Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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IL MAESTRO DI SETTICLAVIO

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Boito, Camillo 2 occorrenze

In certi momenti si sarebbe potuto passare a piede asciutto dalle Zattere alla Giudecca su quel brulicame di piccoli navigli, che si muovevano tutti insieme, len- tamente, maestosamente, a seconda dell'acqua in riflusso; in certi altri momenti si poteva credere di trovarsi nella frenesia degli ab- bordaggi, degli arrembaggi d'un combattimento navale. I bar- caiuoli mostravano i pugni, si dimenavano furiosamente, minac- ciavano di saltare sopra le gondole per ammazzarsi: e tutto finiva in burletta quando il motto canzonatorio d'un compagno, gridato con accento buffo, faceva sbellicare dalle risa i popolani, i gondo- lieri e i contendenti medesimi. Nel tutt'insieme un baccano india- volato, un pandemonio allegro e indescrivibile. Ma ecco princi- piano in un battello i canti: già gli accordi si odono dai più vicini, già si comincia a chiedere silenzio, già si tace, si ascolta, ed i suo- ni si diffondono in uno spazio via via maggiore, disturbati soltanto da qualcuno che grida zitto e dai frastuoni lontani, fra i quali si distinguono le voci fesse dei rivenditori ambulanti. Il gran trionfo fu per il concerto dello Zen e specialmente per la marinaresca a tre parti: i battimani non finivano più, si voleva il bis si acclamavano i cantanti, si vociava: fuori il com- positore che, pallido e raggiante, dovette rizzarsi in punta di piedi sui dorso della poppa. Nene e Mirate, nella melodia patetica, la quale andava a successioni di seste, si stringevano forte le mani e si guardavano fissi negli occhi; lo Zen aveva mangiato la sua brava aringa salata. Esaurito il programma, Nene, verso le due, avrebbe desiderato di tornare a casa, tanto più che alla Maria mi- nacciava un po' di mal di stomaco per cagione del dondolìo della barca; ma una occhiata di Mirate ed un invito dello Zen, ch'era stato accettato con entusiasmo da tutta la comitiva, vinsero facil- mente la riluttanza della fanciulla. Lo Zen dalla vendita del pianoforte non suo aveva cavato, per mezzo dell'amico antiquario, intorno a trecento svanziche, di cui un centinaio, poco più, era rimasto nelle sue proprie tasche. Gli pesavano. Veramente, durante il giorno, gli era corsa nella fantasia la fisima di pagare un qualche acconto dei molti debiti; ma quei buoni giovanotti avevano cantato tanto bene, dovevano avere la gola tanto arida, che il non offrir loro un po' di cena sarebbe parsa una crudeltà. Andarono dunque tutti nel giardino Checchia alla Giudecca, me- no la Maria che, non sentendosi bene, pregò di essere lasciata in barca, dopo avere con le lagrime agli occhi sollecitato la padron- cina a sbrigarsi per timore che il povero nonno fosse sveglio e stesse in angustia. Il giardino vastissimo era tutto a pergolati bassi, che formavano una serie di piccoli viali coperti, ove, intorno alle frequenti tavole lunghe e strette, stava un mondo di gente a cenare. L'illuminazione consisteva nei soliti fanaletti e lampioncini penzolanti e in candele circondate da cartocci di vari colori, per proteggerle dal ventolino, che rinfrescava ed esilarava dopo la soffocante giornata. Il canto e gli applausi avevano aguzzato l'appetito persino della fanciulla nei capelli rossi della quale l'auretta scherzava; e si lasciava fare nel- l'orecchio da Mirate, seduto al suo fianco, le più audaci dichiara- zioni d'amore e sorrideva e sospirava e beveva il vino, che il teno- re le versava spesso dal boccale panciuto, su cui stavano dipinte certe rose non meno pavonazze delle chiazze della tovaglia. Dopo il salame ed i polli arrosto capitarono le frittelle: i giovani cantanti mangiavano e nello stesso tempo guardavano i due innamorati, ghignando sotto i baffi e parlando tra loro ad alta voce in gergo furbesco; i chitarristi tacevano, divoravano e mettevano in saccoc- cia; lo Zen aveva afferrato il maestrino, autore della marinaresca, il quale era giunto a Venezia da pochi giorni raccomandato al maestro dai suoi amici scrittori della strenna, e gli stava snoccio- lando le virtù del setticlavio. "Quale è la tonica nella chiave di Do". "Il Do. "Mi canti una terza maggiore". " Do Mi. "Una minore". " Re Fa. "E la tonica nella chiave di Re". " Re. "Niente affatto". "Come?" "È sempre il Do. "Non intendo". "Intenderà