Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: a

Numero di risultati: 228 in 5 pagine

  • Pagina 1 di 5

Fisiologia del piacere

170835
Mantegazza, Paolo 16 occorrenze
  • 1954
  • Bietti
  • Milano
  • Paraletteratura - Divulgazione
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Il sentimento più semplice e più elementare è quello che ci spinge ad amare noi stessi, a difenderci dal male, ed a procurarci quanto può farci piacere. Esso porta infiniti nomi, ma è sempre una facoltà primitiva che preesiste a qualunque raziocinio; che entra subito in azione appena il bambino è uscito dal seno materno, e fors'anche prima, e che cessa soltanto coll'ultimo respiro. L'esercizio, o meglio, la sodisfazione di questo sentimento, produce un piacere, del quale noi non abbiamo coscienza che quando arriva ai massimi gradi. Questo piacere è uno dei più difficili a definirsi, perchè nasce da un sentimento che ne' suoi gradi minori è molto indeterminato. Nella prima età manca la capacità di una profonda riflessione, e la nostra coscienza è poco analitica; per cui non ci accorgiamo di amarci, e quindi non proviamo questo piacere. Nella giovinezza, i sentimenti dell'io sono soffocati dalla voce imperiosa degli affetti che traboccano da un animo appassionato, e che tendono a portarci fuori di noi. Non è che più tardi, quando le burrasche del cuore sono cessate, che la nostra coscienza può scrutare nel nostro intimo un sentimento, che ha fatto sempre parte integrante di tutti i nostri atti morali, che più d'una volta è bastato a calmare o a sollevare una procella, ma che noi non abbiamo mai saputo scorgere. È allora soltanto che l'uomo ha la calma sufficiente per poter gustare un piacere, che ne' suoi gradi minimi non è certamente morboso. Il piacere che nasce dall'amore di noi stessi ci presenta, come tutte le gioie, un fenomeno di riflessione, nel quale però la strada percorsa dalla partenza al ritorno è brevissima. Da tutti i punti sensibili del corpo partono molte impressioni che, arrivando alla nostra coscienza, si unificano nella sensazione complessa della vita. È questa che risveglia il sentimento affettuoso per noi stessi, che si riverbera calmo e soave nelle sensazioni che l'hanno prodotto. Questa gioia ci spinge a concentrarci in noi stessi, ma se ci si arresta appena un momento di troppo a compiacerci del nostro apprezzamento, si diventa egoisti, e il piacere che si prova è colpevole. In questo caso noi abbiamo uno degli esempi più delicati di un affetto indefinito e vago che cambia di natura appena salga di un grado. Del resto, è assai difficile che questo piacere esista da solo e che la coscienza lo possa riflettere un solo istante in tutta la sua purezza. Esso si associa per lo più ai piaceri dei sensi e dell'intelletto, ai quali fornisce nuovi elementi. Quando noi godiamo di vedere, di ascoltare e di pensare, senza volerlo ci rallegriamo anche di sentire il nostro io che vede, ascolta o pensa. Tutti i sentimenti poi che nascono in noi e in finiscono hanno per campo necessario d'azione questo affetto primitivo. Così tutti i piaceri della vanità, della gloria e del pudore sono fili tessuti sull'orditura dell'affetto per noi stessi. Questo piacere è gustato più dall'uomo che dalla donna, ed aumenta quanto più ci si avanza nel grado di civiltà.

Pagina 108

Essa è sempre bassa e meschina; e non si può facilmente compatire, perchè prostituisce il sentimento, facendolo servire a bassissimo scopo. La vanità fisica ci fa ridere molte volte con le sue goffe ingenuità, o ci interessa con la perfezione de' suoi artifizi. In ogni modo è una passione piccina che non usurpa mai lo scettro o la corona da re, e che presenta sempre un'armonia fra la meschinità dello scopo e la povertà dei mezzi. La vanità morale invece non ci può far ridere quasi mai di un riso franco ed espansivo, perchè essa ha sempre una forma anormale, ed è una vera profanazione del cuore, che offende in noi il sentimento della umana dignità. Anche la mente ha la propria vanità, e qualunque lode sproporzionata ai nostri meriti intellettuali può destare in noi una gioia colpevole. Quando arriviamo con artificio a procurarci l'adulazione, noi siamo ipocriti per la mente, come primo lo eravamo pel cuore. Questi piaceri spregevoli sono molto analoghi a quelli della vanità morale; e sono più freddi, ma non meno meschini. Il senso comune giudica a prima vista la meschinità di queste compiacenze, chiamandole superbiuzze, ambizioncelle, velleità dell'amor proprio. L'uomo che sa scrivere una serie di righe accentuate e rimate, e che, credendosi per questo poeta, porta sempre in tasca i propri sfoghi intellettuali, pronto ad annoiare il primo paio di orecchie cortesi che si prestino alla sua sete di gloria, prova sicuramente piaceri morbosi. L'autore che lascia sul suo tavolo sepolto sotto una catasta di libri suo ultimo opuscolo, che, quasi a caso, non presenta che il nome dell'autore, prova pure un piacere colpevole quando alcuno riesce a scoprire il prezioso lavoro, che pareva nascondersi con tanta ingenua umiltà. Lo studioso che ingombra la propria camera di libri tedeschi, inglesi, greci o spagnuoli, vuol far sapere a tutti che egli li sa leggere. Altre volte egli dimentica ancora a mezzogiorno la lampadina sul proprio scrittoio per far supporre a chi viene a trovarlo che ha vegliato nella notte e ha sudato le lunghe ore sopra una catasta di libri, che stanno tutti aperti l'uno sull'altro, e che hanno intercalate nelle loro pagine infinite liste di carte d'ogni colore e d'ogni grandezza. Gli autori di tutte le gradazioni mi perdonino, se ho svelato alcuno dei misteri della loro politica vanitosa, perchè la natura del mio libro esigeva la citazione di qualche esempio; e se essi consultano la propria coscienza, troveranno che ho avuto il merito della moderazione e che non ho svelato le più ridicole e le più incredibili fra le loro vanità. Io intanto perdono ad essi di buon cuore tutti i loro piaceri patologici, purchè riscattino le loro colpe con un tantino di sale. Tutti i piaceri della vanità, che abbiamo divisi artificialmente in tre classi, non differiscono che nella loro origine, e provengono tutti dalla sodisfazione dell'approbatività degenerata, o portata ad un grado morboso. Per lo più si combinano fra loro in diversi modi in uno stesso individuo, il quale non si abbandona alla coltura di un ramo speciale, se non quando spera una raccolta maggiore di frutti. Allora egli arriva qualche volta a sagrificare germogli minori della stessa pianta, onde la gemma prediletta abbia a crescere più rigogliosa. La nostra coscienza e l'opinione pubblica ci fanno decidere nella difficile scelta. La pianta della vanità, essendo perenne e molto vivace, pullula sempre teneri rampolli anche nei tronchi recisi; per cui, quand'anche possa presentarsi un sol tronco ben alto e diritto, esso è circondato presso a terra da una famiglia di polloni che gli fanno corona. Così la donna che, dopo aver consultato se stessa, ha trovato che il suo cuore e la sue mente promettono assai poco, si dedica in modo speciale alla vanità fisica; tanto più che la bellezza è nel suo sesso più apprezzata, ed ella si è già persuasa che la turba che applaude o fischia sarà più pronta a ricompensarla di un voluttuoso piegar dei fianchi, o della studiata posa di una gamba accavallata sull'altra, che per i tesori più preziosi della mente o del cuore. La vanità in tutte le sue forme è sempre fatale alla vita del cuore, il quale intisichisce e muore. La donna che vuol piacere a tutti non può amare alcuno, e quando l'uomo le domanda il cuore, ella non sa trovarlo, perchè l'ha tagliuzzato, e ne ha dato un briciolo a tutti i suoi adoratori. Più di una volta essa si accorge del vuoto, e pone in luogo del prezioso viscere che ha sperperato, un cuore artificiale di cartapesta o di gomma elastica, che giunge talvolta ad ingannare gli uomini di corta vista. Questi cuori, se non altro, hanno il vantaggio di saper resistere alle intemperie e di non invecchiare mai. Che il cielo pietoso ce ne tenga lontani! Queste gioie sono di tutte le età, ma la vanità fisica naturalmente non può brillare che nella giovinezza, senza correre il rischio di farsi deridere anche dai fanciulli. La altre due varietà invece si sanno coltivare meglio nell'età adulta. La civiltà è molto favorevole a queste passioncelle, le quali, essendo bizzarre e capricciose, trovano nei magazzini della moda sempre nuovi abiti per mascherare un fantoccio che è continuamente lo stesso. Le gioie della vanità si nascondono con tale artificio, che la loro fisonomia è poco conosciuta. Qualche volta però brillano di tanta luce, che gli occhi si fanno scintillanti, e tutta la fisonomia ne è raggiante. Spesso l'espansione del piacere è irrefrenabile, e l'uomo vano, tornando nella propria camera, si soffrega le mani, ride col proprio specchio, e si abbandona alla più sfrenata allegria, sghignazzando, saltando, gesticolando, parlando o canticchiando.

Pagina 133

Quando possiamo esprimere la prima idea di possesso, allora la gioia riesce canna e quasi inavvertita, perchè ci assorbe a poco a poco, man mano che va sorgendo la ragione. In seguito un sorriso di ineffabile compiacenza, una lenta fregatina di mani, o un accoccolarsi tiepido e soddisfatto della persona possono esprimere il piacere. I gradi massimi di gioia però si provano nel passaggio improvviso e inaspettato dalla miseria alla ricchezza, nel qual caso essa può esprimersi con un vero delirio passeggero, che giunge talvolta ad una insanabile pazzia. Il piacere di diventare milionario con un biglietto di lotteria è uno dei più intensi che si possano provare; perchè ad un tratto tutte le gioie possibili si affollano allo stato di speranza davanti alla mente, e tutti i desideri, precipitandosi in massa, quasi a voler entrare pressantemente per una stretta porticina, fanno nascere un tale scompiglio in tutte le nostre facoltà, da indurci in uno stato di vera frenesia. A parità di circostanze, l'uomo che gode maggiormente nel diventare milionario non è il povero nè il ricco, ma l'uomo agiato. In ogni modo, l'uomo che soffocato ad un tratto da tanta gioia di possesso corre a precipizio per trovare i parenti e gli amici, coi quali possa scaricarsi di una parte di piacere; salta, canta come un pazzo, dà calci ai tavoli, alle sedie, getta dalla finestra ogni cosa, e fa le più alte stranezze. Alcune volte rimane sbalordito, annientato senza poter parlare. Felici quelli che possono una volta nella vita provare un tal delirio, anche a rischio di diventar momentaneamente ridicoli!

