Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La gente per bene

191483
Marchesa Colombi 19 occorrenze
  • 2007
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Coi parenti - Festa in famiglia - Colle sorelline - Colle persone di servizio - A pranzo - Visite - Inviti - Essendo ospiti in casa altrui - In iscuola - In serata - In chiesa. Cosi è, signorini miei. Loro hanno sei, sette, otto anni; vestono la gonnellina come la mamma, o il farsettino come il babbo. Si chiamano Mario o Maria, Carlo o Carolina, a seconda del loro sesso. L'abito neutro, il nomignolo neutro sono abdicati. S'immischiano di ragionare o di sragionare, il che viene a dire lo stesso: hanno preso il loro posto in società. Hanno dunque, oltre l'obbligo della civiltà elementare che hanno imparata dalla mamma, e direi quasi succhiata col latte, anche quello dei piccoli doveri di società. La prima società è la famiglia; la più cara; e, come tale, quella che si deve meglio curare per non turbarne l'armonia. - Buon giorno, mamma, buon giorno, babbo, buon giorno, buon giorno.... Questa è la prima parola che i ragazzini educati debbono avere sul labbro svegliandosi; e, possono crederlo senza vanità, pronunciata da loro riesce veramente di buon augurio pel cuore dei loro parenti. Così pure avanti di andare a tavola debbono augurare a tutta la famiglia il buon appetito; avanti di coricarsi la buona notte. Queste cose sono già abbastanza elementari, nevvero? Eppure io so di signorini, fino ad un certo punto educati, che non commetterebbero mai nessuna delle sconcezze accennate ne' primi consigli di Melchiorre Gioia, che si dànno l'aria di personcine importanti, che salutano que' di fuori e fanno de'complimenti per sentirsi dire: Che ragazzi gentili! e poi in casa si svegliano domandando ad alta voce la colazione, o magari facendo il broncio e piagnucolando: siedono a tavola prima de'loro genitori; la sera si fanno dire dalla mamma di dare la buona notte al babbo; e, quando escono a passeggio, hanno bisogno che la bambinaia, la quale, poveretta, non ha avuta educazione, li avverta di salutare le persone della famiglia che rimangono in casa. Così, dunque, mi hanno intesa, signorini? Tutti i complimenti che si fanno cogli estranei, li debbono prima di tutto praticare nella loro casa, colla loro famiglia. Questo per la vita di tutti i giorni; ma vi sono giorni diversi degli altri; giorni solenni. Il Natale, il Capo d'anno, gli onomastici, i natalizi di famiglia. È allora che i ragazzi educati debbono dar prova di vera gentilezza. Quando si tratta di festeggiare il babbo, è la mamma che consiglia i bambini, e loro non hanno che a lasciarsi dirigere. Ma se sapessero come soffre la mamma, e che malagrazia hanno loro stessi, quando reagiscono contro la lettera da scrivere, contro il complimento da recitare, contro il lavoro da eseguire; e brontolano che non sanno cosa scrivere; e che il complimento è difficile da imparare a memoria; ed a dirlo poi... non osano... E, al momento di dirlo, quelle esitazioni, que'contorcimenti, quel ridere scemo, quasi che il fare una manifestazione d'affetto ai genitori fosse cosa buffa, quegli straordinari abbassamenti di voce e tutto il corredo di smorfie, con cui i fanciulli sogliono guastare le più care scene di famiglia, lo sanno loro, signorini miei, come si traducono in lingua parlata? - Che ragazzi egoisti! Come sono freddi pei loro genitori! Tutto quello che fanno è una formalità compiuta per forza, e non hanno neppur abbastanza delicatezza per non farsi scorgere. Triste solennità per que' genitori! E triste idea, soggiungo io, che danno quei fanciulli della loro educazione! Vi sono poi fanciulli soprammodo disgraziati, che non hanno più mamma, o non hanno più babbo. Ed altri la cui sventura è più grande ancora: li hanno perduti entrambi. È un parente, un'istitutrice, che tiene il luogo di que'poveri cari. Allora, a quel parente, a quell'istitutrice, debbono gli stessi riguardi che avrebbero dovuto a'genitori. Se è una sola persona che veglia su di loro, debbono ingegnarsi a farle da sè stessi qualche improvvisata che le rallegri i giorni solenni; poichè, naturalmente, non debbono farsi consigliare da lei. Allora non vi sarebbe più improvvisata possibile. In tal caso, un lavoretto semplice che sappiano eseguir bene, qualche fiore, poche parole scritte, venute schiettamente dal loro cuoricino, anche con qualche errore, non importa, ecco quello a cui debbono attenersi. Pregare un maestro oppure un conoscente che scriva per loro una lettera, sarebbe quanto dire alla persona a cui fanno omaggio, la quale conosce troppo la loro capacità per essere ingannata: - «Badi, non ci avevo proprio nulla nel cuore. Non ho trovato una parola per lei, ho dovuto farmela prestare da altri.» Dolorosa novella questa, e tutt'altro che fatta per allietare un giorno solenne. Alle volte però si possono recitare de' versi ed è certo un pensiero grazioso, sebbene difficilmente i versi possano essere scritti dal bambino che li dice. Ma bisogna che siano scritti appositamente per quella circostanza; o, quanto meno, che il fanciullo, leggendoli in qualche buona raccolta, li abbia compresi perfettamente, e vi abbia trovato l'espressione dei propri sentimenti per la persona alla quale vuol dirli. Ma è assai difficile trovare in un libro i versi che si adattino precisamente a' sentimenti, a' rapporti sociali, alle qualità, alle circostanze d'una persona. Una allusione fuor di proposito basta a metter in ridicolo chi li dice, ed anche la persona a cui sono rivolti. Io conobbi, anni sono, una bambina, che non aveva più mamma, povera gioia! Il suo babbo occupava una alta situazione, ed era sempre assorto in gravi lavori. L'educazione della piccina era affidata ad una vecchia signora nubile, buona senza dubbio, come lo sono tutti quelli che prendono cura de' bambini, ma d'aspetto tutt'altro che avvenente, di modi rigida, rigorosa, punto espansiva, austera nel suo vestire che era sempre nero o color tabacco. Una mattina, giocando con un calendario che stava sul camino, la piccola Gemma vide che quel giorno era San Gaudenzio. L'onomastico della sua governante, che si chiamava Gaudenzina. Cosa fare? Non lo aveva saputo prima, ed ormai il babbo era andato allo studio, e non c'era speranza che rientrasse fin all'ora del pranzo. Tuttavia la bimba era compresa del suo dovere, e si sarebbe fatto uno scrupolo di non fare un complimento alla governante. Nel suo imbarazzo pensò di andare in cucina a consultare la cuoca. - Se tu volessi andar a prender de' fiori, Margherita.... insinuò la Gemma colla voce supplichevole. - Sie! De' fiori ai ventidue di gennaio; dove li prendo? - Allora, aiutami a pensare cosa debbo fare per la signorina; (la signorina era l'appellativo con cui si soleva nominare la severa governante, che non era mai discesa alla famigliarità di lasciarsi chiamare col suo nome). Fu un'ardua questione. La cuoca cominciò col proporre alla bimba di fare un sonetto. La Gemma non sapeva cosa fosse un sonetto. - Un sonetto, come quello lungo lungo, che ha recitato lo scorso Natale al babbo, spiegò la cuoca. - Quella era una poesia. - Ebbene, una poesia è un sonetto. Ne faccia uno e lo reciti questa sera alla signorina. - Ma io non so farlo. - Se scrive sempre!... - Sì, ma non so come si fa a far le poesie. So soltanto copiare. - Ne copi una da un libro. Ne ha tanti! Era un'idea. La bimba la trovò subblime, e la proposta fu approvata alla piccola unanimità da quell'ingenua assemblea. La Gemma si mise a sfogliare con gran sussiego il suo libro di lettura, ed a leggerne tutte le poesie. Non ne capiva gran cosa. Ce n'erano di quelle che parlavano della patria: comprese vagamente che non facevano al caso suo. Poi c'erano delle favole: La cicala e la formica; La rana ed il bue; IL cane e la fonte. - Ti pare che una di queste possa andare? domandò alla cuoca. La cuoca trovò che quelle storie di bestie erano fatte per raccontarsi dalle governanti a' bambini, e non dai bambini alle governanti. - E proprio per la signorina non dicono niente, soggiunse. La Gemma continuò a cercare. Finalmente trovò una poesia che le parve messa là per lei. Non la capiva tanto bene, poverina: aveva appena sette anni, e non capiva molto chiaramente neppure la prosa; figurarsi poi i versi! Ma quelli erano dedicati ad una signora, e le pareva ben chiaro che le facessero de' complimenti. La Gemma cominciò a copiarla colla sua più bella scrittura. Vi sciupò un quinterno di carta, con cui la cuoca fece un rogo per nascondere la cosa anche al padrone. Giacchè la grande impresa era riuscita senza il suo concorso, bisognava serbare l'improvvisata anche a lui. La sera giunsero parecchi conoscenti che andavano a fare la partita alle carte col babbo della Gemma e la governante, e quando quella signora fu seduta fra loro, cogli occhiali d'argento e con un bel vestito color tabacco, nuovo per la solennità della circostanza, la Gemma si fece innanzi tutta trionfante colla poesia scritta in mano, mentre la cuoca dalla porta faceva capolino, per godere anche lei di quel trionfo dovuto in gran parte alla sua pensata. Una salva di elogi accolse la bimba. - Come! La Gemmolina era riescita da se sola a combinare quella gentilezza? Era una meraviglia. E dove l'aveva copiata? Nel libro di lettura? Ma che idea luminosa! - Via, leggila tu stessa la tua poesia, disse la signorina. Sarà più accetta a me, e la sentiranno tutti. Incoraggiata così, la Gemma aperse la carta, fece un bell'inchino, e cominciò a leggere:

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A meno che si tratti d'un pranzo tra persone intime, l'invito dev'essere fatto otto giorni prima del pranzo. Se qualcuno risponde che non può accettare, e si vuol supplirlo, bisogna affrettarsi a pregare un conoscente, e se è possibile non fargli sapere che riempie un vuoto. Però, se altri ne è informato, e se c'è il pericolo che anche l'invitato per via di discorso venga a saperlo più tardi, e meglio dirgli la cosa francamente. La tavola dev'essere coperta da un grosso tappeto sotto la tovaglia, per evitare ogni rumore nel deporvi le posate ed i piatti. Il tappeto però dev'essere corto e non s'ha da vedere pendere sotto la tovaglia. La biancheria da tavola può essere di fiandra ricca senza guarnizioni come usava altre volte, può essere ricamata in giro, oppure ai due capi alla moda del medio-evo e può essere guarnita di grossa trina di filo, secondo l'ultimo figurino. In questi due casi non sarà di tovagliato, ma di fina tela di lino. Ad ogni modo deve avere le iniziali del padrone di casa, ricamate. I tovaglioli si piegano semplicemente in quadrato colla cifra in evidenza. Tutti gli altri artifici di piegature sono volgarità da locanda. Le sottocoppe, pel momento, si usano non piu d'argento, nè di porcellana, ma assortite alla biancheria da tavola, rotonde o quadrate colla cifra in mezzo. Una striscia lunga, assortita alla tovaglia, ma sempre ricamata a colori, si mette ora in diagonale traverso la tovaglia bianca. È l'ultima novità. Il servizio di cristalleria dev'essere tutto assortito colle cifre, se è moderno. Ma chi ha cristalli antichi di pregio ha sempre una cosa superiore. Ogni convitato deve avere dinanzi un numero di bicchieri, non meno di quattro, di varie dimensioni, adatti ai vini che si debbono servire. Il vino da pasto è il solo che si mette in tavola nelle bottiglie bianche di cristallo del servizio. Gli altri vini sono versati in giro dalla servitù, eccetto lo sciampagna che gode il privilegio di posare in tavola col suo secchiello d'argento. Per l'acqua si possono mettere piccole anfore di vetro colorate con dei fiori legati al manico ; una per ciascun commensale. Accanto alla schiera dei bicchieri ci deve essere una larga coppa assortita al servizio, dove si metterà l'acqua pura per bagnarvi la punta delle dita alla fine del pranzo. Un'operazione che non va fatta in modo da disgustare nessuno, con ripetute immersioni, con sgocciolamenti, ecc. Ho veduto un servizio nuovo di corte; è di vetro opalizzato cogli orli dorati, collo stemma reale in colori. Se credono, signorine mie.... La padrona di casa può mettere in tavola fiori quanti ne vuole, purchè eviti le magnolie e tutti i fiori che hanno un'acutezza di profumo da dar l'emicrania ai commensali. Ed invece di quegli uggiosi mazzi stretti, serrati, in cui i fiori sono disposti a disegno e figurano nell' insieme un pezzo di tappeto, li ponga sciolti coi loro gambi e le foglie nelle coppe. Sono un ornamento elegante ed artistico. La padrona di casa stabilisce i posti tenendo conto delle simpatie, delle analogie, ecc., fra i suoi convitati; scrive il nome di ciascuno sul cartoncino apposito, e lo fa collocare sul tovagliolo. Accanto alla posata di ciascun uomo si usa collocare la noticina dei piatti che saranno serviti. Badino, che dico si usa, ma non dico che sia bello. Ha un'aria da osteria; mi pare sempre che, giunti in fondo, si debba tirar la somma e pagare il conto. Quelli che sono molto devoti al culto dello stomaco però, sono fanatici di questa moda, che permette loro di prendere le debite misure, e di far il posto più largo ai piatti che preferiscono. Il padrone e la padrona di casa stanno nel centro della tavola, ai due lati, uno in faccia all'altro. Alla destra della moglie si mette l'uomo che si vuol onorare di più; ed alla destra del marito la signora di maggior riguardo: i due posti alla loro sinistra sono ancora posti d'onore. Sotto la tavola vanno messi gli scaldapiedi per le signore freddolose se è inverno. Gli sgabelli per le eroine che sfidano il gelo. La camera dev'essere stata ben riscaldata prima; e durante il pranzo si lascia spegnere la stufa per non rialzar troppo la temperatura. Nella sala da pranzo si prepara sulla credenza una tovaglia lunga, assortita al servizio della biancheria da tavola, o, se questo è bianco, assortita alla traversa diagonale, e sovr'essa una quantità di posate, avendo cura che vi siano quelle di forma apposita pel pesce, quelle pei legumi, per le frutta, i cucchiaini a spatola pei gelati, il coltello d'argento a due tagli pei gelati e le torte, ecc., ecc.; più i piatti pel servizio, le bottiglie dei vini scelti ed un certo numero di tovaglioli e di bicchieri per il caso di qualche inconveniente che richiedesse di sostituirli a quelli già posti in tavola. L'illuminazione sarà splendida. Che i cristalli e l'argenteria scintillino allegramente. In mezzo alla tavola si mettono soltanto i dolci e le frutta, ornati di fiori. La padrona di casa si mette un abito elegante, scollato o no, a seconda che il suo pranzo è più o meno di gala, e riceve gli invitati in sala. In Francia si usa far annunciare :«Madame est servie». Da noi il servitore apre l'uscio e dice :«È servito» sottinteso il pranzo. In molte famiglie adottano la formola francese. Ma è inutile, poichè si può farne a meno. La padrona di casa si rivolgerà lei stessa al signore che dovrà sedere alla sua destra, e lo inviterà ad accompagnarla in sala da pranzo. Se però fosse un sacerdote (e tengano bene a mente che, se s'invita un prete, bisogna dargli il posto d'onore, altrimenti bisogna far a meno d'invitarlo), se è un sacerdote, la signora non gli prenderà il braccio, e si limiterà a metterglisi accanto, ed a discorrere con lui, per fargli capire che dev'essere il suo vicino di destra. Il padrone di casa darà il braccio alla signora che deve stargli vicina, e s'incamminerà pel primo. Dietro lui seguiranno gli invitati, tutti gli uomini accompagnando le signore, ed evitando i complimenti sull'uscio, per non far attendere la padrona di casa, che deve rimaner l'ultima. Se la signora che dà il pranzo è vedova, o nubile, in faccia a se metterà un vecchio parente od amico. Mai un giovinotto, a meno che lei fosse francamente vecchia. È soltanto nei pranzi di gran confidenza che si può scalcare in tavola; ed allora è il padrone di casa che si assume quell'incarico. Del resto, i piatti vengono recati interi, e poi ritolti e tagliati dal servitore ad hoc sopra una tavola a parte, nella stessa sala, e portati in giro ai commensali. Il primo giro comincia dalla signora che è a destra del padrone di casa.Il secondo dalla signora alla sua sinistra. I giri seguenti cominciano man mano dalle signore che vengono di seguito, in modo che ciascuna signora alla sua volta sia prima a servirsi. Nel servizio alla francese, è il padrone di casa che taglia e manda dal servitore a ciascun commensale il piatto servito. Non faccio che accennare quest'uso e raccomandare caldamente di non adottarlo mai. Sono i locandieri che servono a porzioni; quanto a noi possiamo farle sui piatti dei servitori. Ma ai nostri ospiti dobbiamo lasciare almeno la libertà di servirsi da se. Gli scaldavivande in tavola sono affatto fuori di moda; e non occorre spender parole a descrivere quel genere di servizio strano, che mandava tanto calore e tanti odori da dare il mal di capo e la nausea a tutti i convitati. Va pure passando di moda l'uso stomachevole di servire i vasi d'acqua tiepida per lavare la bocca. Doveva avere uno stomaco a prova di bomba quegli che ha imaginato di offrirsi quello spettacolo d'una dozzina di persone che gargarizzano e rivomitano l'acqua nella coppa, appunto al momento di finire il pranzo e cominciare la digestione. Certe cose è inconcepibile che si osi farle in pubblicò. Non è più civile il risciacquarsi la bocca, che il fare un pediluvio alla presenza della gente. Cosa ne penserebbe il povero Monsignor della Casa, la cui suscettività era tale, che non poteva soffrire neppure che altri tenesse in bocca lo stuzzicadenti come l' uccello che va a fare il suo nido? E, le prego, signore padrone di casa, non infilzino un interminabile rosario di piatti. Non è il numero, ma la squisitezza delle vivande, che fa il lusso ed il pregio del trattamento. Io penso ancora con raccapriccio a certi pranzi di provincia, dove ebbi il supplizio di vedermi sfilare davanti trenta, trentacinque e persino quaranta piatti, Si stava a tavola tre, quattro ore; veniva il granchio alle gambe, e si provava una smania, una frenesia di prendere un capo della tovaglia e di buttar tutto all'aria, e danzare sulle rovine per isgranchirsi. Durante il pranzo i discorsi debbono essere alternati in modo che ciascuno possa collocare la sua parola, e fare la sua figura. A questo deve vegliare la padrona di casa. E se un argomento prende il campo e minaccia di non cessare finchè se n'e visto il fondo, o se nasce una discussione, la padrona di casa deve avere abbastanza spirito per troncarli. Basterà una parola: - Signori miei, non sanno che noi signore, della loro politica non ci divertiamo punto?... - Badiamo che non s'avessero a sfidare in casa mia.... Non cerchino dei ripieghi. Non gioverebbero a nulla. Una signora aveva letto in un galateo moderno pubblicato alcuni anni fa, non so che bislacca storia d'una contessa, che per far cessare una discussione politica molto animata, aveva trovato il sublime ripiego di rompere un piatto. Quella poveretta l'aveva presa sul serio, e vedendo due signori riscaldarsi in una questione alla sua tavola, s'affrettò a gettare in terra una magnifica salsiera di porcellana. Sciupò il suo abito, i calzoni del vicino; ma era troppo educata per dar importanza a quel disastro. - Via non ci badino; e cosa da nulla, disse. Ed i due oratori ripresero il discorso al punto preciso dov'era rimasto: - E come le dicevo, la Prussia e una nazione che pensa; una nazione filosofica.... - Ma lasci stare! La Francia è la prima nazione del mondo.... Un momento dopo erano più animati di prima, e la signora si credette in obbligo di rompere una fruttiera, più tardi una tazza da caffè senza ottener altro risultato, che interruzione di un momento. Se li avesse interrotti con garbo, ma francamente, la questione sarebbe finita senza lasciare sul campo la rovina di due servizi. All'opposto, bisogna aver grande cura noi stessi, è raccomandare caldamente ai servitori, di evitare, per amor del cielo, quei disgustosissimi incidenti, di rovesciamenti, di rotture, che obbligano sempre una persona a fare un atto eroico, per dimostrare uno stoicismo sovrumano, dinanzi ad un servizio guasto od un abito sciupato. Alzandosi da tavola la padrona di casa dà il braccio non più al suo vicino di destra, ma a quello di sinistra, e s'avvia per la prima alla sala dove si deve prendere il caffè, che servirà in persona aiutata dalle signorine. Gil invitati la seguono ed in ultimo viene il padrone di casa colla sua vicina di sinistra.

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E, poichè ci siamo, parliamo di quel raccolto, che consiste in un ricambio d'inviti, ai quali, s'accettino o no, si risponde sempre con una carta di visita unita a quella del marito. È affatto inutile d'affrettarsi per giungere ad un ballo; si arriva sempre a tempo. È parimenti superfluo il mostrarsi impensierita della propria abbigliatura, rialzare lo strascico, assicurarsi tratto tratto se i gioielli sono al loro posto. Ogni signora procuri di esser vestita bene e solidamente, ed alla guardia di Dio! E se l'abito si lacera, passi a farlo accomodare, senza fermarsi a gemere doglianze ed a verificare i danni. E se un vezzo di brillanti si spezza lo lasci spezzare, e riponga la parte staccata senza altri discorsi. Nulla è piu plateale di quella continua cura dei propri averi. Una vera signora deve saperli portare con nobile indifferenza. Sarebbe un malcreato chiunque pregasse una signora di accordargli un ballo, senza esserle stato presentato, ma se il malcreato ci fosse, la signora dovrebbe rifiutargli il favore. Volendo passare dalla sala da ballo al buffet bisogna farsi accompagnare dal proprio marito, e le signore vedove e nubili ci andranno col babbo, lo zio, o il marito della signora colla quale si sono accompagnate. Le dimenticanze, i doppi impegni di balli, i rifiuti non giustificati, le preferenze evidenti, tutto quanto può far nascere quistioni, dissapori o commenti, è sconvenientissimo da parte d'una signora, e dà una idea meschina della sua educazione. Se una signora che non ama il ballo, è afflitta dalla disgrazia suprema d'un marito maniaco per la danza, si sacrifichi a Tersicore, e balli anche lei ad ogni costo. Il più grottesco di tutti i ridicoli che brulicano sotto il sole, è il marito danzante d'una signora che non balla. In Francia nella casa in cui si dà un ballo si usa fermare tutti gli orologi. Non si contano le ore alla gioia. Si è là per passare il tempo allegramente, non per misurarlo. Questa precauzione non serve a nulla, perchè ogni ballerino ha un orologio in tasca. (Ai tempi della marchesa Colombi ne avevano due). Ma è un pensiero grazioso.

