Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

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215017
Lavatelli, Anna 35 occorrenze
  • 1997
  • Piemme Junior
  • Casale Monferrato (AL)
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Sbatté gli occhi, girò la testa, sorrise alla bambina, guardò il cane, vide la Pinuccia, la riconobbe, si stupì, non si spaventò, tornò a sorridere a Dorotea. - Lei è mia figlia - disse piano. - Non è bellissima? - ...Oh, sì! - biascicò a stento la Pinuccia. E si sedette sul bordo del letto, con molta prudenza, perché di punto in bianco la soffitta s'era messa a girare come una trottola, con i suoi trumeau mangiati dai tarli, le poltrone di fine ottocento e tutte le altre anticaglie di lusso che la contessa Orisanda aveva via via accumulato nel corso della sua prolungata esistenza terrena.

In punta di piedi, uscì a cercare Dorotea. Con quel bel sole, pensò, era un peccato non portarla a passeggio. E anche lei, a dire il vero, aveva voglia di fare due passi. «Forza, Amanda» si disse. «Esci a mangiarti il mondo.»

LA CONTESSA Orisanda Vivalda Spinola dei Tornielli di Cavagliano, giunta ormai ai novant'anni, incominciò a prendere in seria considerazione la possibilità di morire e mandò a chiamare il notaio Brisighini per fare testamento. La contessa non aveva eredi diretti: né figli, né fratelli, né nipoti. L'unico parente che potesse aspirare ai suoi beni era un lontanissimo nipote di ramo materno, il marchese Leopoldo Umberto Bagliotti-Gagginis da Codemonte, che appariva puntualmente a Villa Felice in occasione del compleanno della zia, porgeva un mazzo di rose gialle, non si fermava mai più di dieci minuti e poi ripartiva a tutto gas su di una Ferrari "testa rossa", sgommando come un autentico pilota di rally. A bordo di quella Ferrari, ogni anno, restava ad aspettarlo una bella signorina, che non era mai due volte la stessa. L'anziana nobildonna aveva verificato la cosa di persona, giacché non era né cieca, né indifferente ai costumi del suo parentado. Per di più aveva in casa un cannocchiale molto potente, eredità del suo bisnonno Filiberto Maria, valoroso capitano di vascello al servizio dei re di Sardegna, e sapeva come usarlo. Mai e poi mai avrebbe lasciato la sua eredità a quell'uomo vanesio che le regalava odiosissime rose gialle e che cambiava la ragazza con la stessa noncuranza con cui si cambiano i vestiti usati. La contessa disse quindi al notaio che dava tutto in beneficenza: la tenuta di campagna, i vari palazzi in città, le riserve di caccia lungo il fiume, il castello sulla collina, eccetera, eccetera, eccetera. Il notaio prendeva nota diligentemente, curvo sulle sue scartoffie. A un tratto alzò la testa e chiese, un po' esitante: - E Villa Felice? Che ne sarà di questo suo bel palazzo, signora contessa? - Le dirò, signor Brisighini, che ci ho pensato a lungo. E ho deciso di farne una casa di riposo per gli anziani della mia città. Io qui ci ho vissuto a lungo e bene: mi piace l'idea che altra gente possa goderne in futuro.

tutto vestito di nero, con tanto di cappello a cilindro. - Sai chi è quell'uomo? - fece il maresciallo Fizzotti, che aveva seguito lo sguardo del professore. - Quello con il cappello a cilindro, dico. Il professore si strinse nelle spalle, come a dire che non sapeva e che comunque non gliene importava nulla. - È il signor Martelli, - proseguì ugualmente il maresciallo - l'impresario delle pompe funebri. Fa buoni affari qui da noi, quel furbacchione. Mica per niente è amico del direttore. - Certo che sono delle belle facce toste, quelli là! - borbottò Melchiorre, che sedeva nel loro stesso banco. - Fan pure finta di piangere... - Già, già... - s'intromise l'Ernesto. - Invece si fregano le mani. Sapete cosa valeva donna Giuseppa in case e terreni? Tanto oro quanto pesava... E lei pesava parecchio, eh! eh! Ora, chi si prenderà la sua roba? Già, si sa: la casa di riposo Villa Felice, fondazione della contessa Orisanda Vivalda Spinola dei Tornielli di Cavagliano, ente benefico eccetera eccetera. Ma in realtà i soldi se li spartiranno loro quattro. - I quattro Cavalieri dell'Apocalisse! - disse Melchiorre, lugubre. E proprio in quel momento, come a dargli ragione, il feretro con i resti mortali di donna Giuseppa venne portato fuori della cappella per la sepoltura. Dietro la bara, annunciatori di morte come i Cavalieri dell'Apocalisse, sfilarono in bell'ordine il direttore, il dottor Casnaghi, il signor Martelli e la Maria Pia. - Ecco l'unico modo per uscire da Villa Felice... - commentò tetro l'Ernesto, prima di uscire. - Buonasera a tutti, signore e signori. - E se ne andò a prendere a calci le pigne cadute dalla grande magnoglia durante l'ultimo temporale. Gli altri fecero qualche commento a mezza voce, mentre rientravano nella villa alla spicciolata. Solo il professore rimase ancora un po' in giardino, ma non con l'intenzione di consolare l'Ernesto. Aveva sentito abbaiare un cane, al di là del muro di cinta, e gli era parsa proprio la voce del suo Argo. Andò fino ai cancelli e sbirciò fuori, nella speranza di vederselo apparire davanti. Quanto gli avrebbe fatto bene, adesso, starsene un po' con lui, godere del suo smisurato affetto canino! Non ci sono che i cani - a volte - che sanno amarti così come sei, anche se non sei proprio niente di speciale. Solo perché sei tu.

La ragazza non riuscì a trattenere un sorriso. Poi disse ad alta voce, come per farsi coraggio: - Andiamo, su! - e oltrepassò risolutamente il cancello. Percorse a passo spedito il lungo viottolo di ghiaia che conduceva alla villa, salì l'ampia scalinata di marmo, entrò nell'edificio, s'infilò in qualche corridoio sbagliato, chiese informazioni e finalmente fu davanti alla porta giusta, quella della direzione. Bussò subito, prima che il cuore impazzisse di paura, prima che i dubbi prendessero il sopravvento e la facessero scappare via. Erano ormai parecchi giorni che ronzava intorno ai cancelli di Villa Felice, progettando idee che non volevano tradursi in azione, rimuginando discorsi che le ritornavano giù in gola con la saliva, accumulando tensioni che poi a casa si scioglievano in lacrime d'impotenza. Ma stavolta, spingendo in avanti il piede e l'anima, era arrivata fino a quella porta. Ora, pensava la ragazza, bisognava andare fino in fondo, dare un premio a quello sforzo tremendo della volontà. - Avanti! - disse una voce dall'interno. La ragazza fece un respiro profondo ed entrò. Un visitatore che avesse già frequentato quella stanza ai tempi del Bagliotti-Gagginis, non l'avrebbe trovata poi tanto diversa, a un primo e rapido sguardo d'insieme. Mobili, suppellettili, quadri, tappeti, tendaggi erano lì al loro posto, come muti testimoni di un passato ancora vivo e incombente. Ma nel vaso di fiori sulla mensola c'erano i lunghi rami del ciliegio fiorito, profumati di dolcezza, e nel portariviste giornali di vario argomento, ma nessuno di automobilismo. E poi, seduto alla scrivania, Virgilio Zambelli con Argo sulle ginocchia e gli occhi pensosi dietro i cristalli delle sue spesse lenti da miope. - Accomodati - disse il professore, indicando una poltrona. La ragazza si sedette appena sul bordo del sedile, come chi stia pensando di più a cosa dovrà dire piuttosto che a mettersi comodo, e guardò per terra, cercando ispirazione. Virgilio Zambelli fece finta di non notare il suo imbarazzo. Sapeva per esperienza personale come ci si sente in certi momenti della vita. E da quando era diventato il nuovo direttore di Villa Felice, aveva imparato a comportarsi di conseguenza. - Mi vuoi dire perché sei qui? - chiese con la sua voce tranquilla, mentre Argo trotterellava già verso di lei, ansioso di dare un'annusatina alla nuova arrivata. - Eh, come? - la ragazza alzò la testa di scatto, forse spaventata alla vista dell'animale. Il suo sguardo inquieto si incrociò con quello sereno del professore. - È un bravo cane, non temere. Vuole solo conoscerti e fare amicizia con te. - Sì, me lo immagino. Ho avuto un cane anch'io, da piccola. - La ragazza allungò la mano per accarezzare il muso dell'animale. Poi aggiunse, tutto d'un fiato: - Sono qui perché ho saputo che ospitate dei bambini. Così mi sono detta, forse hanno bisogno di una mano. A me piacciono molto i bambini. Lavorerei gratis, se mi fate stare qui. Il professore non credette a nessuna di quelle parole, ma colse la richiesta d'aiuto che cercavano ingenuamente di nascondere. E subito decise che la cosa migliore era di cercare la strada della sincerità, ma senza spaventarla, senza farla scappare via. Bisognava agire come faceva Melchiorre con gli animali randagi. - Con il personale siamo a posto. C'è il gruppo degli anziani di Villa Felice che è sempre disponibile, e in più il comune ci dà tutta l'assistenza di cui abbiamo bisogno. Però, se vuoi restare con noi qualche giorno, sei la benvenuta. In fondo sembri ancora una bambina anche tu. Quanti anni hai? - Diciotto - rispose lei in fretta. E poi chiese, incredula: - Davvero posso stare qui? - Sicuro. Io sono il direttore, sai? Tocca a me decidere, qui dentro. E poi, guarda, il mio consulente di fiducia ha già scelto per me. - Indicò sorridendo il cane, che si era acciambellato in braccio a lei. La ragazza sembrò non cogliere il tono scherzoso di quelle parole e lo ricambiò con uno sguardo pieno di gratitudine. - Vieni con me, ora. La signora Pinuccia ti mostrerà dove puoi dormire. A proposito, come ti chiami? - Amanda. - Amanda... e poi? - Amanda e basta - si affrettò a dire la ragazza, che sembrava scontenta d'essersi lasciata scappare di bocca il suo nome. Il professore capì d'aver fatto un passo falso e cercò subito di rimediare in qualche modo. - Amanda... Sai cosa vuol dire in latino? Vuol dire "da amare". È un bel nome, pieno di significato. - Sì, può darsi. Ma mia madre deve averlo trovato in qualche rivista femminile... Era il nome di un'attrice o di una cantante che le piaceva, almeno così m'ha raccontato una volta. Comunque, io me lo cambierei volentieri. «Non ne infilo una giusta con te, a quanto pare» pensò Virgilio Zambelli, grattandosi il mento. Senza più l'animo di chiedere altro, l'accompagnò dritto filato dalla Pinuccia. Soltanto Argo insisteva a volere simpatizzare con la ragazza e, nonostante i severi richiami del professore, continuò ad andarle tra i piedi su per le scale, a cercarne lo sguardo, ad annusarle le gambe e le natiche, sfrontatamente, come se trovasse in lei qualcosa di così familiare da giustificare tanta confidenza. Se fosse stato un uomo, e non un cane, si sarebbe potuto dire che si era innamorato.

. - fece il dottor Pastori, prendendo a braccetto Melchiorre. - ...Mi sa che adesso Villa Felice tornerà a essere una villa felice. Gli altri annuirono, ancora increduli della rapidità con cui si erano svolti gli ultimi eventi. Indugiarono ancora un poco a contemplare il cancello spalancato da cui sentivano entrare l'onda lunga della vita che di nuovo li attirava, chiamandoli a sé. Poi Melchiorre disse: - Entriamo in casa. Dobbiamo pensare al futuro, lo sapete? - Ah, per me va bene... - fu pronto a ribattere il Carlo. - Guardare avanti è sempre meglio che guardare indietro. Perlomeno non ti viene il torcicollo. Tu che ne dici, Attilio? - Oh, be' si capisce... Ricordo che quando m'imbarcai su di un piroscafo che risaliva il fiume Zambesi, il capitano disse: «Ragazzi, non voglio sentire proteste o lamentele durante il viaggio. Se Dio ci voleva far vivere di ripensamenti, ci avrebbe fatto gli occhi dietro la testa». - Sono d'accordo con il tuo capitano - osservò il dottor Pastori, convinto. - Doveva essere un tipo in gamba. - Sfido - arrossì l'Attilio compiaciuto. - Ero io. Mentre gli altri rientravano alla spicciolata, ridacchiando sommessamente, Virgilio Zambelli si girò un momento a chiamare il cane. Lo vide correre verso il cancello e temette che scappasse fuori all'improvviso. Nella mente gli passò rapida l'immagine dello schianto contro un'auto in corsa. Argo! - gridò. Sulla strada si affacciò la sagoma goffa e inconfondibile della Maria Pia. - Fila dentro, bestiaccia! - ingiunse la donna. Poi se ne andò via in fretta, senza più voltarsi. Il professor Zambelli notò che reggeva in mano una grossa valigia scura.

. - Tu vai a scuola, immagino. - Ci andavo, si. - Quindi dovrai terminare gli studi. - Be', certo.., se potessi... - Appunto. Ascoltami bene, Amanda. Io ti propongo due strade. Numero uno: restare qui. Tu studi e noi ci occupiamo di Dorotea. Numero due: tornare a casa... - Non se ne parla nemmeno. Mia madre ora è in prigione e il babbo... - Tua madre uscirà, prima di quanto tu creda. Sta collaborando con gli inquirenti, mi dicono: questo l'aiuterà di sicuro. E con il tuo babbo ho già parlato io. Amanda balzò in piedi. Si torse penosamente le mani e faticò a sillabare, con voce stenta: - E... e... cosa gli ha raccontato? - La verità. Che altro? - E lui? - E lui ha detto che ti aspetta, con la tua bambina. - Non ci credo. - Be', certo da principio l'ha presa male. Ha urlato, strepitato, inveito, minacciato... Insomma, ha fatto il diavolo a quattro. - Me l'immagino - sbuffò lei, alzando le spalle. - Del resto, io lo capisco. Prima la mamma, adesso io. Non ha avuto molta fortuna con le donne di casa. - Ma io... - riprese il professore, come se non avesse sentito le ultime parole. - Ho lasciato che si sfogasse per bene. Poi gli ho sussurrato un paio di paroline ed è diventato subito più ragionevole. Alla fine mi ha abbracciato e ha pianto, qui, su questo cuscino. Poi ha chiesto di vedere la bambina. A proposito, dice che Dorotea gli somiglia. La ragazza sorrise suo malgrado. Poi si fece seria e guardò di nuovo i merli, attraverso la vetrata, che continuavano i loro frenetici giochi d'amore tra i rami degli alberi. - Non mi sento pronta per tornare a casa. - Nessuno ti chiede di decidere oggi, neanche il tuo babbo. - Davvero? - Amanda sembrava essersi tolta un peso dallo stomaco. D'impulso si alzò e lo abbracciò stretto. - Vai, vai pure adesso... - ora era il professore a sentirsi a disagio. - Il dottore dice che devo evitare gli strapazzi, per via del mio cuore ballerino. - Sicuro. - La ragazza si ritrasse prontamente e fece l'atto di andarsene. - Amanda, senti... - Sì, professore? - Se dovessi morire.... - Ma... ma... cosa dice adesso? Cosa le salta in mente? - Se dovessi morire, - proseguì deciso il professore - prometti di badare al mio Argo. - E perché? Tanto non ce ne sarà bisogno. - Tu, comincia a promettere. O non vuoi? - Sì, sì... lo prometto - ribatté Amanda, con furia. - Ma lei vivrà ancora tantissimi anni, ha capito? Il professore le lanciò un'occhiata indulgente. - D'accordo, d'accordo... Ti spiace fare un po' di buio, prima di andar via? Mi sento stanco e vorrei riposare un poco. La ragazza andò ad avvicinare le impannate della porta-finestra e quando tornò indietro, vide che Virgilio Zambelli aveva già chiuso gli occhi. Si chinò su di lui, in ascolto, e sentì che il suo respiro era placido e commesso. - Dormi bene, professore - mormorò. E gli rimboccò le coperte perché non prendesse freddo, come aveva imparato a fare con la piccola Tea. Rimase qualche minuto a vegliarlo, chiusa nei suoi pensieri, misurando la montagna di problemi che le stavano davanti.