Pagina 138

Abbiamo parlato dell'affetto per noi stessi, cioè del sentimento più puro in prima persona, poi siamo passati a poco a poco ad altri affetti, che vanno sempre più complicandosi per un elemento morale che è fuori di noi; per cui, attraversando di corsa il campo interminabile e misterioso dell'amor proprio, siamo arrivati ai piaceri che derivano dall'amore alle cose e alle bestie, nei quali la parte della prima persona prepondera ancora in modo straordinario. Ora ci troviamo nell'ordine naturale innanzi all'amore tra gli uomini, e ci vediamo aperto lo smisurato orizzonte dei veri affetti, nel quale brillano le passioni più fulgide della nostra vita e le gioie più sublimi del cuore. Qui il sentimento palpita più caldo e più impetuoso; e la penna che vorrebbe scrivere canna e sicura, guidata della mente inesorabile e fredda, vacilla nelle mano, perchè le armonie del cuore fanno fremere di gioia e trepidare di un santo timore. L'uomo, animale destinato a vivere in società, deve avere necessariamente un legame morale che lo unisce a' suoi fratelli, e la natura gli ha concesso un affetto primitivo che nasce in lui e con lui muore, e che, oscurandosi nelle burrasche più violente delle passioni, torna però sempre a risplendere nel cielo, appena la calma abbia diradato le nubi che hanno ottenebrato l'orizzonte del cuore. Questo sentimento lega quasi tutti gli uomini per mezzo di un filo misterioso, facendone un sol corpo, un solo individuo. I mari e i monti sembrano dividere qua e là la catena che lega gli uomini da un punto all'altro della terra, e gli odii delle nazioni e dei governi spezzano violentemente il filo degli affetti; ma la corrente emanata da un popolo che soffre o esulta, che s'innalza o si abbassa, se non può correre con rapidità telegrafica, si diffonde però lenta e calma una superficie della terra ed arriva a confondersi con la corrente sempre viva, che produce da ogni parte l'umana famiglia, divisa ne' suoi innumerevoli alveari. Qualche volta una scintilla emanata dal genio ha impiegato molti secoli a far sentire la sua scossa all'umanità intera; ma nessuna corrente è andata mai perduta, e nella vita morale che riceviamo per eredità di nascita e di educazione, si confondono ancora misteriosamente le conquiste di Alessandro, la caduta dell'Impero romano e le guerre dei Crociati. L'oscillazione partita da Betlemme, or sono venti secoli, va diffondendosi ancora nelle estreme regioni dell'Australia, a cui misteriosamente si affiancano i fremiti partiti dalla Mecca. A scosse impetuose, o per correnti insensibili, il minimo movimento fa oscillare l'umanità intera, l'elidersi e l'incontrarsi misterioso di mille fremiti che partono da ogni punto del mondo abitato costituiscono la vita morale dell'umana famiglia. Nei grandi centri della civiltà, dove gli operai della macchina sociale formicolano laboriosi, le scintille partono senza posa; e diffondendosi per la rete delle strade ferrate e dei telegrafi, fanno muovere le nazioni d'Europa e d'America ad una vita agitate e turbinosa; mentre nelle lontane colonie, le correnti emanate dalle grandi pile della civiltà, arrivano deboli e lente, sicchè non producono più nè scintilla, nè scossa. A poco a poco per la forza della pila si accresce, i fili telegrafici, per i quali corre il pensiero, si moltiplicano, e noi ben presto dal centro dell'Europa potremo far palpitare con noi della stessa vita i selvaggi della Patagonia e quelli della Micronesia. In ogni modo un sentimento collega l'uomo all'uomo in un moto di simpatia. Indeterminato e confuso, questo affetto è il fondo sul quale si intrecciano tutte le passioni più o meno violente che legano fra loro alcuni individui, e ben di rado si mostra in tutta la sua semplicità e senza che il cuore v'abbia trapunta qualche immagine più viva. Due uomini, che provano il piacere di avvicinarsi, soddisfano il più semplice di tutti i sentimenti di seconda persona, che potrebbe chiamarsi affetto umano e sociale. Ben di rado però questa gioia esiste da sola, perchè l'oscillazione comunicata a questo sentimento, trae quasi sempre in simpatia d'azione altri affetti che lo elidono o lo ravvivano. Così, se due uomini che si incontrano si fanno paura, l'amore di se stessi oscura subito il piacere di vedersi, ed essi si allontanano o si mettono sulla difensiva. Se invece i due uomini parlano una stessa lingua e si conoscono a vicenda, associano al piacere di sodisfare il sentimento sociale, la gioia intellettuale di comunicarsi i propri pensieri. L'affetto sociale è soddisfatto tutte le volte che noi accomuniamo la nostra vita con quella di un altro uomo, sia che guardiamo semplicemente, insieme ad uno sconosciuto, uno stesso oggetto, sia che ci trovi assieme a migliaia di persone ad assistere allo stesso spettacolo. La parte misteriosa che prende questo sentimento a tutte le nostre gioie, viene espressa complessivamente della parola compagnia; ma riesce molto difficile a definirsi. Nello stesso modo che probabilmente in tutti i corpi trovasi misteriosamente celato qualche imponderabile, così in quasi tutti i nostri piaceri entra, come elemento indispensabile, l'affetto sociale: anche in moltissime gioie individuali, senza volerlo, si vive e si gode insieme a un'immagine che è fuori di noi. L'egoista più perfetto può isolarsi finch'egli vuole, ma è pur sempre un membro dell'umanità che deve con essa soffrire e con essa godere; e l'uomo individuo può resistere fisicamente, ma non moralmente; perchè l'uomo-completo, l'uomo fisiologico è sociale e vive insieme all'umana famiglia, anche quando vuol isolarsi da essa nella solitudine più profonda. L'uomo che ha vicino un altro uomo, e non ha alcuna ragione di odiarlo, anche senza vederlo lo sente, e senza saperlo comunica moralmente con lui. Supponendo che un uomo privo di tutti i sensi, tranne del gusto, sappia di essere a tavola con altre persone, egli ne sente la presenza e gode della loro compagnia. In questo caso il suo piacere è semplice e puro, e non deriva che da una sodisfazione passiva del sentimento sociale; egli non vede nè ascolta i suoi vicini, ma sa di essere in mezzo ad esseri della sue specie, e ne gode. Questo affetto però è così delicato, che si lascia modificare dalle passioni più miti. Così basta che il povero cieco e sordo-muto pensi un momento alle sue sventure, perchè il dolore cancelli il piacere ch'egli prova, e, invece di amare i suoi commensali, li invidi e li odii. Il sentimento sociale non ha che un carattere vago e indistinto quando ci mantiene allo stato di potenza, ma prende invece una forma determinata quando passa allo stato di forza attiva. In questo passaggio esso presenta il carattere speciale di tutti gli affetti, di seconda persona ai quali serve di sfondo, e che tutti rappresenta nelle leggi fondamentali che lo reggono. L'egoista e il superbo possono agire con veemenza e passione per sodisfare i loro piaceri prediletti, ma riflettono sempre in se stessi lo scopo dell'azione; mentre l'uomo che ama di qualunque affetto un suo fratello, pone la sodisfazione del proprio sentimento fuori di sè e si rallegra delle gioie altrui, provando un piacere molto maggiore, quando egli stesso direttamente ridesta nell'altro la gioia.

Pagina 152

Il sentimento sociale che noi proviamo per tutti gli uomini indistintamente, a uguaglianza delle altre condizioni fisiche e morali, ci procura gioie molto diverse, secondo che chi ce le ispira ci è più o meno simpatico. Senza sapercene dare la ragione, molte volte, al solo vedere un individuo, noi proviamo o un senso di repulsione o un'indifferenza assoluta, o più spesso un piacere vivo e particolare, e siamo trascinati da una forza misteriosa a dimostrargli il nostro affetto e a farci a lui vicini. Per lo più la simpatia nasce contemporaneamente in due individui, e il piacere che ridesta nell'uno la vista dell'altro fa nascere in entrambi il bisogno di vedersi spesso, di cercarsi, di parlarsi, ed essi diventano due amici. Il sentimento sociale, che esiste sempre in noi allo stato di potenza, può ridestarsi ad un tratto, procurarci una gioia, e poi ritornare nella solita sua calma. Così, mentre forse noi siamo immersi nella meditazione intellettuale più profonda, o godiamo di uno spettacolo della natura, il nostro orecchio è ferito dalla invocazione di un uomo che chiede l'elemosina. Allora il sentimento sociale, ridestato dalla sensazione dell'orecchio, ci fa mettere la mano al borsellino, e, mentre porgiamo una moneta al mendicante, leggiamo sul suo volto la riconoscenza e la gioia, che ci procurano un piacere. Subito dopo la scintilla di gioia si è spenta, e noi, continuando la nostra passeggiata, non ci troviamo più in alcun rapporto morale coll'uomo che abbiamo soccorso. Ma se il giorno seguente, ripassando per lo stesso luogo, noi sentiamo ancora la voce querula del mendicante e poniamo ancora mano alla borsa, incominciamo a fare un passo verso una consuetudine, e la scintilla di gioia che proviamo incomincia a diventare una corrente; ed anche dopo qualche tempo, sebbene lontani dal mendicante, possiamo pensare a lui con compiacenza. D'altra parte, se il mendicante non è un semplice mercante che vende lacrime e lamenti per averne senza fatica il pane della vita, s'egli ha un cuore che sente, e s'egli riesce a distinguere, nel palpare la nostra moneta, ch'essa è calda d'affetto e che differisce dalle altre che sono gelate dal fiato della vanità, egli penserà a noi con piacere, e vedendoci arrivare ci distinguerà con un sorriso che noi potremo saper leggere e interpetrare. Per quanto siano fuggevoli e delicati questi rapporti che ci legano, se essi si ripetono a lungo, noi potremo amarci e diventare, forse, amici. La simpatia e la beneficenza sono le due fonti primitive dell'amicizia, la quale nella sua essenza si può definire per lo scambio di due sentimenti sociali molto vivi. Quando due persone, per una ragione qualunque, si rimandano spesso scintille di gioia, queste vengono poi a formare una corrente continua, una vera atmosfera che abbraccia in sè due esistenze. Allora l'uomo che ama, vive, almeno in parte, di una vita doppia; e, conservando nel suo cuore l'immagine dell'amico, sente i palpiti di un altro cuore a cui rimanda i fremiti del suo. Chi vuole che per ciò sia necessaria un'identica natura morale a costituire due amici; chi pretende invece che il contrasto dei caratteri favorisca l'amicizia: mentre altri, forse più diligenti osservatori, ci insegnano che un amico è complemento dell'altro, e che le facoltà di entrambi sommate insieme formano un'unica natura complessa, un tutto più o meno armonico. Basta però la più superficiale osservazione della vita che ci circonda per dimostrarci che l'amicizia può scaturire da sorgenti molto diverse, e che, avida di spazio, essa vaga libera in larghissimo campo, diffondendo a piene mani le sue gioie fra gli uomini i più somiglianti e i più dissimili. Non tutti gli uomini sicuramente possono essere amici fra loro, quantunque possano essere tutti onesti e dotati di delicato sentire. Due persone per ispirarsi il sentimento dell'amicizia devono convenire, almeno fino a un certo punto, nell'età e nelle proporzioni del sentimento e della mente. Nelle diverse età della vita si parlano lingue diverse, si battono diversi sentieri, si vive sotto un diverso cielo. Fra gl'individui d'età troppo disparata l'amicizia è impossibile; e quando questo nome si adopera ad indicare l'affetto che lega il vecchio al giovane, il fanciullo all'adulto, si commette un errore di logica. Il sentimento più vivo può riunire questi esseri diversi, ma esso non è costituito che dalla venerazione, dal rispetto, dalla riconoscenza o dalla stima. II calore di due esistenze si confonde per non costituire che una sola temperatura, un solo clima, nel quale vivono due esseri. Anche quando uno di essi si allontana, la sua immagine morale rimane al posto abbandonato; e l'amico la contempla con lo spirito, l'accarezza come si accarezza una cosa viva, la bacia con trasporto e ne sente il tiepido calore che emana solo dalle cose vive e da quelle che sono amate. Questo è l'affetto che lega due persone nel santo nodo dell'amicizia. Come l'età, così la soverchia distanza morale o intellettuale può frapporre un ostacolo insormontabile a ravvicinare due in modo da farne due amici. Qui però la difficoltà è minore. Ora lo sguardo affascinante del genio può a poco a poco avvicinare a sè un uomo che si trovava lontano e perduto nella folla; mentre altre volte la tiepida e profumata emanazione, che spira da un cuore sublimemente delicato, ravvicina a sè il cinico che cammina per vie battute e solo. Questa è anzi una delle forme più perfette e ammirabili dell'amicizia.

