetto! Si torna alle insidie delle peccatrici! Vada vada vada, il nostro Benedetto! A questo Jenne e anche più in là! E non mi dicevate questo? Vi pareva poco? Vi pareva niente che si ordissero intorno al monastero delle trame di questa fatta? Andate, adesso; andate pure!" Don Clemente fu per rispondere che non sapeva se si ordissero trame, se la signora avesse riconosciuto o no il suo discepolo, che a ogni modo egli aveva già espresso a Benedetto il proposito di allontanarlo; ma impose silenzio a questo inutile sfogo di amor proprio, e prese, ginocchioni, congedo. Ritolto il lanternino che aveva lasciato nel corridoio, non entrò nella sua cella. Percorse lento lento il corridoio sino al fondo, scese lento lento, non senza qualche sosta, per una scaletta a chiocciola, nell'altro corridoio strettissimo che mette al Capitolo. Il pensiero del diletto discepolo orante nella notte sul monte, l'aspettazione delle risoluzioni che prenderebbe dopo avere comunicato con Dio, le coperte ostilità dei fratelli, i cipigli e i dubbî dell' Abate, il timore ch'egli ponesse Benedetto nella necessità di scegliere fra i voti monastici e il bando dal convento, gli accumulavano sul cuore un peso spossante. Il fervore mistico di Benedetto, quella sua grande inconscia umiltà, i suoi progressi nella intelligenza della Fede giusta le idee che originavano dal signor Giovanni, certi lumi nuovi che gli scaturivano, conversando, dal pensiero, la forza crescente del mutuo affetto, gli avevano fatto concepire speranze di una prossima rivelazione, in quel naufrago del mondo, della Divina Grazia, della Divina Verità, della Divina Potenza, per il bene delle anime. Lo avevano detto, alla riunione di casa Selva: ci vorrebbe un Santo. Lo aveva detto per il primo quell' Abate svizzero. Secondo altri era desiderabile un Santo laico. E questo era pure il suo pensiero, e gli pareva provvidenziale che a Benedetto ripugnasse la Vita monastica. Quasi quasi gli parve provvidenziale anche la venuta della signora, che lo costringeva a lasciare il convento. Ma che gli succedeva ora sul monte? Che gli diceva Iddio nel cuore? E se ... Questo balenare di un se nuovo, inatteso, formidabile, arrestò il meditabondo nel suo lento cammino. "Magister adest et vocat te." Forse lo stesso Maestro Divino chiamava Benedetto a servirgli sotto le vesti del monaco. Egli cessò, sbigottito, di pensare, e dal Capitolo, posato il lanternino, entrò nella Chiesa, mosse diritto alla cappella del Sacramento. Con quella dignità che nessuna tempesta interna poteva togliere alle movenze signorili della persona, alla pura bellezza del viso, si compose sull'inginocchiatoio nel mezzo della cappella, fra le quattro colonne, sotto la lampada; e alzò gli occhi al Tabernacolo. Il Maestro della Via, della Verità e della Vita, il Diletto dell'anima, era là e dormiva come la procellosa notte sul mare di Genezareth, fra Gadara e la Galilea, nella barca che altre barche travagliate dai flutti seguivano per le tenebre sonore. Era là e pregava come un'altra notte, solo, sul monte. Era là e diceva con la sua dolce voce eterna: - venite a me, voi dolenti; voi cui la Vita è grave, tutti venite a me. - Era là e parlava, il Vivente: credete in me che sono con Voi, ristoro vostro e pace, io l' Umile, figlio del Potente, io il Mite, figlio del Terribile, io lavoratore dei cuori per il regno della giustizia, per la futura unità di voi tutti meco nel Padre mio. Era là, il Pietoso, nel Tabernacolo e spirava l'invito ineffabile: vieni, apriti, abbandonati a me. E Clemente si abbandonò, gli disse quello che non aveva mai confessato neppure a sé stesso. Sentiva nell'antico monastero, tutto, tranne Cristo nel Tabernacolo, morire. Come cellula dell'organismo ecclesiastico, elaboratrice di calore cristiano radiante al mondo, il monastero si ossificava nella vecchiaia inesorabile. Onorandi fochi di fede e di pietà chiuse nelle forme tradizionali, simili alle fiamme dei ceri accesi sugli altari, vi consumavano i loro involucri umani inviandone al cielo il vapore invisibile, senza che una sola onda calorifica o luminosa ne vibrasse al di là delle muraglie antiche. Le correnti dell'aria viva non vi entravano più e i monaci non uscivano più a cercarle come nei primi secoli, lavorando nei boschi e sui prati, cooperando alle vitali energie della natura, nell'atto stesso che magnificavano Iddio col canto. I colloquii con Giovanni Selva lo avevano indirettamente condotto, poco a poco, a sentire così della Vita claustrale nelle sue forme presenti, pure essendo convinto che ha indestruttibili radici nell'anima umana. Ma forse ora per la prima volta gli avveniva di guardare il suo sentimento in faccia. Era da un pezzo suo voto, era sua speranza che Benedetto diventasse un grande operaio del Vangelo; non un operaio comune, un predicatore, un confessore, bensì un operaio straordinario; non un soldato dell'esercito regolare, impedito dall'uniforme e dalla disciplina, bensì un libero cavaliere dello Spirito Santo; ma la Regola monastica non gli si era mai ripresentata in tale antagonismo con il suo ideale di un Santo moderno. E se ora la Volontà Divina si manifestasse a Benedetto proprio diversa dal desiderio suo? Ah non era egli già quasi sull'orlo di un peccato mortale? Non presumeva già egli quasi, polvere tracotante, di giudicare le vie di Dio? Prosternato sull'inginocchiatoio, s'immerse nell' Onnipotente, anelando senza parole al perdono, alla rivelazione, in Benedetto, della Volontà Divina, adorandola da quel momento qualunque fosse. Nell'alzarsi con un naturale defluire dell'onda mistica dal cuore, con gli occhi vôlti ancora all'altare ma non più fissi nel Tabernacolo, non poté a meno di pensare alla Dessalle e al discorso di Benedetto. La mediocre pala di quell'altare rappresenta la martire Anatolia che offre dal paradiso la palma simbolica ad Audax, il giovine pagano che tentò sedurla e ne fu invece condotto a Cristo. La Dessalle aveva sedotto Benedetto; per quanto Benedetto si fosse studiato di scolpare lei e d'incolpare sé, don Clemente non dubitava che le cose fossero andate così. Se ora egli operasse la conversione di lei? Se fosse giusto che la tentasse? Se il sentimento di Benedetto fosse realmente più cristiano che il timore suo e gli spasimi del Padre Abate? Don Clemente si dibatteva in testa questi problemi attraversando a capo basso la Chiesa. Anatolia e Audax! Gli sovvenne che un forestiere scettico, udita da lui la spiegazione del quadro, aveva detto: sì, ma se non li avessero ammazzati, né l'uno né l'altra? E se Audax avesse avuto moglie? E queste beffarde parole gli erano parse una indegna profanazione. Le ripensò e, sospirando, raccattò da terra il lanternino posato nel Capitolo. Invece di avviarsi alla sua cella si recò nel secondo chiostro a guardare il dorso del Colle Lungo, dove forse Benedetto stava in orazione. Alcune stelle brillavano sul roccioso dorso grigio macchiato di nero e il loro lume oscuro mostrava nel chiostro il piazzale, gli arboscelli sparsi, la torre possente dell' Abate Umberto, le arcate, le mura vecchie di nove secoli e, sulla ogiva del portale grande dove don Clemente stava contemplando, la doppia riga dei fraticelli di sasso che vi salgono in processione. Il chiostro e la torre si affermavano nella notte con maestà di potenza. Era proprio vero che stessero morendo? Nel lume delle stelle il monastero pareva più vivo che nel sole, grandeggiava in una mistica comunione di senso religioso con gli astri. Era vivo, era pregno di effluvi spirituali diversi, confusi in una persona unica, come le diverse pietre tagliate e scolpite a comporre la unità del suo corpo, come diversi pensamenti e sentimenti in una coscienza umana. Le vetuste pietre, sature di anime commiste ad esse in amore, sature di desiderii santi e di Santo dolore, di gemiti e di preci, radiavano un che oscuro, penetrante nel subcosciente. A quei lavoratori di Dio che nelle ore aride vi si ritraessero dal mondo a breve riposo, potevano rinfondere forza come d'estate al falciatore in deserti montani una fonte. Ma perché le pietre durassero vive, un continuo fiume di Vita doveva pure trapassar per esse, un fiume di spiriti adoranti, contemplanti. Don Clemente sentì quasi rimorso dei pensieri volontariamente accolti in Chiesa circa la decrepitezza del monastero, pensieri radicati nel suo giudizio personale, piacenti al suo amor proprio, quindi viziati di quella concupiscenza dello spirito che i suoi diletti Mistici gl'insegnavano a discernere e ad aborrire. Giunte le mani, fissò il dorso selvaggio del monte dove si figurava Benedetto pregante, fece un atto mentale di rinuncia, di umile abbandono delle proprie idee circa l'avvenire di quel giovine. Benedisse Iddio se lo voleva laico, benedisse Iddio se lo voleva monaco, se scopriva la Sua volontà e se non la scopriva. "Si vis me esse in luce sis benedictus, si vis me esse in tenebris sis iterum benedictus." E si avviò alla sua cella. Nel grande corridoio dove le due fioche lampade ardevano ancora, passando davanti all'uscio dell' Abate, ripensò la conversazione avuta col vecchio e quelle sue massime circa i mali della Chiesa e la opportunità di operare contro di essi. Ricordò un discorso del signor Giovanni sulle parole "fiat voluntas tua" che il comune dei fedeli intende soltanto come un atto di rassegnazione, e che implicano, invece, il dovere di lavorare con tutte le nostre forze per il prevalere della legge Divina nel campo della libertà umana. Il signor Giovanni gli aveva fatto battere il cuore più forte e l' Abate glielo aveva fatto battere più fiacco. Quale dei due aveva detto la parola di Vita e di Verità? La sua cella era l'ultima a destra, presso il balcone che guarda la conca rigata dall' Aniene, Subiaco e i monti Sabini. Prima di entrar nella sua cella don Clemente si fermò a guardar i lumi lontani di Subiaco, pensò alla villetta rossa, più vicina ma invisibile, pensò a quella donna. Trame, aveva detto l' Abate. Amava ella ancora Piero Maironi? Aveva scoperto, sapeva ch'egli si era rifugiato a Santa Scolastica? Lo aveva riconosciuto? Se sì, che meditava di fare? Probabilmente non aveva preso stanza nel minuscolo quartiere dei signori Selva; probabilmente alloggiava in un albergo di Subiaco. Quei lumi lontani erano fuochi di un campo nemico? Si fece il segno della croce ed entrò nella sua celletta per un breve sonno fino alle due, ora di coro. Benedetto prese la via del Sacro Speco. Oltrepassato, all'altro angolo del monastero, il letto asciutto di un torrentello, raggiunto a destra l'oratorio antichissimo di Santa Crocella, salì per la petraia che ruina giù verso il rombo dell' Aniene di fronte ai carpineti del Francolano, erto e nero fino alla croce del vertice, incoronata di stelle. Prima di toccare l' Arco che mette al bosco del Sacro Speco, uscì di via, si arrampicò a sinistra, cercando il posto dell'ultima sua veglia, alto sui tetti quadrati e sulla torre tozza di Santa Scolastica. La ricerca del sasso dove aveva pregato ginocchioni un'altra dolorosa notte, sviandogli il pensiero dal mistico foco in cui era chiuso, glielo raffreddò. Se ne avvide tosto, ne sentì un rammarico affannoso, una impazienza di ricuperar calore acuita dal timore di non riuscirvi, dal senso di esserne in colpa, dal ricordo di altre aridità tristi. Gelava, gelava sempre più. Cadde ginocchioni, chiamò Iddio con uno spasimo di preghiera. Come piccola fiamma inutilmente apposta ad un fascio di legna verde, lo slancio della volontà gli venne meno senza movere il cuore inerte e mancò in uno stupido ascoltare del rombo eguale dell' Aniene. La mente gli ritornò in un assalto di terrore. Forse la notte passerebbe intera così; forse al gelo arido seguirebbe la tentazione calda! Impose silenzio al fervere delle immaginazioni, si raccolse nel proposito di non smarrirsi d'animo. Allora sorse in lui l'idea chiara che spiriti nemici gli erano sopra. Se avesse veduto intorno a sé fiammeggiare occhi diabolici nei fessi delle pietre, ne sarebbe stato meno certo. Sentiva in sé il vaporare di un veleno, sentiva un'assenza di amore, un'assenza di dolore, un tedio, un peso, l'aggravarsi di un assopimento mortale. Ricadde nello stupido ascoltare il rumore del fiume, fissi gli occhi senza sguardo al bosco nero del Francolano. Gli passò nella visione interna, lento automa, la immagine del prete malvagio vissuto là colla sua corte di peccatrici. Sentì stanchezza di star ginocchioni, si accasciò su sé stesso. Ecco ancora l'automa lento. Si voltò con un faticoso sforzo a sedere, abbandonò le mani sui ciuffi dell'erba soffice, fra sasso e sasso, odorante. Chiuse gli occhi nella dolcezza di quel tocco morbido, dell'odor selvaggio, del riposo; e vide Jeanne pallida sotto l'ala obliqua di un cappello nero, piumato, che gli sorrideva con gli occhi umidi di lagrime. Il cuore gli batté forte, forte, forte; un filo, un filo solo di volontà buona lo tratteneva sulla china dell'abbandono all'invito di quel volto. Spalancò gli occhi, mise, a braccia distese, a mani aperte, un lungo gemito. E subito pensò che qualche viandante notturno potesse averlo udito, trattenne il respiro, stette in ascolto. Silenzio; silenzio di tutte le cose fuorché del fiume. Il cuore gli si venne chetando. "Dio mio, Dio mio" mormorò, inorridito del pericolo corso, dell'abisso intravvisto. Si afferrò con gli occhi, con l'anima, al gran dado sacro, lì sotto, di santa Scolastica, al torrione tozzo, tanto buono, che amava. Trapassò con lo spirito l'ombre e i tetti, attrasse in sé la visione della Chiesa, della lampada ardente, del Tabernacolo, del Sacramento, vi si affisse avido. Si raffigurò con uno sforzo i chiostri, le celle, le grandi croci presso i giacigli dei monaci, il volto serafico del suo Maestro addormentato. Durò nello sforzo quanto poté, reprimendosi dentro con angoscia un balenar frequente dell'obliquo cappello piumato e del viso pallido, fino a che i baleni gli si affiochirono, gli si perdettero giù nelle profondità inconscie dell'anima. Allora sorse faticosamente in piedi e lento come se la maestà di una grandezza pensata governasse gli stessi suoi moti, giunse le mani, vi piegò il mento su. Fermò il pensiero nella preghiera dell'Imitazione: "Domine, dummodo voluntas mea recta et firma ad te permaneat, fac de me quidquid tibi placuerit." Non vi era commozione nel suo interno, pareva che gli spiriti di nequizia se ne fossero allontanati; ma neppure vi erano discesi angeli. La mente stanca gli posò nel senso delle cose esterne, delle vaghe forme, dei fiochi biancori nell'ombra, del lontano ululo di un gufo nei carpineti, del tenue aroma d'erba che le mani giunte odoravano ancora. L'aroma selvaggio gli richiamò il momento in cui aveva posato le mani sull'erba, prima che gli apparisse il sorriso triste di Jeanne. Sciolse le mani impetuoso, tornò con gli occhi avidi al monastero. No no, Iddio non avrebbe permesso ch'egli fosse vinto, Iddio lo serbava alle opere sue. Allora dal profondo dell'anima, senza che il volere vi avesse parte, gli si levarono fantasmi non più evocati, per consiglio del Maestro, da quando era venuto a Santa Scolastica; fantasmi della visione affidata in iscritto alla custodia di don Giuseppe Flores. Egli si vide ginocchioni a Roma in piazza San Pietro, di notte, fra l'obelisco e la fronte del tempio immenso, illuminato dalla luna. La piazza era vuota; il rumore dell' Aniene gli diventò il rumore delle fontane. Dalla porta del tempio si porgeva sulla gradinata un gruppo di uomini vestiti di rosso, di violetto e di nero. Lo fissavano minacciosi, appuntando gl'indici verso Castel Sant'Angelo, come per intimargli di partirsi dal luogo sacro. Ma ecco, questa non era più la Visione, questo era un immaginar nuovo! Egli sorgeva, diritto e fiero, in faccia al manipolo nemico. Gli ruggiva improvviso alle spalle un rombo di moltitudini accorrenti che irrompevano nella piazza dalle bocche di tutte le vie, a fiumi. Un'ondata lo travolgeva con sé acclamando al riformatore della Chiesa, al vero Vicario di Cristo, lo posava sulla soglia del tempio. Di là egli si volgeva come ad affermare autorità sull' Orbe. In quel momento gli folgorò nel pensiero Satana offrente a Cristo il regno del mondo. Precipitò a terra, si stese bocconi sulle pietre, gemendo nello spirito: "Gesù, Gesù, non son degno, non son degno di venir tentato come Te!" E porse le labbra strette, le affisse al sasso, cercando Iddio nella creatura muta, Iddio, Iddio, il sospiro, la Vita, la pace ardente dell'anima. Un soffio di vento gli corse sopra, gli mosse l'erbe intorno. "Sei Tu" egli gemette "sei Tu, sei Tu?" Il vento tacque. Benedetto si stringe i pugni alle guancie, leva il capo puntando i gomiti al sasso, sta in ascolto senza saper di che. Sospira, si ripone a sedere. Iddio non gli parlerà. L'anima stanca tace, vuota di pensiero. Passa il tempo, lento. L'anima stanca richiama a fatica per suo ristoro l'ultima parte della Visione, il suo ascendere, per un notturno cielo tempestoso, incontro ad angeli discendenti. E pensa torbidamente: se questa sorte mi aspetta, perché rattristarmi? Se sarò tentato non sarò vinto e se sarò vinto Iddio mi rialzerà. Neppure è necessario di domandargli cosa voglia da me. Perché non scendo a dormire? Benedetto si alzò, greve il capo di stanchezza plumbea. Il cielo si era tutto coperto di nuvole pesanti fino ai monti di Jenne, dove la valle dell'alto Aniene gira. Appena Benedetto poteva discernere la tenebra nera del Francolano, in faccia, e i lividori, a' suoi piedi, della petraia. Mosse per discendere e al secondo passo si arrestò. Le gambe non lo reggevano, un soffio di sangue gli accese il viso. Era quasi digiuno da trent'ore. Non aveva preso che un tozzo di pane a mezzodì. Si sentì punger la persona da miriadi di spilli, batter forte il cuore, annebbiar la mente. Quali viluppi di serpi gli si attorcigliavano ai piedi simulando la innocenza dell'erba? E qual demonio sinistro lo attendeva lì sotto, carponi sulla pietra, simulando un cespuglio per avventarglisi? Non lo aspettavano i demonii anche nel monastero? Non si annidavano negli occhi del torrione? Non avevano quegli occhi una fiamma nera? No, no, adesso non più; adesso lo fissavano semichiusi e beffardi. Il rombo dell' Aniene, questo? No, il ruggito dell' Abisso trionfante. Non credeva interamente a quello che vedeva, a quello che udiva, ma tremava tremava come una festuca nel vento e le miriadi di spilli gli camminavano per tutta la persona. Cercò svincolar i piedi dai viluppi di serpi, non gli riuscì. Dal terrore alla collera: "devo potere!" esclamò, forte. Dalla gola fosca di Jenne gli rispose il sordo rumor del tuono. Guardò a quella volta. Un lampo aperse le nubi sopra il negrore del monte Preclaro e sparì. Benedetto si provò di levar i piedi dalle serpi e ancora la leonina voce del tuono lo minacciò. "Cosa faccio?" si diss'egli, cercando raccapezzarsi. "Perché voglio scendere?" Non lo sapeva più, ebbe bisogno di uno sforzo mentale per ricordare. Ecco, aveva pensato di scendere a dormire perché la preghiera era inutile a un uomo sicuro di salire al cielo. E un lampo arse anche dentro di lui: "Io tento Iddio!" Le serpi lo stringevano, il demonio strisciava carponi alla sua volta per la petraia tutta infernalmente viva di spiriti feroci, le fiamme nere ardevano negli occhi del torrione, ruggendo sempre l' Abisso a trionfo. Ma il rugghio sovrano del tuono romoreggiò per le nubi: "Non tentare il Signore Iddio tuo." Benedetto levò al cielo il viso e le mani congiunte, adorando, come poté, con l'ultimo lume della offuscata coscienza, vacillò, allargò le braccia, afferrò l'aria, piegò lentamente all'indietro, stramazzò riverso sulla china, giacque senza moto. Il suo corpo giaceva immobile nel vento del temporale, come un tronco schiantato, fra il dibattersi delle ginestre e il mareggiare dell'erba. L'anima dovette chiudersi nel contatto centrale con l' Essere senza tempo e senza spazio, perché Benedetto, al primo ritorno della coscienza, non ebbe senso né del luogo né dell'ora. Sentiva una levità strana delle membra, una spossatezza fisica piacevole, una infinita dolcezza interna; prima sul viso, poi sulle mani tanti minuti titillamenti come di animati atomi amorosi dell'aria: teneri sussurri di voci timide intorno a quello che gli pareva il suo letto. Si rizzò a sedere, guardò smarrito ma in pace; dimentico del dove e del quando, ma tanto in pace, tanto contento della quieta fonte interna di un indistinto amore che gli fluiva in tutti i vasi della Vita e se ne spandeva per le cose intorno, per le dolci piccole vite fatte amorose a lui. Sorridendo fra sé del suo proprio smarrimento, riconobbe il dove e il come. Il quando, no. Neppure ne sentì desiderio, neppure si domandò se dalla caduta fossero trascorse ore o minuti, tanto lo appagava il beato presente. Il temporale era disceso verso Roma. Nel mormorio della pioggia senza vento, piana piana, nella voce grande dell' Aniene, nella riposata maestà dei monti, nell'odore selvaggio della petraia umida, nello stesso proprio cuore, Benedetto sentiva un Divino confuso alla creatura, un'ascosa essenza di paradiso. Sentiva di fondersi con le anime delle cose come piccola voce in un coro immenso, di essere uno con la montagna odorante, con l'aria beata. E così sommerso nel mare della paradisiaca dolcezza, abbandonate le mani sulle ginocchia, socchiusi gli occhi, blandito dalla pioggia piana piana, godeva non senza un vago desiderio che tanta soavità fosse conosciuta dalla gente che non crede, dalla gente che non ama. Nel declinare del rapimento gli ritornarono a mente i perché della presenza sua sul monte deserto nelle tenebre della notte, e le incertezze del domani, e Jeanne, e l'esilio dal monastero. Ma ora incertezze e dubbî erano indifferenti all'anima sua ferma in Dio, come al Francolano immobile i tremolii del suo manto di foglie. Incertezze, dubbî, ricordi della mistica Visione gli si disciolsero nel profondo abbandono alla Divina Volontà, che avrebbe disposto di lui a suo piacimento. La immagine di Jeanne, contemplata quasi dall'alto di una inaccessibile torre, gli moveva solo il desiderio di operare fraternamente per lei. La tranquilla ragione ripigliando intero l'ufficio suo, egli si accorse di esser molle di pioggia fin dentro le vesti; e la pioggia, piana piana, continuava. Che fare? Rientrare all' Ospizio dei pellegrini no perché il vaccaro dormiva; svegliarlo per farsi aprire non avrebbe voluto né sarebbe stato facile. Pensò di riparare sotto i lecci del Sacro Speco. Alzatosi faticosamente, ebbe un assalto di vertigini. Aspettò un poco e poi scese adagio adagio sulla via che da Santa Scolastica mette all' Arco d'ingresso nel bosco. Là nella nera ombra dei grandi lecci chini e protesi, a braccia sparse, sulla china del monte, fra il chiarore fioco, a sinistra, della costa esterna al bosco, cadde a sedere, sfinito. Desiderava un po' di cibo e non osò domandarlo al Signore, parendogli domandare un miracolo. Si dispose ad attendere il giorno. L'aria era tepida, il suolo quasi asciutto, radi goccioloni battevano qua e là dal fogliame dei lecci. Benedetto si assopì di un sopor lieve che appena gli velava le sensazioni, tramutandole in sogno. Si figurò di stare in un sicuro asilo di preghiera e di pace, all'ombra di braccia sante, protese sopra il suo capo; e gli pareva di doverlo abbandonare per ragioni di cui gli era evidente l'impero, benché non avesse coscienza della loro natura. Poteva uscirne per una porta cui metteva capo la via discendente al mondo, poteva uscirne dalla parte opposta, per un cammino ascendente a solitudini sacre. Pendeva incerto. Il batter vicino di una grossa goccia gli fece aprire gli occhi. Dopo un primo momento di torpore riconobbe l' Arco a destra, cui metteva capo il cammino discendente verso Santa Scolastica, Subiaco, Roma; a sinistra il cammino ascendente verso il Sacro Speco. E notò attonito che dall'uno e dall'altro lato, fuori dei lecci, le pietre scoperte erano molto più chiare di prima, che tanti minuti chiarori traforavano il fogliame sopra il suo capo. Giorno? Si fa giorno? Benedetto avrebbe creduto oltrepassata di poco la mezzanotte. Le ore suonano a Santa Scolastica; una, due, tre, quattro. È giorno e sarebbe anche più chiaro se il cielo non fosse tutto una pesante nube dai monti di Subiaco a quelli di Jenne, quantunque non piova più. Un passo da lontano; qualcuno sale verso l'Arco. Era il vaccaro di Santa Scolastica che, per un caso insolito, portava a quell'ora il latte al Sacro Speco. Benedetto lo salutò. Colui all'udir questa voce, tramortì e fu per lasciar cadere il vaso del latte. "Oh, Benedè!" esclamò riconoscendo Benedetto. "Qui, siete?" Benedetto gli chiese un sorso di latte per amor di Dio. "Lo racconterete ai padri" diss'egli. "Direte ch'ero sfinito e che vi ho chiesto un po' di latte per amor di Dio." "Eh sì! eh sta bene! eh pigliate! eh bevete!" fece colui, rispettoso, avendo Benedetto per un Santo. "Che ci avete passato la notte qui? Che ci avete preso tutta quella pioggia? Dio come siete molle! Siete inzuppato come una spugna, siete!" Benedetto bevve. "Benedico Iddio" diss'egli "per la bontà vostra e per la bontà del latte." Lo abbracciò e, anni dopo, il vaccaro, Nazzareno Mercuri, soleva raccontare che mentre Benedetto lo stringeva fra le sue braccia non gli pareva esser lui; che il sangue gli era diventato prima tutto un gelo poi tutto un foco; che il core gli batteva forte forte come la prima volta che aveva ricevuto Cristo in Sacramento; che un gran dolor di capo statogli addosso due giorni gli era sfumato via; che allora egli aveva capito subito di trovarsi nelle braccia di un Santo da miracoli e gli era caduto ginocchioni ai piedi. In fatto non s'inginocchiò ma restò di sasso e Benedetto gli dovette dire due volte: "ora andate, Nazzareno; andate, figliolo caro." Avviatolo amorevolmente così al Sacro Speco, s'incamminò egli stesso verso Santa Scolastica. La petraia chiara era vôta di spiriti buoni e rei. Montagne, nuvole, le stesse fosche mura del monastero e la torre parevano, nella luce scialba, gravi di sonno. Benedetto entrò nell' Ospizio e coricatosi, senza spogliar le vesti bagnate, sul misero giaciglio, si raccolse al petto le braccia in croce, si addormentò profondamente.

Egli amava e riveriva Giovanni Selva come un grande cristiano, aveva talvolta a difendersi contro la tentazione di giudicar il suo superiore, l' Abate, che gli aveva interdetto di visitarlo, contro la tentazione di appellarsi dall' Abate a Qualcuno maggiore degli Abati e anche dei Pontefici, interno all'anima sua. Ora Questi gli disse nell'anima: "l'incontro è mio dono" e il monaco si unì lieto agli amici. Maria lo presentò a Noemi ed egli arrossì ancora nel riconoscere la persona che aveva scambiato per la persecutrice di Benedetto. "E la sua amica?" diss'egli, tremando di apprendere che fosse lì presso. Rassicurato, lampeggiò di sollievo nel viso. Noemi ne sorrise ed egli, avvedutosene, rimase confuso. Sorrisero anche gli altri ma nessuno parlò. Il primo a rompere il silenzio fu Giovanni. Certo don Clemente andava a Jenne come loro? E forse ci andava per lo stesso scopo, per vedere la stessa persona, l'ortolano, eh, l'ortolano di quella sera? Ah don Clemente, don Clemente! Sì, don Clemente andava pure a Jenne, ci andava per vedere Benedetto. E quanto all'ortolano, si scusò. Inganno non c'era stato, c'era stato il desiderio che le due anime si avvicinassero senza violenza, nel modo più spontaneo, senza raccomandazioni e informazioni preventive. Preso a salire insieme la costa, parlarono di Benedetto. Noemi, dimentica della stanchezza, pendeva dalle labbra del Padre, e il Padre, appunto per questo, parlava così poco e così circospetto ch'ella ne fremeva d'impazienza, e in breve si sentì stanca da capo. Prese il braccio di Maria, lasciò che don Clemente si dilungasse con suo cognato. Allora don Clemente confidò a Giovanni che aveva una missione penosa. Pareva che qualcuno avesse scritto a Roma da Jenne in modo ostile a Benedetto, accusandolo di tenere discorsi non perfettamente ortodossi, di spacciarsi per taumaturgo e di vestire senza diritto un abito religioso che rendeva gravissimo lo scandalo. Certo da Roma era stato scritto all' Abate e l' Abate aveva dato l'incarico a lui, don Clemente, di recarsi a Jenne e di chiedere a Benedetto la restituzione dell'abito. Don Clemente aveva cercato invano dissuadere il vecchio Abate che se l'era cavata con una barzelletta: "leggete il Vangelo, la Passione secondo S. Marco: chi segue Cristo quando tutti lo abbandonano bisogna che ci rimetta l'abito. È un segno di santità." E poiché qualcuno doveva portare questo messaggio a Jenne, don Clemente preferì di portarlo egli. Aveva poi anche ricevuto una strana lettera dell'arciprete di Jenne. L'arciprete, brav'uomo ma timido, gli aveva scritto che Benedetto, a suo avviso, era veramente un pio cristiano ma che discorreva troppo di religione alla gente e che i suoi discorsi avevano qualche volta un certo sapore di quietismo e di razionalismo; che lo si accusava di esercitare a profitto delle sue idee non tanto ortodosse un potere diabolico; che l'accusa era sicuramente falsa ma ch'egli non aveva potuto, per prudenza, tenerlo ancora presso di sé, che forse il miglior partito sarebbe per lui di andarsene in qualche paese dove non fosse conosciuto e viverci quieto. Il dialogo fu interrotto da una chiamata di Maria. Noemi, spossata dal sole ardente, presa da palpitazione, aveva bisogno di un'altra sosta. Le Signore si erano sedute all'ombra di un sasso. Don Clemente si congedò. Si sarebbero riveduti a Jenne! Maria era molto angustiata per sua sorella, si rimproverava in cuor suo di non essersi opposta a che venisse a piedi. Lei e Giovanni tacevano guardando Noemi che sorrideva loro, pallida. In quel deserto di montagne senza bellezza, su quei sassi bruciati dal sole, il silenzio pesava di un peso mortale. Fu per tutti e tre un sollievo di udire voci di viandanti che salivano. Erano sei o sette persone, avevano seco due muli e salivano cantando il rosario. Quando furono vicini si videro sui muli una giovinetta e un uomo, sparuti ambedue, quasi cadaverici. La giovinetta, visti i Selva, spalancò gli occhi; l'uomo li teneva chiusi. Gli altri guardarono con certe facce compunte, continuando le preghiere. La nenia monotona si dilungò insieme al calpestio dei muli, si perdette nell'alto. Poco dopo la triste processione sopraggiunse dal basso una brigata allegra di giovinotti borghesi che ridevano parlando di Quiriti a caccia piuttosto di Sabine che di Santi. Al vedere Giovanni e le due Signore ammutolirono. Passati, ripresero a ridere e a scherzare; scherzarono su Giovanni che forse era il Santo fra le tentatrici. Una grande nube dagli orli di argento, la prima di una flotta che veleggiava verso ponente, oscurò il sole; e Noemi, alquanto rinfrancata, propose di approfittare dell'ombra per rimettersi in via. Pochi passi sotto la croce sognata, secondo quel Torquato, dall'arciprete, incontrarono un borghese vestito di nero che scendeva sul mulo. "Scusino" diss'egli alle Signore, trattenendo il mulo, "una di Loro è Sua Eccellenza la duchessa di Civitella?" Udita la risposta, si scusò dicendo che un senatore suo amico gli aveva raccomandata questa duchessa, da lui non conosciuta, che doveva capitare a Jenne per vedere il Santo. "Già" diss'egli sorridendo. "Forse anche Loro. Tutti adesso. Una volta ci venivano a vedere un Papa. Sicuro. A Jenne c'era un Papa. Alessandro IV. Vedranno l'iscrizione. "Calores aestivos vitandi caussa." Adesso ci vengono per un Santo. Dovrebb'essere più che un Papa. Ho paura che sia meno! Hanno visto i due malati? Hanno visto gli studenti di Roma? Eh, vedranno altro, vedranno altro! Ma ho paura che sia meno. Buon viaggio a Loro signori!" Oltrepassata la croce, montarono in faccia al cielo aperto, fra i dorsi verdi pendenti alla conca romita di Jenne, incoronata là di fronte dalla povera greggia di casupole che il campanile governa. Giovanni era stato a Jenne altre volte e non gli parve diversa perché ora vi dimorasse un Santo e vi si operassero miracoli. Sua moglie, che ci veniva per la prima volta, ebbe l'impressione di un luogo spirante raccoglimento religioso per quel senso di altezza non suggerito da vedute lontane, per quel cielo profondo dietro il villaggio, per la solitudine, per il silenzio. Noemi pensò con pietà profonda alla povera lontana Jeanne.

Erano Dane, a cavallo, Marinier e l' Abate a piedi, che scendevano insieme dal Sacro Speco. Dane mostrò molto piacere dell'incontro, trattenne la sua cavalcatura, presentò le Signore all' Abate, parlò con entusiasmo del Sacro Speco. Jeanne, scambiata qualche parola coll' Abate, gli domandò se qualcuno avesse pronunciato i voti solenni, o almeno vestito l'abito, di recente. L' Abate rispose ch'era venuto a Santa Scolastica da pochi giorni e non era in grado di risponderle lì per lì; ma non credeva che da un anno, a dir poco, nessuno a Santa Scolastica avesse fatto la professione solenne né vestito l'abito di novizio. Jeanne s'illuminò di gioia. Adesso lo capiva, era stata una stupida di dubitare possibile, anche per un solo momento, che Piero fosse diventato frate, da contadino, in dodici ore. Avrebbe voluto ritornare subito all'orto di Santa Scolastica; ma come fare? Quale pretesto prendere? Proseguì, ansiosa di sbrigarsi presto del Sacro Speco. Noemi propose di sostare un poco all'ombra dei lecci che là sulla via delle anime agitate dall'amor divino paiono torti anch'essi da un interno furore ascetico, da un frenetico sforzo di svellersi dalla terra per avventar le braccia nel cielo. Jeanne rifiutò, impaziente. Aveva ripreso colore nel volto e luce negli occhi. Si mise spedita per la scaletta che termina il breve cammino e malgrado le proteste di Noemi, che non capiva il perché di tanto mutamento, non volle neppure riprender fiato in capo alla scala, ove improvvisamente si scopre la scena cupa, profonda della vallea, e alto, a sinistra, l'orrido sasso caro ai falchi e ai corvi, rigonfio sopra le murature squallide, bucate di fori disadorni, che vi s'incrostano per traverso sugli anfratti nudi e sono il monastero del Sacro Speco. Sotto il monastero, nel profondo, pende il roseto di san Benedetto e sotto il roseto pendono gli orti, pendono gli uliveti al ruggente Aniene scoperto. Il cumulo assiso sui monti di Jenne saliva invadendo il cielo. Una ondata d'ombra passò sul sasso enorme, sul monastero, sul parapetto cui Noemi aveva appoggiato i gomiti, contemplando. "Questo è magnifico" diss'ella. "Lasciami fermare un po' qui almeno, ora che c'è ombra!" Ma in quel momento, a due passi da loro, si apriva la porticina del monastero e ne usciva una compagnia di stranieri, signori e Signore. Il monaco che li aveva guidati, vedendo Jeanne e Noemi, tenne aperto l'uscio in atto di aspettazione. Jeanne si affrettò a entrare e Noemi, mal suo grado, la seguì. "Affreschi del Trecento" disse il benedettino nell'oscuro corridoio di entrata, con voce indifferente e passando. Noemi si fermò, curiosa delle pitture antiche. Jeanne tenne dietro al benedettino, senza guardare né a destra né a sinistra, distratta, tentata da un dubbio. Se l' Abate non avesse detto il vero? Se lo avesse detto l'accattone? La fantasia le rappresentò l'incontro felice nel cortile di Praglia, il viso pallidissimo di lui, il "grazie" che l'aveva fatta tremar di gioia. Le correvano brividi nel sangue e, come per una strappata di redini all'immaginazione, si voltò a Noemi: "Vieni" diss'ella. Seguì il monaco nulla udendo di quello ch'egli diceva, nulla guardando di quello che indicava. Noemi dissimulava a fatica le proprie inquietudini. Presentiva un pericolo nel ritorno. Il punto pericoloso era l'orto di Santa Scolastica dove Jeanne intendeva rientrare, secondo aveva detto al vecchio ortolano. Adesso le era passato il desiderio di vedere questo famoso Maironi. Non desiderava che di ritornare con Jeanne a casa Selva senz'aver fatto incontri e avrebbe voluto indugiarsi al Sacro Speco il più possibile perché poi mancasse loro il tempo di sostare a Santa Scolastica. Perciò fingeva prendere alle viscere preziose del monastero dalla squallida pelle un interesse continuo, mentre invece sentiva solamente desiderio di ritornarvi un'altra volta, con sua sorella o con suo cognato, in pace. Nel discendere in quella miniera della santità, né l'una né l'altra sapevano qual via facessero per l'aria morta e fredda, per le ombre mistiche, per i chiarori giallognoli pioventi dall'alto, per gli odori di sasso umido, di lucignoli fumosi, di arredi vecchioni, per le visioni di cappelle, di grotte, di croci negli sfondi bui di scale perdentisi in fuga, a paro con le loro volte acute, giù verso caverne inferiori, di marmi color di sangue, color di notte, color di neve, di rigide folle pie dalle facce bizantine ingombranti le pareti, i timpani delle arcate, di monacelle e di fraticelli ritti nelle strombature delle finestre, nei pennacchi delle vôlte, lungo il giro degli archivolti, ciascuno con la sua venerabile aureola. Non sapevano quale cammino vi facessero e Jeanne appena ne sentiva la realtà. Nello scendere la Scala Santa, precedendo il monaco seguito immediatamente da Jeanne e Noemi venendo ultima a cinque o sei gradini di distanza, Jeanne, improvvisamente, gittò le mani alle spalle della guida e subito, vergognando dell'atto involontario, le ritolse mentre il monaco, fermatosi, le volgeva il capo, attonito. "Scusi" diss'ella. "Chi è quel Padre?" Fra due ripiani della Scala, dietro un risalto della parete di sinistra, una figura tutta nera nella tonaca benedettina si teneva ritta nell'angolo oscuro, appoggiando la fronte al marmo. Jeanne l'aveva oltrepassata di quattro o cinque gradini senza vederla. S'era voltata a guardare per caso, l'aveva veduta, un istintivo sospetto le era lampeggiato nel cuor tremante. Il monaco rispose: "Non è un Padre, signora." Si chinò ad aprire con la chiave la cancellata di una cappella. "Cosa c'è?" chiese Noemi, sopraggiungendo. "Non è un Padre?" ripeté Jeanne. Nell'udire la voce strana dell'amica, Noemi trasalì. Neppure lei aveva notato la figura ritta nell'ombra della parete. "Chi?" diss'ella. Il monaco, che intanto aveva aperto, intese "qui?" e riferì la parola a un discorso di prima. "No" disse "il ritratto autentico di san Francesco non è qui. Più abbasso c'è un san Francesco dipinto dal cavalier Manente. Lo vedranno dopo. Se vogliono passare ..." Noemi disse piano a Jeanne "cos'hai?" e avendo l'altra risposto con voce più tranquilla "niente" le passò avanti, entrò nella cappella, ascoltando le spiegazioni del monaco. Allora la figura nera si staccò dalla parete. Jeanne la vide salire lenta nell'ombra sotto le arcate ogivali. Toccato il ripiano superiore, la figura sparve a destra e subito ricomparve in un braccio di scala attraversato dall'obliquo sfondo della scena, luminoso nel raggio di una finestra invisibile. La figura saliva lenta, quasi faticosamente. Prima di sparire dietro il fianco enorme di un'arcata, piegò il capo a guardare in basso. Jeanne la riconobbe. Sull'attimo, quasi obbedendo a una fulminea volontà impostasi a lei, quasi portata dal turbine del suo destino, pallida, risoluta, senza sapere cos'avrebbe detto, cos'avrebbe fatto, ella prese l'ascesa. Attraversato il ripiano superiore, nel metter piede sulla scala chiara, traboccò a terra, vi giacque un momento; sì che Noemi, uscita della cappella, non la vide, la credette discesa in cerca del ritratto di san Francesco. Si rialzò, riprese la via, povera creatura di passione, richiamata invano dalle immagini di celeste pace, irrigidite sulle mura sacre. Tutto era davanti a lei silenzio e vuoto. Ell'andava per vie ignote a lei, veloce, sicura, come nella chiaroveggenza dell'ipnosi. Passava per buie stretture, per chiarori larghi, senza esitar mai, senza guardare né a destra né a sinistra, chiusi e acuiti tutti i sensi nell'udito, seguendo attimi di sussurri lontani, il dolersi lieve di un uscio, il vento di un altro, lo sfiorar di un abito a uno stipite. Così dai due spinti battenti dell'ultima porta ella emerse rapida in faccia a lui. Anch'egli l'aveva riconosciuta sulla Scala Santa, all'ultimo momento. Si tenne quasi certo di non essere stato riconosciuto alla sua volta; cercò tuttavia di togliersi dal solito cammino dei visitatori. Quando udì giungere a quella recondita sala un fruscìo rapido di vesti femminili, comprese, aspettò, a fronte della porta. Ella lo vide e impietrò sull'atto fra i battenti aperti, fissi gli occhi negli occhi di lui, che non avevano più lo sguardo di Piero Maironi. Era trasfigurato. La persona, forse per le vesti nere, pareva più sottile. Il viso pallido, scarno, spirava dalla fronte, fatta più alta, una dignità, una gravità, una dolcezza triste, che Jeanne non gli aveva conosciute mai. E gli occhi erano del tutto altri occhi, avevano un inesprimibile divino, tanta umiltà e tanto impero, l'impero di un amore trascendente, originario non del suo cuore ma di una mistica fonte ad esso interna, di un amore oltrepassante il cuore di lei, ricercantele più addentro una recondita regione dell'anima, ignota a lei stessa. Ella giunse lenta lenta le mani e piegò i ginocchi a terra. Benedetto si recò alle labbra l'indice della sinistra e tese l'altro alla parete fronteggiante il balcone aperto sui carpineti del Francolano e sul fragore del fiume profondo. Nel mezzo della parete nereggiava, grande, la parola SILENTIUM. Per secoli, da quando la parola era stata scritta, mai voce umana si era udita là dentro. Jeanne non guardò, non vide. A lei bastò quell'indice alle labbra di Piero per serrar le sue. Ma non bastò per costringerle il pianto in gola. Guardava guardava lui con le labbra strette e le sdrucciolavano grosse sul viso lagrime silenziose. Immobile, pendenti le braccia lungo la persona, Benedetto chinò un poco il capo e chiuse gli occhi, assorto nello spirito. La grande, nera parola imperatoria, grave di ombre e di morte, trionfava sulle due anime umane, ruggendo contro a lei dal balcone lucente le anime belluine dell' Aniene e del vento. A un tratto, pochi secondi dopo che gli occhi di Benedetto si erano chiusi allo sguardo di lei, ella balenò e si spezzò, dalle spalle alle ginocchia, in un singhiozzo amaro di tutta l'amara sua sorte. Egli aperse allora gli occhi, la guardò dolcemente, ed ella ribevve avida il suo sguardo, ebbe ancora due singhiozzi, quasi di dolorosa gratitudine. E perché l'amato si recò nuovamente l'indice alla bocca, gli accennò del capo di sì, di sì, che avrebbe taciuto, che si sarebbe chetata. Obbedendo sempre al suo gesto, al suo sguardo, si alzò in piedi, si fece da banda, lo lasciò passare per i battenti aperti, lo seguì umile, con la sua speranza morta nel petto, con tanti dolci fantasmi morti nella mente, con il suo amore fatto tremore e venerazione. Lo seguì fino alla cappella che chiamano la Chiesa superiore. Colà, di fronte alle tre piccole ogive che chiudono interne ombre dove si disegna un altare e una croce di argento brilla su parvenze fosche di pitture antiche, Jeanne s'inginocchiò, com'egli accennolle, sull'inginocchiatoio appoggiato al fianco destro della grande arcata che gira sulla volta acuta, mentr'egli s'inginocchiava su quello appoggiato al fianco sinistro. Sul timpano dell'arcata un pittore del secolo XIV ha dipinto il poema del massimo Dolore. Da un'alta finestra di sinistra scendeva la luce alla Dolorosa; Benedetto era nell'ombra. La voce di lui mormorò appena udibilmente: "Senza fede ancora?" Sommesso come aveva parlato egli e senza volgere il capo, ella rispose: "Sì." Egli tacque un momento e poi riprese con la stessa voce: "La desidera? Potrebbe operare come se credesse in Dio?" "Se non è necessario di mentire, sì." "Promette di vivere per i miseri e per gli afflitti, come se ciascuno di essi fosse una parte dell'anima da Lei amata?" Jeanne non rispose. Era troppo veggente e troppo leale per affermare che lo poteva. "Promette di farlo" riprese Benedetto "se io prometto di chiamarla presso di me in un'ora fissa dell'avvenire?" Ella non sapeva quale ora solenne, non lontana, egli pensasse, parlando così. Rispose palpitante: "Sì sì." "In quell'ora La chiamerò" disse la voce nell'ombra. "Però non cerchi mai rivedermi prima." Jeanne si strinse le mani sugli occhi, rispose un "no" soffocato. Le pareva di turbinare negli angosciosi sogni di una febbre mortale. Piero non parlava più. Passarono due, tre minuti. Ella si levò le mani dagli occhi lagrimosi, li fissò sulla croce che brillava là in faccia, oltre gli archetti ogivali, sulle fosche parvenze di pitture antiche. Mormorò: "Sa che don Giuseppe Flores è morto?" Silenzio. Jeanne volse il capo. Nessuno era più nella Chiesa.