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Cessati i piaceri della città, chiusi i teatri, e le serate divenute tanto brevi che non c'è più tempo alle riunioni, una signora elegante non ha altro di meglio a fare che ammalarsi. Oh! una malattia senza gravità, che non ne alteri la freschezza, che non la obblighi a star in casa, ne a nessun'altra privazione. - Un'emicrania periodica, che verrebbe ogni otto giorni.... se venisse. Un prurito nervoso sotto l'unghia del dito mignolo. Un'avversione pronunciatissima a tutti i colori delle tappezzerie di casa. Una lieve difficoltà a digerire peperoni crudi e corteccie di limone. Infine una malattia comoda purchessia, la quale porti con se la certezza che la sua guarigione sta nelle acque del tal paese, o nei bagni del tal altro. Naturalmente, la civiltà moderna non ammette che esista sulla terra un marito così barbaro, così pelle rossa, così basci-bazouk, il quale rifiuti di sacrificare tutti i suoi risparmi, di alienare se occorre il suo patrimonio, d'impegnare l'argenteria di casa, di vendere fin i ciondoli del suo orologio ed i suoi sigari d'avana, pur di ricuperare la salute pericolante di sua moglie, colla cura delle acque indicate... dalla moda. Se lui non può accompagnarla, non importa. Sua moglie è pronta a sacrificarsi. Andrà sola. Oh le mogli sono d'una generosità! ... le bagnature sono tutte popolate di signore senza mariti e di uomini senza signore. Appena giunte alle bagnature, le donnine più ammodo aprono una nobile gara a chi riuscirà meglio a farsi prender in fallo. Abiti stravaganti; cappellini impossibili; acconciature sguaiate. Tutte approvano il canto del dott. Brown, la marsigliese delle emancipatrici:

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Ed il bimbo cresce; comincia a balbettare; ed è una delizia averlo a tavola dove mangia un po' di tutto, e discorre.... E tuttavia se si hanno persone a pranzo che non siano di grande intimità, mi duole il dirlo, e confesso che mi duole anche il vederlo fare, non l'approvo, ma tuttavia è un fatto che i bimbi non si mettono a tavola. Che farci? Vi sono persone intolleranti, a cui tutto dà fastidio. Un bambino durante un pranzo, fa cadere almeno una dozzina di volte il cucchiaino, il pane, e tutto quello che ha intorno. Vuol pigliare il bicchiere e la sua manina, piccina, unta, inesperta, lo lascia scivolare sulla tovaglia. Se qualche cosa gli da noia, piange. Se è di buon umore, si mette a galloriare rumorosamente, senza curarsi d' interrompere i discorsi; anzi, più la conversazione è animata più grida anche lui. Per me, tutte queste sono delizie, e non pranzo mai tanto bene, come quando vedo la tavola contornata di testine bionde. Ma pare che sia una manìa speciale a me sola, o a ben pochi. La generalità trova che i bambini disturbano, e la convenienza vuole che non si mettano a tavola se non si è in famiglia o nella massima confidenza; e così sia! Si fanno però entrare alle frutta.

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Intanto sono le cinque; le altre visite sono andate a monte e la visitatrice deve ancora leticare colla signora Feconda, la quale vorrebbe farle sentire che la signorina dice il Natale ancora meglio che la Passione e poi eseguisce una sonata.... e che Vevè, oltre all'Ode all'Italia di Leopardi, che ha declamata, sa tutta La Charitè di Victor Hugo in francese. E la lascia partire a stento promettendo però di renderle visita accompagnata da tutta la sua dotta prole, per darle una rappresentazione a domicilio. Ah signore mamme! Lo sanno pure quanto noi siamo di difficile contentatura in fatto di recitazione! Io confesso che, prima di decidere se prenderò l'abbonamento al Manzoni ho bisogno di sapere chi sono tutti gli artisti della compagnia.... Si figurino se posso divertirmi alle declamazioni delle loro piccole gioie! Udrò sempre volentieri l'enfant gatè de jolie figure a dirmi:

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In tal caso, quando i ragazzi escono di collegio, prese le debite informazioni, toccherà alla madre più attempata, o a quella che occupa una situazione più elevata, a fare il primo passo, mandando la carta di visita con qualche parola d'invito all'altra mamma, la quale risponderà subito con una visita; non mai con una carta. Se una signora invita delle signorine a passar qualche tempo in casa sua, dovrà esercitare su di loro la stessa sorveglianza che esercita sulle sue figlie: assistere alle loro lezioni, accompagnarle; e se ha dei figli grandi, vigilarne iI contegno rigorosamente, in modo che le ospiti non abbiano a trovarsi, neppur un momento, in una falsa situazione. La regola più sicura e migliore è di non offrire ospitalità a signorine quando si hanno in casa giovinotti, e di non offrire ospitalità a giovinotti quando si hanno in casa signorine. Se poi è sua figlia che accetta l'ospitalità in casa altrui, la mamma deve provvederla di denaro, perchè possa largheggiare di mance colle persone di servizio. Su questo punto, nessuna economia. Non dimenticherà mai un signore molto ricco, il quale venne a passare dieci giorni in una villa dove ero ospite anch'io. Nel partire avvertì pomposamente la cameriera, in modo che tutti potessero udire, che aveva lasciato in camera qualche cosa per lei. Ed infatti trovò venti centesimi accuratamente avvolti in una carta. La padrona di casa era una persona educatissima, che non si sarebbe mai immischiata di certi particolari. Ma quella volta non seppe resistere. Quando la cameriera, sicura del successo, osò venire nel salotto, dove stavamo lavorando, a dirci quella novella, vi fu uno scoppio d'ilarità spontanea e generale, in barba alle convenienze. Quell'ospite aveva fatto il primo passo, e le sconvenienze sono come le ciliege, una tira l'altra, e non si sa più dove si va a finire.

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Cominciano sempre da una scoperta dalla mamma, a cui tiene dietro la recitazione, a porte chiuse, di pochi versi di Molière :

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In tal caso una madre veramente ammodo non ne parla a suo marito per non esporlo a quistioni. Non ricorre a terze persone che, per quanto parenti od amiche, sono sempre di troppo in un segreto, in cui è impegnato il decoro di sua figlia

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Tocca a lei sola quel peso. Deve scrivere al giovine, parlargli a cuore aperto: "Avete tolta alla mia figliola la pace del cuore. Avete fatto male. E lei pure ha fatto male scrivendovi. Ma voi avete più esperienza di lei. Voi sapete che, senza averla domandata a suo padre, e senza esserle fidanzato non avete diritto a quella corrispondenza. So che non abusereste dell'imprudenza d'una giovinetta per comprometterla; ma una lettera si può perdere, è cosa troppo delicata. Siate generoso. Rendetela a me...." Non bisogna incoraggiarlo (pregarlo sarebbe una enormità) a domandare la fanciulla in isposa. Una madre non offre mai sua figlia a nessuno. Se n'è innamorato davvero, nel restituire la corrispondenza clandestina alla madre, il giovinotto le scriverà delle scuse, una confessione generale, e le chiederà il permesso di domandare a suo marito la mano della figlia; o, se la signora è vedova, la domanderà a lei stessa. Se è innamorato, ed ha cercato d'illudere una giovinetta senza scopo e senza passione, è meglio che se ne vada: un uomo sleale non sarebbe mai un buon marito. Ad ogni modo, il passo fatto dalla mamma non può essere infruttuoso, nè compromettente. Ho conosciuto dei giovani che hanno abusato delle lettere d'una signorina. Non ne ho conosciuto mai nessuno capace di abusare di quella di sua madre. E se un simile essere, per una mostruosa eccezione, esistesse, per fortuna non viviamo tra i barbari; alla prima parola troverebbe un gentiluomo per dargli una buona lezione. Io stessa ebbi qualche volta l'occasione di assumere quel penoso incarico per giovinette amiche prive di madre, e, sia detto ad onore dei nostri giovinotti, fui corrisposta sempre con cortesia, lealtà, rispetto. Dopo un fatto simile, dovunque si scontri col giovine imprudente, una signora dovrà essere la prima a fargli comprendere che è disposta a salutarlo. Nel caso in cui un matrimonio si sciogliesse dopo che la sposa ha già ricevuti i doni, toccherà alla madre il rimandarli allo sposo, con tutti quelli che lui avesse offerti agli altri membri della famiglia, e con un suo biglietto dignitoso, in cui lo dispensa, per riguardi che deve comprendere, da qualunque visita o saluto. Cesserà pure dalle visite alla famiglia ed ai parenti di lui; non manderà più a loro carte, nè annunci in nessuna circostanza, finchè la fanciulla non sarà maritata; però, scontrandoli, non eviterà di salutarli.

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La grande rinomanza di Noemi per l'affetto che seppe ispirare a Ruth, ci prova quanto siano rare le signore che sanno comprendere bene la loro situazione di suocera. Eppure sarebbe tanto facile.... accettare pienamente la loro parte di maternità verso la nuora. Non altro. Ma la parte di maternità invecchia. L'ostacolo è sempre là. Col proprio figlio non appariva. Un uomo un'altra cosa. E poi l'amore di madre accomoda tutto. Ma quella signora giovine, che viene a metterle un confronto accanto.... Eppure una suocera deve accettare dalla nuora tutti quegli atti di deferenza, che si devono dalla gioventù alle persone attempate. La destra a passeggio, sia a piedi che in carrozza, il passo quando si tratta di entrare in qualche luogo, la preminenza del saluto dai visitatori, la destra del camino o del divano nei ricevimenti. La suocera deve astenersi di mettersi in terzo nelle visite, nelle passeggiate, nei divertimenti dei due sposi; ma deve accompagnare la nuora, all'occorrenza, quando è sola, presentarla ai conoscenti a cui non può presentarla il marito. La suocera che vive in casa col figlio ammogliato, cede alla nuora il maneggio di casa, e, dal momento che suo figlio ha moglie, si mette a riposo. Malgrado l'età, malgrado l'anzianità dei diritti, davanti alla società la padrona di casa è la nuora, e la suocera deve saperlo riconoscere con quella doverosa rinunzia. Agendo altrimenti, usurperebbe un diritto che non le spetta, si arrogherebbe una padronanza in casa del figlio e della nuora, mancherebbe di delicatezza.

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Se è proprio un colpo.... da morire, allora cerchi di sapere chi è la fanciulla, e di giungere a lei per la via retta della presentazione e della domanda ai parenti. Ma se è di quei colpi che non lasciano la traccia a lungo, e lui non si sente inclinato alla via retta, un gentiluomo non deve pigliare quella storta. A cosa conduce per lo più? A mettere una signorina nell'imbarazzo, a farle commettere delle imprudenze, a comprometterla, qualche volta persino a impedire che trovi marito, senza contare le pene di cuore che a quell'età sono crudeli. E tutto questo per il misero gusto di mandare e ricevere delle letterine dolci che sa a memoria prima che sieno scritte, e che dovrà restituire in una scena da romanzo, ad epistolario finito. Mantenendo le signorine in quel grado di semplicità e d'inesperienza che è una delle loro attrattive, lasciando loro la fede, gli entusiasmi della gioventù, serbandole ingenue, confidenti per lo sposo a cui saranno destinate, le famiglie contano sulla cortesia dei giovani che non profitteranno di quella preziosa ignoranza, per indurre una signorina ad imprudenze, delle quali non può apprezzare la portata. Se ogni gentiluomo rispettasse in ogni signorina la futura sposa d'un altro, non accadrebbe a nessuno di scoprire più tardi, da qualche pettegolezzo maledico, che un altro non ha rispettata la sua. Seguire una signora o una signorina in istrada, passeggiare sotto le sue finestre, mandarle ambasciate dalle persone di servizio, sono impertinenze indegne di un uomo educato. E gli antichi, che hanno dipinto l'Amore con una Benda, hanno voluto dire che le donne innamorate sono cieche se non distinguono quanto c'è d'offensivo in certe galanterie punto raffinate. Ad un ballo un ballerino non darà mai la mano alla ballerina per condurla in figura. Basta offrirle il braccio. E mentre aspetteranno il loro giro potrà intrattenerla a discorrere. È ancora un atto di fiducia che gli fanno le famiglie, le quali non odono i discorsi che può tenere alle loro figliole. Se ne abusasse sarebbe una enormità. Credo che l'abuso di fiducia sia un aggravante di molti delitti nel codice penale. E nel codice delle convenienze pure. Se la signora a cui domanda un ballo rispondesse che ha un impegno, il ballerino non dovrebbe mai rivolgersi a quella che sta accanto e che ha potuto udire quel rifiuto. Sarebbe quanto dirle che la prende per ripiego. Quando, fra le signore che ballano, vi sono la padrona di casa o le sue figliole, la prima domanda d'un giovine educato deve essere rivolta a loro. Dopo una festa in casa privata tutti gli uomini che vi sono intervenuti sono in obbligo d'una visita alla padrona di casa, e la faranno entro la settimana nel suo giorno di ricevimento.

