Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La storia dell'arte

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Pinelli, Antonio 6 occorrenze

Venus capitolina (variante della Venus pudica), copia romana in marmo da un probabile originale di Prassitele del IV sec. a.C., Roma, Musei Capitolini. Fig. 98. Giovanni Pisano, Fortezza e Temperanza, particolare della base del pulpito, 1302-10, Pisa, Duomo. uso di punzoni, pastiglie dorate e inserti di pietre semipreziose. Ma ancor più significativa è la sostanziale assenza di profondità prospettica, a ergi ne allarga le sue braccia e due santi che l'affiancano, in secondo piano, so levano le estremità del suo mantello, dispiegandolo in modo da accogliere il gregge dei fedeli. Ma la Vergine non crea con il suo gesto uno spazio concavo: la sua figura si dispiega in superficie e la sua silhouette dorata, stampandosi sul fondo scuro del mantello, disegna un elegante arabesco. Anche la folla che si assiepa sotto la sua protezione non viene rappresentata secondo le regole della prospettiva, ma fa massa, e invece di rimpicciolire proporzionalmente mano a mano che si allontana dal primo piano, si distribuisce, allo scopo di non sfuggire alla vista, come se poggiasse lungo e pendici di due simmetriche collinette immaginarie. L'autore di questo pinto è Hans Clemer, un pittore originario della Francia settentrionale, ma attivo negli anni a cavallo tra Quattro e Cinquecento in Piemonte: una regione che, come abbiamo visto, faceva parte integrante di quel territorio su a pi no che fu uno dei più fervidi laboratori del Gotico cortese.

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Il cubiculum della Villa di Boscoreale (Pompei), seconda metà del I sec. a.C., New York, Metropolitan Museum of Art. Fig. 102. Decorazione pittorica nel «secondo stile», dalla Villa di Boscoreale (Pompei), seconda metà del I sec. a.C, New York, Metropolitan Museum of Art. e che sono state recentemente oggetto di un bel libro di Salvatore Settis, Le pareti ingannevoli. La villa di Livia e la pittura di giardino (2002).

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Le poche fonti giunte fino a noi relative all’età arcaica e all’epoca di Pericle (VI-V sec. a.C.) riferiscono di pagamenti che, oltre a tener conto del prezzo dei materiali usati (ad esempio il marmo), e quindi riconoscendo agli artisti le spese vive da loro sostenute, ne ricompensavano il lavoro in ragione di una tariffa oraria. Questo genere di remunerazione, basata sul tempo impiegato a realizzare materialmente l’opera, escludeva qualsiasi considerazione sulle particolari capacità intellettuali impiegate dall’artista, assimilando il suo lavoro a qualsiasi altra attività manuale e artigianale. Già con Fidia, però, e poi a partire dall’epoca di Alessandro Magno, emergono i primi segnali di cambiamento: i grandi artisti, come Apelle, che era il pittore e ritrattista di fiducia di Alessandro, e Lisippo, che ricopriva lo stesso ruolo nel campo della scultura, percepivano compensi infinitamente maggiori della semplice paga oraria. Parallelamente, il diffondersi di un collezionismo d’arte capace di non badare a spese pur di ottenere un’opera degli artisti più celebrati, riversò nelle loro tasche somme inavvicinabili per la gente comune e del tutto sganciate dal mero calcolo della maggiore o minore lunghezza dei tempi spesi per produrre quegli ambitissimi capolavori. In altre parole, cominciò ad affermarsi quel principio moderno per cui nell’opera d’arte il rapporto valore-lavoro non è quantificabile nei termini esclusivamente temporali delle ore impiegate per eseguirla materialmente.