Dubito di sentire troppo sdegno contro coloro che non le dividono, contro dei persecutori che dobbiamo amare, contro quell' Abate svizzero che venne qua con Dane e poi ha probabilmente parlato di ciò che si è detto allora tra noi, dove e come non doveva. Dubito di condurre una Vita troppo inoperosa, troppo facile, troppo piacevole, perché a me lo studio è piacevole. Dubito del mio stesso amore di Dio perché sento troppo poco l'amore del prossimo. Mi viene in mente che le dolcezze mistiche mi possono addormentare circa questo punto. Tu, Maria, tu vivi la tua fede! Tu visiti gl'infermi, tu lavori per i poveri, tu conforti, tu istruisci. Io non faccio niente." "Io sono tu" mormorò Maria. "Sei tu che mi hai fatta così. E poi tu eserciti la carità intellettuale." "No no, questa è per me una parola presuntuosa!" Egli ricadde a contemplare in silenzio l'ombra sonora. Maria sapeva che veramente il sentimento affettuoso della fraternità umana non era vivace in lui. Sentiva, non volendolo quasi confessare a sé stessa, che questa deficienza toglieva a suo marito di esercitare con successo il grande apostolato religioso che avrebbe dovuto rispondere alle sue disposizioni intellettuali, a quella fede profonda e luminosa ch'era in lui frutto d'ingegno, di studio, di amor divino più che di tradizione e di abitudine. Si rimproverava di essersi qualche volta compiaciuta della freddezza di Giovanni verso gli uomini, per il prezioso sapore che ne prendevano i tesori di affetto dati a lei. Egli aveva però la coscienza del dovere fraterno e mai ella non lo aveva conosciuto sordo alla preghiera, duro al dolore altrui. Non sentiva e quindi non amava Dio negli uomini, ch'è il più sublime fuoco della carità; sentiva e amava gli uomini in Dio, ch'è freddo amore, come di un fratello buono al fratello soltanto per compiacere al Padre. Ma quest'ultima è la tempra comune anche dei cuori umani migliori. Quello di Giovanni era temprato così, non poteva dare la carità sublime di cui umilmente, tristemente si conosceva vôto. Maria, accarezzandogli i capelli con infinita tenerezza pia, sognava che fluisse per il proprio cuore, per le proprie mani a quel capo la soave indulgenza Divina. "Sai" diss'ella "ti offro subito io un'opera di carità che avrà molto merito. C'è Noemi che ha ricevuto una lettera della sua amica Dessalle e dice di aver bisogno del tuo aiuto." "Chiamala" diss'egli. Noemi venne. Una leggera nube era passata quel giorno fra lei e Giovanni. Caso raro, avevano conversato insieme di religione. Noemi si teneva ciecamente aggrappata alla propria e non amava discuterne. Malgrado la sua tenerezza per Maria, il suo affettuoso rispetto per Giovanni, temeva di piegare, se esaminasse le ragioni e la natura del proprio credere, piuttosto verso lo scetticismo di Jeanne che verso il cattolicismo liberale e progressista dei Selva. Questo cattolicismo le pareva una cosa ibrida e forse aveva appreso da Jeanne a giudicarlo così, perché Jeanne, in qualche momento di cattiveria nervosa, difendeva con acrimonia il proprio scetticismo da quella fede che per essere luminosa di spirito e Verità poteva riuscirgli formidabile. Ell'era poi anche sempre in sospetto, non di sua sorella, ma di Giovanni che meditasse di convertirla; e il sospetto era trapelato, quel giorno, discorrendo i due della confessione, nella vivacità di qualche risposta. Allora Giovanni le aveva dolcemente e gravemente ricordato che l'errore accolto senz'averne coscienza, col desiderio sincero e puro della Verità, era incolpevole davanti a Dio; ma che se un sentimento estraneo a quel desiderio avesse parte nella ripulsa della Verità, ne sorgeva il peccato. Questo argomento ferì Noemi ancora più addentro. Ella fu per domandare al cognato i suoi titoli di vice-giudice divino. Si contenne e lasciò cadere il discorso. Più tardi, ripensandoci, ebbe rimorso del suo silenzio imbronciato; non tanto perché le ultime parole di Giovanni avessero fatto cammino nella sua mente, quanto perché sapeva dei dispiaceri che le opinioni religiose da lui professate gli fruttavano, perché lo vedeva abbattuto di spirito. Anche per questo, richiamata da lui, pregata da sua sorella d'essergli molto affettuosa, ella si risolse a una infedeltà verso Jeanne. Di quanto Jeanne le aveva scritto sotto il suggello del segreto, si era aperta con Maria solo fino al confine dello stretto necessario. Jeanne, sempre malata di corpo e di spirito, aveva udito parlare del Santo di Jenne che guariva i corpi e le anime, la pregava di recarsi a Jenne, di vedere questo Santo, di scrivergliene qualche cosa. Ora Noemi non poteva andare a Jenne tutta sola, doveva pur chiedere a Giovanni di accompagnarla. La sua prima confidenza si era fermata qui. Adesso ruppe tutti i suggelli dell'amicizia e parlò. La povera Dessalle era più infelice che mai. Nel breve soggiorno a Subiaco aveva incontrato l'antico amante. Esclamazione di Giovanni: era dunque proprio don Clemente? No, era l'uomo venuto alla villa col Padre la sera dell'arrivo di Jeanne, il garzone ortolano di Santa Scolastica, colui che non era più al monastero, colui del quale si parlava già in tutta la valle dell' Aniene, e anche a Roma, come del Santo di Jenne. Noemi si scusò di non averlo detto subito, allora. Guai se Jeanne fosse venuta a saperlo, dopo le sue proibizioni di parlare! E poi non serviva. Giovanni prese quasi furtivamente una mano di sua moglie e se la recò alle labbra. Maria intese e sorrise. Ambedue assalirono Noemi di domande. Sì, lo aveva riconosciuto la sera dell'arrivo e adesso Giovanni e Maria potevano intendere il perché di quel tramortimento che si era visto. L'incontro era poi avvenuto l'indomani al Sacro Speco. Noemi ne sapeva soltanto che le speranze di lei n'erano state distrutte, ch'egli vestiva da monaco e aveva parlato come un uomo datosi a Dio per sempre, ch'ella gli aveva promesso di dedicarsi ad opere di carità e che nessuna relazione diretta era più possibile fra loro. Adesso la Dessalle scriveva da villa Diedo, il soggiorno veneto dove si era ricondotta col fratello da Roma, due giorni dopo aver lasciato Subiaco. Scriveva in un'ora di amarissimo sconforto. Il fratello, sorpreso ch'ella si occupasse tanto de' poveri, s'irritava di questa novità nei suoi pensieri e nella sua Vita. Largheggiasse di denaro, se le piaceva, quanto le piaceva! Farsi venire una fila di pezzenti in casa, visitarli nei loro tugurii, no! Questo era sciocco, era inutile, era noioso, era ridicolo, era pazzesco, era clericale. C'erano altre difficoltà. Ell'avrebbe desiderato entrare nelle associazioni femminili caritatevoli della città. Al contatto della signora che aveva tanto fatto parlare di sé per Maironi, che se pure andava qualche volta in Chiesa la domenica però non adempiva il precetto pasquale, esse indietreggiavano chiudendosi in sé stesse come sensitive. E finalmente anche le sue abitudini di dama oziosa si ricomponevano via via dopo il primo strappo a impedirle il nuovo cammino, tanto più pronte quanto più il cammino si faceva difficile. Sentiva di dover soccombere se non le venisse una parola di consiglio, di aiuto da lui. Vederlo non poteva, scrivere non osava perché certamente egli aveva inteso vietare anche questo ed ella sarebbe morta piuttosto che fargli cosa sgradita, potendo evitarlo. Aveva letto una corrispondenza romana del Corriere sul "Santo di Jenne" dove si diceva che il Santo era giovine e aveva lavorato da bracciante nell'orto di Santa Scolastica. Era lui, dunque! Supplicava Noemi di andare a Jenne, di chiedergli per lei l'elemosina di un conforto. Noemi era risoluta di andare. Vorrebbe Giovanni accompagnarla? Nel tôno umile col quale lo chiese Giovanni sentì una tacita offerta di scuse e di pace, le stese la mano. "Di tutto cuore" diss'egli. Maria si offerse per terza compagna. Fu stabilito di andare l'indomani, a piedi, e di partire alle cinque del mattino per non avere il sole ardente sulla costa di Jenne, nuda e scoscesa. Poi si parlò del Santo. Tutta la valle ne era piena. La corrispondenza letta dalla Dessalle diceva che una quantità di gente affluiva a Jenne per vedere e udire il Santo, che si proclamavano guarigioni miracolose operate da lui, che i benedettini raccontavano con ammirazione la Vita di penitenza e di preghiera ch'egli aveva condotto per tre anni lavorando nell'orto di Santa Scolastica. A Subiaco si raccontava ben altro. Un tale Torquato, guardaboschi, brav'uomo, parente della domestica dei Selva, aveva detto a costei di essere andato a Jenne con un forestiere, una specie di poeta, venuto da Roma per parlare al Santo. Nell'andata e nel ritorno aveva veduto, tutt'assieme, forse una cinquantina di persone che si recavano a Jenne per lo stesso scopo. Fior di signori, anche; sulla costa di Jenne una processione di donne che cantavano le litanie. A Jenne aveva saputo tutta la storia. Una notte l'arciprete di Jenne aveva sognato un globo di fuoco sulla grande croce piantata a sommo della costa e questo globo di fuoco aveva acceso la croce che ardeva e splendeva senza consumarsi, illuminava tutte le montagne e le valli. Il giorno di poi egli si era visto capitare un giovine vestito da converso benedettino, che aveva l'incarico di recargli una lettera. Questa lettera era dell' Abate di Santa Scolastica e diceva: "Vi mando un angelo di fuoco ardente che farà parlare di Jenne in tutto l'universo mondo." Anche vi era scritto che questo giovine era nato principe grande di sangue di re, e che per servire Dio in umiltà si era fatto ortolano per tre anni a Santa Scolastica. E l'arciprete si era come impazzito per la commozione di questo fuoco sognato e di questo fuoco arrivato, e gli era venuta una grandissima febbre. L'indomani era giorno di festa. Degli altri due preti che stanno a Jenne uno era infermo e l'altro se n'era andato a Filettino due giorni prima per vedere sua madre inferma. La fantesca del parroco aveva raccontato nel paese di questo benedettino e del sogno e ogni cosa. La gente del paese era andata in Chiesa per udir la messa del benedettino che avean veduto entrarvi, e non voleva credere che il benedettino non dicesse messa. Volevano che almeno predicasse, malgrado le sue proteste di non averne il diritto in Chiesa; e, presolo in mezzo, gli facevano tanta ressa intorno ch'egli aveva accennato con la mano di uscire della Chiesa promettendo ai vicini di parlare fuori. E fuori aveva parlato. Che avesse propriamente detto, la fantesca non l'aveva saputo dire a Maria, né Maria l'aveva poi potuto cavar bene a Torquato. Un po' interrogando, un po' immaginando, ella si ricostituì il suo discorso così: Potete voi entrare in Chiesa? Siete voi riconciliati con i vostri fratelli? Sapete cosa Vi dice il Signore Gesù con questa parola che non si può avvicinarsi all'altare senza essersi riconciliati con i fratelli? Sapete che non potete entrare in Chiesa se avete mancato contro la carità e la giustizia e non ne avete fatto ammenda, o non ne siete pentiti quando nessuna ammenda è possibile? Sapete che non Vi è lecito di entrare in Chiesa se nutrite qualche rancore verso i fratelli vostri non solo, ma pure se avete fatto torto loro in qualunque modo, negl'interessi o nel'onore, se avete detto loro ingiuria, se portate nel cuore desiderii disonesti contro i loro corpi e le loro anime? Sapete che tutte le messe, le benedizioni, i rosarii, le litanie contano meno che niente se voi prima non vi purificate il cuore secondo la parola di Gesù? Siete voi immondi di odio, d'impurità? Andate, Gesù non vi vuole in Chiesa! Ma che! diceva Torquato. Il discorso era niente, era la voce, era il viso, erano gli occhi! Il buon uomo ne parlava come se vi ci fosse trovato. Allora la gente, giù, in ginocchio, e pianti; e certe donne, nemiche fra loro, ad abbracciarsi. Già non c'erano che donne e vecchi perché gli uomini di Jenne son tutti pecorai a Nettuno e ad Anzio, e prima della fine di giugno non ritornano alla montagna. Il Santo, vedutili così contriti, aveva detto: entrate, inginocchiatevi, Iddio è dentro di voi, adoratelo in silenzio. La gente era entrata, una moltitudine. Eran caduti in ginocchio, tutti, e per un quarto d'ora, Torquato raccontava così, si sarebbe udita, in quella grande Chiesa, una mosca volare. Poi il Santo aveva intonato il "Padre nostro" a voce alta e, seguito dal popolo, lo aveva recitato lentamente sostando a ogni versetto. E Torquato raccontava che l'arciprete, udito tutto questo, aveva baciato il suo ospite e nel baciarlo era guarito della febbre. Ecco portare infermi al Santo, in canonica, perché li benedica e li sani. Egli non voleva ma quanti riuscivano a toccargli, magari di furto, la tonaca, guarivano. E tanti andavano a lui per consiglio. C'era stato un miracolo grande di una mula imbizzarrita sulla discesa della costa, ch'era per gittare il suo cavaliere sulle pietre in vista del Santo, il quale saliva dall' Infernillo portando acqua. Il Santo aveva stesa la mano e la mula si era chetata sull'atto. Il racconto del guardaboschi fu riferito da Maria. "Che tutto sia vero come il principe di sangue reale?" disse Noemi. "Domani si saprà" rispose Giovanni, alzandosi.

Queste cose l' Albacina le sapeva dall' Abate Marinier che veniva a sorriderne argutamente nel suo salotto. Bisognava sentire quanto veleno di accuse, con quali arti, si seminava dagl'intransigenti, tutti d'accordo in questo, contro quel povero diavolo di razionalista mistico del quale l' Abate sorrideva non meno che de' suoi nemici! C'erano novità anche al ministero dell'Interno. Quali novità? Donna Rosetta stava per rispondere quando la carrozza si fermò davanti a un grande convento. Il cardinale alloggiava lì. Donna Rosetta discese sola. Dal cardinale la presenza di Jeanne non occorreva, sarebbe anzi stata inopportuna. Occorreva in altro luogo. Jeanne attese in carrozza, crucciata di non sapere ancora, dopo tante chiacchiere, il perché di quella visita. Passarono cinque, dieci minuti. Jeanne si rizzò sulla persona, dall'angolo dove si era raccolta nei suoi pensieri, a guardar l'entrata del convento, se donna Rosetta ricomparisse. Radi viandanti passavano lenti per la via silenziosa, guardavano nella carrozza. A Jeanne pareva offensivo che vi fosse della gente tanto tranquilla. Ah Dio, e lui, e lui? Il medico le aveva promesso un bollettino al Grand Hôtel per le sette. Non erano ancora le tre. Più di quattr'ore di attesa. E cosa direbbe il bollettino? Tante corse, tante pratiche, tanti maneggi, tante cose, e poi? Dio Dio, e poi? Si morse le labbra, si soffocò un singhiozzo in gola. Ah, ecco donna Rosetta, finalmente. Il cameriere apre lo sportello, ella gli ordina: "Palazzo Braschi!" E sale in carrozza, si getta un libriccino ai piedi, si strofina a furia le labbra, invece di parlare, col fazzoletto profumato, dice fremendo che ha dovuto baciar la mano al cardinale e ch'era tanto poco pulita. Però la visita è andata bene. Ah se suo marito sapesse! Ell'aveva fatto una parte veramente orribile. Il cardinale era quello famoso che si era incontrato una volta con Giovanni Selva nella biblioteca del monastero di Santa Scolastica a Subiaco, e lo aveva assalito chiamandolo profanatore delle mure sacre, promettendogli che sarebbe andato all'inferno e più giù Donna Rosetta aveva soffiato nel suo fuoco per mandare a monte l'accordo segreto fra Vaticano e palazzo Braschi, era andata a raccontargli che la haute religiosa di Torino voleva l'uomo scelto dal Vaticano e sgradito al Quirinale. Quel diavolo di cardinale, conosciuto da lei nel salotto di un prelato francese, aveva sulle prime risposto solamente, col suo accento né francese né italiano: "C'est vous qui me dites ça? C'est vous qui me dites ça?" Infatti donna Rosetta aveva risposto ridendo: "Oh c'est énorme, je le sais!" Era un discorso che poteva costare l' Eccellenza a suo marito. Ma poi l' Eminentissimo le aveva quasi promesso che i voti della haute di Torino parrebbero stati soddisfatti: "Ce sera lui, ce sera lui!" Finalmente le aveva detto: "Comment donc, madame, avez-vous épousé un franc-maçon? Un des pires, aussi! Un des pires! Faites lui lire cela!" E le aveva dato un libretto sulle dottrine infernali e la dannazione inevitabile dei framassoni. Era il libretto che l' Albacina si era gettato ai piedi salendo in carrozza. "Figuriamoci" diss'ella "se mio marito legge questa roba!" Ma che ne importava a Jeanne? Jeanne era impaziente di conoscere le novità del ministero dell' Interno. E ora da chi si andava, al ministero dell' Interno? Dal ministro o dal sottosegretario di Stato? Si andava dal sottosegretario di Stato, dal marito di donna Rosetta. Donna Rosetta aveva taciuto fino a quel momento il proposito e l'oggetto di questa visita per non lasciare a Jeanne il tempo di schermirsi né di prepararsi troppo. L'on. Albacina sapeva dell'amicizia di sua moglie per la signora Dessalle e dell'amicizia della signora Dessalle per i Selva, tanto legati, alla loro volta, a Maironi. Egli aveva detto a sua moglie di voler parlare direttamente a questa signora, per fini suoi che intendeva tacere. L'avrebbe aspettata al ministero dopo le tre. Ce la poteva portare lei, sua moglie; ma senz'assistere al colloquio. Il movimento primo di Jeanne fu un'esclamazione di rifiuto. Donna Rosetta la persuase facilmente a mutar consiglio. Ella non poteva dire che progetti avesse in testa suo marito, non lo sapeva; ma secondo lei sarebbe stata follia di non andare, di non udire, poiché non ci poteva essere pericolo, da parte di Jeanne, d'impegnarsi a niente. Jeanne si arrese, benché il silenzio serbato dall' Albacina fino all'ultimo in cosa di tanto momento, la facesse trepidare come un infermo cui si annunci, dopo molti discorsi scherzosi, la visita di un chirurgo celebre che verrà per dargli un'occhiata e non più. "Non Le direi di andar sola" conchiuse sorridendo l' Albacina. "Gli uscieri ne hanno viste tante, al tempo di certi ministri e vice-ministri! Ma ci vengo io che al ministero sono conosciuta; e poi adesso quello che accadeva una volta non accade più." L'on. Albacina stava presso il ministro. Un deputato, chiamato allora allora per entrare, riconobbe donna Rosetta e le offerse di annunciarla a suo marito. Egli non aveva che due parole a dire, sarebbe uscito subito. Infatti dopo cinque minuti l'on. deputato uscì insieme ad Albacina che pregò Jeanne di passare dal ministro con lui. Le due Signore non si attendevano a ciò, donna Rosetta domandò a suo marito se non fosse lui che voleva parlare a Jeanne. Sua Eccellenza non si smarrì per così poco, congedò sua moglie con modi molto sommarî e portò, di sorpresa, la Dessalle dal ministro. La presentò al superiore, imbarazzata, quasi offesa. Il ministro l'accolse colla più rispettosa cortesia, da uomo austero solito a onorare la donna tenendosene a distanza. Egli aveva conosciuto il banchiere Dessalle, Padre di Jeanne, e le ne parlò subito: "Un uomo" disse "che aveva molto oro nei suoi forzieri ma il più puro nella sua coscienza!" Soggiunse che questa memoria lo aveva incoraggiato ad abboccarsi con lei per una faccenda delicatissima. Proferite ch'egli ebbe queste parole, anzi mentre le diceva, Jeanne sentì con certezza che quell'uomo sapeva il passato. Ella non poté a meno, di guardare alla sfuggita il sottosegretario. Gli lesse negli occhi la stessa scienza; ma lo sguardo del sottosegretario la turbava e la irritava; quello del ministro, invece, le apriva un'anima paterna. Il ministro entrò in argomento parlando di Giovanni Selva del quale fece ampie lodi. Si dolse di non avere con lui relazioni personali. Disse di sapere che Jeanne era amica della famiglia Selva. Egli si rivolgeva a lei per affidare a questi suoi amici una missione importante presso un'altra persona. E parlò di Maironi, sempre avendo cura d'interporre i Selva fra lo stesso Maironi e Jeanne, di evitare ogni accenno a possibili comunicazioni dirette fra l'uno e l'altra. Jeanne lo ascoltava, divisa fra l'attenzione alle sue parole, intensa, lo studio, pure intenso, di preparare una risposta prudente, misurata, e il fastidio sdegnoso che le dava la presenza del piccolo, mefistofelico Albacina. Il discorso del ministro fu diverso da quello che, in principio, ella si attendeva; migliore ma più imbarazzante. Egli le disse che non parlava come ministro ma come amico; che con lei non voleva fare misteri; che certe ombre non avevano avuto assolutamente corpo; che né ministri, né magistrati, né agenti di P. S. avevano a occuparsi affatto del signor Maironi il quale era perfettamente libero di sé e niente aveva a temere dalla giustizia del suo paese, fattasi persuasa della inanità di certe accuse mossegli per odio religioso; ch'egli aveva molta simpatia per le idee religiose del signor Maironi e anche molta stima per i suoi propositi di apostolato, ma che il signor Selva doveva persuaderlo della opportunità di allontanarsi, almeno per qualche tempo, nell'interesse del suo stesso apostolato, da Roma dove gli si faceva dai suoi nemici religiosi una guerra tale, a colpi di calunnie, ch'egli era per rimanere ben presto, inevitabilmente, senza discepoli. Qui il ministro, anche credendo fare cosa gradita a Jeanne, affermò la propria religiosità; abbaglio tragico, pensò lei amaramente. Egli sperava che in un prossimo avvenire il signor Maironi potesse esercitare liberamente la propria influenza in luogo altissimo; vi erano molti segni di una prossima trasformazione di quel tale ambiente, di una prossima disgrazia degl'intransigenti; ma per ora gli era opportuno di eclissarsi. Questo era il consiglio amichevole ma pressante che si desiderava di fargli pervenire per mezzo del suo illustre amico. Accettava la signora Dessalle di parlare all'illustre amico? Jeanne trepidava. Era da fidarsi? Era da dir cose che forse coloro non sapevano e cercavano sapere da lei? Guardò involontariamente il sottosegretario e gli occhi suoi parlarono così chiaro ch'egli non poté a meno di pigliare una risoluzione. "Signora" disse col suo abituale sorriso sarcastico, "vedo che Lei non mi desidera. La mia presenza non è necessaria e me ne vado per ossequio al Suo desiderio: desiderio giusto e che si capisce." Jeanne arrossì ed egli se ne accorse, si compiacque di averla ferita con la coperta allusione che si conteneva nelle sue ultime parole e più ancora nel sorriso maligno. "Però" soggiunse collo stesso sorriso "non me ne andrò senz'affermarle, sulla mia parola, che mia moglie Le è un'amica fedelissima, che non mi ha mai tenuto sul Suo conto un solo discorso indiscreto; come, sullo stesso argomento, non ne ho mai tenuto io a mia moglie." Vendicatosi così, l'omino se ne andò, lasciando Jeanne agitatissima. Dio, intendevano proprio che avesse a parlare lei, a Piero? Supponevano che lo vedesse, pensavano essi pure che la santità di Piero fosse mentita? Si ricompose con uno sforzo supremo, cercò aiuto nello sguardo grave, mesto, rispettoso del ministro. "Parlerò al signor Giovanni" diss'ella. "Credo però" soggiunse esitando "che il signor Maironi sia ammalato, che non possa viaggiare." Nel nominare Maironi le salirono le vampe al viso. Ella le sentì assai più che non si vedessero. Però il ministro se ne avvide e venne in suo soccorso. "Forse, signora" diss'egli "Ella dubita di compromettere i Suoi amici Selva. Non abbia questo dubbio. Prima Le ripeto che il signor Maironi non ha niente a temere da nessuno e poi aggiungo che noi sappiamo tutto. Sappiamo ch'è in Roma, che sta, per poche ore ancora, presso un senatore del Regno, in via della Polveriera. Sappiamo pure ch'è ammalato ma ch'è in grado di viaggiare; anzi Lei può dire al signor Selva che io gli farò avere, se vuole, dal mio collega dei Lavori Pubblici un coupé riservato." Jeanne, tremante, fu per interromperlo, per esclamare: poche ore ancora? Si contenne appena e prese congedo per correre al Senato, sapere. "Forse il signor Selva lo ignora" disse il ministro, accompagnandola verso l'uscio "ma il senatore aspetta non so quali parenti e non potrà più alloggiare il signor Maironi. Gli rincresce. Gran brav'uomo! Siamo vecchi amici." Jeanne tremava di avere intravveduta la Verità. A palazzo Braschi che il senatore congedasse Piero; un'altra spinta per allontanarlo da Roma! Ma possibile che il senatore si fosse lasciato persuadere? Congedare un infermo in quello stato? Salì nel suo coupé , si fece portare a palazzo Madama, chiese del senatore. Non c'era. L'usciere che le rispose così le parve un po' imbarazzato. Aveva una consegna? Non osò insistere, lasciò una carta colla preghiera di passare dal Grand Hôtel prima di pranzo. Ella stessa partì per il Grand Hôtel fremendo, e gemendo insieme nel suo cuore, battendo colla punta del piede il libretto contro la Massoneria, dimenticato da donna Rosetta. Avrebbe voluto che i due sauri volassero. Erano le quattro e tre quarti e il suo dovere quotidiano era di preparare la medicina per Carlino alle quattro e mezza.