LEOPOLDO Umberto Bagliotti-Gagginis, direttore della casa di riposo Villa Felice, stava seduto su di una comoda poltrona in pelle, dietro a un'elegante scrivania sulla quale torreggiava un gran mazzo di rose gialle dal gambo extra-lungo. Sfogliava una rivista di automobilismo e sembrava non vedere nemmeno la persona che aspettava lì in piedi, da almeno cinque minuti. Finalmente terminò di leggere, appoggiò i gomiti sulla scrivania, spinse avanti la testa e si rivolse decisamente al nuovo arrivato. - Dunque lei sarebbe... - con gli occhi cercò un foglio sul piano della scrivania - ...il signor Zambelli Virgilio, nativo di Mantova, età 65 anni, pensionato, ex professore di lettere antiche? - Sì, precisamente - disse l'anziano signore, e, chissà perché, arrossì un poco. - Ah, voi professori... - Il Bagliotti-Gagginis non finì la frase, ma il tono accusatorio della voce sembrava alludere a chissà quale colpa o vergogna di cui s'era macchiata in modo irreparabile tutta la categoria degli insegnanti. - Comunque... - Comunque... cosa? - chiese il professor Zambelli, sempre più a disagio. - Nulla... - fece il direttore, riprendendo il tono neutro e ,composto dell'esordio. - Volevo semplicemente comunicarle che la sua domanda è stata accolta. Lei potrà venire a vivere a Villa Felice, anche domani stesso se vuole. Prima però abbia la cortesia di adempiere ad alcune formalità d'uso. Legga questi documenti e firmi nei punti indicati. - Se lei permette, - obiettò il professore. - preferirei guardarmeli a casa con calma. - Come vuole - rispose sorpreso il Bagliotti-Gagginis, e per la prima volta guardò il suo interlocutore con un certo interesse, anche se non proprio con simpatia. - Ma sono tenuto ad avvertirla che domani stesso, o forse già questo pomeriggio, potrei non avere più disponibilità all'interno dell'istituto. Non lo dico per metterle fretta, professore. Lo dico nel suo interesse: lei non ha idea di quanta gente bussi ogni giorno alla mia porta. Il professor Virgilio Zambelli tentennò un poco, con lo sguardo perso nell'apparente contemplazione di un gran quadro appeso alla parete, che rappresentava un'anziana nobildonna dallo sguardo penetrante, ritta al davanzale di una veranda in fiore. - La contessa Orisanda, mia zia - precisò il direttore, con una sfumatura di impazienza nella voce. Il professore si riscosse, prese gli occhiali dal taschino, pulì ben bene le lenti, le inforcò, raccolse i fogli che il direttore aveva appoggiato sulla scrivania e cominciò a leggere attentamente.

. - la Maria Pia faticava a calmare il tremito d'indignazione che la scuoteva tutta. - È piccola... forse una neonata... Non so dove l'han presa... E non me la voglion dare. - A me la consegneranno. - Non lo so... Non lo so proprio... Quelli là son diventati tutti matti! Mi guardavano con certi occhi... e dicevano certe cose... Cose da pazzi! Sono pericolosi, signor direttore! - Grazie, infermiera. Vada pure, adesso... E non si preoccupi. Provvederò immediatamente. La Maria Pia chinò la testa, intimidita da quel tono sprezzantemente definitivo. Obbediente, si avviò alla porta, convinta che il direttore non avesse afferrato appieno la gravità della situazione. Fu allora che si ricordò di un'altra cosa importante, e si dette della stupida, per averla quasi dimenticata nell'agitazione del momento. Poiché voleva ben comparire davanti ai suoi superiori, tornò indietro a grandi passi e disse: - E non è tutto. Hanno anche un cane. - Al diavolo! - sbottò il direttore, perdendo definitivamente le staffe. - E poi, cos'altro ancora?

UNA SETTIMANA DOPO la contessa, non senza una malcelata emozione, appose il suo nome in fondo a una pila di documenti con bella e svolazzante calligrafia, come le avevano insegnato in collegio le suore Orsoline più di ottant'anni prima. - Ecco fatto, signor Brisighini! - sospirò la nobildonna, deponendo la penna. - Adesso posso morire tranquilla. - Ad multos annos... - latineggiò il notaio. - Che lei possa vivere ancora a lungo e in buona salute! LA VECCHIA SIGNORA scampò ancora altri nove anni, ma poi, proprio quando le mancavano pochi mesi a compiere il secolo, una brutta congestione se la portò via. Venne chiamato subito il notaio Brisighini, che aprì il testamento e lesse tutto quello che c'era da leggere, parola per parola. Le ultime volontà della contessa Orisanda fecero la gioia della cittadinanza, poiché tutti gli enti benefici erano stati accontentati, persino la società protettrice dei gatti randagi. L'unico a restarci male fu il nipote Leopoldo, a cui la zia, con dolce perfidia, aveva lasciato in eredità soltanto il cannocchiale dell'intrepido bisnonno. - Stupida vecchia! - borbottò il giovanotto. - E io che avevo perfino comprato un cestino di rose gialle da mettere sulla tua tomba! Dopo neanche dieci minuti era già a bordo del suo bolide lucente, dove lo aspettava un nuovo, splendido esemplare di sesso femminile. Aveva lunghi capelli color rosso fiamma, molto intonati alla carrozzeria dell'automobile. La Ferrari schizzò via e scomparve in fondo alla strada con un rombo da Gran Prix.

Tu, Melchiorre, occupati della bambina, che io penso a questo furfante d'un cané. Melchiorre sorrise contento. Raccolse il fagotto di stracci e si avviò circospetto verso la villa, seguito dal professore che nascondeva Argo sotto la giacca. Durante il tragitto nessuno dei quattro emise un fremito, un suono, un guaito o un piccolo lamento.

Scesero in cantina e da lì sgattaiolarono guardinghi all'aperto, come ragazzi usciti a giocare di nascosto dai genitori. - Allora? - chiese trepido il professore. - Laggiù... - e Melchiorre indicò il frassino in fondo al parco. - Ma bisogna fare piano. Il professore sentì una vampata calda ali testa. - C'è... il mio cane? - Sì, però... - Però che? È ferito? È malato? - No, no. Ma c'è qualcun altro con - Qualcun altro? Ma chi? - Andiamo, su - tagliò corto Melchiorre I due si mossero furtivi, camminando curvi dietro le alte siepi di ligustro dei viottoli. Finalmente arrivarono sul posto. Nel muro altissimo c'era il buco da cui passavano i cani. E a ridosso del muro c'era un bastardino rossiccio, col musetto teso in avanti e la coda inquieta. - Argo! Sei proprio tu... La bestiola lo guardava fisso, ma non si avvicinava. - Argo! - ripeté il professore, quasi senza voce. - Argo, non mi riconosci? Il cane diede un balzo e gli cadde in braccio, uggiolando di felicità. Ci fu uno scambio frenetico di carezze, leccatine, abbracci e zampettate. Poi Argo, all'improvviso, sembrò ricordarsi di qualcos'altro. Si liberò dalla stretta del suo padrone, saltò giù e s'infilò tra il frassino e il muro, puntando qualcosa come un cane da caccia. Stava ritto sulle quattro zampe e fremeva in tutto il corpo, frustando l'aria con la coda inquieta, - Argo, qui! - chiamò invano il professore. - Argo... Ma che ti prende adesso? - Vieni un po' a vedere anche tu - l'invitò Melchiorre compiaciuto. - Il tuo cane ci ha portato una sorpresa. Virgilio Zambelli scorse sotto l'albero qualcosa che sembrava un fagotto di stracci. Si avvicinò e diede un'occhiata dentro. - Oddio, ma è... un bambino! - Sssst! Parla piano.., non vedi che sta dormendo? Comunque non è un bambino. - Ah, no? - il professore alzò la testa, interdetto. - E cosa sarebbe, allora? - È una bambina - sorrise Melchíorre. I suoi occhi, adesso, mandavano lampi di allegra furbizia. - Una bellissima bambina. Guarda, guarda anche tu: due piedini, due braccine, le orecchie, il nasino, la boccuccia, tutte le dita al posto giusto... Insomma, non le manca niente di niente. È perfetta. Un vero capolavoro. - Sì, è proprio bella - ammise il professore, tenendo indietro il cane, per timore che potesse spaventarla. - Povera piccola creatura! - Perché, povera? - protestò Melchiorre, quasi risentito. - Come perché? Sua madre l'ha abbandonata, sì o no? Dunque... - Fortunata, invece. Perché il tuo Argo l'ha portata da noi e noi possiamo prenderci cura di lei. Noi possiamo anche amarla. Ti sembra una cosa da poco? - Noi? Qui? Ma cosa dici... È impossibile! - Impossibile! Impossibile... Non ti pare che dovremmo almeno almeno provarci, prima di dirlo? - Sarà difficile. E anche rischioso. - Lo so. E allora? La lasciamo qui? Avvisiamo la Maria Spia? La portiamo dritta dritta in un orfanotrofio? È questo che vuoi, professore? - No, certo che no. Tuttavia... secondo me... Virgilio Zambelli si dibatteva tra i due partiti, senza potersi risolvere. Si rivolse ad Argo, come per chiedergli sostegno, e ne ricevette in cambio uno sguardo di deluso scontento.

Spiegò alla Maria Pia che era atteso a una festa in casa di amici, ma che non ci voleva più andare perché aveva litigato con la fidanzata. Poi tirò fuori un enorme cabaret di pasticcini e due bottiglie di spumante. - Vogliamo unire le nostre solitudini, Maria Pia? - disse con uno sguardo triste da cane bastonato. L'infermiera aveva già l'acquolina alla bocca. Fece cenno di sì con la testa, allungò subito la mano verso un magnifico babà alla crema e se lo cacciò tutto in bocca, mugolando di piacere. La spedizione notturna poteva cominciare. Strisciando contro i muri, tre uomini scesero silenziosamente le scale, fino a raggiungere il piano terreno. Con il cuore che martellava nel petto, l'Ernesto provò ad aprire la porta della direzione, ma era chiusa a chiave. - E adesso? - Lasciate fare a me! - disse il maresciallo. Estrasse dalla tasca una forcina e cominciò ad armeggiare nella serratura, mentre il professore gli faceva luce con la pila. Passarono alcuni interminabili secondi, poi giunse lo scatto. - Complimenti! - Virgilio era senza fiato dalla meraviglia. - Poh! - sbuffò l'altro, riponendo in tasca la forcina. - È un trucco che ho imparato quando andavo all'asilo. Senza far commenti, l'Ernesto sospinse la porta e i tre entrarono furtivi. Nello studio del direttore regnava un ordine perfetto. Sulla scrivania non c'era un foglio, negli scaffali alle pareti non un catalogatore fuori posto, nel portariviste alcuni numeri di "Gente Motori" e di "Quattroruote" giacevano perfettamente allineati. - Bene! - dichiarò l'Ernesto, fregandosi le mani. - Questo è il nostro momento. Datevi da fare, ragazzi! Rovistarono un po' dovunque: dentro i cassetti, negli armadi a muro, sulle mensole e negli scaffali. Niente di interessante. Forse il direttore era più furbo di quel che s'erano immaginati. Forse non teneva nulla li nello studio, perché lo riteneva troppo pericoloso. - Ehi! Guardate qua... - Fu il professore a fare la scoperta, sollevando a fatica il pesante ritratto della contessa Orisanda. - Oh Dio! - mormorarono tutti insieme, eccitati come ragazzini. Nascosta sotto il quadro c'era una piccola cassaforte a muro. - Secondo voi, cosa ci sarà qui dentro? - chiese il professore. Ma era una domanda retorica, perché tutti e tre stavano pensando la stessa cosa. Dentro la cassaforte ci doveva essere qualcosa che il direttore voleva tenere lontano da occhi indiscreti. - Apriamola, forza! - si agitò l'Ernesto. - Non c'è tempo da perdere... Maresciallo, questo è affar tuo. - Oh, dico, ma per chi m'avete preso? Io non son mica buono ad aprire le cassaforti. Questa è roba da ladri professionisti. Io facevo il carabiniere! - E allora, chi la apre? - Il professore si guardò intorno, come se i muri potessero suggerirgli la risposta. - Chi la apre? - ripeté angosciato l'Ernesto, con un tremito nella gola. - La apro io. Tutti si girarono nella direzione di quella voce. Sul vano della porta era apparso Melchiorre. Al collo aveva lo stetoscopio del dottor Pastori, le mani infilate in vecchi guanti di pelle nera. Si avvicinò alla cassaforte, l'esaminò nei particolari, sfiorandola appena con la punta delle dita, soffiò un poco sopra il congegno d'apertura. - È un modello "Lips Vago". Roba americana. Vecchiotta, ma sempre affidabile. Vediamo che si può fare. Voi però statemi alla larga finché non ho finito il lavoro. I tre uomini continuavano a guardarlo con gli occhi fuori della testa, immobili, impietriti dallo stupore, incapaci di proferire parola. Melchiorre, come non accorgendosi di quel silenzio, portò un dito davanti alla bocca ed intimò seccamente: - E... state zitti! Ciò detto, respirò profondamente per tre o quattro volte, tenendo gli occhi chiusi. Poi si sgranchì le mani, facendo scrocchiare a una a una le dita e muovendole in su e in giù. Quindi affrontò la cassaforte. Con la mano sinistra appoggiò lo stetoscopio allo sportello e con la destra cominciò a ruotare lentamente il congegno d'apertura. Ogni tanto si sentiva un debolissimo «clik» e la voce di Melchiorre che biascicava dei numeri: - 3... 5... 1... 8... 2... Poi, quasi in un soffio: - Ecco, ci siamo! Come per miracolo la porta della cassaforte si spalancò. - Luce! Il maresciallo accorse con la pila. La mano di Melchiorre ignorò il grosso pacco di banconote in prima fila e corse intrepida a un pacco di scartoffie adagiate sul ripiano superiore. - Signori, qui troveremo qualcosa. Me lo sento! - esclamò. - Su, venite a vedere. Avanti, non restate lì impalati come mummie. Cos'è, avete paura di me? Per la miseria, non sono mica un assassino! Si, ho fatto degli sbagli. E chi non ne fa? Ma il mio debito con la giustizia l'ho pagato. Con dieci anni di prigione. Quelle parole franche li riscossero all'improvviso, come una ventata d'aria gelida all'uscita dal cinema. Ernesto si tuffò subito nei documenti che Melchiorre aveva appoggiato con foga sulla scrivania, mentre il maresciallo e il professore, agitatissimi, andavano a grandi passi dalla porta alla scrivania, chiedendo di tanto in tanto, con voce concitata: - Trovato qualcosa? - Ecco! - l'Ernesto saltò in piedi e agitò un foglio per aria. - Zitto, per carità... La Maria Spia ha l'udito fino! - Ecco - ripeté quasi in un sussurro. - Sapete cos'è questo? Il testamento della contessa Orisanda. - Gran cosa, hai trovato... - fu il commento deluso del maresciallo. - Invece è proprio una gran cosa. Perché questo testamento dice tra l'altro... - l'Ernesto si aggiustò gli occhiali sul naso e ricercò col dito un punto sul foglio. - Si, questo è il paragrafo più interessante. Sentite: e in merito ai miei lasciti e donazioni, di cui al paragrafo eccetera, eccetera... tra cui Villa Felice, dispongo che l'amministrazione degli stessi sia affidata ad associazioni di volontariato e comunque in nessun caso a persone a me legate da rapporti di consanguineità. - Chiaro, adesso? - Insomma... - ricapitolò il professore. - Se capisco bene, il Bagliotti-Gagginis non può