subito. Faccia il salto di terza". " Re Fa. "È una terza maggiore o minore?". "Maggiore". "Signor no". "Ella stesso mi diceva dianzi ch'è minore". "Minore nella chiave di Do e maggiore in quella di Re. "E Do Mi". "Nella chiave di Re è minore". "Oh confusione, oh babilonia! Sempre gli stessi nomi hanno da essere e sempre i medesimi intervalli. Stia a sentire" e il maestro continuava imperterrito il ragionamento, e si sgolava solfeggian- do: Do Re, Do Mi, Do Fa, Do Sol, Do La, Do Si, Do Do Intanto Nene, che aveva le fiamme al viso, si era alzata, umida di sudore, e al braccio di Mirate, girando nei pergolati più tranquilli, s'allontanava. Uscirono dal cancello posteriore, che non metteva sulla via, ma in un campaccio disabitato. S'avanzarono nelle tene- bre e nel silenzio sull'erba alta: Nene traballava. Il cielo s'era an- nuvolato; se non fossero stati i bagliori, che di quando in quando guizzavano sull'orizzonte, cielo e laguna si sarebbero confusi in una oscurità sepolcrale. I rumori distanti, i pallidi riverberi dei lu- mi oltre il muro di cinta facevano sembrare più cupa la nerezza e la taciturnità del luogo, ove non pareva più di essere accanto a Venezia, di vivere nella realtà di questo mondo. Un gatto si cacciò fra i piedi della fanciulla, scappando; ella cadde sull'erba. "Hai paura?" le domandò il tenore. "No" rispose Nene, e gli stese le braccia, perché la rialzasse. Il vento, che fischiava, stava spegnendo le candele sui deschi, malgrado il riparo dei cartocci, e faceva scappar la gente, quando Nene, sul cui volto un triste pallore aveva sostituito il rosso acceso di prima, tornò alla tavola con Mirate. Lo Zen, sorseggiando l'ul- timo mezzo boccale, continuava a disputare sul setticlavio; ma il maestrino, appena vide comparire i due giovani, colse la buona occasione per salutare in fretta e darsela a gambe. Gli altri se l'era- no svignata prima, non senza una certa curiosità di sapere ove si fossero cacciati Giulietta e Romeo. Avevano anzi cercato, invano, di scovarli. Il battello con i lumi tutti smorzati e il grande felze di verdura e la Maria sopita e i barcaiuoli morti dal sonno, aveva un aspetto si- nistro. Attraversò il canale della Giudecca fra poche barche piene di donne e d'uomini briachi, mentre scoppiava l'ultimo razzo e s'accendeva l'ultimo moccolo di fuoco di bengala. Passando sotto un ponte, nel rio stretto e buio, udirono un corpo cadere sui gradini e due persone, che s'erano fermate a guardare, dirsi fra loro: "S'è rotto il capo: vedi quanto sangue". "No, è vino. S'alzerà domattina". Cominciava la pioggia a goccioloni. Nene aveva freddo e trema- va. In quel frattempo il nonno non trovava pace. Dacché Nene era montata in barca egli aveva ripetuto cento volte a se stesso: "Ho fatto quanto potevo. Che colpa ho io se la ragazza non somiglia a sua madre e a sua nonna? Da chi ha ella ereditato tanta disobbe- dienza, tanta ostinazione, tanta vanità, tanta smania per gli svaghi mondani? Potevo io chiuderla in un convento o serrarla in una pri- gione? Ho l'animo tranquillo, proprio tranquillo". E sentiva dentro una inquietudine, una impazienza, che non si ricordava di avere provato mai. Era andato a letto, aveva spento il lume, s'era rivol- tato da tutte le parti: le materasse pungevano. Allora aveva preso la risoluzione di tornare a vestirsi; era sceso giù nell'orto. Tendeva le orecchie: le foglie stormivano. Poi, traversata l'ortaglia sino alla riva e alzato il grosso saliscendi arrugginito, che mandò un acuto cigolío, aveva aperto. S'era ap- poggiato allo stipite: fissava l'acqua nera sotto i piedi. Si udivano a distanza i rumori della festa, le grida allegre; si vedevano i razzi, i riflessi dei fuochi. A poco a poco sui gradini bagnati e sdrucciole- voli i grossi topi ricominciarono le loro corse, senza curarsi del vecchio, il quale rimaneva immobile e assorto. Anzi un sorcione finì per tentare di rodergli le pantofole, ricamate da Nene. Allora il vecchio si riscosse, e rientrò, passo passo, in casa. Si pose a sedere innanzi al pianoforte e suonò, senza pensarci, alcune battute della marinaresca, le quali ancora gli ronzavano nelle orecchie; ma si interruppe tosto, seccato da quella musica scipita e triviale. Frat- tanto gli correvano nella mente certi ricordi della sua giovinezza: un amore profondo e calmo per la figliuola del suo maestro, finita etica di vent'anni, in memoria della quale aveva composto, la sera stessa