"Forse una volta" diss'egli "per un momento, a Santa Scolastica, quando il mio Maestro, a nome dell' Abate, mi offerse una veste di converso, la veste che poi mi fu tolta a Jenne. Allora pensai per un momento che questa offerta inattesa confermasse l'ultima parte della Visione e n'ebbi un moto di compiacenza, mi stimai oggetto di una predilezione Divina. Ne domandai subito perdono a Dio e adesso ne domando perdono a Vostra Santità." Il Pontefice non parlò, ma la sua mano si alzò spiegata e ridiscese in un atto di indulgenza. Egli si diede poi a maneggiare le carte diverse che aveva sul tavolino, parve consultarne attentamente più d'una. Quindi le posò, le raccolse, le fece da banda, riprese a parlare. "Figlio mio" diss'egli "ti devo domandare altre cose. Hai nominato Jenne. Io neppure non sapevo che esistesse, questo Jenne. Me lo hanno descritto. Diciamo il vero, non si capisce perché tu ti sia andato a cacciare a Jenne." Benedetto sorrise lievemente ma non volle discolparsi, interrompere il Papa, il quale continuò: "È stata un'idea disgraziata, perché chi può dir bene cosa succede a Jenne? Sai di aver avuto lassù della gente che ti vedeva di mal occhio?" Benedetto pregò semplicemente Sua Santità che lo dispensasse dal rispondere. "Ti capisco" rispose il Papa "e debbo dire che la tua preghiera è cristiana. Tu non dirai niente ma io non posso tacere che sei stato accusato di molte cose. Lo sai?" Benedetto sapeva di un'accusa sola o almeno ne dubitava. Il Papa aveva l'aria più imbarazzata di lui. Egli era sereno. "Ti accusano" ripigliò il Papa "di esserti spacciato, a Jenne, per un taumaturgo e di essere stato causa, per questi tuoi vanti, che un disgraziato morisse in casa tua. Si arriva persino a dire ch'egli è morto per certi beveraggi che gli hai dati. Ti accusano di aver predicato al popolo piuttosto da protestante che da cattolico e anche ..." Il Santo Padre esitò. Al suo pudore verginale ripugnava persino accennare a certe cose. "Di relazioni non lecite" disse "con la maestra del paese. Cosa rispondi, figlio mio?" "Santo Padre" rispose Benedetto, tranquillo, "lo Spirito risponde per me nel Suo cuore." Il Pontefice lo guardò, attonito, ma non solamente attonito; anche un poco turbato, come se Benedetto gli avesse letto nell'anima. Il viso gli si dipinse di un lieve rossore. "Spiegati" diss'egli. "Iddio mi dona di leggere nel Suo cuore che Lei non crede ad alcuna di quelle accuse." A queste parole di Benedetto il Papa contrasse lievemente le sopracciglia. "Adesso" riprese Benedetto "Vostra Santità pensa che io mi attribuisca una chiaroveggenza miracolosa. No, è una cosa che vedo nel Suo viso, che sento nella Sua voce, da povero uomo comune quale sono." "Forse tu sai" esclamò il Papa"chi è stato in questi giorni da me!" Egli aveva fatto chiamare a Roma l'arciprete di Jenne, lo aveva interrogato su Benedetto. L'arciprete, trovato un Papa di suo genio, un Papa ben diverso dai due zelanti che lo avevano intimorito a Jenne, non aveva perduta l'occasione di mettersi facilmente in pace colla propria coscienza, aveva dato sfogo ai rimorsi lodando e rilodando. Benedetto non ne sapeva niente. "No" rispose "non lo so." Il Pontefice tacque, ma il suo viso, le mani, la intera persona, tradivano una viva inquietudine. Egli si abbandonò finalmente sulla spalliera della seggiola, chinò il capo sul petto, stese le braccia al tavolino e appoggiatevi le mani, una presso all'altra, pensò. Mentre pensava, immobile, fissi gli occhi nel vuoto, la fiamma della lucernina a petrolio salì fumigando, rossa, nel tubo. Egli non se n'avvide subito. Quando se n'avvide la regolò e poi ruppe il silenzio. "Credi tu" diss'egli "avere veramente una missione?" Benedetto rispose, con una espressione di fervore umile: "Sì, lo credo." "E perché lo credi?" "Santità, perché ciascuno viene al mondo con una missione scritta nella sua natura. Quand'anche non avessi avuto visioni né altri segni straordinari, la mia natura ch'è religiosa mi imporrebbe il dovere di un'azione religiosa. Come posso dirlo? Ecco, lo dirò ..." Qui la voce di Benedetto tremò di emozione " ...come non l'ho detto a nessuno. Io credo, io so che Dio è il nostro Padre di tutti, ma io sento nella mia natura la Sua paternità. Quasi non è un dovere il mio, è un sentimento di figlio." "E credi avere il cómpito di esercitarla qui, adesso, un'azione religiosa?" Benedetto giunse le mani come se implorasse già di venire ascoltato. "Sì" diss'egli "anche qui, anche adesso." Ciò detto, pose un ginocchio a terra tenendo sempre giunte le mani. "Alzati" disse il Santo Padre. "Di' liberamente quello che lo Spirito ti consiglia." Benedetto non si alzò. "Mi perdoni" diss'egli "io devo parlare al solo Pontefice e qui non mi ascolta il solo Pontefice!" Il Papa trasalì, lo interrogò con gli occhi, severo. Benedetto porse un poco il mento, inarcando le sopracciglia, verso una porta grande alle spalle del Papa. Questi prese un campanello di argento che stava sul tavolino, accennò imperiosamente a Benedetto di alzarsi e suonò. Ricomparve dalla porta della Galleria il prete di prima. Il Papa gli ordinò di far venire in Galleria don Teofilo, il cameriere fedele che aveva portato con sé dalla sua sede arcivescovile del Mezzogiorno. Venuto don Teofilo, egli andrebbe ad attendere Sua Santità nelle sale della Biblioteca. "Ripasserai di qua" diss'egli. Parecchi minuti trascorsero nell'attesa silenziosa che colui rientrasse. Il Pontefice, pensoso, non alzò mai gli occhi dal tavolino. Benedetto, in piedi, teneva chiusi i suoi. Li aperse quando rientrò il prete. Uscito che fu costui per la porta sospetta, il Papa accennò con la mano e Benedetto parlò, a voce bassa. Il Pontefice lo ascoltava stringendo i bracciuoli della sedia, pôrta in avanti la persona e chino il viso. "Santo Padre" disse Benedetto "la Chiesa è inferma. Quattro spiriti maligni sono entrati nel suo corpo per farvi guerra allo Spirito Santo. Uno è lo spirito di menzogna. Anche lo spirito di menzogna si trasfigura in angelo di luce e molti pastori, molti maestri della Chiesa, molti fedeli buoni e pii ascoltano devotamente lo spirito di menzogna credendo ascoltare un angelo. Cristo ha detto: "io sono la Verità" e molti nella Chiesa, anche buoni, anche pii, scindono la Verità nel loro cuore, non hanno riverenza per la Verità che non chiamano religiosa, temono che la Verità distrugga la Verità, pongono Dio contro Dio, preferiscono le tenebre alla luce e così ammaestrano gli uomini. Si dicono fedeli e non comprendono quanto scarsa e codarda è la loro fede, quanto è loro straniero lo spirito dell'apostolo che tutto scruta. Adoratori della lettera, vogliono costringere gli adulti a un cibo d'infanti che gli adulti respingono, non comprendono che se Dio è infinito e immutabile, l'uomo però se ne fa un'idea sempre più grande di secolo in secolo e che di tutta la Verità Divina si può dire così. Essi sono causa di una funesta perversione della Fede, che corrompe tutta la Vita religiosa; perché il cristiano che con uno sforzo si è piegato ad accettare quello ch'essi accettano e a respingere quello che respingono, crede aver già fatto il più per servire Iddio, mentre ha fatto meno che niente e gli resta di vivere la fede nella parola di Cristo, nella dottrina di Cristo, gli resta di vivere il fiat voluntas tua , che è tutto. Santo Padre, oggi pochi cristiani sanno che la religione non è principalmente adesione dell'intelletto a formole di Verità ma che è principalmente azione e Vita secondo questa Verità, e che alla fede vera non rispondono solamente doveri religiosi negativi e obblighi verso l'autorità ecclesiastica. E quelli che lo sanno, quelli che non scindono la Verità nel loro cuore, quelli che hanno il culto supremo di Dio Verità, che ardono di una fede impavida in Cristo, nella Chiesa e nella Verità, ne conosco, Santo Padre!, quelli sono combattuti acremente, sono diffamati come eretici, sono costretti al silenzio, tutto per opera dello Spirito di menzogna, che lavora da secoli nella Chiesa una tradizione d'inganno per la quale coloro che oggi lo servono si credono di servire Iddio, come lo credettero i primi persecutori dei cristiani. Santità ..." Qui Benedetto pose un ginocchio a terra. Il Papa non si mosse. Pareva aver abbassato il capo ancora di più. Il zucchetto bianco era quasi tutto nel lume della lucernina. " ...io ho letto proprio oggi grandi parole di Lei ai Suoi diocesani antichi, sulla molteplice rivelazione di Dio Verità nella Fede e nella Scienza, e anche direttamente, misteriosamente, nell'anima umana. Santo Padre, molti, moltissimi cuori di sacerdoti e di laici appartengono allo Spirito Santo; la Spirito di menzogna non ha potuto entrarvi neppure sotto una veste angelica. Dica una parola, Santo Padre, faccia un atto che rialzi questi cuori devoti alla Santa Sede del Pontefice romano! Onori davanti a tutta la Chiesa qualcuno di questi uomini, di questi sacerdoti che sono combattuti dallo Spirito di menzogna, ne sollevi qualcuno all'episcopato, ne sollevi qualcuno al Sacro Collegio! Anche questo, Santo Padre! Consigli esegeti e teologi, se è necessario, a camminare prudenti poiché la scienza non progredisce che a patto di essere prudente; ma non lasci colpire dall' Indice né dal Sant' Uffizio per qualche soverchio ardimento uomini che sono l'onore della Chiesa, che hanno la mente piena di Verità e il cuore pieno di Cristo, che combattono per difesa della fede cattolica! E poiché Vostra Santità ha detto che Iddio rivela le sue Verità anche nel segreto delle anime, non lasci moltiplicare le divozioni esterne, che bastano, raccomandi ai Pastori la pratica e l'insegnamento della preghiera interiore!" Benedetto tacque un momento, spossato. Il Papa alzò il viso, guardò l'uomo inginocchiato che lo fissava con occhi dolorosi, luminosi sotto le sopracciglie contratte, vibrando nelle mani giunte dove si appuntava lo sforzo dello spirito. Il viso del Papa tradiva una commozione intensa. Egli voleva dire a Benedetto che si alzasse, che sedesse; e non parlò per timore di tradire la commozione anche nella voce. Insistette a cenni, tanto che Benedetto si alzò e presa la sua seggiola, appoggiatevi alla spalliera le mani ancora giunte, ricominciò a parlare. "Se il clero insegna poco al popolo la preghiera interiore che risana l'anima quanto certe superstizioni la corrompono, è per causa del secondo spirito maligno che infesta la Chiesa trasfigurato in angelo di luce. Questo è lo spirito di dominazione del clero. A quei sacerdoti che hanno lo spirito di dominazione non piace che le anime comunichino direttamente e normalmente con Dio per domandarne consiglio e direzione. A buon fine! Il Maligno inganna, così la loro coscienza; a buon fine! Ma le vogliono dirigere essi in qualità di mediatori e queste anime diventano fiacche, timide, servili. Non saranno molte, forse; i peggiori maleficî dello spirito di dominazione sono diversi. Egli ha soppressa l'antica santa libertà cattolica. Egli cerca fare all'obbedienza, anche quando non è dovuta per legge, la prima delle virtù. Egli vorrebbe imporre sottomissioni non obbligatorie, ritrattazioni contro coscienza, dovunque un gruppo d'uomini si associa per un'opera buona prenderne il comando, e, se declinano il comando, rifiutar loro l'aiuto. Egli tende a portare l'autorità religiosa anche fuori del campo religioso. Lo sa l' Italia, Santo Padre. Ma cosa è l' Italia? Non è per essa che io parlo, è per tutto il mondo cattolico. Santo Padre, Ella forse non lo avrà provato ancora, ma lo spirito di dominazione vorrà esercitarsi anche sopra di Lei. Non ceda, Santo Padre! Ella è il Governatore della Chiesa, non permetta che altri governi Lei, non sia il Suo potere un guanto per invisibili mani altrui. Abbia consiglieri pubblici e siano i vescovi raccolti spesso nei Concilii nazionali e faccia partecipare il popolo alla elezione dei vescovi scegliendo uomini amati e riveriti dal popolo, e i vescovi si mescolino al popolo non solamente per passare sotto archi di trionfo e farsi salutare dal suono delle campane ma per conoscere le turbe e per edificarle a imitazione di Cristo, invece di starsene chiusi da principi orientali negli episcopii, come tanti fanno. E lasci loro tutta l'autorità che è compatibile con quella di Pietro! Santità, posso parlare ancora?" Il Papa, che da quando Benedetto aveva ricominciato a parlare gli teneva gli occhi in viso, rispose con un lieve abbassar del capo. "Il terzo spirito maligno" riprese Benedetto "che corrompe la Chiesa, non si trasfigura in angelo di luce perché saprebbe di non poter ingannare, si accontenta di vestire una comune onestà umana. È lo spirito di avarizia. Il Vicario di Cristo vive in questa reggia come visse nel suo episcopio, con un cuore puro di povero. Molti Pastori venerandi vivono nella Chiesa con eguale cuore, ma lo spirito di povertà non vi è bastantemente insegnato come Cristo lo insegnò, le labbra dei ministri di Cristo sono troppo spesso compiacenti ai cupidi dell'avere. Quale di essi piega la fronte con ossequio a chi ha molto solamente perché ha molto, quale lusinga con la lingua chi agogna molto, e il godere la pompa e gli onori della ricchezza, l'aderire con l'anima alle comodità della ricchezza pare lecito a troppi predicatori della parola e degli esempî di Cristo. Santo Padre, richiami il clero a meglio usare verso i cupidi dell'avere, sieno ricchi, sieno poveri, la carità che ammonisce, che minaccia, che rampogna. Santo Padre!" Benedetto tacque, fissando il Papa con una espressione intensa di appello. "Ebbene?" mormorò il Papa. Benedetto allargò le braccia e riprese: "Lo Spirito mi sforza a dire di più. Non è opera di un giorno ma si prepari il giorno e non si lasci questo cómpito ai nemici di Dio e della Chiesa, si prepari il giorno in cui i sacerdoti di Cristo dieno l'esempio della effettiva povertà, vivano poveri per obbligo come per obbligo vivono casti, e servano loro di norma per questo le parole di Cristo ai Settantadue. Il Signore circonderà gli ultimi fra loro di tale onore, di tale riverenza quale ora non è nel cuore della gente intorno ai Principi della Chiesa. Saranno pochi ma la luce del mondo. Santo Padre, lo sono essi oggi? Qualcuno lo è; i più non sono né luce né tenebre." Qui, per la prima volta, il Pontefice assentì del capo mestamente. "Il quarto spirito maligno" proseguì Benedetto "è lo spirito d'immobilità. Questo si trasfigura in angelo di luce. Anche i cattolici, ecclesiastici e laici, dominati dallo spirito d'immobilità credono piacere a Dio come gli ebrei zelanti che fecero crocifiggere Cristo. Tutti i clericali, Santità, anzi tutti gli uomini religiosi che oggi avversano il cattolicismo progressista, avrebbero fatto crocifiggere Cristo in buona fede, nel nome di Mosè. Sono idolatri del passato, tutto vorrebbero immutabile nella Chiesa, sino alle forme del linguaggio pontificio, sino ai flabelli che ripugnano al cuore sacerdotale di Vostra Santità, sino alle tradizioni stolte per le quali non è lecito a un cardinale di uscire a piedi e sarebbe scandaloso che visitasse i poveri nelle loro case. È lo spirito d'immobilità che volendo conservare cose impossibili a conservare ci attira le derisioni degl'increduli; colpa grave davanti a Dio!" Il petrolio veniva mancando nella lucerna, il cerchio delle tenebre si stringeva, si addensava intorno e sopra la breve sfera di luce in cui si disegnavano, l'una in faccia all'altra, la bianca figura del Pontefice seduto e la bruna di Benedetto in piedi. "Contro lo spirito d'immobilità" disse questi "io la supplico di non permettere che sieno posti all' Indice i libri di Giovanni Selva." Quindi, posta la seggiola da banda, s'inginocchiò nuovamente, stese le mani al Pontefice, parlò più trepido e più acceso: "Vicario di Cristo, io La scongiuro di un'altra cosa. Sono un peccatore indegno di venire paragonato ai Santi ma lo Spirito di Dio può parlare anche per la bocca più vile. Se una donna ha potuto scongiurare un Papa di venire a Roma, io scongiuro Vostra santità di uscire dal Vaticano. Uscite, Santo Padre; ma la prima volta, almeno la prima volta, uscite per un'opera del vostro ministero! Lazzaro soffre e muore ogni giorno, andate a vedere Lazzaro. Cristo chiama soccorso in tutte le povere creature umane che soffrono. Ho vista dalla Galleria delle lapidi i lumi che fronteggiano un altro palazzo di Roma. Se il dolore umano chiama in nome di Cristo, là si risponderà forse: "no" ma si va. Dal Vaticano si risponde "sì" a Cristo, ma non si va. Che dirà Cristo, Santo Padre, nell'ora terribile? Queste parole mie, se fossero conosciute dal mondo, mi frutterebbero vituperî da chi più si professa devoto al Vaticano; ma per vituperi e fulmini che mi si scagliassero non griderei io fino alla morte: che dirà Cristo? Che dirà Cristo? A Lui mi appello." La fiammella della lucerna mancava, mancava; nella breve sfera di luce fioca che le tenebre premevano non si vedeva quasi più di Benedetto che le mani stese, non si vedeva quasi più del Papa che la destra posata sul campanello d'argento. Appena Benedetto tacque, il Santo Padre gli ordinò di alzarsi, poi scosse il campanello due volte. La porta della Galleria si aperse, entrò il fido cameriere già popolare in Vaticano col nome di don Teofilo. "Teofilo" disse il Papa, "in Galleria, è riaccesa la luce?" "Sì, Santità." "Allora passa in Biblioteca dove troverai monsignore. Digli che venga qua, che mi aspetti. E tu provvedigli un'altra lucerna." Ciò detto, Sua Santità si alzò. Era piccolo di statura e tuttavia un po' curvo. Mosse verso la porta della Galleria accennando a Benedetto di seguirlo. Don Teofilo uscì dalla parte opposta. Triste presagio, nella buia sala dov'eran corse tante fiammelle di parole accese dallo Spirito, non rimase che la piccola lucernina morente. La Galleria delle lapidi, là dove il Papa e Benedetto vi entrarono, era semibuia. Ma nel fondo una grande lampada a riflettore illuminava l'iscrizione commemorativa a destra della porta che mette nella loggia di Giovanni da Udine. Fra le grandi ali di lapidi schierate da capo a fondo della Galleria, che guardavano l'oscuro dibattito delle due anime viventi come testimoni muti che già conoscessero i misteri di oltre tomba e del giudizio divino, il Papa si avanzava lento, silenzioso, seguito, un passo indietro e a sinistra, da Benedetto. Sostò un momento presso il torso del fiume Oronte, guardò dalla finestra. Benedetto si domandò se guardasse i lumi del Quirinale, palpitò, attendendo una parola. La parola non venne. Il Papa riprese, tacendo sempre, il suo lento andare, con le mani congiunte dietro il dorso, e il mento appoggiato al petto. Sostò presso al fondo, nella luce della grande lampada; parve incerto se ritornare o procedere. A sinistra della lampada la porta della Galleria si apriva sopra uno sfondo di notte, di luna, di colonne, di vetri, di pavimento marmoreo. Il Papa si avviò a quella volta, scese i cinque gradini. La luna batteva per isghembo sul pavimento rigato dalle ombre nere delle colonne, tagliato in fondo alla loggia dall'obliquo profilo dell'ombra piena, dentro la quale mal si discerneva il busto di Giovanni. Il Papa percorse la loggia fino a quell'ombra, vi entrò, vi si trattenne. Intanto Benedetto, fermatosi molti passi indietro per non avere l'aria di premere irriverentemente nel desiderio di una risposta, mirava l'astro veleggiante fra nuvole grandi su Roma. Mirando l'astro, domandò a sé, a qualche Invisibile che gli fosse vicino, quasi anche allo stesso volto severo e triste della luna, se avesse troppo osato, male osato. Si pentì subito del suo dubbio. Aveva forse parlato egli? Oh no, le parole gli erano venute alle labbra senza meditazione, aveva parlato lo Spirito. Chiuse gli occhi in uno sforzo di preghiera mentale ancora levando la faccia verso l'astro, come un cieco che porgesse il viso avido al divinato splendore di argento. Una mano lo toccò lievemente sulla spalla. Trasalì e aperse gli occhi. Era il Papa e il suo viso diceva come avesse finalmente maturate nel pensiero parole che lo appagavano. Benedetto chinò il capo rispettosamente ad ascoltarlo. "Figlio mio" disse Sua Santità "alcune di queste cose il Signore le ha dette da gran tempo anche nel cuore mio. Tu, Dio ti benedica, te la intendi col Signore solo; io devo intendermela anche cogli uomini che il Signore ha posto intorno a me perché io mi governi con essi secondo carità e prudenza; e devo sovratutto misurare i miei consigli, i miei comandi, alle capacità diverse, alle mentalità diverse di tanti milioni di uomini. Io sono un povero Maestro di scuola che di settanta scolari ne ha venti meno che mediocri, quaranta mediocri e dieci soli buoni. Egli non può governare la scuola per i soli dieci buoni e io non posso governare la Chiesa soltanto per te e per quelli che somigliano a te. Vedi, per esempio; Cristo ha pagato il tributo allo Stato e io, non come Pontefice ma come cittadino, pagherei volentieri il mio tributo di omaggio là in quel palazzo di cui hai veduto i lumi, se non temessi di offendere così i sessanta scolari, di perdere anche una sola delle loro anime che mi sono preziose come le altre. E così sarebbe se io facessi togliere certi libri dall' Indice, se chiamassi nel Sacro Collegio certi uomini che hanno fama di non essere rigidamente ortodossi, se, scoppiando un'epidemia, andassi, ex abrupto , a visitare gli ospedali di Roma." "Oh Santità!" esclamò Benedetto "mi perdoni ma non è sicuro che queste anime disposte a scandolezzarsi del Vicario di Cristo per ragioni simili poi si salvino, e invece è sicuro che si acquisterebbero tante altre anime le quali non si acquistano!" "E poi" continuò il Papa come se non avesse udito "sono vecchio, sono stanco, i cardinali non sanno chi hanno messo qui, non volevo. Sono anche ammalato, ho certi segni di dover presto comparire davanti al mio Giudice. Sento, figlio mio, che tu hai lo spirito buono ma il Signore non può volere da un poveruomo come me le cose che tu dici, cose a cui non basterebbe neppure un Pontefice giovine e valido. Però vi sono cose che anch'io, con il Suo aiuto, potrò fare; se non le cose grandi, almeno altre cose. Le cose grandi preghiamo il Signore che susciti chi a loro tempo le sappia fare e chi sappia bene aiutare a farle. Figlio mio, se io mi metto da stasera a trasformare il Vaticano, a riedificarlo, dove trovo poi Raffaello che lo dipinga? E neppure questo Giovanni? Non dico però di non fare niente." Benedetto era per replicare. Il Pontefice, forse per non volersi spiegare di più, non gliene lasciò né il modo né il tempo, gli fece una domanda gradita. "Tu conosci Selva" diss'egli. "Privatamente, che uomo è?" "È un giusto" si affrettò a rispondere Benedetto. "Un gran giusto. I suoi libri sono stati denunciati alla Congregazione dell' Indice. Forse vi si troveranno alcune opinioni ardite ma non vi è confronto fra la religiosità calda e profonda dei libri di Selva e il formalismo freddo, misero di altri libri che corrono, più del Vangelo, per le mani del clero. Santo Padre, la condanna di Selva sarebbe un colpo alle energie più vive e più vitali del Cattolicismo. La Chiesa tollera migliaia di libri ascetici stupidi che rimpiccioliscono indegnamente l'idea di Dio nello spirito umano; non condanni questi che la ingrandiscono!" Le ore suonarono da lontano. Nove e mezzo. Sua Santità prese tacendo una mano di Benedetto, la chiuse fra le sue, gli fece intendere con quella muta stretta sensi e consensi trattenuti dalla bocca prudente. La strinse, la scosse, l'accarezzò, la strinse ancora, disse finalmente con voce soffocata: "Prega per me, prega che il Signore m'illumini." Due lagrime brillavano nei belli occhi soavi di vecchio che mai non si macchiò di un volontario pensiero impuro, di vecchio tutto dolcezza di carità. Benedetto non riuscì, per la commozione, a parlare. "Vieni ancora" disse il Papa. "Dobbiamo discorrere ancora." "Quando, Santità?" "Presto. Ti farò avvertire." Intanto l'ombra, avanzando, aveva inghiottito la Figura bianca e la Figura nera. Sua Santità pose una mano sulla spalla di Benedetto, gli domandò sommessamente, quasi esitante: "Ricordi la fine della tua visione?" Benedetto rispose, pure sottovoce, abbassando il viso: "Nescio diem neque horam." "Non sono nel manoscritto" riprese Sua Santità. "Ma ricordi?" Benedetto mormorò: "In abito benedettino, sulla nuda terra, all'ombra di un albero." "Se così sarà" riprese il Santo Padre, dolcemente "ti voglio benedire per quel momento. Allora sarò ad aspettarti in cielo." Benedetto s'inginocchiò. La voce del Papa suonò solenne nell'ombra: "Benedico te in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti." Il Papa risalì rapidamente i cinque gradini, scomparve. Benedetto rimase ginocchioni, assorto in quella benedizione che gli era parsa venire da Cristo. Si alzò al suono di un passo nella Galleria. Pochi momenti dopo egli scendeva, accompagnato da don Teofilo, al Portone di bronzo.

Il suo primo torto era stato di portare il messaggio dell' Abate. Noemi non sapeva di questo messaggio. Udito che si voleva spogliare Benedetto della sua tonaca, scattò: Benedetto non doveva obbedire! Intanto Benedetto e il Padre mossero verso la porta. Benedetto si tenne in disparte; il Padre venne a dire ai Selva e a Noemi che, parecchia gente volendo parlare a Benedetto, egli aveva combinato un ritrovo comune presso un Signore del paese. Doveva ora precederli, con Benedetto, colà. Sarebbe venuto a riprenderli in Chiesa fra pochi minuti. Il Signore era quel tale che i Selva avevano incontrato sulla costa di Jenne dove stava in attesa della duchessa di Civitella. La duchessa era poi arrivata con altre due dame e con alcuni cavalieri fra i quali un giornalista, il giovinotto elegantissimo dalla caramella. Il Signore di Jenne non capiva più nella pelle, si sentiva per quel giorno in corpo uno spirito ducale di bontà e di magnificenza. Perciò don Clemente, consigliato dall'arciprete di rivolgersi a lui, ne aveva facilmente ottenuto la promessa, per Benedetto, di un vecchio abito nero da mattina, di una cravatta nera, di un cappello nero a cencio. Quando, nella camera dov'erano preparate le vesti laicali, il discepolo, svestita la tonaca, prese, tacendo sempre, a indossarle, il Maestro, che stava alla finestra, non poté trattenere un singhiozzo. Pochi momenti dopo Benedetto lo chiamò dolcemente. - Padre mio diss'egli. "Mi guardi." Vestito dei nuovi panni, troppo lunghi e larghi, egli sorrideva, mostrando pace. Il Padre gli afferrò una mano per baciargliela; ma Benedetto, ritratta con impeto la mano, allargò le braccia, si strinse al petto lui che parve allora il minore, il figliuolo, il penitente ministro di tristi prepotenze umane che sul palpito divino di quel petto si sciogliessero in polvere, cenere e niente. Stettero così abbracciati lungamente senza dir parola. "L'ho fatto per te" mormorò alfine don Clemente. "Ti ho portato io il messaggio ignominioso per vedere la grazia del Signore risplendere in questo tuo abito vile più che nella tonaca." Benedetto lo interruppe. "No no" diss'egli "non mi tenti, non mi tenti! Ringraziamo Iddio, invece, che appunto mi castiga per quel compiacimento presuntuoso che ho avuto a Santa Scolastica quando Lei mi ha offerto l'abito benedettino e io ho pensato che nella mia visione mi ero visto morire con quell'abito. Il mio cuore si alzò allora come dicendosi: "sono veramente prediletto da Dio!" E adesso ... "Oh ma ...!" esclamò il Padre e subito tacque, tutto una fiamma nel viso. Benedetto credette intendere che avesse pensato: "non è detto che tu non lo riprenda, l'abito che hai spogliato! non è detto che la visione non si avveri!" e che poi non avesse voluto dire il suo pensiero, sia per prudenza, sia per non alludere alla sua morte. Sorrise, lo abbracciò. Il Padre si affrettò a parlare d'altro, scusò l'arciprete ch'era dolente di quanto accadeva, che non avrebbe voluto allontanare Benedetto ma temeva i Superiori. Non era un don Abbondio, non temeva per sé, temeva per lo scandalo di un conflitto con l' Autorità. "Io gli perdono" disse Benedetto "e prego Dio che gli perdoni, ma questo difetto di coraggio morale è una piaga della Chiesa. Piuttosto che mettersi in conflitto con i Superiori ci si mette in conflitto con Dio. E si crede di sfuggire a questo sostituendo alla propria coscienza, dove Dio parla, la coscienza dei Superiori. E non s'intende che operando contro il bene o astenendosi da operare contro il male per obbedire ai Superiori si è di scandalo al mondo, si macchia davanti al mondo il carattere cristiano. Non s'intende che il debito verso Dio e il debito verso i Superiori si possono compiere insieme non operando mai contro il bene, non astenendosi mai da operare contro il male, ma senza giudicare i Superiori, ma obbedendo loro con perfetta obbedienza in tutto che non è contro il bene o a favore del male, deponendo ai loro piedi la propria Vita stessa, solo non la coscienza; la coscienza, mai! Allora questo inferiore spogliato di tutto fuorché della sua coscienza e della sua obbedienza giusta, questo inferiore è un puro grano del sale della terra e dove molti di questi grani si trovino uniti, ciò cui essi aderiscono resterà incorrotto e ciò cui non aderiscono cadrà imputridito!" A misura che parlava, Benedetto si veniva trasfigurando. Nel pronunciare le ultime parole sorse in piedi. Gli occhi avevano lampi, la fronte un chiarore augusto dello spirito di Verità. Posò le mani sulle spalle di don Clemente. "Maestro mio" diss'egli raddolcendosi nel viso "io lascio il tetto, il pane e l'abito che mi furono offerti, ma non lascerò di parlare di Cristo Verità fino a che avrò Vita. Me ne vado ma non per tacere. Si ricorda di avermi fatto leggere la lettera di S. Pier Damiano a quel laico che predicava? E quello là predicava in Chiesa! Io non predicherò in Chiesa ma se Cristo vuole che io parli nei tugurii, nei tugurii parlerò; se vuole che io parli nei palazzi, nei palazzi parlerò; se vuole che io parli nei cubicoli, parlerò nei cubicoli; se vuole che io parli sui tetti, parlerò sui tetti. Pensi all'uomo che operava nel nome di Cristo e ne fu proibito dai discepoli. Cristo ha detto: lasciatelo fare. È da obbedire ai discepoli o è da obbedire a Cristo?" "Per l'uomo del Vangelo sta bene, caro" rispose don Clemente "ma ora sulla volontà di Cristo ci si può anche ingannare, bada." Il cuore di don Clemente non parlava propriamente così; ma le parole imprudenti, indisciplinate del cuore non furon lasciate passare alle labbra. "Del resto, Padre mio" riprese Benedetto "lo creda, io non sono bandito per avere evangelizzato il popolo. Vi sono due cose ch'Ella deve sapere. La prima è questa: mi è stato proposto, qui a Jenne, da qualcuno che mi parlò quella volta e poi non vidi più, di abbracciare la carriera ecclesiastica per diventare missionario. Risposi che non mi sentivo chiamato. La seconda è questa. Nei primi giorni dopo la mia venuta a Jenne, discorrendo di religione con l'arciprete, gli parlai della vitalità eterna della dottrina cattolica, del potere che ha l'anima della dottrina cattolica di trasformare continuamente il proprio corpo, accrescendone senza limiti la forza e la bellezza. Lei sa, Padre mio, da chi mi sono venute queste idee per mezzo di Lei. L'arciprete deve avere riferito il mio discorso, che gli era piaciuto. Il giorno dopo mi domandò se a Subiaco avessi conosciuto Selva, se avessi letto i suoi libri. Mi disse ch'egli non li aveva letti ma sapeva ch'erano da fuggire. Padre mio, Ella comprende. È per causa del signor Selva e dell'amicizia di Lei col signor Selva che io parto da Jenne così. Non La ho mai tanto amata quanto adesso, non so dove andrò ma dovunque il Signore mi mandi, vicino o lontano, non mi abbandoni nell'anima Sua!" Così dicendo con un tumulto, nella voce, di dolore e di amore, Benedetto si gettò un'altra volta nelle braccia del Maestro che, straziato egli pure da una tempesta di sentimenti diversi, non sapeva se domandargli perdono o promettergli gloria, la vera; e solamente poté dirgli, ansando: "Anch'io, tu non sai! ho bisogno di non essere abbandonato dall'anima tua." Don Clemente raccolse in un fardello, maneggiandolo con mani guardinghe, riverenti, l'abito deposto dal discepolo. Raccolto che l'ebbe, disse a Benedetto che non poteva offrirgli l'ospitalità di Santa Scolastica, che aveva avuto in animo di pregare i signori Selva, ma che ora gli sorgeva il dubbio se a Benedetto fosse opportuno, nell'interesse del suo stesso apostolato, mettersi così pubblicamente sotto la protezione del signor Giovanni. Benedetto sorrise. "Oh, questo no!" diss'egli. "Temeremo noi le tenebre più che non ameremo la luce? Ma ho bisogno di pregare il Signore che mi faccia conoscere, se possibile, la Sua volontà. Forse vorrà questo, forse altro. E adesso vorrebbe farmi portare un po' di cibo e di vino? Poi mi mandi chi mi vuole parlare." Don Clemente si meravigliò, nel suo interno, che Benedetto gli domandasse del vino ma non ne fece mostra. Disse che gli avrebbe mandata pure quella signorina che stava con i Selva. Benedetto lo interrogò cogli occhi, ricordando che quando la signorina, poi riveduta in Chiesa, gli aveva chiesto un colloquio, don Clemente gli aveva stretto il braccio come per ammonirlo tacitamente di stare in guardia. Don Clemente, arrossendo molto, si spiegò. Aveva veduta la signorina a Santa Scolastica insieme a un'altra persona. Quel moto era stato involontario. L'altra persona era lontana. "Non ci rivedremo" diss'egli "perché appena ti avrò mandato il cibo e avrò avvertite queste persone, dovrò partire per Santa Scolastica." Benedetto, parlando di andare a Subiaco o altrove, aveva detto "forse questo, forse altro" con un accento così pregno di sottintesi, che don Clemente, nel congedarsi, gli sussurrò: "Pensi a Roma?" Invece di rispondere, Benedetto gli prese dolcemente di mano il fardello dov'era la povera tonaca concessa e ritolta, se l'accostò, non senza un tremito delle mani, alle labbra, ve le impresse, ve le tenne lungamente. Era il rimpianto dei giorni di pace, di lavoro, di preghiera, di parola evangelica? Era l'attesa di un'ora lucente nell'avvenire? Rese il fardello al Maestro. "Addio" diss'egli. Don Clemente uscì a precipizio. La stanza offerta dal padrone di casa per le udienze di Benedetto aveva un grande canapè, un tavolino quadrato coperto di un panno giallo a fiorami azzurri, delle sedie sgangherate, delle poltrone che mostravano la stoppa per gli squarci del vecchio cuoio stinto, due ritratti di avoli parrucconi dalle cornici annerite, due finestre, una quasi accecata da una muraglia greggia, l'altra aperta sui prati, sulla faccia di un bel monte pensoso, sul cielo. Benedetto, prima di ricevere visitatori, vi si affacciò per un addio ai prati, al monte, al povero paese. Preso da spossatezza, si appoggiò al davanzale. Era una spossatezza dolce dolce. Non si sentiva quasi più il peso del corpo e il cuore gli si ammolliva di beatitudine mistica. Poco a poco, perdendo i suoi pensieri oggetto e forma, il senso della quieta innocente Vita esterna, delle stille che gocciavano dai tetti, dell'aria odorata di montagna, lievemente, occultamente mossa ora in questa ora in quella parte, lo intenerì. Gli rinacquero nella memoria ore lontane della sua giovinezza prima, quando non aveva moglie né pensava al matrimonio, la fine di un temporale nell'alta Valsolda, sui dorsi del Pian Biscagno. Quanto diversa la sua sorte se i suoi genitori avessero vissuto trenta, vent'anni di più! Almeno uno di essi! Si vide nel pensiero la lapide del camposanto di Oria: a Franco in Dio la sua Luisa e gli occhi gli si gonfiarono di pianto. Venne allora una reazione violenta della volontà contro questi languori molli del sentimento, questa tentazione di debolezza. "No no no" mormorò egli, udibilmente. Una voce, alle sue spalle, rispose: "Non ci vuole ascoltare?" Benedetto si voltò, sorpreso. Tre giovani stavano davanti a lui. Egli non li aveva uditi entrare. Quello di essi che pareva il maggiore, un bel ragazzo, basso di statura, bruno, dagli occhi esperti di molte cose, gli chiese arditamente perché avesse spogliato l'abito clericale. Benedetto non rispose. "Non lo vuol dire?" fece colui. "Non importa, senta. Noi siamo studenti dell' Università di Roma, gente di poca fede, glielo dico schietto e subito. E ci godiamo la nostra giovinezza, più o meno; glielo dico subito anche questo." Uno dei compagni tirò l'oratore per la falda dell'abito. "Sta zitto!" disse il primo. "Sì, uno di noi crede poco ai Santi ma è un purissimo. Quello però non è qui davanti a Lei, come non vi sono altri che stanno giuocando all'osteria. Il Purissimo non ha voluto venire con noi. Dice che troverà modo di parlarle da solo a solo. Noi siamo quello che Le ho detto. Siamo venuti da Roma per fare una gita e per vedere un miracolo, s'era possibile; insomma per stare allegri." I compagni lo interruppero, protestando. "Ma sì!" ribatté lui. "Per stare allegri! Scusi, io sono più sincero. Infatti mancò poco che la nostra allegria ci costasse cara. Si scherzò e ci volevano accoppare, capisce; a Suo onore e gloria. Ma poi s'è udito il discorsino ch' Ella fece a quella turba fanatica. Per il demonio, si disse, questo è un linguaggio che ha del novo in una bocca pretina o semipretina, questo è un Santo che ci va meglio degli altri, scusi la confidenza. E ci si accordò subito di chiederle un colloquio. Perché poi, se siamo un poco scettici e gaudenti, siamo anche un poco intellettuali e certe Verità religiose c'interessano. Io, per esempio, sono forse per diventare un neo buddista." I suoi compagni risero ed egli si voltò ad essi adirato. "Sì, non sarò buddista nella pratica ma il Buddismo m'interessa più del Cristianesimo!" Qui successe un battibecco fra i tre per quest'uscita poco opportuna; e un secondo oratore, lungo, sottile, in occhiali, prese il posto del primo. Costui parlava nervoso, con frequenti scatti del capo e degli avambracci rigidi. Il suo discorso fu questo. I suoi compagni e lui avevano discusso più volte intorno alla vitalità del Cattolicismo. Tutti ammettevano che fosse esausta e che la morte seguirebbe presto se non intervenisse una riforma radicale. Alla possibilità di questa riforma chi credeva e chi non credeva. Desideravano conoscere l'opinione di un cattolico intelligente e moderno nello spirito come si era rivelato Benedetto. Avevano molte domande a fargli. Qui il terzo ambasciatore della compagnia studentesca giudicò venuto il suo momento e scaraventò addosso a Benedetto una tempesta disordinata di quesiti. Sarebb'egli stato disposto a farsi propugnatore di una riforma della Chiesa? Credeva nell'infallibilità del Papa e del Concilio? Approvava il culto di Maria e dei Santi nella sua forma presente? Era democratico cristiano? Quale concetto aveva di una riforma desiderabile? Avevano veduto a Jenne Giovanni Selva. Benedetto, conosceva i suoi libri? Approvava le sue idee? Gli piaceva che fosse proi­bito ai cardinali di uscire a piedi e ai preti di andare in bicicletta? Cosa pensava della Bibbia e dell'ispirazione? Prima di rispondere, Benedetto guardò a lungo, severo in viso, il suo giovine interlocutore. "Un medico" diss'egli finalmente "aveva fama di saper guarire tutte le malattie. Qualcuno che non credeva nella medicina andò da lui per curiosità, per interrogarlo sull'arte sua, sugli studî, sulle opinioni. Il medico lo lasciò parlare lungamente e poi gli prese il polso, così." Benedetto prese il polso del primo che gli aveva parlato e proseguì: "Glielo prese, glielo tenne un momento in silenzio, poi gli disse: - Amico, voi soffrite di cuore. Io ve l'ho letto in viso e ora sento battere il martello del falegname che vi lavora la bara." Il giovine dal polso prigioniero non poté a meno di batter le ciglia. "Non parlo per Lei" disse Benedetto. "Parla quel medico a quel tale che non crede nella medicina. E continua: - Venite voi a me per avere Vita e salute? Io vi darò l'una e l'altra. Non ve­nite per questo? Io non ho tempo per voi. - Allora colui, che si era sempre creduto sano, allibbì e disse: - Maestro, eccomi nelle vostre mani, fate che io viva." I tre rimasero per un momento sbalorditi. Quando accennarono a riaversi e a replicare, Benedetto riprese: "Se tre ciechi mi domandano la mia lampada di Verità, cosa risponderò io? Risponderò: andate prima e preparate gli occhi vostri ad essa perché se io ve la dessi nelle mani ora, voi non ne avreste alcun lume, voi non potreste che guastarla." "Non vorrei" disse lo studente lungo, smilzo e occhialuto "che per vedere questa Sua lampada di Verità si dovessero chiudere le finestre alla luce del sole. Ma insomma capisco ch' Ella non voglia spiegarsi con noi, che ci prenda per dei reporters. Oggi noi non abbiamo o almeno io non ho le disposizioni che Lei desidera. Sarò un cieco ma non mi sento di domandar la luce al Papa e nemmeno a un Lutero. Però, se Lei viene a Roma, troverà dei giovani disposti meglio di me, meglio di noi. Venga, parli, permetta anche a noi di udirla. Oggi abbiamo la curiosità, domani, chi sa? potremo avere il desiderio buono. Venga a Roma." "Mi dia il Suo nome" disse Benedetto. Colui gli porse una carta da visita. Si chiamava Elia Viterbo. Benedetto lo guardò, curioso. "Sì Signore" diss'egli "sono israelita, ma questi due battezzati non sono più cristiani di me. Del resto io non ho nessun pregiudizio religioso." Il colloquio era finito. Nell'uscire, il più giovane dei tre, quello dalla gragnuola di domande, tentò un ultimo assalto. "Ci dica almeno se i cattolici, secondo Lei, dovrebbero andare alle urne politiche?" Benedetto tacque. L'altro insistette: "Non vuoi rispondere neppure a questo?" Benedetto sorrise. "Non expedit" diss'egli. Passi nell'anticamera; due colpettini leggeri all'uscio; entrano i Selva con Noemi. Maria Selva entra prima e vedendo Benedetto così vestito, non può trattenere un movimento di sdegno, di compianto e di riso; arrossisce, vorrebbe dire una parola di protesta, non la trova. A Noemi vengono le lagrime agli occhi. Tutti e quattro tacciono per un momento e si comprendono. Poi Giovanni mormora: Non fu dal vel del cuor giammai disciolto e stringe la mano all'uomo che nei suoi goffi abiti gli pare augusto. "Sì ma Lei non deve portare questa roba!" esclamò Maria, meno mistica di suo marito. Benedetto fece un gesto come per dire "non parliamo di ciò!" e guardava il Maestro del suo Maestro con occhi desiderosi e riverenti. "Sa" diss'egli "quanto Vero e quanto bene mi sono venuti da Lei?" Giovanni non sapeva di avere tanto influito su quell'uomo attraverso don Clemente. Suppose che avesse letto i suoi libri. Ne fu commosso e ringraziò nel suo cuore Iddio che gli faceva sentire con dolcezza un po' di effettivo bene operato in un'anima. "Quanto sarei stato felice" ripigliò Benedetto "di lavorare nel Suo orto per vederla qualche volta, per udirla parlare!" Noemi, all'udir ricordare quella sera, si lasciò sfuggire una esclamazione sommessa piena di memorie che non si potevano dire. Giovanni ne prese occasione per offrire a Benedetto l'ospitalità, poiché don Clemente gli aveva detto che intendeva lasciare Jenne la sera stessa. Potremmo partire insieme, quando piacesse a lui, dopo il colloquio ch'egli avrebbe concesso a sua cognata. Noemi, pallida, fissò Benedetto per la prima volta, aspettando la sua risposta. "La ringrazio" diss'egli, dopo avere pensato un poco. "Se busserò alla Sua porta Ella mi aprirà. Ora non Le posso dire altro." Giovanni fece atto di ritirarsi con sua moglie. Benedetto li pregò di restare. Certo la signorina non aveva segreti per loro; almeno per sua sorella se non per il cognato. Anche questo coperto invito a Maria cadde perché Noemi osservò, imbarazzata, che non si trattava di segreti suoi. I Selva si ritirarono. Benedetto rimase in piedi e non disse a Noemi di sedere. Egli sapeva di avere a fronte l'amica di Jeanne, presentiva il discorso che verrebbe, un messaggio di Jeanne. "Signorina" diss'egli. Il modo non fu scortese ma significò chiaramente: "quanto più presto, tanto meglio." Noemi intese. Qualunque altro l'avrebbe offesa. Benedetto, no. Con lui si sentiva umile. "Ho l'incarico" diss'egli "di domandarle se sa niente di una persona ch'Ella deve avere conosciuto molto. Anche molto amato, credo. Il nome, io non so se lo pronuncio bene perché non sono italiana, è don Giuseppe Flores." Benedetto trasalì. Non si aspettava questo. "No" esclamò ansioso. "Non so niente!" Noemi lo guardò un momento in silenzio. Avrebbe voluto, prima di parlare, domandargli perdono del dolore che gli avrebbe recato. Disse a bassa voce, mestamente: "Mi è stato scritto di apprenderle che non è più di questa Vita." Benedetto piegò il viso, se lo nascose fra le mani. Don Giuseppe, caro don Giuseppe, cara grande anima pura, cara fronte luminosa, cari occhi pieni di Dio, cara voce buona! Pianse dolcemente due lagrime, due sole lagrime che Noemi non vide, si udì dentro la voce di don Giuseppe che gli diceva: non senti che sono qui, che sono con te, che sono nel tuo cuore? Noemi, dopo un lungo silenzio, mormorò: "Mi perdoni. Vorrei non averle dovuto recare un dolore così grande." Benedetto si scoperse il viso. "Dolore e non dolore" diss'egli. Noemi tacque, riverente. Benedetto le domandò se sapesse quando quella persona fosse morta. Verso la fine di aprile, credeva Noemi. Ella era allora fuori d' Italia. Era nel Belgio, a Bruges, con un'amica sua alla quale era stata scritta la notizia. Per quanto ne aveva udito dall'amica, quella persona, Noemi non ne ripeté il nome per un delicato riguardo, aveva fatto una morte santa. Le sue carte, ella era incaricata di riferire anche questo, erano state affidate al Vescovo della città. Benedetto fece un gesto di approvazione che poteva servire anche per chiusa del colloquio. Noemi non si mosse. "Non ho ancora finito" diss'ella. E soggiunse subito: "Ho un'amica cattolica ... io non sono cattolica, sono protestante ... che ha perduta la fede in Dio. Le hanno consigliato di dedicarsi a opere di carità. Vive con un fratello contrarissimo a qualunque religione. Questa novità che sua sorella si occupi di beneficenza, che si metta in relazione con gente dedita alle opere buone per principio religioso, gli è spiacente. Adesso è ammalato, s'irrita, si esalta, inveisce contro le bigotte del bene, non vuole che sua sorella si occupi di visitare poveri, né di proteggere ragazze, né di raccogliere bambini abbandonati. Dice che tutto questo è clericalismo, è utopia, che il mondo va come vuole andare, che si deve lasciarlo andare e che con questo mescolarsi alle classi inferiori non si fa che metter loro in testa delle idee false e pericolose. Ora è stato detto alla mia amica che deve o mentire a suo fratello facendo di nascosto ciò che prima faceva in palese, o separarsi da lui. Essa ha tanto bisogno di un consiglio sicuro! Mi scrive di domandarlo a Lei. Ha letto nei giornali ch' Ella consiglia qui tanta gente di queste montagne, spera che non rifiuterà." "Poiché suo fratello" rispose Benedetto "è ammalato di corpo e anche di spirito, non le si offre il bene nella sua casa stessa? Diventerà una cattiva sorella per arrivare a conoscere Iddio? Interrompa le sue opere, si dedichi a suo fratello, lo curi come del male del corpo così del male dello spirito, con tutto l'amore che ..." Stava per dire "che gli porta" si corresse per non ammettere così espressamente che conosceva la persona, " ... con tutto l'amore di cui è capace, gli si faccia preziosa, lo vinca poco a poco, senza prediche, solo colla bontà. Farà tanto bene anche a lei di cercar d'incarnare in sé la bontà stessa, la bontà attiva, instancabile, paziente e prudente. E lo vincerà, lo persuaderà, poco a poco, senza discorsi, che tutto quello che fa lei è ben fatto. Allora potrà riprendere le sue opere e le potrà riprendere anche da sola. E vi riuscirà meglio. Adesso le fa per un consiglio avuto, forse non vi riesce tanto bene. Allora le farà per quest'abitudine del bene acquistata con suo fratello, vi riuscirà meglio." "Grazie" disse Noemi. "Grazie per l'amica mia e anche per me, perché mi piace tanto questo che ha detto. E posso io ripetere i suoi consigli, il Suo incoraggiamento in Suo nome?" La domanda pareva superflua poiché incoraggiamento e consigli erano chiesti proprio a Benedetto, proprio per incarico dell'amica. Ma Benedetto si turbò. Era un esplicito messaggio che Noemi gli chiedeva per Jeanne. "Chi son io?" diss'egli. "Che autorità posso avere? Le dica che pregherò." Noemi tremò nel suo interno. Sarebbe stato tanto facile, ora, parlargli di religione! E non osava. Ah perdere una occasione simile! No, bisognava parlare ma non poteva mica pensare per un quarto d'ora a quello che direbbe. Disse la prima cosa che le venne in mente. "Scusi, poiché dice di pregare; vorrei tanto sapere se Lei proprio le approva tutte, le idee religiose di mio cognato?" Appena proferita la domanda, le parve tanto impertinente, tanto goffa, da vergognarne. E si affrettò a soggiungere sentendo di dir cosa ancora più sciocca e dicendola irresistibilmente: "Perché mio cognato è cattolico, io sono protestante e vorrei regolarmi." "Signorina" rispose Benedetto "verrà giorno in cui tutti adoreranno il Padre in ispirito e Verità, sulle cime; oggi è ancora il tempo di adorarlo nelle ombre e nelle figure, in fondo alle valli. Molti possono salire, quale più, quale meno, verso lo spirito e la Verità; molti non possono. Vi hanno piante che oltre una certa zona non fruttificano e, portate ancora più su, muoiono. Sarebbe follia di toglierle al loro clima. Io non La conosco, non posso dirle se le idee religiose di suo cognato possano, portate in Lei così, senza preparazione, dare un frutto buono. Le dico però di studiare molto molto il cattolicismo con l'aiuto di suo cognato, perché non vi è un solo protestante convinto che lo conosca bene." "Lei non verrà a Subiaco?" chiese Noemi timidamente. Qualche nascosta malinconia salì nella sua voce che fece salir nel cuore a Benedetto un senso di dolore dolce, tosto fatto sgomento, tanto era nuovo. "No" diss'egli "non credo." Noemi volle e non volle dire che n'era dolente, pronunciò alcune parole confuse. Si udì gente nell'anticamera. Noemi piegò il viso, Benedetto pure; e il colloquio si sciolse senz'altro saluto. Anche la duchessa volle parlare a Benedetto. Portò con sé compagni e compagne. Non più giovine ma galante ancora, mezzo superstiziosa e mezzo scettica, egoista e non senza cuore, voleva bene alla figliuola tisica di un suo vecchio cocchiere. Udito parlare del Santo di Jenne e de' suoi miracoli, aveva combinata la gita, un po' per divertimento, un po' per curiosità, per vedere se fosse il caso di far venire il Santo a Roma o di mandargli la ragazza. Cugina di un cardinale, aveva conosciuto presso di lui uno dei preti che villeggiavano a Jeanne. Ora colui, incontratala, le aveva già parlato a modo suo del Santo e annunciato il crollo della sua riputazione. Però siccome la duchessa non si fidava di nessun prete ed era curiosa di conoscere un uomo cui si attribuiva un passato romanzesco, e la stessa curiosità avevano i suoi compagni, una compagna in particolare, si risolse di avvicinarlo a ogni modo. Era venuta con lei una vecchia nobildonna inglese, famosa per la sua ricchezza, per le sue toilettes bizzarre, per il suo misticismo teosofico e cristiano, innamorata metafisicamente del Papa e anche della duchessa che ne rideva con i suoi amici. I quali amici, nel vedere Benedetto in quell'arnese, si scambiarono occhiate e sorrisi che per poco non diventarono sghignazzamenti quando la vecchia inglese, prevenendo tutti, prese la parola. Disse, in un cattivo francese, che sapeva di parlare a una persona colta: che lei, con amici e amiche di ogni nazione, lavorava per riunire tutte le Chiese cristiane sotto il Papa, riformando il cattolicismo in alcune parti troppo assurde che nessuno nel suo cuore credeva più buone a niente, come il celibato ecclesiastico e il dogma dell'inferno; che avevano bisogno, per fare questo, di un Santo; che questo Santo sarebbe lui perché uno spirito - ella non era spiritista ma un'amica sua lo era -anzi proprio lo spirito della contessa Blawatzky aveva rivelato questo; ch'era perciò necessaria la sua venuta a Roma e che a Roma egli avrebbe potuto con i suoi doni di santità rendere servigio anche alla duchessa di Civitella, ivi presente. Finì il suo discorso così: "Nous vous attendons absolument, monsieur! Quittez ce vilain trou! Quittez-le bientôt! Bientôt!" Benedetto, girato rapidamente lo sguardo severo per la cerchia delle facce sardoniche o stolide, dall'occhialetto della duchessa alla caramella del giornalista, rispose: "A l'instant, madame!" E uscì della camera. Uscì della camera e della casa, attraversò la piazza camminando male negli abiti disadatti, prese la via della costa senza guardare né a destra né a sinistra, portato dallo spirito più che dalle forze affievolite del corpo, pensando passar la notte sotto qualche albero e l'indomani portarsi a Subiaco e di là, con l'aiuto di don Clemente, a Tivoli dove conosceva un buon vecchio prete solito venire di tanto in tanto a Santa Scolastica. All'ospitalità dei Selva, che gli sarebbe stata cara, non pensava più. Il suo cuore era puro e in pace ma egli non poteva dimenticare che la voce soave di quella signorina straniera e l'accento mesto col quale aveva detto: "Lei non verrà a Subiaco?" gli avevano risuonato dentro in un modo strano, che un minuto secondo era bastato perché gli balenasse in mente questo pensiero: "se Jeanne fosse stata così non mi sarei sciolto." Avevano ragione i mistici: penitenza e digiuno non valgono. A ogni modo tutto era oramai dileguato. Restava solamente l'umile sentimento di una fralezza essenzialmente umana che, uscita vittoriosa da prove difficili, può ricomparire improvvisamente ed essere vinta da un soffio. Il paesello era deserto. La gente di Trevi, di Filettino, di Vallepietra, cessato il temporale, era partita commentando i fatti della mattina, la guarigione dubbia, la guarigione fallita, i moniti seminati alacremente da seconde mani contro il seduttore del popolo, il falso cattolico. All'uscita del villaggio Benedetto fu veduto da due o tre donne di Jenne. L'abito laico le fece allibire, lo credettero scomunicato, lo lasciarono passare in silenzio. Pochi passi più in là fu raggiunto da qualcuno che correva. Era un giovinetto magro, biondo, dagli occhi azzurri, intelligentissimi. "Lei va a Roma, Signore Maironi?" diss'egli. "La prego di non chiamarmi così" rispose Benedetto, spiacente di apprendere che il suo nome, chi sa in qual modo, si era divulgato. "Non so se vado a Roma." "Io La seguo" disse il giovine, impetuoso. "Mi segue? Perché mi segue?" Il giovine gli prese, per tutta risposta, una mano, se la recò alle labbra malgrado la resistenza e le proteste di Benedetto. "Perché?" diss'egli. "Perché ho il disgusto del mondo e non trovavo Dio e oggi mi pare, per Lei, di essere nato alla gioia. Permetta, permetta che La segua!" "Caro" rispose Benedetto, commosso, "non so neppur io dove andrò." Il giovinetto lo supplicò di dirgli almeno quando avrebbe potuto rivederlo, e siccome Benedetto non sapeva veramente come rispondergli, esclamò: "Oh La vedrò a Roma! Lei andrà a Roma, certo!" Benedetto sorrise. "A Roma? E dove trovarmi, a Roma, se ci vado?" Quegli rispose che sicuramente a Roma si parlerebbe di lui, che tutti saprebbero dove trovarlo. "Se Dio vorrà!" disse Benedetto con un affettuoso cenno di saluto. Il giovinetto gentile lo trattenne un momento per la mano. "Sono lombardo anch'io" diss'egli. "Sono Alberti, di Milano. Si ricordi di me!" E seguì Benedetto con lo sguardo intenso finché, a una svolta della mulattiera, disparve. Alla vista della croce dalle grandi braccia, sull'orlo della discesa, Benedetto ebbe un improvviso sussulto di commozione, dovette arrestarsi. Quando si rimise in cammino fu preso da vertigini. Fece pochi passi ancora, barcollando, fuori della via per togliersi dal passaggio della gente e si lasciò cadere sull'erba in un grembo del prato. Allora, chiusi gli occhi, sentì che non era un malessere passaggero, ch'era qualche cosa di più grave. Non smarrì del tutto la conoscenza, smarrì l'udito, il tatto, la memoria, la nozione del tempo. Al primo riaversi, la sensazione, ai dorsi delle mani, del panno grosso, diverso da quello della solita sua veste, gli mise una curiosità non tormentosa, quasi divertente, circa l'identità propria. Si andò tastando il petto, i bottoni, gli occhielli, senza capire. Pensò. Un ragazzo di Jenne che gli passò vicino sul prato, corse a Jenne, raccontò ansante che il Santo giaceva morto sull'erba, presso la croce. Benedetto pensò con quell'ombra di ragione oscura che ci governa nel sogno e al primo svegliarci. Non erano i panni suoi, erano i panni di Piero Maironi. Egli era Piero Maironi ancora. Ne fu sgomentato e rinvenne del tutto. Si levò a sedere, si mirò la persona, girò lo sguardo intorno, per il prato, per i monti velati dalle ombre della sera. Alla vista della grande croce la sua mente si ricompose. Si sentiva male, male assai. Cercò di rimettersi in piedi e vi riuscì a fatica. Si avviò verso la mulattiera domandandosi che potrebbe fare in quello stato. Vide qualcuno venir frettoloso per la mulattiera, da Jenne, fermarglisi in faccia; udì esclamare: "Dio, è Lei!" riconobbe la voce della donna che gli aveva parlato con tanta passione fra i tuoni e i lampi. Ella sola, di tanti che avevano udito a Jenne il racconto del ragazzo, era venuta. Gli altri non avevano creduto o non avevano voluto credere. Era venuta correndo, folle di angoscia. Ora si era fermata di botto, a due passi da lui, incapace di proferir parola. Egli non sospettò che fosse venuta per lui, le diede la buona sera e passò. Ella non gli ricambiò il saluto, affannata, dopo la prima gioia, di vederlo camminare male, non osando seguirlo. Lo vide fermarsi con un uomo a cavallo che saliva, parlargli; fece un balzo avanti per udire. L'uomo era un mulattiere mandato dai Selva in cerca di Benedetto. I Selva erano partiti da Jenne poco dopo quest'ultimo, con due muli per le Signore, credendo raggiungerlo sulla costa. Giunti all' Aniene senza veder nessuno, avevano interrogato un viandante che veniva da Subiaco. Colui non seppe darne notizia. Noemi che doveva prendere l'ultimo treno per Tivoli, era partita con Giovanni, nascondendo il suo rammarico; il mulattiere era stato rimandato a Jenne per cercarvi di Benedetto e anche per riportarne un ombrellino dimenticato all'osteria; Maria era rimasta ad aspettarlo sulle ghiaie dell'Infernillo. La giovine maestra udì Benedetto domandare al mulattiere, per carità, che gli portasse da Jenne un po' d'acqua. I due si parlarono ancora ma lei non attese altro, scomparve. Benedetto aveva accettato, dopo una breve conversazione col mulattiere, di raggiungere, a cavallo, la signora Selva. Rimasto solo, sedette sotto la croce aspettando il ritorno del mulattiere con l'acqua e con l'ombrello. La luna falcata si veniva dorando nel cielo chiaro sopra i monti di Arcinazzo; la sera era senza vento, tepida. Benedetto si sentiva le tempie pulsare e ardere, celere e breve il respiro. Dolore non sentiva; e l'erba odorante del prato, gli alberi sparsi, le grandi montagne ombrose, tutto gli era vivo, tutto gli era pio, tutto gli era dolce di un mistero di amore orante che inclinava la stessa falce della luna verso le cime placide nel cielo di opale. Don Giuseppe Flores gli diceva nel cuore che sarebbe soave di morire così col giorno, pregando insieme alle cose innocenti. Passi frettolosi, dalla parte di Jenne. Si fermarono un po' discosto. Una bambina si avanza verso Benedetto, gli porge timidamente una bottiglia d'acqua e un bicchiere, fugge indietro. Benedetto, meravigliato, la richiama; ella viene lenta, vergognosa. Richiesta del suo nome, tace; dei suoi genitori, tace. Una voce dice: "È la bambina dell'oste." Benedetto riconosce la voce e, al fioco lume della luna, la persona silenziosa rimasta indietro per lo stesso squisito sentimento che le ha fatto prender con sé la bambina. "Grazie" diss'egli. Ella si appressò un poco, tenendo la bambina per mano, sussurrò: "Sa che i preti hanno parlato colla madre del morto? Sa che ora questa donna accusa Lei di averlo fatto morire?" Benedetto rispose con qualche severità nella voce: "Perché mi dice questo?" Ella conobbe di avergli fatto dispiacere accusando alla sua volta, esclamò desolata: "Oh mi perdoni!" E riprese: "Posso farle una domanda?" "Dica." "Ritornerà mai a Jenne?" "No." La donna tacque. Si udirono venire, da lontano, il mulattiere e il suo mulo. Ella disse, a voce più bassa: "Per pietà, una domanda ancora. Come si figura Lei l'altra Vita? Crede che uno possa ritrovare le persone conosciute in questa?" Se il lume della luna non fosse stato così fioco, Benedetto avrebbe vedute due grosse lagrime rigar il viso della giovine. "Credo" rispose gravemente "che fino alla morte del nostro pianeta l'altra Vita sarà per noi un grande continuo lavoro sopra di esso e che tutte le intelligenze aspiranti alla Verità e all' Unità vi si ritroveranno insieme all'opera." Le scarpe ferrate del mulattiere suonano vicine sui ciottoli. La donna dice: "Addio." Stavolta le lagrime suonano anche nella voce. Benedetto le risponde: "A Dio." Egli scende sul mulo, ardendo di febbre, nelle ombre della valle. Andrà dunque a casa Selva. Sa, lo ha saputo dal mulattiere, che non troverà Noemi, ma questo gli è indifferente, non la teme, neppure ricorda quel momento di lieve emozione. Un altro pensiero si agita, infiammato dalla febbre, nell'anima sua. Vi turbinano parole di don Clemente, parole di quel giovine Alberti, parole della vecchia dama inglese, vi lampeggiano dentro immagini rotte della Visione. A casa Selva, sì, ma per poco! Egli scende e la gran voce dell' Aniene gli rugge in profondo, più e più forte: "Roma, Roma, Roma."