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Proprio non si riesce a star seduti un momento, quest'oggi! Sarà di nuovo quel buono a nulla del cuoco, ci scommetto, che s'è scordato un'altra volta le chiavi! Ma il cipiglio di malumore che s'era stampata sul viso per accogliere degnamente il presunto scocciatore si trasformò in una smorfia di soddisfazione alla vista dei due carabinieri. - Ah, finalmente! Avanti, prego... Vi stavamo aspettando. Seguitemi, faccio strada. Ondeggiando sui fianchi come la poppa di un vecchio peschereccio quando c'è maretta, li rimorchiò fino allo studio del direttore e bussò con discrezione alla porta. Da dentro giunse un perentorio: - Chi è? - Sono io, signor direttore! - proclamò con deferenza l'infermiera. Poi, rivolta ai due militi, comandò secca: - Voi aspettate qui un momento. Sgusciò nello studio con tutta la sveltezza che la sua mole le consentiva. La si sentì parlottare brevemente, in tono molto eccitato. Dopo neanche cinque minuti, il Bagliotti-Gagginis era alla porta, con il suo miglior sorriso sulla bocca. - Buongiorno, signori! Grazie d'esser venuti così presto. Ora si farà giustizia, finalmente. Prego, accomodatevi! I due militi esitarono un attimo sulla soglia, perplessi e dubbiosi d'avere a che fare con la persona giusta. - È lei il marchese Bagliotti-Gagginis? - si assicurò il tenente. E poiché quello gli lanciò uno sguardo altero, come a dire: «Osa forse dubitarne?», si strinse nelle spalle e bisbigliò in un orecchio al brigadiere: - Stiamoci attenti. - Sissignore. - Entrino, entrino... - ripeteva intanto il direttore, aprendo il mobile bar. - Gradiscono qualcosa? Un Martini? Un Prosecco? Ah, già... certo, naturale! Niente alcolici, in servizio. Preferiscono un'aranciata, magari? Acqua brillante con una bella scorzetta di limone? Proprio nulla? Va bene, allora. Veniamo subito ai fatti... Il direttore sedette con studiata distinzione sulla sua bella poltrona girevole e si preparò ad assaporare la vittoria finale. Fece un'opportuna pausa di silenzio, come a sottolineare l'importanza di ciò che stava per dire, fissando con una certa insistenza prima il tenente e poi il brigadiere. Lesse nei loro occhi un'ombra di disagio, un fremito di evidente imbarazzo e non riuscì a nascondere la sua soddisfazione: era lui il più forte, ancora una volta. Li avrebbe messi nel sacco tutti quanti. Fece un bel respiro profondo e attaccò a parlare, con voce pacata e suadente: - Dunque, signori, intendo sporgere denuncia su di un reato estremamente grave. Come vi avevo riferito ieri sera per telefono... - Mi scusi, signor direttore - tossicchiò il tenente. - Ma qui c'è un equivoco. Il mio collega e io non siamo venuti per la sua telefonata. - Ah no? Eppure avevo chiaramente sollecitato... Be', comunque non importa. Ormai ci siete, tanto meglio così. Dunque, ecco i fatti: ingannando fraudolentemente la mia buona fede e in disprezzo alla carica che io ricopro, alcuni ospiti di Villa Felice... - Mi permetta, signor direttore... - l'interruppe di nuovo il tenente. - È meglio che lei mi lasci dire le cose come stanno, una volta per tutte. C'è un'incriminazione contro la sua persona, per truffa e falsificazione di documenti. Siamo qui per arrestarla. - Arrestarmi? - l'uomo picchiò un pugno sulla scrivania e si levò in piedi, in tutta l'estensione del suo metro e ottantasei. - Arrestare me, un Bagliotti-Gagginis dei marchesi di Codemonte? Come osate? Chiamerò i miei avvocati e la vedremo... - Chiami i suoi avvocati, signor marchese. È nel suo pieno diritto... - fece il tenente, senza minimamente scomporsi. - Le diranno che resistere a un pubblico ufficiale e lanciargli oscure minacce sono reati punibili per legge. E la legge, qui da noi, è uguale per tutti. Lo sapeva? Con il lungo indice nervoso il direttore compose velocemente un numero telefonico. Nell'attesa della comunicazione, lanciò un'ultima occhiata furibonda in direzione dei due carabinieri, che continuavano a restare compostamente seduti davanti a lui. - Sì, pronto? Studio legale Gualdoni e Corbellini? Sono il marchese Bagliotti-Gagginis, vorrei parlare con... Ah, sei proprio tu, Tommaso! Senti un po' cosa mi succede. Il direttore confabulò a lungo con l'avvocato. E, man mano che la conversazione proseguiva, la smorfia ironica e saccente che aveva dipinta sul volto si trasformava in penoso amaro disgusto. Dopo molti «eh?», «come?», «ma scherzi?», la sua voce non fu più tanto spavalda ed egli abbassò la cornetta con un visibile tremito alla mano. - Ebbene? - chiese calmo il tenente. - Ebbene, sembra proprio che io vi debba seguire - fece il direttore, gelido. - Voglio però sapere una cosa, e non potete dirmi di no. Chi è stato l'infame che ha osato sporgere denuncia contro di me? - Ogni cosa a suo tempo... Ora si va dal giudice inquirente e lì sarà informato di tutto, gliel'assicuro. Tuttavia, se mi permette, le consiglio di confessare, come han già fatto il dottor Casnaghi ed il signor Martelli. - Idioti! Traditori! - sibilò tra i denti il direttore. Poi, alzando il tono della voce proseguì: - Io invece non confesso un bel niente. Niente! Ha capito? - Va bene, non perdiamo altro tempo allora. Favorisca seguirci, immediatamente. Il direttore buttò via con stizza la rosa gialla che portava all'occhiello e raggiunse i due carabinieri che lo attendevano tranquilli sulla porta dell'ufficio. Percorsero il lungo corridoio fino all'uscita, sotto gli occhi atterriti della Maria Pia. Fuori, nel tepore di un limpido pomeriggio d'aprile, l'auto scura dei carabinieri brillava con strani riflessi di gemma brasiliana. A destra e a sinistra dell'auto, immobili come le quinte di un teatro, stavano schierati il dottor Pastori, Melchiorre, il professore, l'Ernesto, il Carlo, la Pinuccia, l'Attilio e tutti gli altri ospiti di Villa Felice. Nessuno di loro disse qualcosa o fece un gesto, quando il direttore - più scuro d'un temporale - salì in macchina scortato dai carabinieri. Soltanto Argo emise un sordo ringhio di minaccia e la piccola Dorotea, che come al solito stava in braccio alla Pinuccia, fece uno strano verso con le labbra. - Avete sentito cos'ha detto la bambina? - gridò il maresciallo, con gli occhi che gli brillavano di malizia. - Ha detto: «Tie!», l'ho sentita benissimo... - Tie' - ripeté l'Attilio spiritato, facendo saltare il sacchetto di monete sul palmo della mano. - Tie', tie', tie', questa volta tocca a te! La volante partì in furiosa accelerata e si

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I suoi orecchi avevano sentito una allegra cantilena infantile e con lo sguardo andava a cercare da dove giungessero quelle voci.

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A chi tocca? - Amanda girò lo sguardo tra le culle, come se da lì qualcuno potesse risponderle, e vide l'Enrichetta che veniva avanti con un piccolino in braccio. - Tocca a Gabriele? - No, Gabriele no. Lui sta qui solo di giorno. Il bagnetto se lo fa a casa, con la sua mamma. - Ma... ma... Io pensavo... io credevo... - La ragazza era così meravigliata che s'impappinava con le parole. - Che fossero degli orfanelli? - concluse la Clotilde. - Oh no, la maggior parte di loro ha una mamma o un papà, a volte anche tutti e due. Ma sono quasi tutte famiglie che lavorano, per questo ce li portano qui. E noi gli diamo una mano a crescere, non è vero, Gabriele? Il piccolo rise, a sentirsi chiamare per nome, e mostrò le gengive rosee, lisce come il corallo, dove brillava un piccolo dente bianco. - Allora gli orfani, i bambini abbandonati... quelli non li tenete? - incalzò preoccupata Amanda, senza lasciarsi distrarre dal faccino buffo di Gabriele che s'era messo a far le smorfie. - Ma perché ti preoccupi tanto? - la Clotilde d'improvviso si fece seria seria. - Non è che per caso tu... - Clotilde! - cercò di frenarla l'Enrichetta. Ma l'altra proseguì, caparbiamente: - ...non è che per caso aspetti un bambino? - Io, no! - la ragazza era diventata livida, ma cercava di trattenersi. - Cosa dice? Come si permette? - Lei non voleva offenderti, Amanda s'interpose l'Enrichetta, facendo di nascosto gli occhiacci alla Clotilde. Voleva solo capire se hai bisogno di qualcosa, offrirti il suo aiuto. Credimi, non l'ha detto con cattive intenzioni. Solo che... ecco lei... parla così, senza peli sulla lingua. Io glielo ripeto sempre che... certe volte... insomma, che bisognerebbe... Mah! Che ci vuoi fare. È il suo carattere. La ragazza fece un gesto di fastidio, ma rimase ferma ad ascoltare le affannose giustificazioni dell'Enrichetta. Non c'era più dispetto nei suoi occhi, adesso, ma solo una sorta di smarrimento angoscioso, come nello sguardo dei cani abbandonati per strada. - Ma sì, ma sì... Scusami! - tagliò corto la Clotilde. - E poi, se anche fosse? Le donne fanno figli, è risaputo. Non c'è mica da vergognarsene... Roba da matti! - e, considerato chiuso l'episodio, ritornò sbuffando alle sue occupazioni. - Cosa ti avevo detto? - rise I'Enrichetta. - È fatta così, prendere o lasciare. Piuttosto, vieni a vedere una cosa. - Fece segno ad Amanda di avvicinarsi ad una culla. Dentro c'era una bambina, rosea, paffuta, con una gran testa di riccioli neri e due occhi sgranati grossi così, che sgambettava come un ranocchio preso tra due dita. - Questa è Dorotea. È stato Argo a trovarla, vicino al muro di cinta della villa. Avrai sentito parlare di tutta la faccenda, no? Ne hanno scritto anche i giornali. O non sei di queste parti, tu? - Si, di un paese qui vicino - mormorò Amanda, e la voce le tremò un poco. - Oh, non voglio mica sapere! Dicevo così, tanto per dire... Ma chi conosce la storia di Dorotea, di solito si fida di noi. Per tutta risposta, la ragazza stese le braccia, esitante. - Posso? - Ma certo. Anzi, preparala tu per il bagnetto. - Posso? - Non sai dire altro, adesso? - rise l'Enrichetta. - Dai, muoviti... In quel momento si aprì la porta e spuntò la testa dell'Ernesto. Aveva sul viso un'espressione alterata, come se qualche grossa preoccupazione lo stesse tormentando. - Clotilde, Enrichetta! - chiamò. - Venite giù un momento. - Perché? - Non so. Però il professore ha detto che è urgente. - Veniamo, veniamo... Quanta fretta! protestò la Clotilde. - Sarà questione di poco, Amanda. - L'Enrichetta sorrise lievemente, deponendo Gabriele nella culla. - Ce la fai, qui da sola? - Me la caverò - promise Amanda tranquilla, e intanto guardava Dorotea. Le due donne ciabattarono verso l'uscita ma, prima che richiudessero la porta, qualcosa di peloso vi schizzò dentro a tradimento. - Ecco, di nuovo quel benedetto cane! Non è possibile, dico io! S'infila sempre dappertutto. Ma se l'acchiappo... La voce della Clotilde rimbombava minacciosa, sinistramente amplificata dalla tromba delle scale. - Lascialo perdere, dài. Che fastidio ti dà? - rimbeccò l'Ernesto col suo vocione. - Piuttosto, vuoi una mano per scendere? La risposta si perse in un sordo brontolio. Poi ci fu solo un rumore di passi che si allontanavano giù per le scale.