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Altre volte un ragazzo, levandosi da tavola si metteva a farne il giro domandando a ciascun commensale se avesse pranzato bene. Era imbarazzante pei ragazzi il rivolgere pei primi la parola a persone che conoscevano poco, o non conoscevano affatto. Ed era seccante per ogni individuo interpellato, che si trovava nella necessità d'inventare un complimento nuovo ad ogni bambino che veniva, e differente da tutti quelli detti dagli altri commensali. Supposto sei ragazzi che facessero a dodici convitati la stessa domanda invariabile: «ha pranzato bene?» le dodici immaginazioni dei convitati dovevano fornire la bellezza di 72 (dico settantadue) risposte variate sull'unico tema: - Si, ho pranzato benissimo. - Perchè, naturalmente, una persona educata non può pranzare in casa d'altri senza il superlativo assoluto. Se poi gli invitati non erano gente molto immaginosa, si correva il rischio di udire 72 Ha pranzato bene ? +72 Benissimo, grazie; e tu ? +72 Anch'io, grazie. In tutto 216 frasi, da mandar a monte la digestione d'uno struzzo o d'un elefante. E però, visti e considerati tutti gli inconvenienti sovraesposti, quel viaggio d'esplorazione intorno alla tavola in cerca dell'esatta misura d'appetito d'ogni convitato, fu abolito alla grande unanimità.

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Dato però, che il visitatore non facesse quel primo passo, tocca al piccolo padrone di casa a farlo, sacrificando la sua timidezza al dovere d'ospitalità. Si avanzerà, ad ogni modo, verso il nuovo venuto, e se questi non dice nulla, gli darà il buon giorno, e lo pregherà d'accomodarsi. Da parte d'un bambino è sempre meglio che si limiti a dare il buon giorno o la buona sera; perchè questo obbliga soltanto ad una risposta analoga. Vi sono persone che non amano discorrere coi bambini; questo non fa il loro elogio, ma vi sono. Risponderanno: buon giorno; grazie: e sarà finita. Mentre invece, se il bimbo domanda: «Come sta?» si richiede la risposta circa la propria salute, ed il ricambio della domanda, a cui il bimbo deve poi rispondere alla sua volta. Senza contare che al bambino, il quale non è in grado di comprendere nè di compatire la sofferenza di chicchessia, è affatto assurdo di esporre il nostro stato di salute. All'entrare della persona che deve ricevere la visita, il bambino si ritirerà, limitandosi a domandarne il permesso. In tutte le case però si ricevono visite, relativamente di confidenza, alle quali i bambini possono assistere per qualche tempo. Allora, come in tutte le circostanze, non debbono parlare colle persone adulte se non sono interrogati. Quando però una prima interrogazione li ha invitati a discorrere, non debbono obbligare il visitatore o la mamma a farli continuare il discorso a forza di domande, come se recitassero il catechismo. Dovranno prender parte alla conversazione, senza parlar troppo nè forte, ma senza soggezione ridicola, nè interruzioni nè silenzi assurdi, finchè il discorso sia esaurito. E non entreranno in un secondo argomento se non vi sono di nuovo invitati da una domanda diretta. Se i visitatori hanno con sè dei bambini, i piccoli padroni di casa si metteranno accanto a loro dopo aver salutato i loro parenti, ed avvieranno il loro discorso in modo da poterli invitare a giuocare; ma con naturalezza, e senza che appaia o un'abitudine imparata, o un effetto della noia, che provano a stare colle persone che sono nella sala. Vi sono bimbi che, chiamati in sala per una visita, vi accorrono tutti ansimanti, investono i visitatori ad uno ad uno con un :« Come sta?» a bruciapelo come se dicessero: «O la borsa o la vita!» e prima che l'interpellato abbia pagata la sua imposta a quella curiosità simulata, si voltano ai bambini e dicono colla stessa precipitazione: - Andiamo a giocare. Bisogna invitare il piccolo visitatore a giocare, ma senza fretta, e senza scortesia verso la gente che è in sala. E quando il bimbo ha detto di si, il padroncino di casa deve rivolgersi a chi accompagna il suo giovine amico e domandare se permette che il ragazzo vada con lui a giocare. Una volta poi ottenuto il permesso, bisognerà lasciare la scelta dei giochi agli ospiti; e qualunque sia quello che scelgono, cedere a loro la parte più piacevole. È superfluo il dire che un bambino educato non deve mai ne domandare un giocatolo nè accettare un dono qualsiasi da un altro bambino, e neppure rispondere: «Se la mia mamma e la tua lo permettono accetterò» come fanno taluni, per avere la coscienza d'aver agito bene, senza tuttavia rinunciare affatto alla Speranza del dono. Bisognerà rispondere: - Ti ringrazio; ma sai pure che i bambini non possono nè fare nè ricevere doni. - E se la mia mamma lo permette? potrebbe insistere l'altro. - La tua mamma lo permetterebbe sicuro per non fare una scortesia alla mia mamma ed a me; ma non bisogna metterla in questa necessità. E per nessuna insistenza non deve cedere e prestarsi a quella parte ridicola di giungere in sala ad esporre le sconvenienti domande: - Mamma, sei contenta ch'io offra questo? - Mamma, mi permetti di accettar quello? Se un bambino va colla famiglia a far una visita, osserverà le regole che ho già accennate riguardo al saluto, ed alla conversazione. Se nella casa dove va non vi sono bambini, e gli tocca di assistere a tutta una serie di discorsi che non comprende e non lo interessano, dovrà rimanere composto e non dare il menomo segno di noia. Convengo che questo è difficile. Mi ricordo ancora certe discussioni interminabili a cui dovevo assistere nella mia infanzia, tra la mia povera mamma ed una vecchia baronessa inferma, che non aveva nessun bambino in casa, e teneva in sala tre enormi cani barboni. Si parlava sempre di quitanze, ipoteche, usufrutto, capitale ed interesse. Avevo imparate a memoria quelle parole, e qualche volta mi sorprendevo a canticchiarle mentre giocavo colla bambola, ma mi erano oscure come il Pape satan Aleppe, che mi ha tanto fatto pensare, ed impaurita nei miei primi anni di scuola. Un giorno dopo aver assistito un'ora a quei discorsi inesplicabili, ed essermi fatto dire parecchie volte, di non dimenare una gamba, di non strappar la frangia del mio paltoncino, di non strofinare i nastri del cappello, di non agitarmi sulla sedia, di non fare assolutamente nessuna cosa, ridotta all'immobilità d'una piccola statua mal posata e punto artistica, sentii che la mia pazienza era completamente esaurita; e tentai di porre fine a quel supplizio, ricorrendo all'atto più incivile che possa, fare una ragazzina per bene; dissi coll'accento strisciante della noia: - Mamma, andiamo? Vedo ancora, dopo tanto, tanto tempo, la vampa di rossore che salì al volto della mia cara e bella mammina. Si rizzò senza parlare. Era tanto educata, e sapeva che un rimprovero, fatto a me in presenza alla vecchia signora, avrebbe fatto capire meglio l'idea inurbana, che avevo implicitamente espressa: "Mi annoio mortalmente in sua compagnia." Ma la baronessa non aveva bisogno che le si mettessero i punti sugli i. Si alzò a stento, prese le mani della mia mamma nelle sue, e disse: - Si; va, povera Nina. Anche tu devi annoiarti, cosi giovane e bella, a passare tanto tempo con una vecchia; sono egoista quando ti prego di venire. Perdonami, cara la mia figliola; sono inferma e sola. Ma non ho più molto da vivere; avrò presto finito di annoiarti. Ed il suo povero volto, tanto rugoso, si raggrinzava, e le tremavano le labbra e la voce. Piangeva! La mia mamma non rispose, aveva gli occhi gonfi. La baciò, le strinse la mano, ed uscì tutta rossa e mortificata, come se quella villania l'avesse fatta lei. Non mi disse nulla. Non una parola di rimprovero. Capì che ero già castigata. Oh se lo ero! Pochi giorni dopo si disponeva ad uscire, senza avermi detto nulla. - Non mi vuoi con te, mamma? le domandai. - No, vado dalla baronessa. Chinai il capo avvilita. Era la mia punizione. Venivo espulsa dalla casa di quella venerabile amica di mia madre. La baronessa morì pochi mesi dopo, senza che l'avessi più riveduta. Ma passarono gli anni, mi feci donna, e non ho mai dimenticata quella scena dolorosa. Ed anche ora, quando ci penso, sento al cuore la stretta di un rimorso. Non si affligge impunemente una vecchia buona! D'allora non mi accadde mai più di dimostrare la noia che provavo in compagnia. Tuttavia, debbo confessare che la risentivo ancora e spesso. Ma per evitare alla mia buona mamma un dispiacere, come quello che le avevo dato una volta, cercavo di non farmi scorgere. Quando mi trovavo con parecchi altri ragazzi, si aveva l'abitudine di raccontar fole. Si ripetevano quelle udite altrove, o se ne inventava, se ci pareva di poterci mettere un po' di costrutto. Per lo più era un'illusione dell'amor proprio; ma infine.... Mi venne l'idea di scacciar la noia de' lunghi silenzi miei, e dei lunghi discorsi degli altri che non comprendevo durante le visite, preparandomi in mente le fole che dovevo dire. La prima volta che mi provai, fui stupita quando la mamma si alzò per uscire. Mi pareva d'esser rimasta pochissimo in quella casa, e la fola era tutt'altro che finita. Consiglio questo rimedio contro la noia, ai miei piccoli lettori. Oltre il vantaggio di non offendere nessuno, s'impara a fantasticare ed a far castelli in aria, e questa è una ginnastica che sviluppa immaginazione, ed avvezza alla solitudine ed al silenzio. Mi ricordo d'aver fatto da bambina dei castelli in aria, che, interrotti e ripresi, hanno durato parecchi giorni; e ne serbo ancora memoria come di cari avvenimenti. Li creavo a modo mio. Il mio spirito non poteva esserne contrariato, e vi si manteneva sereno. E la serenità di spirito dà la pace al cuore e rende buoni. Ed il mio volto esprimeva la soddisfazione interna; e quelle persone, se fossi stata ad ascoltarle, coi loro discorsi m'avrebbero dato noia, credevano d'aver parte alla mia soddisfazione, e ne erano contente, ed io più di loro. Sovente da tutte quelle contentezze risultava l'offerta di qualche chicca, la quale certo non poteva che aumentarle.