Malombra

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

L'ALTARE DEL PASSATO

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Gozzano, Guido 3 occorrenze

Ed io vedo presso una grande finestra prospiciente via Dora Grossa, in sull'imbrunire d'un giorno del 1668, alcune Madame raccolte in un gaietto stuolo: la Contessa di Bouteron, la Marchesa di Pianezza e le sue figliuole gemelle, la Contessa di Saint-Jean, la Contessa di Verrua, Madame d'Olivier, ambasciatrice straordinaria e ordinaria di Francia, con la nipote e il nipotino, accogliere fra alte grida di gioia lusinghiera il giovane abate Conte di Verolengo: - Benvenuto, Monsignore! - Ci si annoiava terribilmente! - E per consolarci ma fille nous agaçait avec les aventures de Télémaque. - Meglio Bertoldo e Bertoldino! ... - Che novità, Monsignore? - Siete stato dalla Duchessa? - Sono stato dalla Duchessa; sono giunto mentre Sua Altezza e la Marchesa di Cavour ... Una balenìo d'occhi e di denti, un corrugare di sopraccigli e di labbra, corre nella penombra elegante. - Scusate, Monsignore - è la padrona di casa che parla - Ortensia, accompagna Cristina e Maria Adelaide e Serafino a vedere la pauvre Gigette è l'ora del miele orzato. Gigette è la canina cinese: sofferente di intestini ribelli e bisognosa di serviziali e di lassativi quotidiani. Le Madame si sono appena liberate dalle Madamigelle che tutte fanno cerchio all'abate sorridente. Il nome della concubina regale ha suscitato in tutte il demone della curiosità. - Ebbene? La Duchessa si è accorta di qualche cosa? - Avanti! - Ci avete promesso ... - Io non ho promesso nulla. Siete voi che non mi lasciate parlare. Oggi sono giunto a Palazzo mentre la Duchessa e la Marchesa di Cavour ... - Ebbene? - Si salutavano, abbracciandosi sorridendo ... Delusione generale, indignazione generale. - Ma non è possibile! - Non è possibile che la Duchessa non sappia! - La Duchessa sa. E per questo abbraccia la Marchesa teneramente, per dare alla rivale la fiducia più temeraria e spingerla all'ultima imprudenza. - Più imprudente di così! L'altro giorno al parco del Valentino, mentre il dottor Operti di Bra recitava a Sua Altezza il complimento dell'Accademia degli Incolti, la Marchesa, che s'annoiava terribilmente, sbadigliò dieci volte, poi s'alzò, passò villanamente dinnanzi a Sua Altezza e alle Dame lasciando il consesso contro ogni etichetta del bel costume. - È vero! Io ero presso una delle finestre che dànno sul Po e vidi la Marchesa scendere le scale, accennare la barca reale dov'erano il Duca, il Conte Rebaudengo e un barcaiuolo e vidi la barca avvicinarsi e la Marchesa balzarvi dentro, e come il Duca le diede aiuto, essa, nel barcollìo, s'abbracciò a lui ridendo, lo tenne stretto assai più del necessario, e il Duca rideva e ridevano il Conte Rebaudengo e il barcaiolo. - E la sconvenienza del giugno scorso, al Castello di Rivoli? Questa, peggio ancora, in faccia alla Duchessa, alla Corte intera, quasi a sfidare la tolleranza di tutte noi. Non ebbe, quella svergognata, la sfrontatezza di salire su un albero di ciliege e di chiamare Sua Maestà con nessuna riverenza e pregarlo di tenderle il cappello mentr'ella lo colmava di ciliege e ne mangiava intanto e schizzava i noccioli dall'alto, bersagliando con motti le dame e i cavalieri? - Ebbe poi l'inaudita impudicizia di presentarsi alla Duchessa, di offrirle le ciliege nel tricorno di suo marito e la Duchessa sorrideva tranquilla, sembrava non vedere, non sentire. - Ma vede, sente, medita, state sicure! - E soffre. La sotto-governante, ieri, passando nei gabinetti di toeletta, la vide riflessa in uno specchio con sulle ginocchia il principino, mentre baciava i capelli del piccolo e piangeva. - Ma Sua Altezza il Duca! Come ha potuto posporre una bella sposa di vent'anni a quella svergognata che ne ha trentacinque? - Trentotto! - Quaranta! - Quarantaquattro! - Signore mie, un momento - interrompe l'abate, che tace sconfitto da qualche tempo. - La verità prima di tutto. Io ho sposata la Marchesa, ho visto il suo atto di nascita. Ha ventott'anni, non ancora compiuti. - Peggio ancora! - Che disastro! Il belletto non le aderisce alla pelle, le traccia un solco tra ruga e ruga ... - Alla luce del giorno è uno sfacelo ... - E non alla luce del giorno soltanto! E le belle madame incrudeliscono e ognuna trova un commento più atroce, ognuna scaglia anatemi e invoca il castigo umano e divino sulla svergonata Marchesa, con veemenza tanto più forte in quanto che ognuna di quelle Dame vorrebbe essere in cuor suo nei panni della concubina famosa ... Oh! Malinconica Torino del seicento, più triste ancora della Torino settecentesca, così triste che io non so immaginarla alla luce del sole, ma la vedo in una perpetua mezz'ombra crepuscolare, nella sua meschinità quasi ancora medioevale, con le sue mura, le sue torri, le sue porte, con la sua piazza del Castello dagli edifici miseri e grigi che ancora attendono di fiorire al genio architettonico di Filippo Juvara! Come trascorreva la vita in quel Palazzo reale che Carlo Emanuele aveva fatto erigere pochi anni prima, squallido edificio ancora ben lungi dall'imponente eleganza e dalla ricchezza che gli conferirono poi Amedeo II e Carlo Emanuele III? In pace trascorreva la vita, da quasi un trentennio, dopo la tremenda guerra civile del 1640. Una grande figura di donna, ormai sessantenne, vi profilava la sua ombra grandiosa: Madama Reale, quella Cristina di Francia che, rimasta vedova di Vittorio Amedeo I, per salvare gli Stati al figlio giovinetto Carlo Emanuele II non aveva esitato a muover guerra ai cognati Principe Tommaso e Cardinale Maurizio, non aveva esitato a fare la cosa inaudita nella storia delle guerre civili, uscire per assediare la sua città bene amata, costringere i suoi cari torinesi alla fame, forzarli, dopo cinque mesi d'assedio atroce, alla resa; e nel 1640 la città s'arrendeva e la Duchessa vittoriosa (cosa commovente e tragica!) rientrava nella sua Torino vestita a lutto per la vittoria riportata contro i suoi sudditi Quasi un trentennio era trascorso. Carlo Emanuele II si era fatto uomo, aveva preso dalle mani della madre lo scettro luttuoso, si era rivelato, a poco a poco, degno nipote di Emanuele Filiberto e degno di esser chiamato l'Adriano del Piemonte. Il Piemonte rifioriva. La Francia esercitava sopra Torino, non per diritto, ma per fatto, un supremo dominio, ma la dipendenza era velata da speciose ragioni di protezione, d'amicizia, di parentela. Si preparavano in silenzio i giorni ribelli e gloriosi di Vittorio Amedeo II. Ma l'influenza della Francia non era soltanto politica, si faceva sentire nell'arte e nei costumi. La Corte torinese era improntata a quella di Parigi e certo sul bell'esempio dei Re Luigi qualche sovrano di Piemonte si concedeva il lusso di qualche favorita. Su Carlo Emanuele II non avevano tuttavia influito nè l'esempio dei cugini d'oltr'Alpe, nè l'eleganza della Senna, delle Grazie madre la sua vita coniugale non lieta, e non per colpa sua, l'aveva costretto a cercarsi altrove altre consolazioni. Le sue prime nozze con quella dolce Francesca d'Orléans, chiamata, per la sua bellezza e la sua grazia, minuscola Colombina d'Amore, nozze felici quant'altre mai, erano state troncate dopo un anno appena dalla feral Parca maligna, come canta un accademico del tempo. E il giovane sovrano aveva consolata la sua vedovanza con varie dame: Gabriella di Mesme di Marolles, moglie del Conte Lanza (sono pettegolezzi di tre secoli, resi pubblici da cento monografie; non è quindi ... indelicatezza far nomi, date, episodi), dalla quale ebbe due figli: Carlo Francesco Agostino, Conte delle Lanze e di Vinovo, e Carlo detto il Cavalier Carlino. Ma Gabriella di Mesme fu congedata ben tosto per Giovanna Maria di Trecesson, Marchesa di Cavour. Il Duca ebbe da lei un figlio: don Giuseppe di Trecesson che fu Abate di Sixt in Savoia e poi di Lucedio in Piemonte, e due figlie: Cristina e Luisa Adelaide. La ragion di Stato, anzi l'amorosa ragion di Stato come canta un altro accademico cortigiano, costrinse Carlo Emanuele II a passare a seconde nozze con Giovanna Maria di Savoia Nemours. Il Duca con questo maritaggio, faceva rientrare nel dominio della sua corona le provincie del Genovese e del Faussigny. Le nozze furono splendide e la sposa, giovinetta, entrò in Torino inghirlandata di tutti i fiori e di tutte le speranze, accolta non come una straniera che giunge, ma come una sorella che ritorna. "Vorressimo scrivere - dice il Castiglione - con penna tolta dalle ali di Cupido le dimostrazioni di pubblica allegrezza per questo inclito maritaggio. "La humana imaginatione non arriva a concepire il giubilo vicendevole dei suoi amatissimi sposi. "Pervenuta la sposa in Torino, Madama Reale voleva andarle incontro in carrozza, ma, non godendo di ferma salute, fu necessitata di aspettarla al castello. "Ascesa, la Regale Sposa, le scale del Palagio fra suoni di trombe, rimbombo di tamburi, spari di moschetterie e di mortaretti, fu incontrata alla porta del salone da Madama Reale, sua suocera, accompagnata dalle principesse e grandissimo stuolo di Dame. Qui accolta, abbracciata e per tre volte baciata con lacrime, indubitati segni di grande affetto, fu da essa complimentata con quei termini che le somministrò la sua naturale gentilezza e facondia incomparabile, veramente regia. "Corrispose in modi ossequiosissimi, molto espressivi dell'amor riverente dovuti a sì gran Madre, la sposa reale. "Volle Madama Reale in ogni modo condurla alle sue camere tutto che resistesse quella quanto potè. "Le loro Altezze passarono interi giorni tra le ricreationi di musiche diverse, fra banchetti solenni, pubblici e alcuna volta privati, ma non men deliciosi, e luminarie e fuochi artifitiali e altri passatempi". Oimè, la luna di miele, col suo alone roseo d'illusioni, doveva durare ben poco e la bella sposa - pur con tutta la ingenuità dei suoi diciotto anni - non doveva tardar molto ad accorgersi che nello stesso Palazzo, accanto a lei, seduta alla stessa mensa, al corso, a teatro, viveva un'altra sposa del Duca, più antica di lei, terribile di tutta la sua bellezza matura ed esperta, forte da anni e anni d'un'influenza incondizionata, armata d'un'alterigia temeraria, armata, cosa più atroce di tutte, di una figliolanza clandestina, ma riconosciuta dal Duca, amata, collocata in vari collegi di Francia e di Lombardia: la Marchesa di Cavour. E certo, la Duchessa baciava tremando il capo d'oro dell'unico figliolo, tremando per sè e tremando per lui. Quale spaventosa tragedia, silenziosa come la fiumana che serpeggia sotterra, doveva tumultuare nel piccolo cuore non ancora ventenne! - La Duchessa? non s'accorge di nulla, non vede nulla, non sente! Vedeva, sentiva, aspettava che il calice fosse colmo ... E il calice fu colmo. La noia dei salotti secenteschi torinesi fu un bel mattino rallegrata da una novella incredibile. La Duchessa è fuggita di Palazzo. Dov'è? Fuggita? Ma no! È a diporto a Moncalieri. A Druent. Ritornerà domani. Non ritornerà mai più. Non ritornerà mai più! S'è accorta di tutto! Ha sorpreso il Duca con la Marchesa. Finalmente! Il Duca aveva lasciata la Corte l'altro giorno per la Venaria dicendo d'aver ritrovo di caccia col cugino, l'abate Visconti, che veniva da Milano. La duchessa era rimasta a Torino accusando vapori al cervello, mettendosi a letto, facendosi anzi praticare due salassi consecutivi dal dottor Vinadi, che le prescrisse riposo per quindici giorni. Invece, nella notte successiva la Duchessa fu vista arrivare alla Venaria alle tre del mattino, in una berlina da viaggio, seguita da due governanti e da quattro staffieri. Balza al portone. Le guardie le proiettano in volto la lanterna rossigna, allibiscono, vietano il passo supplicando, implorano quasi piangendo la Duchessa di non salire; ne va della loro vita! La Duchessa legge la verità negli occhi dei soldati tremanti, spezza la catena delle braccia robuste, balza su per le scalee, irrompe nelle sale. E poi? Poi nessuno ha visto. Qualcuno ha sentito. Dalla grande camera d'angolo detta l'Alcova delle tre Grazie - pure attraverso le finestre chiuse - giungevano le strida della Marchesa di Cavour, la voce convulsa del Duca, la voce irriconoscibile della giovane Duchessa. Poi più nulla. Fu vista uscire la Duchessa livida, disfatta, fu vista raggiungere barcollando la berlina e la berlina partire di gran carriera, seguìta dai quattro staffieri a cavallo. La Duchessa è ritornata in Francia. Torino è annichilita. Passano due, tre, quattro giorni. La notizia è ormai diffusa nella nobiltà, nella borghesia, nel contado; la Duchessa è in Francia? No! Non è vero, impone di credere un ordine di Corte, affisso sulla piazza del Castello. La Duchessa è sofferente e tiene il letto da quindici giorni; si celebrerà anzi un Te Deum per implorare dal cielo la sua certa guarigione. Ma nessuno crede a quella commedia, la verità è risaputa; la Duchessa tradita è ritornata presso la sua famiglia d'oltr'Alpe come una bourgeoise qualunque che ritorna dai suoi. Ma al quinto giorno un'altra notizia sbigottisce Torino: La Duchessa rientrerà fra poche ore in città! Non è stata ammalata, è stata a diporto fino a Chambéry, impone di credere un nuovo avviso di Corte. Il popolo esulta, ma anche in questo è risaputa ben presto tutta la verità. Uno squadrone, dopo la fuga notturna della Duchessa, s'è precipitato, per ordine del Duca, sulle tracce della fuggitiva, ha costretto con le armi spianate la berlina reale a far ritorno a Torino. E la Duchessa ritorna pallida, disfatta, rientra in Torino sorridendo debolmente alla folla plaudente. - Se non fosse di suo figlio - commenta qualche madre fra la folla, - scommetto che si sarebbe piuttosto lasciata ammazzare che far ritorno ... Povera donna! Verità storiche, registrate dagli archivi polverosi, ma noi non cercheremo la conferma nel tedio delle antiche carte. Tutto l'episodio commovente è chiuso in una canzone popolare fiorita in quei giorni, canzone che non si canta più, ma che è certo tra le più belle, e più significative del folklore subalpino, riportata e tradotta dal Nigra nella sua raccolta di canzoni piemontesi. La Marchesa di Cavour Sua Altessa l'è muntà an carossa, An carossa l'è bin muntè, Che a la Venaria a völ andè. Quand a l'è staita a la Venaria, L'à butà le guardie tut anturn Per la Marcheza di Cavour. Bela madamin munta an carossa, An carossa l'è bin muntè, A la Venaria la vol dco andè, Quand a l'è staita a la Venaria, Llà trova le guardie tut anturn Per la Marcheza di Cavour. Bela Madamin sforza le guardie. E le guardie l'à bin sforzè; Per cule stanse la vol andè, Quand l'è staita ant cule stanse, La Marcheza l'à trova cugià E Sua Altessa da l'auter là. - Me ve ringrassio, sura Marcheza. Sura Marcheza, v' ringrassio tan, Che vi sia fait un sì bel aman. Sura Marcheza a j'a ben dì - je: - So - se l'ì pa del me piazì; L'è Sua Altessa ch'a vol cozì. Sua altessa a j'a ben di - je; - Bela madamin, stè chieta vui, La Marcheza l'è più bela ch'vui. Bela Madamin munta an carossa, An carossa l'è bin muntè. Che an Fransa la vol turnè. Quand lè staita a metà strada, Bela Madamin s'svolta andarè, A l'à vist avnì dui vàlè-d-piè- O ferma, ferma, ti dla carossa, Ferma, ferma, che t'farò fermè, E d'entre na tur t' farò butè. Bela Madamin cha j'à ben di - jè: - S'a fussa nen del me fiolin, Già mai, già mai turneria a Turin. Quand l'è staita pr' antrè ant le porte tuti fazio solenità; Bela Madamin a l'è turnà. L'à mandà ciamè sura Marcheza: - Mi vi dag temp sulament tre dì, An sui me Stat fermè-ve pa pi. Traduzione Sua Altezza è montata in carrozza, in carrozza è ben montata, che alla Venaria vuol andare. Quando fu alla Venaria, mise guardia tutt'attorno per la Marchesa di Cavour. La bella Madamina monta in carrozza, in carrozza è ben montata alla Venaria vuol pur andare. Quando fu alla Venaria, trovò le guardie tutt'attorno per la Marchesa di Cavour. La bella Madamina forzò le guardie, le guardie ben forzò; per quelle stanze la vuol andare. Quando fu in quelle stanze, trovò la Marchesa coricata, e Sua Altezza dall'altro lato. - Vi ringrazio, signora Marchesa, signora Marchesa, vi ringrazio tanto, che vi abbiate fatto un sì bell'amante. - La signora Marchesa ben le disse: - Questo non è di mio piacere; gli è Sua Altezza che vuol così. - Sua Altezza ben le disse: - Bella Madamina, state zitta voi. La Marchesa è più bella di voi. - La bella Madamina monta in carrozza, in carrozza ben montò, che in Francia la vuol tornare. Quando fu a metà strada, la bella Madamina si volta indietro, vide venire due staffieri. - O ferma, ferma, tu cocchiere; ferma, ferma, che ti farò fermare e dentro una torre ti farò cacciare. - La bella Madamina ben gli disse: - Se non fosse del mio figliolino, mai più, mai più non tornerei a Torino. - Quando fu per entrare nelle porte, tutti facevano solennità. La bella Madamina è tornata. Mandò a chiamare la signora Marchesa: Io vi dò soltanto tre giorni di tempo, sul mio Stato non fermatevi più. - S'a fussa nen del me fiolin, Già mai, già mai turneria a Turin. El fiolin doveva essere col tempo quel Vittorio Amedeo II, iniziatore d'un'êra veramente nuova e gloriosa nella storia d'Italia. E il sacrificio della Duchessa umiliata, ricondotta alla casa del tradimento come una prigioniera, non doveva essere un vano olocausto del suo cuore di sposa infelice al suo dovere di madre regale. - S'a fussa nen del me fiolin, Già mai, già mai turneria a Turin.

Così l'ufficioso, e molto timorato storico Jean Frézet, abate di Corte e pedagogo. Certo è che, rimasta vedova giovanissima, lanciata dal destino tra le vicende più tragiche che possano turbare un reame, Madama s'innalza nella nostra fantasia come un'immagine di forza e avvedutezza che pochi regnanti possono vantare. Ella sa equilibrarsi, tra cupidigie opposte, tra nemici formidabili. La Francia da una parte, che è pure la sua patria perduta, la quale l'incalza contro la libertà del Piemonte con la politica subdola, terribile, inesorabile di Richelieu e del fratello Luigi XIII. Dall'altra la fortuna e la libertà del Piemonte che è anche la fortuna e la libertà del figlio superstite, un gracile bimbo di sei anni che ella adora e che sarà col tempo il grande Vittorio Amedeo; dall'altra i cognati: il Principe Tommaso e il Cardinale Maurizio implacabili contro la Reggente. Da questo nodo di cupidigie opposte scoppia la guerra civile del 1640. C'è, di quei giorni, una lettera di Madama, che non si può leggere senza un fremito di commozione e di ammirazione, e che rivela la tempra veramente superiore di quella donna che ha paura d'esser donna Ella deve lasciare per qualche giorno la Cittadella, deve abboccarsi segretamente col fratello Luigi XIII e Richelieu, a Grenoble, per moderarne i disegni crudeli e conciliare il destino di tutti quelli che ama. Essa lascia il figlio piccolino al Marchese di San Germano, lo affida con queste parole che è bene meditare: "Je vous confie le dépôt le plus cher. Ne laissez point sortir monn fils de la Citadelle: n'y recevez pas d'étrangers. Ne remettez cette place forte à personne. Si vous receviez des ordres contraires, fussent-ils revêtus de ma signature, regardez-les comme non avenus. On me les aurait extorqués. Je suis femme . .E altrove, accasciata per un attimo dal destino che minaccia la catastrofe ultima, oppressa dalla malvagità dei più famigliari, scrive al fratello: L'heureux a peu d'amis: le malheureux n'en a point! Je suis femme Com'era? Bella? Nessuna stampa dell'epoca la ritrae come doveva essere: è forse bene che il nostro sogno faccia di tutte le sue effigi una sola, per vederla com'era, o basta sillabare il suo nome, pensarla intensamente ad occhi socchiusi perchè la sua figura si profili contro la parete sanguigna, sotto le vôlte a crociera. Ha una veste nera - non ha deposto le gramaglie più mai, dal giorno che è rientrata in Torino vittoriosa centro i suoi sudditi - la quale l'avvolge graziosamente, con un guardinfante appena accennato: una veste che potrebbe ricordare la foggia odierna se non terminasse alle maniche, alla gorgiera con sbuffi di velo bianco e ondulato. Madama non ha più gioielli. Dato fondo al Tesoro per sostenere le spese della guerra, essa ha venduto i famosi brillanti, dono e retaggio di principi sabaudi, ha venduto "le smaniglie e le boccole pesanti", ha venduto la collana di Ahira, la meravigliosa collana bizantina d'oro massiccio e di smeraldi che gli Avi Cristianissimi avevano portato da Gerusalemme al tempo delle Crociate: " J'aime mieux, mon frère, me passer de joyaux que de lasser mes troupes sans paie ... ". Il volto è circondato da un'acconciatura di tulle nero, alla Holbein, che gli darebbe non so che espressione monacale se sotto non balenassero gli occhi chiari di amazzone, il profilo diritto, la bocca volontaria, la mascella forte: un volto che sembra la maschera dei guerrieri greci, come si sognavano nelle fantasie mitologiche di allora, non il volto d'una Regina, d'una donna segnata dal destino al dolore ed all'amore. L'amore? "Elle eut des envieux, des ennemis qui s'efforcèrent de répandre des nuages sur ses belles qualités: la calomnie n'épargna pas la grande Princesse". L'amore? La immagino dolorante, tragica, combattiva: non la so pensare amante. Se qualche verità c'è in fondo alla calunnia e alla leggenda, se in un'ora di sconforto supremo ella ha piegato la bella fronte virile sulla spalla di qualche amico, certo deve essersi sollevata subito, conscia del suo destino, deve aver ripetuto fieramente al favorito d'un'ora le parole che scriveva al Marchese di San Germano: "Regardez-les (trattati politici o baci che fossero) - regardez-lecorame non avenus, on me les aurait extorqués. - Je suis femme".