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- NON RIESCO a crederci - sospirò Virgilio Zambelli. - Eppure, ecco qua. Tutti gli sguardi erano puntati sul maresciallo, che, in piedi davanti al tavolo, rigido e paonazzo dall'eccitazione, teneva in mano dei fogli di carta, agitandoli a ventaglio nell'aria. - Sei proprio sicuro? - chiese la Pinuccia, esitante. - Sicuro? Sicurissimo! Ho fatto le mie indagini, come aveva chiesto il professore. E questo è il risultato. - Se la ragazza è davvero figlia... Se sua madre è proprio... - si agitò l'Ernesto, impappinandosi. - Io penso... io temo... - Lo è, lo è, vi dico... Avete letto o no, questi benedetti documenti? - Allora non c'è un minuto da perdere. Potrebbe esser venuta per vendicarsi. - Dorotea! - strillarono la Clotilde e l'Enrichetta, levandosi di colpo in piedi e precipitandosi affannosamente su per le scale con tutta l'agilità che consentivano le vecchie gambe, mentre si raccomandavano a fior di labbra a tutti i santi del calendario. Ritornarono indietro fin troppo presto, affannate, tremanti, stravolte, annichilite, con le mani nei capelli e la voce rotta di pianto. - S'è portata via la bambina. - Che cosa? - Ha preso... Dorotea. Le due povere donne non avevano più fiato. Gli altri stavano a sentire, immobili, come imbalsamati. - Presto, presto... facciamo qualcosa. Subito! - balbettò invece l'Ernesto, preso dall'agitazione. - Non può essere andata tanto lontano. E vedendo che tutti lo guardavano annichiliti, si mise a scuoterli per le spalle e a dare ordini gridati negli orecchi. - Melchiorre e Pinuccia, ai piani alti! Attilio, guarda nelle cantine! Tu, Enrichetta va' in giardino! Il maresciallo ed io cercheremo per strada... Non può esser andata tanto lontano, no, con una bimba al collo? Clotilde, tu è meglio che resti di sopra con i bambini. Professore, poi che si fa d'altro? Avvertiamo la polizia? - No, la polizia no... - Virgilio Zambelli si alzò in piedi, col fiato corto. - Aspettiamo un poco. La ragazza è così giovane... - Il professore ha ragione - intervenne Melchiorre. - Amanda è quasi una bambina. Perché peggiorare le cose? Se la troviamo noi per primi, possiamo aggiustare tutto senza fare chiassate. Melchiorre si girò verso Virgilio Zambelli, come per chiedere se aveva saputo spiegarsi bene e lo vide pallido e smarrito come non mai - Professore, ti senti bene? - Non so... è qualcosa qui. - E indicò il petto, mentre il viso gli si deformava in una smorfia di dolore. - Son troppo agitato, forse. Ma vedrete che ora... ora mi passa. Andate, su! Bisogna trovare Amanda. Bisogna trovare la nostra Dorotea... - Io telefono al dottor Pastori - decise Melchiorre, sostenendo il professore fino ad un divano, dove lo forzò a distendersi. - E resto qui con lui. Voi, però, spicciatevi, prima che sia troppo tardi. - Troppo... tardi... - biascicarono con un brivido d'angoscia tutti quanti, senza osare di guardarsi in faccia, per il timore di leggere negli occhi degli altri lo stesso spaventoso pensiero. E si sparpagliarono in punta di piedi nei lunghi corridoi di Villa Felice, ciascuno reso più inquieto dal proprio fardello di preoccupazioni.

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Anche con la piccola in braccio, anche a piedi - ammesso che non avesse un'auto ad aspettarla in strada con il motore acceso - Amanda poteva già essere arrivata fin chissà dove. Poteva anche avere preso una corriera, o peggio il treno, e a quest'ora trovarsi addirittura in viaggio verso un'altra città, lontana, irraggiungibile, al sicuro, libera di disporre a proprio capriccio della debole creatura che in gran furia aveva strappato via dal suo lettino. Aveva avuto almeno l'accortezza di proteggerla con una coperta, nel portarsela via? Il freddo di notte era ancora pungente, nonostante la primavera inoltrata. E mangiare? Dove avrebbe trovato qualcosa da mangiare per una bambina di appena quattro mesi? Chissà quanta fame, la piccola Dorotea, lei che strillava come un'aquila se la pappa non era pronta entro pochi minuti. Ecco, forse quegli strilli avrebbero finito con l'insospettire l'autista della corriera, i passeggeri del treno, i vicini di casa, i proprietari dell'hotel, i clienti dell'autogrill, i passanti sul marciapiede, il gestore del bar, qualunque fosse il posto dove adesso si trovava. Ma no! Le cose andavano in tutt'altro modo, di questi tempi. La gente guarda, alza le spalle e pensa: «Non è affar mio. Che m'impiccio a fare?». Questi, o simili a questi, erano i pensieri della Pinuccia, mentre saliva faticosamente l'ultima rampa di scale che conduceva al sottotetto della villa. Più in alto di così non si poteva salire, a meno di mettersi a cercare dentro i camini. Aprì la porta e, per qualche momento, rimase paralizzata dal buio. Non si mosse, perché sapeva che la soffitta era ingombra di mobili e di arredi, appartenuti alla contessa. Pian piano gli occhi si andavano abituando, il buio diventava penombra. Le masse imponenti degli armadi, i panciuti canterani, i massicci trumeau rosi dai tarli, le piramidi di poltrone, i tavoli solidi, le lunghe cassepanche, i sofà sfondati, ogni cosa - anche negli angoli più lontani - acquistava un contorno, uno spessore, grazie al fiotto di luce che sgorgava dalla porta aperta. La Pinuccia fece qualche passo verso il grande letto a baldacchino della contessa, che, con fitti drappi penzolanti, chiudeva la vista di una parte della soffitta. E qui si fermò incredula. Distesa sul letto, Amanda dormiva, un braccio allungato a cingere la vita di Dorotea. Anche la piccola dormiva, e profondamente, la testa appoggiata al seno della ragazza. Più in là, con gli occhi aperti e inquieti, stava raggomitolato qualcun altro, che la guardò, la riconobbe, ma non abbaiò, né si mosse di un centimetro. - Che ci fai qui, cane traditore? - sussurrò la Pinuccia, così sottovoce che le labbra si mossero appena per parlare. Nemmeno lei aveva cuore per svegliare le due bambine addormentate. Era troppo tenero il loro abbraccio, troppo sereno il loro riposo, troppo fiducioso il loro abbandono, troppo placido e innocente il loro respiro. Rimase lì immobile, senza risolversi a fare nulla.

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. - È lui che mi ha mandata a chiamare. - Lo so. È un vecchio testardo, non c'è niente da fare. Invece di pensare a riguardarsi... - Se vuole, torno in un altro momento - mormorò Amanda docile, facendo un passo indietro. - No, entra, entra. - Il dottor Pastori distese la fronte corrugata, addolcendo il tono della voce. - Ma non affaticarlo troppo. Ha bisogno di riposo, capisci? - Sì, dottore - disse lei, guardandolo dritto in viso. Il dottore, come per farsi perdonare, le diede un buffetto sulla guancia e ingiunse benevolo: - Vai, su! La ragazza entrò, richiudendo con cura la porta alle sue spalle. L'ambiente era pieno di luce, per via di un'ampia porta-finestra che si affacciava sul lato sud del giardino, raccogliendo tutto il sole del mezzogiorno. Era una luce energica, salutare, che mal si accordava con l'odore di medicine e di disinfettanti di cui la stanza era impregnata. Nel letto - un gran letto di una piazza e mezza, alto come non se ne fan più - c'era il professor Zambelli, pallido, lievemente smagrito, con la schiena appoggiata ai cuscini. - Ciao, Amanda - salutò il professore. - Buongiorno. Come sta?. - Meglio di quanto vada raccontando a destra e a manca il dottor Pastori. E tu? - Non c'è male... - La ragazza era ferma in mezzo alla stanza, imbarazzata, e guardava gli alberi attraverso i vetri, seguendo i brevi svolazzi irrequieti di una coppia di merli in amore. «Beati gli animali» le venne fatto di pensare. «Tutto è così semplice per loro. Farei volentieri a cambio, se si potesse. Non dev'essere male, la vita di un merlo. Meglio della mia di sicuro.» Il professore la richiamò al mondo della realtà. - Vieni a sederti qui - disse, indicando con la mano una seggiola di vimini a fianco del letto. - Noi due, adesso, dobbiamo parlare. Amanda sembrò sul punto di tornare indietro. Poi invece strinse i pugni e avanzò decisamente, come un pugile pronto per il match. - Allora... - disse calmo il professore. - Ricostruiamo i fatti. C'è una ragazza, molto giovane e molto ingenua, che rimane incinta. E c'è un ragazzo, molto giovane e molto spaventato, che la pianta in asso. La ragazza non ha il coraggio di parlarne in casa e riesce a tenere il suo segreto finché nasce la bambina. Ma come si fa a tener nascosta una neonata? E come si fa a dire ai propri genitori: «Ecco qua, vi presento mia figlia!»? Allora la ragazza ha un'idea. Lascerà la piccola nel posto dove la madre lavora come infermiera, e cioè proprio qui da noi, a Villa Felice. Così la madre la vedrà, si prenderà cura di lei, le vorrà un po' di bene. E dopo... dopo sarà più facile spiegare. Invece le cose hanno preso una piega diversa, perché a trovare quella bambina è stato un cane. Amanda sgranò gli occhi, troppo meravigliata per negare: — Ma lei come ha fatto a... a... - Non ci vuole poi tanta immaginazione, credi a me. E poi ho dei buoni informatori. Andiamo avanti con la nostra storia, d'accordo? La ragazza è infelice e non dimentica. Rivuole a tutti costi la sua bambina, sogna di portarla via con sé. Dove, non lo sa nemmeno lei. E così un giorno si presenta a Villa Felice, dicendo a se stessa che non deve essere poi tanto difficile farla in barba a quattro vecchi rimbambiti. - No, questo no! Cioè, non proprio. Forse... - farfugliò Amanda, rossa di vergogna. - La verità è che volevo riprendermi Tea, e basta. - Lo so. - Virgilio Zambelli aveva l'aria affaticata. Sospirò e disse: - Dammi una di quelle pastiglie sul comodino e un po' di succo d'arancia. Bevve a piccoli sorsi, e il bicchiere gli tremava nella mano ossuta. Qualche goccia cadde sul risvolto del lenzuolo, ma Amanda nemmeno se ne accorse. - Dunque... - proseguì il professore - il problema è: cosa ne vuoi fare della tua vita? - Non lo so. - Volevo dire... Penserai al futuro qualche volta, no? - Poco. - Ah. E a che pensi? - Di più al passato.

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Ma può diventare ancora più efficiente e più a misura d'uomo. Per farlo sempre meglio, conta anche sulla generosità di chi l'ha scelta con fiducia. Contribuire, con eventuali lasciti o donazioni, al benessere dei futuri ospiti di Villa Felice è un atto di altruismo, compiuto nella certezza di lasciare un ricordo grato e durevole di sé.

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Per assicurare la miglior funzionalità delle strutture e la massima tranquillità degli ospiti, si precisa l'importanza di rispettare puntualmente: a) l'invito ad accedere al ristorante-bar soltanto nelle ore riservate ai pasti; b) la richiesta di utilizzare la sala TV soltanto nelle fasce orarie consentite; c) la disponibilità alla turnazione e il rispetto della puntualità nel liberare le aree comuni quando stabilito; d) la sollecitazione a tenere nelle stanze solo gli effetti personali ritenuti indispensabili, per facilitare la manutenzione da parte del personale; e) le prescrizioni medico-sanitarie dell'Istituto secondo cui non è opportuno tenere in camera cibi e bevande; f) l'obbligo di preavvisare la direzione per ricevere visite fuori dagli orari prestabiliti; g) il divieto di trattenere con sé animali domestici di qualunque tipo Lì, ........ Firma per accettazione (giorno, mese, anno)

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La moglie gli era morta qualche mese prima, il figlio aveva sposato un'americana ed era finito a San Antonio, nel Texas. E il medico gli aveva ripetuto più volte che nel suo stato di salute non era più prudente vivere da solo. Qui se non altro avrebbe trovato un pasto caldo tutti i giorni, assistenza medica continua, forse anche un po' dì conforto alla sua solitudine. Del resto, dove poteva andare altrimenti? Il professore sapeva bene che ovunque sarebbe stata la stessa storia, il cane sarebbe stato respinto. Dura lex sed lex, la legge è legge: lo dicevano già i padri del diritto. Non gli rimaneva che firmare. Dunque firmò. - Arrivederla a presto - lo congedò il direttore, ritirando la pratica in un grosso raccoglitore. - Buongiorno - disse stancamente il professore. Poi si avviò verso casa, piano piano, come se avesse addosso dieci anni di più. NEI GIORNI che seguirono Virgilio Zambelli cercò qualcuno disposto ad occuparsi del suo Argo. Alla fine fu il giornalaio sotto casa a dire un mezzo sì, in grazia di tutti i quotidiani che gli aveva comprato nel corso degli anni. Il professore lo prese per un sì pieno e accelerò i preparativi. Quella sera stessa, prima che l'edicola chiudesse, vi entrò con il cane e una grossa valigia. - Allora, io glielo lascio - disse al giornalaio. Ma esitava ad andarsene. - Il taxi l'aspetta - osservò l'uomo, indicando l'auto ferma lungo il marciapiede. - Ah, sì. - Il professore posò la mano sulla testa del cane, trasognato, e dispensò una ruvida carezza. - Addio, amico mio. Guadagnò in fretta l'uscita, fingendo di non sentire i guaiti lamentosi dell'animale, che non capiva il perché di quella improvvisa separazione. - Dove, signore? - chiese il taxista. - Villa Felice. L'auto si mosse dolcemente, portando il passeggero al suo destino. Nessuno s'accorse del cane che s'era lanciato dietro all'inseguimento.