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Quando vien fatto ad un ragazzo un invito perchè rimanga a pranzo, o a cena, o a passare qualche giorno in campagna presso una famiglia che non è la sua, non deve mai scusarsi con quei complimenti comuni e convenzionali: - Non vorrei dar disturbo; - Grazie! non posso accettare; - Sarebbe indiscrezione se accettassi, ecc. II bambino non è padrone di sè. Non può disporre da sè, se accetterà o no l'invito; e però, è inutile che si dia l'aria di rifiutarlo. Dovrà limitarsi a mostrarsi molto lusingato dell' invito, rimettendosi ai genitori, o a chi per loro, perche decidano in proposito. Sia che accetti o rifiuti, non deve mai, nè colle persone che lo hanno invitato, nè coi ragazzi della famiglia ripetere le discussioni avvenute in casa, circa l'invito; nè le osservazioni, nè i commenti uditi. Può darsi che la mamma dica: - No. In quella casa non si avvezzano abbastanza bene i ragazzi. Non voglio che i miei si vizino al cattivo esempio. Questo lo dirà nell'intimità, col proprio marito, e, di comune accordo, troveranno una scusa plausibile per non accettare l'invito senza offendere le persone, cortesi ed ospitali, che l'hanno fatto. Ma guai se un ragazzo indiscreto avesse il cattivo pensiero di ripetere a' suoi piccoli amici quell'osservazione! Basterebbe a far nascere un diavolìo, a mettere la discordia fra due famiglie, a screditare sè stesso e l'educazione che ha ricevuta. Quand' anche dal ripetere una parola udita, non dovessero risultare altri danni che quello di fare un po' ridicolo il piccolo relatore, sarebbe sempre abbastanza per consigliarle a non ripetere mai, se non i discorsi sui quali ha potuto acquistare la certezza che le stesse persone, da cui lì udì, non esiterebbero a farli dove lui li ripete. Anche a questo proposito l'infanzia della piccola Gemma mi offre un esempio. Usciva coll'istitutrice per andar in una famiglia dove spessissimo la trattenevano a pranzo. - Se invitano la Gemma a pranzo, posso lasciarla? domandò l' istitutrice prima di uscire, al babbo della bambina. II babbo che s'annoiava di non averla a tavola, rispose: - Se le fanno molte istanze, la lasci, altrimenti veda di ricondurla. Infatti la signora che andavano a visitare, disse alla bimba: - Mi fai il regalo di rimanere a pranzo, Gemmolina - Il babbo ha detto che se mi fanno molte istanze posso restare, ripetè quella pettegolina, senza saper neppure cosa volesse dire fare delle istanze. Le istanze reclamate a quel modo le furono fatte; sfido io! Ma l'istitutrice rimase male, ed il babbo pure quando lo seppe, al vedere rivelato così, che in famiglia s'era quasi contato su quell'invito, e si erano prese anticipatamente delle disposizioni in proposito. Sono cose che tutti fanno, ma non si dicono mai. Rimanendo ospite in casa d'altri, un bambino educato dovrà mettersi in ischiera coi bambini della famiglia, obbedire come loro, alzarsi, coricarsi, mangiare, studiare, giocare, passeggiare, alle ore fissate pe' suoi piccoli compagni. Soltanto, se quelli si permettono qualche indisciplinatezza o qualche capriccio, allora si guarderà bene dall'imitarli. Andando in giardino, si ricorderà sempre che i frutti ed i fiori non sono proprietà della sua famiglia, e però non gli è permesso toccarli. Trovando qualche mammola, qualche ciclamino, o fragole selvatiche, o altre cose che, siccome vengono naturalmente dalla terra, non si considerano proprietà esclusiva di nessuno, le potrà cogliere ed offrire alla mamma, alla sorella, alla zia, all'istitutrice de' suoi ospiti. Ma deve ricordarsi pure che le persone educate e gentili, accolgono con apparente soddisfazione e con ringraziamenti anche una cosa di cui non sanno che farne, per puro riguardo a chi l'offre. Per cui si guarderà bene dall'insistere sulla stessa offerta, com'è pur troppo una noiosa abitudine dei bambini, che, se vedono una signora gradire un fiore, seguitano a portargliene piene le mani, pieno il grembiulino, obbligandola a caricarsi d'un fascio di fieno. A tavola poi dovranno osservare le stesse regole che ho indicate pel pranzo in casa propria; ed anche con maggior scrupolo, perchè una sconvenienza commessa in casa d'altri, acquista maggior gravità. Fuori dalla loro famiglia, se appena non sono più piccolissimi, non saranno serviti nel piatto dalla mamma nè da altri. Passerà il piatto di mezzo davanti a loro come davanti agli altri commensali, e dovranno servirsi da sè. Prendano un po' di tutto, accettando il pezzo che vien più comodo, e non istiano a fare una scelta accurata da piccoli ghiotti, facendo aspettare il vicino. E si servano sempre con misura, in modo da non lasciare avanzi sul piatto. Dimentichino addirittura le parole: «Non mi piace» come se non esistessero, perchè, con quelle; sembra che vogliano fare un rimprovero ai padroni di casa d'aver fatto servire una cosa che non ha la fortuna d' incontrare il loro gusto. Se vi sono bambini di casa, i piccoli invitati si ritireranno da tavola quando si ritirano loro, altrimenti aspetteranno di riceverne un ordine diretto. Uscendo da una casa dove sono stati a pranzo, i bambini, come tutti gli invitati, sono tenuti ad un ringraziamento ai padroni di casa. Ma sono caldamente pregati di non cercare di fornir complimenti imitati da qualche signore o signora, per far il ragazzo di spirito ed attirar l'attenzione. Riescirebbero soltanto ad apparir pedanti, pretenziosi e ridicoli. Si limitano a dire: Tante grazie e buona sera, o qualche cosa di simile; ma molto simile, perchè i bambini, nuovi al mondo, non si rendono ben conto del valore delle parole, non sanno quello che va detto, e quello che non va, e facilmente sbagliano. Conosco un ragazzino di sette anni e mezzo che, uscendo da una casa dove era stato a pranzo, disse al padrone di casa, coll'aria di un giudice supremo che decreta un'assolutoria: - Votre diner a été bon. Je vous remercie. - Aveva la cattiva abitudine di parlar francese anche in compagnia. Tutti risero di quello strano complimento, e lui si credette il bambino più spiritoso dei due mondi, mentre l'ilarità generale era nata dalla grottesca figura che faceva erigendosi lui, così piccino, a giudice culinario; e dichiarando implicitamente, che non avrebbe ringraziato se il pranzo non gli fosse sembrato buono.

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Ai balli da bambini, i piccoli padroni di casa debbono sacrificarsi un pochino, ballando a preferenza con quelli che, o per essere troppo piccini o troppo timidi, rimangono trascurati. Alle volte vi sono bimbi che non sanno ancora ballare, ma al vedere quel movimento insolito, all'udire la musica, sono invasi da una grande smania di prender parte all'agitazione generale. I parenti li trattengono perchè non vadano ad impacciare le figure danzanti; e loro, se sono docili, obbediscono a malincuore; se sono indisciplinati fanno dei capricci; ad ogni modo, invece di divertirsi si trovano contrariati ed infelici. Un po' di abnegazione da parte dei piccoli padroni di casa, che tratto tratto li vadano a prendere, e, tenendoli per le manine li facciano saltare in giro, dando loro l'illusione di ballare come gli altri, basterebbe ad evitare ogni guaio. E la gioia di vedere quelle piccole creaturine col visetto infiammato, la bocchina aperta in un riso tripudiante, e gli occhietti scintillanti di piacere, darà a quei buoni figlioli un largo compenso pel piccolo sacrificio che fanno. È così Bello il sentire che abbiamo in noi la facoltà di rendere qualcheduno felice! Ed è cosi triste veder, piangere quei cari piccolini che non sanno ancora nulla della vita! Quest'inverno andai più volte ad un ballo settimanale pei bambini, dove c'era sempre una povera fanciulletta inferma. Aveva sette anni e stava ancora in braccio alla bambinaia; non poteva nè camminare nè moversi, e parlava con fatica. Ed era una cosa commovente e cara vedere alcune giovinette che appena avevano cessato di ballare, non dimenticavano mai d'andare un momento a farla discorrere, a portarle un confetto, un fiore. Al buffet era una nobile gara a chi prenderebbe prima il gelato da offrire alla piccola inferma; e bisognava vedere con che buon garbo glielo facevano pigliare, - perchè non poteva fare da se - e come le parlavano di cose serene senza mai alludere alla sua disgrazia. Debbono avere un bel cuore ed una buona mamma le bambine che sanno, nella foga d'un divertimento, comportarsi a questo modo. Udii una bellissima e giovane mamma, che esortava la sua bambina ad imitarle. - Se ci vai, le diceva, se ti fai forza per vincere la tua timidezza - perchè non ti farei il torto di credere che sia ripugnanza o mala voglia, - più tardi ti troverai contenta di pensare che quella povera bimba malata si ricorderà di te, e ti vorrà bene, peuòàL-rchè sarai stata cortese con lei, e l'avrai aiutata cùon qualche buona parola a dimenticare che non può muoversi e divertirsi come le altre. La bambina esitava sempre; crollava le spalline, faceva delle smorfiette un pochino sprezzanti, un pochino altere. Ah! lei non sapeva, poverina, cosa fossero malattia, privazioni, sofferenza. Chissà forse che nel suo piccolo cervello inconsapevole sentisse una certa vanità del proprio benessere, della propria bellezza, e credesse di umiliarsi accostandosi a quella bimba disgraziata e sdegnasse di farlo. Allora la bella e buona mammina fece il viso serio e disse: - Io t'ho dato un consiglio, t'ho detto quello che sarebbe tuo dovere. Pensaci e fa come il cuore ti dice. Non voglio farti far nulla per forza. Ma mentre parlava era triste, e poco dopo, non trovandola più accanto a me, guardai in giro e la vidi inginocchiata presso la bimba malata che la faceva discorrere e la divertiva. Le mamme buone fanno come Gesù Cristo; predicano colla parola e coll'esempio, ed i bambini, fortunati loro! non hanno che imitarle.

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A quei tempi le signorine educate parlavano in versi. Ora però, si può anche farne a meno.

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Non scrivano a molte persone, signorine mie. Oltre le lettere di dovere ai parenti vecchi, alle maestre, possono tener corrispondenza con qualche amica. Ma siano vere amiche, di quelle a cui si scrive non per fare dello stile epistolare, ma per vero affetto, e col linguaggio dell'intimità. Non occorre dire che, in tutta la loro corrispondenza non ci deve essere una parola che la mamma non possa leggere. Quanto a formole, non s'aspettino ch' io ne dia. Le lettere tengono luogo di discorsi. Scrivano come discorrerebbero e basta. L'introduzione, la chiusa, sono storie del tempo trapassato remoto. La lettera comincia con quello che s'ha a dire, e finisce quando non s'ha più nulla a dire. Ecco la sola regola ch'io ammetto. Non si firmino mai serva, perchè le signore non sono mai serve di nessuno. Non facciano litanie di saluti in fine nè sfoggio di aggettivi sulla soprascritta, a tutto beneficio del portalettere e dei portinai. Non usino carta colle iniziali, come non usano carte da visita; siano semplici, schiette; se hanno dello spirito, non ne privino le loro corrispondenti, e lascino andare i loro giovani pensieri come «La rondine alla primavera e la preghiera al cielo.»

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LA MARCHESA COLOMBI LA MARCHESA COLOMBI La gente per bene Galateo A CURA DI SILVIA BENATTI, INGE BOTTERI, EMMANUELLE GENEVOIS INTERLINEA EDIZIONI NOVARA Ristampa 2007 © Novara 2000 interlinea srl edizioni via Pietro Micca 24, 28100 Novara, tel. 0321 612571 www.interlinea.com Stampato in Italia. Nuova Tipografia San Gaudenzio spa, Novara ISBN 88-8212-215-8 Per la riproduzione dell'edizione 1893 dell'opera La gente per bene si ringrazia la direzione della Biblioteca Comunale di Milano In copertina: particolare da Italo Nunes Vais, Ancora un bacio, olio su tela, 1885 circa, Galleria d'Arte Moderns Giannoni, Novara (per gentile concessione; fotografia di P. A. Deangelis) LA GENTE PER BENE PER LA MARCHESA COLOMBI XXII EDIZIONE CON AGGIUNTA DI DUE CAPITOLI NUOVI MILANO, 1893 EDIT. GALLI DI C. CHIESA e F. GUINDANI Lipsia c VIENNA, F. A. Brockhaus - BERLINO, A. Asher e C. Parigi, veuve Bovveau - Napoli, Ernesto Anfossi. PROPRIETA. LETTERARIA Milano, 1893 - Tip, L. F. Cogliati. Sezione nel Pio Istituto pei Figli della Provvidenza Piazza Filangeri, 3