Pagina 161

I piaceri che ci procura quest'affetto sono innumerevoli, e sebbene improntati ad un carattere speciale, sono comuni a tutti i sentimenti benevoli. La gioia generale che, a guisa di atmosfera, abbraccia in sè tutti i piaceri minori, è il conforto di non sentirsi soli, su questa terra, di vivere doppiamente delle sensazioni di un altro uomo riflesso in noi, e dei nostri atti morali riflessi in lui. Dal momento in cui due uomini si son dati una stretta di mano, che non si dà che ad un amico, essi non possono compiere la più piccola azione senza ch'essa si rifletta nel cuore dell'altro, che ne partecipa come se fosse sua; e così vivendo di una vita comune, respirano, senza saperlo, le emanazioni di due coscienze. Questa comunanza di idee e di affetti sparge sulle azioni anche le più indifferenti un'attrattiva particolare, che rende cara ogni occupazione, quando viene partecipata dall'amico. Da questa fonte provengono tutte le gioie dell'amicizia. Questi piaceri calmi ma soavi, piccoli ma ripetuti, spandono una attrattiva particolare su noi, rendendoci tollerabili le continue piccole miserie della vita. Dal primo sbadiglio, col quale allo svegliarci si incomincia a presentire una triste giornata, fino all'ultimo stender lento delle braccia con cui si chiude un giorno noioso o nullo, l'amicizia è sempre pronta a consolarci e a distrarci. Ora rompe la nostra triste meditazione con un'insolente ma amabile sbrigliatina; or ci distrae con un lungo e vivo cicaleccio; or ci impone di ridere e di camminare, facendo da madre e da maestra. Le piccole gioie dell'amicizia non sono assolutamente riservate ai preziosi momenti della beata solitudine in due; ma spargono qualche fiore anche nelle circostanze in apparenza più sfavorevoli. Due amici si trovano disgiunti e allontanati nella folla: non possono forse indirizzarsi la parola, ma uno sguardo solo basta a provare una ineffabile compiacenza, quando i loro occhi s'incontrano senz'essersi invitati al saluto; quando uno stesso bisogno, sorto a un tempo in entrambi, li obbliga a cercarsi per scambiarsi un sorriso di critica o di lode, un fremito di piacere o un sospiro di noia. La comunicazione a distanza di due uomini che si intendono con uno sguardo in mezzo ad una folla di estranei, è sorgente di una gioia purissima e scintillante. Il pensare e il sentire la stessa cosa nello stesso tempo, e l'incontrarsi a vicenda con un sorriso di compiacenza e di sorpresa è una delle piccole delizie che rallegra spesso due uomini che si intendono a fondo e si amano. Le grandi gioie dell'amicizia costituiscono alcuni dei più preziosi gioielli dei tesori del cuore; e sono feconde di tale voluttà, che chi ebbe la fortuna di provarne una sola, si commuove al solo richiamarla alla mente. E chi non sente battere più forte il cuore alla sola idea di un amico che, dopo aver per lunghi anni aspettato il fratello d'elezione da lui disgiunto per immenso spazio di terreno, a un tratto lo vede apparire, sano, allegro, palpitante di affetto? In quel momento gli spasimi non mai dimenticati dell'ultimo saluto, e tutte le ineffabili reminiscenze del passato, si precipitano in folla verso il presente e si confondono col delirio della gioia tumultuosa inaspettata e veemente che inonda e soffoca il cuore. Gli occhi cercano di incontrarsi e di guardarsi, ma il velo delle lagrime ricopre l'orizzonte di una nebbia calda e vaporosa. Le labbra cercano di articolare una parola; ma non arrivano che allo sforzo di un bacio lungo, intenso, affettuosissimo. Le braccia si stringono e ravvicinano i due cuori che, palpitanti, concitati, battono l'uno contro l'altro. Chi è incapace di amare a questo modo e di delirare di queste gioie, non si rifiuti ad ammetterle, nè creda esagerato il mio quadro, che è anzi incompleto. Un'altra fra le gioie più grandi, delle quali è fecondo il santo affetto dell'amicizia, è il conforto che presta nella sventura. Noi ci troviamo in mezzo ad una fra le tante burrasche che agitano il mare della vita: sbattuta a lungo, e a lungo contrastando contro l'impeto de' flutti, finalmente la fragile navicella urta e si sfascia contro uno scoglio. Noi ne siamo i miseri naufraghi. Non importa d'onde venisse, nè quale fosse il vento che infranse i nostri alberi, che squarciò le nostre vele. Fu l'invidia degli uomini o la crudeltà del destino? Fu la mancanza di fede o l'abuso della vita? Non importa! Siamo sfiduciati di tutto; non possiamo sopportare lo spasimo del dolore che ci penetra fino nella midolla delle ossa, e ci fa rizzare i capelli sul capo. Straziati, torturati, vorremmo essere inghiottiti dal mare che, quasi a zimbello, ci ballonzola sulle sue onde, minacciando ad ogni momento di infrangerci contro lo scoglio della disperazione, e ad ogni istante con una crudele pietà ce ne allontana. E chi, allora, in mezzo alle nostre maledizioni e ai nostri tormenti, chi ci si avvicina pietoso, e soccorrendo le nostre deboli forze, che si ribellano contro la vita come contro la morte, ci depone nella navicella di salvataggio e ci porta al lido? Chi sostiene allora l'ingiusto furore che ingiuria il salvatore e la misericordia e la provvidenza? Chi ci riasciuga e ci riscalda? Chi riesce a calmarci ad un sonno, nel quale devono spegnersi le ultime onde delle nostre passioni? È il nostro amico, che, non avendo potuto scongiurare l'impeto della procella, nè tarpar le ali ai venti, ci ha seguiti con trepida angoscia sulla navicella di un affetto che mai non naufraga; è l'amico che sta ora intento o paziente col capo chino sopra di noi, spiando gli aneliti del nostro cuore e commentando coll'avida impazienza dell'affetto ogni nostro movimento, ogni nostro sospiro. E appena noi, confortati da un sonno benefico, riapriamo gli occhi alla luce, è l'amico nostro che ci sorride per primo, e ci accarezza, e ci richiama al sorriso e alla gioia. I piaceri dell'amicizia rendono insensibili a molte gioie grossolane, ed elevando il gusto morale a un sommo grado di squisitezza, educano le facoltà più nobili della mente e del cuore. Esse possono bastare a rendere gradita la vita, per cui più d'una volta guariscono dallo scoraggiamento ed eccitano al lavoro ed all'operosità. In questo modo sono stati salvati non pochi che altrimenti si sarebbero consumati nell'ozio con cinismo ed apatia. Finchè si ha un amico, non si deve disperare della vita, e soltanto quando tutti gli uomini ci saranno divenuti indifferenti, e noi ne misureremo il valore dal vantaggio che se ne potrà ricavare, allora soltanto potremo fare i funerali al nostro cuore, perchè esso sarà morto, inevitabilmente morto. Le piccole gioie dell'amicizia possono rallegrare anche la vita del fanciullo, ma i piaceri più elevati non sono concessi che al giovine; all'adulto e al vecchio. In generale l'amicizia più calda e più generosa si prova nella primavera della vita; ma come si può serbarci generosi fino alla estrema vecchiaia, così si può godere fino alla decrepitezza delle gioie più delicate e sublimi di questo sentimento. La donna gode dei tesori dell'amicizia assai meno dell'uomo, perchè la formidabile passione dell'amore, che in lei regna sovrana, le piccole invidiuzze, le rivalità latenti, mille frivolezze suscettibili di disappunti, le impediscono il più delle volte di amare un'amica con tutto l'ardore. L'amicizia è possibile in tutti i paesi e in tutti i tempi; la civiltà però può esercitare una minima influenza sulle sue gioie più grandi e più sublimi che si fondano sulla generosità del cuore, e non sulla cultura della mente.

Pagina 164

Toccando a piccoli intervalli e con leggeri strofinamenti alcune regioni del nostro corpo, o colle dita nostre o d'altri, od anche con un corpo estraneo, si produce in moltissimi una sensazione particolare, la quale non è piacevole che fino ad un certo punto, e può diventare intollerabile e dolorosa quando si continui o si esageri l'azione che la produce. A indurre il solletico si richiede una grande sensibilità; per cui nè tutti gli individui nè tutte le parti del corpo possono dare questo piacere. La pianta dei piedi, il cavo ascellare, il ventre, e in generale tutte le articolazioni, sono le regioni che più delle altre risentono questa specie di sensazioni. Gli individui di temperamento nervoso, i fanciulli e le donne vi sono in generale più disposti; ed alcuni vi sono tanto sensibili, che basta a metterli in orgasmo l'avvicinarsi di una persona che tenga le mani in atto di tentare il solletico. Il contatto produce questa sensazione tanto più facilmente quanto più è lieve o suddiviso; per cui un fuscellino di paglia, una piuma o una spazzola sono mezzi eccellenti per produrre il solletico. In ogni modo il primo effetto del contatto è un riso smodato accompagnato da moti convulsivi diretti a sfuggire il corpo che ci tocca. La faccia si fa accesa, il polso accelera, il piacere si diffonde a larga superficie del corpo; si alzano grida acute, la respirazione è irregolare, e, se l'attacco continua e noi non possiamo difenderci, il piacere cessa e la sensazione, diventando insopportabile, ci induce a difenderci colla fuga o con vie di fatto da chi abusa della nostra pazienza. Anche la morte può essere conseguenza di un solletico troppo prolungato. Da una parte abbiamo una sensazione leggera e dall'altra una reazione straordinaria di tutti i muscoli, e perfino del diaframma, il quale viene spesso spinto ad una vera convulsione. Il rapporto tra causa ed effetto è veramente sproporzionato, e ci fa sospettare che questo fatto appartenga già alla classe dei piaceri patologici.