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E come faccio a saperlo? Elementare, Watson! Perché io sono Carlo Fizzotti, maresciallo dei carabinieri a riposo. Piacere di conoscerti, professore. Il professor Zambelli strinse in fretta la mano che l'altro gli porgeva, affinché non scambiasse un rifiuto per cattiva educazione o peggio per snobismo. Ma non voleva mettersi a far conversazione. Non in quel momento. Gli era parso di sentire il suo Argo abbaiare disperatamente lungo i muri di recinzione della villa, e ognuno di quei latrati lamentosi gli doleva dentro con uno spasimo da pugnalata. Doveva essere solo uno scherzo dell'immaginazione - si ripeteva - perché il suo cane adesso se ne stava al riparo dai colpi di sventura, nella casa del giornalaio, magari davanti ad una buona scodella di zuppa calda. Ma questo pensiero, che gli occhi della mente vedevano come un film, non bastava a placare il suo animo sconvolto e abbattuto dal rapido succedersi di troppe emozioni. Andò dritto al letto che gli era stato assegnato, ripiegandosi su di sé come una lumaca nel suo guscio. - A nome di tutti noi... - continuò il maresciallo Fizzotti, ciondolandogli dietro - vorrei darti il benvenuto a Villa Felice. - "Villa Infelice" - scappò detto al professore, in un moto di fastidio. Poi scrollò le spalle e cominciò a disfare metodicamente la valigia. - Ah, ah... "Villa Infelice"! Questa è buona, buona davvero - fece il maresciallo rivolgendosi agli altri due che erano in camera. - Ha dello spirito, il nostro professore! - Macché, macché! - s'irritò l'omone grasso e grosso, che stava proprio nel letto a fianco, appoggiato a una montagna di cuscini. - Questo signore ha detto la verità, ecco tutto. È inutile che cerchi di farci ridere, Carlo. Qui non c'è proprio niente da ridere. - L'Ernesto ha ragione - borbottò dal fondo un vecchio calvo, tentennando debolmente il capo. - Ci sono delle cose con le quali è meglio non scherzare. Lo diceva sempre il mio collega, quando in ospedale ci proponevano di fare le gare di velocità con le autoambulanze. - Tacque un momento impensierito, rimirando le monete che aveva sparpagliate sul letto. Poi biascicò, con voce desolata: - Ecco, ho di nuovo perso il conto. - E il cervello... - ridacchiò il maresciallo tra sé. Poi, a voce più alta: - E bravo, Attilio. Conta, conta, che ti passa. Il vecchio sembrò non aver udito la provocazione, o forse tutto faceva parte di un gioco tra i due. Difatti riprese a gingillarsi con le sue monete. Le rimise tutte dentro un sacchetto di cuoio e cominciò ad estrarle, contandole a una a una, assorto e concentrato nel suo lavoro. Un silenzio profondo calò nella camera. Anche fuori, il cane non guaiva più. Si udiva solo il gemito lieve degli scaffali dove il professore andava sistemando in bell'ordine decine e decine di volumi. - Ehi, ma quanti libri! - Il maresciallo Fizzotti voleva fare conversazione a tutti i costi. - Certo che devi proprio essere un pozzo di scienza, tu. Io invece son sempre stato una zucca dura - si batté la testa col pugno chiuso, ridacchiando. - A proposito, la sai l'ultima sui carabinieri? - E piantala! Non vedi che gli dài fastidio? È il suo primo giorno qui dentro, lascialo in pace. Anzi, lasciaci in pace tutti, una buona volta! - gridò rosso in viso l'omone di prima. - Scusa, Ernesto - sussultò il maresciallo, afflosciandosi. - Non parlo più. Il professor Zambelli girò la testa verso l'omone, forse per ringraziarlo, forse per dirgli di lasciar correre, ma questi aveva chiuso gli occhi e sembrava riposarsi, appoggiato alla pila di cuscini. Allora afferrò la valigia ormai vuota, la mise sotto il letto, prese un libro e si dispose a leggere. Proprio in quel momento la porta si aprì ed entrò un vecchio sporco e malvestito, che sapeva di funghi e di muschio come una creatura dei boschi. - 'Sera Melchiorre! - salutò dal fondo l'Attilio, che aveva finito il conto delle monete. L'uomo rispose alzando una mano grande, piena di pieghe e di segni come la mappa di un tesoro, ma non fece parola. Se ne andò dritto dritto al letto, vi saltò dentro, si tirò il cappello sugli occhi e non si mosse più. Pareva che si fosse addormentato sul colpo. Il professore l'aveva seguito con lo sguardo, tra il sorpreso e l'irritato, per la scia di cattivo odore che l'uomo aveva lasciato dietro di sé e che ancora aleggiava nell'aria. «Ma dove sono finito» si disperò. «Che cosa ci faccio io, qui?» Di colpo, la vita gli apparve vuota di significato. Vitali, invece, le cose a cui aveva rinunciato per sempre: la sua casa, il suo cane. In altri tempi, quando il vigore degli anni e gli affetti della famiglia lo riempivano di certezze, avrebbe sorriso all'idea di potersi legare tanto a un animale. Quelle erano smanie da gente insulsa, ecco cosa avrebbe pensato allora. Ma adesso aveva soltanto voglia di piangere. «Senectus semper molesta...»ricordò amaramente il professore. «I latini avevano ragione: non v'è nulla di buono, nel diventar vecchi.» Chiuse il libro che aveva in mano, chiuse gli occhi e cercò di chiudere anche il cervello per non pensarci più.

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Il professor Zambelli, che aveva trascorso una notte agitatissima, in un alternarsi continuo di sonno e di veglia, si destò di soprassalto, confuso, frastornato, incapace di discernere gli incubi notturni dalla realtà, e con la sensazione di trovarsi ancora dentro a un brutto sogno. «Ora aprirò bene gli occhi» pensò «e scoprirò d'essere a casa mia. Farò un fischio e Argo verrà a giocare con le ciabatte, come tutte le mattine.» - Su, avanti! - riprese la voce di prima, con maggiore petulanza. - In refettorio la colazione è già bell'e pronta, e io devo ripulire la camera. Se qualcuno ha bisogno che gli dia una mano a vestirsi, lo dica pure. Basta che facciamo alla svelta. Si udirono dei mugugni e vari colpi di tosse stizzosa, poi il movimento di corpi che si mettevano lentamente in piedi. «No,» riconobbe il professor Zambelli, buttando giù i piedi dal letto «non è stato un sogno. Sono davvero in un ospizio per vecchi e questo è il mio primo giorno da internato.» - Oh, bravi! - motteggiò la voce. - Anche oggi ce l'abbiamo fatta. Il professore si protesse gli occhi con la mano, poiché era in pieno controluce, e vide che a parlare era una donna massiccia, biancovestita - probabilmente l'infermiera - ora intenta a passare di letto in letto per tirare indietro le coperte o per aiutare quanti indugiavano nel vestirsi. «Avrei preferito un uomo» rifletté il professore, avvertendo immediato il disagio di doversi cambiare lì, di fronte a tutti, ma in particolare davanti a una donna. I corpi giovani a volte amano esibirsi, i corpi vecchi preferiscono essere dimenticati. Così raccolse i vestiti dalla sedia e andò a cambiarsi in bagno. Quando tornò, l'infermiera stava ripulendo la stanza, approfittandone per svolgere con cura meticolosa anche il suo compito di controllo. Apriva gli armadietti personali per spolverare e intanto tirava fuori tutto quello che non ci doveva stare secondo il regolamento e forse anche secondo il suo capriccio personale. - Guarda qua! - borbottava scontenta. - Un pacchetto di caramelle... Come ci sono arrivate nel suo armadietto, signor Attilio? L'Attilio smise per un momento di contare le sue monetine, guardò l'infermiera da sotto in su, si grattò la testa e fece le spallucce, come a dire che non ne aveva idea. - Lo sa che è contro il regolamento tenere alimenti nell'armadietto? Vero che lo sa, signor Attilio? L'Attilio disse di sì, afflitto come un bambino pescato a rubare la marmellata. - Mi piacerebbe sapere da dove arrivano. Me lo vuol dire, signor Attilio? L'uomo si strinse nelle spalle, senza rispondere. - Fa male a disobbedirmi così! Malissimo! - Dài, Maria Pia, ridammi le mie caramelle! Te lo chiedo per favore... - Gliele ridò, - ribatté la donna, irrigidendosi - se lei mi consegna quel sacchetto di monetine. Il signor Attilio si nascose in petto il suo tesoro e abbassò il capo, pensieroso. - No, no... - piagnucolò. - Questi me li ha dati il barone de Cristoforis per avergli salvato la vita sull'Isonzo. Io sono un eroe della patria, capito? Ho due medaglie d'oro e il titolo di Gran Cavaliere d'Italia. E tu... e tu... Tu non puoi ricattarmi così! - Va bene. Allora, niente caramelle. L'infermiera girò sui tacchi, con un movimento quasi meccanico, e i suoi occhi si scontrarono con quelli stupefatti di Virgilio Zambelli. Cosa c'era in quello sguardo? Alla donna sembrò di leggervi un atto di sfida o una muta condanna. Istintivamente, sentì che doveva agire subito, per non perdere la faccia. Si avvicinò al letto del nuovo arrivato e fece il gesto di voler aprire l'armadietto. - No... - s'interpose il professor Zambelli, sentendo che il cuore accelerava improvvisamente i battiti. - Lei non metterà le mani sulle mie cose, senza prima avermi chiesto il permesso. - Signor...? - cominciò l'infermiera, un po' sorpresa di quella reazione. - Zambelli - disse il professore. - Signor Zambelli, lei è nuovo qui, e forse non ricorda bene il regolamento. Il regolamento dell'Istituto mi richiede... ci richiede... - Sì, d'accordo. Ma questo non lo consento. - Lei forse non si accorge... - replicò l'infermiera, cercando di essere convincente - che tutto quello che noi facciamo qui dentro è solo per il suo benessere. Qui le offriamo una nuova famiglia, che si prende cura di lei e che le vuole bene. Abbia fiducia, le dico, e provi a collaborare. Il professor Zambelli stava per rispondere qualcosa, quando l'infermiera si girò di scatto e strillò: - Cos'è adesso questa puzza? L'omone nel letto a fianco del professore si era acceso un toscano e mandava rapide nuvolette di fumo verso il soffitto. - A me quel sigaro maleodorante! Subito, signor Ernesto. Ah, questo è troppo! Questo è veramente troppo! Lo dirò al direttore... Uscì quasi di corsa dalla camera e l'eco dei suoi passi si perse nel labirinto di corridoi che attraversavano in lungo e in largo l'antica villa nobiliare. - Vai... Vai all'inferno! - borbottò a denti stretti l'Ernesto, tirando fuori di tasca un altro sigaro. - Tanto oggi è sabato e il direttore non lo trovi di sicuro. Fino a lunedì non potrai spifferargli un bel niente, Maria Spia che non sei altro! - Bravo! Bene! - applaudì il maresciallo Fizzotti, che s'era goduto tutta la scena in silenzio. - Le hai detto quel che si meritava, Ernesto. E adesso che giustizia è fatta, miei prodi, facciamo colazione! Ah, ah, ah... - Buffone! - borbottò tra i denti l'Ernesto, avviandosi col suo passo strascicato verso la porta. - Tu non vieni, professore? - chiese l'Attilio, toccandogli timidamente un braccio. - No, adesso non mi sento. Scenderò per l'ora di pranzo. Il professor Zambelli si lasciò cadere sul letto, spossato. Nonostante cercasse di tranquillizzarsi, il cuore gli batteva ancora forte per l'agitazione. Poteva sentirlo martellare furiosamente nelle tempie. «Devo starci attento» rifletté, portandosi una mano al petto. «Il dottore ha detto che devo pensare solo alla salute. Ma per la miseria, come si fa?» Chiuse gli occhi e si sforzò di immaginare se stesso con il cane sul marciapiede sotto casa, nell'aria frizzante del primo mattino. Appena qualche giorno prima, questa era l'ora canonica della loro passeggiata. Chissà se anche Argo - ovunque egli fosse - ne sentiva già nostalgia.

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Virgilio Zambelli vide che i suoi compagni di camera gli avevano tenuto un posto e si sedette accanto a loro, anche se avrebbe preferito starsene in disparte. Ma, a quel che sembrava, non era possibile star soli con i propri pensieri, a Villa Felice. - E così stamattina hai conosciuto la Maria Pia, eh professore? - attaccò subito il maresciallo, rimestando col cucchiaio un brodo fumante sul quale galleggiavano qualche foglia di verza, un po' di carote a rondelle e dei grossi gambi di sedano quasi disfatti. Virgilio Zambelli fece segno di sì con la testa, quasi impercettibilmente. Curvo sul suo piatto, riandava con la memoria ai minestroni profumati della sua Antonietta, fatti con le verdure di stagione, così ricchi e densi che il cucchiaio ci stava dentro in piedi. Dov'erano adesso le mani svelte che per tanti anni avevano sgusciato piselli e fagioli, tritato prezzemolo e basilico, affettato zucchine, sbucciato patate, tagliato bietine e spinaci? Dov'era la carissima moglie, la sua dolce compagna? «Sei ne la terra fredda, sei ne la terra negra» recitò mentalmente. «Né il sol più ti rallegra, né ti risveglia amor.» - Professore... - la vocetta dell'Attilio venne a scuoterlo da quelle riflessioni. - Professore, sai come la chiamiamo noi, quell'infermiera lì? La chiamiamo Maria Spia. Non è vero, Ernesto? - Voi dite e dite... - reagì l'omone, facendosi tutto rosso per l'eccitazione. - Poi però, quando ce l'avete davanti, ve la fate sotto dalla paura. Conigli, ecco quello che siete! Io invece le fumo il mio sigaro sul muso, capito? Io, Ernesto Fontana, me ne frego di quella lì! Me ne frego di tutto quanto il mondo. Anche di voi! E allontanato con una smorfia il piatto ancora pieno, si alzò di botto e se ne andò via inferocito. Mentre gli altri riprendevano a mangiare in silenzio, Attilio tirò fuori di tasca il sacchetto delle monetine. Le dispose in pile da dieci sul tavolo, le contò e ricontò varie volte, le rimise nuovamente nel sacchetto, fece un profondo sospiro e poi disse: - Però, che brutto carattere, quell'Ernesto! Tale e quale al mio redattore-capo, sapete? Proprio tale e quale. Strillava, strillava sempre. S'arrabbiava, si agitava, pestava i pugni sul tavolo, minacciava di sbatterci tutti su di una strada. Ma in fondo era un buon diavolo e in tanti anni non ha mai licenziato nessuno. Comunque tu, professore, dà retta a noialtri. Con la Maria Spia, bisogna andarci cauti, perché qua dentro è una che conta. Se stai buono, ti prende a benvolere e può anche chiudere un occhio, una volta ogni tanto. Ma se cominci a contraddirla, troverà il modo per fartela pagare. Questo è sicuro. Intanto fu portato in tavola il secondo: un bollito con contorno di patate verdastre, piene di puntini come se avessero il morbillo. - Ma si mangia sempre così? - chiese il professore con disgusto. - Più o meno... - ridacchiò il maresciallo, come se la faccenda lo divertisse. - L'unica che se la passa bene è donna Giuseppa... - E indicò una donna piuttosto in carne che sedeva tutta sola a un tavolino appartato. - Ma lei è una raccomandata di ferro, già, si sa! - Ah, ecco che passa Melchiorre! - annunciò Attilio. - Se non mangi più, professore, dagli un po' di avanzi. Ma non ti fare pescare dalla Maria Spia, capito? Il vecchio barbone stava difatti venendo verso di loro con un sacchetto in mano. - Per i miei animali... - bisbigliò appena, come se chiedesse l'elemosina. - Buttate qua. - Animali? - sobbalzò il professore. - Quali animali? Vengo a vedere anch'io. - E seguì Melchiorre, deciso, senza nemmeno aspettare il consenso dell'altro.