della morte, una marcia funebre. Cercò di rammentarsela; provava, riprovava; i primi accordi non venivano, ma certi brani del canto sì; poi di nuovo s'annebbiava la seconda parte, svaniva la cadenza. Ma a forza di studiare, la marcia tornò tutta intera, tale e quale, nella memoria e sotto le dita del maestro, che ne provò una viva compiacenza, quasi una sensazione di gioia. Una barca, che passava con gravi tonfi di remi e strepiti di gente avvinazzata, destò il vecchio dai cari sogni lontani; andò alla fine- stra; gli tornò la spina nel cuore. Guardava e, dopo un istante, ri- guardava l'orologio. Non si fidava della lancetta; contava sulle dita le ore e i quarti, quando suonavano e ribattevano al campanile vi- cino. "E non torna!" ripeteva "Non torna! Non si rammenta più del suo povero nonno!". Poi s'affaticava a ragionare: "Le mie sono fisime da rimbambito. Che male c'è, in fondo, nel cantare e nel farsi sentire, nel desiderare un passatempo onesto, nel volere una qualche libertà dopo tanta soggezione? Può una ra- gazza starsene tappata in casa tutta la vita, perché manca di madre e di padre, e perché l'unico suo parente è un vecchio fastidioso e decrepito? La colpa è mia, che ho preteso troppo. Sono stato io l'egoista: non ho voluto scomodarmi, non ho saputo fare nessun sacrifizio. La giovinezza ha i suoi diritti, che la vecchiaia non deve calpestare. Altro è l'estate, altro l'inverno. Sarebbe bella ch'io me la pigliassi con l'estate perché fa caldo!". Si gettò sul letto, vestito. "Eppure" bisbigliava "sarebbe ora che tornasse. Quei giovinastri, quello scavezzacollo di Mirate, quella testa bislacca dello Zen non mi lasciano quieto". Si alzò di nuovo; andò di nuovo al balcone, ove soffiava il vento fresco e umido, che agitava i suoi capelli candidi come aveva sconvolto quelli di Nene; guardò le nubi dense, illuminate dai re- pentini bagliori. Cominciava la piogga, minacciava il temporale; "Dio, Dio, che cosa succede di lei!" e stava per discendere ancora nell'orto in preda ad un'angoscia sempre crescente ed oramai in- sopportabile, quando udì la gran chiave nel portone della riva alza- re il saliscendi. Respirò. Sentì la voce della nipote e ringraziò il cielo; ma chiuse in fretta la finestra e spense il lume. Non voleva che si indovinassero i suoi affanni.

Tutte le figure, illuminate ad ab- baglianti colpi di luce, staccavano Sul fondo della casa, che era come bagnato in un'ampia ombra trasparente e celestina. Bene ci ricordiamo pur troppo, che questo brioso quadro ci fu sciupato dal passaggio di tre uomini e di una carriuola chiusa. Il primo di que- gli uomini camminava lento lento e guardava a terra negli angoli con occhi torvi; magro, lungo; aveva la corda di un laccio in mano e portava non sappiamo più se un panciotto od un fazzoletto di color giallo stonato. Sul suo berretto si leggeva in grosse lettere Canicida parola che fa gelare il sangue. Né a Venezia mancano le novità dei tipi: marinai Indiani, di membra asciutte, coi muscoli snelli da tigre, giranti per le vie in- quieti come pantere in gabbia, e gli occhi sembrano buoni, ma di una bontà sospettosa e selvaggia; Giapponesi e Chinesi astuti, pla- cidi, pazienti, sorridenti e, anche in quella loro bassa condizione, filosofi e ironicamente orgogliosi della loro antica civiltà; Negri con il naso camuso e le labbra grosse, vestiti di bianco. Questi so- no i doni che, quanto all'arte, porta a Venezia la Peninsula- re: e la mattina, chi passeggia lungo la fondamenta delle Zattere può vedere, appoggiati al parapetto della coperta su quegli immensi Battelli a vapore, mentre, guardano la terra ed ascoltano le suonate degli organini, quegli uomini, i quali pensano ai loro paesi lontani: curiose mostre di altre razze e di altri costu- mi. I pittori, che volevano inviscerarsi Venezia, giravano, portando la loro cassetta ed il sedile a tre piedi, di qua e di là nelle stradic- ciuole deserte, con gli occhi intenti, come il medico che si vede innanzi un caso nuovo e gravissimo. Avevano dello stralunato; non ridevano, non parlavano: certo il loro polso doveva battere più lento, tanto la mente era concentrata. Lo studio del vero, qualun- que ne sia l'oggetto, ha qualcosa di ansioso e di avido: pare il so- gno di un avaro, che veda il proprio tesoro volargli via con l'ali per l'aria, e voglia corrergli dietro, e si senta de' pesi alle gambe, e non lo possa raggiungere. Pensare poi un vero così