Pagina 17

Così un uomo che manda a noi una sol volta l'immagine di un'azione grande per intelletto, ci ispira l'ammirazione, la quale può arrivare a un tratto alla venerazione o all'adorazione, se il raggio di luce che ha colpito la nostra coscienza era vivissimo e fulminante. In generale, però, la stima per le azioni, sommamente vere o belle, derivanti dall'intelletto, emana una luce che può esser molto viva, ma che è sempre più o meno fredda. Invece il raggio più mite, che diffonde intorno a sè un'azione buona, arriva caldo alla nostra coscienza e fa oscillare subito per simpatia d'azione il nostro cuore. In ogni modo, sotto tutte le sue forme, questo sentimento è sempre nobile, perchè in esso l'egoismo è sempre vinto dalla generosità, e la formidabile parola dell'io è cancellata dalla grande rivale del tu. Quando si ammira, si riconosce una superiorità qualunque, si fa atto di sudditanza, si fa violenza alla vanità, perchè voglia sottoscrivere il documento di una inferiorità. Siccome però l'egoismo è un elemento necessario all'organizzazione morale di tutti gli individui, i quali lo posseggono soltanto in diverse proporzioni; così ne viene che esso lotta sempre più o meno col sentimento della stima, concedendogli una parte maggiore o minore di gioie. Vi sono uomini di una superbia eccessiva, che non hanno mai stimato e venerato alcuno, e che, presi alla strozza dalla verità, pronunciano col labbro un atto di ammirazione che cancellano subito col cuore. Per questi la gioia di ammirare e di venerare è lettera morta. Moltissimi altri non sanno stimare che gli uomini grandi, che sono separati da essi da largo spazio di terreno o di tempo, e non possono sopportare la più piccola superiorità che li avvicini, e mentre prestano forse un culto di adorazione per Cesare, per Newton o per Napoleone, soffocano di bile fiutando appena l'odore acre e insoffribile che emana da un titolo accademico, o da un pollice di nastro all'occhiello di un loro simile. A nostro conforto però abbiamo uomini eletti che, senza esser grandi, sanno ammirare ciò che è grande, e che senza aver mai potuto oltrepassare nella vita del cuore la barriera della bontà e del dovere, possono piangere di commozione leggendo, ad esempio, la storia di Romeo, o assistendo ad una azione nobile e generosa. L'ammirazione che si presta ai grandi che più non sono, può diventare un vero culto, una vera adorazione, ma la mente vi entra assai più che il cuore. Questi piaceri si provano anche nella stima che si professa pei contemporanei di mente sublime, o per uomini in cui si onora la vecchiaia onesta e dignitosa. Tutti i piaceri che si provano in questi diversi casi richiamano alla mente la luce pacata e tremula della luna che rischiara, ma non riscalda. Le altre gioie invece sono più calde, più vive, più palpitanti, e assomigliano alla luce del sole. In questo l'uomo grande è presso noi, e la luce che egli diffonde all'intorno ci fa fremere e sospirare. A questa classe di piaceri appartengono ancora le sensazioni deliziose che si provano nell'essere spettatori di una azione nobile e generosa. Queste gioie variano di grado secondo il merito dell'azione, ma sono sempre calde anche nei gradi minimi. Come tutti i sentimenti, anche la stima può procurare infiniti piaceri molto diversi fra loro. Tutti i sensi e tutte le facoltà morali possono servire come strumento a suscitare la gioia. La semplice vista di un autografo di persona insigne può far palpitare di piacere, come un cieco può piangere di gioia palpando colle mani intente un oggetto appartenente a un grande ch'egli apprezza e onora. Chi sentì l'armonia che Rossini dedicò alla sua tomba, provò sicuramente un piacere a cui partecipò anche l'orecchio. Lo stesso si può dire di chi legge per la prima volta l'autobiografia di un grande, lasciata in eredità a quelli che non furono suoi contemporanei. Altre volte la gioia spetta a un sentimento diverso, e riceve una leggera sfumatura dalla stima. Così si può prestare il culto della gratitudine più viva al proprio benefattore; ma se questi è venerabile per un'onorata vecchiaia e per meriti di mente e di cuore, non è che con trepida gioia che lo si saluta e gli si bacia la mano. La gioia della venerazione si prova, in tutta l'ideale purezza, nel culto che si presta a una madre decrepita o ad un grand'uomo che, vecchio e cadente, manda ancora un raggio di viva luce dalle stanche pupille. L'esercizio di queste gioie rende migliori tutti i nobili sentimenti, umilia la superbia o eleva la vanità al grado di nobile ambizione. Più d'una volta il culto prestato ad un genio bastò a indirizzare la vita a un nobile scopo, e a far cogliere il premio d'una corona d'alloro. Queste gioie non sono di tutti, e ognuno le prova in grado molto diverso. La donna ne gode senza dubbio più dell'uomo. Esse sono più vive nell'adolescenza e nella giovinezza, e nelle nazioni incivilite. Non saprei dire con sicurezza se gli antichi sapessero venerare più di noi gli uomini grandi; ma inchino a credere che anche in questo caso la civiltà abbia contribuito ad accrescere in massa dei piaceri.

Pagina 186

La prima, soffrendo assai più del secondo, avrebbe maggior diritto a pretendervi; ma anche il diritto è un'altra cambiale che non si paga sempre in tutti i luoghi e in tutti i tempi, quantunque sia sottoscritta dal più sacrosanto dei banchieri e bollata dalla religione e dalla morale. Le sole cambiali del diritto, pagabili sempre e dovunque, sono quelle avallate dalla forza. Si spera in tutti i paesi del mondo; si è sperato e si spererà in tutti i tempi. La speranza è cosa necessaria all'uomo quanto il mangiare, il bere e il respirare. La fisonomia delle gioie della speranza è molto espressiva in alcuni casi, mentre in altri è insignificante. Come tutti i piaceri che durano a lungo, quelli che derivano dalla speranza ora si tengono allo stato di fiamma lenta e pallida, ed ora mandano scintille lucide e crepitanti. È solo in questo caso che la fisonomia della gioia appare saliente. Il tratto più caratteristico dei piaceri della speranza è lo sguardo intento al cielo, e tutto l'atteggiamento della persona composta a una trepida confidenza e ad un'estasi misteriosa. Gli occhi fissi al cielo dimostrano l'aspirazione del desiderio che si innalza verso le regioni sconfinate della fede; mentre l'incertezza oscillante dei tratti del volto che esprimono una gioia esitante o un dolore che passa al piacere, indica mirabilmente la fluttuazione indeterminata, propria a questo stato del cuore. Io non oso ammettere che la speranza possa arrivare a un eccesso di vita, a una vera lussuria di produzione da meritare l'appellativo datole da alcuni filosofi di meretrice della vita. Per me la speranza è sempre un angelo consolatore, che ci conforta anche quando ci illude, e che ne' suoi errori pecca sempre per eccesso di buon cuore, solleva e ristora, medico e guarisce; ma non prevede il male.