Interrogo un soldato: non mi risponde; un contadino: nemmeno si volge; un abate: non mi guarda, non batte ciglio. E allora m'accorgo d'una cosa inaudita e terribile: sono ombre (o l'ombra sono io?) divise da me dal mistero del non essere più, del non essere ancora. Vedo e non son veduto, sento e non sono sentito ... Intorno si parla francese o un piemontese arcaico molto serrato nella erre infranciosata o l'italiano pesante dei libri stampati; così dinnanzi a me un tal conte Dellala di Beinasco e un tal cavaliere Mattè macchinista deplorano " ... la fatal pioggia importuna che ieri sera nocque al fontionamento della macchina dei fuochi artefitiali di gioia, a cascatelle e figure molto vaghe e dilettevoli, onde l'ornatissima madama giovinetta volle trarre nefasto presagio ... ". E poco oltre all'angolo di Via San Francesco da Paola uno scrivano pubblico legge ad alta voce un affisso del muro ad un gruppo di analfabeti riverenti: " ... Prima della partenza il Nuziale Corteggio attraverserà la città di Torino uscendo di Palazzo a Piazza San Giovanni per Via Dora Grossa, Piazza Castello, Via Nuova, Porta Nuova, Porta di Po, volendo il Re e la Regina assecondare così la pubblica brama di vedere ancora una volta in essa l'Amata Augusta Figliuola ... " "29 Settembre dell'anno 1781". Leggo anch'io la lista delle "sontuose Nutiali allegrezze per l'eccelso maritaggio, ecc., di Madama Carolina con il Duca di Sassonia rappresentato per procura dal fratello della sposa. Ieri al Castello di Moncalieri ebbero luogo le nozze. Oggi la nuova Duchessa di Sassonia partirà per Dresda e farà per Torino un ultimo giro d'addio". ... Da già ch'a l'è cusì, da già ch'a l'è destin faruma la girada anturn a tüt Türin ... La bela Carulina ... la bela madamin ... Si parlava intorno, a mezza voce, di non so che scandalo provocato ieri dalla sposa sedicenne nell'ora solenne del sì. - Oh, marchese, ieri si sperava di vederla a Moncalieri. - Non ho ricevuta la carta d'accoglienza. - Ma non è possibile! - Proprio così, Monsignore. Ho già fatte le mie rimostranze al Gran Cerimoniere ... Erano in molti? - Non molti. Forse cento invitati. Il Re, la Regina, la Principessa Carlotta di Carignano, il Cardinale Marcolini, il Principe di Salm Salm, i Vescovi, i Cavalieri dell'Ordine, il Principe di Masserano, i Ministri di Stato, il Capitano delle Guardie del Corpo, il Governatore del Principe, il Mastro di Cerimonia, gl'Introduttori, i Sotto Introduttori degli Ambasciatori. - E gli sposi? - Non erano allegri. Già, l'idea del distacco per sempre. E poi una bimba di non ancora sedici anni sposata da un fratello per un Principe che non ha veduto mai ... - Ha smaniato? - No, no. Ha significato come dire la sua rassegnazione. Nel momento del sì ha capito che si decretava l'esilio, l'esilio per sempre in quella Sassonia che deve apparirle come l'estrema Tule. - Ma non ha smaniato? - Affatto; fu un attimo. Il Grande Elemosiniere del Re uscì pontificalmente dalla sacrestia e dopo essersi inginocchiato all'altare ed inchinato al Re e alla Regina, fece agli sposi la consueta interrogazione. Il Principe di Piemonte rispose immantinente; ma la Principessa fu vista impallidire, alzarsi, vacillare, volgersi smarrita verso i genitori inginocchiati alle sue spalle; lo sguardo di Sua Maestà la dominò, la piegò, la fece inginocchiare, prorompere non in uno ma in tre sì consecutivi che fecero ridere tutta la Corte ... Sia detto tra noi, Monsignore, io non vorrei essere oggi nei panni del Conte Lamarmora. - Perchè? - Perchè s'è presa tutta la responsabilità di fronte al Re di questa gita d'addio per compiacere la Regina e la Principessa. Lei sa che ancora sabato scorso era stabilito che subito dopo le nozze il corteo, accompagnato dall'ambasciatore della Corte Elettorale di Dresda, proseguisse, direttamente da Moncalieri senza soffermarsi a Torino e raggiungesse Augusta dove i Commissari del Re di Savoia avrebbero consegnata la sposa ai Commissari del Duca di Sassonia. Sarebbe stato il partito migliore. Ma la Principessa, povera bimba, cerca ogni pretesto per prolungare di un'ora la sua partenza. Ha supplicato, ha smaniato per passare a Torino un giorno ancora e la Regina ha avuto l'idea di una passeggiata d'addio per la città con relativa esposizione della Santissima Sindone alla Galleria di Piazza Castello. Il Re ha resistito, poi ha concesso, previa responsabilità del Conte Lamarmora intercessore, per evitare ogni guaio. Lei sa quanto Sua Maestà sia alieno da scandali. Non vorrei essere cattivo profeta, ma non mi stupirei che la Principessa Carolina desse in convulsioni nel bel mezzo di Piazza Castello o di Via Dora Grossa. Ieri al ballo di gala aveva gli occhi di un'allucinata ... - Povra masnà! Siamo in Piazza del Castello, la Piazza Castello settecentesca quasi simile a quella d'oggi e pure tanto diversa. La illumina un sole non vero: il sole che illumina le vecchie stampe e le cose che si raccontano ... Due gallerie di stile barocco si prolungano ai lati di Palazzo Madama dividendo la Piazza per metà; e l'assenza di lastrico e di rotaie, di globi elettrici e d'intrico metallico, d'insegne e di grida murali, le dànno un aspetto spoglio di cosa morta ... Come noi moderni si vive di questo! Una folla immensa si riversa dai Portici della Fiera, strana folla disposta, accoppiata dalle incisioni in rame e dalle stoviglie di Savona (non l'arte imita la vita, ma la vita l'arte; le cose non esistono se prima non le rivelano gli artisti) e v'è la berlina dai quattro cavalli recalcitranti raffrenati dal postiglione; v'è la portantina ducale, il servo che conduce il cane al guinzaglio, i due abati che s'incontrano e si stringono la mano, la madre che ammonisce il bambino, i comici nella loro baracca, il cerretano che vende l' elisir di lunga vita, la sibilla che predice le sorti. E la folla è disposta secondo il gusto convenuto che importarono in Piemonte i pittori fiamminghi e sulla folla ondeggia con un ritmo vago, insistente, la canzone del giorno. Ma oltre Palazzo Madama, che preclude la vista dell'altra metà della Piazza, s'alza un mormorìo diverso, una melodia liturgica e solenne e l'aria si vela di nubi candide e odora acutamente d'incenso. M'apro il passo per un varco dei Portici e resto immobile, rapito dal quadro più solenne che la fede intatta abbia offerto mai ad occhi mortali. Tutta la Piazza fluttua d'una moltitudine indescrivibile ed è convertita in un tempio che ha per cupola il cielo. In fondo s'eleva la loggia che divide Piazza Castello dalla Piazza del Palazzo Reale ed ogni arcata è occupata da un vescovo officiante. Dall'arcata centrale, protetta da un baldacchino vermiglio pende ben tesa la Santissima Sindone, la reliquia esposta alla folla per poche ore, il tesoro unico sulla terra, quel sudario nel quale Giuseppe D'Arimatea avvolgeva il corpo del Redentore deposto dalla Croce. E mille labbra cantano il Te Deum e mille occhi fissano la duplice immagine del Corpo Divino. Dal mattino si officia di continuo all'aria aperta nella luce del sole; tutto il popolo prega ad alta voce per la giovinetta sabauda che partirà tra poche ore per la terra lontana. Tra i colonnati barocchi dell'alta loggia scintillano le mitre vescovili, spiccano i damaschi e le sete, le porpore, gli zibellini: è adunato tutto l'alto Clero della Metropolitana, i Cavalieri dei SS. Maurizio e Lazzaro, i cavalieri della SS. Annunziata, i Canonici, i Diaconi, i Mazzieri, i Caudatari, i Sindaci, i Decurioni ... Ma la bela madamin della canzone? Il baldacchino reale è deserto. La Corte s'è ritirata da poco per le ultime cerimonie di Palazzo e le udienze di congedo. La bela madamin! ... Voglio vederla ... Entro nella Reggia. Oimè, non è facile nemmeno per un puro spirito invisibile e imponderabile, non è facile trovare una principessa nella sua vasta dimora. Seguo il grande atrio a sinistra, salgo, scendo, mi smarrisco, riesco nella Cappella del SS. Sudario, salgo lungo la grande scala di marmo nero alla sala degli Svizzeri, attraverso la sala degli Staffieri, la sala dei Paggi, la sala del Trono, la sala delle Udienze, la sala del Gran Consiglio. Dame e cavalieri - i più bei nomi della nobiltà Subalpina - quelli che oggi sopravvivono soltanto nelle tele delle pareti, vengono, vanno, ridono, parlano, con le loro labbra di carne ... Ma la bela madamin ... dov'è? dov'è il delicato fantasma delle mie allucinazioni? Attraverso la lunga Galleria del Danieli passo sotto i cieli favolosi del pittore secentesco; fra lo scintillìo cristallino degli immensi lampadari avanzo, apro una porta socchiusa. Odo una voce. La bela madamin No. Non è lei. Allibisco. In mezzo alla sala appoggiato al tavolo di lavoro con le braccia conserte, sta S. M. il Re Vittorio Amedeo III, già vestito di gala, terribilmente rassomigliante al ritratto del Dogliotti, alle incisioni del Rinaudi, il profilo diritto non raddolcito dalla parrucca bianca, il collare dell'Annunziata, i nastri, le croci, le medaglie disposte in bell'ordine sulla corazza troppo corruscante di pacifico guerriero settecentesco, la porpora crociata di bianco del mantello cesareo avvolta con una linea romana illanguidita un poco dalle grazie di Watteau. Sua Maestà rilegge una lettera; la carta pergamenata gli garrisce tra i pollici nervosi scossi dal tremito. E non ascolta il Conte Lamarmora che gli legge le modalità del viaggio ben previste in protocollo ufficiale da deporsi nell'Archivio di Stato secondo che l'uso di Corte comanda; "da Vercelli a Milano, da Milano a Roveredo a Innsbruck, dove conteremo di giungere il sabato prossimo. Saranno nel corteggio della Duchessa Carolina il Marchese di Bianzè, suo primo Scudiere e Cavaliere d'onore, l'Uditore Borsetti, Segretario di Stato, la Marchesa di Cinzano, Dama d'onore, la Contessa di Salmour e la Marchesa di Verolengo, Dame di Palazzo" ... - E souma inteis, e souma inteis - interrompe il Sovrano con un gesto che ammutolisce e licenzia il Conte Lamarmora. - Ca fassa chiel; ma dsôura a tüt gnüne masnôiade, gnün tapage an facia a la pôpôlassiôn ... Oh il mio dolce dialetto così vivo fra tante cose morte, adorato più di qualunque parlare, più dell'italiano (adoratissimo!), l'italiano, estraneo alla mia intima sostanza di Subalpino, appreso tardi con grande amore e con grande fatica come una lingua non mia, il mio dolce parlare torinese, l'unico nel quale penso e l'unico che mi giunga al cuore suscitandovi schietto il riso ed il pianto, il mio dolce torinese sulle labbra d'un re di Savoia, quando il Piemonte era ancora una leggiadra provincia della Francia e l'Italia non era: quale, quale commozione che non so dire! - E souma inteis - conclude Sua Maestà senza alzare gli occhi dalla lettera. E la lettera è del genero lontano, Antonio Clemente Duca di Sassonia, è dello sconosciuto signore che attende in terra barbarica la giovinetta soave. Dice: " ... il en coûtera sans doute à la sensibilité de Madame la Princesse de s'éloigner de ses illustres parents et d'une famille qui doit lui être chère, mais je mettrai tant d'attention à faire diversion à ses soucis et à m'attirer sa confiance et sen estime que je me flatte de lui adoucir l'amertume de cette séparation ... ". *** Ma la bela madamin Passo nel Gabinetto Cinese, attraverso le sale di raso cilestre, cremisi, salice, fragola, canarino, dell'appartamento della Regina, sosto nel corridoio persiano ad ascoltare i commenti di due Dame: "Un amore! un amore!". Si parla di lei; è dunque vicina. Eccomi nel Gabinetto delle Miniature nella Galleria Pompeiana; un profumo acutissimo m'annuncia il penetrale del fiore riposto. E sulla soglia sosto abbagliato dinnanzi alla più delicata interpretazione vivente che mai sia stata fatta de la toilette de la Mariée Maria Carolina Antonietta di Savoia Duchessa di Sassonia è in piedi tra le sue cameriere chine o ginocchioni intente all'opera delicata. La cognata, che presiede da parigina esperta, le ha tolto lo specchio di mano: - Ti vedrai dopo, mignonne, quand le rêve sera achevé Maria Carolina è una visione abbagliante di neve e d'argento. Bianco il ciuffo di penne che le adorna l'alta acconciatura incipriata, bianco il viso passato alla cerussa bianca, la veste di raso splendente dal guardinfante mostruoso, bianche le scarpette, le ghirlande, il cagnolino, il ventaglio. In tanto candore spicca il rosso delle labbra e delle gote, il nero degli occhi e dei sopraccigli. La cognata stessa Adelaide di Francia, nipote di Luigi XV, ha dipinto il volto della bimba diciottenne secondo che l'ultimo dettame di Parigi consiglia: le ha cancellato col cosmetico i delicati sopraccigli biondi e due altri ne ha disegnato a mezzo della fronte, nerissimi, arcuati, imperiosi. Molto s'è discusso sull'acconciatura; il parrucchiere di Corte, De Regault, voleva riprodurre con gl'immensi capelli biondi il Palazzo Madama o la galera capitana degli Stati Sardi; ma la Regina, la Principessa, si sono opposte e l'artista ha costrutto con la chioma densa un edificio a tre piani coronato da un nido dove una colomba cova, teneramente assistita dal compagno. - Ravissante! Ravissante! - mormora la cognata che le sta alle spalle puntandole di sua mano un fiore o una piega del guardinfante. Ma ad un tratto vede le gracili spalle adolescenti scosse da un sussulto, si china, guarda: il volto dipinto con tanta cura è inondato di pianto. - Ah, mon Dieu, tu vas te ravager! ma per carità! Vieni, vieni a vederti e non piangerai più. Prende la sposa per mano, la conduce dinnanzi al grande specchio ovale della parete. Le lacrime s'arrestano d'improvviso. La bimba, che ieri ancora giocava alle dame in visita, sbigottisce d'essere oggi una dama davvero e non pensava di vedersi così bella. Sorride tra gli ultimi singhiozzi, sorride a se stessa, alla cognata, alle cameriere, cancella col batuffolo della polvere l'ultima traccia di lagrime. - Sua Maestà la Regina! - annunzia un servo. Camerieri, parrucchieri, servi balzano in piedi, rigidi, addossati alle pareti. La madre sosta sulla soglia, sorride, tende le braccia alla figlia, l'abbraccia, la bacia, ma con delicatezza trepidante, come si odora un fiore troppo fragile. - Un rêve, vraiment un rêve! *** ... Da già ch'a l'è cusì, da già ch'a l'è destin faruma la girada anturn a tüt Türin ... Oh, l'interminabile fila di berline, le berline di Casa Reale simili ad altissimi triangoli capovolti, sculpite, dorate, sovraccariche di tutta la mitologia e di tutto il simbolismo pazzesco del barocco; così goffe ed aggraziate, così snelle e tozze ad un tempo! Berline a quattro, a sei, a dieci cavalli gualdrappati, frangiati, impennacchiati, con non altro di libero che le zampe e la coda prolissa, cocchieri e staffieri a codino rigidi come automi tolti da un armadio centenario! ... Il corteo fantastico si svolge interminabile come in una fiaba dei Perrault, ma non reca il marchese di Carabattole, non il gatto dagli stivali, non Cenerentola fatta regina, ma tutte le belle dame della nobiltà subalpina, la Marchesa di San Damiano, la Marchesa d'Ormea, la Contessa Morozzo, la Contessa Della Rocca, la Marchesa di San Germano, la Marchesa di Cinzano, la Contessa di Salmour, la Marchesa di Verolengo ... E fra tutte, bellissima, come la Principessa della favola, come la Figlia del Re, leggendaria, è la sposa tutta bianca, tutta d'argento ... - La bela Carôlin! La folla che stipa Piazza Castello, i portici, i colonnati, che brulica sugli alberi, sulle ringhiere, sui tetti, acclama la sposa con un fremito che parte dal cuore. Il popolo ama quell'ultimogenita del Re, l'ama come una delicata bimbetta sua, la bela Carôlin è popolare ovunque, dai parchi della Venaria ai parchi del Valentino, dai bastioni della Cittadella ai bastioni della Dora, dove non sdegna di interrompere i suoi giochi per rivolgere la parola a un giardiniere che pota, a una lavandaia che piange. - Madama Carôlin! la bela Carôlin! Mai il popolo ha sentito così forte la sua tenerezza commossa come in quest'ora dell'ultimo addio. Il bel fiore sabaudo sta per essere còlto da altre mani per un giardino d'oltr'Alpe. ... Da già ch'a l'è cusì, da già ch'a l'è destin faruma la girada anturn a tüt Türin ... Il lungo corteo d'equipaggi passa da Via Dora Grossa a Porta Segusina, da Porta Segusina ai bastioni della Cittadella. Sono quivi schierate tutte le truppe: spiccano i Granatieri e i Guastatori dalla veste di scarlatto guarnita d'argento, con cappotto frangiato e banda intarsiata pure d'argento e d'azzurro, spicca la Compagnia Colonnella con le Corporazioni dei Mercanti e dei Droghieri a divise vivacissime. Lungo Via Santa Teresa e Piazza San Carlo, lungo Via Nuova, sono tutti gli altri Corpi della città: gli studenti della Regia Università col loro Sindaco, i Cavalieri dell'Ordine della SS. SS.Annunziata e dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. Tutti formano tra la folla varia un disegno ordinato a colori vivacissimi dove il corteo passa come tra una doppia siepe di divise smaglianti. La sposa diciassettenne non ha mai visto tanto fasto nella sua vita breve e raccolta e pensa che tutta quella gioia di colori e di suoni è per lei e s'alza e batte le mani come ad un bel gioco. Dai bastioni della Cittadella ai bastioni di Po rombano i cannoni di salve, strepitano i mortai e i mortaretti, accompagnando senza tregua con un rombo guerresco il clangore esultante di tutte le campane di tutte le chiese: la Metropolitana, Santa Teresa, la Consolata, i Santi Martiri Tebei, tutti i provincialeschi templi torinesi. Il corteo regale s'avanza. Dame, cavalieri gettano di continuo a piene mani le dragées nuziali, i grossi confetti settecenteschi detti giüraje E la folla s'accalca, fluttua, acclama. La sposa protende le mani e mille mani si protendono affettuose in una stretta d'ultimo addio. - La bela Carôlin! La piazza San Carlo è convertita in una sala immensa: "sta una tavola ivi disposta la quale fa vedere un corpo di bacili di confetti canditi e di molte sorta di paste zuccherate e frutti molto lontani dalla stagione. I bacili suddetti, guarniti a piramidi nella sommità dei quali vagamente pompeggiano stendardi con armi e cifre, il tutto regalato di fiori con una piramide sostenuta da quattro tori argentati carichi di confetture. Per finimento godono le Altezze Reali dell'apparato più con gli occhi che con la bocca e prendono gran piacere in vedere a dare il sacco di detta tavola e dare la scalata alla piramide fruttata e inzuccherata". La sposa giovinetta ride a quel gioco, ride fino alle lagrime della folla che corre, sale, rotola, schiamazza. La sposa ha tutto dimenticato e pensa che la vita prosegua così in un corteo dorato e infiorato tra una moltitudine gaia e plaudente. L'allegrezza dell'ora è per lei come quell'orlo di miele che si mette sul calice della medicina troppo amara. Fuori di Porta Nuova la folla si estende fino al Parco del Valentino. Dinnanzi al Castello, "passatempo delle Dame", il corteo si ferma ancora una volta per un altro rinfresco e per ricevere il complimento del poeta Pancrazio da Bra, arcade di bella fama nell'Accademia degli Incolti. S'avanza costui in sembianza del fiume Po, seminudo, con manto di drappo d'oro e capelli a guisa d'alga ed è seguito dalla Dora fanciulla vestita a guisa di ninfa con le chiome sparse e incominciano un dialogo in versi dove il Po dimostra alla Dora sconsolata per la dipartita della Principessa la necessità che lo splendore della Casa Sabauda s'estenda oltre ogni confine ... Di che bell'astro il nostro ciel si priva! La bela Carôlin s'annoia mortalmente alle interminabili ottave accademiche, sbadiglia, s'abbuia, guarda altrove, s'alza impaziente, invano trattenuta dalla madre e dalla cognata. E l'amarezza del distacco, la realtà dell'ora triste la riprendono ancora e le stringono il cuore distratto per poco ... Il suo volto si vela d'angoscia quando il corteo riesce alla Porta di Po. Là sotto le arcate imbandierate e infiorate attendono le quattro berline di viaggio sulle quali bisogna salire fra pochi secondi; non più graziose berline dorate, ma grandi carrozze fosche e disadorne. Il corteo s'arresta presso la Porta. Bisogna scendere con la Marchesa di Cinzano, con la Contessa di Salmour, con il Marchese di Bianzé, bisogna passare con i compagni di viaggio nei tristi veicoli non più di gala. Un tappeto infiorato segna il breve percorso ... Ma la bela Carôlin che tormenta da mezz'ora la mano della Regina, s'è ora afferrata al braccio di lei e quando il Conte Lamarmora apre lo sportello e l'invita a scendere, la piccola si getta al collo della madre, disperata, folle. Il fratello è costretto a sciogliere le braccia di lei a forza come si spezza una catena; a forza la fanno scendere, le fanno attraversare il breve spazio giuncato di fiori, reggendola alle spalle, costringendola al passo, portandola quasi di peso nella carrozza da viaggio. E là dentro la bimba si vede perduta. - Maman! maman! - grida protendendosi dagli sportelli mentre le quattro carrozze s'aprono il varco tra la folla. - Maman! maman! Oimè, la madre, gli amici restano indietro, ritornano nelle berline dorate verso la Reggia, ch'ella ha dovuto lasciare per sempre. Allora la piccola è presa dal panico folle come chi è trascinato alla morte. Ha di fronte la severa Marchesa di Salmour, l'arcigno Ambasciatore di Sassonia. Si vede sola, perduta, si protende forsennata verso la folla invocando soccorso. - Maman! maman! E nella folla l'hanno udita le madri: molte donne s'accalcano tra le ruote, impediscono quasi alle carrozze di procedere, stringono le piccole bianche mani convulse. - Povra masnà! - Che Dio at giüta! - Fate courâge! - Arvëdse ancoura! - Arvëdse prest! Ma i cocchieri sferzano i cavalli: il convoglio s'affretta, fende la folla, procede di corsa, è sul ponte, è oltre il fiume, dispare ... *** Il Duca di Sassonia fu ottimo sposo per la bela Carôlin Il 17 marzo scriveva alla Regina ringraziandola del dato consenso e della conseguita felicità. "Aussi tous mes désirs ne tendront-ils qu'à me rendre dighe des bontés d'une princesse qui réunit aux charmes de la plus aimable figure, toutes les vertus de ses augustes parents". Il 28 dicembre 1782 la bela Carôlin moriva in Dresda, poco più di un anno dopo le nozze e a diciannove anni non ancora compiuti. Tuchè-me'n po' la man, me cari sitadin, Për vive che mi viva vëdrö mai pi Türin!

LA DANZA DEGLI GNOMI E ALTRE FIABE

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Gozzano, Guido 1 occorrenze

Cassandrino andò a trovare un abate, amico suo, e gli disse: - Domani, verso mezzogiorno, trovati a palazzo reale per confessare la Principessa che versa in pericolo di vita. L'abate promise di trovarvisi. Il giorno dopo Cassandrino si presentò a palazzo: - Sacra Corona, oggi farò l'ultimo trattamento della Principessa, ma siccome potrebbe soccombere... - Gran Dio! Che dite mai? - urlarono i Sovrani. - Ho pensato bene di avvisare un abate, per gli ultimi conforti. Sarà qui verso mezzogiorno. Poi salì dalla Principessa: - Oggi vi sottoporrò all'ultimo trattamento, e poiché potrebbe essere fatale, hanno avvisato un abate per la tranquillità della vostra coscienza. La Principessa aveva gli occhi fissi dallo spavento. Sopraggiunse l'abate che fu lasciato solo con l'ammalata e Cassandrino attese in un gabinetto attiguo. Quando il confessore uscì dalla stanza, Cassandrino disse: - Amico mio, favoriscimi alcuni istanti la tua veste. - Sarebbe un insulto alla mia divisa. - Non temere cose sacrileghe. É per ottimo fine. - Cassandrino si vestì della veste sacerdotale e si presentò alla Principessa che gemeva nella sua alcova. - Figliuola mia, temo abbiate dimenticato qualche cosa nella confessione delle vostre colpe... Meditate, cercate ancora... Pensate che siete forse sul punto di presentarvi al giudice supremo. La Principessa allibiva, singhiozzando. - Vediamo - diceva Cassandrino, imitando la voce dell'amico - non ricordate d'aver sottratto... rubato qualche cosa? - Ah, Padre! - singhiozzò la Principessa. - Ho rubato una borsa miracolosa a un Principe forestiero. - Bisogna restituirla! Confidatela a me e gliela farò avere. La Principessa indicò col gesto stanco uno stipo d'argento: e Cassandrino prese la borsa. - E altro... altro ancora, non ricordate? - Ah Padre: ho rubato una tovaglia fatata allo stesso forestiero: prendetela. è là, in quell'arca d'avorio. - E altro, altro ancora? - Un mantello, Padre! Un mantello incantato, allo stesso forestiero. É là, in quell'armadio di cedro... E Cassandrino prese il mantello. - Sta bene - proseguì il falso prete - ora mordete questo pomo: vi gioverà. La Principessa addentò il frutto e subito le squamme verdi si diradarono lentamente e scomparvero del tutto. Allora Cassandrino si tolse la parrucca e la veste. - Principessa, mi riconoscete? - Pietà, pietà! perdonatemi d'ogni cosa! Sono già stata punita abbastanza! I Sovrani entrarono nella camera della figlia e il Re, vedendola risanata, abbracciò il medico. - Vi offro la mano della Principessa: vi spetta di diritto. - Grazie, Maestà! Sono già fidanzato con una fanciulla del mio paese. - Vi spetta allora metà del mio regno. - Grazie, Maestà! Non saprei che farmene! Sono pago di questa borsa vecchia, di questa tovaglia, di questo mantello logoro... Cassandrino, fattosi invisibile, prese il volo verso il paese natio, restituì ai fratelli i talismani recuperati e, sposata una compaesana, visse beato fra i campi, senza più tentare l'avventura.

Teresa

678651
Neera 2 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Pagina 240

Oro Incenso e Mirra

678755
Oriani, Alfredo 1 occorrenze

Non discuto che il dramma di Bovio, io sono un artista: tu, Tarlatti, che sei un filosofo scettico: tu, abate, che sei un mistico: tu, Osnaghi, che sei un poeta: tu, Tebaldi, che sei un socialista, discuterete l'idea. Che importa una idea nell'arte, se non vi crea una figura? L'arte è vita. Bovio aveva trovato l'opposizione drammatica, Cristo e Giuda, l'eroe e il traditore, questa necessità di tutte le tragedie, questo segreto di tutte le catastrofi, dalle quali si sprigiona una idea. Ma che cosa diventa Giuda nella scena di Bovio? Un patriota in ritardo, che congiura in piazza fra due legionari romani e una etèra greca, i quali parlano come lui, tutti in un modo, a concetti aforistici, con formule liriche; non personaggi bensì maschere, dalle quali soffiano il pensiero e le parole di Bovio, come purtroppo le prodiga da anni nei libri e nei discorsi; seicentismi di pensieri e di parole in un'asma di stile, entro i vuoti del quale molti operai ed alcuni studenti cercano indarno la profondità. Vi è del sonnambulo e del ventriloquo in quell'uomo. La scena - si rivolse all'abate - giacchè bisogna ripensarla tutta per discuterla, si svolse sulla piazza di Gerusalemme: dalla porta aperta della sinagoga si vede e si ode lo Sheliach leggere il parascà al paragrafo di Ester, mentre per la piazza passano fallofore di Lesbo, tribadi di Sparta, batilli, una etèra e Giuda con due congiurati. L'etèra l'apostrofa dalla lettiga con uno squarcio di filosofia della storia per spiegargli la impossibilità di una rivolta giudaica contro Roma, un centurione la soccorre d'argomenti rinfacciando agli ebrei di non avere nè un Gracco, nè un Catilina: poi l'etèra pesando con la rapidità femminile le sue filosofie, che secondo lei si dividono il mondo, quella di Epicuro e quella del Rabbi di Nazaret, conclude rivolta al centurione: "se tu a Roma non mi troverai fra le compagne di Tiberio cercami fra le seguaci del Messia". La prima cortigiana ha parlato, e da buona pronipote di Aspasia proibisce ai Farisei di uccidere Cristo, perchè dopo cinquanta e cinquanta olimpiadi il mondo non ha ancora perdonato agli Eliasti e ad Atene la morte di Socrate. Per una etèra, che arringa in piazza dalla lettiga, bisogna accontentarsene: evidentemente i discorsi di piazza non erano allora come adesso, se l'etère vi parlavano come i moderni professori di filosofia del diritto. La prima cortigiana ha declamato il proprio pezzo: aspettiamo la seconda, Maria di Magdala. Ma Giuda rimasto solo sulla piazza disegna a sè medesimo il proprio ritratto in un monologo ritmato come un recitativo, e che comincia con una invocazione all'etèra già lontana. Nella leggenda cristiana Giuda è il traditore, ma siccome il tradimento è fatto ad un Dio, Giuda vi diventa meno di uomo vendendo inesplicabilmente il maestro per trenta denari, duecento cinquanta franchi moderni, ed impiccandosi subito dopo per il rimorso. Il Cristianesimo nello sforzo di fare il Cristo un Dio ha violato intorno a lui tutti gli elementi umani: ma Giuda perchè tradì? Questa oscura domanda ha sempre pesato sul sentimento cristiano; il traditore nella prima parte della vita di Cristo rimane insignificante, quindi la sua negazione scoppia improvvisa ed assurda per dissiparsi subito dopo entro l'ombra. Nell'arte la figura di Giuda non fu mai disegnata, e Dante stesso, il poeta dei poeti, il più pensatore dei poeti come dice Bovio, vi ha fallito mettendolo in fondo all'inferno in una delle tre bocche di Satana fra Cassio e Bruto. Dante, che applica sul Satana biblico la triplice maschera del cerbero virgiliano, e nella gamma divina delle espiazioni pareggia deicidio e legicidio! Eppure è Dante, il poeta della Tolomea, nella quale i peccatori traspaiono come paglie nel ghiaccio e, mentre piangono per lo spasimo, le lagrime si gelano loro dentro gli occhi! Nullameno Dante ha fallito, Bovio altera le date della leggenda cristiana per condensarne il significato; la famosa frase - qualcuno tradisce - pronunciata all'ultima cena cogli apostoli, la suppone detta prima dell'aneddoto coll'adultera, pel quale ha concepito il proprio dramma. Giuda comincia col pensare il problema di Socrate: ebbe egli ragione di morire per le leggi della sua città anzichè per la propria dottrina? "Sarà più grande di lui questo idealista di Nazaret?" Perché Giuda applica a Cristo questa parola moderna e nel più moderno significato? Poi definisce gli apostoli: "Pietro che trema, Giovanni che delira, Giacomo che gonfia, Tomaso che dubita", ma Pietro nella tragedia cristiana tremerà e rinnegherà veramente il maestro solo nel cortile di Caifas, Giovanni delirerà vecchio nell'Apocalisse, Tomaso resterà celebre per il proprio dubbio contro Cristo risorto e riapparso alle donne e agli altri apostoli, Giacomo gonfia o gonfierà... che cosa? Io non lo so. Un sorriso apparve sulle labbra di tutti quei giovani. - Lascia, lascia, tutto questo sarebbe nulla: non è Giuda che parla, ma Bovio, il quale nel l894 crede di poter giudicare ognuno di quei quattro apostoli con una sola parola. E sempre l'uomo, che nella propria Filosofia del Diritto scriveva: "Spartaco ebbe un successore, Cristo", ed ecco pareggiata una guerra servile di Roma a tutto il cristianesimo. Ma Giuda sente una fatalità di tradimento intorno a Cristo: la battuta questa volta è buona, se non che Giuda dovrebbe sentirla in sè stesso per alzarsi a figura drammatica rivale di Cristo, e invece arzigogola sul tradimento, il quale è secondo lui nell'aria, nella folla, nei discepoli, nei fratelli stessi di Cristo se il genio può averne, per finire al solito in una lirica, dubbiosa bestemmia: "Se dietro al tuo patibolo il traditore sono io, la complicità si addensa dal genere umano a tuo Padre". - Ma lo sai dunque tutto a mente? - chiese Osnaghi. - Ecco tutto il Giuda di Bovio: che cosa è quest'uomo? Parrebbe un patriota giudeo, poi si perde nel vaniloquio, non ha una passione, una idea, un carattere, un temperamento. Parla come un retore, declama peggio d'un istrione essendo a sè stesso teatro ed attore, e, come questo non bastasse, ecco ancora Maria di Magdala a fargli l'ultima lezione di filosofia. L'etèra della prima scena avrebbe dovuto essere la donna pagana, abbastanza fine per cogliere i primi sottili aromi di un pensiero nuovo anche se religioso; questa della seconda sarebbe già la passione novella, l'amore umano purificato dal contatto divino e sublimatosi nel sacrificio di sè medesimo sino a diventare più limpido della innocenza. La figura di Maddadena così bella nella penombra della leggenda cristiana, schizzata con due o tre tocchi, sentite come parla: "Potrai trovare ancora un fatto, un pensiero, che superi - solo - la malizia del mondo? "E Giuda rimbecca: "Sarà un pensiero di genio". Maddalena: "Innanzi al quale il Nazareno è vile: chi sarà l'eroe? "Giuda guarda a terra, e io sono tentato di fare altrettanto, perché non credo di aver capito più di lui. Quindi disputano su Cristo; Maddalena, con un linguaggio imitato dalle eroine di Dumas figlio, accenna alla propria caduta e al perdono del Rabbi senza potersi decidere come Giuda a prendere Cristo nè per un uomo, nè per un Dio, quantunque sia venuto un giorno a sedersi sul verone della sua, casa, e lì, sognando senza forse, gli sia sfuggito dalle labbra pallide - non mandarmi questo calice, sudo Sangue, non abbandonarmi, perdona loro perchè non sanno quello che si facciano - tutti i gridi supremi, che segneranno il crescendo spasmodico del suo sacrificio. E quasi ciò non fosse abbastanza falso drammaticamente riferisce a Giuda il giudizio su lui di Cristo, così: "Giuda non è la fede di Filippo, di Bartolomeo e degli altri semplici, nè il pensiero del filosofo di Stagira: è la mezza mente che, posta fra due mondi, oscilla fra due fini e rasenta il tradimento". "Se egli si uccide, somiglia a quel tumido Uticense che stimò di non poter sopravvivere a repubblica morta da gran tempo: se mi uccide somiglia a quel Cassio iracondo che tentò rifare una repubblica disfatta sopra un uomo ucciso" Infine questa disputa di accento scolastico e di volgarità moderne finisce all'ultima moda socialistica: questo ti riguarda, Tebaldi. Giuda accusa d'insufficienza la teorica di Cristo e, profetizzando che i prelati ricchi dell'avvenire non lo riconoscerebbero se gli saltasse il ticchio di risuscitare dopo un millennio, urla contro la promessa di una seconda vita: "Ahi!... qua il solco, qua il seme, qua la spiga, qua il diritto! - Di là c'è frode". - Tutto questo è goffo, lo so: ma aggiungi ancora la bella parola: "Il venditore di Cristo non sono io: verrà!" - disse Osnaghi guardando Tebaldi, che non aveva ancora parlato. - La sola bella di tutta la scena, perchè le ultime parole di Maria di Magdala sono di una fraseologia ancora più torbida: "Se il tuo redentore è nel numero, la tua redenzione non è destinata. Va e cerca nel numero il tuo Messia che non sa liberare sè dalla turba. Addio". - Pazienza se fosse qui finita! - sogghignò Tarlatti - ma invece siamo ancora al prologo del dramma scritto solo per il motto finale nella scena dell'adultera: Chi è senza peccato scagli la prima pietra". Naturalmente tutti restano colle pietre in mano tranne il centurione, che getta il proprio bastone di vite per raggiungere Cristo dietro le quinte. - Oh! - interruppe Osnaghi - perchè non ripeti la formula frugoniana del centurione?" "Restitusci a Roma questo mio bastone di vite, e dille che una parola è nata più equa del diritto del pretore". Quale capitano di fanteria declamerebbe oggi così? - E siccome Giuda piange, Maddalena per consolarlo gli dice anch'essa il proprio giudizio: "Innanzi a te Egli è già un mito, e tu innanzi a Lui sei già la posterità incredula che simula adorazione" - La lezione è terminata! - conchiuse Osnaghi stringendosi nelle spalle. - Se l'arcivescovo di Napoli avesse saputo tacere, questo Cristo alla festa di Purim non lo si sarebbe rappresentato come non lo si era letto. - Oh - ribattè l'abate - tutto ciò che tocca Cristo diventa importante. La chiesa ha creduto di opporsi a questa opera di Bovio certo non per quello che vale, ma per quello che significa. - Forse hai ragione - disse Tarlatti. - Riassumiamo prima - si ostinò daccapo Mattioli. - Che cosa c'è in questo Cristo di Bovio? Cristo no, Giuda nemmeno, ma tre donne, una ètera di Grecia, la cortigiana di Magdala, l'adultera di Gerusalemme: una triade femminile, dentro la quale avrebbe dovuto mostrarci l'idea di Cristo. La prima non è già più una ètèra per il semplice fatto di sentire anche da lungi la sua presenza, la seconda diventa una pitonessa per avergli parlato, la terza si salva dalla lapidazione per aver ottenuto senza nemmeno chiederla una sua risposta. Null'altro. Cristo che chiama Aristotile il filosofo di Stagira è dà del tumido Uticènse a Catone, dell'iracondo a Cassio, della mezza mente a Giuda, mandandolo a pensare la verità messianica nel deserto perchè la larghezza dello spazio gli suggerisca quello che la lunghezza dei secoli dovrà rivelare: e che passa sulla terra unicamente per risolvervi un caso di adulterio come un pretore... tale Cristo è davvero la più sconoscente ingiuria proferita contro di lui in questo secolo, che dopo avergli conteso la divinità gli ha negato perfino l'esistenza. Mai più vacua corpulenza di pensiero si sgonfiò in più informi sembianze di arte, e più inetta soggettività di autore, si atteggiò drammaticamente per falsare figure ed ambiente, idea e linguaggio... - Perchè perdi in questo momento tu stesso la misura? - Perché il dramma c'era. - T'inganni. Nel medioevo la chiesa rappresentò la Passione nei Misteri, ma quando sorse il teatro nessuno dei grandi poeti pensò di trarre dalla Passione una tragedia, e bada che nè Lopez, nè Calderon sono grandi poeti. - Tu opponi un fatto ad un'idea: è troppo poco. - Forse!- intervenne Osnaghi - ma io ti opporrò idea a idea. Tu credi al dramma di Cristo, io no: tu vedi d' ambiente e la scena, Gerusalemme divisa fra partiti politici e sacerdotali, la doppia tirannia di Erode e del Sanhedrin, poi Roma più in alto. Cristo appare dal popolo, secondo te; i discepoli gli si stringono intorno, le donne s'innamorano della sua parola, i partiti si acquetano per ascoltarla. Scene di miracoli e scene domestiche abbondano gli apostoli formano una prima Tavola Rotonda, alla quale Cristo annunzia il tradimento, perché come tutti i veramente grandi egli ha presentito la catastrofe e indovinato il rivale. La bravura dei discepoli messa a dura prova nel processo soccombe, la prima fede del popolo si dissipa; Pilato, l'indulgente magistrato romano, spicca originalmente fra le sinistre figure dei pontefici, e l'ultimo atto si compie sul Golgota colle donne sotto alla croce. Ebbene, mio caro, il dramma non c'è. Se di Cristo fai un uomo, urti nel fantasma divino, che di lui è in tutte le coscienze, e in questo dissidio l'anima del pubblico si frange. Se tu lo mostri Dio, tutto il suo valore umano non è più che un simbolo vuoto. Il dramma non può oltrepassare i limiti della individualità, noi dobbiamo cozzare nel fato, in Dio, non esserlo. - Eschilo ha scritto il Prometeo. - Tragedia umana, mio caro, perchè Prometeo e Giove non superano le proporzioni di due eroi, e l'Olimpo non è più alto del Caucaso. Cristo nell'arte non può apparire che solo, figura umana, dalla quale traspare lo spirito divino, nè uomo, nè donna alla fisonomia, di una bellezza vera e non reale, come lo rappresentarono i grandi pittori antichi. Guarda i loro crocifissi: il corpo non spenzola come dovrebbe dalla croce, lo spasimo della sua faccia è ineffabile, ma non vi si sente alcuna fitta corporea, il suo dolore è divino e ha atteggiato di sè stesso la bellezza del volto. Oggi credono di fare del realismo dipingendo un uomo crocifisso: la verità è nell'altro, il Crocifisso. - La poesia è fede - esclamò l'abate: - tu sei vicino ad accoglierla. - No - interruppe Tarlatti, - la più grande poesia è nel dubbio: ecco perchè ho amato la figura di Cristo. Tu no, abate, non puoi rileggerle perchè hai la seconda vista dei mistici; ma voi altri pigliate ancora una volta le sue parabole, allineate le sue risposte. Vi è in tutte una mestizia irresistibile, una ironia sottile, che Renan solo ha saputo cogliere. Il dubbio trema nell'anima del Messia: attraverso i racconti ingenuamente impossibili degli evangelisti si comprende che il suo dubbio tocca gli altri, giacchè nemmeno i suoi miracoli più stupefacenti. come quello di Lazzaro, bastano a persuadere coloro stessi che vi assistono. All'altezza, cui è salito, la vista gli vacilla: il mondo troppo grande anche pel suo occhio di veggente sarà sempre più antico (e più vasto di qualunque opera, e la sua redenzione trionfandovi non avrà redento che pochi. Allora, il redentore preso nella vertigine della propria illusione prova nel freddo della caduta i primi brividi del nulla. Ecco il dramma di Cristo, l'impossibilità di credersi Dio e di farlo credere prima di morire. Infatti tutte le sue affermazioni sono ambigue, i discepoli, che lo seguono, non le comprendono più di colui che dovrà tradirlo: l'avvenire gli è chiuso come il passato, la morte stessa, dando agli altri la fede nella sua divinità, non gli basta più. Nessun processo somiglia a quello di Cristo, giacchè tutto vi si riassume in una parola: qui est veritas. Il silenzio di Cristo davanti a questa dimanda di Pilato è la sua sconfitta di Dio. Che importa il resto? La magnifica scena del Golgota colla ironia finale della fede, che morta nel redentore ricomincia nel ladrone crocifisso al suo fianco: l'ineffabile malinconia della sostituzione di Giovanni, il più poeta tra i discepoli, come figlio nel cuore di Maria: l'ultimo, delirante appello nel vuoto - Dio, dio, perchè mi hai abbandonato?- e subito dopo tutto il peso della morte nel terribile - consumatum est - questo finale sublime non vale il silenzio di Cristo davanti alla domanda di Pilato: quid est veritas? L'espiezione del redentore è tutta in quel silenzio. Gli altri guardarono all'abate come aspettando uno scatto, ma questo invece si volse a Tebaldi: - A te ora, poiché i poeti, i quali come Osnaghi fanno ancora dei versi, non sentono più Cristo che dipinto. Tu socialista, se davvero il socialismo sarà Un'epoca nello spirito umano, devi intendere quella, dalla quale esce. Ami tu Cristo?. - Io lo odio. - Tanto meglio! Il tuo odio potrebbe averlo compreso più dell'amore di Tarlatti. Cristo non ha egli detto: chi non odia l'anima sua in questa vita non la serberà immortale? Chi odia crede. Tebaldi il più grosso dei quattro si torse verso l'abate appoggiando il gomito sulla tavola e guardandolo fissamente; la sua faccia: quadra, bruna, dai sopraccigli quasi riuniti, esprimeva una fiera energia. - Non ho il vostro ingegno - cominciò - ma io credo; per voi altri la vita è uno spettacolo, del quale vorreste riprodurre i quadri nell'arte, e così pensereste di aver vissuto. Allora come ridete di Bovio? Perchè il suo quadro di Cristo è brutto? E bello a che cosa gioverebbe, se nemmeno la redenzione di Cristo ha giovato? Quando tu, Mattioli, parlavi di Giuda, io ti ascoltavo attentamente: il cristianesimo non ha potuto comprendere il suo tradimento, tu dicevi. Ebbene, io ti rispondo: perchè tradimento non vi fu. In che cosa si poteva tradire Cristo? Qual'era la sua idea? Io non la so. - Il mondo l'ha accettata. - proruppe l'abate.- Rimanendo tale quale, quindi non la sa come me. Egli si proclama figlio di Dio: è questa l'idea? Tutte le mitologie dei suoi tempi n'erano piene. La redenzione dal peccato originale mediante una incarnazione divina? Tutte le mitologie n'erano piene. Un'altra vita in un altro mondo migliore? Tutte le mitologie n'erano piene. L'uguaglianza del genere umano. - Sì. - Ma non osò proclamarla. - Nel cristianesimo schiavo e padrone sono eguali. - Come dunque sono ancora schiavo e padrone? Che egli abbia o no avuto una esistenza di uomo, mi pare la più inutile delle questioni dal momento che sarebbe stato un uomo non superiore al proprio tempo. - Perchè dunque hai detto di odiarlo? Gli altri assistevano quasi ansiosi allo strano duello, ma dinanzi al viso sempre così oscuro di Tebaldi, la fronte dell'abate si rischiarava; ambedue sentivano che i discorsi fatti sino allora non erano stati che divagazioni. - Per la religione del suo nome: essa è ancora il più grande ostacolo al progresso umano colla viltà dei dogmi e l'ipocrisia delle speranze. Il Dio di Cristo crea l'uomo, certamente per l'uomo e non per sè stesso, e nullameno per un primo peccato condanna tutta la sua discendenza: è una fola, lo so, ma questa fola rende ancora timida l'umanità. Cristo si proclama suo figlio, e viene a morire con noi per redimerci dalle conseguenze di questo peccato: dove? - In un altro mondo; e allora a che prò discendere in questo? E la speranza, di quell'altro mondo, che conserva tutte le ingiustizie nel nostro. Se la vita è un pellegrinaggio, perchè preoccuparci della strada? Basta la mèta, molto più che il viaggio è brevissimo. Il mondo invece deve inventare una stazione. - Nell'infinito. Arrestati, se puoi, tu che parli di stazioni: il tuo giorno è un baleno fra due ombre, la tua vita è una corsa fra due mète: hai Dio dietro e Dio davanti. Arrestati: in nessun momento della tua esistenza terrena sei pari a te stesso, solo nella tua anima immortale sta la tua identità. Atteggia, combina il mondo come ti piace, non sarà bello perchè potrà guastarsi, non sarà giusto perchè tu condanni il presente, e non puoi mutare il passato. Se tu vuoi la felicità degli uomini vivi, perchè non la pretendi anche pei morti? Il loro antico dolore non basterebbe dunque a turbare la tua gioia nel nuovo assetto sociale? Tu, che accusi d'ingiustizia l'elezione del popolo ebreo fra tutti i popoli, vorresti eleggere alla beatitudine una generazione e le generazioni di essa contro tutto il numero delle altre: pretendi la felicità, e fuggi dinanzi al problema del dolore! Perchè l'uomo soffre? Fino a quando non avrai risposto in te medesimo a questa domanda, il tuo appello alla gioia sarà per lo meno insensato; tu, l'uomo delle scienze positive, vuoi dunque risolvere l'equazione facendo a meno dei suoi dati?- La società sola riduce l'uomo infelice. - Ancora l'uomo contro l'uomo! Perché? questo se tu li credi eguali? E se invece sono dispari nella natura, solamente in Dio potranno pareggiarsi. L'umanità non è dunque più per te socialista un uomo solo, sempre uguale a sè medesimo, nella cui vita ogni generazione è un minuto, che si ricorda al di là del proprio passato, e presagisce quanto gli si prepara nell'avvenire? Il primo pensiero dell'uomo non è per sè medesimo, ma per il proprio creatore. Provati a non ascoltare la domanda, che ti sale ad ogni istante dalla coscienza: donde vengo io che vado? E subito dopo: dove vado io che passo? E poichè non sai rispondere, il problema diventa triplice: allora chi sono? Domandalo a Dio. - Troppi lo hanno già chiesto indarno. - E tutti chiederanno sempre. - Perchè il dubbio è la nostra unica verità - intervenne Tarlatti. - No, esso ne è solamente la fatica. Dio risponde perchè egli stesso, suscitando in noi queste domande, ha voluto che la nostra vita sia un dialogo ininterrotto con lui. Le vostre arti dilucidano i propri quadri sul panorama della sua creazione, le vostre scienze sillabano le prime parole sul libro delle sue leggi, la nostra storia effimera comincia e finisce nella sua storia eterna. Perchè Dio non sarebbe disceso fino a noi sotto la forma di Gesù? La leggenda mosaica, voi dite, è assurda quanto l'altra cristiana della redenzione: ma che ci resta di più ragionevole? Forse la ragione, che ignora tutti i perchè delle proprie domande e delle proprie risposte? Cancellate creatore e creazione, ma resterete sempre dinanzi al pensiero, che ha potuto tanto cancellare, e alla materia incancellabile anche per il pensiero. Siete dunque al medesimo punto, nella stessa antitesi del finito coll'infinito, dell'uomo con Dio: e poiché nulla può disgiungere materia e spirito, forma e sostanza, ordine e cose, Cristo torna mediatore fra le sue nature inseparabili. Cristo non si riesce a negarlo; tu, Mattioli, lo ammetti nell'arte, tu, Tarlatti, nel dubbio, tu, Tebaldi, nell'odio; mentre egli vi costringe tutti e per sempre nella propria orbita divina. L'umanità tenterebbe indarno di scordarlo, perchè in essa, ciò che fu, dura. Prima di strappare Cristo alla coscienza dell'umanità cercatevi intorno con che cosa riempirete in essa un vuoto di duemila anni. Chi di voi, può proclamare false le figure dello spirito accettando per vere quelle della natura? L'indimenticabile dell'uno non vale dunque l'immutabile dell'altra? Per coloro, che credono, il presente è l'eterno: per quelli, che dicono di non credere, il presente è l'effimero, ma la realtà è ugualmente per tutti nel presente: Cristo è presente nell'umanità. Tu, romanziere, hai confessato che nessun dramma è più intenso del suo: trova tu, poeta, una passione della sua più ineffabile: tu, filosofo scettico, cerca un dubbio più profondo della sua fede - se la nostra vita non viene da Dio, e non torna a Dio per mezzo di Dio, dove va la nostra vita? - Tu, socialista, accumula tutte le risorse della materia, condensa l'immensità del mondo nella brevità del tuo tempo, e costruisciti una vita di piaceri; il più piccolo dei dolori spirituali simboleggiati in Cristo ti renderà per sempre, ugualmente, inconsolabile. Tutti noi portiamo Cristo crocifisso nel cuore, e la nostra passione continua la sua, finchè sia consumata la prova e vinto il mistero. Oggi come sempre il mondo appartiene a coloro che credono. - Chi crede più? - chiesero tutti a una voce. - Coloro che interrogano senza pretendere la risposta, e coloro che rispondono senza essere interrogati: i grandi della scienza che consultano l'universo aspettando ingenuamente le sue rivelazioni, e i piccoli della storia che rispondono, inconsciamente ai suoi appelli. Sono gli eletti di Dio. - E la chiesa, della quale tu vesti l'abito? - intervenne con fine sorriso Tarlatti. - Signori, è ora di chiudere - disse l'oste appressandosi al loro tavolo dopo aver spento senza che se ne accorgessero, quasi tutti i becchi del gas; questo brusco avviso li richiamò come una strappata dalle aeree regioni, nelle quali avevano spaziato sino allora, alla volgarità dell'ambiente. Il fiasco era ancora intatto. - Oh! - proruppe Tarlatti - bisogna pagarlo ugualmente, poichè l'oste ha dovuto sopportare quanto abbiamo detto finora. Si erano rimessi i mantelli e si avviarono per uscire: piovigginava. Scambiarono qualche parola sulle lezioni dell'indomani all'università, erano tutti studenti, poi si strinsero con affetto la mano. - Dunque, caro abate - disse ancora Tarlatti - la conclusione è: Laus Christo, come l'intestatura dell'ultimo capitolo nell'ultimo volume di Renan sulle Origini del cristianesimo. - E a Bovio? - interruppe sardonicamente Mattioli prevenendo la risposta. - Il silenzio intorno alla sua opera, affinchè possa più presto sentire quella, che egli stesso chiama Voce grande di Cristo - rispose l'abate coll'imperturbabile fede dei mistici.