singolare e fanta- stico qual è Venezia, e in questo tempo nostro, nel quale non basta dipingere un ponte, una gondola, una stola da senatore od un cor- no da doge per ottenere il color locale Nel vero e nella storia i pittori di trenta, di vent'anni addietro si contentavano della buccia: quelli d'oggi vogliono il midollo. Cer- cano nelle cose il carattere si lambiccano per entrare nel- l'anima di una veduta prospettica, di una marina, di una figura: e a Venezia vogliono proprio l'anima veneziana. Il mezzo per espri- mere al di fuori quest'anima non conta. Non importa se la pennel- lata sia liscia o rugosa, disinvolta o faticata, larga o minuta, o, co- me faceva il Fortuny - povero Fortuny, morto di trentacinque anni, marito, padre felice, artista lieto e glorioso! - mezza strapazzata e mezza in miniatura. Non importa neanche se il colore sia succoso od asciutto, a colpi di sole o annuvolato: importa solamente che il cuore dell'artista, a forza di concentrare il suo fluido estetico, si metta in comunicazione con il cuore della cosa che imita, lo faccia parlare, e lo sveli o in tutto od anche solo in una piccola parte agli occhi degli altri. Nel vedere come uno dei migliori artisti d'Italia, un Romano, si travagliava, seduto dinanzi al cavalletto presso al Caffè Florian, tutti i giorni, per tante settimane, ricercando i misteri profondi della facciata di San Marco, del Campanile, della Fabbrica del- l'Orologio, e come, principiando e terminando religiosamente sul posto non un bozzetto, ma il quadro medesimo, confrontava tra i valori delle tinte e li paragonava con l'azzurro del cielo, si capiva bene come egli non intendesse a riprodurre sulla tela ciò che la fotografia porge materialmente e che centinaia di pittori ritrassero prima di lui, bensì volesse dare una sostanza corporea all'impres- sione tutta ideale, che la piazza di San Marco aveva suscitato in date condizioni di luce e in date circostanze sull'animo di lui pitto- re. Fare vivere e parlare i sassi è più difficile che non l'eccitare la eloquenza degli alberi, delle onde, delle bestie e dei corpi umani; ma oggi anche i pittori figuristi si compiacciono in questa anima- zione della prospettiva, la quale pareva dianzi ed era il genere più insulso e più freddo dell'arte. Ed in ciò, come in tante altre cose, è giovata la fotografia, poiché ha mutato lo scopo della pittura pro- spettica, che prima era la fedeltà materiale, e che ora è la fedeltà quasi a dire morale. Le navate, le absidi, le cappelle, le nicchie della chiesa di San Marco erano invase da decine di pittori, vecchi con la bella barba lunga e giovinotti di primo pelo: non mancavano sette od otto si- gnore. Tutti facevano le loro divozioni all'arte. Chi s'arrovellava nell'imitare le larghe vòlte a mosaico, cercando di seguirne via via tra i Santi allampanati e gli Angeli stecchiti, le tinte dell'oro, che secondo la luce, le ombre, le penombre, i riflessi mutano dal giallo al rosso, dal rosso al verde, dal verde al nero; chi s'era messo di- nanzi ai pulpiti bizantini e studiava il lustro dei marmi; chi si stil- lava il cervello nello scortare del pavimento a quadrelli, a formel- le, a pavoni, a mostri, a intrecci d'ogni maniera e ondulato come le acque calme del mare; chi nelle vesciche voleva trovare i toni cupi e misteriosi delle alte conche ai lati del coro, dove nel buio brilla qualche striscia di sole e luccica qualche macchia dorata; chi sen- tiva invece la pace maestosa e solenne del tempio; chi; non badan- do ad altro che allo sfarzo delle materie e delle forme, non ricor- dava che le pompe del passato; chi, ingenuo, intendeva alla sem- plicità candida e casta. Altri pittori s'erano, lungo il Canalazzo, nell'aperta laguna o nel- l'angolo remoto di qualche rio, accomodato il loro studiolo in bar- ca, e ad ogni gesto facevano dondolare il cavalletto. Altri si fer- mavano a coppie in certi campielli a ritrarre la vera di un pozzo, la punta di un alberello, che sbucava sopra un muricciuolo rosso, le finestre delle casupole, dalle quali, tenute in fuori con due lunghi bastoni, pendevano sulla fune la camicia cenciosa e la gon- nella bucata di qualche popolana, coi capelli arruffati e gli occhi curiosi, che guardava in giù canticchiando. Un celebre acquerellatore dipingeva intanto sulla carta il bel qua- dro della Processione dopo avere fatto uno studio così per- fetto della fondamenta col suo selciato sconnesso, delle ca- se