Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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L'esordio nei 776 a.C: nel recinto sacro chiamato Altis si svolge un'unica prova, la corsa dello stadio (circa 185 m), solo alla XIV edizione dei Giochi verrà aggiunta la corsa doppia, e via via le altre specialità, per gli adulti e per 1 fanciulli, fino a una ventina

Le prime Olimpiadi si disputano nel 776 a.C. (Corebo di Elide, cuoco, vince nello stadio). Le ultime nel 393 d.C: l'anno prima un editto dell'imperatore Teodosio ha soppresso i riti pagani, 33 anni dopo un nuovo editto di Teodosio II determina l'incendio e il saccheggio del tempio di Zeus a Olimpia. Tra la prima e l'ultima data trascorrono 1100 anni di storia in cui la Grecia passa dalle monarchie alle oligarchie alle tirannidi alle democrazie, dall'elaborazione dei poemi omerici alla nascita della filosofia, dalle guerre persiane a quella tra Atene e Sparta, dalle colonie d'Occidente alla conquista dell'Oriente, da Alessandro ai diadochi, dalla conquista romana alle invasioni barbariche. Nel VI sec. le piene del Cladeo e una serie di terremoti comportarono l'abbandono definitivo di Olimpia. Restò solo una piccola chiesa cristiana, costruita sui resti dell'officina di Fidia, da dove era uscita la statua crisoelefantina di Zeus, una delle sette meraviglie dell'antichità.