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Tutto ciò ebbe inizio già in età classica, ad esempio con Policleto, grande scultore greco del V secolo a.C., delle cui statue originali in bronzo, come il celebre Doriforo, non ci è pervenuto l’originale, ma solo copie romane in marmo (fig. 12). Quest’artista compose il Canone, un trattato di cui si sono conservati solo pochi frammenti. In esso Policleto esponeva la sua teoria del bello, incarnata nella formula della cosiddetta composizione a chiasmo, cioè a X (dalla corrispondente lettera greca, che si legge «chi»). La composizione a chiasmo, che ha nel Doriforo il suo più canonico paradigma, si basa su un complesso gioco di equilibri e bilanciamenti nella rappresentazione del corpo umano, che abbandona la rigida e inanimata frontalità delle statue arcaiche per articolarsi nello spazio, obbedendo però ad un rigoroso controllo di ogni sua misura e dimensione, in base all’assioma che la bellezza è espressione di rigorosi parametri aritmetici e proporzionali. Il chiasmo cui obbedisce il Doriforo si fonda su un gioco incrociato di contrapposizioni: alla gamba flessa e arretrata corrisponde, in alto, il braccio opposto disteso in tutta la sua lunghezza, mentre al braccio sinistro piegato si contrappone, in basso, la gamba destra portante. Contemporaneamente, all’inclinazione delle spalle corrisponde, in senso inverso, quella delle anche. Il canone policleteo conferiva alla statua un’apparenza di moto, che la rendeva simile ad un corpo vivente, testimoniando un procedimento artistico il conferimento dell’apparenza di movimento ad una statua di cui possiamo seguire l’evoluzione, a partire dalla rigidità quasi egizia dei kouroi arcaici (fig. 13), dove un primo accenno di moto e di precisazione anatomica si sviluppa semplicemente con l’avanzamento di una gamba rispetto all’altra e con la definizione più accurata della struttura del ginocchio, per giungere fino all’arditezza di pose come quella del Discobolo di Mirone, oppure, un secolo dopo Policleto, all’animata scioltezza delle sculture di Lisippo (fig. 14), che Fig. 12. Policleto, Doriforo, 450 a.C. ca., copia romana in marmo da originale in bronzo, Napoli, Museo Nazionale. Fig. 13. Kouros funerario di Kroisos, 530 a.C. ca., Atene, Museo Archeologico Nazionale. 14. Lisippo, Apoxyómenos, 320 a.C.ca., copia romana in mano da originale in bronzo, Città del Vaticano, Musei Vaticani. hanno programmaticamente forzato il sorvegliato equilibrio chiastico del canone policleteo.

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In questo contesto, assume una particolare importanza la cosiddetta questione dell’«ut pictura poësis», ovvero l’asserzione, basata su una definizione tratta dall’Ars poetica dello scrittore latino Orazio, che a sua volta discendeva da una formula di Simonide di Ceo (VI-V sec. a.C.), circa la stretta analogia tra pittura e poesia. Secondo Simonide, la pittura non è altro che poesia muta, mentre la poesia, a sua volta, è pittura parlante. Di qui la tendenza, che comincia a farsi strada a partire dal Quattrocento, a considerare la cosiddetta «pittura di storia» come il genere pittorico di maggior livello e prestigio. Essa, infatti, è quel tipo di pittura che più si avvicina alla letteratura, in quanto rappresenta favole mitologiche, eventi storici o religiosi, popolati da personaggi che, attraverso la mimica, la gestualità e le posture del corpo, esprimono sentimenti, stati d’animo, passioni. Dipingere un «quadro di storia» comporta la padronanza della prospettiva e dell’anatomia, nonché la capacità di approfondire e narrare visivamente concetti e sentimenti. Va da sé che questo tipo di giudizio era anche applicato alla statuaria e alla scultura a rilievo.

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Penelope afflitta e Ulisse mendicante, 470-450 a.C. ca., rilievo in terracotta, New York, Metropolitan Museum of Art. Fig. 21. Provincia capta, età augustea, Roma, Palazzo dei Conservatori. appoggiato ad una mano, le gambe accavallate (allusive alla sua ostinata e virtuosa chiusura nei confronti delle profferte dei Proci che ambivano a sposarla), quest’immagine di Penelope «vedova inconsolabile» già nell’arte romana aveva subito uno «sdoppiamento» semantico, essendo stata adattata anche a tipo iconografico della Provincia capta (fig. 21). Fu facile, infatti, far slittare il significato allegorico di quella donna afflitta, piegandolo a simboleggiare la dolorosa sottomissione delle popolazioni che, dopo Fig. 22. Fazio degli Uberti, Dittamondo, pianta di Roma, miniatura di un codice del 1447, Parigi, Bibliothèque Nationale. Fig. 23. Albrecht Dürer, Monumento celebrativo della vittoria sui contadini, 1525, xilografia. esser state sconfitte dai Romani, venivano da essi integrate nella compagine imperiale.

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Leggere un'opera d'arte

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Chelli, Maurizio 10 occorrenze
  • 2010
  • Edup I Delfini
  • Roma
  • critica d'arte
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Prima di passare alla descrizione di queste composizioni è utile ricordare il racconto veterotestamentario: il re persiano Assuero (V secolo a.C.) dopo aver ripudiato Vasti, la legittima consorte che lo aveva offeso, scelse al suo posto Ester, una fanciulla molto bella, non sapendo che era ebrea.

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L’iconografia più antica risale al V secolo a.C. e riguarda l’arte vascolare, dove l’immagine mostra semplicemente Europa in groppa al toro.

