Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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DISPERATAMENTE GIULIA

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Casati, Sveva 1 occorrenze

Sedette su uno dei due divanetti ricoperti di tela a grandi rose scarlatte su fondo verde e avorio, inforcò gli occhiali e cercò il numero degli amici di Swansea nella rubrica di pelle turchese, appoggiata, sul tavolino di cristallo, vicino a una grande e moderna abat-jour. Erano quasi le otto e Giulia sapeva che a quell'ora i Mattu erano in piedi. Le rispose la voce dolce di Salinda il cui volto, molto grazioso, Giulia aveva visto soltanto in fotografia. « Giorgio is sleeping », disse. « Ha fatto tardi ieri sera? » indagò Giulia sospettosa. « Soltanto mezzanotte », la tranquillizzò Salinda. « C'è stata una piccola festa tra ragazzi. » Giulia si sentì esclusa. Non ebbe neppure il coraggio di gridare che tirasse giù dal letto quel piccolo, sporco egoista, perdio! Prima d'allora non le era mai venuta in mente un'imprecazione di quel genere, per lei quasi una bestemmia, ma adesso, per la prima volta, sentiva irresistibile il desiderio di coinvolgere l'Onnipotente nelle sue questioni private, di coinvolgerlo con rabbia, rimproverandogli la sua latitanza o il suo accanimento. « Vuoi che lo svegli? » chiese Salinda, sempre dolce e comprensiva. « No », disse Giulia rassegnata. « Volevo sapere se è tutto a posto », mentì. In realtà voleva dirgli che stava al gelo, da sola, in quella vecchia casa senza qualcuno che le desse conforto, e che il gatto era finito sotto una macchina alcuni giorni prima pagando con la vita il suo primo anelito di libertà. Avrebbe voluto parlargli anche del dolore che si era annidato dentro di lei, ma nessuno dei due era pronto per quella confessione. E non poteva certamente dirgli che proprio oggi, ultimo giorno dell'anno, doveva andare a Modena, al cimitero, per assistere all'esumazione del nonno. « Davvero, Salinda, va bene così. » « Se vuoi ti faccio chiamare appena si sveglia », propose la giovane indiana che, sempre nella foto scattata da Giorgio l'estate prima, aveva l'aria di una casalinga appagata. « Vi chiamo io a mezzanotte per augurarvi buon anno », tagliò corto. « Abbracciami Giorgio. E ancora grazie. » Riattaccò rifugiandosi nel tepore della cucina. Il freddo le era penetrato fin dentro le ossa. Pensò al nonno, a quello che restava di lui e sorrise al ricordo di quel principe dell'avventura. Il comune di Modena aveva mandato a lei, a sua sorella Isabella e a suo fratello Benny, che mascherava sotto un ridicolo diminutivo il nome scomodo di Benito, una comunicazione firmata da! sindaco: le reliquie di Ubaldo Milkovich sarebbero state collocate in un ossario perenne per onorare la memoria del partigiano Gufo, figura di spicco dell'antifascismo, eroe della Resistenza. Giulia si era ripromessa di partire verso le undici per essere sicura di non mancare all'appuntamento fissato per le due del pomeriggio, ma adesso, con il problema della caldaia, sarebbe riuscita a rispettare il programma? L'orologio elettrico sul frigorifero segnava le otto. Tentò di mettersi in contatto con il tecnico della manutenzione. Si immerse nuovamente nel gelo del soggiorno, alzò la cornetta e si accorse che qualcosa non funzionava nel ricevitore. Invece del segnale consueto sentiva un suono gracchiante, fastidiosissimo. Premette ripetutamente il meccanismo del contatto, provò a formare un numero sulla tastiera e al suono gracchiante si sovrappose il segnale di occupato. Depose il ricevitore e guardò la graziosa sveglia poggiata sul piano di cristallo sostenuto da un basamento a tamburo di legno istoriato e dorato: erano le otto e cinque. Che la dolce Salinda avesse riagganciato male il suo apparecchio, lassù nel Galles? Alzò di nuovo il ricevitore e questa volta l'apparecchio non diede alcun suono. Adesso era chiaro che anche il