coi loro pèrgoli del ponte storto che scorta, dei gradini della riva, verdastri lì dove l'acqua ora li bagna, ora li lascia a sec- co d'un verde arcimaledettissimo a trovare, del battello, delle pic- cole increspature del canale riflettenti tutti i colori della tavolozza, uno studio così perfetto che vale quasi più del dipinto. Ma se per mostrare agli altri ciò che si sente occorre tanto genio e così lungo studio, per vedere a Venezia con i propri occhi i quadri già fatti e vederli ammirabilissimi non occorre altro che avere un briciolo di fantasia. Mettetevi al basso di un ponte, alla riva di un canale, al- l'angolo di un campiello qualunque e, avendo un poco di pazienza, vedrete che nuove scene vi comporranno dinanzi questi tre ele- menti vivi dell'arte: i monelli, i barcaiuoli e le donne. I pittori non istudiano abbastanza la donna. Hanno visto per altro che i zendali, i domino bruni, le mascherine incipriate, le gentil- donne sensuali della scuola che sta per finire, figuravano la natura veneziana come i Piombi ed i Pozzi rappresentano la verità stori- ca. Non diciamo che così i Pozzi ed i Piombi, come le femmine cincischiate e leccate dei pittori vecchi - s'intende vecchi di questo secolo - sieno cose tutte bugiarde; ma le impressioni che un dab- ben uomo riceve nei sotterranei e sotto i tetti del Palazzo Ducale, toccando le gravi catene, contemplando la pietra, sulla quale il carnefice nel buio tagliava il capo dei condannati, e calpestando la soglia della porticina, da cui il corpo monco era gettato in barca per venire sepolto nel Canal dei Marrani, così fatte impressioni sono romanzesche e false, quando non vengono mitigate e rad- drizzate da una conoscenza più larga, più effettiva del vero. Di Venezia certi storici, facendosi complici dei poeti, e certi pittori, credendo di seguire, poverini! le tradizioni gloriose del passato, avevano costrutto in fantasia una città teatrale da gonfii drammi e da tetre ballate, dove i colori letterarii erano, come i colori pittori- ci, stridenti e stonati. Tra quegli artisti pesanti pareva una serena eccezione Natale Schiavoni, il quale i colmi seni e le spalle mor- bide delle sue mezze figure, che si somigliano tutte, sfumava nel vapor latteo, non senza una certa grazia pudicamente carnale. Ma i giovani d'oggi guardano invece, o vorrebbero almeno guardare dritti alla natura. C'è a Venezia due tipi femminili molto diversi: quello roseo e carnoso delle donne del Giorgione, delle Veneri di Tiziano, e l'al- tro bruno e magro, che i pittori non hanno ancora celebrato. Nel primo i capelli di un biondo rossastro, gli occhi del color del cielo o del mare, l'incarnato delle guance, il corallo delle labbra, le nevi del seno e tutte le altre qualità blande fanno della bellezza qualco- sa di placidamente materiale, dove la poesia sonnecchia. Il secon- do tipo ha il seno modesto, i capelli corvini, gli occhioni neri se- gnati sotto con due sfumature livide, le labbra strette, il naso leg- germente aquilino, e la carnagione scuretta sparsa di macchiettine verdastre. Se i denti sono candidi e regolari, cosa difficile a trova- re in Venezia, questo secondo tipo è potente. Ha in sé come una fiamma concentrata, che rende vivaci i gesti, la parola, gli sguardi, il sorriso. E ha un fondo di mestizia; e si lascia andare agli affetti con una sincerità scivolante, che toglie quasi alla passione il sapor di peccato. L'amore in Venezia nasce dalle ondette della laguna, dalle cadenze labbiali del tenero dialetto: non è più né spirituale, né sensuale: è fatale. E le donne camminano stupendamente. Forse - non lo sappiamo - l'andare grandioso e pittoresco delle popolane viene dagli scialli, che portano sulle spalle o sul capo, non puntati da spilli, ma tenuti fermi al petto con le mani, sicché i fianchi in quella fasciatura si disegnano netti; o forse viene dallo scendere i ponti, che obbliga la persona a tenersi un poco incurvata col seno innanzi e colle spalle indietro, mentre le sottane formano un bell'arco di strascico sui gradini; o forse viene dalla frequente necessità del camminare lenti nelle vie, o forse dal non portare il maledetto busto imprigio- natore del corpo, ond'è che le membra restano più libere, i movi- menti più sciolti, e le linee del torso girano più naturali su quelle delle anche. È singolare come la donna e l'uomo a Venezia paiano, tanto nel- l'aspetto quanto nell'animo, più naturali che non negli