Pagina 202

Così, quando ci decidiamo a passeggiare o a studiare, a fare il bene o ad assecondare la passione, esercitiamo sempre la volontà, ma non ce ne accorgiamo: il sentimento o il lavoro intellettuale che domina, assorbe l'esercizio del volere, il quale non è che un momento necessario di un fenomeno complesso. È soltanto quando la volontà deve esercitare una determinata forza per vincere una qualche resistenza, che l'uomo può compiacersi di volere, e, fermando l'attenzione sul momento fuggitivo di quest'atto mentale, può provarne una gioia. Siccome, in ogni caso, un atto qualunque di volontà è posto fra una forza e una resistenza, fra un desiderio ed uno scopo, così è rarissimo che la gioia della volontà sia assolutamente pura e isolata, mentre quasi sempre trae con sè in simpatia di sensazione l'elemento che la precede, o quello che la segue, o entrambi assieme. Così, ad esempio, noi siamo destati al mattino dalla sveglia, che ci chiama al lavoro prefissoci fin dalla sera precedente. Quel suono stridulo e petulante ci rompe a un tratto il sonno, e, facendoci sentire per un momento la beata compiacenza del riposo, ci spinge più che mai a richiudere le palpebre. L'amor del lavoro però ci richiama, il dovere ci tien desti. Posti tra due forze contrarie, restiamo incerti per qualche tempo, finchè balziamo vittoriosi dal letto. Può darsi che in questo caso il massimo piacere derivi dall'esercizio della volontà, ma è quasi impossibile che ad esso non si unisca una sodisfazione dell'amor proprio, o una gioia data dall'amore al dovere. I piaceri della volontà sono tenacemente cementati con altri elementi, e si tengono sul punto centrico che riunisce i tre regni dell'uomo morale: intellettuali per se stessi, possono estendersi sul terreno dei sensi e del sentimento. L'amor della lotta e l'amor proprio, sotto tutte le forme, sono gli elementi inseparabili nella gioia che nasce dall'esercizio della volontà. In qualunque atto energico si ha sempre una lotta e una probabile vittoria; non può quindi mancar quasi mai il piacere che accompagna il cozzo di due forze e la compiacenza del premio. Negli atti del volere esercitati sopra noi stessi e l'amor proprio che ci incorona; quando invece dirigiamo la volontà sopra gli altri, chi ci ricompensa è l'ambizione. Il piacere di comandare a se stessi consta dell'esercizio della volontà e della approvazione che ci decretiamo, mentre le gioie del comando si riducono quasi tutte all'esercizio del volere e dell'ambizione. Tutti i sentimenti buoni e cattivi possono poi pagare il loro tributo a queste gioie, senz'essere però strettamente necessari. Si può comandare a se stessi con vera voluttà un'azione indifferente dal lato morale, come si può compiacerci infinitamente di essere ubbiditi da altri, senza che questo ci procuri ricchezza e onori. In tutti i casi la compiacenza più pura del volere è una vera gioia: indirizzata al bene, essa ci rende capaci delle più grandi gesta, perchè cresce coll'esercizio e diventa avida sempre più di sforzi maggiori. Oggi abbiamo dato un giro alla manovella che serra le nostre passioni, domani ne daremo due, poi tre, poi quattro; si arriverà in certi casi a una vera rabbia convulsa di volere tutto ciò che è difficile, di sentirci padroni di tutte le nostre facoltà. Vi sono momenti per gli uomini di ferrea volontà nei quali essi si sentono sovrani dispotici di se stessi e, quasi serrassero in pugno il cuore e il cervello, godono di un vero spasimo, pensando che con uno stringere o un allentare di palme possono soffocare il cuore o lasciarlo palpitare gonfio di vita, possono far tacere il pensiero o abbandonarlo alla più spontanea e tumultuosa attività. Difficilissimo però è il non abusare della volontà, quando essa ci è concessa dalla natura robusta e prepotente. Si può cominciare con la più innocente ostinazione, o coi giuochi più comuni del volere, e si può finire colla tirannia più feroce esercitata sopra sè o sopra gli altri. In questi casi si diventa adoratori maniaci della propria forza, e, dimenticando che essa non è che uno strumento accordatoci per pervenire al bello, al buono e al vero, si rende la volontà scopo a se stessa. Si immaginano gli sforzi più straordinari, si tentano le prove più ardite di ginnastica morale, e si arriva a comandare a se stessi l'amore o l'odio, il riposo o il lavoro, la virtù o il vizio. Questi atleti della volontà, quando dànno una direzione unica alla forza che si sviluppa in essi, possono arrivare ad una straordinaria altezza, sia nel vizio come nella virtù. Il governo della loro mente si riduce a un principio che domina sovrano e che comanda a tutte le facoltà soggette per mezzo della volontà. Tutti i sentimenti, dai più generosi ai più vili, tutti i poteri intellettuali non possono agire per propria ispirazione. Una delle forme morbose più frequenti della volontà è l'ostinazione. In questa malattia l'uomo esercita un grande sforzo di volontà per un'azione che non lo merita, e continua a volere anche quando la ragione o il dovere dovrebbero persuaderlo a mutar d'avviso. Nei piaceri ch'egli prova entra quasi sempre l'esercizio di una lotta, o una sodisfazione colpevole dell'amor proprio. In ogni caso l'ostinazione è sempre un aborto o una forma mostruosa di una potenza nobile e generosa, e va quasi sempre unita, all'ignoranza o alla vanità. In alcune forme di capricci, che riescono tanto cari ai fanciulli e alle donne, entra sempre, come elemento principale un abuso della volontà, e la fisonomia di queste gioie, a differenza delle altre che spettano alla stessa famiglia, presenta un carattere meschino nel quale entrano sempre un dispetto e un piacere. I piaceri fisiologici della volontà sono meglio gustati dall'uomo, giovane o adulto. Credo che nei paesi del nord questa facoltà abbia una tempera più robusta. La massima differenza però è segnata dall'organismo individuale. Alcuni non hanno mai provato una sola gioia pura del volere, mentre altri coltivano questi piaceri con una sollecitudine speciale, e se ne regalano ogni giorno una certa dose. Si può esser grandi anche senza aver mai provato la ferrea gioia del volere; ma non si può possedere questa forza, a un dato grado di potenza, senz'avere una certa superiorità nel bene o nel male.

Pagina 230

In questo lavoro, però, non potendo percorrere che un'unica strada, si è scelta quella dell'analisi, più lunga e viziosa, e perciò più opportuna per fermarci più a lungo nelle regioni che abbiamo impreso a studiare. Ma ora, prima di prendere commiato da voi, vi farò ammirare per un istante la magnifica strada maestra della sintesi, la quale, diritta e maestosa, fa percorrere nel più breve tempo possibile il grande viaggio.

Pagina 242

La sensibilità generale, diversa nei diversi individui, li rende atti a raggiungere gradi maggiori o minori di piacere in una medesima sensazione, come la prepotenza di alcune facoltà sopra le altre determina una prevalenza di certi bisogni, e quindi di corrispondenti piaceri. Molti uomini sono, a questo riguardo, monomaniaci, o poco meno. L'esercizio di una data facoltà e dei relativi piaceri tende a perfezionarli sempre più in questi, per cui spesso diventano insensibili ad altri piaceri, che hanno trascurati per abbandonarsi alle gioie predilette. Qualche volta la monomania cresce a tal segno da far loro avere in odio alcuni piaceri, che pur sono innocentissimi, ma che hanno l'unico torto di non essere i loro prediletti. La maggior parte degli uomini però è dotata in proporzione mediocre di tutte le facoltà, e nessuna predomina in modo prevalente, per cui anche i piaceri si riducono a una media proporzionale che si può adattare a quasi tutta la massa delle generazioni di ogni tempo e di ogni paese. Molti individui non si dànno la briga di cercare una formula di piacere che si adatti ai propri bisogni. Alcuni arrivano perfino alla ridicola enormità di voler godere secondo un celebre autore. Queste però sono eccezioni mostruose, e, in generale, l'opinione pubblica, facendo da cerretano, vende a buon patto, a quasi tutti gli uomini volgari, alcune formule di piacere che si adattano ai tempi che corrono.

Pagina 258

Dopo aver succhiato per lunghe ore il suo mate, contemplando con sovrana compiacenza i buoi erranti nello smisurato mare erboso della pampa, egli monta il suo migliore cavallo, e percorrendo a volo le molte leghe che lo separano dai suoi vicini, si trova ben accolto dovunque e festeggiato. Il suo asado (arrosto) è sempre grasso, il suo mate è sempre ottimo, le sue notti sono tranquillissime. Le sue vacche e le sue cavalle hanno sempre partorito nei suoi campi. Quell'uomo è felice. II. - Don Diego Figueroa, educato nel seminario di Salamanca, ha imparato a memoria le opere di S. Domenico e di S. Ignazio. Casto, temperante, crudele, non ha mai veduto nella religione cattolica che gli abusi dell'intolleranza, e soprattutto ha lodato il rogo, il cilicio e l'inferno. È maestro di scuola in un piccolo villaggio della Mancha: ha sempre molti fanciulli ai quali può far sangue con lo scudiscio o dare alcuni tratti di corda: ha sempre il suo cioccolatte alla mattina, il suo breviario alla sera. Il suo danaro vivrà più a lungo dei suoi mobili e del suo scheletro. Egli è felice. III. - John Fitz del Massachusset, figlio di uno scrivano, fu fattorino di bottega, poi commesso viaggiatore, quindi socio d'una casa a Nuova-York. Ammogliato a 20 anni, aveva a quell'epoca una rendita di 200 dollari all'anno; a 25 ne aveva 2000; ora ha 50 anni e 5000 sterline di rendita annua. La moglie è economa e sana; la figlia è maritata con un ricco negoziante; il thè e il pudding sono sempre squisiti; la bibbia non manca mai al suo posto. I giovani del negozio sono intelligenti e onesti, i libri mastri sono in regola. John Fitz è felice. IV. - Jacob Dummel di Weimar è professore di filosofia. Si è sempre forzato di limitare nel circolo più ristretto possibile i suoi bisogni; vive di pane e latte, cambia un vestito ogni quattro anni, e dà ai poveri tutto il denaro che gli resta del suo onorario. Sempre sano, sempre sepolto fra i libri, senza desiderii e senza bisogni: egli è felice. V. - La contessa de Saint-Armand, ricca, bellissima e amabilissima, ha un cattivo marito ed ottimi adoratori, una buona carrozza e un palco all'Opèra. Il suo buon gusto nel vestire è sempre lodato; non ha mai ricevuto un'offesa all'amor proprio, nè ha mai supposto che si possa dormire fra altre lenzuola che non siano di tela di Olanda. Ella è felice. VI. - Chiang-fou, stabilito a Giava da molti anni, offre i suoi servigi al pubblico come facchino, e corre poi nella sua capannuccia, dove si richiude con una pipa e dell'oppio; non ne esce che per lavorare due ore e comperare altro oppio. Immerso tutto il giorno nella beata fantasmagoria del narcotico orientale, egli ha compassione del governatore di Batavia, che deve lavorare tante ore del giorno e attendere a tanti affari. L'unica inquietudine che lo ha tormentato per qualche secondo nella sua vita fu quella di domandare a se stesso perchè mai gli uomini si affatichino tanto sotto il sole per andare in cerca della felicità, quando Dio concede a tutti il divino succo del papavero. Egli è felice. VII. - W., nato re, non ha mai dubitato degli elogi dei suoi cortigiani, nè mai ha abusato del potere contro il suo popolo. Amato da tutti, lieto nel circolo della famiglia e contento sul trono, egli non ha mai guardato con desiderio la carta geografica invidiando regni ben maggiori del suo. Sicuro di morire in trono, lascia una numerosa famiglia, a perpetuare la sua stirpe. W. è felice. VIII. - Antonio Borghesi, d'anni 45, a cui nel passaporto i più acuti impiegati di polizia non hanno saputo denotare i lineamenti che colla parola di regolare, era dottore in legge a 24 anni, poi alunno di concetto, poi aggiunto, ed ora è pretore. Sa di diventare fra pochi anni consigliere. È celibe e baffuto, digerisce bene e fuma toscani. Egli è felice. IX. - II barone Zillersberg è guardasigilli del granducato di Oldemburg. Nato nobilissimo, profondo nella scienza araldica, gode della confidenza del suo sovrano; non ha mai steso, neppure per distrazione, la mano ad uomo che non avesse gli otto quarti nobiliari. Ha sempre una cravatta ben dura, e la spina dorsale elasticissima. Non ha mai pianto perchè non ha mai sofferto; non ha mai riso perchè il riso secondo lui è plebeo. Egli sorride sempre a tutti e per tutto. Perchè mai non sarebbe felice? X. - Vincenzo Nardi di Milano, figlio di facchino e sempre facchino dacchè ha avuto muscoli, pensa rimanerlo finchè avrà vigore a sufficienza. Ha sempre buon appetito, un buon pugno per difendersi ed offendere, una buona gola per giuocare alla morra e per tracannar litri senza numero. Non ha mai dubitato di sè, nè degli altri. La sua forza non gli è mai venuta meno; spera di serbare qualche quattrino per la vecchiaia. Egli è felice. XI. - Peter Roberts, nato debole e crudele, fu monello di vie, poi ladro, poi carceriere. Ebbe l'onore di supplire il boia e spera di succedergli nella carica. Conosce tutte le bestemmie della lingua inglese, tutte le bettole di Londra, ed è il primo buongustaio di gin che calpesti il suolo britannico. Non ha mai amato nessuno ed ha odiato tutti. Egli è felice. XII. - Elisa Dewees è nata tra i fiori e l'armonia. Educata nel lusso, in un'atmosfera di morale e di religione, non ha mai letto libro che non fosse santo, nè mai udito una parola che potesse offendere il più casto orecchio della Scozia. A 18 anni vide un giovane e lo amò. Unita a lui per sempre, ne vide mille altri e non gli parvero che uomini, mentre suo marito è un angelo. Fra poco realizzerà il sogno di tutta la giovinezza, quello di visitare l'Italia. Crede che i poveri siano fatti da Dio per esercitare la carità dei ricchi, nè mai ha domandato al Creatore perchè abbia dato il veleno alle vipere e le spine alle rose. Ella è felice.