CAINO E ABELE

678770
Perodi, Emma 1 occorrenze

Non so quando nè come, ma rammento bene che Franco un giorno andò via di casa per non tornarvi più e che ogni tanto io andava a visitarlo al palazzo Astura e lo trovavo sempre in compagnia di un abate francese; che lo trattava con una deferenza da servo a padrone. Appena mio fratello non fu più insieme con noi, mio padre, forse per un accordo preso con mia madre, si diede a dirigere la mia educazione e mi fece studiare seriamente il greco e il latino e volle che ogni ora della mia giornata fosse dedicata allo studio. Mia madre mi abbandonava interamente e io non ero infelice per questo, anzi ero lieto sentendo che nuovi legami si stabilivano fra mio padre e me quanto più io rimaneva nella sua biblioteca e imparava da quell' uomo, che m'incuteva tanto rispetto, mille cose che un professore non avrebbe saputo insegnarmi. Egli era versatissimo non solo nel diritto, ma anche in letteratura, in istoria e in archeologia, e tutto ciò che sapeva voleva che io pure lo apprendessi, ripetendomi: " Queste cognizioni saranno un giorno la tua ricchezza " e sospirava forse pensando alla mia povertà relativa e al cospicuo patrimonio che avrebbe ereditato mio fratello, il quale montava a cavallo, guidava una pariglia di bellissimi sauri, aveva la sua servitù ed era educato con quel fasto proprio delle famiglie principesche romane, mentre io crescevo senza lusso, senza idee di grandezza, sgobbando sui libri e assuefacendomi a considerare il lavoro come una necessità della vita. Mia madre si ammalò gravemente mentre io avevo quindici anni, e dopo una lunga malattia, morì. Mi duole il confessarlo, ma io non provai un dolore profondo vedendola mancare, prima di tutto perché non ero assuefatto a lei, e la sua perdita non lasciava un vuoto nella mia vita, in secondo luogo perché ella mi feriva sempre vantando la disinvoltura, l'eleganza, l'intelligenza di Franco, per stabilire fra noi un paragone, nel quale io scapitavo molto; Franco era il suo figlio d'elezione. Ella mi tacciava di essere calcolatore, gretto d'animo, sornione e se osavo farle osservare che speravo crearmi una posizione col lavoro e occorreva che studiassi, ella faceva una risata assicurandomi che non sarei mai stato nulla, e che quelle fisime andavano lasciate ai plebei, ai borghesucci. " Del resto, - concludeva, - tuo fratello ti aiuterà; egli sarà tanto ricco! " Anche al suo letto di morte, negli ultimi momenti della vita, ella riuscì a ferirmi. Se mio fratello era assente, era rosa dall'impazienza che tornasse; appena entravo io in camera, con un cenno impaziente della mano, con una parola che tradiva la noia che io le procuravo, mi indicava l'uscio, e io chinavo il capo e obbedivo. E queste scene si ripeterono molte volte, perché l'agonia fu lunga e straziante. Durante quella agonia io avevo sperato che ella mi chiedesse un bacio; ma non lo fece. Ella spirò guardando Franco, accarezzandogli il volto, e io non ho mai potuto ripensare a quell' estremo disprezzo senza soffrire. Dopo la morte di mia madre, il babbo lasciò Roma e mio fratello rimase in casa del duca; noi ci stabilimmo a Castelvetrano. Mio padre continuò a farmi studiare i classici, a istruirmi nell' archeologia, ma volle pure che a queste cognizioni io unissi quelle dell'agricoltura e della chimica. Prese dunque presso di noi una specie d'intendente molto abile e nell'inverno mi faceva passare alcuni mesi a Palermo per seguire il corso di chimica. Mio fratello scriveva raramente e sempre più io mi avvicinava a mio padre e mi staccavo da Franco. Non avevamo nulla di comune e le nostre lettere erano fredde e insulse. Quando avevo appena ventidue anni, mio padre morì, ed io che sentivo in me tanto bisogno di attività, fondai lo stabilimento vinicolo di Selinunte, costruendo la villina che ella abita, per portarvi la giovane e bellissima Maria, che fu la mia compagna per un anno solo. Vi è un periodo nella vita in cui l'ammirazione per il bello, rappresentato dalla donna, vince ogni altro sentimento, ogni altra considerazione. Maria era una mezza popolana, incolta, senza educazione, ma era divinamente bella, bella come la piccola Maria, ed io la sposai, nonostante i sarcasmi di mio fratello, nonostante l'opposizione di mio zio, che giurò di non volermi più vedere. Queste ostilità servirono d'impulso alla mia voglia di lavorare. Volevo crearmi una posizione indipendente. I beni di mia madre, indivisi con mio fratello, non erano una base di ricchezza e bastavano appena a una modesta esistenza. Io volevo esser ricco, non per procurarmi le soddisfazioni che la ricchezza offre, ma soltanto per lasciare un patrimonio ai miei figli, per vedere la mia Maria nella cornice elegante che richiedeva la sua bellezza. Ella mi amava con una dolcezza da schiava, e la sua adorazione per me, la sua sottomissione, non mi facevano accorgere quanto le mancava per esser davvero la mia compagna. Ed io che ero soltanto innamorato della sua bellezza, non le chiedevo quelle soddisfazioni dello spirito che ella non poteva darmi. Quell'anno fu un sogno di felicità completa, troncato dalla morte, ma io mi domando se ora che gli anni mi hanno reso più esigente, io l'avrei amata egualmente, se sarei stato abbastanza generoso per non farle sentire la mia superiorità. Il dolore mi straziò, ma non mi vinse. Da quel giorno ho esteso il mio commercio, sono diventato possessore di molti terreni, ho lavorato con maggior lena pensando all'avvenire del fiore delicato, che avevo visto crescere sulla tomba della mia cara morta, alla quale rivolgo la mente come si ripensa a una bella e lieta primavera. Ella mi conosce bene, poiché è un anno che si è offerta per vegliare sulla mia Maria e che mi vede al lavoro e nella vita di famiglia, dunque è inutile che le parli di me. Ma è necessario che le parli di Franco, che sarà nostro ospite e che giungerà costà il giorno successivo a questa mia. La prego di fargli preparare il quartiere dei forestieri, che è nel centro dello stabilimento. Quelle quattro stanze basteranno a mio fratello. Vi faccia portare i tappeti che sono in camera mia e alcuni libri. Mi affido al suo gusto per dare a quelle stanze un aspetto allegro ed elegante. Al servizio di Franco destinerà il mio cameriere, che dormirà nella retrostanza, accanto al bagno. Mio fratello giungerà col treno delle cinque a Castelvetrano. Gli mandi la carrozza e faccia preparare un buon pranzo e una tavola elegante. Franco è assuefatto a tutte le raffinatezze del lusso e siccome voglio affezionarlo a Selinunte, egli non deve provare impressioni penose al suo arrivo. Prepari anche Maria a riceverlo affettuosamente, ma non permetta che egli passi tutto il giorno alla villa. Il suo tatto le sarà di guida per tenerlo distante di costì fin dal primo momento. Ponga a sua disposizione l' yacht i miei cavalli, lo spinga a far gite in terra e in mare, lo occupi, ma non gli faccia prendere la consuetudine di vivere fra noi e non gli affidi mai Maria. Mi dispiacerebbe che la bambina interrompesse per lui la sua vita metodica e che noi fossimo privati di quella libertà di leggere e di studiare che è il conforto delle nostre serate. Faccia conoscere Franco al sotto direttore degli scavi, al buon Lo Carmine, e lo conduca dai Moltedo a Castelvetrano, dove troverà sempre gente. Però la prego di non presentarlo come duca d'Astura, nè dargli in casa il titolo cui mi pare non abbia più diritto dal momento che ha sprecato il patrimonio che a quello andava unito. Non mi dilungo su questo tasto doloroso; ella si accorgerà che Franco manca assolutamente di educazione morale, come d'istruzione. Il mondo si compone di edificatori e di distruttori; a quest'ultima categoria appartiene mio fratello; ma io spero con l'esempio, con la dolcezza di piegarlo al lavoro, di fare di lui, che è passato fin qui nella vita come un flagello, un uomo utile. E forse in quest'opera di rigenerazione, ella mi aiuterà. Dovrò stare a Roma forse per settimane, forse per mesi; è un sacrifizio immenso che compio, ma non sarei degno della stima degli onesti, se non lo facessi. Si tratta di salvare dal disonore il nome di mio fratello. Se non riuscirò a salvare altro, avrò già compiuto un'opera buona. Mi accompagni col pensiero in questa difficile e dolorosa missione che m'impongo e vegli sulla mia Maria, cui mando mille teneri baci. Il suo affezionatissimo "ROBERTO FRANGIPANI. "

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679057
Perodi, Emma 5 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Cecco avrebbe voluto domandare se era andata a letto perché si sentiva male; ma tacque indispettito, e la Regina prese a dire: Tanti ma tanti anni fa, il Papa era in guerra con l'imperatore Federigo, e questi, per creargli impicci, mandò a chiamare un santo abate del monastero di Strumi, che apparteneva all'ordine di Vallombrosa, per nome Giovanni Ungheri, e lo creò Papa sotto il nome di Calisto III. Questo abate, prima di partire dal monastero, ordinò a un orefice una bellissima corona d'oro e, fattala ornare di pietre preziose, la pose in capo a una Madonna di legno, grande al naturale, che era nella chiesa del monastero, considerando che la scelta dell'Imperatore fosse avvenuta per ispirazione della Madonna, di cui egli era devotissimo. Dopo aver fatto questo donativo, Calisto III lasciò Strumi, e fu eletto in sua vece un certo frate Lamberto, di origine tedesca, uomo molto avaro e cupido di ricchezze. Questo abate Lamberto, tutte le volte che si trovava in chiesa a pregare, posava gli occhi sulla corona d'oro della Madonna, e tutte le volte pensava che era un peccato di lasciare infruttifere tante migliaia di fiorini quanti ne valeva quella corona, mentre una di similoro avrebbe fatto la stessa figura. Un giorno capitò nel monastero un orefice di Arezzo, per ridorare una croce che l'abate soleva portare in processione, e fra' Lamberto, nel parlare con l'artefice, venne a ragionare della famosa corona e di quello che era costata. - Ora vale anche di più, - disse l'orefice, - perché chi l'ha lavorata è morto, e tutto ciò che è uscito dalle sue mani ha raddoppiato di costo. L'abate, nel sentir questo, disse all'orefice: - È un'imprudenza di lasciare una cosa di tanto valore esposta alla tentazione del primo venuto; sapresti tu farmi una corona eguale a quella, ma di metallo più vile, e ornarla di gemme false? La vera allora si terrebbe riposta e non si metterebbe fuori altro che nei giorni solenni. - Saprei ben farla, e così somigliante che neppure papa Calisto riuscirebbe a riconoscere quella donata da lui, dalla mia. - Allora mettiti al lavoro; - replicò l'abate, - ma bada bene di non rivelare a nessuno il segreto. L'orafo tornò ad Arezzo, e dopo poco tempo portava all'abate Lamberto una corona perfettamente eguale alla vera. Il cupido frate, dopo averlo pagato, si affrettò a scendere in chiesa e, approfittando di un momento in cui nessuno lo vedeva, tolse di sul capo della Madonna la corona preziosa, vi pose la falsa e, nascondendo sotto lo scapolare il gioiello, andò nella sua cella per guardarla bene e giudicare quanto ci avrebbe guadagnato vendendola. In paese c'era un uomo che trafficava in Romagna, e pensava di affidarla a costui per venderla. L'abate era tutto occupato in questi calcoli, quando sentì bussare all'uscio e comparve il frate sagrestano col viso tutto rabbuffato: - Padre abate, - disse tremando, - in chiesa è avvenuto un miracolo. - I miracoli che avvengono in chiesa non possono spaventare un buon cristiano: parla. - Mentre accendevo le lampade dinanzi all'immagine della Madonna, questa ha incominciato a scrollare il capo, prima piano e poi forte, e le è caduta di testa la corona. - L'avrai inciampata con la canna che regge il moccolino. - Padre abate, no; e poi in chiesa c'era molta gente, e ora si sarà già sparsa per il paese a narrare il miracolo. La cella dell'abate, intanto, si era empita di altri frati, e uno di essi, che era tenuto in conto di molto sapiente perché copiava continuamente antichi manoscritti ornandoli di belle iniziali fregiate, disse: - È naturale che la Madonna abbia gettata in terra la corona. La Santa Madre del Signore non vuole il dono di un frate che è divenuto antipapa a dispetto di Sua Santità Alessandro III, eletto nel conclave dei cardinali. La spiegazione che fra' Ilario dava del miracolo, confortò molto l'abate. - Avete parlato saggiamente, - diss'egli, - e noi metteremo un'altra corona sulla testa della Beatissima Vergine. E, senza indugiare, scese in chiesa, raccolse la corona falsa, e avviatosi nella stanza dov'eran conservati gli oggetti preziosi, tolse da un armadio una corona d'argento che egli stesso posò sul capo della Madonna. Quella sera, a refettorio, non si parlò d'altro che del miracolo, e nel castello di Strumi, come pure in paese, tutti traevano da quel rifiuto della Vergine l'augurio che ella si volesse costituire protettrice di papa Alessandro e della Lega dei comuni contro l'imperatore Federigo Barbarossa. - Vedete! - dicevano i paesani, - già due antipapi, creati da Federigo, sono periti di mala morte; presto toccherà anche a Giovanni Ungheri, il quale avrebbe fatto meglio a non cambiare l'abbazia di Strumi con la tiara che non gli viene da Dio. L'abate Lamberto, impensierito da quel fatto e da tutti i discorsi che suscitava, appena fu nella sua cella pensò esser prudente cosa il nascondere la corona in un ripostiglio a lui solo noto, e non parlar di venderla con anima viva. In seguito, tutto si sarebbe calmato; e quando il fatto fosse dimenticato, poteva, senza pericolo, mandare il gioiello magari anche in Francia. Egli dormì pacificamente, e, destato dalla campana che sonava a mattutino, andò in chiesa. Ma appena si presentò sulla porta che dal monastero metteva nel coro, ecco venirgli incontro molti frati spaventati. - Padre abate, - dicevano, - mentre stavamo a far la giaculatoria alla Madonna, l'immagine ha incominciato a muovere la testa, prima piano e poi tanto forte che la corona d'argento è caduta in terra: questa non è la corona dell'abate Giovanni, dell'antipapa; qui sotto c'è un mistero! L'abate Lamberto li calmò dicendo che probabilmente egli aveva posato male la corona e per questo era caduta; ma tanto lui quanto i suoi monaci, quella mattina, dissero distrattamente il mattutino e furon lieti che terminasse: l'abate, per tornar nella sua cella a meditare sull'accaduto; i monaci, per riunirsi fra loro e commentare lo strano avvenimento, del quale, ora, neppur fra' Ilario sapeva dare spiegazione, perché la corona d'argento era un donativo della buona contessa Matelda di Toscana, e la Madonna non poteva rifiutare un ornamento che veniva dalla pia dama. Perché dunque quel fatto avveniva tanto per la corona dell'antipapa Calisto, quanto per quella di colei che aveva lasciati i suoi feudi alla chiesa? - Misteri! - sentenziò fra' Ilario, e tornò ai suoi manoscritti, che gli facevano dimenticare le cose di questo mondo, e anche quelle del mondo di là. Dopo la refezione, l'abate Lamberto adunò i suoi monaci e propose loro di mettere un'altra corona alla Madonna e di legargliela sulla testa con un filo di argento. E tutto il convento andò in processione a togliere dall'armadio una bella corona di argento, ornata di smalti e portata a Strumi da Guido di Besagne, il capo dei conti Guidi di Casentino, l'unico superstite della potente famiglia, che aveva i suoi feudi in Romagna. Egli aveva regalata quella corona alla Madonna di Strumi in ringraziamento di una grazia da lui ottenuta, ed era un pregevole lavoro di Bisanzio. Questa volta l'abate non osò mettere la corona in testa alla Madonna; aveva la coscienza sudicia e temeva che l'immagine santa facesse un terzo miracolo per isvergognarlo in presenza di tutti: perciò disse a fra' Ilario: - Salite voi sulla scala e legate forte la corona in testa alla Vergine. Fra' Ilario prese un filo d'argento e un paio di tanaglie, e assicurò ben bene la corona sulla testa della Madonna, per modo che, per togliervela, sarebbe occorsa una lima. Quando questo lavoro fu terminato, l'abate Lamberto ordinò ai suoi monaci d'inginocchiarsi, e poscia intuonò la Salve Regina Ma neppur dopo questa preghiera era più tranquillo, perché gli pareva che la Madonna tenesse fissi su lui gli occhi che avevano perduto l'espressione buona e dolce, e s'erano fatti severi. Neppur quello sguardo crucciato della Madre di Gesù, bastò a farlo ravvedere. Con poca fatica avrebbe potuto togliere la corona dal nascondiglio e metterla nell'armadio al posto della falsa; ma quando pensava al valore di quel gioiello, sentiva ridestarsi in cuore tutta la sua cupidigia, e gli pareva già di vedere le belle monete d'oro che ne avrebbe ricavate, vendendolo. Allora i due miracoli gli apparivano cosa naturalissima, e diceva che la corona falsa e quella d'argento eran cadute perché nella fretta non le aveva bene accomodate sul capo della sacra immagine. L'abate Lamberto fece anche quella notte tutto un sonno, e avrebbe dormito fino a tardi se le campane non lo avessero destato per andare a mattutino. Scese in chiesa, a passo lento, come si conveniva a un uomo rivestito di un'alta carica, ma giunto sulla porta si fermò. Che volevano dire quelle genuflessioni dei monaci, quel silenzio e tutte quelle lampade accese, nella chiesa ancor buia? Fra' Ilario, che lo aveva scòrto fermo sul limitare della chiesa, glielo disse in poche parole. Un istante prima, mentre i monaci recitavano la giaculatoria, la Madonna aveva alzato le braccia e, staccatasi la corona, l'aveva gettata sul pavimento dov'era ancora. A questo racconto l'abate Lamberto impallidì, tremò, e non ebbe coraggio di accostarsi alla immagine. - Adunate il Capitolo, - suggerì fra' Ilario all'abate. - Aduniamolo, - rispose questi. Prima che il sole fosse alto, tutti i monaci che facevan parte del Capitolo erano convenuti in una grande sala attigua alla cella dell'abate, e questi stava seduto nel fondo di essa, sotto un baldacchino, perché gli spettavano gli stessi onori che ai signori di feudi, e aveva giurisdizione sulle terre dipendenti dall'abbazia di Strumi, e diritto di vita e di morte sugli abitanti. Tutti i monaci aspettavano che l'abate cominciasse a parlare, ma l'abate taceva. Fra' Ilario allora prese a dire: - Fratelli, finché si trattava della prima corona caduta dalla testa dell'immagine della Madonna, si poteva supporre che la Madre di nostro Signore avesse orrore di un donativo fattole da un antipapa, cioè da un nemico della Chiesa fondata da Pietro per ordine di Gesù; in quanto alla seconda corona si poteva ammettere che il nostro abate non l'avesse collocata solidamente sul capo dell'immagine; ma oggi voi tutti avete veduto l'atto della Madonna; che cosa ne pensate? - Miracolo! Miracolo! Miracolo! - si udì ripetere da tutte le bocche, - Miracolo sì, ma il miracolo è stato fatto a uno scopo; questo è l'effetto, ma la causa di questo miracolo, qual è? Un profondo silenzio si fece nella sala, e allora l'abate Lamberto, ripreso imperio su se stesso, prese a dire: - Fratelli, mi pare atto da ribelli il voler indagare la mente della gloriosa Madre di Gesù; sottoponiamoci al volere di Lei e non tentiamo più di alienare da Strumi la sua valida protezione, volendole porre in testa una corona che rifiuta; chiniamo la testa e preghiamo. L'astuto abate, con questo scappavia, aveva creduto di rimediare a tutto, e i monaci, assuefatti all'obbedienza, accettarono la proposta dell'abate, il quale, alzatosi dal ricco seggiolone, ordinò ai fratelli di seguirlo in chiesa, e congiungendo le mani si avviò avanti a tutti verso l'altare. Entrato che fu in chiesa, s'inginocchiò dinanzi alla Madonna, sopra un guanciale di drappo d'oro, e intonò le litanie. Si era fatto appena il segno della croce, quando tutti i monaci, che tenevano gli occhi fissi sull'immagine, dettero un grido. La Madonna, lentamente, aveva alzato il braccio destro e, puntando l'indice sull'abate, lo accennava agli altri. Frate Lamberto spalancò gli occhi, dette un grido e cadde tramortito per terra; i monaci fuggirono spaventati, e intanto l'abate rimase disteso sulle lastre di pietra, senza che nessuno gli desse aiuto. - È dannato! è dannato! - si sentiva bisbigliare per il monastero dai monaci sgomenti, che andavano a rinchiudersi nelle celle per pregare. Il sagrestano e fra' Ilario ebbero compassione dell'abate, e dopo poco ritornarono in chiesa per veder se si era riavuto. - Io ritengo che sia morto, - diceva il sagrestano, - e allora che sarà stato mai dell'anima sua? - No, fratello, non è morto. La Madonna, che è così pietosa anche per i più ostinati peccatori e intercede il Divin Figlio per loro, non può aver permesso che l'abate Lamberto muoia in peccato, poiché la sua anima certo non è scevra di macchie. Solleviamolo di qui, portiamolo nella sua cella e forse potremo guarirlo. Fra' Ilario, che nel copiare manoscritti dell'abbazia aveva imparato a conoscere la virtù di certe erbe medicinali, quando ebbe collocato l'abate sul letto, lasciò il sagrestano a guardia del malato e andò in cerca dei semplici che credeva lo potessero guarire; ma per quanto gli aprisse la bocca, gli facesse inghiottire decotti e gli applicasse degli empiastri, l'abate Lamberto non apriva gli occhi e non dava segno di vita. I monaci, sempre impauriti, udendo fra' Ilario andare e venire sotto i loggiati del cortile, mettevano ogni tanto il capo fuori dell'uscio della cella e domandavano notizie. Fra' Ilario passava, scrollando la testa come per dire che non c'era nulla di nuovo. Il sagrestano rimase tutta la notte a vegliare l'abate; ma il monaco, vinto dalla stanchezza, chinò il capo sul petto e s'addormentò saporitamente. Egli avrebbe dormito fino a giorno, senza rammentarsi di suonar mattutino, se non lo avessero destato grida strazianti. Aprì gli occhi e vide l'abate seduto sul letto, con gli occhi sbarrati e fuori della testa, che accennava la porta, che era in faccia al letto, ed era stata aperta senza sapere da chi né come. E da quella porta vide lentamente entrare l'immagine della Madonna, col volto crucciato, fermarsi in fondo al letto e accennare l'abate. Il sagrestano non volle veder altro. Scappò via come un pazzo, facendo svolazzare la tonaca bianca per i loggiati e per i corridoi, e giunto in sagrestia si attaccò alle campane e suonò all'impazzata, finché non gli rimase in mano la fune. I monaci si destarono credendo che l'abbazia bruciasse; la gente del paese si spaventò, e tutti, senza pensare a vestirsi, scapparon dal letto: i monaci, per correr in chiesa; la gente, per andar sulla piazza a veder quello che accadeva. Il sagrestano spalancò le porte della chiesa, e ai frati che giungevano dal convento e ai terrazzani che entravano di fuori non sapeva dir altro che: - La Madonna! La Madonna! Allora tutti guardarono, e si accòrsero che la sacra immagine non era più al suo posto. Questa sparizione agghiacciò ognuno dalla paura, e il popolo cadde in ginocchio atterrito, mentre i monaci fuggirono nelle celle. Fra' Ilario andò in quella dell'abate, e con grande meraviglia vide la Madonna appiè del letto e il malato per terra, malamente caduto e livido in faccia. Allora riunì i monaci e disse che la Madonna bisognava riportarla in chiesa in processione e che probabilmente era voluta andare a benedire l'abate prima che morisse, perché questa volta era morto davvero. Infatti le sue membra si erano irrigidite, ed egli era ghiaccio come un pezzo di marmo. Alcuni monaci ubbidirono, altri non poterono, perché lo spavento li teneva inchiodati nel letto; ma, come Dio volle, la processione si fermò e la Madonna, collocata sopra una barella, fu riportata in chiesa sul piedistallo. Fra' Ilario, aiutato da due monaci meno paurosi degli altri, vestì il corpo dell'abate della bianca tonaca e dello scapolare; lisciò la sua lunga barba, congiunse le mani del morto, e, dopo avergli messo sul petto la croce d'oro e le insegne del suo grado, lo fece portare in mezzo alla chiesa per rimanervi esposto. Appena la notizia della visita della Madonna nella cella dell'abate e della morte di lui si sparse nel contado, venne la gente a frotte e, credendo che Lamberto fosse santo, ognuno voleva toccarlo e portar seco una reliquia del defunto. Così, chi gli stracciava un pezzetto di tonaca, chi qualche pelo della barba, chi i capelli. La sera, quando due novizî furono lasciati a guardia del cadavere per pregare, l'abate pareva un Ecce Homo Ma la chiesa era quasi buia, la nottata lunga, e i due novizi s'addormentarono a un certo punto senza neppure terminare un De profundis che avevano incominciato; e nel destarsi, trovarono il cadavere con una gamba fuori della bara, per cui, invece di ricomporlo, scapparono per il monastero. Fra' Ilario, che fu tra i primi a correre in chiesa, confortò i monaci dicendo che i cadaveri si muovono talvolta perché i muscoli si rilasciano ; e alla meglio ricondusse la calma negli animi agitati, ma consigliò che il cadavere fosse presto calato nell'avello per far cessare tutte le cause di paura e di sgomento. E, come fra' Ilario aveva suggerito, fu fatto. La salma dell'abate fu calata quella mattina stessa nel sotterraneo, dopo essere stata aspersa di acqua benedetta; la pesante lapide di pietra cadde con fracasso sul pavimento e ne fu chiusa l'apertura. Quel giorno fu detto l'uffizio dei morti, e la mattina dopo venne cantata una messa per il riposo dell'anima dell'abate. Il popolo era tutto adunato in chiesa, i monaci avevano indossato i paramenti neri e gialli e stavano aggruppati intorno all'altare, quando tutti gettarono un grido. La lapide che chiudeva l'avello si alzava lentamente, e da quella sbucava fuori la testa livida di fra' Lamberto, con gli occhi sbarrati e la barba spelacchiata dai fedeli. - È risuscitato! È risuscitato! - si sentiva gridare. Fu un fuggi fuggi generale. La gente si affollava alla porta per uscire, le donne urlavano, il monaco che diceva la messa scappò col calice in mano, gli altri si sbandavano per il convento, e in breve in chiesa non rimase altri che l'abate, il quale faceva sforzi sovrumani per sollevare sempre più la lapide e aprire un varco alla sua persona. Vi riuscì finalmente, ed estenuato, cadendo ogni dieci passi, giunse alla sua cella senza esser veduto da alcuno. Ma qui le forze gli mancarono e rimase lungamente disteso per terra. I monaci s'eran chiusi in tre o quattro nelle celle e non osavano fiatare; fra' Ilario soltanto, dopo il primo momento di paura, tornò in chiesa, vide la lapide ancora sollevata, guardò nell'avello, e scorgendo la bara vuota si diede a cercare l'abate per il convento. "Forse non era morto; - pensava, - e chi sa, poveretto, quant'ha sofferto?" Nell'entrare in camera lo vide lungo disteso per terra, e corse a prendere vino e cibo per ristorarlo. Dopo poco l'abate Lamberto aprì gli occhi e, veduto frate Ilario accanto a sé, gli disse con voce spenta: - Fratello, volete farmi la carità di ascoltare la mia confessione? - Dite pure, abate reverendo, - rispose il monaco. Lamberto allora si accusò di tutti i suoi peccati di cupidigia, fino a quello della sostituzione della corona. - Ora mi rimane da dire il più grosso! - esclamò. - Dite pure, abate reverendo, io vi ascolto, e la misericordia di Dio è grande. L'abate narrò minutamente le tentazioni alle quali aveva soggiaciuto, i calcoli avari che avea fatti, l'indifferenza con cui aveva accolto gli avvertimenti palesi della Madonna. - Sono un gran peccatore! - disse terminando la confessione. - Siete pentito, sinceramente pentito? - gli domandò fra' Ilario. - Tanto pentito e sgomento del mio misfatto, che se mi diceste di andare in Terra Santa in pellegrinaggio a farmi trucidare dagli infedeli, vi andrei. - Non è questo che io v'impongo, ma bensì di ripetere pubblicamente in chiesa l'accusa contro voi stesso, e di venire in processione al nascondiglio a prender la corona per rimetterla con le vostre mani sulla testa della Vergine Santissima. - Ebbene, fra' Ilario, fate bandire per tutta la terra di Strumi che oggi stesso tutto il popolo sia adunato in chiesa prima del vespro per udir la confessione dell'abate. È inutile dire che la chiesa era gremita di gente quando l'abate vi scese sorretto da fra' Ilario e da un altro monaco. Egli s'inginocchiò nel centro della navata maggiore, sulla lapide che chiudeva l'avello, e, a capo chino, incominciò a snocciolare la lunga corona dei suoi peccati. Finché disse che aveva venduto indulgenze, che s'era appropriato il denaro del povero, che aveva ingannata la gente in ogni modo, il popolo tacque, ma quando giunse a confessare di avere spogliato la Madonna del prezioso donativo di Giovanni Ungheri, allora da cento bocche uscì una terribile parola infamante: - Ladro! Ladro! L'abate Lamberto chinò la testa e continuò la confessione; poi, alzatosi, si avviò alla sua cella seguìto dai monaci, e poco dopo ritornava in chiesa recando sopra un guanciale la preziosa corona, che riponeva sulla testa della Madonna. Quindi, come se non credesse completa la espiazione, si fece portare la corona falsa, e, postasela in testa, disse: - Questa io la porterò sempre affinché tutti sappiano del mio peccato. Quello stesso giorno l'abate Lamberto rinunziava alla sua carica, vestiva l'abito da pellegrino e col capo grottescamente ornato della corona, partiva per Terra Santa. Da quel giorno la Madonna di Strumi rimase immobile sul piedistallo, e la preziosa corona non si mosse più dalla testa di lei. Intanto la fortuna dell'Imperatore era assai scemata in Italia, e Alessandro III, il Papa eletto nel conclave dei cardinali, acquistava sempre maggior potenza. L'antipapa Calisto III, eletto dall'Imperatore, fu preso dal rimorso, e dopo lunghe incertezze depose la tiara e si riconciliò col Papa vero, con Alessandro. Questi, per ricompensarlo della sua sottomissione, gli restituì l'abbazia di Strumi abbandonata da fra' Lamberto, che tornato dopo alcuni anni dal pellegrinaggio di Terra Santa, senza essersi mai tolto di capo la corona che gli attirava le beffe di quanti lo incontravano, venne a stabilirsi in un Eremo poco distante da Strumi, menando vita solitaria ed esemplare. Quando Lamberto venne a morte, lasciò detto che desiderava esser sepolto con quella corona, che era stata per lui una vera corona di spine. L'abate Giovanni Ungheri non rimase molto a governare l'abbazia di Strumi. Papa Alessandro lo nominò arcivescovo di Benevento e la sua carica passò all'abate Ridolfo, il quale, edificata l'abbazia di San Fedele a Poppi, andò a stabilirvisi abbandonando Strumi. Ora dell'abbazia e del palazzo non restano altro che pochi avanzi, sui quali è stata costruita una casa di contadini; ma chi scava nei dintorni, trova scheletri grandissimi, e chi dice che sian di monaci, chi dei conti Guidi. In quella casa ci andò sposa una mia sorella, e per questo so tanto bene vita, morte e miracoli dell'abate Lamberto e dell'antipapa. Le mura non parlano, la terra neppure, ma parlano gli uomini, e così parlando, la storia dell'abate Lamberto si è risaputa di padre in figlio e io ho potuto raccontarvela, - terminò la Regina. - Grazie, mamma, - disse Maso, - ma non sarò io che potrò raccontarla come voi; farei un bel pasticcio se mi risolvessi a farlo. - Io però la so benissimo, - disse l'Annina, - e non dubitate, nonna, che questa e le altre novelle che ci avete raccontate, le ho tutte qui, - e accennò il capo. - Così potessi narrarle ai miei nipotini, come fate voi! I Marcucci continuarono un bel pezzo a parlare del monastero di Strumi e delle sue vicende, senza accorgersi che Cecco era sparito alla chetichella. Tutta la sera era stato inquieto, pareva che non avesse terren fermo, e appena la mamma aveva cessato di narrare, era uscito dalla parte che metteva nel cortiletto della stalla, e una volta fuori s'era diretto a passi precipitati verso la casa di Vezzosa. In cucina il lume ardeva ancora e il padre della ragazza stava sull'uscio a fumar la pipa. - Buona sera, Momo? - aveva detto Cecco. L'altro aveva risposto, e da un discorso all'altro eran venuti a parlare delle veglie, e Cecco aveva domandato al contadino: - Come mai non ci avete mandate le vostre figliole stasera? - Oh! queste donne! - esclamò Momo. - Non sanno star d'accordo. Che volete che vi dica; la massaia ha rimproverato Vezzosa perché dice che coll'andar fuori a veglia la domenica, svia tutti quelli che verrebbero da noi a far due chiacchiere; e Vezzosa se l'è avuto a male ed è andata a letto. Vedete, io voglio bene alle figliuole ed è per loro che ho ripreso moglie; ma se sapevo che sarebbero state insieme come cani e gatti, vi giuro io che non avrei messo un'altra donna in casa. - La pace tornerà appena avrete maritate le figliuole, - rispose Cecco. - Maritarle! È una parola. Per Vezzosa s'era presentato un partito; Felice del Masi, lo conoscete? Ebbene, lei non lo vuole; la mi' moglie vorrebbe darglielo, e da qui scene continue, e addio pace! Cecco sossultò a quelle parole, ma non ebbe coraggio di spiegarsi. Bisognava che prima interrogasse la mamma, i fratelli, le cognate, e se il maggior numero di loro si fosse opposto al parentado con Vezzosa? Quella sera Cecco andò a letto tutto turbato e dormì male, cosa che non gli era accaduta mai.

Intanto i contadini, che vedevano marcire la loro uva sulle viti nel Pian di Campaldino, erano andati dall'abate di Strumi, che aveva nomea di santo, e gli avevan detto, con voce tremante e spaventata: - Abate maggiore, il lupo mannaro è in paese, e noi si perde la raccolta dell'uva. L'abate si era fatto spiegare il come e il perché di quella perdita, e dopo aveva detto: - Domani farò una processione fino alla casetta nel Pian di Campaldino e con l'acqua santa caccerò il lupo mannaro. Infatti il giorno dopo aveva adunato i suoi monaci, e, preceduto dalla croce, si era diretto al luogo dove tenevasi nascosto messer Spini. Egli era in un momento di calma e, seduto per terra col dorso appoggiato alla rozza parete, esprimeva a Teresona, che lo ascoltava con le lacrime agli occhi, l'ammirazione che ella gl'ispirava per la sua illimitata bontà. - Ti voglio bene, Teresa, - le diceva, - più che alla madre mia, più che alle sorelle, agli amici, alla patria stessa, e non saprei vivere senza di te. La donna, che stava sempre in ascolto temendo una sorpresa, udì salmodiare e, guardando da uno spiraglio della porta, vide la processione di monaci dirigersi alla volta della casupola. - Siamo perduti! - esclamò. E, senza cercar di fuggire, perché lo reputava inutile, s'inginocchiò e pregò fervidamente sant'Anna e la Vergine. In quel momento messer Spini fu assalito dalle convulsioni; egli incominciò ad urlare, e il suo corpo prese a un tratto l'aspetto orribile di una bestia villosa, con una testa enorme e una bocca fornita di zanne minacciose. L'animale, sempre urlando, si fece sulla porta, e pareva pronto a gettarsi addosso al primo che si accostasse. Il giovane monaco che recava la croce ed era in testa alla processione, appena vide il mostro, fuggì; l'abate che sperava tanto nell'acqua santa, se la diede a gambe, e in breve Teresona vide le tonache bianche dei monaci sparire dalla pianura di Campaldino. Quando nessuno più rimase in quei dintorni, messer Spini riprese sembianze umane e Teresona respirò. Tutti e due capirono che quella trasformazione era avvenuta per intervento celeste, e ringraziarono le loro Protettrici. Dopo qualche giorno messer Spini non fu più assalito dalle convulsioni. Soltanto quando qualcuno voleva avventurarsi vicino alla casa, mandava urli da lupo, e se v'era qualche spirito forte che si accostava con l'intendimento di uccidere il lupo mannaro nella sua tana, il fiorentino prendeva subito le sembianze del mostro e faceva fuggire il mal capitato. Così Teresona e l'esule rimasero padroni di una zona di terreno, dalla quale essi ricavavano in parte il nutrimento. La ragazza però non cessava d'industriarsi andando a vendere erbaggi a Bibbiena, e laggiù apprese che a Firenze non governava più il partito avverso a messer Spini, e che a questi era stato revocato il bando e la confisca dei beni. Tutta lieta ella andò a comunicare la notizia all'esule, il quale pianse di gioia e, approfittando della notte, volle subito partire per Firenze. Teresona fu molto afflitta da quella risoluzione del fiorentino e gli disse: - Signor mio, quando sarete in patria, ricordatevi qualche volta di me. - Ma tu mi accompagni! - rispose messer Spini, - mi sei stata compagna, sostegno, appoggio nella brutta sorte, sarai dunque la compagna dei giorni lieti. Così partirono, e dopo molti giorni di viaggio faticoso, messer Spini bussava alla porta del suo palazzo e, riconosciuto dai suoi concittadini, tornava al possesso del patrimonio e delle cariche del governo della Repubblica. Teresona aveva ripreso gli abiti femminili, ma non appariva più a nessuno così brutta come per il passato, forse perché messer Spini narrava a tutti la devozione di cui era stata capace quella creatura così buona e coraggiosa. Nonostante Teresona si sentiva a disagio nel bel palazzo, e ormai che messer Spini era guarito e ritornato in patria, ella voleva riandarsene in Casentino, per aver notizie del padre suo e ottenerne il perdono. Ma messer Spini non glielo concesse e, anzi, per dimostrarle la sua gratitudine, volle farla sua moglie. Teresona credé d'impazzire dalla gioia allorché il suo signore le comunicò questa risoluzione. Le nozze furono celebrate senza pompa nella cappella del palazzo Spini, dove la sposa visse lunghissimi anni venerata e stimata dal marito e dagli amici di lui, e dove morì in tarda età. Appena messer Spini e la Teresona furono partiti dal Casentino, certi contadini che passavano una mattina sul limitare della pianura di Campaldino videro il cadavere di un mostro, simile in tutto e per tutto a quello che aveva tanto spaventato l'abate maggiore di Strumi e tutta la processione. Essi andarono a raccontare a Poppi che il lupo mannaro era crepato, e allora il popolo dei dintorni, guidato dai proprietari della pianura, andò a vedere la bestiaccia che era stata per tanto tempo il terrore di tutto il paese. - Bruciamola! - disse uno. - Bruciamola! - risposero tutti. Allora lì per lì fu messa insieme una catasta di legne secche; la bestiaccia pelosa vi fu posta sopra a forza di stanghe, perché nessuno voleva toccarla, e in breve fu avvolta dalle fiamme e incenerita. Da quel giorno nessuno ha più udito né veduto il lupo mannaro in quei luoghi, e i contadini sono ritornati ogni anno a badare all'uva matura, senza essere turbati nelle loro veglie dagli urli del lupo. - E ora la novella è finita, - disse la Regina. In quel momento tornavano da Camaldoli il professor Luigi e la moglie, e con loro c'era anche l'Annina. - Come mai sei venuta? - le domandò la nonna. - Non so, - rispose la ragazza, - la signora mi ha detto che era meglio che passassi qualche giorno a casa, ed ho ubbidito. La signora Maria prese da parte la Carola e le disse che la signora Durini, sapendo che Carlo Buoni doveva tornare mercoledì o giovedì della settimana seguente, aveva creduto più conveniente che si abboccasse con l'Annina e le aprisse l'animo suo in casa dei genitori, piuttosto che alla villa dell'ispettore. Dopo quell'abboccamento le avrebbero rimandato la ragazza, dalla quale non intendeva separarsi fino al giorno del matrimonio. L'Annina doveva sospettar qualche cosa, perché era turbata e guardava tutti come se volesse leggere nell'animo dei suoi il segreto che era sicura le celavano; ma non domandò nulla, per il momento, ai grandi. Però, imbrancatasi con i piccini, che le avevano fatto una gran festa vedendola giungere, li aveva condotti nell'orto, e abilmente, senza dimostrare curiosità, li aveva interrogati. Essi erano stati tutti contenti di raccontarle che in settimana avevan avuto visite, che c'erano stati i Buoni, padre e figlio, e che durante la loro visita essi erano stati mandati via di cucina. - E dopo che hanno fatto? - domandò l'Annina. - Dopo aver molto parlato, il capoccia ci ha mandati a prendere l'aleatico; essi hanno bevuto, e son partiti per Poppi. Però il Vecchio, al ritorno, s'è fermato qui di nuovo. - E com'era il babbo? - Tutto felice, come quando torna dal mercato e ha venduto bene un paio di manzi. - E voi, che cosa avete supposto? - chiese di nuovo l'Annina. - Che il capoccia, la nonna, le nostre mamme e la Vezzosa hanno paglia in becco. L'Annina era troppo furba per non aver capito tutto. Il cuore le batteva forte forte, e quel certo mistero che ancora avvolgeva un fatto di cui non poteva aver più dubbio, le faceva provare una grande, una immensa felicità. Non sapeva spiegarsi come il sor Carlo avesse proprio scelto lei, e quando fu a letto, sicura che nessuno la vedeva, pianse e rise dalla grande felicità.