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Il tema ha una iconografia che risale all’arte vascolare del V secolo a.C., ripresa poi in epoche successive. Icaro è raffigurato mentre precipita a testa in giù con accanto Dedalo che prosegue il suo volo oppure osserva la scena dal basso. La storia di Icaro fu molto rappresentata nel XVI e nel XVII secolo con intenti moraleggianti, come invito alla moderazione. Piuttosto singolare è la versione dipinta da Pieter Bruegel e conservata nei Musei Reali di Bruxelles, che non ha l’aspetto di un dramma ma quello di una visione idilliaca (figura 86). Figura 86 - PIETER BRUEGHEL IL VECCHIO, La caduta di Icaro, 1558, Musei Reali, Bruxelles. Il punto di vista dall’alto suggerisce quello di Icaro ancora in volo, prima della rovinosa caduta in mare, rappresentata in basso a destra; l’aratore, il pastore, rimangono indifferenti di fronte alla tragedia di Icaro, mentre la natura si mostra in tutto il suo incanto.

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L'iconografia, come nel caso del mito precedente, risale al V secolo a.C. e compare sia nell’arte vascolare che nella scultura, e in genere mostra il cigno che con le ali spiegate accoglie in una specie di abbraccio la figura di Leda, raffigurata nuda. Il bassorilievo conservato nel Museo Archeologico di Atene, risalente al II secolo Archeologico corrisponde perfettamente alla scena (figura 89). Figura 89 - Leda e il Cigno, Museo Archeologico, Atene. Nel Rinascimento accanto a Leda e il cigno compaiono due uova, dalle quali stanno uscendo due bambini, come possiamo apprendere dal dipinto conservato nella Galleria Borghese, a Roma, attribuito alla scuola di Leonardo.

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Il ritratto, come genere, nasce intorno al IV secolo a.C. in Grecia, grazie soprattutto a Lisippo, autore del ritratto ufficiale di Alessandro Magno; si estende in seguito in ambito etrusco e in ambito romano, con aspetti diversi.

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Il meccanismo che ha prodotto questi canoni è lo stesso usato dagli artisti della statuaria greca del V secolo a.C., che per realizzare una scultura si servivano di più modelli, traendo il meglio da ognuno di essi. Gli spunti per rappresentare la natura andavano ripresi dal vivo e “ordinati”; in questo modo alberi, monti, architetture diventavano gli elementi utili ad individuare i vari piani di composizione.

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Le origini di questo tema sono antichissime e si fanno risalire alla fine del IV secolo a.C., in ambito ellenistico; si trattava di un tipo di rappresentazione illusionistica, attraverso la quale l’artista poteva dimostrare la sua abilità nel simulare la realtà. Significativo è l’episodio descritto da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia, riguardante il pittore Zeusi, che avrebbe dipinto dei grappoli d’uva in maniera tanto fedele da ingannare alcuni uccelli che vanamente cercarono di beccarne gli acini, ma che a sua volta sarebbe stato ingannato allorché cercò di aprire un tendaggio dipinto dal pittore Parrasio.

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All’inizio il nudo fu soltanto maschile, ispirato a quella emozione sublime che i giovani nudi in palestra potevano suscitare secondo la cultura del V secolo a.C., poi in epoca relativamente tarda compare il nudo femminile.

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Sin dall’antica Grecia gli veniva attribuito un valore estetico, tanto che, come racconta Menandro, uno scrittore del IV secolo a.C., molti uomini del suo tempo cercavano di ottenere un colorito biondo dei capelli cospargendoli con un particolare unguento, per poi esporli all’azione dei raggi solari. Ma il giallo è anche il colore dell’autunno e nel Medioevo viene usato convenzionalmente per rappresentare gli indumenti di Giuda Iscariota, associandolo al tradimento; nel Seicento diventa sinonimo di malattia: la bandiera issata su una nave contaminata è gialla. Nell’antichità questo colore veniva ricavato da minerali ricchi di ferro e dal solfuro di arsenico. Ha il massimo potere riflettente e dà l’impressione di irradiarsi; l’occhio umano è sensibile ad esso più di ogni altro colore e questo spiega perché è usato dai pubblicitari e negli avvertimenti relativi alla prevenzione degli infortuni dei macchinari pesanti.

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In Egitto, al tempo del Nuovo regno (1580-1070 a.C.; XVIII-XX dinastia) era un segno di affetto e di lusinghe erotiche; nella pittura della Grecia arcaica rappresentava invece il corteggiamento; nell’arte della tarda antichità classica invece assumeva il significato allegorico dell’unione di Cupido e Psiche, ossia dello sposalizio del dio dell’amore con l’anima umana.

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