altri paesi, e pure più complessi. Sono lagrimatori e festivi, espansivi e mali- ziosi. Hanno molto dell'ingegno, qualcosa dello scetticismo ate- niese. Il sarcasmo sfiora ad ogni istante le loro labbra, ma senza livore, senza cattive intenzioni, così per indole o per giuoco; tanto che il forestiere è molto spesso impacciato nel conoscere se un Veneziano parli da senno o per burla. Il sarcasmo è una parte della loro saggezza e disgraziatamente della loro pigrizia. Si contentano di capire le cose al volo; quanto al farle è un altro paio di maniche. Per operare non bisogna dubitare; per non dubitare non bisogna vedere delle questioni tutti i lati ugualmente, e indovinarne troppo i vantaggi ed i danni. Molte sere, mentre splendevano le stelle e il vaporetto del Lido mandava il suo fischio, sentimmo cantare sulla Riva degli Schia- voni una canzone popolare, che ci sembra il ritratto di quella iro- nia veneziana, la quale si torce persino contro se stessa. In coda ad ogni quartina il ritornello serio, grave, bene armonizzato, diceva: Viva l'Italia e la libertà e a un tratto una sola voce nasale, fessa, stonata, interrompeva con un Ma secco, e ripigliava dopo una pausa: Se spera che i sassi Deventa paneti, Perché i povareti Se possa saziar. (Viva, ec... Ma!) Se spera che el caldo Principia in genaro E senza tabaro Poder caminar. (Viva, ec... Ma!) Se spera che adesso No nassa più tose, Perché le morose Se possa sposar. (Viva, ec... Ma!) Se spera, se spera Che el nostro Governo No deva in eterno Le tasse lassar. (Viva, ec... Ma!) Se spera, e sperando Ne capita l'ora De andar in malora Col nostro sperar. Coi barcaiuoli, come s'è detto per le donne, i pittori vecchi face- vano dei còsi rettorici, trasformando il gondoliere o in un rematore sentimentale, che aveva le grazie da ballerino di teatro, oppure in un pescatore Chioggiotto, che sembrava una specie di Masaniello o di can barbone. Nel vero i due tipi del barcaiuolo veneziano, quello di casada e quello di traghetto si dividono in molte varietà curiose, che noi abbiamo avuto la bella fortuna di contemplare a nostro agio durante un'adunanza della Società di Mutuo soccorso fra i servitori di barca, batellanti e traghet- tanti Credevamo di risalire i secoli, di trovarci per magia in un angolo della Sala del Gran Consiglio, e di ascoltare i discorsi dei vecchi patrizii, che parlavano anch'essi in dialetto e alla buona e brevi e succosi. Il buon senso pratico del popolo veneziano ci si rivelò intiero nelle discussioni di questi barcaiuoli, i quali, smessa per un poco l'ironia, ragionando di cose che importavano a tutti, diventavano uomini d'affari e calmi diplomatici. Vi era il Polentina cantore e chiosatore dell'Ariosto e del Tasso, con la sua barba nera brizzolata di bianco, la testa mezzo calva, la carnagione abbronzita, simile alla patina rossastra e scre- polata di un quadro antico. La sua faccia al primo aspetto ha qual- cosa di sinistro, quasi di truce, come alcuni ritratti del Tintoretto; poi, come in quei ritratti, a poco a poco dal moto delle labbra - le labbra nei ritratti del Tintoretto si muovono - e dall'umidore dello sguardo splende il raggio d'una bontà mansueta. Alle sue orecchie pendevano due anelli d'oro, dai quali pendevano alla loro volta due triangoletti pur d'oro, dondolanti a ogni gesto. C'era un vecchio di settant'anni, dritto; portava il pizzo bianco: oratore pieno di saggezza, ma di voce stentorea e di parola impe- tuosa. Raccontano che nel quarantotto pacificasse con un discorso Nicolotti e Castellani, le due fazioni di Venezia, che d'allora in poi, salvo i molti pettegolezzi e qualche scappellotto dopo le re- gate, vivono in santa pace. I volti da Carpaccio, sbarbati, col naso grosso, gli zigomi prominenti, il mento largo, si alternavano ai volti da VanDyck, pallidi, di barbetta rossigna, di occhi profondi e languidi, nel fronte meditabondi. La ruvidezza maschia e libera dei traghettanti contrastava con le livree a bottoni dorati, dei gondolieri aristocratici, ben rasi il volto. Non c'era, pur troppo! il gondoliere della Divina Comme- dia Antonio Maschio, che ha studiato il Convito il Volgare Eloquio la Vita Nuova tutto Dante, e conosce le opere sesquipedali de' suoi commentatori, e ha sul Poema una propria teoria, intorno alla quale tenne delle pubbliche conferenze e stampò dei libri; chiosatore dotto e sottile, parla in toscano con garbo: dovrebbe essere professore, membro