Pagina 276

Tra queste ponetene mille altre che servono a rannodarle ed a ravvicinarle, e voi avrete rappresentata la coscienza del piacere riflesso nell'umanità intera.

Pagina 283

Tutti questi piaceri sono fisiologici, cioè conformi a natura, e non diventano morbosi che quando vengono goduti a scapito delle facoltà più delicate del sentimento e dell'intelletto. L'uomo che li sa dominare, senza mancare di desideri, riporta una delle vittorie più difficili e rare, giacchè i piaceri del sesso sono le voluttà più violente del senso e, per moltissimi individui, le maggiori di tutta la vita. I piaceri venerei goduti con saggia economia non fiaccano che per pochi momenti l'uomo, e non esercitano che un'influenza molto minore sulla donna. La debolezza che li segue attacca l'apparato muscolare, il senso, il sentimento e l'intelletto. Il pensiero è lento e impacciato nella sua azione, le sensazioni sono ottuse, e l'aumento dell'appetito e il bisogno di riposo invitano l'uomo a riparare alla perdita di sostanza e a rianimare col sonno l'abbattuto sistema nervoso. La vita intera viene pure modificata dalla somma di molti atti voluttuosi successivi, e il sentimento ne risente la massima influenza. L'esercizio della funzione del sesso, formando il primo anello della catena sociale, ci rende più affettuosi e facili a compatire e a perdonare, mentre la vittoria completa sugli istinti della carne sublima le facoltà intellettuali a scapito del sentimento, oppure ci fa schiavi dei brutali piaceri della tavola, qualora la mente non abbia che pallidi bisogni. I piaceri del sesso hanno poi un'importanza molto diversa nella vita dei singoli individui. Chi è capace di godere dei tesori dell'intelligenza o delle squisitezze del sentimento, non dedica ai piaceri sessuali che una piccola parte di se stesso, mentre altri, per imperfezione congenita o per abbrutimento della condizione sociale, dedica la maggior parte delle sue forze alle lotte amorose. La monotona e lurida stoffa della vita di molti non porta altre tracce che una serie più o meno interrotta di punti segnati dai labili delirii di amplessi volgari. Per fortuna, però, gli individui normali, equilibrati, che non eccedono nè nell'astinenza, nè negli abusi, sono l'assoluta maggioranza, e questi della funzione, eminentemente volta alla riproduzione della specie, non fanno solo una fonte di godimento, e nemmeno la trascurano a danno dell'incremento demografico.

Pagina 36

I piaceri infiniti che godiamo per mezzo dell'udito si possono dividere in due grandi classi, a seconda che derivano dai rumori o dai suoni. Un rumore qualunque può riuscire qualche volta piacevole per la sola ragione che esercita il senso dell'udito senza stancarlo. II piacere in questo caso è quasi sempre debole, a meno che ragioni speciali non concorrano ad aumentarlo. Così il prigioniero che ha passato lunghi anni nel silenzio d'un carcere, uscito d'un tratto nel mondo, ascolta con avida brama i rumori della vita operosa che lo circonda. Così il sordo, che viene a un tratto guarito con l'estrazione di materia. sebacea che gli otturava l'orecchio, si esercita, coll'ingenuità di un fanciullo, a produrre rumori d'ogni specie per persuadersi che egli ode. Fuori di questi casi eccezionali, non vi è che il bambino il quale goda di qualunque rumore, purchè nuovo e non stanchevole. I rumori infiniti e gli schiamazzi insopportabili ai quali si compiace l'uomo-fanciullo, sono per lui studio di sensazioni e fonte di piaceri. Alcuni rumori sono piacevoli, perchè, essendo intermittenti, riposano ed esercitano alternativamente il senso dell'udito. Così non v'è alcuno il quale in sua vita non abbia passato qualche quarto d'ora battendo sul tavolo i polpastrelli delle dita, o percuotendo le molle contro gli alari negli ozi del focolare, o picchiando il piede contro terra nelle noie di una insipida conversazione. Queste sensazioni piacevoli sono forse il primo elemento della musica, o almeno formano un anello di congiunzione fra le due grandi classi dei piaceri dell'udito. Un rumore forte e improvviso, che rompa a un tratto il silenzio per cessare subito dopo, può produrre un piacere per la scossa che comunica ai nervi sensori. In questo caso la sensazione non deve essere nè troppo debole, nè troppo forte. Il fischio d'una locomotiva, lo sparo d'un fucile o d'un fuoco d'artifizio, un unico tocco di campana che si perda nell'aria, o in tonfo d'un corpo pesante che cada dall'alto nell'acqua, possono produrre piaceri di questa natura. Altre volte la sensazione è piacevole per un carattere particolare, che solletica o commuove in modo speciale i nervi dell'udito, come il versarsi del grano in uno staio, il lacerarsi d'una stoffa di cotone, il rovesciarsi d'un carro di sabbia, lo stormire delle frondi, lo scrosciare d'una cascata, il fremere delle onde, il gemere dei venti, il rimbombar del tuono, e tanti altri rumori di natura molto diversa. Un rumore può arrecare piacere quando, senza cambiare di natura, muta di grado, salendo o decrescendo a poco a poco. In questo caso la ragione principale del piacere sta nell'attenzione prolungata, la quale eleva la sensazione ad un grado massimo di intensità. Basta rammentare il rumore di una carrozza o di una locomotiva, il fremito d'una verga metallica. Quando il suono va decrescendo, più d'una volta il nostro orecchio raccoglie avidamente le ultime vibrazioni sonore che vanno perdendosi, quasi a misurare la delicatezza del senso. Un altro piacere si ha nel contrasto di due rumori che si succedono, e che possono differire nella natura o in amendue questi elementi. Così il pesante martello del fabbro, che batte ora sull'incudine ed ora sul ferro rovente, può arrecarci in questo modo un piacere; nella stessa guisa l'eco ci interessa così vivamente nel confronto dei due suoni analoghi. Le più grandi gioie però che ci forniscono i rumori non sono le sensazioni per se stesse, quanto le immaginazioni e le idee che ci ridestano. In questo caso il senso non serve che di strumento, e il piacere è quasi puramente del sentimento o dell'intelletto. Alcuni rumori fragorosi, come quello del martellare e dello stridere della fucina, possono ridestarci all'operosità e all'energia; altri rumori monotoni e lenti, come quello del pendolo o del fluire blando delle acque del fiume, possono ispirarci alla calma ed al riposo. Lo stormire delle fronde e il fluttuar delle onde sulla sabbia della riva ci portano ad una soave melanconia e ad inenarrabili voluttà. Altre volte lo strascico di una veste di seta può ridestarci immagini lascive. Spesso il rumore di un vaso che si rompe ci fa sorridere all'idea del disappunto del malaugurato a cui è capitato l'accidente. Infine sono tali e tante queste sorgenti di piaceri, che il solo enumerarle sarebbe un improbo lavoro. Basterà dire che in qualche caso il piacere prodotto da un rumore può arrivare ai massimi gradi dell'umano sentire. Ciascuno può, a questo proposito, immaginare il delirio di gioia che può provare un prigioniero condannato a morte, che, dopo aver lavorato lunghe ore attorno alla porta che lo rinchiude, sente a un tratto, contro ogni speranza, lo scatto della serratura scassinata.

Pagina 70

Come presentarmi in società

199953
Erminia Vescovi 34 occorrenze
  • 1954
  • Brescia
  • Vannini
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Dinanzi a sè vede braccia amorevoli tese a invitare e a sorreggere, tutto intorno a sè non vede che sorrisi; par che il sole non abbia altro ufficio che splendere sulla sua letizia, la terra non debba produrre erbe e fiori se non per offrirglieli; che il canto degli uccelli, il mormorare delle acque non abbia altro scopo che il suo diletto. Oh, vorremmo dire col Prati:

Le argute pagine dell'Osservatore, di Gaspare Gozzi, trattano spesso qua e là il tema delle cerimonie e dei convenevoli, tema importantissimo a' suoi tempi. E a questo proposito, una volta fra le altre, l'autore usa per epigrafe i versi di Virgilio:

Quando un padre o una madre pongono in mano a una data persona l'educazione della loro figliuolanza, essi vengono implicitamente a darle il segno della massima stima e della massima fiducia, e li chiamano a parte della loro autorità. In generale, però, la constatazione di questa verità sfugge alla fretta e alla noncuranza dei genitori, i quali considerano come un fatto materiale qualunque quello di scegliere e accordare un maestro o un istitutore. Certo, non sono più i tempi cui sarebbe possibile un dialogo come quello che l'Alfieri ci presenta nella famosa satira L'Educazione. Ora tali eccessi di petulanza e di ingiustizia non si concepirebbero nemmeno più, e l'insegnante privato ha raccolto egli pure il beneficio del cresciuto rispetto al sapere. Eppure, qualche volta. Parliamone dunque, riducendo il discorso più che altro riguardo alle istitutrici, giacchè i loro colleghi maschi ora sono quasi spariti. L'istitutrice suol essere una signorina di buona famiglia, talvolta persino di nobiltà decaduta, costretta a guadagnarsi il pane col duro sacrificio della sua libertà, e coll'assumersi doveri penosi e difficili. Generalmente non è fornita di diplomi superiori, perchè in tal caso altre vie, e migliori, le si aprirebbero; possiede però una cultura discreta, parla generalmente due o tre lingue. Soprattutto quel che si richiede da lei, e la madre glielo raccomanda caldamente, affidandole l'alunna, è una finezza di modi, una scrupolosa osservanza delle convenienze sociali. Giacché la giovanetta affidata alle sue cure suol essere destinata a brillare nei salotti. La famiglia che la riceve deve trattarla con quel riguardo che si deve agli ospiti, e col rispetto speciale che si deve a chi esercita una funzione di primaria importanza nel consorzio umano. Triste cosa invece è veder certe signore, specialmente le novelle arricchite, trattarle poco più che come gli altri salariati di casa, e non aver nessun riguardo alla loro superiorità intellettuale, e alla condizione precedente, che le rende naturalmente più sensibili a certe piccole umiliazioni. E' naturale che l'istitutrice non prenda parte ai trattenimenti o ai pranzi di gala a cui non intervengono i suoi alunni; è naturale che non si trattenga nel salotto quando la signora riceve: ma non occorre che questa la congedi o le faccia comprendere che la sua presenza non è gradita: la signorina finemente educata sa benissimo ritirarsi da sè. La madre deve avvezzare la fanciulla a usar modi rispettosissimi verso la sua istitutrice, e non deve permettere che si prenda la destra, uscendo a piedi o in vettura. Se la fanciulla avesse mancato in qualche cosa, la signora deve obbligarla a far le sue scuse, e non assumerne mai ciecamente le difese. E se avesse, eventualmente, qualche osservazione da fare alla signorina, si guardi bene dal lasciarsi sentire dalla figlia, e in tutti i modi usi forme corrette e temperate. Anche un'istitutrice può sbagliare, ma ha diritto di non essere umiliata! Perciò dico che quando in casa D'Azeglio, all'aia e alla marchesina che avevano tardato alquanto a pranzo, si fece portar la famosa minestra messa a riscaldare... sul terrazzino e coperta con un dito di neve, se non fu soltanto uno scherzo ammonitore, facilmente rimediabile colla comparsa di un'altra zuppiera, fu una villania crudele e inutile. E il marchese Cesare D'Azeglio, in quell'occasione, non agì nè da gentiluomo nè da cristiano. Bisogna proprio dire che la povera signora Teresina avesse un gran bisogno di quel pane, o che fosse molto affezionata alla sua alunna, per non congedarsi subito. La padrona di casa deve poi sorvegliare perchè nulla manchi degli agi personali, perchè la servitù adempia con lei puntualmente tutti i suoi doveri, e non si pigli confidenze. Quella gente ineducata, dal fatto che la signorina è anch'essa pagata in denaro, farebbe presto a desumerne il diritto di trattarla alla pari. Alle signorine che frequentano la casa essa deve essere presentata, e a tavola servita subito dopo la padrona di casa, sempre inteso se non vi sono parenti anziane, o signore ospiti. Alla sua volta, l'istitutrice deve aver un tatto finissimo nelle sue relazioni colla famiglia. Sfugga le conversazioni inutili, specialmente col padre e coi fratelli della sua alunna; sia moderata anche nel trattenersi con la signora, non si ponga mai nel caso di rendersi molesta. Cogli alunni usi sempre fermezza e buon garbo, faccia pure sentire la sua autorità, ma congiunta all'amorevolezza. Talvolta essa ha da fare con caratteri molto difficili, e con viziature precedenti: non si scoraggi e tenga a sua disposizione una risorsa inesauribile di pazienza e di affetto, con queste armi sarà ben difficile che non riesca a vincere. I modi bruschi, la severità eccessiva le farebbero subito perder la benevolenza degli alunni, e, subito dopo, anche quella della famiglia. Si ricordi anche che molto sarà giudicata dall'aspetto: abbia dunque cura di pettinarsi e di vestirsi con semplicità e con modesta eleganza, ma sfugga tutto quello che potrebbe sembrare troppo vistoso o troppo pretenzioso. Generalmente, però, anche le famiglie molto agiate fanno a meno volentieri dell'istitutrice e preferiscono prendere dei professori per lezioni svariate ai loro figli, e specialmente alle fanciulle. Questi sono, in generale, insegnanti pubblici, ben forniti di diplomi e conosciuti in città. Le famiglie, com'è naturale, cercano di accaparrarsi i migliori. E devono per conseguenza usar verso di loro tutta la deferenza, ed esigerla anche dai loro figli. Li avvezzino dunque a trovarsi puntualmente preparati alle lezioni: non li scusino con troppa facilità se hanno mancato a qualche dovere. Se per qualche ragione, grave, non capricciosa, l'alunno non potesse nel giorno fissato prender lezione, è assoluto dovere dei genitori di avvertire il maestro; troppo sarebbe sconveniente che egli si recasse a casa dell'alunno, per sentirsi dire che può tornarsene indietro o che aspettasse inutilmente, se è l'alunno che si reca da lui. E' obbligo della famiglia corrispondere l'onorario anche a quelle lezioni per le quali non si sia potuto avvisar a tempo dell'impedimento, e insieme con questo far le più ampie scuse. Nel trattare poi le modalità d'un corso di lezioni, il padre o chi per lui, non lasci da parte quella benedetta questione degli onorari. Talvolta una malintesa delicatezza, una irragionevole vergogna trattiene da questo passo: quando poi viene il momento, possono essere spiacevoli sorprese da una parte e dall'altra. Siano puntualissimi i genitori nel soddisfare al loro debito nel modo accordato, ma evitino di compiere il pagamento in presenza degli alunni. E lo accompagnino sempre con un cortese ringraziamento, e mostrino di interessarsi dello svolgimento del corso di studi. Il professore, da parte sua, deve poi mostrarsi scrupoloso osservatore dell'orario stabilito; non deve perdere il tempo in conversazioni inutili coll'alunno o coi membri della famiglia, non abbrevierà mai le sue lezioni, o se per caso ciò gli fosse imposto da circostanze speciali, si riserverà di compensare nella lezione seguente. Tocca anche a lui, com'è naturale, l'obbligo di avvertir per tempo se dovesse mancare; vedrà secondo le circostanze se è il caso o no di rimettere la lezione perduta: questo però sarebbe suo obbligo assoluto se l'onorario è mensile. Accade talvolta che il professore sia invitato in casa del suo alunno, in occasione di qualche festa familiare. Egli mostrerà di apprezzare la gentilezza di questo procedere che lo mette nell'intimità della famiglia, e anche se non potesse accettare farà i più cordiali ringraziamenti. Tuttavia non è obbligato alla visita tradizionale. Al termine del corso, la famiglia che sa il suo dovere e vuol agire con delicatezza, offre un ricordo al professore, o lo fa offrire dai figli. E spesso, coll'andar del tempo, la relazione si muta in affettuosa amicizia, che stringe per tutta la vita i giovani e i loro genitori al benemerito insegnante. Quando poi i genitori (ed è il caso più comune oggidì) preferissero mandare i loro figli a qualche istituto pubblico, non credano per questo di doversi esimere da ogni relazione cogli insegnanti. Vi sono dei padri di famiglia che mettono un vanto speciale nel dichiarare che essi non conoscono nemmeno i professori dei loro figliuoli, che si guardano bene dal seccarli, che non vogliono sembrare di andar a raccomandarli (parola che suona sinistramente nelle scuole!...). Ma se la cooperazione della famiglia colla scuola è un elemento principalissimo per la buona riuscita dei ragazzi, ne viene che mancano gravemente al loro dovere quei genitori che non vanno, opportunamente e discretamente, a informarsi della condotta e dei progressi dei loro figli. E non dovrebbero poi avere una istintiva brama di conoscere la faccia e i modi di coloro a cui, per tante ore del giorno rimangono essi affidati? Vadano dunque, ogni tanto, a conferire col preside e coi professori, e saranno i benvenuti, e da quei colloqui ne risulterà spesso una stima, una simpatia reciproca, una ragionevole intesa che si tradurrà poi in benefica azione sull'educando. Tante volte basta sapere una cosa da nulla, per cambiar addirittura tutto il metodo con un ragazzo!... S'intende che non per questo s'incoraggino i troppo frequenti seccatori, e specialmente le mammine che, alla fin d'anno, assediano con interminabili querimonie i gabinetti dei presidi, le anticamere e le portinerie, e persino le dimore private dei professori. In famiglia, i genitori non si facciano mai sentire a parlar male degli insegnanti dei loro figli, e non permettano a questi di giudicarli in nessun modo. I ragazzi, si sa, hanno la linguetta lunga e l'intelletto vivace (in certi casi!) e si divertono immensamente a satireggiare i loro insegnanti, a rifarne il verso, a mettere dei soprannomi. In fondo, se non c'è vera cattiveria, bisogna riflettere che il mondo è sempre stato così, da che ci furono maestri e discepoli, e se i ragazzi si sfogano un po' fra loro, chiudere un occhio. Ma se la critica venisse fatta in presenza d'altra gente, se assumesse poi (Dio guardi!) il carattere di malignità, se il ragazzo si desse aria di superiorità, è obbligo dei genitori intervenire colla massima severità e dar la meritata lezione ai petulanti. Guardino poi bene i genitori di non prestar fede alle ciarle che spesso si diffondono fra la scolaresca e vengono riportate a casa, a carico di questo o di quel professore. Impongano silenzio e si rifiutino di credere. E generalmente avranno ragione di non credere affatto, ma se realmente qualche seria lagnanza potesse venir mossa contro l'insegnante, pensino che non tocca a loro rinfocolar questioni di questo genere, di cui si suol far giustizia nei debiti tempi e modi. E anche non ascoltino troppo facilmente le lamentele di qualche ragazzo svogliato, che dopo un cattivo voto, o una sgridata a scuola, viene a lamentarsi coi genitori che il professore tale è ingiusto, che ce l'ha con lui (frase classica!) e simili cose ancora. Se fanno eco a queste lamentazioni, possono essere sicuri che ogni traccia di buon volere sparirà dall'animo dei ragazzi. Guai se essi sono incoraggiati nella poltroneria! Dopo gli esami poi, un diluvio di accuse si rovescia sopra gli esaminatori. Lo scolaro che non ha superato la prova viene a raccontare che il professore B gli ha fatto una sola domanda, che il professore M lo ha interrogato fuori di programma, che il professor G lo ha imbrogliato e confuso apposta, e gli ha fatto perdere la testa. E non mancherà poi quello che sosterrà d'aver risposto benissimo a tutto, e di non sapersi spiegare la bocciatura se non come una vera ingiustizia, una cattiveria senza uguale. Per quanto dispiaccia ai genitori un simile risultato dell'anno scolastico, si guardino bene dal far loro queste appassionate scuse dei loro rampolli. E pensino invece che, se durante l'anno fossero stati un po' più solleciti a informarsi sui loro portamenti, le cose probabilmente non sarebbero andate così. Non s'inquietino dunque e non inveiscano contro i professori... e non tolgano loro il saluto! come fa qualcuno, credendo di punirli severamente. Nelle scuole pubbliche non s'usano regali, anzi sono proibiti: i genitori faranno bene a tener saldo anche quando i ragazzi credessero, in qualche circostanza speciale, rompere il divieto. Sarà invece cortese il padre di famiglia che manda il suo biglietto da visita con un breve, ma cordiale ringraziamento alla fine dell'anno scolastico. Gli auguri scritti per Natale e Pasqua vanno ormai sparendo, a tutto beneficio dei portalettere: gli scolari però li faranno a voce, al termine della lezione che precede le vacanze. Una volta il capo di famiglia mandava a ciascun insegnante il proprio biglietto: ma in pratica, questo si risolveva in un vero disturbo, volendo contraccambiare. Perciò è molto meglio sottintendere, negli auguri dei figli, anche quelli dei genitori.