La notizia di questo fatto giunse fino al beato Romualdo, abate di Camaldoli, il quale scese con una lunga processione di frati del suo Eremo, portando in mano la croce, e si recò a benedire la bocca della caverna di Montecornioli. Il santo abate però disse che sotto quel fatto ci doveva essere un mistero, quando gli fu assicurato da un suo frate che dopo poche notti che la caverna era stata benedetta, erano ricomparsi i demoni a farvi la guardia. L'abate Romualdo ordinò preci e digiuni a tutti gli abitanti del paese di Montecornioli, per impetrare da Dio la liberazione da quel tremendo flagello; ma neppur questi valsero, e i demoni continuavano a mostrarsi. In quel frattempo Turno era ridotto al lumicino. Nella notte stessa dalla scomparsa degli angioli e della casa, egli, sentendosi opprimere da quelle gemme rubate ai poveri, invece di portarsele a casa e nasconderle sotto il mattone del pavimento, aveva scavato una buca in cantina e ve le aveva rimpiattate, e poi era andato a letto. Ma non aveva potuto dormire in tutta la notte, e nell'uscire la mattina per andare nel bosco a segar le legna, come faceva ogni giorno, aveva sentito tutta la gente sgomenta dall'apparizione dei demoni e dalla scomparsa degli angeli, che avevano recato nella notte di Natale tanti doni ai bimbi buoni, ai bimbi poveri di tutta la contrada. Quelle lamentazioni che udiva gli arrivavano al cuore, perché sapeva che senza la sua curiosità e il suo furto, gli angeli avrebbero continuato a beneficare i poverelli del paese. Egli si sentiva un gran malessere dentro e le braccia cionche come se non potesse fare nessun lavoro. Tutto il giorno vagò per il bosco evitando d'imbattersi negli altri boscaiuoli, e non si avviò a casa altro che a ora tarda. Ma prima di oltrepassare gli ultimi alberi, sentì uno sbatter d'ali sulla sua testa, e a un tratto vide un pipistrello, grosso come un'aquila, con gli occhi e la lingua di fuoco. Il pipistrello rimase ad ali aperte davanti a lui, e gli disse: - Turno, tu hai reso al Diavolo un gran servigio, scacciando gli angioli dalla caverna. Devi sapere che essi vi avevano nascosto il tesoro della regina Saba e del re Salomone, salvato da Gerusalemme dopo la distruzione di quella città. Si erano ridotti qui dopo lunghe peregrinazioni e ad essi lo aveva confidato il Nazzareno. Se occhio umano riusciva a mirarlo, essi ne perdevano la custodia, e il tesoro passava nelle mani del nostro signore, Belzebù. Egli ora ti vuole ricompensare e ti permette di penetrare nella caverna e di sceglier magari lo scettro di Salomone e la corona di Saba. - Non voglio nulla! - diceva Turno tremando. - Non voglio nulla; è roba del Diavolo! - e si fece il segno della croce. Il pipistrello con gli occhi di fuoco cadde in terra come fulminato, e dove era caduto si aprì una buca fonda fonda, che ancora si chiama "Buca del Diavolo" e chi ci precipita non riesce a tornar più su. Turno, dopo questo fatto, tornò a casa come immelensito. La sua mamma non gli poté cavar di bocca neppur una parola assennata, perché vaneggiava come un matto. La sera gli venne la febbre, una febbre da cavalli, e nessuno sapeva da che derivasse. Così rimase un mese, fra la morte e la vita. Sua madre chiamò i medici a curarlo, ma essi non ci capivano nulla in quella malattia; chiamò le donne che sanno togliere il mal d'occhio, ma neppure quelle riuscirono a guarirlo; finalmente chiamò il curato a benedirlo, e allora Turno si sentì a un tratto sollevato, cessò di gridare e volle confessarsi. Dopo la confessione si comunicò, e appena si sentì in forze, scese in cantina, prese le gioie che vi aveva nascoste e se ne andò col bordone da pellegrino e col capo coperto di cenere, prima alla Verna, dove rimase in preghiera tre giorni, poi all'Eremo di Camaldoli, e finalmente alla Madonna di San Fedele a Poppi. Dinanzi a quella immagine egli depositò le gemme prese nel tesoro della caverna, e la collana e il diadema che nei giorni di festa ornano il collo e la testa della Madonna, sono ancora formate delle stesse perle e delle stesse gemme donate da Turno. Il quale, finché visse sua madre menò un'esistenza laboriosa, alternando il lavoro con le preghiere; ma alla morte della madre vendé la casetta, distribuendone il prezzo ai poveri, e poi andò a farsi frate a Camaldoli e per le sue virtù fu tenuto in concetto di santità. I montecorniolesi non hanno più veduto i diavoli con le spade fiammeggianti a guardia della caverna, ma nessuno ha osato mai di scavare il monte per impossessarsi delle ricchezze. Due ladri soltanto una volta vennero da lontano per rubare quello che sta nascosto nella caverna, ma sull'imboccatura furono tutti e due colpiti da una saetta, che li incenerì. Ma neppure i bimbi buoni, i bimbi poveri dei casolari sparsi sulla montagna hanno avuto più i ricchi doni, e questo fa supporre che in paese gli angeli non siano più tornati. La Regina tacque, e Cecco, il bell'artigliere, esclamò: Mamma, la memoria vi regge, ma una cosa sola avete dimenticato di raccontare a questi bimbi, che vi stanno a sentire a bocca aperta. - Che cosa? - domandò la Regina. La storia del turbante! - Non l'ho dimenticata; gliela serbo a domani sera, e per ogni festa del Natale ne ho un'altra. - Dunque, mamma, ne sapete tre solamente, perché tre son le feste di Ceppo? - esclamò l'Annina, una bimba vispa, che già aiutava in casa come una donnina. - No, no; intendo dire che ne ho in serbo anche per la sera di Capo d'anno, per quella di Befana e per le domeniche di gennaio. - Siete una gran nonna! - disse, mettendo la testa in grembo alla vecchia, un maschietto di capello rosso, con una testina sempre arruffata e certi occhietti furbi, nei quali si leggeva tutto quel che gli passava nella mente. - Peraltro la novella di stasera non mi capacita. - Perché? - domandò Cecco alzando Gigino e mettendoselo a cavalluccio sulle ginocchia. - Perché gli angioli non se la dovevano prendere con i bambini se Turno era sceso nella caverna. Mi pare che paghi il giusto per il peccatore, e a noi, a noi che ci si sforza di non far birichinate in tutto l'anno, quando vien la vigilia di Natale, non ci tocca nulla. - Son novelle! - sentenziò l'Annina, - e si raccontano così per divertire. Se ci credessi, io non porterei mai le pecore a pascere dalla parte di Montecornioli: avrei paura. - Però Gigino ha ragione, è un'ingiustizia! - dissero a mezza voce altri due piccinucci, che erano sempre del parere del Rossino. In quel momento si sentì alzare il saliscendi dell'uscio e le mamme tornarono con lo scialle tutto tempestato di sottilissimi cristalli di ghiaccio. Esse vuotarono sulla tavola una fazzolettata di brigidini e di confetti, sui quali i bimbi si gettarono avidamente. - Eccoli i nostri angioli! - esclamò l'Annina. - Ecco il mio angiolo! - disse Cecco abbracciando la sua vecchina. Dopo poco, grandi e piccini, tutti riposavano al podere dei Marcucci, e i bei sogni rallegravano la mente dei bimbi dormenti.

Al tempo dei tempi. Fiabe e leggende delle Città  di Sicilia

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Perodi, Emma 1 occorrenze

La tenne sempre chiusa nel bel palazzo, e prima che la moglie gli desse l'erede tanto desiderato, prese un abate che era stato precettore suo per affidarglielo, perché a quei tempi i giovani nobili erano sempre affidati a un precettore che era sempre abate. Quest'abate conosceva tutte le faccende della famiglia, sapeva che il Principe non aveva nessun parente e più volte aveva frugato nell'archivio dove si serbavano i documenti e gli atti di compra e di possesso dei beni che gli avevano fatto sempre gola. La Principessa, quando fu il momento, fece un maschio, ma ella, poveretta, soffrì tanto che di lì a tre giorni morì. Il Principe, dal dolore di vederla morire, morì egli pure. Che fa allora l'abate che sapeva tutti i fatti di famiglia ? Licenzia la balia del Principino orfano col pretesto che aveva poco latte, e, invece di procurarne un' altra, una sera rinvolge il Principino in una coperta e va in campagna, dalla parte di Piana de' Greci dove sapeva che abitava un mugnaio con la moglie. La donna allattava un suo bambino già grandicello e l'abate tante gliene disse che la persuase, per il lacchezzo d'un buon salario, a divezzare il suo e a prendere ad allattare il piccino che le aveva portato, senza però dirle chi fosse. Per qualche mese l'abate andò a vedere il Principino, portò il salario alla balia e qualche regaluccio, le fece sperare un bel paio di pendenti quando all'allievo fosse spuntato il primo dente, una bella collana quando sarebbe andato solo.... insomma, fece molte chiacchiere, ma quando la balia e il marito gli domandavano come si chiamava, dove stava, chi erano i genitori del bambino, rispondeva con una barzelletta, li trattava di curiosi, ma non dava nessuna risposta concludente. L'ultima volta che andò al mulino, al Principino era spuntato il primo dente. - Evviva la nutrice ! - esclamò l'abate. - Quest' altra volta che vengo avrete i pendenti. E saranno belli, sapete. Con tre rubini e tante perle ; pendenti da regina e non da mugnaia. E poi, quando il piccino camminerà, avrete il resto. Io sono uomo di parola ; anzi, prometto sempre meno di quel che mantengo. Figuriamoci come gongolasse la nutrice! Fece cenno al marito, che subito andò a prendere un boccale di vino di quello buono, ella fece le frittelle e mangiarono e bevvero allegramente. Ma aspetta l'abate con gli orecchini, l'abate non venne più e non si curò di mandar neppure il salario. Il mugnaio sbuffava, la mugnaia pure e un bel giorno, stanca di dar latte a ufo, divezzò il bimbo e lo tirò su con un po' di pappa, mentre prima tutte le premure erano per lui. Il mugnaio, vedendo passare i mesi senza che l'abate ricomparisse, andò a Palermo a cercarlo, e cerca di qui, cerca di là non gli venne mai fatto d'incontrarlo. Ogni persona che fermava, dicendo : "Scusi, lo conosce un abate così e così ?" gli rideva in faccia, perché il nome non lo sapeva e abati ce ne erano tanti e tanti. Se ne tornò dunque al mulino con le pive nel sacco e prese a perseguitare il piccino che s'era figurato dovesse portare la ricchezza in casa sua, e che invece doveva campare a sue spese, perché a chi poteva renderlo ? A desinare il mugnaio non permise più al bimbo di stare a tavola con lui, la moglie e il loro figlio. Gli faceva mettere un po' di minestra in un tegamino rotto e nero, e lo mandava a mangiare col gatto e col cane per terra, in un cantuccio. A dormire non volle più che stesse in camera con loro ; gli fece mettere un po' di paglia in uno stanzino buio, e lì lo teneva, e quando il figlio lo chiamava a baloccarsi con lui, il mugnaio diceva : - Lascialo stare ; quello lì non è fatto per baloccarsi ; se vuol mangiare un pezzo di pane deve guadagnarselo e deve ripagare a tua madre il latte che gli ha dato e il resto. Quello lì non è tuo fratello ! - Così il piccino crebbe, ed appena potè zampettare dovette lavorare dalla mattina alla sera a coltivar la terra, ed ebbe appena da sfamarsi : sempre e poi sempre marito e moglie gli ripetevano : - Ti teniamo per carità ; meritavi che ti si fosse abbandonato in un bosco. - Una sera il Principino, poteva avere un dieci anni, chiedeva al figlio del mugnaio un'arancia. - Dammela, fratuzzu dammela! - Ma tu non sei fratello mio ! - rispose l'altro. - Se tu fossi mio fratello te la darei, a te non te la do. Tu sei figlio di un'altra madre. Va'-e cercala tua madre in Palermo. La conosci tu? L'hai mai veduta? Che bella madre ! Come si cura del figliuolo ! - Queste stesse parole il Principino se l'era sentite dire tante volte, ma non ci s'era potuto assuefare e gli facevano sempre una gran pena. Zitto zitto se ne andò a piangere nello stanzino buio e fra le lacrime diceva : - È mai possibile che il mio babbo e la mia mamma non si rammentino di me? Che mi abbiano abbandonato in questo modo per farmi patire tanto ? Ma non ha cuore di madre la mia? - Aveva appena terminato di proferire questa domanda, che lo stanzino fu illuminato da un debole chiarore e in mezzo a quel chiarore comparve una donna pallida pallida, scarna scarna e avvolta in un gran lenzuolo bianco. - Che possono fare i morti per i vivi ? - disse la donna con un fil di voce. - Io morii quando tu nascesti, figlio mio, e su te non ho potuto vegliare. Tuo padre, il principe di Cattolica, ti affidò a un abate nel quale riponeva piena fiducia. Quel perfido, invece, si é impossessato del tuo. Va' a Palermo, istruisciti e quando sarai in età, chiedi che giustizia sia fatta. Io pregherò per te ! - Mentre il Principino sbalordito dall'apparizione e tutto tremante stava per rivolgerle una domanda, i contorni della figura si dileguarono, il chiarore svanì, ed egli si trovò di nuovo al buio, sulla paglia, ma meno afflitto, meno desolato di prima perché sapeva che sua madre vegliava su di lui. Glielo aveva detto dove doveva andare, ed egli subito le obbedì. Del resto glielo aveva detto anche il figlio della mugnaia che se ne andasse perché in quella casa era un intruso. Non appena fece giorno il Principino s'alzò dal suo giaciglio di paglia, uscì, e invece d' andare nel campo a lavorare, prese la via che conduceva a Palermo. Era digiuno, non aveva scarpe in piedi, eppure camminava senza sentir la fame nè i sassi della via: camminava pieno di speranza e di letizia. Giunse così a Porta Nuova, sotto il palazzo del Vicerè, ma era sfinito e si lasciò cadere in terra. Venne una ronda di guardie e il capo gli dette un calcio, dicendogli : - Alzati, mendicante ; qui non sono tollerati gli accattoni! - Si alzò e andò oltre, giù per il Cassaro, fino a Piazza Vigliena. Ma qui era l' ora della passeggiata e le dame passavano nei magnifici cocchi a quattro e sei cavalli, i cavalieri cavalcavano su focosi destrieri con ricche gualdrappe, ed altre guardie scacciarono il Principino, dicendogli : - Va' oltre, pezzente ! - E andò oltre, finché non giunse all'angolo di Via dei Chiavettieri, dove allora non c'erano altro che botteghe di fabbro, e appunto in una di quelle botteghe entrò il Principino, che aveva fame, e disse al padrone : - Mi prenda come garzone ; ho voglia di lavorare e sono forte. Domani e nei giorni seguenti mi guadagnerò il pezzo di pane che ora le chiedo per non morir di fame. - Questa domanda d'imprestito e non di elemosina, il tono con cui era fatta e l' aspetto dignitoso del fanciullo, coperto di pochi stracci, commossero il capo mastro, che subito lo fece ristorare, se lo prese in casa e lo mise a tirare il mantice. Il ragazzo lavorò sempre con zelo; non c'era caso che si imbrancasse con i monelli di strada; se lo mandava a riportare il lavoro o a comprar qualcosa, tornava subito, non parlava, non chiedeva nulla e si contentava del cibo che era abbondante e buono in confronto di quello che gli dava con tanto mal garbo il mugnaio; e se la moglie del fabbro gli dava qualche oggetto di vestiario, ringraziava con effusione e aggiungeva : - Mia madre, che è in Paradiso, pregherà per lei e per la sua famiglia! - Così di giorno in giorno il garzone si faceva voler più bene e ormai era come uno di casa. Appunto per la confidenza che aveva con lui, il fabbro una volta gli domandò : - Ma insomma, si può saper di chi sei figlio e come si chiamano i tuoi genitori ? - Non li ho mai conosciuti. Fui messo a balia da una mugnaia, un abate mi portò al mulino quando avevo pochi mesi, pagò per un po' di tempo il baliatico e poi non si fece più vivo, e allora il mugnaio e la moglie presero a maltrattarmi e a rinfacciarmi il pane che mi davano. Non rammento che maltrattamenti, rimproveri e fatiche, - aggiunse il ragazzo con un sospiro. - Ma non hai proprio nessun indizio de' tuoi genitori? - II poverino non voleva narrare l' apparizione della madre perché quel segreto era la sua sola gioia e la sua sola ricchezza. Per questo alla domanda del fabbro rispose : - Che so? m' hanno detto che sono figlio del principe di Cattolica e che quel perfido abate s'è impossessato di tutti i miei beni. - Era presente al discorso la moglie del fabbro, la quale provò un senso di pietà sentendo che quel ragazzo, figlio di principi, nato in un palazzo, in mezzo all'oro, dovesse fare tutte le faticacce. - Senti, - disse al marito - io non posso vedere che questo ragazzo fatichi a questo modo. Non sarebbe meglio farlo studiare, invece che lavorare ? Anche se non ricupererà i suoi beni, una volta istruito ci darà sempre aiuto, perché è tanto buono e riconoscente ! Del resto la figlia nostra non potrebbe tirare avanti la bottega ! e lui lo farà bene, avendo un po' d'istruzione. - Il fabbro si lasciò convincere dalle parole della moglie e tolse il Principino di bottega a tirare il mantice, lo mise a scuola e spese di bei quattrini per fargli insegnare prima a leggere e scrivere e fare di conto, e poi il latino, le scienze e tutto quello che si insegnava allora. Intanto il Principino raggiunse l'età maggiore e il fabbro fece fare l'albero genealogico della famiglia di Cattolica, cavò tutti gl'incartamenti e gli atti per intentar lite all'abate e provare che non lui, ma il giovinetto era l'erede dei titoli e delle ricchezze. Incominciò il processo, e l'abate, che sapeva d'aver torto marcio, non si stancava di mandar rotoli di doppie d'oro, ora ai giudici, ora al presidente del tribunale. E via via che il tempo passava e che si avvicinava il momento della sentenza, quei rotoli aumentavano di volume. Il fabbro, poveretto, si limitava a pagar gli avvocati e faceva già un gran sacrifizio, ma non aveva mezzi per battersi con l'abate a rotoli di belle doppie di Spagna. E quando dopo due anni venne pronunziata la sentenza, fu, naturalmente, favorevole all'abate. S'appellarono, e il fabbro, che non voleva darsi per vinto, vendette diverse case per sostener le spese e non badava a spendere; ma l'altro ungeva sempre le ruote, e ogni momento rinfrescava la memoria dei giudici e del presidente a forza di rotoli di belle doppie d'oro sonanti e, naturalmente, vinse. Il Principino, vedendo i gran sacrifizi fatti dal fabbro per lui, lo pregò e lo supplicò di non continuare la causa. - Lasci che mi metta a lavorare in qualche modo per rifarla delle spese incontrate per me, - gli diceva - ma rinunzi a far valere i miei diritti. Io non posso permettere che lei vada in rovina, continuando una lite che l'abate saprà sempre vincere perché dispone di tanti mezzi. - In queste cose non t'ingerire. Io ho una figlia sola e la sua dote è assicurata. Di quel che ho guadagnato con le mie braccia sono padrone di fare quel che voglio, e intendo di continuare la lite, dovessi rimetterci anche la camicia. Lasciami pensare al mezzo di richiamare al dovere questi giudici comprati dall'abate, e poi.... - II Principino intanto si struggeva dalla pena, non perché desiderasse le ricchezze, ma perché, andandone al possesso avrebbe potuto rendere al fabbro tutto quello che aveva speso nella lite. S'accorgeva bene che in casa avevano limitato le spese, che la moglie aveva impegnato l'oro, che nessuno si faceva più un vestito nuovo. E tutto perché ? Per quel processo che non finiva mai. Una notte il Principino non poteva dormire, agitato da mille pensieri, uno più doloroso dell'altro. A un tratto esclamò : - Madre mia, aiutami tu, non permettere che il tuo figlio non possa sdebitarsi con questa brava gente che lo ha raccolto povero, estenuato dalla fame e che per lui ha fatto tanto ; madre mia, aiutami ! - II giovane Principe, dopo questa invocazione, sentì una manina delicata accarezzargli la fronte e una voce debole debole e lontana lontana, disse : - Figlio mio, nessuno ti può aiutare, se non il re di Spagna. Lui solo ti può far rendere giustizia. Figlio mio, abbi dunque pazienza, costanza e fermezza ! - La voce tacque, ma, il giovane Principe si sentì consolato, e ogni volta che parlava col fabbro (sempre parlavano della lite, perché, si sa, la lingua batte dove il dente duole) gli ripeteva : - Nessuno ci può aiutare, se non il re di Spagna. Lui solo ci può far rendere giustizia. Ci vuoi pazienza, costanza e fermezza ! - II fabbro, a forza di sentir questo, si convinse che, di fatto, il Re solo poteva far rinsavire i giudici e, zitto zitto, di nascosto anche alla moglie, vende un' altra casa e le annunzia che deve partire per certi suoi affari. Invece s'imbarca per la Spagna, sbarca a Barcellona, piglia pratica alla Sanità e se ne parte per Madrid. A palazzo non conosceva nessuno e non era vestito come le persone di Corte ; per questo tutti lo sbirciavano con disprezzo, ma egli non ci badava. Era giorno di udienza e il Re riceveva tutti. Dopo lungo aspettare il fabbro fece passare l' ambasciata al Re, disse che veniva da Palermo e fu ricevuto. Appena alla presenza del Re, che era nientemeno che Carlo V, disse, gettandosi in ginocchio : - Maestà, grazia per il principe di Cattolica ! - Il Re lo guardò maravigliato perché non pareva davvero un Principe, e lo invitò a rialzarsi ed a parlare. Il fabbro allora cavò fuori tutte le carte che comprovavano le ragioni del Principino e le copie delle sentenze. Il Re, senza indugio, le esaminò, chiamò un suo giureconsulto a esaminarle, poi un altro ancora, e vedendo che si commetteva a Palermo certe nefandezze, esclamò : - Povero me, come sono ben servito ! Così si amministra in Sicilia la giustizia in mio nome ? - Proprio così, Maestà, - rispose il fabbro - soltanto chi ha quattrini ha ragione, anche quando commette una sfacciata usurpazione. - Ma questo non accadrà più, - assicurò il Re, e preso penna, carta e calamaio, scrisse una lettera per il Vicerè che doveva esser comunicata ai giudici, la munì del suo reale suggello e consegnandola al fabbro, disse: - Tenete, andate in Sicilia e abbiate fiducia che nessuno oserà più trasgredire agli ordini miei. - II fabbro, tutto consolato e pieno di speranza tornò a Palermo, consegnò la lettera del Re al Viceré, fece riaprire la causa, ebbe di nuovo una sentenza contraria e non se ne curò. Però il Principino se ne afflisse molto, e la notte dopo che fu pronunziata la sentenza, non riuscì mai a dormire. Sempre invocava la madre ed esclamava : - Madre mia, ma la giustizia è proprio morta a Palermo ? Come, non è rispettata neppure la volontà del Re ? Come, dovrò vedere quel perfido abate godersi i beni della mia famiglia e non potrò neppure rimborsare quest'eccellente popolano dei sacrifizi che fa per me? Non vedi, madre mia, che s'è disfatto di tutto quel che possedeva , non vedi che stenta per mantenere tuo figlio ? Non credi che questo sia uno strazio per me ? - L'infelice, dopo questa invocazione sentì un alito freddo sfiorargli il viso e due labbra gelate si posarono sulle sue, e quindi la solita voce affettuosa pronunziò lentamente queste parole : - Figlio mio, abbi pazienza, costanza e fermezza. Io pregherò per te. - E suggellando la promessa con un lungo bacio, si allontanò. Il fabbro sbraitava per la sentenza dei giudici, e tante ne disse che stavano per arrestarlo; ma il Vicerè non lo permise perché aveva nelle mani la lettera del Re e temeva qualche guaio serio. Il Principino, intanto, a tutti gli sfoghi del suo benefattore, rispondeva invariabilmente con le parole della madre : - Ci vuol pazienza, costanza e fermezza ! - Ma che pazienza ! - gridò una volta il fabbro. - Te lo faccio vedere io che cosa ci vuole! - E vende l'ultima casetta che possedeva con la bottega e tutto, e se ne va in Ispagna di nuovo. La moglie, che fino a quel momento non s'era lagnata e le era parso tutto giusto quel che il marito aveva fatto per il Principino, quando vide chiuder la bottega e dovette lasciar la casa, divenne una vipera. - Mio marito è pazzo ! - diceva a chi non voleva sentirla - è pazzo da legare! S'è mai veduto che un padre dia fondo a tutto quello che ha, riducendo la famiglia alla miseria, per far valere i diritti di uno che non è neppur suo parente ? Ecco qui, la nostra Angelina, non per vantarmi, era la ragazza più ricca di tutto il rione, e ora ha appena la camicia ! Chi se la piglierà così nuda bruca ? Nessuno. Ed ella ci rimprovererà sempre di averla sacrificata. - Non lo farò mai, mamma, - disse la fanciulla. - Io sono felice e non mi dispiace punto di non trovar marito. Sto bene così. Non vi pentite di quel che avete fatto per il Principino; io vorrei col mio lavoro, aiutarlo.- Angelina era abilissima nel fare ricami sulla tela, riproducendovi cacce, cortei reali e tante altre cose, che davano un pregio singolare alla biancheria. Ella si mise a lavorare e lavorava per le nobili dame e guadagnava tanto da campare sè e la madre mentre il fabbro viaggiava per la Spagna. Il Principino s'era rimesso a lavorare pure, e così la moglie del fabbro non mancava di nulla. Ecco che il fabbro sbarca a Barcellona, giunge a Madrid e si presenta al Re. - Maestà, il Vicerè di Sicilia ne fece un bel conto della vostra lettera ! - II Re si turbò. - Che sentenza hanno pronunziato i giudici ? - domandò. - Una bella sentenza ! Hanno dichiarato che l' abate ha tutto il diritto di valersi dei beni del principe di Cattolica e che il Principino è un truffatore. E l' abate se la gode nel palazzo e il Principino tira il mantice e suda a battere da mane a sera il ferro sull'incudine ! - Al Re vennero i brividi nel sentir questo. Poi incominciò a gridare e a battere i piedi. Prese la corona e la scaraventò contro il muro dicendo : - Che mi vale questa corona se non sono Re in Palermo ? - Poi prese lo scettro e lo scaraventò in terra dicendo : - A che mi vale questo scettro se non comando nulla in Sicilia e i giudici comandano più di me? - Poi prese il manto d'ermellino e lo strappò tutto, dicendo : - A che mi vale questo manto mentre nel mio Regno mi contano quanto Pulcinella ? - II fabbro, nel vederlo così infuriato, credeva che se la sarebbe presa anche con lui e l'avrebbe mandato a marcire in qualche prigione o a remare su qualche galera. Invece il Re, tutto buono si volse a lui e, mettendogli in mano una borsa piena di doppie d'oro, gli disse : - Andate a Palermo e udrete di gran notizie! - Il pover uomo ringraziò ed uscì lesto lesto. Più presto che potè s'imbarcò su una nave che faceva vela per la Sicilia e con quelle doppie d'oro rabbonì la moglie e levò il Principino da battere il ferro sull'incudine e da limare chiavi e toppe. Ma torniamo al Re. Subito subito fece chiamare un suo fido servitore. - Don Josè, - gli disse - io debbo partire per un lungo viaggio, ma non voglio partire da Re. Qui farete credere che sono all'Escurial a far gli esercizi religiosi e che non voglio esser disturbato, avete capito ? - Maestà, sì. - Procuratemi un vestito da abate, ma vecchio e bisunto, tagliatemi i baffi, fatemi la chierica.... - Don Josè credeva che il Re fosse impazzito. - Presto, don Josè, andate e stasera portatemi il vestito che v'ho chiesto. Non vi movete? Sono o non sono il rè di Spagna, d'Aragona, di Castiglia, di Leone, di Sicilia e del Nuovo Mondo ? Il discendente di Ferdinando e d'Isabella di Castiglia, sono o non sono Carlo V re e imperatore ? - Sì, Maestà, siete il più potente sovrano del mondo e sui vostri domini non tramonta mai il sole; ma appunto per questo, mi pare che l' etichetta richieda che il Re ne' suoi viaggi sia accompagnato.... - Al diavolo l' etichetta e tutto il resto, obbedite ! - E don Josè obbedì e la sera stessa portò il vestito da abate al suo Sovrano e dovette tagliargli i fieri baffi, la barbetta prepotente e col rasoio fargli una bella chierica nel centro della testa. Così trasformato il Re uscì dal Palazzo Reale di Madrid senza esser riconosciuto da nessuno, montò un ronzino, procurategli pure da don Josè e su quello pian piano percorse solo le strade maestre del suo Regno, accorgendosi che molte cose andavano male, che molte altre non erano come gli davano ad intendere ministri e cortigiani, e s' imbarcò finalmente a Barcellona. Una burrasca gettò la nave sulle coste di Trapani, dove il Re comprò un mulo e su quello si avviò alla capitale dell' isola. Ma se le cose andavano male in Ispagna, andavan peggio in Sicilia. Strade non ce n'erano, le campagne erano incolte e deserte, e il Re fu fermato tre volte nel viaggio dai malandrini. I primi gli presero la borsa con le monete d'oro, i secondi il mulo, i terzi, non potendo prendergli altro, gli levarono le scarpe con le fibbie d' argento, il mantello e l'abito talare, cosicché dovette fare il viaggio a piedi e scalzo e senza nulla che lo riparasse dal freddo e dalla pioggia. Figuriamoci che umore avesse quando pose finalmente il piede nella sua fedele città di Palermo. Se gli fosse capitato davanti il Vicerè che governava in suo nome, lo avrebbe per lo meno mandato alla forca. Fortuna che sapeva l' indirizzo del fabbro e andò a trovarlo! Il brav'uomo lo riconobbe subito e lo ristorò, lo calzò e lo vestì, altrimenti il Re sarebbe morto di fame ne' suoi felicissimi Stati. Il fabbro tempestò, fece l'ira di Dio perché di nuovo il Tribunale discutesse la causa e la discusse. Il Re quel giorno era nell'aula vestito da misero abate. A. un certo momento s'accorse che un giudice faceva una soperchieria, e pian piano disse : - Ma perché, signor giudice, non usate giustizia? - Ah, padre abate, occupatevi dei fatti vostri ! Se non ve ne andate, vi tiro il calamaio ! - II Re non voleva altro. Si sbottona la tonaca, si apre il colletto della camicia e fa vedere il Toson d'oro. I giudici rimasero come morti. - Giudici infami, - esclamò il Re drizzandosi - così vendete la giustizia ? Ordino e comando che subito questi cinque furfanti siano legati alle code dei cavalli e trascinati per la città. Voglio che il popolo veda che le loro ingiustizie, le loro infamie non sono approvate dal Re. - Subito questi giudici furono presi, legati alle code di focosi cavalli, trascinati per le strade e in un battibaleno erano bell'e morti. Poi furono squartati, scorticati e con la pelle dei giudici il Re fece fare tanti seggi e su questi seggi ordinò che sedessero sempre i giudici quando dovevano giudicare e condannare, perché non dimenticassero quel che era capitato ai loro predecessori. Il perfido abate perdette la causa e finì la vita in una prigione, e il Principino fu reintegrato nei suoi titoli e nei suoi beni e per riconoscenza sposò Angelina, la figlia del fabbro. Il Re fece alla sposa doni sontuosi e volle che le nozze fossero celebrate nella cappella Palatina, nel Palazzo Reale. Il Vicerè, poveretto, la passò brutta e così tutti i funzionari che governavano l' isola a nome del Re, il quale, facendo giustizia, si acquistò l' amore e la riconoscenza dei Siciliani. Il principe di Cattolica gli fece fare una statua che fu messa di fronte alla casa del presidente Airoldi nel Vicolo degli Agonizzanti. Il vicolo prese il nome di Cortile del Re, e la strada per la quale furon trascinati i giudici rei, fu chiamata la Calata dei Giudici e così si chiama ancora. Angelina e il Principe furono felici e contenti e lei fu Viceregina e il Principe Vicerè dell'isola per anni e anni.

Pagina 205

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679332
Praga, Emilio 1 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Una sedia coperta di paglia stava al posto del tavolo da notte, coll'inevitabile bicchier d'acqua e il mazzo dei zolfanelli; in faccia al letto, sotto la finestra, un tavolino quadrato con una gamba più corta delle altre, pareva un ballerino nell'atto di spiccare la pirouette; una fila di quadretti coprivano in simmetria le pareti bianchissime: sotto i vetri punzecchiati dalle lentiggini delle mosche, riconobbi il Crisostomo, San Filippo abate, San Luigi Gonzaga, - litografie colorate con toni azzurri e rossi crudi e duri come gli scheletri che si trovano nelle sabbie dei tropici - brava gente che certo faceva le meraviglie di veder quel letto vestito a nuovo e me beatamente distesovi sopra. Non era quella la camera che il curato offriva agli scalpellini ed ai mulattieri; non tardai a persuadermi che per me si era scelto il locale delle grandi occasioni, in cui chi sa da quanto tempo nessuno aveva dormito. Ne può essere prova l'anedotto innocentissimo che mi piace contarvi, benchè affatto estraneo al soggetto. Prendo anzi quest'occasione per ripetere ch'io qui non scrivo un romanzo col suo principio, col suo mezzo, col suo fine, colle sue cause, il suo sviluppo e le sue conseguenze, e tutte le belle cose che si leggono nei trattati di estetica; ma bensì raccolgo impressioni di scene e di fatti, sensazioni di luoghi e di persone in cui mi sono scontrato e che, per un mero effetto del caso convergeranno, se mi si presta attenzione, a far cornice utile se non anche necessaria al soggetto doloroso che è la ragione di essere di questo studio. Mi ero dunque coricato e riandavo col pensiero, già ondeggiante nell'atmosfera magnetica che precede il sonno, i casi della giornata. Macchinalmente i miei occhi erano fissi alla finestra chiusa, dalle fessure della quale penetrava un pallido bagliore di luna. D'improvviso mi parve che qualche cosa si movesse sul tavolino sottoposto, qualche cosa di nero, un volume o una scatola. Concentrai l'attenzione, trattenendo il respiro, e ... un sudore freddo mi coperse dal capo ai piedi; era un berretto da prete che dondolava, che s'inchinava, che saltellava diabolicamente. Mi rizzai senza volerlo; il berretto, come se mi avesse veduto o sentito, si arrestò; riposi la testa sul guanciale, il berretto si diè a ballare di nuovo. Bisogna ch'io confessi che ho la disgrazia di credere a una quantità sterminata di cose a cui la maggioranza degli uomini non crede; e voi sapete l'influenza della solitudine sugli spiriti inclini al soprannaturale. A quell'epoca non avevo ancor letto Edgardo Poë, ma avevo già tutti sognati i sogni di quell'anima infelice; e quell'amore pieno di voluttuoso sgomento che mi lega adesso al poeta dell' Inesplicabile mi avvinceva già, inconscio, al mondo tenebroso delle sue scoperte. Quel berretto magico che mi aveva atterrito, cominciavo a osservarlo, col capo quasi sepolto nelle coltri, collo sguardo immobile, col respiro represso, eppure con una sorta di godimento che somigliava a quello che prova il naturalista quando, frugando nelle roccie, gli vien dato di scoprire una specie rara d'erba o di minerale. Ballonzolando capricciosamente, a furia di piccoli sbalzi, il berretto era giunto sull'orlo del tavolo, e il fiocco, traboccatone, penzolava, coll'ondeggiamento monotono e regolare di una campana. Allora mi parve di udire ancora i rintocchi della dell'agonia della Gina, e di veder la giovane morta distesa attraverso la camera. L'eccessiva stanchezza, gli avvenimenti impreveduti danno - coll'aiuto di una materassa di piume, - di così fatte allucinazioni. Il pallore di quella faccia, rovesciata sulle spalle, illuminava le pareti; gli occhi, coperti di un velo diafano, come se i ragni vi avessero filato di sopra, spalancati e pieni di stupore, scintillavano fiocamente; del corpo, sepolto nella penombra, non scorgevo che indistintamente i contorni. A poco a poco svanirono del tutto, quasi assorbiti dalla oscurità: ma, in compenso, il lume del viso cresceva. Io l'affisava senza batter ciglio, per tema che, abbandonandola solo un minuto secondo, la visione dovesse sparire. La contemplazione indefessa la incatenava; ma fra essa e i miei occhi passavano dei globi e delle striscie di fuoco. Cominciavo a sentirli di soverchio stanchi, e già anche la faccia del cadavere si scioglieva: non ne restavano che due scintille sotto le palpebre; ma quelle due scintille (mi toccai per accertarmi che non sognavo) quelle due scintille non erano una illusione, quelle due scintille esistevano, quelle due scintille erano occhi veri, due occhi oscuri che mi guardavano, che mi guardavano fissi fuor da quel berretto infernale! ... Balzai nel mezzo della stanza e nello stesso tempo ... diedi in uno scroscio di risa. Il berretto rotolò per terra, e il più leggiadro topolino del mondo mi passò tra le gambe. - Ecco uno, pensai, ricacciandomi fra le coltri, uno che ha avuto più paura di me. E spento il lume, e mormorato come il bramino: Tutto non è che ombra vana! mi addormentai per non risvegliarmi che a mattino inoltrato.