di Accademie, cava- liere. Figlio di un biadaiuolo di Murano, in bottega andava frugan- do nella carta da far cartocci; gli piacevano più le righe corte che le lunghe e aveva letto così qualche sonetto del Petrarca e alcune ottave dell'Ariosto e del Tasso. Un dì gli caddero in mano i fogli staccati di tre canti del Purgatorio lesse e non capì nulla; corse da un vecchio prete dell'isola, che gli spiegò bene o male il grosso delle cose; vogò subito a Venezia a comperare con pochi soldi il Poema senza note. Allora il nostro barcaiuolo, inna- morandosi del mistero, esaltandosi in ciò che intendeva e ancora più in ciò che non intendeva, netto da ogni preoccupazione, s'andò creando nel cervello un concetto intiero della filosofia e della geo- grafia della Commedia ruminandolo da sé solo, finché gli venne regalato un commento, e poté un po' alla volta confrontare le proprie idee con le faticose ricerche degli eruditi. Nel sessantacinque voleva andare alle Feste dantesche di Firenze; ma non avendo il permesso della Polizia austriaca, camminò di soppiatto fino al Po, sperando di trovarvi una barca. Trova invece i gendarmi; si getta in fiume nudo, col suo fardello degli abiti sulle spalle e il volume di Dante; il fardello sprofonda, Dante sprofon- da; egli stesso, dopo sovrumani sforzi per toccare l'opposta riva, è lì lì per annegarsi; lo ripescano; lo riconsegnano agli Austriaci; è maltrattato, messo in prigione e dopo un pezzo, quando Dio volle, liberato. Il suo rammarico era questo solo, di non avere potuto as- sistere all'onoranza del suo Poeta. Oggi è alla Banca nazionale, gondoliere. Ma in quella adunanza, dove il Maschio dunque non c'era, dove- vano discutere, tra gli altri affari, la domanda di un socio fondato- re, il quale, mettendo innanzi i beneficii resi alla Società, chiedeva una gratificazione. Un bell'omone grande e grosso, col viso tondo tra il gioviale e il solenne - somigliava al maggiordomo della Cena di Paolo - chiede la parola e dice: "Far el ben e po domandar el compenso xe perder el dirito a la ri- conoscenza. Mi a quel sior ghe verzo la mia povara casa: el vegna a magnar, se el ga bisogno, e a bevar da mi; ma dei soldi de la So- cietà no sepol darghe un boro". Tutti consentirono nella opinione del buon uomo, votando coll'al- zare la mano, eccetto uno, che diceva di avere un reumatismo al braccio destro: "Ciò, parché non votistù? E se gavesse una dogia?". Allora il presidente, un signore in cappello a cilindro, molto pro- saico, pose in discussione l'indirizzo di non sappiamo quale So- cietà di operai, il quale puzzava di demagogia ed al quale bisogna- va rispondere. Un barcaiuolo si rizza, e discorre così: "Ghe xe dei intriganti che ne monta la testa a nualtri, tanto per far del ciasso e per pescar nel torbio. I fa finta de credar che brusando le fabriche i operai ghe guadagni, e rovinando i altri i se faza si- gnori. No i rovina i paroni, e eli i more de fame. Ma sti intriganti no ga altro fin che quelo de condur el popolo a la miseria, a la di- sperazion; parché alora quel revolton, che i voria far de tuto e de tufi, deventaria più facile". Mentre l'oratore pronunciava queste parole il Polentina crollava il capo, scuotendo i suoi orecchini, e aggrottava le ciglia. Noi lo credevamo un comunista arrabbiato. Domanda la parola, e grida: "El dise ben: paroni e operati xe tuti una famegia". Insomma, poveri i Veneziani, che devono abitare a Venezia! La consuetudine li ha da far quasi ciechi a tante gioie dell'intelletto e della vista, a tante disinteressate emozioni del cuore. Il loro orec- chio non bada più, è vero, alle terribili oscenità ed alle laide be- stemmie, che barcaiuoli, monelli, donne del popolo pronunciano ad ogni frase, discorrendo placidamente fra loro; non bada alle particole, di cui la gente abbastanza civile infiora così per vezzo ogni periodetto delle proprie ciarle. Ma i loro occhi non si fermano forse più a un fregio bisantino, a un intrecciamento arabo, ad una nuvola riflessa nelle onde, alla macchia rossastra di un muro in ro- vina od ai rappezzi e tacconi di un bel putto biondo, magretto e mezzo nudo, che porge sorridendo la mano per domandare uno scheo Può restar loro la voglia sotto i portici delle Procu- ratie nuove, in faccia alle Procuratie vecchie e avendo alla destra il palazzo dei Dogi, di compiacersi in quelle ciance, delle quali cin- quecent'anni addietro si lagnava messer Francesco