Questa storia sanguinosa è stata raccontata, tra gli altri, da Pindaro, nella prima delle sue Odi olimpiche, composta per la vittoria del tiranno siracusano Cerone nella corsa dei carri del 476 a.C. Quella aperta dai celebri versi citati in ogni storia delle Olimpiadi antiche, già da giorni, in preoccupante crescendo, recitati negli spot televisivi degli imminenti Giochi di Atene, con tono solenne: «La cosa migliore è l'acqua, e l'oro scintillante come un fuoco che s'accende nella notte...» . Se la maestà dell'incipit vi ha stregato, non accontentatevi però di leggere l'intera ode. Perché il sublime cantore, nel suo slancio idealizzante, non dice tutta la verità. Trucca le carte, per coprire altri trucchi. Come andarono davvero le cose lo sappiamo da diverse fonti, anche coeve, anche figurative: addirittura, se si deve prestare fede al baedeker di Pausania, dal timpano del tempio di Zeus eretto a Olimpia in quegli stessi anni. Pelope non voleva finire come gli altri pretendenti. Così si accordò con Mirtilo perché manomettesse i mozzi delle ruote al carro del re: in cambio gli garantiva parte del regno e una notte d'amore con Ippodamia. Una frode. E un primo tradimento. Altro che i cavalli alati, dono di Poseidone, millantati da Pindaro. Durante la corsa la quadriga di Enomao si sfasciò, il sovrano fu travolto e ucciso, Pelope vinse e sposò Ippodamia, diventando re, ma non mantenne la parola data (secondo tradimento) e quando Mirtilo cercò di prendersi la bellissima con la violenza, lo eliminò precipitandolo in mare. Quindi si purificò dei due delitti e in ricordo della discutibile vittoria istituì la corsa dei carri, nucleo dei futuri giochi. Come inizio del rito sportivo che si vorrebbe esaltazione del valori di lealtà, nobiltà, disinteresse, non c'è male. Qui in realtà le versioni si moltiplicano, perché la fondazione vera e propria dei giochi olimpici è variamente attribuita a diversi personaggi mitici (uno su tutti, Eracle). Ma non è questo il problema. Il problema è: come mai i greci ponevano un precedente così poco commendevole alle origini dell' evento fondante della propria identità etnica e culturale, così centrale che dalla data della sua prima celebrazione conteggiavano la loro cronologia? Evidentemente qualche cosa non torna nell'elaborazione ideologica di Pindaro, così come in quella dei moderni, dal barone de Coubertin in poi. Nei miti, almeno in quelli orali, c'è sempre molto più di quanto appare, un intrico di motivazioni che si sono depositate nel tempo. Ed è ai miti che bisogna guardare quando si cerca la spiegazione di un'istituzione, di una comportamento sociale, di un convincimento collettivo. L'agone sportivo come pratica in cui la forza fisica è incanalata e ritualizzata in una manifestazione insieme sportiva, religiosa, politica e spettacolare, è uno specifico dei greci. Ma anche se la fondazione dei diversi giochi può essere ricondotta a quel generale movimento di razionalizzazione, di progressiva emersione dell'ordine dal caos, della forma dall'informe in cui consiste il senso più profondo della civiltà ellenica (dalle battaglie primordiali di Zeus contro i Titani e i giganti ai combattimenti degli eroi opposti a un'interminabile serie di mostri), tuttavia è chiaro che le implicazioni sono molteplici. Quando dal mito passiamo alla storia, che cosa troviamo? La storia comincia nel 776 a.C, allorché i re Ifito di Elide, Cleostene di Pisa e Licurgo di Sparta riorganizzano i giochi con un carattere panellenico, stabilizzando la canonica cadenza quadriennale e istituendo la «tregua sacra» (ekecheiria) per tutta la durata delle gare. Intorno alla tomba di Pelope, nel recinto sacro chiamato Altis, all'inizio si svolge un'unica prova, la corsa dello stadio (circa 185 m). Solo alla XIV Olimpiade verrà aggiunta la corsa doppia (diaulos), e via via le altre specialità, per gli adulti e per i fanciulli, fino a una ventina. Ebbene, non nella lunga età della decadenza, ai tempi dell'impero romano (gli ultimi giochi sono del 393 d.C.), ma fin dalle fasi più antiche troviamo storie di atleti scorretti, gare truccate, vittorie comprate, allenatori corrotti. A metà del V sec. a. C. un certo Leontisco di Messane (Messina) vinse per due volte la gara di lotta con una mossa lecita soltanto nel Pancrazio: afferrava l'avversario per le punte delle dita fino a spaccargliele. Pure con un colpo proibito, nel 492, Cleomede d'Astipalea si era imposto nel pugilato: soltanto dopo interminabili discussioni i giudici di gara (ellanodikai) si erano risolti a incoronare lo sconfitto, nel frattempo deceduto per le ferite. Il tessalo Eupolo, invece, divenne olimpionico nel 388 pagando gli avversari perché lo lasciassero vincere, imitato nel 332 dall'ateniese Callippo nel pentatlo. Altre truffe potevano riguardare l'età denunciata dagli atleti, le scuse addotte per il mancato arrivo a Olimpia in tempo debito (i concorrenti dovevano allenarsi per 30 giorni davanti ai giudici, ma accadeva che qualcuno non rispettasse i tempi per partecipare a altre gare), la città di provenienza e la condizione civile (non erano ammessi schiavi né stranieri, e qualche volta anche ai greci toccò di essere esclusi, come agli spartani nel 420 per violazione della tregua sacra: in quel caso uno di loro, Lica, trovò il modo di iscrivere il proprio carro, e vincere, spacciandolo per tebano). Perche gli atleti erano pronti a tutto pur di trionfare? E come si concilia questa feroce (a volte truffaldina) determinazione con il moderno motto decoubertiniano «l'importante è partecipare», che si vorrebbe ricavato da un inesistente modello ellenico? È stato il classicista tedesco Jacob Burkhardt, nell'800, a parlare di «spirito agonale» dei greci, della vocazione a confrontarsi per il puro gusto di farlo, indipendentemente dalla vittoria. E in molti, sulla sua scia, hanno contribuito a dare di quel rissoso ma concretissimo popolo un'immagine romanticizzata, astorica e paradossale, se non perfino caricaturale. In realtà gli atleti combattevano soprattutto per la ricompensa, come è rivelato anche dal loro nome: athletés, da àthlon, premio. È per ottenere Ippodamia che Pelope affronta la sfida mortale. E quando Achille organizza i giochi funebri in onore di Patroclo, non si perita di invogliare alle gare esibendo i tesori in palio. Si noti, tra l'altro, che quando il «pie veloce» decreta la retrocessione di Antiloco, che ha battuto Menelao nei carri con una scorrettezza, l'interessato si adira: «Vuoi dunque togliermi il premio?». Tanto per dire che - agli occhi almeno di un greco dell'età arcaica, quando visse Omero - il fine della vittoria poteva proporsi come plausibile contraddittorio della lealtà. E così se ne va un'altra mistificazione di de Coubertin, desunta piuttosto dal modello britannico del gentleman e dei college di fine '800: il mito del dilettantismo. Semmai, questa idea poteva corrispondere alla realtà olimpica più antica, quando i giochi erano monopolio delle classi aristocratiche. Le cose cambiano con l'allargamento della base sociale nella pòlis democratica, verso la fine del VI sec., a cui corrisponde l'introduzione di una specialità agonistica, la corsa in armi, pensata apposta per i protagonisti emergenti dell'esercito «popolare»: gli opliti. È vero, i giochi di Olimpia, come gli altri tre stephanìtai (i pitici, gli istimici e i nemei), non previdero mai premi in denaro, ma solo una corona (stéphanos), in questo caso di ulivo, tratta dal boschetto sacro dell'Altis. Ma i benefici indotti erano svariati. Intanto la vittoria olimpica era la migliore referenza per essere ammessi alle altre competizioni con ricchi premi, dove spesso si era pagati anche soltanto per partecipare. Ne era nata una categoria di superprofessionisti che giravano l’Ellade come globetrotter: per esempio Teogene di Taso, un aristocratico, accreditato di 1300 vittorie in 22 anni, nel Pancrazio e nel pugilato. Poi c'erano le sovvenzioni pubbliche. Poi i premi aggiuntivi. Nel V sec. Solone assegnò per legge 500 dracme ai vincitori dei giochi olimpici, 100 a quelli dei giochi pitici: una dracma era il guadagno giornaliero di un operaio specializzato. Così lo Stato faceva propria la vittoria del suo atleta e la sfruttava politicamente. Dice nulla? In più c'era la gloria: gli olimpionici erano in patria veri e propri eroi nazionali, idolatrati come oggi i calciatori, mantenuti a vita nel pritaneo, destinatari di favori e favoritismi - come il posto in prima fila a teatro duramente contestati dagli intellettuali invidiosi come Senofane. E la corona di ulivo poteva diventare un capitale da spendere politicamente: nel 416 a.C. il ricchissimo e ambiguo Alcibiade riuscì a convincere l'assemblea alla (disastrosa) spedizione in Sicilia usando come argomento, anche, il proprio recente exploit olimpico: primo, secondo e quarto posto nella finale delle quadrighe. Ancora una volta, dice niente? Insomma le Olimpiadi antiche, non meno di quelle moderne, erano un grande business a cui nessuno voleva mancare, con retori storici e cronisti al posto delle tv. Nel recinto dell'Altis Erodoto lesse le sue Storie, Gorgia e Lisia pronunciarono le loro orazioni. Accorrevano gli scultori, perché i vincitori avevano il diritto di dedicare una statua nel boschetto sacro: Plinio asserisce di averne viste almeno tremila. Né potevano mancare i poeti, ancora più esosi degli artisti. Come Simonide, come Bacchilide. Come Pindaro, il cantore dei bei tempi andati, dei valori del sangue e della nobiltà d'animo. Che a un tale Pytheas, vincitore neppure a Olimpia ma a Nemea, chiese per l'epinicio tremila dracme.