Pagina copertina

le straordinarie avventure di Caterina

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Elsa Morante 15 occorrenze
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Massimo era molto piú coraggioso e importante, si vedeva, e chiese a Piuma: — Perché mai quell'aria compunta? Subito Piuma sollevò le spalle e la testa e fece un bellissimo sorriso. — E smettila di abbaiare! — continuò Massimo. — È il mio stomaco che abbaia, io non ne ho colpa, — rispose il povero Piuma. Per consolarsi, tutti e due ripensarono al pranzo che avevano fatto due giorni prima. Avevano mangiato spaghetti e prosciutto, e insalata! Poi si fermarono vicino al mulino a vento, che stava alla fine del ponte. Passarono quattro oche grasse, un frate col suo sacco e tutti annusavano l'aria che odorava di pane fresco, di brodo e di prezzemolo. A questo punto Massimo disperato fece: — Aaaaah! — e Piuma: Uuuuuh! — e di nuovo stettero zitti, finché Piuma tirò a Massimo la manica della giacca. — Ehi, vuoi star fermo? — borbottò Massimo. — Non vedi che sto pensando? Il buon Piuma aspettò che l'amico finisse di pensare, con la faccia piena di speranza. E infatti, dopo tre minuti, Massimo gli strappò il berretto con entusiasmo e strillò: — Pensato! Pensato! Saremo ricchi, oggi! Saremo milionari. Ehi, Pic! Un ornino che passava di là si avvicinò. Era vestito da « gangster », col ciuffo e un tatuaggio sul naso. Era tanto piccolo, che arrivava appena al gomito di Piuma, ma il suo aspetto era spaventoso: — Che cosa desideri? — domandò. — Ti va di guadagnare otto soldi? — E perché no? — Allora mi dovrai fare da compare. — Bene. — Si tratta di questo. Io e il mio amico daremo uno spettacolo di pugilato, qui sulla piazza. Si radunerà una gran folla, e tutti saranno sicuri che vinco io, che sono un peso massimo. E invece vincerà Piuma. Tu devi strillare: — Forza, Piuma! — e devi cercare di scommettere cento lire con qualche ricco signore presente. Poi tu mi darai le cento lire, e io ti darò gli otto soldi. — Eh, che razza di spilorcio senza coscienza! Otto soldi a me? Non ti vergogni? — Dodici soldi! Nemmeno un centesimo di piú! E tu, Piuma, perché piangi? — Io non so fare il pugilato! — balbettò Piuma. — Eh, stupido! Non capisci che io mi lascerò buttar giú con un soffio? Non farai nessuna fatica! E sai che cosa significa questo per te? — No. — Significa la gloria! — La gloria? — Certo. Sarai campione, ragazzo mio, — e Massimo batté la spalla di Piuma, che faceva un sorriso felice. Poi chiamò Anchise, che passava sul ponte, per nominarlo arbitro: — Avrai sei soldi di paga, — gli disse. E incominciò a gridare. — Avanti, avanti, signori ! Grande partita di pugilato fra un peso massimo e un peso piuma! Non si paga niente! Non si paga niente! In pochi secondi, un'intera popolazione si era raccolta intorno a loro: bambini, oche, eccellenze e milionari. Fra gli altri, si fermò un signore che lasciava capire di essere un milionario, giacché portava l'abito a coda e il cilindro; e Pic gli corse vicino. Quel signore, insieme a tutti gli altri, guardava con aria di compassione il povero Piuma, come per dire: « Ecco uno che fra poco sarà una frittata ». Uno, due, tre! La partita cominciò. Il povero Piuma ballava senza capir niente, e finalmente, con aria modesta, si decise a buttar via qualche pugno. Ma tutti ridevano e gridavano: — Arrenditi, ornino. — Bene, grasso! — Bravo il grasso! — e facevano il tifo per Massimo. Il signore distinto e milionario diceva con tono di conoscitore: — Boh! Boh! Boh! Allora Pic cominciò a brontolare: — Sarà, ma quel piumino li dev'essere un furbo che si conserva il colpo per dopo. Secondo me vince lui. — Eh! Eh! — rise il milionario. — Si vede bene, ragazzo mio, che tu di pugilato non ne capisci niente! — Ah, sí? E io le dico che quell'omino vince! — Son disposto a scommettere cinquanta lire. — Anche cento. — Vada per cento. Proprio in quel minuto, si vide Piuma sferrare un sinistro, e Massimo traballò e cadde a terra. Anchise contò solennemente fino a dieci, ma l'infelice Massimo rimase fermo come un morto. Piuma era vincitore! Allora tutti gridarono: — Bene Piuma! Evviva Piuma! — Si vedevano tutto intorno sventolare i fazzoletti; Piuma fu sollevato in trionfo, e le ali del mulino cominciarono a girare in fretta. Piuma si accorse perfino che sulla fronte gli stava crescendo una stella. Era la gloria, amici! La Gloria! Intanto il milionario, a malincuore, prese cento lire dalla sua borsa d'oro e le porse a Pic. L'infelice Massimo non dava ancora segno di vita; Piuma provò a dargli un piccolo calcio, ma il suo buon amico non si mosse. Allora Piuma cominciò a pensare : « Che sia morto per davvero? Che sia morto d'appetito? » E si provò a fischiare sottovoce l'Inno dei sette vincitori, che era il loro fischio di famiglia. Niente. Il buon Piuma tremò dalla paura, e, chinandosi sul suo ottimo e unico amico, chiamò singhiozzando: — Massimo! Massimo! — Ehi, stupido! — rispose Massimo a bassa voce. — Non capisci che faccio per sembrare « K. O. » sul serio? — e aperse mezzo occhio. Proprio con quel mezzo occhio aperto vide una cosa terribile. Ascoltate! Vide il perfido Pic, il « gangster », che se ne scappava, e stava già dietro il mulino, con un foglio da cento in mano. Allora il disgraziato si alzò d'improvviso e, dando calci e pugni a tutti quanti, corse dietro a Pic, e Piuma gli correva dietro, e tutti gli altri, quantunque

A quel tempo, essa non aveva nessun Editore. Aveva due gatti di diversa grandezza, ma di uguale importanza, e un certo numero di fratelli e sorelle minori di lei. Costoro erano gli unici lettori suoi, a quel tempo: e fra quei lettori, pochi ma scelti, le presenti storie ebbero un vero successo. Il ricordo di quel successo incoraggia, adesso, l'Autrice, a offrire le medesime storie a voi, in un bel libro stampato da un vero Editore. Essa spera che questo libro vi piaccia, e vi faccia divertire. La vostra amicizia sarebbe per lei un onore, che la consolerebbe, oggi, nella sua vecchiaia. Augurandovi, dunque, buona lettura, essa si dichiara la Vostra fedele e affezionata AUTRICE

Vieni a trovarmi, qualche volta! — Bah! — disse il povero mercante. — Andiamo a fare una passeggiatina per il Palazzo dei Sogni, eh? - propose Tit. Si vedeva che anche lui era un po' nervoso. Era notte, e il Palazzo cominciava ad animarsi. Gli uccellini parlanti si sgrollarono nelle loro gabbie, e la scimmia di Pippo si preparò a mangiare lo zucchero. Pippo arrivò, con un paio di scarpe in mano, e il pappagallo disse: — Buon giorno, padrone! Si vedevano lí tutte le vostre compagne di scuola vestite come Principesse, con grandi diademi in testa. Belle fate, e bambole che parlavano, e soldatini di stagno che sapevano guerreggiare sul serio, passeggiavano per i corridoi. Una tavola con polli arrosto, e zuppe dolci, e cioccolata, e panna, sorgeva in mezzo ad una grande sala. C'era poi un'alta torre, con sulla cima un uomo bruttissimo che sparava a tutti quelli che passavano, e c'era un barbiere con un paio di forbici piú grandi di lui. — Effetti del mangiar troppo di sera, — borbottavano le bambole, osservando quei sogni spaventosi. — Questa sera non si vede Sua Eccellenza Tom; come mai? — chiedevano alcuni bambini importanti, vestiti da generali. Uno strano ragazzetto con un ciuffo rosso correva in bicicletta su e giú per un mappamondo e aveva una faccia molto seria. Una bambina piú grande corse incontro ad un piccolo che non sapeva camminare ancora, e disse piano: — Dunque non è vero che sei morto! — Era il suo fratellino, quello, che qualche giorno prima era scomparso, ed ora, la notte, continuava a camminare, nel Palazzo del Sogno. — Andiamo a vedere se c'è Rosetta, — disse d'improvviso Caterí. Andarono a cercare l'uscio dov'era scritto: Signora Rosetta, ma Rosetta non c'era. C'era invece un'altra donnettina che spazzava le stanze. — E dov'è Rosetta? — chiese Caterí. — Io sono un'amica di Rosetta, — rispose la donnina, — Rosetta non viene mai, ora. — E perché? — chiese Caterí. — Ma perché deve aspettare sua sorella, quella che se n'è andata. Non mangia, non beve e non dorme, Rosetta; e dunque non sogna. Come potrebbe venire qui? piange sempre, la povera Rosetta. — Oh, Rosettina mia! — gridò Caterí scoppiando a piangere. — Me l'ero quasi dimenticata. Ma ora abbiamo ritrovato Bellissima e torniamo indietro, che ne dici, Tit? — Certo, certo, — disse Tit. — Vado a ordinare l'automobile. Poco dopo, si sentí l'automobile che suonava. Caterí corse giú con Bellissima, perché oramai era tempo di partire; ella sali sull'elegante automobile rossa, che si mosse dicendo : Puff! Puff! Puff! — Addio, addio, Palazzo, Castello della Regina, Guardaboschi e meraviglie. Addio, povero mercante! — Vi aspetterò trentun anni, — gridò il Mercante a Bellissima, — e il trentunesimo anno, se ancora non vi avrò visto, verrò io stesso a cercarvi, per dirvi: « Volete diventare mia moglie? » — No, — fece Bellissima. Si poteva vedere, da lontano, il povero Mercante che si arruffava la barba; ma presto non si vide piú nulla, per quanto era veloce l'automobilina.

E la povera Caterina si mise a piangere, perché era piccola e sola e la nera e brutta notte cominciava a scendere. E quella stupida di Bellissima non sapeva far altro che rimanersene sulla spazzatura, buona a niente, guardando tristemente il buio coi suoi occhietti di filo rosso. D'improvviso si sentí: Toc, toc. Ecco: forse è Rosetta. Andiamo tutti ad aprire.

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Tanto non servi a niente e non sei buona a niente. Se valessi almeno un centesimo ti venderei e mi comprerei una mollica di pane. Ecco.

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— chiese la signora Guardaboschi, accennando a Caterí, la quale, sentendo che si parlava di lei, si rincantucciò e abbassò gli occhi. — Ma no, signora, — rispose Tit, piuttosto risentito, — é la madre di Bellissima. Avete nessuna notizia di Bellissima? — No, — rispose la signora, e subito anche i due cingallegrini fecero segno di no con la testa. Tit allora voleva salutarli e andarsene, ma la signora disse che era tardi, e buio, e che volentieri avrebbe dato ospitalità a lui e a Caterí. Essi furono molto contenti, perché erano stanchi, e desideravano dormire un poco; ma intanto la brava signora Guardaboschi raccontava del suo signor marito, che quella sera era lontano, e del suo cingallegrino maggiore che già andava a scuola. Quanto a intelligenza, tutti i maestri lo affermavano, non c'era niente da dire, ma era svogliato, svogliato! E la signora raccontò tante storie del suo signor marito e dei cingallegrini, ma Tit ogni tanto si addormentava, e Caterí doveva dargli una spinta perché si svegliasse. Poi la signora Guardaboschi volle mostrar loro tutta la casa, e finalmente li accompagnò nella loro camera che era assai bella, tutta di paglia.

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Le fate cominciarono a discutere animatamente intorno a questo fatto, e alcune di esse rimasero a lungo sopra pensiero. Anche molte bambine e nani che avevano smesso di giocare ascoltarono la storia delle viri della brava Grigia e dissero che avrebbero voluto conoscerla; ma la Regina delle Fate disse che Grigia era cosí modesta che non usciva mai di casa e ogni volta che c'erano visite correva a nascondersi in un cantuccio. Per vestito aveva un grembiule grigio e un fazzoletto che le aveva dato per carità un ricco mercante di stoffe. Si diceva che egli le avesse detto: « Scegli fra tutte queste stoffe! », e le avesse posto davanti tessuti d'oro e d'argento, a fiori e a stelle, e trasparenti come il vetro. E Grigia aveva scelto il grembiule e il fazzoletto. Aveva preso anche un nastrino celeste con una perla, ma non se l'era mai messo, e l'aveva riposto nella sua sacca. Mentre tutti continuavano a parlare di Grigia, Tit riprese a camminare per il bosco. Era proprio una bella notte. Pensate, se noi potessimo assistere ad una festa simile! Vicino ad ogni filo d'erba c'era una lucciola che faceva la guardia, e le cameriere, con ricami sul grembiule, giravano portando i rinfreschi dentro tazzine gialle. I dolci

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Caterina era molto confusa mentre saliva la scala d'oro del castello, anche perché due o tre lucciole si misero a ridere vedendo che le si era sciolta la treccia. Per fortuna il castello era deserto, e anche la Signora tornò subito dai suoi ospiti, e allora Caterí si senti piú tranquilla. Il castello era tutto illuminato e lucidato, e le lunghe tavole erano piene di cibi squisiti, come la cavalletta in umido e la frittata con le lumache. Caterí e Tit mangiarono ancora parecchio, e perlustrarono le sale, le stanzine, i corridoi; ma Bellissima non c'era. Allora si sedettero nel salotto verde, per giocare a carte. Caterí si divertiva molto a giocare a carte in quel castello magnifico, e anche Tit. Egli era assai allegro, e, gettando tre carte sulla tavola verde, gridò cantando: — Fante, cavallo e re! — Re degli straccioni — rispose chi sa di dove una voce, con l'aria di prendere in giro.