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Il parco di Villa Felice sembrava adesso a un bosco, o meglio a una giungla nostrana, per via delle piante esotiche, come la palma, la magnolia, il ginko o il banano, che la contessa Orisanda aveva fatto piantare insieme ad alberi più caserecci, come il tasso, il tiglio, il noce e la quercia. - Oh... guarda guarda! - A un tratto Melchiorre si chinò e raccolse qualcosa nell'erba alta. - Un fungo! - È buono? - chiese il professore e guardò anche lui. - È un coprinus comatus: gruppo basidiomiceti, ordine agaricales. Il nome volgare è agarico chiomato, una varietà piuttosto comune dalle nostre parti. Vedi queste lamelle? Finché son bianche, il fungo è commestibile. - Insegnante di scienze? - buttò lì Virgilio Zambelli, sperando d'aver trovato un collega. - No. Ma in dieci anni se ne imparano di cose, quando non c'è niente di meglio da fare... - Dieci anni qui dentro? - si stupì il professore. - E come ha fatto a sopravvivere? - Ma era un tipo discreto e non chiese più nulla. Intanto Melchiorre cavava fuori il contenuto del suo sacchetto e lo disponeva qua e là in piccoli mucchi sull'erba: acini d'uva, mollica di pane, torsoli di mela, bucce di patate, pezzetti di grasso e carne, biscotti secchi, avanzi di risotto o di pastasciutta, ossi da spolpare. Poi si girò verso il professore e gli fece cenno di star zitto e seduto. Lui invece restò in piedi, alzò le braccia e cominciò a parlare dolcemente. - Venite, su! Venite, amici miei... Vi ho portato da mangiare! Non abbiate timore, povere creature! Fatevi avanti, da bravi! Sono io, Melchiorre. Il vecchio Melchiorre che vi vuole tanto bene... Coraggio! Per primi arrivarono gli uccelli. Ghiandaie, cincie, scriccioli, colombi e piccioni. Cinguettavano, zampettavano, beccuzzavano, sempre inquieti e sospettosi. C'era da domandarsi com'è che non gli andasse tutto di traverso, con quella frenesia di movimenti: non stavano fermi un solo minuto e volavano via appena in possesso della preda. Poi si fecero avanti i gatti randagi, occhi famelici e corpi segnati dalle battaglie. Si avvicinavano cauti, tra mille esitazioni e ripensamenti, fermandosi a ogni momento per guardare in giro, come fossero indifferenti agli stimoli della fame. Poi, con uno scatto, afferravano un po' di cibo e si nascondevano tra i cespugli, miagolando sordamente per tener alla larga i concorrenti. Ultimi vennero i cani. Cani tristi di solitudine. Afflitti e stanchi nell'incedere, il corpo raccolto a parare i colpi della vita, la coda tra le gambe, l'occhio guardingo e pensoso. Prima di consumare la loro parte, andavano a mendicare qualche carezza dal vecchio Melchiorre. E lui aveva per tutti una buona parola. Passo a passo, si avvicinò anche il professore. - Ma da dove arrivano i cani? - chiese. - Da un buco nel muro di cinta, laggiù in fondo. Vedi? Dove c'è quel frassino. Il professor Zambelli si sentì rimescolare il sangue nelle vene. Cercando di controllare la voce che gli tremava in gola, chiese: - Non è che ieri sera hai visto un bastardino alto all'incirca così, rossiccio, con un collare grigio? - Fammi pensare... Ma sì, sicuro, ora ricordo. Continuava ad abbaiare, poveretto. Sembrava disperato. - È il mio Argo! - esclamò il professore, senza sapere se gioire o preoccuparsi. Domande senza risposta si affollavano trepide nella sua mente. Perché Argo non era rimasto con il giornalaio cui l'aveva affidato? Era fuggito per venire a cercarlo? Qualcuno l'aveva trattato male? O era stato addirittura cacciato via, abbandonato per strada? - Ah, è tuo - fece Melchiorre, dopo un lungo silenzio. - Argo... è il nome di un cane fedele. - Tornerà? - disse il professore. Ma non era propriamente una domanda. Era un pensiero detto ad alta voce. - Tornerà. Gli animali mi conoscono bene, professore, e io conosco bene loro. Il tuo cane aveva lo sguardo di quelli che tornano. Il professore guardò davanti a sé, oltre il muro di cinta del parco, e fece un sospiro profondo. - Pensi che sono un po' matto? Pensalo pure, non m'importa. A Villa Felice è un vantaggio: i matti hanno molta più libertà.

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Un uomo allampanato, con camice, stetoscopio e borsa nera a soffietto entrò nell'ambulatorio col passo frettoloso di chi non ha assolutamente tempo da perdere. Lo seguiva a distanza, con passo lento e posato, un uomo assai più piccolo di statura, piuttosto robusto, vestito nella medesima maniera. - Buongiorno a tutti! - disse il dottor Casnaghi senza guardare in faccia nessuno. - Vediamo di fare una cosa svelta, mi raccomando, che devo scappar via presto. Chi ha qualche disturbo, lo dica e in fretta. Gli altri possono pure tornare nelle camere. Alcune mani si alzarono esitanti. - Bene. Vediamo subito. Lei, dottor Pastori, scriva le ricette. Chi è primo? - Io ho la mia solita artrite, dottore - si lamentò il maresciallo. - Due Pampolex e un Tritopin, prima dei pasti. Il seguente! - Voglio un sonnifero - borbottò il signor Ernesto. - Un sonnifero per dormire e scordarmi questo schifo di vita. - Mezzo Pampolex sciolto nell'aranciata, ogni sera. E poi chi c'è? Ah, lei, signora Pinuccia... - Ho sempre il fiato corto, dottore! Sente? Sente come respiro male? Non sarà la pressione, per caso? - Ma no, ma no... Prenda il Tritopin e vedrà! Avanti il seguente... - Ieri, come al solito, non ho digerito la cena... - fece il signor Attilio con una smorfia. - Due Tritopin e un Pampolex, dopo i pasti. Su, presto, un altro! Ah, ma è lei, donna Giuseppa... - la voce del dottore diventò improvvisamente gentile e il suo viso perse l'espressione irritata di sempre. - Presto, Maria Pia, una sedia per la nostra amabile signora! Come va, eh, come va? - Oh, caro dottor Casnaghi... Va male, va malissimo... Sempre così fiacca, sempre così stanca... Vede che brutta cera che ho? Non va, proprio non va. È arrivato il mio momento, dottore. Me lo sento! - Ma no, ma no... Cosa dice mai, donna Giuseppa! Comunque, se questo può servire a tranquillizzarla, venga in clinica da me. Anche subito, se vuole: vedremo di fare dei controlli. Dottor Pastori, finisca lei il lavoro. Io scappo via. Il dottor Casnaghi infilò la porta a testa bassa e partì con lo scatto di una molla. La Maria Pia prese a braccetto donna Giuseppa e l'accompagnò verso l'uscita, dove il dottore attendeva impaziente con il motore acceso e la portiera spalancata. Non appena la vecchia signora si fu accomodata, la macchina schizzò via a tutta birra e l'infermiera, che sperava nella solita mancia, rimase lì con un palmo di naso. - Dottor Pastori... - mormoravano intanto nell'ambulatorio delle voci ansiose. - Si è ricordato? - Ma certo. Come sempre, no? State a vedere che non sono più di parola. Per lei, signora Pinuccia, ho trovato un numero di "Tuttamaglia", con un inserto speciale sui golfini. È contenta? Ed ecco il libro che mi ha chiesto, professore. Ho faticato un po' a trovarlo, ma alla fine... Poi, che altro? Ah, giusto: i sigari! Stavolta m'han dato una marca cubana, signor Ernesto: che ne dice? Ehi, signor Attilio, non se ne vada via proprio adesso: ho qui le sue caramelle alla menta. Non le vuole più? - Oh, sì. Certo che le voglio. Caramelle alla menta. Proprio quelle che mi piacciono di più. Lo sa, dottore, quante caramelle alla menta mi succhiavo la sera nel mio camerino, prima di entrare in scena? - Eh, già... Certo. Per un buon attore la voce è tutto - commentò il dottor Pastori, tra le risatine degli altri. - E questa schedina, per chi era? - Per me! - strillò il maresciallo. - Questa volta mi voglio studiare bene la giocata... E se vinco, facciamo a metà. Glielo prometto! - Non prometta nulla, che potrebbe pentirsene! - scherzò il dottor Pastori. Poi si fece più serio e disse: - Professor Zambelli, le sue ultime analisi del sangue non sono molto buone. Venga un momento con me, che vediamo il da farsi.

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ERANO TUTTI RACCOLTI nella piccola cappella di Villa Felice, con addosso il vestito buono e dentro una grande tristezza, per dare l'estremo saluto a donna Giuseppa Robustelli della Cuna, «serenamente passata a miglior vita» come diceva l'annuncio mortuario appeso ai cancelli di Villa Felice. Non che le avessero voluto un gran bene, quand'era viva, perché donna Giuseppa aveva sempre tenuto con loro quell'atteggiamento di superbo distacco che è tipico di chi, credendosi al di sopra della norma, finisce con lo smarrire la misura della normalità. Ma ora era morta, poveretta, e dei morti - nel giorno del loro funerale - si ricordano solo le qualità. Così gli ospiti di Villa Felice, davanti alla bara di donna Giuseppa, piangevano sinceramente la sua scomparsa e parlavano tra loro delle cose buone che si potevano dire su di lei. E intanto, dentro di sé, ciascuno ritornava indietro con i propri ricordi, per' ritrovare lo spessore della vita, per restituirle quel senso di durata - anni, mesi, giorni, ore, minuti - che passa e sfugge via come sabbia tra le dita, se non s'impara ad assaporarlo. La Pinuccia si rivedeva giovane, bella dei suoi vent'anni, con il vestito di lino blu che le fasciava il corpo snello e le stava proprio d'incanto, tant'è che tutti si giravano per strada a guardarla. Ma lei tirava via dritta, per non arrivare tardi alla fermata della corriera e per sfuggire a quegli occhi puntati addosso come spilli. Rivedeva la piazzola con gli alberi polverosi, l'erba lunga e secca tra l'asfalto che si sgranava sui bordi della strada, dove una volta - ingannando l'attesa - aveva scorto e raccolto un piccolo quadrifoglio portafortuna. Rivedeva la corriera arrivare, arrancando su per la salita, e fermarsi ansante a buttar fuori i passeggeri, insieme al fiato arroventato del motore. Un giovane studente scendeva giù correndo, l'abbracciava stretta, la baciava sulla bocca. «Ciao, Pinuccia, bella mia» le diceva poi in un sorriso. Lei lo contemplava in silenzio, incantata, sentendo in quel saluto la promessa di una felicità senza fine. Sì, pensava la Pinuccia, una volta era stata giovane, piacente, e aveva amato, ed era stata amata. Queste cose erano successe davvero, erano state belle, avevano contato molto per lei, e bisognava tenerle vive nella memoria, ora che non c'erano più corriere né futuro da aspettare con ansia. NELLA PENOMBRA della cappella, assorto nei suoi pensieri, anche il professor Zambelli accarezzava vecchi ricordi. E nel tepore del suo letto di bambino, fissava con occhi ansiosi l'uomo che entrava nella cameretta. «Che c'è, Virgilio?» diceva il babbo. «Non stai bene?» «Non riesco a dormire» diceva la sua voce piagnucolosa. «Me la racconti una storia?» «Sì» rispondeva il babbo, avvicinando una sedia al letto. «Ma tu, mettiti bene sotto le coperte, sennò prendi freddo. Cosa vuoi che ti legga, stavolta?» «Quella di Alì Babà.» «Ancora?» «Ancora... Per favore!» Le mille e una notte stava sul primo scaffale, vicino all'orso di pezza. Lì dentro, insieme ad altre fiabe straordinarie, c'era la meravigliosa storia di Alì Babà e dei quaranta ladroni. Il libro era rilegato in pelle rossa, con grossi titoli stampati in oro, ma già un po' mangiato negli angoli e squinternato dall'uso. Sapeva di sciroppi per la tosse e portava nelle sue pagine giallognole molte impronte di ditate sudaticce, perché il piccolo Virgilio lo sfogliava e lo risfogliava durante le sue malattie, incantandosi davanti alle illustrazioni di bellissime fanciulle dai grandi occhi neri come l'ebano o di profonde caverne stracolme di immensi e luccicanti tesori. Il babbo apriva quel libro incantato - che era capace di compiere magie potenti come quella di tenere a letto un bambino con la febbre o di farlo addormentare di sera - e cominciava a leggere la storia. Allora, d'improvviso, la stanza si popolava di terribili briganti, di schiave astute, di geni benefici, di mogli avide e troppo linguacciute... Il professor Zambelli si sentì riscaldare il petto dal ricordo di quella beatitudine e dal dolce pensiero che la accompagnava: «Al mondo non c'è un babbo migliore del mio». Alzò lo sguardo verso l'altare, consolato, e quasi riappacificato con il presente. Allora notò che davanti, proprio nella prima fila, sedevano composti ed attenti il direttore, il dottor Casnaghi, la Maria Pia e un altro individuo