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Il Nuovo Corriere della Sera

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Nel 1951 la «Phaidon» pubblicò un volume intitolato «Towards modern art», verso l'arte moderna, «arte del nuovo tempo e arte dei tempi passati mostrate a fianco» da Ludwig Goldscheider: e si vedono a riscontro una testa picassiana del 1937 e un ricamo peruviano del VI Secolo d.C; una testa di ottone dovuta allo scultore Rudolf Belling, del 1925, e una testa etrusca di terracotta (evidentemente falsa, ad ogni modo); due pitture del Greco e due di Cézanne; un Arcipenco e una testa bizantina; due teste «astratte», una delle Cicladi - circa 2500 a.C. - e una di Brancusi; un Cristo spagnolo del 1100 e uno di Rouault, e così via ancora per un bel po'. Nel 1956 Knorr & Hirth pubblicarono pure un libretto di Herbert Kuhn sull'arte astratta del passato - «Abstrakte Kunst der Vorzeit» - con molte figure della Mesopotamia, delle Cicladi, al solito, di Troia, della Sardegna, della Beozia, di Micene, dell'Estremadura, della Jugoslavia, della Cecoslovacchia: con il chiarissimo involontario risultato non di giustificare e lodare l'astrattismo dei moderni, ma di mostrare che gli antichi tutti non erano assolutamente né mai potevano essere astrattisti. Infine, curiosi di vedere - ma senza trovarle - se due stampe carraccesche che possediamo vi fossero numerate, abbiamo scorso il catalogo critico delle «Incisioni dei Carrocci», a cura di Maurizio Calvesi e Vittorio Casale, «Comunità Europea dell'Arte e della Cultura», Roma, 1965: e così abbiamo, ancora, dovuto leggere, con tristezza, che in una delle comuni «tipiche prove di bulino» «si direbbe che Annibale» Carrocci «si sia divertito a comporre astrattamente».

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