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Poi si mise a passeggiare guardando il soffitto, e si ricordò di Caterí: — Puoi cominciare a farti vedere, Signora, — disse. — È tutto fatto.

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Caterí inciampò nella vesta, dalla sorpresa, e una mosca che abitava là sul soffitto si mise a ballare. Una foglia di quercia si affacciò e gentilmente si mosse per fare da ventaglio. Tit si sollevò con fatica, e alla vista di Caterina si mise a ridere: — Sei molto elegante, signora, con codesto abito a strascico, — le disse poi, per non offenderla. Caterí si vergognava, ma era felice: — Sei guarito, eh, Tit? — mormorò. — Se hai fame, ti darò la minestra che ha portato il nano. Tit mangiò, e fu molto allegro, a rivedere la trombetta d'argento. La casina di legno rosso, al sole, pareva dipinta a nuovo, per la soddisfazione. Tit si addormentò, e nel frattempo lo scoiattolo si affacciò per chiedere come stava. — Pic è stato arrestato, — annunziò trionfalmente lo scoiattolo. Caterí pensava: « Ah, che bella giornata! » e andò nel bosco e prese ciclami, erbe e foglie, per addobbare la casina. In terra, fece un tappeto, e in alto, sulla finestra, mise un grande ramo per trofeo; poi, dal fondo, guardò Tit, e capi che egli sognava qualcosa di molto bello, perché una farfalla, incuriosita, s'era posata sul suo naso. Quando Tit si risvegliò, fu contento di vedere che la casina era diventata piú bella d'un teatro, e volle vicino a sé la sua trombetta d'argento. — Chi sa se rivivrò del tutto, — osservò. — Sono stato proprio in punto di morte. — Oh, sí, Tit! Precisamente, — confessò Caterí, e, non sapendo che dire, si mise a piangere per far capire la sua contentezza. Tit la guardò impietosito e pieno di cortesia. — Tu sei stata sempre qui? — domandò. — Oh, sí! — disse Caterinuccia modestamente. — E come dormivi? — chiese Tit meravigliato, osservando la piccolezza della casina.

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Ma io sono timido, e non so come avvicinarla; ella è cosí riservata che quando la Regina ha visite, corre a nascondersi. E il povero mercante ricominciò ad arruffarsi la barba. Tit guardò lontano, verso i suoi chiostri pieni di principesse, e poi guardò la sua tromba d'argento. Infine si rivolse con simpatia al grosso mercante: — Appena sarò guarito, — disse, — andremo, io e Caterí, a parlarne alla Regina. Il mercante si alzò in piedi, e sollevò le braccia per la gioia. Col suo vocione, li ringraziò undici volte. Infine starnutò per liberarsi subito di tutto il suo dolore. — E mi concedete ospitalità fino a quel giorno? — supplicò. — La mia ansia è tale, che non potrei continuare a girare vendendo stoffe. — Sí, sí, certo! — gridò Tit. — Ma qui non c'è posto, — osservò Caterí. — Oh, non importa! — esclamò il mercante con entusiasmo. — Rimarrò disteso davanti all'uscio a far la guardia, fino a quel giorno. Il cuore mi batte. Etcí! Vorrei che i giorni volassero. Uh, uh, uh! E il bravo mercante si stese dinanzi all'uscio, lisciandosi la barba; Caterí gli portava la minestra, ed egli era davvero soddisfatto. Ogni giorno chiedeva a Tit se gli pareva di sentirsi meglio. Finalmente, un mattino, Tit dichiarò: — Oggi mi alzo dal letto. Caterí batté le mani e cominciò a saltare, e Tit si alzò e passeggiò in su e in giú, finché si senti di nuovo forte come prima della disgrazia. — Ora andiamo dalla Regina, — disse. — Uh, uh, uh! — approvò il mercante. — Io vi aspetterò fuori del cancello, perché non ho il coraggio d'entrare. Se la donna del mio sogno accetterà, uscendo mi direte: « Tutto bene a. Si avviarono. Il castello era di legno scuro ornato di lamine d'oro; le scale erano coperte di un tappeto rosso, e la ringhiera era fatta di giacinti. La Regina delle Fate stava cucinando un pasticcio per

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— Non ci vedeva bene a causa delle lagrime ed era tanta la sua confusione che non si ricordava che era notte. Quando distinse Caterí, Bellissima e Tit, Rosetta cominciò a ridere e a piangere, fino ad essere così buffa che anche l'automobile rise e fece: Tuff! Tuff! Tuff! Entrarono in casa e subito notarono che, sul tavolino, i due piatti del servizio di Rosetta erano pieni, uno di stufato e uno d'insalata. — Mangiamo! Mangiamo! — strillarono. Ma Bellissima stette a guardare. — Figurati, Caterì, — disse Rosetta, — che io ero tanto contenta di ritornare! E invece, non trovai piú nessuno. Ho finalmente trovato un impiego, Caterì.

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Poi tornarono verso il teatro, ma non trovarono piú nessuno; tutti gli autocarri erano partiti e solo il signor Negretti era rimasto a terra. Subito montò sull'asino per inseguire gli autocarri; ma essi erano chi sa dove, oramai, e non riuscì a vedere che un po' di polvere a un'enorme distanza. Poi l'asino si stancò e disse che per lui ormai era tempo di mettersi in pensione; e non volle piú camminare. Negretti pensò di cercarsi subito un'occupazione dignitosa, e bussò all'uscio del Fornaio che abitava lì vicino: — Mi vuoi per fare il pane? — gli chiese. — Signor Negretti, — rispose il fornaio, — con le sue mani nere vuol toccare la mia bella farina? — e gli sbatté la porta in faccia. « La prima è andata male, ma la seconda andrà meglio », pensò il signor Negretti. E si presentò al Salumaio. — Permette, signore, che io faccia il salumaio insieme a lei? — Sei solo? — No, signore. Ho un somaro. — Bene, bene. Mi servirà per fare la mortadella. — Ma il mio somaro è di legno. — E con un somaro di legno, ti presenti al Signor Salumaio? — E il salumaio offeso gli sbatté la porta in faccia. Negretti pensò: « Anche la seconda è andata male, ma chi sa che non vada bene la terza! » E si presentò alla Signora Marchesa, che abitava in una bella casa col tetto rosso. — Che cosa sai fare? — domandò la Marchesa. — Tutto, signora. — Sai fare la calza? — No, signora. — Sai cucire a macchina? — No, signora. — Sentite? Dice che sa far di tutto, e non sa neppure fare la calza, e nemmeno cucire a macchina. Non ti vergogni? Bene, vuol dire che porterai a spasso il mio canino. — Quanto mi dà? — Un soldo al giorno. — Sta bene. Allora la Marchesa chiamò il canino, e questo venne. Aveva un ciuffo bianco in testa, il naso nero e gli occhietti azzurri. Negretti lo condusse subito a spasso, ma quel canino era indiavolato. Per far dispetto, metteva sempre le zampe dentro le pozzanghere, e Negretti doveva

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— e se ne andò a dormire, dondolando la coda con aria furba. Anche Negretti andò a letto, nella stessa camera in cui dormiva il canino. Era tanto stanco, e pensava alla sua compagnia che se ne era andata, e specialmente alla signorina Alberelli, che era fatta di un bel legno bianco e si chiamava cosí perché aveva un albero ricamato sul vestito. La signorina Alberelli gli aveva promesso di sposarlo, ma ora tutto era finito. E il povero Negretti sospirò e si addormentò. Poco dopo, si svegliò di soprassalto, perché sentí fare: — Bu! bu! - Si rizzò e chiese subito: — Che cosa desidera, Eccellenza? — Voglio andare a spasso a vedere la luna, — disse il canino. Il povero Negretti avrebbe preferito continuare a dormire, ma rispose: — Subito, Eccellenza, — e si alzò; e il canino, contentissimo, cominciò a saltare e a ballare. Poi alzò il naso verso la luna, e cantò in suo onore una canzone che diceva cosí:

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Elsa Morante Le straordinarie avventure di Caterina Disegni in nero e a colori dell'autrice Einaudi

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Pane arabo a merenda

219735
Antonio Ferrara 16 occorrenze
  • 2007
  • Falzea Editore
  • Reggio Calabria
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Tornando a casa Maristella è caduta. La ruota anteriore della sua bici ha incontrato un sasso e si è impennata. C'è di buono che Maristella non piange mai. L'aiuto a rialzarsi e torniamo verso casa sua a piedi, tenendo le bici per il manubrio. La signora Nasochiuso ci vede arrivare da lontano, perché è affacciata al balcone. Quando arriviamo è già davanti al portone, le mani sui fianchi e gli occhi che sprizzano scintille. - Di nuovo col marocchino! — urla — Cosa ti avevo detto? - Ma, mamma, siamo solo andati a fare un giro. - Basta! Non rispondere! — e parte lo schiaffo. Non piange neanche adesso, Maristella. Ascolta in silenzio la sfuriata di sua madre, a mento sul petto. - Guarda come sei conciata! Sembri una stracciona! E qui, cos'hai? — urla aprendo con forza la mano della figlia. L'accendino di Aziz cade sull'asfalto del cortile. - Subito a casa! E tu fila via, marocchino! Raccolgo l'accendino in silenzio, monto sulla bici e torno a casa. Per strada mi vengono in mente tutte le parole che non ho usato. Sento tutti í pensieri che mi escono dalla testa, come bolle che scoppiano. Un bambino può diventare cattivo, a furia d'esser buono.

Vendo accendini, però aspetto pure che i clienti carichino la spesa in macchina e poi riporto a posto il carrello, così recupero la moneta da due euro. Le prime volte mi vergognavo un po, adesso sono il più veloce di tutti. Alcuni sono contenti di lasciarmi il carrello, così possono subito salire in macchina, senza prima tornare indietro a metterlo a posto. Questo succede per esempio quando piove. Quando piove posso guadagnare anche dieci euro, se non ci sono altri marocchini a prendere i carrelli. - Vai a lavorare! — mi dice un signore coi baffi. - Sono qui apposta — penso io e sto per dirlo, ma poi sto zitto, sorrido e vado a cercare qualche altro signore col carrello. Una commessa all'entrata regala un'arancia a un bambino. Sua madre lo riprende: - Come si dice alla signora? Il bambino guarda la commessa e dice: - Sbucciala. Dieci minuti prima che il supermercato chiuda prendo anch'io un carrello e faccio la spesa come un italiano. Mi piace andare in giro a scegliere. Le cose che compero di solito sono banane, pane, pepe, latte. I carrelli dei signori italiani sono sempre strapieni di pizze, biscotti, cioccolato, merendine. - Chissà quanti figli hanno! — pensavo le prime volte. Poi ho capito. Quasi tutti hanno un solo figlio o una sola figlia, però consumano tanto perché in casa hanno la tele, che trasmette un sacco di pubblicità. Per fortuna noi a casa non abbiamo la tele.

Antonio Ferrara è nato a Portici, in provincia di Napoli. A Napoli ci è rimasto fino all'età di ventuno anni. Adesso vive a Novara con la moglie Marianna, che fa la fotografa, con la figlia Martina, che fa la studentessa e la violinista, e con i gatti Simba e Minou, che fanno i gatti. È sempre fuori di casa, sempre fuori dagli schemi. È sempre fuori.