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Ma appena uno spingeva lo sguardo più avanti, verso il cancello sempre chiuso a chiave, più in alto, verso il muro di cinta irto di spuntoni di ferro e di cocci di vetro, subito si ricordava di essere dov'era. L'incantesimo si spezzava e non c'era più bellezza che potesse consolare. Virgilio Zambelli era seduto su di una panchina, al sole, e una volta tanto non pensava ai suoi guai. Leggeva uno dei suoi libri preferiti, l'Odissea, che adesso gli piaceva ancora di più perché si sentiva anche lui come Ulisse: un uomo solo, dolente e perseguitato dalla cattiva sorte. - Disturbo? - Il professore alzò il capo e vide che era la Pinuccia, con un sorriso imbarazzato sulle labbra e il lavoro a maglia sottobraccio. - No, no... Nessun disturbo. Cosa c'è? - Oh, niente... Niente. Solo che sono un po' stufa. La Clotilde, la Jolanda, la Celestina, l'Enrichetta e tutte quante le altre... Come sono noiose, certe volte! Sempre a ricordarsi del passato: a che serve, dico io? E gli uomini, poi! L'Ernesto sta sempre sul chivalà e guai a chi lo tocca, l'Attilio conta le sue monete tutto il tempo, il Melchiorre scappa via come un gatto randagio, il Carlo vuol giocare a carte ma non è buono. Così gli altri s'arrabbiano e gridano, gridano, gridano... Li senti? Ecco, hanno cominciato di nuovo a berciare... - Asinaccio! Non dovevi calare il sette bello... Gli hai praticamente regalato la primiera! - Quando uno non sa giocare, è meglio che si ritiri. Entro io al tuo posto, va'! - Eh! Non c'è mica bisogno di urlare così... - Io urlo quanto mi pare e piace! - Li senti? - riprese la Pinuccia. - Sono peggio dei bambini. Tu, invece... - Io nel gioco delle carte son peggio del maresciallo - tentò di scherzare il professore. La Pinuccia ebbe l'impressione d'essergli riuscita sgradevole. Si strinse nel grosso scialle grigio che le copriva le spalle e fece un passo indietro, titubante: - Scusa, m'avrai preso per una pettegola, adesso. Forse è meglio se me ne vado. - No, resta... - Virgilio Zambelli s'accorse del suo imbarazzo e se ne sentì responsabile. - Anzi, perché non ti siedi? Si sta proprio bene qui, al sole. La Pinuccia si accomodò sulla panchina e cominciò rapida a sferruzzare. Dopo un po' chiese: - Cosa leggi? - La storia di Ulisse. - Ah, sì... Qualcosa mi ricordo. Mi pare di aver visto il film una volta in tivù. Era bella... - A leggerla è ancora più bella. - Che peccato... - Che peccato cosa? - Beh, io... - la Pinuccia arrossì come una ragazzina. - Io non ho studiato molto. Ho fatto solo fino alla quinta elementare, perché... Be', perché erano altri tempi. Però qualche libro ogni tanto... - Vuoi che ti legga qualcosa? - si offrì il professore. E, senza attendere risposta, aprì l'Odissea al libro nono. - Ecco. Questo è un passo che mi emoziona sempre. Qui Ulisse racconta ai Feaci del suo arrivo a una terra lontana e misteriosa. È l'isola dei Ciclopi, che sono poi dei giganti con un occhio solo, capaci di fare a pezzi gli uomini per mangiarseli crudi. Pensa! Nella caverna di Polifemo Ulisse ha visto sbranare vivi i suoi compagni e non ha potuto far niente per impedirlo. E io mi chiedo sempre, quando arrivo a questo punto: dove si trova la forza per raccontare una tragedia simile? E vorrei che il racconto prendesse un'altra strada, che un miracolo li salvasse tutti all'improvviso e che Ulisse non fosse costretto a soffrire tanto... Ma poi, mentre leggo, mi sembra di essere tutt'uno con quest'uomo caparbio, che sa resistere ai colpi del destino. E mi sento più forte, capisci? Il volto del professor Zambelli si era acceso, come per un più rapido afflusso del sangue e gli occhi mandavano guizzi di eccitazione. - Sì, certo che capisco - mormorò la Pinuccia, incantata. Ora, ascolta bene le parole di Ulisse:

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Virgilio Zambelli andò avanti a leggere con la sua bella voce da baritono e gli sembrava d'essere ancora al liceo, a far lezione davanti ai suoi studenti. La Pinuccia lo ascoltava rapita, il lavoro a maglia abbandonato sulle ginocchia. Poi accadde un fatto strano. Attratti da quella voce, stupiti dalla novità, arrivarono anche gli altri: l'Enrichetta, la Jolanda, la Clotilde, la Celestina, il Carlo, l'Attilio, il Melchiorre e perfino quell'orso dell'Ernesto. E tutti rimasero lì ad ascoltare la tremenda sfida tra Ulisse e Polifemo, tra l'intelligenza dell'uomo e la forza del ciclope, finché non venne la Maria Pia a rompere l'incanto. - Su, avanti... È ora di rientrare, signori miei. Comincia a far frescolino, non sentite? E poi questa è l'ora del vostro programma preferito. C'è la Ruota della Fortuna che sta per cominciare! Su, su, andiamo, o ve lo perderete. Prese per il braccio il primo che le venne a tiro e lo condusse via. Gli altri, con il pensiero ancora là, nella spaventosa caverna di Polifemo, si avviarono lemme lemme verso l'ingresso. - Sai qual è il nostro guaio, Virgilio? - disse la Pinuccia rimanendo indietro con il professore. - Che nessuno ci dà mai niente da fare. Se solo trovassimo un buon motivo per attaccarci alla vita, per darle ancora un senso, non ce ne staremmo zitti e muti a sopportare tutto. Non credi? - Si, hai ragione. Io, per esempio, avevo un cane. E per lui, grazie a lui, valeva ancora la pena di vivere. Adesso non lo so più. - Ah, sì - commentò la Pinuccia. Neanch'io lo so più. E mi capita anche di avere pensieri terribili. A volte, svegliandomi al mattino, mi guardo nello specchio e lo specchio mi dice: «Pinuccia, nessuno ha più bisogno di te, nessuno ti vuole più. Cosa aspetti a crepare?». E io rispondo: «Che ci posso fare, se sono viva? Non lo faccio mica apposta, a vivere». E allora penso che tutto questo mi succede perché devo avere fatto molti sbagli. Dove ho sbagliato, professore, che i miei figli non mi amano più? - I figli volano via come gli uccelli. Non abbiamo diritti sui figli - provò a dire Virgilio Zambelli, prendendola a braccetto. - E poi, loro devono pensare al futuro... - Anche noi dovremmo pensarci, ogni tanto - fece la Pinuccia, scontenta. - Siamo vivi, no? Perché ci siamo lasciati il futuro dietro le spalle? Perché? Neanche il professore lo sapeva. Ma sentiva che la Pinuccia, con la sua logica elementare e impietosa, aveva toccato il cuore del problema.

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L' ERNESTO, con il suo largo corpaccione, stava davanti alla porta, pronto a ritardare un'eventuale visita a sorpresa della Maria Pia. Argo, promosso sul campo a cane da guardia, era accucciato ai suoi piedi, pronto a mordere, se necessario, per difendere il grande segreto. Gli altri vecchi stavano tutti in cerchio intorno a un letto, sul quale sgambettava felice la piccolina, rosea come una bambola. - Che tesoro! - s'inteneriva il maresciallo, stuzzicandole dolcemente le guance paffute. - Biribiribiribi! Ecco, guardate: mi ha sorriso! A me, proprio a me... Bella ciccina! - È un fiore - riconobbe l'Attilio. - Una meraviglia del creato. Ma non possiamo tenercela. La Maria Spia, il direttore... Loro non ci daranno mai il permesso. È il regolamento. - L'uomo chinò il capo, avvilito, e accarezzò il suo sacchetto di monetine. - Il mio allenatore lo ripeteva sempre: «Non ha senso battersi, quando l'avversario è troppo forte». Io non gli davo retta, ma contro Cassius Clay son finito a tappeto al primo round. E ho dovuto chiudere per sempre con la boxe. - E piantala! - scattò l'Ernesto. - Ci hai scocciati con le tue balle... - No, no... un momento! - protestò Melchiorre. - Se cominciamo a litigare tra di noi, allora non va bene. Dobbiamo essere uniti o non ne verrà niente di buono. Piuttosto, chi sa come si tira su un bambino? Tu, Carlo? - Io? Io no, figurati. Non mi son neanche sposato, io. Ma la Pinuccia sì che se ne intende. Lei ne ha avuti quattro di figlioli. - Ah no - intervenne l'Ernesto dalla porta. - Niente donne in questa faccenda. - Donne o non donne, i problemi sono altri - chiarì calmo il professore. - Cercate di essere concreti: come pensate di poter nascondere la bambina? Prima o poi la scopriranno e ce la porteranno via. Dobbiamo trovare un'altra soluzione. - Io dico che dobbiamo tentare, invece - osservò Melchiorre. - La fortuna aiuta gli audaci, dice il proverbio. Però bisogna esser decisi, fin dal principio. Volete la bambina o no? Su la mano chi è favorevole, avanti! Tutti alzarono la mano: anche il professore, anche l'Ernesto dal suo osservatorio. - Bene, allora siamo tutti d'accordo. Adesso procediamo con ordine e cerchiamo di risolvere un problema alla volta. Prima di tutto, un nome. - Oggi è il 14 marzo, santa Matilde - disse l'Attilio, scorrendo il calendario appeso dietro il suo letto. - Perché non la chiamiamo così? - No! - protestò il maresciallo. - Che razza di nome... Piuttosto Adele, come la mia mamma. - Emma! - Luigina! - Amalia! - Irma! - Olga! - Giuditta! - Onorina! - Ida! - Albina... «Bu... bu!» abbaiò Argo, che evidentemente voleva dire la sua anche lui. - Perché non Dorotea, invece? - propose il professore. - In greco vuol dire "dono degli dei". A me sembra proprio adatto. Voi cosa ne pensate? - È un bel nome - riconobbe l'Ernesto. - Chi è d'accordo? Tutte le mani si alzarono a favore di Dorotea. - Benissimo. Approvato all'unanimità. - Anche tu sei d'accordo, vero? - Melchiorre si rivolse sorridendo alla piccina. - Ti piace Dorotea? La bimba fece una smorfietta con le labbra e tutti giurarono che aveva detto di sì. - Visto? Il primo problema è stato risolto. Ora ecco il secondo: latte e biberon. - Per fare che? - domandò l'Attilio sovrappensiero. - Non crederai che mangi col cucchiaio come te, furbone! - ghignò l'Ernesto, senza perdere di vista il corridoio. - Roba da matti... - E basta! - saltò su il maresciallo. - Non comportiamoci sempre come dei bambini! Cerchiamo di organizzarci, invece, e di collaborare. Dorotea ha bisogno di noi. Non è una bella responsabilità questa? Quindi, fuori le idee. Dove troviamo un biberon? In quel momento la piccola cominciò a frignare e il gruppo dovette rapidamente passare alla risoluzione del problema numero tre: come fare tacere un bambino che piange. La cosa si rivelò subito molto complicata. Il Carlo la prese delicatamente in braccio e tentò di canticchiare una vecchia canzone romantica, camminando avanti e indietro tra i letti della camera. Ma la sua voce era forse sgradevole, o l'andatura troppo rigida e tesa, poiché Dorotea sbarrò gli occhi dalla paura. Per qualche secondo contrasse la bocca e trattenne il fiato; poi, scossa da un tremito, prese a lamentarsi ancora di più. - Ssst... ssst! - supplicava l'Attilio, come se la piccola potesse capirlo. - Stai zitta, tesoro, se no arriva la Maria Spia! Taci, per carità... - e agitava il sacchetto delle monetine, facendole tintinnare vicino alle sue orecchie, nella speranza che quel suono la distraesse un poco. Ma quel muoversi rapido di gente intorno, i rumori, le voci, i gesti ansiosi, spaventarono ancora di più la piccola, che cacciò uno strillo. Tutti impallidirono dallo spavento e Melchiorre borbottò, guardando l'Ernesto dritto negli occhi: - Per certe cose, non ci sono che le donne. - Ho capito - si arrese questi. - Vado a chiamare la Pinuccia. LA PINUCCIA arrivò trafelata, con il suo corteo di amiche già informate di tutto. E dopo neanche cinque minuti, stretta al seno della donna, la piccola Dorotea dormiva tranquilla, cullata da una vecchia ninna-nanna che faceva più o meno così:

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L' ERNESTO chiuse a chiave la porta della stanza. Poi, per maggior sicurezza, bloccò la maniglia appoggiandovi contro la spalliera di una sedia, come aveva visto fare nei film gialli americani. Solo allora si sentì davvero tranquillo. - Finalmente! - disse. - E ora, non chiedetemi dove li ho trovati ma... ecco qua: un fornellino elettrico perfettamente funzionante e un litro di latte fresco! Sono bravo, eh? - Io invece ho preso i vuoti delle bottigliette di birra che la Maria Spia si sbevazza durante il servizio - fece l'Attilio. - Serviranno da biberon. - Già, già, bene, bene... Ma ci vorrebbe anche una tettarella. Il latte mica può berselo a canna, povera piccina. - Ci ho pensato io, ci ho pensato! - intervenne il maresciallo, sventolando un paio di guanti da chirurgo. - Sono in pura gomma naturale, roba di prima scelta. - Dove li hai comprati? - s'interessò Melchiorre. - Comprati? Li ho, come si suol dire, "sgraffignati" dalla borsa del dottor Casnaghi. Ho passato una vita ad acchiappar ladruncoli, vuoi che non abbia imparato qualche trucco del mestiere? - Come diceva sempre l'avvocato Ghiberti, principe del Foro e mio illustre collega, - sentenziò l'Attilio - «della giustizia troppo non ti fidare: a giudicare i ladri, s'impara anche a rubare.» Tutti risero, tranne il maresciallo che, serio come non mai, si concentrò sul suo lavoro. Con un secco colpo di forbici tagliò via un dito al guanto di gomma, lo infilò sul collo di una bottiglietta di birra e lo fissò con un elastico. Poi prese uno spillo e fece alcuni buchetti nella gomma. - La tettarella è pronta - annunciò col tono di chi si aspetti di essere salutato con un applauso. Ma dovette accontentarsi di uno sbrigativo: «Può andare», perché subito si presentò un altro problema. - Di nuovo la pipì! - disse la Pinuccia, che teneva la piccola tra le braccia. - Bisogna cambiarla, se no si mette a piangere... - Lascia, che ci penso io! - intervenne la Celestina. - Stamattina ho preso un po' di asciugamani nei bagni e ho preparato dei pannolini. I neonati sporcano molto, si sa! - Sì, ma ci vorrebbero anche dei vestitini puliti... - Ecco, appunto... - fece la Clotilde, tirando fuori con un completino di lana rosa, una cuffietta e due babbucce ch'erano una bellezza a vedersi. - Era tutta roba per mia nipote, che ha appena avuto una bambina. Ma io dico che è meglio se la mette Dorotea. Tanto di quella lì chi se ne frega? In tre anni che sto qua, non è venuta a trovarmi nemmeno una volta. Peggio per lei, allora... -ridacchiò l'Attilio. Zitti un momento... - mormorò l'Ernesto, accompagnando le parole con un eloquente gesto della mano. - Silenzio... M'è parso di sentire dei passi. Tutti si immobilizzarono, trattenendo il respiro. Gli sguardi si incrociarono, muti, sperduti, cercando forza e sostegno negli occhi dei compagni. Ma ciascuno finiva per vedervi riflessa solo l'inquietudine che sentiva dentro di sé, nella gola stretta dall'ansia, nel respiro oppresso dal timore angoscioso di essere scoperti. E quel che è peggio, sbeffeggiati. Il solo pensiero che lo sguardo intruso del direttore o della Maria Pia potesse ridicolizzare tutti i loro sforzi, li faceva fremere di rabbia. - Sssst! - ripeté in un soffio l'Ernesto. Il ciabattare pesante della Maria Pia si avvicinava sempre più minaccioso. L'infermiera sostò davanti alla porta e posò la mano sulla maniglia, che cedette lentamente alla pressione. - Siamo perduti! - sospirò il professor Zambelli, preparandosi al peggio. Ma proprio in quel momento si udirono rapidi passi in avvicinamento e una voce comandare: - La desidera il direttore. - Subito - disse la Maria Pia, lasciando la maniglia. E se ne andò. - L'abbiamo scampata bella! - sospirò l'Ernesto, asciugandosi il sudore col fazzoletto. - C'è mancato un pelo. - Già - fece Melchiorre. - Ma è chiaro che non potremo sempre contare sulla fortuna. Dobbiamo trovare un posto dove nascondere la bambina, in caso di pericolo. Cominciate a rifletterci, tutti quanti. - Io l'avevo detto... - pensò il professore. Ma lo pensò soltanto, perché non voleva mortificare nessuno. E poi, se guardava quella piccola creatura - così piccola, così indifesa - sentiva il desiderio, e quasi il dovere, di difenderla dalle ingiustizie della vita. «Almeno per un po'...» si disse il professore. Poi aggiunse ad alta voce: - Su, coraggio! Vedrete che ce la faremo. IL TEMPO di riprendere un po' il fiato, e ciascuno ritornò ai suoi compiti. La Jolanda e l'Enríchetta finirono di trasformare in letto una cassetta della frutta che Melchiorre aveva trovato nella dispensa, usando un cuscino a mo' di materasso e i loro scialletti come copertine. - Che ne dite? - chiesero. - Com'è venuta la nostra culla? - Non male - riconobbe l'Attilio. - Però... - Ho visto dei salici, in fondo al parco - intervenne Melchiorre. - Se mi date una settimana di tempo, preparo io un lettino alla piccola, tutto di vimini. Bello come per la figlia della regina d'Inghilterra. Ma adesso... È pronta la pappa, professore? Virgilio Zambelli, con in mano il suo orologio a cipolla, controllava religiosamente il tempo di bollitura del biberon sul fornellino. Quando fu ora, tirò fuori il biberon ormai sterilizzato, vi versò dentro il latte già tiepido e lo porse alla Pinuccia. Poi rimase lì, tutto nervoso, come quando i suoi alunni aspettavano il voto dell'interrogazione. La Pinuccia prese il biberon, lo capovolse e fece cadere qualche goccia di latte sul dorso della mano. - E proprio alla temperatura giusta! Bravo professore: promosso! - sentenziò la donna sorridendo. Poi avvicinò il biberon alla piccola. Non appena Dorotea sentì la tettarella stuzzicarle le labbra, aprì la bocca e cominciò a succhiare con voluttà. - E brava la mia piccola! Guardate come tira, sembra proprio un vitellino! Ehi, piano. piano... Adesso non t'ingozzare, neh, golosaccia che non sei altro! Tutti i vecchi stavano intorno ad ammirare quello spettacolo, e sembravano tanti re magi davanti alla capanna di Gesù Bambino nel giorno dell'Epifania. Argo, invece, che si era appena risvegliato dal sonnellino pomeridiano, rosicchiava un osso che gli aveva dato Melchiorre e forse, nel profondo del suo cuore canino, provava una punta di gelosia per quella mocciosetta neonata che si stava prendendo tanta parte del tempo e dell'affetto del suo amatissimo padrone.