STORIA DI DUE ANIME

682506
Serao, Matilde 1 occorrenze

Qual Maresca, mai, avrebbe osato fare la statua di sant'Antonio abate, l'austero penitente della Tebaide, senza mettergli accanto, in segno di umiltà, o, in segno della tentazione vinta, la testina di un maialetto? Qual mai Maresca avrebbe tentato di fare una santa Lucia, senza metterle, nella mano destra, la piccola coppa di argento ove nuotano i suoi due occhi, ed ella vede, intanto, vede coi suoi stellanti occhi aperti, sotto la bianca fronte? Qual mai vero e schietto pittore di santi, venuto da una lunga discendenza di pittori, avendo ereditato tutti i dettami più assoluti della sua arte, avrebbe tentato di non mettere la piccola santa Barbara fra le folgori e le saette di argento o di metallo argentato? Tutto ciò era parto della coscienza dell'artefice: come l'azzurro degli occhi di san Giovanni Evangelista, colui che dormì sul petto di Gesù, come il fulvo dei disciolti capelli di Maddalena, come il roseo delle guance di Maria Egiziaca, come la barba a punta di san Francesco d'Assisi. Forse, Domenico Maresca, nel suo amore alla sua arte, aveva letto un po' minutamente la Vita dei Santi e sapeva qualche cosa di più, di diverso, di quanto conosceva suo padre e suo nonno, e, forse, talvolta, egli aveva trovato la storia della religione assai differente dalla tradizione popolare. Ma a che cangiare nulla del passato, poichè anche la religione diventava una cosa del passato, oramai, e il vivo amor della fede fioriva, pur troppo, solo nel popolo? Già suo nonno si lagnava della tiepidezza, della indifferenza, in materia di amor divino, poichè eran finiti i trasporti entusiastici dei ricchi, per avere una bella cappella in casa, con sontuose e artistiche statue dei santi protettori; eran finite le donazioni fatte generosamente alle chiese più amate e più protette dai ricchi, che le dotavano delle più belle immagini; eran finite le larghe elemosine, per cui curati e parroci potevano ornare la loro chiesa prediletta di qualche statua vestita maestosamente, adorna con ori e con argenti. Il culto deperiva: sovra tutto, declinava alla ristrettezza, alla economia, alla fredda parsimonia, il denaro che, un tempo, si offriva generosamente al culto. Il padre di Domenico, si lamentava anche più del nonno: anche quelli che ne avevano obbligo morale, vescovi e monsignori, anche quelli che avean fatto un voto, tutti lesinavano sopra la croce di argento che Gesù tiene sul globo, stretto nella sua manina, sul piedistallo da darsi a san Ciro, sulle frecce coperte di acciaio che avevan trafitto san Sebastiano. Le discussioni, lira a lira, soldo a soldo, facevano pena: nessuno amava più Dio, veramente, nessuno aveva più, per la Madonna, quella tenera adorazione che si deve avere per la madre di noi tutti, per la Madre delle Madri. Vi eran voluti trent'anni di fatiche, per accumulare quelle poche migliaia di lire, da lasciare a suo figlio Domenico; e le aveva riunite, perchè era stato sempre riservatissimo, austero, colpito presto da una tristezza sentimentale, di cui non parlava mai, schivo di qualunque piacere, timorato del Signore, consacrandogli segretamente il suo cuore, vedovo di un amore perduto. A che, dunque, sarebbe servita la maggior coltura di Domenico, e le sue idee più larghe, se non a guastare il suo mestiere, le cui condizioni economiche non poteano che peggiorare, fra la crescente miseria dei tempi e il crescente distacco dal culto, di tutte le persone che poteano spendere? Forse Domenico, in cui, quasi, parea che rivivesse, talvolta, il suo bisavo, don Ferdinando Maresca, il creatore dei pastori d'arte, avrebbe tentato qualche novità: ma timido, esitante, di una volontà molle, si lasciava andare alla vecchia tradizione, senza mai uscirne. Solamente, si era informato, a tempo, delle nuove forme sotto cui si venerava la Madonna, come erano fatte, cioè, la Madonna della Salette, la Madonna di Lourdes, la Madonna di Pompei, come si riproducevano, in quali vesti, con quali attributi, con quali ornamenti: qualche santo era risalito in onore, nel culto terreno, così, improvvisamente, sant'Antonio di Padova, per esempio, san Francesco di Paola, san Filippo Neri: ed egli aveva fatto anche qualche viaggetto, per vedere le statue antiche, quelle originali, o quasi originali, che potevano essere, persino, dei ritratti. Non era e non poteva diventare, quindi, un novatore, Domenico Maresca, il pittore dei santi, anche se qualche lieve movimento di libertà gli fremesse, qualche giorno, nell'anima, contro le vecchie goffaggini, contro certe bruttezze innegabili, contro certi anacronismi del mestiere: ma era un artefice pieno di coscienza, preciso, scrupoloso. La sua reputazione era così buona che, ad onta di tutto, i suoi affari prosperavano. Specialmente per le chiese di provincia, nei dintorni di Napoli e più in là, dalla bottega di Domenico Maresca partivano gli Ecce-Homo , i san Luigi Gonzaga, i san Catello, i san Matteo, in grandi casse, imballati accuratamente, come oggetti fragili e preziosi. Oltre lo sciancatello, Nicolino, egli aveva dovuto prendere un giovane stuccatore e doratore, Gaetano Ursomando, un venosino, venuto a cercar pane dalla sua povera Basilicata. Oltre che il suo mestiere, cui dava tutto il suo tempo, Domenico Maresca amava anche la Divinità. Certo, non di un amor mistico ardente, ma con un rispetto interiore e un timor vago, restatogli dall'infanzia, venutogli dal padre che era religiosissimo. Non frequentava molto le chiese, per pregarvi: ma vi entrava, per parlare coi parroci, nelle sacristie, con un senso di riverenza muta: ma, diceva, talvolta, scherzando, che tutte le statue dei santi, inviate in tante chiese e chiesette, in tante case di persone divote, pregavano per lui, peccatore, e che, quindi, egli aveva degli avvocati, in Paradiso, assai possenti, oltre la Grande Avvocata, la Madonna, che egli aveva cento volte riprodotta, sempre bella, sempre dolce, sempre soave. Egli stesso, però, come suo padre, faceva una vita molto castigata, molto seria, anche per necessità di mantenersi fedele la clientela: giacchè un pittore di santi, frivolo, scialacquatore, vizioso, sarebbe tale una singolarità da far fuggire tutti i preti, tutti i sagrestani, tutte le pinzochere, che sono la base della sua clientela. Era ritenuto virtuoso; la gente gli attribuiva più danaro di quello che egli possedesse e aveva ricevuto varie profferte di matrimonio; si era ricusato, egli, così impacciato e così dubbioso, in tutte le cose che non fossero l'arte sua, si era rifiutato recisamente. La sua vecchia serva, Mariangela, che viveva in sua casa da trent'anni, prima della sua nascita, approvava. Egli viveva scapolo, solitario, casto e spesso pensoso, spesso triste. In quel pomeriggio d'inverno, nella piccola via annottava prima delle cinque. E Domenico Maresca, a cui premeva assai di lavorare intorno al suo san Michele, domandato con grandi insistenze dal parroco di Atripalda, dalla commissione, dal sindaco, da quanti avevan messo insieme il denaro, per avere un san Michele nuovo, loro protettore, aveva fatto accendere da Nicolino, il ragazzo, due grandi lumi a petrolio che avevano, dietro, un riflettore di latta, per raddoppiare la loro luce: e lui e il doratore di Venosa, lavoravano, uno davanti al santo, uno dietro, in silenzio, un po' curvi sotto i berretti bianchi di carta, con le larghe bluse azzurre tutte macchiate di bianco, di giallo, di rosso, di oro, di argento. Faceva molto freddo, fuori: non lì dentro, ove essi stavano dalla mattina: piuttosto, lì dentro, i cattivi odori delle tinte si eran fatti più forti, più densi, poichè non si mutava l'aria. In quella grossa giornata di fatica, malgrado l'abitudine, quelle puzze finivano per stordirli, con la testa pesante e vuota. Domenico Maresca, più pallido del consueto, e il venosino quasi verdastro nel suo bruno colore di contadino, strappato alle aride terre di Basilicata. Qualcuno fece stridere la maniglia per entrare. - Buona notte, a Vossignoria - disse una voce di donna. - Buona notte, donna Clementina - rispose Domenico, senza distrarsi dal suo lavoro. Colei che era entrata, era una donna sulla quarantina, ma che sembrava molto più vecchia, coi suoi capelli grigiastri mal pettinati, con la sua faccia oscura piena di rughe e le labbra di un viola pallido. Era vestita poveramente, con uno scialle nero stretto sul collo e sul petto, che mal la doveva difendere contro il freddo: si trascinava stancamente, e cercò, subito, una delle due o tre sedie: vi si gettò sopra, con un sospiro dolente. - Che ci dite di bello, donna Clementina?- chiese il pittore, senza levare la testa dal lavoro, adoperando la frase curiosa e convenzionale del popolo. - Niente di bello, don Domenico mio, proprio niente. Tutte cose brutte. Miseria, malattie e disperazione. Non ne posso più. E la voce triste e roca le si soffocò nella gola. Gittata su quella sedia, la donna così mal vestita e sudicia, così pallida e sfinita nell'aspetto, pareva uno straccio umano. - Non vi scoraggiate, donna Clementina - mormorò vagamente Domenico, a cui quei lagni non eran nuovi, ma che lo commovevano sempre. - Dite bene, voi! Avete un'arte nelle mani, che Dio ve la benedica, la fatica non vi manca, qualche soldo da parte lo avete, siete solo: dite bene! Sapete quanti figli ho, io? Sei! E fra tre mesi sono sette. Sapete il più grande, quanti anni ha? Dodici! E il più piccolo, un anno. Ogni mattina e ogni sera queste sei bocche si aprono per mangiare, don Domenico mio, e hanno una fame, una fame! - E vostro marito che fa? - Che ha da fare, poveretto! Sta col sediario della chiesa della Pietrasanta, che lo tiene con sè, proprio per carità, dice lui, e intanto il sediario guadagna cinque o sei lire al giorno, quando non è festa, e una ventina di lire, la domenica, per l'affitto delle sedie. Pasquale mio piglia quindici soldi, i giorni di lavoro, venticinque la domenica. E fatica! fatica! Il sediario dovrebbe spazzare la chiesa, lavare i vetri, spolverare tutto, e si scarica su Pasquale mio, mentre egli fa il signore, il sediario e le sue figliuole portano il cappello! - E voi, donna Clementina? - Io? Voi lo sapete che guadagno, io! Il lavoro non mi manca, perchè, non faccio per vantarmi, poche sarte di santi sanno tener l'ago in mano, come Clementina Ascione; e se si vuol vestir bene una santa Genoveffa, un san Ciro, si deve venire da me. Don Mimì, l'anno scorso una veste per un'Assunta, che doveva andare a santa Maria di Capua, la veste e il manto, don Mimì, una bellezza! Ebbene, che ne ricavo? Quando ho messo insieme venticinque, trenta soldi al giorno, è una meraviglia. Si paga poco. Il lavoro non si capisce. Ognuno vuole spendere pochissimi soldi. Voi me lo insegnate. Non vi è più religione: non vi sono più denari. E tutti questi figli, Domenico mio! Ogni quindici mesi, uno: come se vi mancasse la razza della pezzenteria, in questo mondo: come se vi mancasse gente, per perpetuare la miseria. - E che ne fate, di tutti questi figli? - Eh, i più grandi badano ai più piccoli. Qualcuno va alla scuola pubblica; dicono che non si paga, eppure qualche soldo ve lo tirano sempre. Il primo sta col sacrestano della Rotonda, che gli dà da mangiare, un piatto caldo, ma neppure un centesimo. Don Domenico mio, voi siete un signore, ma ascoltatemi bene, non vi maritate mai! - E voi, perchè vi siete maritata? - disse, con un fiacco sorriso, il pittore dei santi. - Che volete, fu una stupidaggine! Io ero stata sempre ragazza di chiesa, mi chiamavano la bizzochella, mi volevo fare conversa a Regina Coeli e poi monaca, se ne ero degna: il Padre Eterno non mi ha voluta. Io vidi Pasquale, Pasquale vide me, non avevamo un soldo, nè io, nè lui, salvo la gioventù, la voglia di lavorare e la religione. Ah che sbaglio, che sbaglio! Non vi ammogliate, don Domenico, vi parlo come una madre. Egli tacque, pensoso. Da qualche momento non lavorava più, vinto, forse dalla stanchezza, da quel peso sulla testa che faceva vacillare, talvolta, il suo cranio troppo grosso. Si appressò alla sarta dei santi, così querula nella sua onesta e laboriosa miseria, così disfatta dalla sua esistenza, e le chiese: - Mi avete, poi, portata la veste di santa Rosalia, col manto? Io ho da mandarla a Palermo, santa Rosalia, a un monsignore. - Non l'ho potuta finire, don Domenico mio - mormorò ella, a voce bassa. - Questa giornata ho avuto tali e tanti malanni addosso, con questa gravidanza, col mio Gaetanuccio che ha la tosse convulsiva e, certo, la darà agli altri. Domani sera ve la porto, don Domenico. Solamente... questa sera... voi mi dovete aiutare... - E abbassò ancora la voce, vergognandosi di quella faccia verde e chiusa del basilisco Gaetano Ursomando, che seguitava a tirar fuori l'argento sulla corazza di san Michele. - ... anticiparmi cinque lire. - Io vi ho abbastanza anticipato, donna Clementina - le rispose, anche a voce bassa, freddamente, ma senza durezza, il pittore dei santi. - È vero, è vero, avete ragione, chi può negarvelo? Ma io sconterò tutto, ve lo giuro! Ne dovete fare Madonne, voi, don Domenico, e io vestirle, e, tutte belle, da far restare meravigliati tutti i divoti! Io sconterò tutto; ma, stasera, non mi abbandonate, datemi quest'altro anticipo, e poi faremo i conti. Ho da far la cena a sei figli e comprare la medicina per Gaetanuccio. Se mi fate questo favore, io vado da don Carluccio, qua, in piazza, e il pover'uomo, malgrado i suoi guai, mi fa risparmiare... - Voi andate da don Carluccio, il farmacista? - chiese, dopo una esitazione, Domenico Maresca. - Già. È pieno di tristezza, anche lui, perchè nessuno ne manca. Ma quando mi vede, siccome mi conosce, da tanti anni, ed io conosco lui, che era giovane e ricco, oh tanto ricco, così mi fa risparmiare qualche soldo! - Ha tanta tristezza? Era molto ricco? - Avevano carrozza e cavalli, i Dentale! Tenevano una grande fabbrica di medicine, fuori Napoli, verso san Giovanni a Teduccio: e don Carluccio sposò un'altra Dentale, sua cugina, per non fare uscire le ricchezze dalla famiglia. Che sfarzo, quel matrimonio! Io era ragazza, allora, e abitavo dirimpetto al loro palazzo e mi chiamarono su, in cucina, ed ebbi pranzo, e due gelati, e confetti! E quando nacque Anna! Che battesimo, don Domè! Solo il vestito di ricamo della bambina, valeva trecento lire. Chi glielo avesse detto, a donna Nannina, quel che le doveva succedere! - Voi la vedete, qualche volta, la signorina Anna? - soggiunse, con voce velata, Domenico. - Raramente. Che volete, era ricca, è diventata quasi povera, e non se ne può capacitare. Non parla, non si lagna, non versa una lagrima, ma io so che ne patisce moltissimo. Aveva già dieci anni, quando cominciarono i cattivi affari. Essa capiva tutto. Fu un seguito di disgrazie; a quindici o sedici anni, vi fu il fallimento, e Anna vedette morire sua madre di un tifo, una malattia nella testa, venutale pel dispiacere. Così, a poco a poco, venduto tutto, padre e figlia si sono ridotti, anni fa, con qualche migliaio di lire, in questa farmacia, e ora sono pieni di debiti, sempre, e non possono andare avanti, perchè non hanno capitali, e la farmacia è quasi vuota di medicine... - Poveretta... poveretta! - disse Domenico a occhi bassi. - Sì, poveretta, proprio lei, perchè fino adesso, almeno, ella stava sola sola, al terzo piano, in un quartino del palazzo Angiulli, e lì lavorava, in segreto, non uscendo quasi mai, vergognandosi di uscire, non avendo vestiti nuovi, perchè donna Nannina è molto superba. Adesso, nientemeno, il padre la vuole far scendere in farmacia, a vendere, e lei non vuole, non vuole... - Ha ragione! Ragione, don Domè? Quando vi sono guai, bisogna fare tutto. Don Carluccio non può più pagare nè il commesso, nè il contabile: d'altronde, donna Nannina è una bella giovane... - Voi che cosa dite, donna Clementina? - Eh già, dico questo, che, senza peccato, una bella giovane può stare al pubblico, anzi tira gente e può trovare anche un buon partito... - Queste sono le cinque lire - replicò don Domenico. asciuttamente, troncando il discorso. La verbosa sarta dei santi lo guardò, un po' stupita, prendendo il danaro. Sentiva di aver detto qualche cosa di spiacevole, ma non comprendeva che cosa. Si levò. con uno sforzo. Don Domenico era tornato presso la statua di san Michele, ma non aveva ripresa la stecca. - Tante grazie, don Domenico: Dio vi deve benedire, in ogni cosa che desiderate. Domani sera, vi porto la veste di santa Rosalia... - Va bene, buona sera. - Buona sera, buona sera. Uscita donna Clementina, il pittore dei santi girò due o tre volte per la bottega, così, come se cercasse qualche cosa che non trovava. Il mal odore della creta, delle biacche, dei colori, si era fatto anche più opprimente. - Io apro un poco: non importa che fa freddo - disse, come fra sè. Uscita donna Clementina, il pittore dei santi girò due o tre volte per la bottega, così, come se cercasse qualche cosa che non trovava. Il mal odore della creta, delle biacche, dei colori, si era fatto anche più opprimente. E schiuse la porta; la lasciò spalancata; uscì sulla via. Involontariamente, mentre faceva due o tre passi, avanti e indietro, quasi non sentendo il freddo acuto di tramontana che aveva persino disseccato l'umido della piccola strada, i suoi occhi si levarono, in alto, verso la gran muraglia del palazzo Angiulli, laterale alla chiesa della Madonna dell'Aiuto. Ivi, quattro linee di finestre e di balconi si sovrapponevano; alcuni illuminati, altri no, il secondo piano tutto chiuso e sbarrato, poichè la vecchia principessa di Santa Marta, quell'anno, non era tornata da Turi, in provincia di Bari, dove i suoi coloni si negavano di pagare i fitti, ed ella era restata in provincia per vessarli, per perseguitarli. In verità, gli occhi di Domenico erano fermi a un balconcino del terzo piano, balconcino illuminato fiocamente, come da una lampada velata. Ma niuno appariva dietro i cristalli, in quella gelida sera d'inverno. Un'ombra oscura di donna, venendo dai Banchi Nuovi, con passo leggiero, ma un po' lento, sfiorò il pittore dei santi: la persona si fermò. - Buona sera, Mimì. Era una voce assai tenue, ma musicale, quasi cristallina, nella sua tenuità. Un viso bianco, appena, si distingueva, nella cornice di uno scialle, di un cappuccio bruno. - Buona sera, Gelsomina. - Che fai, qui, a quest'ora, Mimì?- chiese la piccola voce, un po' cantante e così limpida. - Prendo l'aria. - Con questo freddo? - Dentro, vi è cattivo odore, ho lavorato troppo, oggi. E tu, dove vai? - Vado alla Congregazione di Spirito. Vi è la novena della Immacolata. - Ti vuoi fare santarella, Gelsomina? - Oh no!- disse la soave voce, con un profondo sospiro, pieno di rimpianto, pieno di rammarico. - E perchè no? - Perchè ... perchè ... perchè! - soggiunse la donna, la giovine, con un accento enigmatico, pieno di malinconia. - Di' una preghiera, per me, Gelsomina - replicò Domenico, facendo per rientrare nella bottega. - La dico, la dico. Buona sera; dopo la Congregazione, Mimì, vengo a darti la buonanotte. E la figurina di donna se ne andò, col suo passo lieve ma rapido, verso il portoncino della Congregazione di Spirito, vi sparve. Il pittore dei santi era rientrato in bottega, aveva chiuso la porta, e come ristorato dall'aria fredda bevuta, fuori, aveva ricominciato a lavorare, assiduamente, intorno al suo san Michele. Il taciturno stuccatore, accanito alla fatica, appena levava il capo, mentre le sue mani sozze di biacca, di colori, di argento, andavano, andavano, sopra le scaglie rotonde dell'armatura del cherubino. Quasi un'ora passò, in un lavoro muto e assiduo, senza che nulla e nessuno venisse a disturbare il pittore dei santi e il suo compagno di lavoro. Erano, forse, le sette, quando stridette di nuovo la maniglia della porta, e la vetrata, aprendosi, lasciò il passo a un uomo, che, subito, richiuse cautelatamente la porta. - Buona sera, signor Maresca. - Buona sera, signore. Il nuovo arrivato non si avanzava, fermo innanzi alla vetrata chiusa. Era un uomo di circa quarantacinque anni, con un volto che aveva dovuto esser molto bello e molto nobile, ma che portava le tracce di appassimento precoce, di una sfioritura dovuta, certo, ai piaceri o ai dolori, e forse ai piaceri e ai dolori, insieme, di una esistenza agitata e febbrile. Un viso consunto, infine, coi neri capelli tutti brizzolati sulle tempie: una piega di silenzio amaro, ai due lati della bocca. Alto, ben fatto, quell'uomo appariva già un po' curvo, e le sue mani, guantate con eleganza, si appoggiavano sovra un bastone dal pomo di argento, con una certa stanchezza. Egli era chiuso in una pelliccia, molto ricca, e tutto l'insieme denotava il gentiluomo, specialmente la nobiltà persistente dei lineamenti sciupati. Domenico Maresca, che lo doveva conoscere e che doveva, anzi, sapere bene lo scopo di quella visita, comprese anche che il gentiluomo non voleva inoltrarsi nella bottega: lo comprese pure dallo sguardo inquieto e sospettoso, che l'altro aveva volto verso lo stuccatore di Basilicata. Allora, il pittore dei santi si accostò al gentiluomo, presso la porta, e, in piedi, a voce bassissima, smorzando le parole, avvenne il seguente dialogo: - Io sono venuto, signor Maresca, per quella faccenda. - Sta bene, signor duca. Sono a voi. - Fatemi il piacere di non darmi il titolo - replicò subito il gentiluomo, soffocando un moto d'irritazione. - Io sono un divoto, niente altro. Che mi dite, per la mia statua? - Io non posso cominciare il lavoro che fra tre mesi. - E perchè? - Il perchè, l'ho già detto, signor... l'ho detto l'altra volta. Ho impegni, per tre mesi, per statue piccole e grandi. Sono solo, al lavoro: non mi posso fidare di nessuno. Questo qui è semplicemente uno stuccatore... - La statua mia, la voglio da voi. - Anche! - Il doppio? - Ho promesso ad altri, debbo mantenere - mormorò Domenico Maresca, crollando il capo. E perchè tanta fretta? - È un voto - disse misteriosamente, a occhi bassi, il gentiluomo. - Capisco. La Madonna, però, vede, capisce, sa, e si ricorda. La vostra intenzione le è nota. Ma se volete onorarla veramente, se volete avere una cosa molto bella, bisogna che aspettiate. - Sicuramente. La vostra Madonna è lì. E fece un cenno con la mano, alle sue spalle. - Dove? - Là. Domenico Maresca indicò la colossale statua, completamente ed ermeticamente chiusa nel grande panno bigio, di cui si distingueva solo la massa informe, ma nessuna linea. Il gentiluomo fece un paio di passi nella bottega, come a veder meglio: ma restò con gli occhi fissi su quella parete, ove la gran forma celata si rilevava. Era assorto. - Mi pare piccola - disse, poi, lentamente, senza distogliere gli occhi. - Sono le vostre misure. - Sì, ma è piccola... - Piccola? Ma in quale chiesa deve andare? - interruppe il pittore dei santi. - Questo, non debbo dirvelo - rispose seccamente il gentiluomo. - Dite che sono le mie misure; e vi credo. Forse, l'avrei voluta più grande... - Quella di santa Brigida è assai meno grande... - spiegò l'artefice, non aggiungendo altro, per discrezione. - Credete? Gli occhi s'ingannano. E non si può vedere? - Che vorreste vedere? Nulla è fatto. Fra tre mesi: vi ripeto. - Ho compreso, ho compreso. Ma, intanto, avete dato gli ordini per la veste ricamata? - Sì, di questo mi sono occupato. Ho cercato di averla dai fratelli Rota, anche pagando bene, poichè mi avevate dato carta bianca; ma i fratelli Rota hanno tutte le loro ricamatrici già prese per altri due o tre mesi, per lavori di pianete, e di altri arredi sacri. Anche qui, bisognava aspettare. Allora sono andato da donna Raffaelina Galante, una ricamatrice che lavora in casa sua, con due sue nipoti, per vedere se fosse libera ... - E lavora bene? - Ricama divinamente. Donna Raffaelina sarà libera fra un mese e acconsente a ricamare, per voi, questa veste e questo manto della Madonna Addolorata. - E quanto tempo vi metterà? - Ce ne vorrà, del tempo: tutto il davanti dell'abito e i due lati del mantello, innanzi, li deve eseguire lei, perchè le sue nepoti valgono meno di lei, come ricamatrici. Le parti di spalla, diciamo così, le affiderà a loro. Domanda sei mesi di tempo. - È enorme! Non l'avrò mai, questa Madonna Addolorata - disse, irritatissimo, il gentiluomo. - Ma una ricamatrice in oro non può far miracoli, anche in onore della Vergine! Avrete una veste e un manto che saranno tutta una schiuma di ricamo. - Sarà... sarà! Io ho tanto bisogno di sciogliere il mio voto! Sul viso consumato del duca s'impresse un sentimento vivissimo di necessità triste, di necessità dolorosa. - E che mi dite del prezzo, signor Maresca? - Per la statua, nulla posso dirvi ancora, ma c'intenderemo facilmente. Per la veste e il manto ho calcolato, così, alla meglio, che ci vorranno un cinquemila lire di oro. - Cinquemila? - Già, deve esser di finissima qualità, mi avete detto. - E le ricamatrici? - Sono tre: lavoreranno sei mesi: non si contenteranno meno di millecinquecento lire. - Benissimo! Avete pensato agli ornamenti, la corona d'argento massiccio, le sette spade, il fazzoletto di merletto? - Vi è tempo, vi è tempo - disse, con un sorriso, il paziente Domenico Maresca. - Io voglio darvi del denaro, intanto - mormorò il fremente gentiluomo, facendo atto di sbottonarsi la pelliccia. - No. Fra un mese. Man mano che servirà l'oro per donna Raffaelina Galante, voi mi darete mille lire alla volta. - Perchè non tutto? - No, non mi piace tenere troppo denaro degli altri, ed è inutile lasciare cinquemila lire di oro, in casa della ricamatrice, che può esser derubata. - Sta bene. Credete dunque, che io possa avere la mia Madonna dei Dolori, per l'agosto? - Lo credo; se non sorgono ostacoli. - La festa dell'Addolorata è in ottobre. Maresca, io debbo avere la statua prima della fine di agosto. Essa deve partire...lontano... Si pentì subito, il gentiluomo, di quello che aveva detto. La sua voce bassa diventò novellamente aspra. - Ricordatevi, Maresca, che voi non mi conoscete, che non mi avete mai veduto. Non voglio aver rapporti con l'argentiere, con la ricamatrice, con nessuno. Tutto passerà per mano vostra. - Sta bene. - Quando vi domanderanno di chi è la statua, che direte? - Io non debbo dire nulla, signore. - Avrete una moglie, una sorella, una innamorata, le racconterete tutto! - Io non ho nessuno - disse austeramente il pittore dei santi - e a mia madre istessa, benedetta anima, nulla narrerei. - Benissimo. Quando la statua sarà finita, io la manderò a prendere, per gente mia. Voi non chiederete nulla a loro, nè donde vengono nè dove vanno. Io vi avrò già pagato. E vi scorderete di aver eseguito questa Madonna, come se fosse stato un sogno; come se mi aveste visto in sogno; voi vi scorderete di tutto. - Sta bene - ribattè il pittore dei santi. - Questo è il mio voto, signor Maresca, - concluse il gentiluomo, di cui le parole, adesso, tremavano, come vinte da una fortissima emozione. - Che la Vergine lo esaudisca - replicò Domenico Maresca, commosso anche lui. - Deve esaudirlo, deve - esclamò, sempre piano, ma con forza, il duca; - se no, sono perduto. - La Vergine non permette che si perda nessuno. - Ma io sono un peccatore, un grandissimo peccatore - disse, con voce spenta, quasi parlasse a sè stesso, il gentiluomo a occhi bassi, pallido, sfinito nelle linee del viso e nella espressione. Egli null'altro aggiunse; dopo una pausa, salutò il pittore e sparve dietro la vetrata che si richiudeva. Dal vicolo di Donnalbina, pochissimo lontano, ove Domenico Maresca aveva conservato il quartinetto di tre piccole stanze, abitato da tanti anni con suo padre, e ove suo padre era morto, Mariangela, l'antica serva, aveva consegnato nelle mani dello sciancatello Nicolino, adibito al servizio della bottega dei santi, la cena del suo padrone. Difatti, sulla tavola, sbarazzata alla meglio di quanto vi giaceva sparso e confuso, distesa una tovaglia grezza, ma pulita, una larga terrina era stata collocata, piena di una zuppa spessa e fumante, di ceci mescolati con la pasta; in un piatto più piccolo, erano disposti due piedi di maiale, bolliti, cibo che Domenico Maresca prediligeva: due mele limoncelle completavano questo pasto, a cui sedettero il pittore dei santi ed il suo aiutante, Gaetano, perchè costui era solo, in Napoli. Domenico, oltre la giornata, dava anche il cibo, obbedendo segretamente a un sentimento fraterno e misericordioso, verso quell'artefice povero e solingo, che portava nel viso e nel cuore tutta la tristezza della sua onesta e povera regione di Basilicata, e che, malgrado il suo umor torbido e taciturno, era un lavoratore esperto, accanito e fedele. I due mangiarono lentamente, in silenzio, con una grossa fame di faticatori che non si erano mai fermati, in otto ore, dal lavoro: a cucchiaiate essi riprendevano la zuppa, mettendola nel loro piattello: ognuno divorò pianamente le cartilagini grigie e bianche che formano un piede di maiale, alternando il mangiare con qualche lungo sorso di vino. Nicolino, paziente, rassettava, alla meglio, la bottega, aspettando di avere la sua parte, negli avanzi. Sempre ne restava, poichè Mariangela abbondava nella quantità, trovando che il suo padrone non aveva mai abbastanza appetito, compatendolo perchè lavorava troppo, perchè faceva una vita troppo rude e malinconica, per la sua età, e sapendo, anche, la provvida serva, che altri doveva pranzare e cenare con lui, con gli avanzi del pranzo e della cena. Oh, le terrine, i piatti, ritornavano assolutamente vuoti, nel vicolo di Donnalbina, ben legati nel grosso tovagliuolo: lo storpio vivace e famelico si occupava di ripulir tutto, col cucchiaio, col pane. Finita la cena, e non più di due o tre frasi erano state scambiate, Gaetano si levò, si tolse la lunga blusa scolorita dall'uso e coperta di macchie, s'infilò una pesante giacchetta sovra un panciotto di lana, a maglia, oscuro, si tolse il tradizionale berretto di carta, si mise un cappellaccio vecchio, e salutò: - La buona notte a voi, don Domenico. - Buona notte, Gaetano. Il pittore dei santi rimase solo col ragazzino. Anche costui, dopo pochi minuti, andò via, per riportare in casa del padrone tutto ciò che era servito per la cena. Domenico Maresca ebbe un momento d'incertezza, come, ogni tanto, gli capitava, quando non si trattava dei suoi santi: ritto in mezzo alla bottega, era assorto in un dubbio, poichè la sua fisonomia esprimeva una pena leggera. - Santa notte, Mimì. - Santa notte, Gelsomina. La donna, la giovine che gli aveva parlato, nell'ombra, nel freddo, in mezzo alla strada, un'ora e mezzo prima, era entrata nella bottega dei santi, col suo passo leggerissimo e molle, un poco. La luce delle due grandi lampade, rinforzata dai riflettori, ne chiariva, adesso, nettamente, la figura. Gelsomina era una fanciulla di diciotto anni; ma nel volto pallido e lunghetto, ove appena appena si diffondeva una sottile tinta rosea, persisteva una espressione infantile, che lo ringiovaniva assai: e nello sguardo ora puerilmente malizioso dei suoi grandi occhi grigiastri, ora un po' smarrito come di bimba sgomenta, in certe mosse della bella piccola bocca, sempre un po' schiusa, dalle labbra un po' sollevate sui dentini bianchi, nelle mosse di capriccio, di noia, di breve dolore, ancora, sempre, la infantilità si manifestava. Gelsomina avea una voglia , al basso di una guancia, presso il mento: un segnetto a forma di cuore che, un po' indistinto, d'inverno, si faceva roseo in primavera e prendeva l'aspetto di quel che era, cioè una voglia di fragola. Qualcuno, per ischerzo, per l'abitudine popolare di mettere soprannomi, la chiamava fraolella , la fragoletta; ma ella s'indignava, i suoi occhi chiari si riempivano di una collera poco temibile, o di grosse lacrime. Credeva che quel segno, quella voglia, le deturpasse il viso: e non voleva che le fosse ricordato, mai. - Io mi chiamo Gelsomina - diceva, fra l'ira e il dolore. Gelsomina aveva, su quel viso ovale e pallido, sulla fronte breve, una massa fine e morbida di capelli castani che ella non sapeva mai pettinare bene, che disdegnava di farsi pettinare dalle solite acconciatrici del popolo, e il cui nodo, a treccia, le si disfaceva, sempre, sulla nuca, le cui ciocche si sfrangiavano, sempre, sulla fronte, sulle tempie. Uno dei suoi gesti favoriti era di rialzarsi le ciocche che le cadevano sugli occhi, di riannodare la treccia, sulla nuca. Usava, in questi capelli, delle forcinelle vistose, in falsa tartaruga, in chincaglieria, guarnite di perle false, di oro falso: ed era lì lì per perderne sempre qualcuna, sporgente dai capelli malfermi. Alta, snella, con una gracilità di forme che era piena di grazia, Gelsomina vestiva volentieri di nero, con una gonnelluccia attillata, che lasciava vedere i piedi, con una vitina molto attillata, su cui ella, a segnare di più la sua snellezza, portava una cintura di pelle chiara, con una fibbia d'argento falso, carica di pietre false. Sul vestito nero, al collo, aveva quasi sempre una folta cravatta di seta rosa, di seta celeste, di seta lilla, o di merletto crema, che formava un fiocco ricco, ove, volentieri, ella abbassava il volto e immergeva il mento. Pure nella cravatta portava un fermaglio chiassoso, di falsi diamanti. Camminava con un passo particolare, quasi appena toccando terra, ma senza mai correre, anzi con un certo languore: e portava la piccola testa eretta, la bocca sempre un po' aperta, quasi a bere l'aria, come un uccellino. E di uccellino era la sua voce chiarissima, cristallina, con intonazioni curiosamente musicali, con certe sillabe trillanti, certe sillabe cullanti, nel loro suono cadenzato. Per ripararsi contro il freddo della cruda stagione, quella sera, ella portava sulle spalle, sino alla cintura, una mantellinetta di panno nero, con qualche ricamo di giaietto, una povera piccola mantellina, comperata per cinque o sei lire, in un emporio a buon mercato; e, avvolto intorno al capo, uno scialletto di lana nera, a uncinetto. Teneva le mani nascoste sotto la mantellina, con un movimento di freddolosa. I suoi occhi larghi e chiari si fissarono su Domenico Maresca, con vivacità tenera, quasi interrogativa: - Hai da fare, Mimì? Posso restare? - Non ho più da fare, resta. - Hai cenato? - chiese ella, sedendosi, in un angolo, presso la tavola. - Ho cenato. - Prosit ! - E tu, non hai cenato, Gelsomina? - Io non ceno - mormorò ella, crollando il capo, togliendosi i capelli dagli occhi. - Perchè? Non hai appetito? Mammà non ti dà la cena? - Io ho appetito - rispose Gelsomina, piano. - Ma non sempre, ho appetito. Allora, siccome mammà mi dà tre o quattro soldi per la cena, io me li conservo. - E brava! - disse il pittore di santi, con un lieve sorriso. - Hai denaro da parte, allora. - Mai niente! - esclamò ella. ridendo un poco. - Appena ho due o tre lire, io le spendo. - E che compri? - Tante cose! Un metro di setina per farmi una cravatta; un fazzolettino fine; una broscia; un po' di merletto per le camicie. - Ti piace di comparire, eh? - le chiese bonariamente il pittore dei santi. - Assai! - diss'ella, con un lampo schietto di vanità, nei grandi occhi. - Mi piace assai! E non posso comparire: sono troppo pezzentella, Mimì. Una malinconia le velò il delicato viso pallido, una vera malinconia puerile, di bambina delusa nelle speranze e nei desiderii. - Perchè te ne affliggi tanto, Gelsomina? Fai all'amore, non è vero? - Io? Io? - proruppe lei, arrossendo tenuemente, sotto la pelle fine del volto. - Me lo hanno detto - soggiunse lui, per scusarsi, col suo solito tono di bontà. - Si dicono tante cose... - Sono bugie - rispose lei, un po' lentamente, abbassando le palpebre sugli occhi. - Sono tutte bugie. Io non amoreggio con nessuno. - Tanto meglio - disse lui, per conchiudere. Ella fissò di nuovo gli occhi in quelli di Mimì Maresca, quasi aspettasse, con curiosità, con ansietà, un'altra domanda. Ma egli tacque. Non la guardava neppure. Gelsomina ebbe una leggiera smorfia di dispetto sulla bocca. E, dopo un silenzio, si decise lei a riprender quel discorso. - Che ti hanno detto, le male lingue del quartiere, Mimì? Con chi ti hanno detto che io amoreggiavo? - Non vi badare. La gente parla così volentieri! - No, no, me lo devi dire, Mimì. Voglio che me lo dici. - E poi ti dispiaci, eh? - Non mi dispiaccio, se me lo dici tu. La voce della giovinetta era diventata, adesso, malinconica e carezzevole, mentre Domenico Maresca conservava il suo tono semplice e quasi indifferente. - Ebbene, giacchè lo vuoi sapere, te lo dirò. Mi hanno detto, che tu amoreggi con don Franceschino Grimaldi, il figlio della baronessa. Ella scrutò ancora la fisonomia tranquilla, affabile e un poco stanca del pittore dei santi, e invece di rispondere, affermativamente, negativamente, interrogò, a sua volta: - E tu vi hai creduto? - No, - disse lui, con una certa serietà. - Meno male! - Non potevo credere, Gelsomina, che una ragazza buona e religiosa, come sei tu, amoreggiasse con un signore. - Già... - disse lei, dopo una pausa. - Dovrei essere una pazza, a fidare nelle chiacchiere dei signori. - E non le ascolti, non è vero, Gelsomina? - Non le ascolto, Mimì, quando posso - continuò lei, pensosa, esitante. - Non sempre, posso. Certe volte, quando io mi nascondo, mentre passa don Franceschino, mammà mi sgrida. - Mammà? - Eh, si! Dice che è il figliuolo della padrona di casa; che noi siamo dei poveri portinai; che non bisogna essere screanzati; se no, ci mandano via. - E tu che rispondi? - Non rispondo nulla, certe volte. Quando sono di malumore, rispondo male, che non ho voglia di amoreggiare con don Franceschino, per farmi corbellare da lui, e che se si deve mangiare quel pane, io preferisco il digiuno. - E mammà? - Qualche volta mi schiaffeggia. - Per questo? - Per questo. E con un accento semplice e profondo, la ragazza concluse: - Tu lo sai, Mimì, che essa non mi è madre. - Povera Gelsomina! - soggiunse lui, con un accento di vera pietà. La ragazza chinò la fronte e tacque. Aveva disciolto, parlando, il nodo, sotto il mento, del suo scialletto nero e lo aveva arrovesciato sulle spalle. La luce batteva sovra quella massa folta di capelli oscuri, mezzo disfatti sul collo, sovra la metà di un piccolo orecchio bianco appena roseo, ove una grossa pietra verde pendeva, una malachite, e disegnava un profilo abbassato, giovanile, fine. L'uomo, seduto un po' lontano da lei, abbandonava sulla sedia il suo corpo tozzo, così goffo, e sotto la luce vivida le ombre giallastre diffuse sul suo volto, un poco gonfio, scialbo, meglio si vedevano, si vedevano anche le radure dei capelli sulla fronte; e le radure dei baffi che crescevano male, incolti, di un colore biondo biancastro. Pure, gli occhi di Gelsomina, risollevandosi, si fissarono in quelli di Domenico, con un effluvio di simpatia, di fiducia, di speranza. E, ancora una volta, ella parve delusa. Si accorse che, da prima sera, Domenico era profondamente distratto: e che egli aveva dovuto fare uno sforzo, per interessarsi a ciò che ella gli aveva narrato. Gelsomina non disse nulla: un sospiro le sollevò il petto. - È tardi, Mimì - ella riprese. - Che fai tu, adesso? - Chiudo la bottega e vado a casa. - Direttamente? - Direttamente. - E là, che fai? - Mi spoglio, mi corico, dormo. - Hai sonno? Sei stanco? - Spesso la stanchezza non mi fa dormire - replicò lui, con cera turbata, quasi che prevedesse l'insonnia. per quella sera. - E allora, che fai? - Penso. - E che pensi ? - chiese lei, già sorridente. - Alle pecore che hai in Puglia? - A tante cose... a tante persone - mormorò Domenico, quasi dicendolo a sè stesso. - All'oscuro, stai? - No, ho la lampada, accesa, innanzi all'Addolorata. - Io avrei più paura - disse lei, con accento bambinesco e guardandosi intorno - io avrei più paura, con la lampada accesa. Mi parrebbe di vedere delle ombre... - Quali ombre? - Gli spiriti, Mimì, i morti. - Che! - disse lui, come sognando - i morti non ritornano. - Quando ero più piccola, Mimì. io, dopo il rosario, pregavo sempre la Madonna di farmi vedere la mia mamma... sai... quell'altra ... la mamma mia vera... - e i grandi occhi di Gelsomina si fissarono, sognanti, guardando, nell'ombra, verso la strada. - E l'hai mai vista? - domandò ansiosamente Mimì Maresca. - No; mai. - E io neppure, mia madre. - Ma tu non te la ricordi? - chiese ingenuamente la fanciulla. - Non me la ricordo - disse, brevemente, il pittore dei santi. - Io sì, io sì, la mia. - Beata te! - mormorò lui. - Io non ho neppure un ritratto, nella casa mia, che mi pare un deserto. - Chi vi sta? Sola, Mariangela? - Mariangela, nessun altro. Un giorno o l'altro la povera vecchia se ne muore, e un saluto alla compagnia. - E tu... tu... perchè non ti ammogli? Gelsomina si vergognò della domanda, subito dopo averla fatta. arrossi lievemente e strinse la bocca, contegnosamente, per assumere un aspetto serio. - Non vi ho mai pensato... - disse Mimì, semplicemente. - E pensaci! - Nessuna mi vuole: sono brutto: non so dire due parole: tutte mi rifiuterebbero. - Perchè dici questo, perchè lo dici? - protestò lei, fra la collera e la tristezza. - Sei così buono! Sei un santo! Tutte ti vorrebbero! - Tutte, sarebbero troppe - rispose lui con un sorriso affettuoso, innanzi all'entusiasmo della sua amica Gelsomina. Una, basterebbe. - E perchè non la cerchi, Mimì? - Io? Non ho il tempo. Ho da scolpire i santi, ho da dipingere le Madonne. - Non ti occupi che di questo? - Così mi hanno avvezzato - conchiuse lui, malinconicamente. Tacquero, ancora. Ella sollevò lo scialletto sul capo, se lo legò sotto il mento. Era pensosa, di nuovo: incerta, anche, come se volesse fare o dire qualche cosa, e una forza intensa la rattenesse. Si mordette, un istante, il breve labbro inferiore. - È tardi, Mimì, me ne vado: buona notte. - Vuoi compagnia? - No, no. non importa: sono due passi: tutti mi conoscono: buona notte; è tardi: buona notte. - Mammà non ti sgrida, perchè hai fatto tardi? - No: sa che dico due parole con te, dopo la Congregazione. Non mi sgrida mai, per te. Tu sei un santo! La fanciulla puntò le sue ultime frasi di un piccolo riso. ove vibrava un po' di scherno. Mimì parve non avesse udito ed ella, partendo, ora, decisamente, dalla soglia. gli ripetette, con una voce, ove vibrava una tristezza profonda: - Buona notte, Mimì. Si allontanò, la figurina vezzosa, muliebre, nella oscurità della via: i passetti lievi si allontanarono. con un rumore sempre più fievole. Inconsciamente, un sospiro sollevò il petto del pittore dei santi. L'uomo veniva, in fretta, quasi, dal tetro vicolo di Donnalbina, che si distende da via Monteoliveto sino alla piazzetta della Madonna dell'Aiuto: l'aria della notte si era fatta gelida, e, ogni tanto, un rude soffio di vento spazzava la polvere, verso i Banchi Nuovi: l'uomo era chiuso in un pesante cappotto e portava intorno al collo una grossa sciarpa di lana, in cui abbassava il viso, un viso di cui si vedeva bene il colore scialbo, malgrado le ombre notturne. Poi, in piazza, il suo passo si rallentò, divenne incerto: obliquò, a diritta, verso la chiesa della Madonna dell'Aiuto, verso la bottega dei santi, che, a quell'ora, era ermeticamente serrata. Giunto nella viuzza deserta, appena rischiarata, in fondo, da una vacillante fiammella di gas, in fondo, verso santa Maria la Nova, l'uomo si fermò e levò gli occhi, in alto, verso quel lato alto e bruno del grande palazzo Angiulli. Come nelle prime ore della sera, lassù, in alto, vi era un balcone illuminato: ma illuminato senza vivacità, tenuamente, come da un povero lume modesto, che rischiarasse un lungo lavoro, un lungo pensiero, una lunga infermità, qualche cosa di paziente, di costante e di silenzioso. L'uomo, Mimì Maresca, immobile, col volto levato in alto, teneva fissi gli occhi in quella luce quieta e mite, e non pareva si accorgesse del tempo che trascorreva verso la mezzanotte, delle folate di vento che s'ingolfavano dal vicolo nella piazzetta, e che gli sbattevano sul viso, col rigore della tramontana, tutto il pulviscolo immondo della strada, che nessuno aveva spazzata, nella giornata. Un viandante passò, in gran fretta, urtando Mimì Maresca: costui, macchinalmente, si scostò, si appoggiò allo sporto della sua bottega chiusa, senz'accorgersi dello sguardo diffidente che, allontanandosi, lanciò su lui, colui che passava, lo sguardo di chi crede di essere sfuggito a un ladro. Più tardi, lentamente, da san Giovanni Maggiore, si avvicinarono due carabinieri, muti, quasi indifferenti: costoro squadrarono il pittore dei santi che restava addossato alla sua bottega, e senza dirsi nulla, tirarono avanti, ma con maggior lentezza. Egli di nulla si avvedeva, quasi che lo assorbisse il più intenso fra i pensieri che, in tutta la giornata, lo avesse perseguitato, e che fosse stato perseguitato, a sua volta, dal lavoro, dalle visite, dalle cento distrazioni dei fatti e delle persone; un pensiero che, infine, in quell'ora nera, gelida, tacita, della notte, riportasse la sua vittoria sovra ogni cosa, ogni fatto, ogni persona: un pensiero che, nella solitudine della sua triste casa del vicolo Donnalbina, avesse impedito ogni sonno e ogni riposo a Domenico Maresca, lo avesse strappato al caldo, al letto, e lo avesse spinto, a quell'ora, nella via solo, solo, solo, con gli occhi messi in quella luce fioca lontana: un pensiero! E, a un certo punto, quasi che il potere fascinante dello spirito che desidera e che invoca, avesse esercitata tutta la sua misteriosa forza, dietro i vetri del balcone alto, un'ombra apparve, oscurando metà di una impannata. La persona, una donna, era così lontana, che era impossibile discernere nessun tratto. Pareva, solo, che avesse appoggiata la fronte al vetro, poichè vi rimaneva immota, in atto silenzioso, in atto di stanchezza. Non vedeva, ella, certo, nella via, colui che, appoggiato contro il bruno legno della bottega dei santi, vi si confondeva nei suoi panni bruni, nelle tenebre notturne. Non vedeva, certo, che Domenico Maresca tremava, laggiù; le sue labbra, un po' schiuse, pareva che mormorassero incomposte parole, di cui non si udiva il suono; le palpebre battevano sugli occhi immoti. Senza aver visto, certo, l'ombra femminile si arretrò, scomparve. Poi, dopo un momento, anche la tenue luce si spense. E solo, solo, solo, il pittore dei santi, giù, piangeva.

MILANO IN PERCORSA IN OMNIBUS COMPILATA DA GAETANO BRIGOLA ED ILLUSTRATA DA NOTIZIE STORICHE ED ARTISTICHE DA FELICE VENOSTA

683249
Brigola, Gaetano 2 occorrenze
  • 1871
  • Editore Librajo -PRESSO GAETANO BRIGOLA
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Nella Piazza di Sant'Alessandro, dicontro la chiesa, vedesi il palazzo Trivulzi; esso è di una soda costruzione, e ragguardevole per le cose rare e preziose che vi si contengono, fra cui una ricca libreria ed un, museo di pregevolissime antichità, formato in gran parte dal filologo abate don Carlo Trivulzi, morto nel 1789, dal fratello di lui Giorgio, morto nel 1802, e continuato dai discendenti della famiglia, la quale cortesemente ne permette la visita al forestiero.