Un giorno è venuta a bussare alla nostra porta. Ero a casa da solo. - Sono venuta a chiederti dove fai la pipì — ha detto con la sua inconfondibile voce nasale. Ho pensato ad uno scherzo. - Nel gabinetto, naturalmente — ho risposto ridendo - e tu? - Non sei forse tu che fai la pipì per le scale? — ha insistito la Nasochiuso. Allora ho capito. Mi è passata la voglia di ridere. L'ho guardata a lungo senza dire niente. Avrà pensato che avevo paura. Ma io volevo risponderle col silenzio. È andata via borbottando, convinta della sua idea. Hanno suonato di nuovo. Questa volta era Maristella, la figlia della signora di prima. - Non mi chiedi cosa sono venuta a fare? — ha domandato. - No, non te lo chiedo. - Peccato, perché ti avrei risposto che sono venuta per chiederti scusa — mi ha detto e poi è rimasta un po' in silenzio — per mia madre, voglio dire! - Shukran — le ho detto sorridendo. - Cosa? - Grazie. In arabo. A questo punto Maristella si è messa a masticare la cicca che aveva in bocca con aria meditabonda. Poi, a sorpresa, mi ha dato un lungo bacio sulla guancia. Io ero terribilmente imbarazzato e avrei voluto dirle di smettere. Però ho pensato a quello che mi dice sempre la mamma: - Non interrompere mai qualcuno che ti stia mostrando affetto — e ho aspettato che finisse. Subito dopo è scappata via ridendo come una matta.

Quando suona i nostri vicini corrono a sentirlo e ognuno gli porta qualcosa da mangiare, da bere o da vestirsi, così ogni volta Aziz se ne va via con un piccolo tesoro. Qualcuno, a volte, gli porta anche qualche nuovo tegame di cui sperimentare il suono, o una vecchia caffetteria da picchiettare, o una caraffa da far tintinnare. Aziz apprezza molto queste piccole sorprese e percuote scrupolosamente, sorridendo, tutto quello che gli passa per le mani. L'ultima volta, a parte i grandi, c'erano venti bambini, che si conoscevano già tutti tra loro.

Nelle curve la borsa si inclina fin quasi a cadere, ma poi miracolosamente resta sempre in equilibrio. A un semaforo rosso mollo la bici sul marciapiede, tiro fuori il fazzoletto e mi piazzo davanti alla macchina, proprio in mezzo alla strada: provo a segnalare all'autista col fazzoletto.

Si ferma a quattro passi di distanza e si siede sulla coda. Resta così per un po', poi si alza e raggiunge la bandierina del calcio d'angolo. È una bandierina gialla, alta pressappoco come lui, che sventola allegra, fissata su uno stecco storto. Le gira intorno un paio di volte, la annusa, poi si siede sulla pancia, la lingua fuori. Sembra un soldato a guardia del suo fortino. Guarda dritto davanti a sé, fermo come una sfinge. Di tanto in tanto guarda la bandierina con interesse disciplinato. Di colpo si tira su, si gratta, alza la zampa e innaffia la bandiera. - Fortuna che già era gialla — penso, continuando a suonare. Intanto il cane, zitto com'era venuto, si gira e se ne va via. Un soffio di brezza leggera mi sfiora il collo, ma non riesce più a far sventolare la bandiera, appesantita dall'innaffiatura.

Lei fa danza moderna e a volte balla mentre io suono. Mi chiede spesso della mia città d'origine, Casablanca. A Casablanca ci sono ancora il nonno e la nonna. La loro casa è molto vicina al suq, il mercato, e quindi c'è sempre molta confusione. Omar, il fornaio, è amico del nonno e mi regala sempre una focaccia. Zio Kamir, che fa il venditore di tappeti, offre il tè a tutti i clienti, anche a quelli che si fermano soltanto a guardare. Intanto urla e fa gesti per attirare l'attenzione dei turisti, così a volte versa per sbaglio il tè su un tappeto costoso e urla ancora più forte per il dispiacere. Nel negozio di frutta e verdura la nonna compra datteri, meloni, sceglie da grandi ceste, annusa il pepe, la cannella, l'aglio, i chiodi di garofano. Le case non hanno le tapparelle, come a Novara. Tutte le finestre hanno le persiane, che proteggono dal sole e lasciano guardare fuori. Tutte le porte hanno una tenda per fare ombra. Poco lontano dal mercato c'è la chiesa, dove i nonni vanno a pregare, solo che in Marocco le chiese si chiamano moschee e i campanili minareti. Il nonno, in giardino, la sera innaffia le piante piano piano, come se versasse il tè. È sempre allegro. Sorride anche quando parla al telefono. Lo so perché l'ho visto sorridere mentre parlava con la nonna. Dice che chi ti ascolta può sentire il sorriso nella tua voce. Mi dice anche: - Parla lentamente, ma pensa con rapidità.

. - A trovare Aziz. Non si era già d'accordo? - Sì. - Allora? - Allora, confermo. Scendo subito. - È svitata — penso. Fa freddo, a Novara. Povero Aziz, nella sua baracca. A Casablanca adesso saranno in maniche di camicia. - Eccomi — dice Maristella mentre inforca la mountain bike rossa. - Andiamo. Pedaliamo affiancati in silenzio. La guardo con la coda dell'occhio. È simpatica, tutto l'opposto di sua madre. Mi piace quando si aggiusta i capelli dietro le orecchie. Ecco, deve averlo fatto, ma non ho voluto girarmi a guardare. Che peccato non aver visto! Ormai non lo fa più. Ci siamo. Ecco Aziz. - Tu devi essere Maristella. - Come mi conosci? - Eh, così, di fama — sorride Aziz mentre mi lancia un'occhiata complice. - Sei tu quello che dipinge gli accendini? - Sì. come lo sai? - Beh, anch'io, la fama corre. Aziz regala a me un accendino con su dipinta la città di Novara, a Maristella uno con la città di Casablanca. Dalla tasca della sua giacca sporge la copertina di un libro: "Le città invisibili", di Calvino. - È bello? — gli chiede Maristella. - Eh, sì. - Ti manca molto? - Quindici pagine, poi te lo regalo. - Shukran — ringrazia Maristella.

Quando la mia zia preferita, Kamala, è venuta a trovarmi, ho messo su un concertino mica male. Da allora, non so perché, non è mai più venuta a trovarmi e mi manda soltanto una cartolina al mio compleanno. E pensare che gira tutto il mondo per lavoro. Forse adesso conosce dei ritmi nuovi, di quelli che suonano nel Perù o a Timbuktù.

Dice che ha una bella camera con tante cose da far vedere, ma che di rado viene qualcuno a vederle. - Io le vedrei volentieri — gli ho detto. Così l'ho seguito attraverso un tinello, una cucina e un lungo corridoio, poi per due rampe di scale fino in camera. La camera di Aldo è grande come tutta la nostra casa, ma c'è molta più roba. Aldo ha dei giocattoli bellissimi. Per tutto il tempo che siamo stati insieme lui ha giocato al computer con un videogioco di guerra, mentre io esaminavo tutto quel bendiddio. Si è interrotto soltanto per prendere il tè con la torta alle tre, il latte coi biscotti alle quattro e mezzo e un bicchiere di qualcosa con tre qualità di stuzzichini alle sei e un quarto. Verso sera suo papà mi ha accompagnato a casa con una macchina grande come un autobus, tutta luci, freni e frecce e la musica a tutto volume. All'incrocio di largo Leopardi una vecchietta ci ha attraversato la strada sulle strisce e il papà di Aldo ha cominciato a suonare il clacson a più non posso. Un vigile che era lì all'incrocio si è awicinato, ha estratto dal taschino il blocchetto delle contravvenzioni, la penna e ha detto: - Uso del clacson in centro abitato e disturbo ai pedoni: fa venticinque euro! - Ma se era lì da mezz'ora, lenta come una lumaca! Ma dai! - Allora? - Silenzio. - A-l-l-o-r-a?! - Va be', va be', lasciamo perdere! il papà di Aldo si è frugato nelle tasche e poi ha sventolato una banconota da cinquanta euro sotto il naso dell'ufficiale. - Mi dispiace ma non ho il resto — ha sentenziato il vigile senza scomporsi. - Non importa, tenga pure: faccio un'altra suonatina e siamo a posto! E così dicendo il papà del mio amico ha strombazzato ancora, accelerando e sgommando come Schumacher mentre il vigile prendeva il numero di targa.

Non riuscivo a non pensare a Maristella. La maestra improvvisamente mi ha chiesto: - Nadir, dimmi due pronomi. - Chi? Io? - Bene, benissimo! Ora sentiamo un altro. Mi e proprio andata bene! Torno sempre allegro da scuola. - Bravo, Nadir. Se torni così allegro dalla scuola significa che ci vai volentieri! — esclama la mamma. - Mamma, non confondiamo l'andata con il ritorno! - preciso un po' seccato. Ieri sera sono passato in bici sotto casa di Maristella e ho visto la luce accesa. Ho sentito l'aria fresca sul viso e gli insetti sfiorarmi le gambe (avevo messo i pantaloni di Luca). Ho avuto per tutto il tempo nelle orecchie un ritmo bello e triste, come la voce di un tamburo antico. Ho rallentato e ho pedalato a tempo. Un pipistrello mi ha accompagnato fino a casa. Ho voglia di telefonare a Maristella per chiederle se domani le va di fare un giro in bici, però ho sempre paura che risponda sua madre. Ci provo. - Pronto? Con chi parlo? - Calzoleria Scarpetti! - Oh, scusi, ho sbagliato numero! - Non si preoccupi: venga pure e le cambieremo il paio di scarpe.

Il papà mi ha raccontato che l'anno scorso un giornalista della televisione andò a intervistarlo a Casablanca. In quel momento il nonno stava conducendo alla fiera del bestiame il suo asinello ridotto pelle e ossa. Mentre il giornalista gli faceva le domande e la telecamera lo riprendeva, passò di lì un gruppo di scolari. Il più alto di loro, attirato dalla televisione e per fare lo spiritoso, gridò: - Ehi, nonnetto, mi venderesti quel bellissimo asino? - Ben volentieri — rispose il nonno — ma prima dovresti sentire tuo padre se è disposto a mantenerne due! Intanto la nonna, sorridente, passava sotto il portico con le uova appena raccolte avvolte nel grembiule, rimboccato come un nido. Il giornalista concluse la sua intervista augurandogli: - Spero di poter tornare l'anno prossimo a festeggiare il suo novantaduesimo compleanno. - Perché ne dubita? — gli chiese il nonno — non si sente bene?

A me, invece, ha detto che sono bravo a scrivere. - Sei bravo, Nadir. — ha detto — E quando avrai troppa pena, troppo dolore, e se non vuoi parlare con nessuno, scrivi. Ti aiuterà. Così ha detto. È strano, scrivere. Le gioie e le tristezze le penso in arabo e le scrivo in italiano. Ma vengono fuori lo stesso, è questo che conta.

Lavoro dalle quattro e mezzo del pomeriggio fino alle sette e mezzo, cioè da quando chiude la scuola a quando chiude il supermercato. Alle otto sono a casa. Sono piccole le case degli italiani. Sono posate le une sulle altre. Il papà prepara il tè verde, profumato e aspro. Lo assaggia per primo e poi lo versa in tutte le tazze. La mamma cuoce il cuscus col vapore, in una pentola speciale di terracotta. I granellini di semola devono essere separati continuamente con le dita per non farli appiccicare. I miei fratelli, Aisha e Hussein, aiutano a preparare. Il piatto è al centro del tavolo. Mi piace mangiare con le mani, anche se a scuola uso la forchetta. Con le mani puoi fare le palline di semola e puoi prendere, insieme al cuscus, i pezzetti di carne e di verdure. Veramente tutto va fatto con la mano destra, perché con la sinistra non si può toccare il cibo. A scuola, la prima volta che ho mangiato in mensa, mi hanno dato il prosciutto. - È buono, sai? Preferisci il crudo? — mi ha chiesto Luisa la cuoca, che è un po' sorda. A me non interessa se il prosciutto è buono o cattivo. Non lo mangio e basta. Non lo so perché, però lo ha detto il papà ed è pure scritto nel Corano. - L'apparecchio acustico che ho comprato adesso funziona proprio bene. Capisco tutto! — mi ha detto sorridendomi Luisa. - Ah, sì? È costato molto? — le ho domandato. - Mezzogiorno e un quarto.

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A Livio, che ci ha creduto. Ad Arianna, che ci ha creduto e mi ha aiutato a non perdere il filo.

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