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A me interessano i profitti. - Signor Martelli, abbia pazienza. Forse che lei non ha mai fatto pubblicità alla sua impresa di pompe funebri? - Sì, qualche volta. Ma così, alla buona, senza tanti arzigogoli. Qui invece si sta parlando... - Mi ascolti, signor Martelli, - riprese il direttore, con voce suadente - lei deve valutare la mia proposta da un'altra angolazione. La veda come un buon investimento. La pubblicità promette, ma non è necessario che mantenga. - Però costa. - Certo. Ma le assicuro che quei soldi rientreranno rapidamente. Molto più in fretta di quanto lei si immagina. Vendere sogni non è mai stato tanto redditizio come al giorno d'oggi. E noi venderemo l'immagine di una casa protetta modello, dove l'anziano vive felice, circondato dal comfort e da cure amorevoli. Anzi, nel nostro spot pubblicitario, sarà l'anziano stesso a scegliere di venirci, vincendo le resistenze della famiglia. - Assurdo! - sbottò il signor Martelli. - E a chi vorreste darla a bere? - Mi scusi... - intervenne tranquillo il dottor Casnaghi. - Ma lei, evidentemente, ignora il potere persuasivo di certe immagini. Il testimonial del nostro spot non sarà un vecchio raggrinzito su di una sedia a rotelle. Prima di tutto sarà una donna, perché le donne vivono più a lungo. E avrà un aspetto piacevole a vedersi. Si presenterà come una persona dotata di un gran senso pratico, che non vuole essere di peso a nessuno e che quindi sceglie la nostra Villa Felice per garantirsi tranquillità e sicurezza. Capisce, signor Martelli? In questo modo noi annulliamo tutti i sensi di colpa dei figli, perché gli diciamo: «Portaci qui tua madre, tuo padre. Sono loro che te lo chiedono». Guardi che è una bellissima idea. Geniale. - Ma costosa.... - Se lei non vuole, copro io la sua parte di spesa - precisò il direttore. - Ma poi non pretenda la partecipazione agli utili. L'uscita del Bagliotti-Gagginis lasciò di stucco il signor Martelli e lo risolse ad accettare. Così, con voce più mite, si azzardò solo a chiedere: - E quanto durerà la campagna pubblicitaria? - Diciamo un mesetto circa, su tutte le tivù locali della nostra regione. E poi, chissà, se le cose andranno meglio del previsto, potremmo anche puntare a qualche rete nazionale. - Be' - frenò il dottor Casnaghi. - Non è che ci sia poi tanto posto, a Villa Felice... - C'è ancora la soffitta - osservò il direttore. - E alcune sale al pianterreno. Per non parlare delle scuderie. Se viene tanta gente, avremo anche tanto denaro per ristrutturare. La logica del Bagliotti-Gagginis era stringente, il suo convincimento tale da infondere sicurezza e generare ammirazione. Sarebbe stato un buon politico, il direttore, sapeva come tirar la gente dalla sua parte. - Perché non lo fa lei, lo spot di Villa Felice — motteggiò il dottor Casnaghi. - Scommetto che sarebbe un successo. - Eh, sì - riconobbe pensoso il signor Martelli. - Non è mica una cattiva idea... Sul volto del direttore si disegnò una smorfia di disgusto. - Lasciamo perdere, per favore. Piuttosto, vediamo gli altri punti all'ordine del giorno. Il signor Martelli prese la parola per relazionare sugli strani furti che si erano verificati negli ultimi tempi a Villa Felice. Il dottor Casnaghi disse che effettivamente anche a lui erano spariti un paio di guanti da chirurgo e il direttore ricordò che il giorno prima l'infermiera di turno gli aveva parlato a proposito di un fornellino elettrico scomparso nel nulla. Proprio in quel momento si udì bussare alla porta dello studio ed entrò trafelata la Maria Pia. - Lo sa che non voglio esser disturbato quando sono in riunione. Spero almeno che sia importante! - fece secco il direttore. - Importante? Certo che è importante! Anzi, è una cosa grave, gravissima! Un vero scandalo! - Parli, allora. Che diamine... Ma si sbrighi, però! - Loro... - e con il dito indicava le stanze di sopra. - Hanno una bambina in camera! Ce la nascondevano, sa... Ma io, proprio adesso, entrando all'improvviso.... - Una bambina? - esclamò il signor Martelli per tutti. - E dov'è il problema scusi?

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Il direttore puntò i suoi occhi accusatori I contro quel grappolo di uomini e di donne e li guardò in faccia a uno a uno. Nessuno poté resistere alla forza inquisitrice di quello sguardo e, a uno a uno, tutti abbassarono la testa, come se fossero davvero colpevoli di qualcosa. Soddisfatto di quella prima vittoria, che gli restituiva tutta l'autorità di cui aveva bisogno in quel momento, Leopoldo Umberto Ba.. gliotti-Gagginis incrociò le braccia e disse con voce tranquilla ma terribile: - Datemi la bambina. I vecchi e le vecchie si strinsero gli uni agli altri, come tanti pulcini sperduti. Ciascuno di loro, nel profondo del suo essere, aveva sempre saputo che quel momento sarebbe arrivato, ma nessuno si sentiva preparato ad affrontarlo proprio adesso e in modo così brutale. - Datemi la bambina - ripeté fermo il direttore. - O me la prenderò da solo. Non devo fare che un passo. Ma, per il vostro bene, preferirei che me la consegnaste spontaneamente. Spontaneamente. E chiaro? Nessuno rispose, nessuno si mosse. I vecchi sembravano inerti, come marionette abbandonate in un angolo dal burattinaio. - D'accordo... Allora ci penso io. Il Bagliotti-Gagginis mosse un passo verso la Pinuccia, che d'istinto strinse più forte la bambina, tanto da farla piangere. Fu questione di un attimo. Argo sgusciò via dalle braccia del suo padrone e si avventò latrando contro il direttore. - Bestia maledetta! - urlò l'uomo, allungandogli una pedata. Il cane si rivoltò e gli azzannò un polpaccio. - Ah! Aiuto.... - Argo, qui! - ordinò concitato il professore. Il cane lasciò la presa, ma continuò a ringhiare sordamente, con il pelo arruffato e le orecchie dritte, come una belva feroce. - A cuccia! Argo si dominò e ritornò indietro, vinto dal richiamo all'obbedienza. Lanciò uno sguardo deluso al suo padrone, come per dirgli: «Perché non mi lasci fare a modo mio?». Poi si accucciò per terra, scornato e triste, spazzando nervosamente il pavimento con la coda. Il Bagliotti-Gagginis, nel frattempo, s'era un po' ripreso dallo spavento. - Chiamerò i carabinieri! - digrignava tra i denti. - La legge è dalla mia parte! La pagherete cara, tutti quanti! Delinquenti... Vi porterò via la bambina, vedrete! E il cane... Quella bestia feroce... Ah, sì! Lo farò abbattere, statene certi. - Questo si vedrà! - disse l'Ernesto, muovendo un passo avanti e sfidando il direttore con tutta la mole del suo corpo robusto. - Giusto - rimarcò la Pinuccia, con un coraggio che le venne in gola insieme al cuore. - Questo si vedrà! - La battaglia è appena cominciata, signor Bagliotti - aggiunse calmo il professore. - E adesso se ne vada. Questa, fino a prova contraria, è la nostra stanza. Lei qui non è gradito. - Via! Via! Vada via! - gridarono tutti gli altri, mentre Argo principiava a mostrare di nuovo i denti. Il direttore si massaggiò la gamba, che aveva cominciato a sanguinare, e giudicò miglior partito ritirarsi, almeno per il momento. Uscì dunque dalla stanza, zoppicando e farfugliando oscuri propositi di vendetta.

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Venga a vedere - disse la Pinuccia. Lo prese per mano e lo accompagnò al letto dell'Attilio, in fondo alla camera. Dorotea dormiva tranquilla, i piccoli pugni sollevati vicino alla testa. Accucciato vicino al letto c'era Argo, che faceva la guardia. - Ah, pure il cane! Non morde, spero... - mormorò il dottore, impensierito. Poi si chinò a guardare la piccola. - Uh, quant'è carina! E che bell'aspetto sano... - Certo! - disse il maresciallo con orgoglio. - Noi ci sappiamo fare coi bambini. Potremmo tirarne su un esercito, di questi poppanti. - Sì, sì. Non ne dubito. Ma domani il direttore prenderà subito dei provvedimenti. Vi denuncerà, questo è certo, e la legge è dalla sua. - Un momento... - saltò su a dire l'Ernesto. - Siamo poi sicuri che la legge sia proprio dalla sua? - Ah, questo non lo so - sospirò il professor Zambelli, carezzando il cane per tenerlo quieto. - Il Bagliotti-Gagginis qualcosa da nascondere ce l'ha di certo. Ma se anche fosse, come potremmo dimostrare che abbia mai violato la legge? Chi di noi è in grado di provare una cosa simile? - Io. L'Ernesto s'era fatto avanti nello stupore generale, sicuro e deciso come non l'avevano mai visto. Li guardò tutti, uno per uno, come se sentisse improvvisamente il debito di affetto che aveva contratto con loro. - Tu? Proprio tu? - Certo, proprio io, Ernesto Fontana. È il mio lavoro: sono un avvocato! - Ah! - intervenne il maresciallo. - E non ci avevi mai detto niente... - E cosa ve ne facevate prima? - ribatté acido l'Ernesto. - Ci condivate i maccheroni? - Tentò un risolino sforzato, poi aggiunse, con amarezza: - Del resto anch'io non sapevo più che farmene. Ma adesso! Adesso è un'altra cosa. - Dunque? - chiese impaziente il dottor Pastori. - Dica come può, in concreto... - Se riesco ad entrare nello studio di quel bel soggetto... insomma... del Bagliotti-Gagginis voglio dire... Ecco, io sono quasi... quasi certo di trovare qualcosa che potrebbe aiutarci. Non dico proprio una prova provata, di quelle che l'incastrerebbero sui due piedi. Dico anche solo un vizio di forma, un appiglio, un cavillo legale... Insomma: a un buon avvocato basta poco, perbacco! E da Caino in giù siamo tutti colpevoli di qualche cosa. Volete che proprio lui sia l'eccezione? Che abbia percorso le strade della vita senza mai schizzarsi le scarpe di fango? - Ah, certo - riconobbero gli altri. - Figuriamoci se proprio - Sicuro... - si animò il maresciallo. - Lo dice anche il proverbio: «Chi cerca, trova». Quindi stanotte faremo una visita allo studio del nostro caro direttore. L'Attilio sobbalzò spaventato, rovesciando a terra tutte le sue monetine. - Sei matto? - strillò. - E se ci pesca la Maria Spia? - All'infermiera ci penso io - promise il dottor Pastori. - Ve la leverò di torno, in un modo o nell'altro. - Lei è proprio un gran bravo figliolo, non c'è niente da fare! - si commosse la Pinuccia, prendendogli affettuosamente la mano. - No, non è vero. Questo è il minimo che posso fare per voi. Proprio il minimo, ve l'assicuro. Comunque una decisione l'ho presa anch'io: me ne vado via da qui. Proprio oggi ho presentato le mie dimissioni. Non voglio più saperne di certa gente. Credetemi, ne ho fin sopra i capelli. - Allora, a stasera dottore. - A stasera. E in bocca al lupo. - Crepi il lupo! - fece pronto Melchiorre, incrociando le dita per scaramanzia.

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