Petrarca. Il cantore di Laura si scagliò contro "la troppa libertà del parlare, per la quale in Venezia, più che in altro luogo qualunque, gli uomini onesti dagli infami, i dotti dagli ignoranti, i forti dai vili, i buoni dai malvagi sono impunemente vituperati". Si vede che il pette- golezzo non è cosa recente su questa terra mortale. E il Petrarca aveva amato con fervore Venezia: le aveva regalato una preziosa parte de' suoi libri; s'era molto compiaciuto che nelle feste per la vittoria di Candia il Doge l'avesse fatto sedere alla sua destra in cospetto di tutto il popolo, sulla loggia che sovrasta alla porta maggiore della basilica di San Marco; aveva invitato a tornare ospite suo nel suo palazzo della Riva degli Schiavoni, messer Giovanni Boccaccio, scrivendogli: "Tu conosci per prova quanto soavi e dolci riescano le notturne passeggiate sul mare". Anche il fiero Dante fu allettato dalla vaghezza della sin- golare città. Se non restasse una sua epistola a Guido da Polenta, si direbbe ch'egli non avesse guardato in Venezia ad altro che all' arzaná, dove bolle la tenace pece da lui in tre terzine dipinto; ma, dopo aver raccontato a Guido, del quale era in quei di amba- sciatore presso i Veneziani, che in faccia al Consiglio, poiché ebbe principiato la sua orazione in latino, gli fu mandato a dire "che cercasse di alcuno interprete o che mutasse favella" ond'egli mez- zo tra stordito e sdegnato cominciò a parlare in italiano, e capiva- no poco anche di questo; dopo avere notato che non si maraviglia- va di tanta ignoranza e accennato ai "vituperosissimi costumi dei Veneziani ed al fango della loro sfrenata lascivia", chiude l'epi- stola col dire: "Mi fermerò qui pochi giorni per pascere gli occhi corporali naturalmente ingordi della novità e vaghezza di questo sito". Dante dovette parere a quegli astuti e pieghevoli senatori un ambasciatore disgraziatissimo: rigido, impaziente, altero, dispetto- so. E di tale cattiva impressione da lui prodotta sul Consiglio, s'ac- corse certo il poeta fiorentino, e il suo malumore lo fece abbonda- re nelle accuse non giuste. Si può prestare più fede ad un placido ed imparziale francese, Michele di Montaigne, che andò a Venezia nel 1580, quando vi dipingeva Paolo e il Tintoretto e vi scolpiva Alessandro Vittoria. Veronica Franco, la famosa cortigiana poetessa, gli mandò a re- galare un suo volume di Lettere Egli diede due scudi al messo; ma è gran peccato che non ne dica di più. Nelle donne non trovò "cette fameuse beauté qu'on attribue au Dames de Venise"; e pur vide "les plus nobles de celles qui en font traficque", nelle quali più che d'ogni altra cosa si maraviglia in quella sua vecchia ortografia: "d'en voir un tel nombre faisant une dépense en meu- bles et vestemans de princesses". I broccati, i damaschi, il bisso, la porpora, i pizzi, i merletti, le stoffe d'oro e d'argento, i velluti, le sete, le perle, le pietre prezio- se, ogni splendore, ogni fasto della vita mondana aveva la sua in- fluenza sull'indole dell'arte. L'amore delle tinte vivaci era antico nei Veneziani: già prima del XII secolo il loro colore favorito fu nelle vesti il turchino, tanto che i Romani dicevano Turchi- no per Veneto E l'arte bisantina e l'arte araba e l'arte moresca e l'arte tedesca e l'arte fiamminga si diedero convegno nella città delle lagune per compiere l'orgia del bello. I gastaldi delle Arti avevano un bel decretare, che nessuno potesse vendere quadri, fuorché quelli "che avranno zurado l'arte, intendendo che loro sia habitatori de Venetia et a loro sia licito vender ne le loro botteghe et non in altro luogo"; quella che il Montaigne chiama la presse des peuples etrangers vinceva coteste paurose esclusioni. Lo Shakespeare fa dire ad un mercante Veneziano, che, soffiando sul brodo della zuppa per raffreddarla, egli pensa alle sue navi, volanti in tutti i mari con le loro ali di tela. E mentre i Veneziani si spandevano così nel mondo conosciuto, gli stranieri si concentravano in Venezia. Nel 1505 il Senato fece ricostruire il Fondaco dei Tedeschi da un Girolamo tedesco. Questo eclettismo, questo sensualismo, questo splendore dell'arte veneziana e nello stesso tempo questo suo carattere eminente- mente veneziano, spiegano la sua straordinaria forza affascinatri- ce. È una ghirlanda di fiori olezzanti; è una collana di pietre pre- ziose. E una cosa lasciva e imponente.

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