telefono era andato in tilt, mentre lei aveva un disperato bisogno di comunicare con il mondo. Se alle otto e mezzo in punto non si fosse messa in contatto con i tecnici rischiava di perdere la possibilità di farli venire in giornata. Salì velocemente la scala e tornò in camera da letto, un ambiente molto intimo che amava particolarmente, sui toni pastello del rosa, celeste e grigio perla. Lampade di porcellana chiara, dai paralumi rosati, poggiate sui piccoli cassettoni gemelli, ai lati del letto, diffondevano una luce garbata che accarezzava due poltroncine in stile settecento veneziano. Alle pareti, un crocefisso ligneo e una serie di immaginette sacre ottocentesche in cornici dorate. Giulia evitò di guardare il Cristo dal quale si sentiva ingiustamente abbandonata. Si vestì velocemente. Nell'ingresso infilò un vecchio cappotto di montone e uscì. Attraversò la via Tiepolo facendo lo slalom tra pozzanghere e auto, incurante della pioggia che continuava a cadere. Entrò in un bar tabacchi con l'insegna del telefono pubblico. Un marocchino armato di zelo e di uno straccio sudicio affrontava coraggiosamente un pavimento maltrattato da centinaia di scarpe, ma sembrava destinato a una clamorosa sconfitta. Giulia si avvicinò alla cassa dietro la quale troneggiava una giovane donna che aveva tutta l'aria di essere lì per sbaglio, mentre avrebbe dovuto trovarsi su un aereo per le Maldive. Era di cattivo umore e si vedeva. « Dica », l'aggredì la tabaccala guardando la cliente infreddolita come se fosse una chiazza d'unto sul suo vestito migliore. Un gettone », disse Giulia impaziente allungando duecento lire. « Fuori servizio », sentenziò la tabaccala alludendo al telefono pubblico. « Ma io devo assolutamente telefonare », insistè Giulia sull'orlo della disperazione. « Fuori servizio », ripetè fredda e spieiata come un cobra; quindi si rivolse a un paio di clienti che erano entrati e chiedevano un cappuccino. « Non potrebbe farmi usare il suo? » domandò supplichevole. « Quello lì », soggiunse indicando l'apparecchio accanto alla cassa. « Privato », la gelò senza guardarla, continuando a scambiare sigarette e caffè con danaro contante. « Tabaccala di schifo », scattò Giulia, « città di schifo, gente di schifo, mondo di schifo », gridò coinvolgendo irrazionalmente l'universo intero. Riattraversò il locale sotto gli occhi sbigottiti dei clienti, il silenzioso stupore della tabaccala, l'ingenuo sorriso solidale del marocchino. SÌ diresse quasi di corsa verso il bar latteria di piazza Novelli dove Giorgio e i suoi amici dissipavano la paghetta settimanale in merendine, Coca-Cola e juke-box. Il telefono c'era e funzionava. Giulia compose il numero del tecnico che conosceva a memoria. « Sono Giulia de Blasco », fece appena in tempo a dire all'addetto che aveva risposto all'altro capo del filo. Poi scoppiò in lacrime. Seminascosta fra cassette di birra, Coca-Cola e uno scaffale pieno di pasta e biscotti, nell'odore dolciastro di segatura bagnata, stringendo la cornetta lercia di un telefono pubblico, Giulia pianse senza ritegno. Pianse sulla sua vita sbagliata, sul suo matrimonio fallito, pianse perché anche suo figlio l'aveva lasciata sola, perché quel giorno doveva assistere all'esumazione delle reliquie del nonno Ubaldo. Pianse perché aveva la casa gelida, perché il telefono non funzionava, pianse perché a quarant'anni s'era innamorata come una ragazzina, ma soprattutto pianse perché lei stessa era andata in tilt. Qualcosa nella mirabile costellazione del suo organismo si era inceppato. Le cellule di un nodulo al seno prelevato un mese prima non erano del tipo regolamentare. Erano di quelle che continuano a ripetersi senza fermarsi mai. Come un interruttore che si accende e non si spegne più. Quel giorno accidioso di dicembre Giulia piangeva per molte cose, ma soprattutto perché aveva un cancro.

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