E non godiamo anche nell'aprire il nostro cuore a quelli che sanno comprenderci? - Questo, si dirà, è per la corrispondenza intima. - Ebbene, per le altre lettere, valga quello che abbiamo detto per le visite di convenienza e di etichetta. Poichè la lettera sostituisce la visita; e se è vero quel che dice Cicerone che la lettera altro non è se non una conversazione in iscritto, ne vien che essa deve avere le stesse norme della visita e della conversazione, oltre ad alcune modalità sue proprie. E vediamole subito. Come chi si presenta in casa altrui dev'essere decentemente vestito, colui che scrive avrà tutta la cura per l'aspetto della lettera. Carta bianca e pulitissima: non si ammettono i colori anche lievissimi se non dalle signore. S'intende che la busta dovrà essere perfettamente assortita al foglietto. Si può usare il monogramma, la corona nobiliare, facendolo mettere a sinistra in alto del foglietto, però sono cose che sanno un po' di affettazione. L'inchiostro sia di preferenza nero o blu, e non di colori stravaganti. Le lettere di carattere ufficiale, d'affari, si scrivono sempre su carta bianca. I ricorsi, i promemoria ecc. si scrivono su carta cosidetta da protocollo, meglio se non rigata, nel qual caso, però, bisogna adoperar la falsariga, per la necessaria regolarità. La calligrafia ha pure la sua importanza, ed è quello che è la voce, nella conversazione. Certe calligrafie producono un effetto disastroso. E non solo all'occhio, ma all'intelletto che giudica spesso da quelle il grado di civiltà e talvolta il carattere dello scrivente. Lo scritto a uncini, a sbalzi, sformato, irregolare non è compatibile che nella povera gente, negli altri indica poco rispetto e negligenza; quelli poi che usano caratteri a punta, insolenti e aggressivi, o che imitano la scrittura altrui, snaturando la propria, mostrano poco cervello e poco gusto. Scrivere troppo minutamente è un tormento agli occhi e abusar della pazienza altrui; riempire una pagina con quattro righe a gran caratteri è un'altra sconvenienza. E che diremo poi delle correzioni, delle raschiature, delle macchie? Non si possono scusare in nessun modo. La data va messa in cima al foglio, a destra; nelle lettere di riguardo, invece, si suol mettere a sinistra, dopo la firma. E' cosa lodevole aggiungervi anche l'indirizzo, specialmente scrivendo a persona con cui abbiamo relazioni molto larghe. Dopo la data viene l'intestazione, sempre a sinistra, e non mai nel mezzo (salvo nelle suppliche e istanze) e tanto meno a destra, usanza carissima ai soldati e alle domestiche. La formula dell'intestazione, vien data, naturalmente, dalle nostre relazioni con la persona a cui si scrive, e dal grado di questa. Ai nostri amici e parenti diremo sempre caro e carissimo, colle altre persone ci regoleremo secondo il caso. Le forme più usate sono: Gentilissima signora, - Cara amica, - Egregio signore, - Caro amico, ecc. Quando vi sia un grado nobiliare, bisogna sempre usarlo. Così dei titoli accademici; perciò diremo: Caro Avvocato, o Caro Conte, oppure Egregio Avvocato, Egregio Dottore, - regolandoci sulla confidenza maggiore o minore che si abbia colla persona. Non si mette mai un titolo per intestazione, senza farlo precedere da un aggettivo (egregio professore, carissimo ingegnere) e non scriveremo mai a una signora: Egregia professoressa - Stimatissima maestra - Chiarissima dottoressa, per le ragioni già dette parlando delle buone regole nella conversazione. L'intestazione «Chiarissimo Professore» si usa invece con i docenti universitari. Soltanto un dipendente o un fornitore si rivolgerà a un titolato o a un professionista con la formula «Egregio Signor Conte», «Egregio Signor Ingegnere», ecc. A una persona inferiore, a un fornitore si suole scrivere: Caro signor B - Cara signora C - secondo la professione. S'intende poi che agli alti dignitari dello Stato e della Chiesa si daranno i titoli prescritti, e si ripeteranno nel corpo della lettera, e nella frase di chiusura precedente la firma. Cominciando la lettera si tenga qualche distanza dall'intestazione. Questa distanza, secondo le buone regole, deve essere tanto maggiore quanto più di riguardo la persona a cui scriviamo. E' poi necessario, in tali casi, non scrivere se non da un lato del foglio: il margine ora non si usa più, ma non è bello nemmeno nell'intimità vedere le righe correre sino all'estremo limite e talvolta - orrore! - le parole ripiegarsi in giù lungo il lembo destro... Nella frase di chiusura, bisogna badare alle stesse regole dell'intestazione: affetto, devozione, rispetto, cortesia, devono ispirarle opportunamente, secondo i casi. Diremo ad un parente o ad un caro amico: Ti abbraccio di cuore, tuo aff. ecc. - Ricevi un abbraccio dalla tua B, ecc. A una persona di mezza confidenza: La prego di gradire i miei cordiali ossequi. - Mi creda, egregio ingegnere, il suo aff. e dev. B. C. - Coi sensi della massima stima, suo obbl. P. C. - Con rispettosi saluti, obbl. e dev. B. M. Coi fornitori e alle persone inferiori: Con i migliori saluti, N. N. Una signora non metterà mai nella sottoscrizione l'aggettivo umilissima (salvo in una supplica al Capo dello Stato) e non si dichiarerà mai serva di nessuno. Nella firma si pone sempre prima il nome, poi il cognome: se vi sono titoli... si lasciano nella penna, per non passar da vanesi di cattivo gusto. Però, scrivendo ad ignoti, e quando sia necessaria una indicazione che qualifichi lo scrivente, si suole usare il titolo professionale o accademico. Sulla busta si scrive colla massima chiarezza il nome e cognome della persona, preceduti dai rispettivi titoli. Dopo il nome e il cognome si suol mettere talvolta l'indicazione del grado e l'ufficio. On. N. N. - Deputato al Parlamento. Conte B. C. - Presidente della Congregazione di Carità. Signora T. M. - Direttrice dell'Orfanatrofio Femminile. Queste indicazioni sostituiscono spesso l'indirizzo della via e numero, e giovano al recapito con maggior sicurezza. Non è ben fatto abbreviare gli aggettivi scrivendo per esempio: - Ill.mo Stim.mo, ecc.; tuttavia si può tollerare nelle buste; non mai nella intestazione interna, e tanto meno nel corpo della lettera. In fondo, a destra, si scrive il nome della città, e l'indicazione della provincia se si crede necessario. E' sconsigliabile scrivere solo Città quando la lettera non ne deve uscire: potrebbe darsi invece che per isbaglio fosse mandata altrove o scivolasse fra qualche giornale, e allora dove rimandarla? Il francobollo va messo sempre a destra, in alto. Chi non si fida della semplice ingommatura della busta, metta un sigillo, una marca di suo gusto, ma non contravvenga alle regole chiaramente espresse pel servizio postale, mettendo il francobollo dietro la busta, a mo' di chiusura. Venendo poi alle regole per una lettera bene scritta, diremo che la migliore di tutte è di lasciarsi guidare dal cuore, dalla convenienza e dal buon senso. E anche dalla prudenza, in certi casi, perchè dice il proverbio latino, verba volant, scripta manent... Si abbia la massima cautela trattando argomenti delicati; non ci si abbandoni alla collera, all'impulso cattivo del momento, se dobbiamo scrivere una lettera di rimprovero; si usi tutto il riguardo nel dare consigli, specie se non richiesti. Non si scriva a dritto e a traverso, facendo quegli sgradevoli graticci che stancar gli occhi. Le convenienze vietano di usare la macchina da scrivere per la corrispondenza che non sia d'ufficio. Per praticità, e sull'esempio dell'estero, fra giovani si tende ora ad abolire questa regola, quando ci sia una certa confidenza. Comunque, non si usi mai la macchina per scrivere una lettera privata ad una signora od a un superiore; se si fosse costretti a farlo per ragioni speciali (ad es. lunghezza eccezionale della missiva o particolare mancanza di chiarezza della nostra grafia) non si dimentichi di chiederne perdono nella lettera stessa. Si dev'essere pronti nel rispondere, specie se ci vien chiesto qualche favore, o se dobbiamo dare qualche informazione o notizia che prema. E pronti anche nel ringraziare dopo l'arrivo di qualche dono, per non lasciar la persona gentile nel penoso dubbio, se sia giunto o no. Chi poi avesse ricevuto una lettera da impostare, lo faccia subito, per non correre il pericolo di dimenticarsene... all'infinito. Chiedendo ad altri questo favore, si consegni la lettera col francobollo già apposto. Sarebbe scortese dargli in mano il danaro e peggio ancora riservarsi di darglielo dopo e dimenticarsene!... Una lettera da presentarsi a mano porta sempre scritte le parole: per favore. Se questa lettera è di presentazione va consegnata aperta, e non deve parlar d'altro. Se è lettera di carattere privato c'è chi dice che si può benissimo consegnarla chiusa. Sarà sempre più cortese però, affidandola a persona che non sia inferiore a noi, consegnargliela aperta, ed essa ha l'obbligo, ricevendola, di chiuderla in nostra presenza, con una cortese protesta. Una signora non scrive mai a lungo ad un uomo, e specialmente se l'età non è matura in uno almeno dei due. E c'è pure chi si diletta cogli ignoti conosciuti nella quarta pagina d'un giornale. Gente che ha tempo da buttar via, poco giudizio, e che si espone anche al caso di aver dei gravissimi dispiaceri... Le lettere anonime sono, chi non lo sa? una delle più riprovevoli e vili azioni. Chi ne ricevesse una, badi di non turbarsene eccessivamente; il più saggio partito è di buttarla nel fuoco e non pensarci più. Analoghe alle lettere sono le cartoline, di cui ora si fa molto uso: nella modalità hanno press'a poco le stesse regole. Si badi però che sarebbe sconvenienza scrivere una cartolina a persona molto a noi superiore, anche se fosse per una comunicazione di due righe. E anche scrivendo a parenti e amici, non si usi mai della cartolina, quando si abbia qualche cosa di delicato o di personale, per non correre il rischio che la notizia sia saputa dal portinaio o dalla domestica prima che dalla persona a cui doveva giungere, e che dia luogo a indiscreti commenti!

Ora è giunta l'età della ragione, ora il fanciullo comincia a essere responsabile dei suoi atti, comincia ad accorgersi che intorno a lui v'è tutto un mondo che si agita, lavora, progredisce, e con questo mondo comincia ad avere i suoi primi contatti. E, generalmente, questi primi contatti accadono nella scuola. I doveri verso la famiglia divengono maggiori e vi si aggiungono i doveri scolastici. Non faremo naturalmente questione di tali doveri in quanto riguardano la morale: ma i bei modi che vogliamo insegnare ai nostri fanciulli sono una emanazione diretta della gentilezza e della rettitudine del loro cuore: le due questioni sono dunque ben raramente separabili. Che il fanciulletto impari a far l'inchino e a baciar la mano alle signore, che la bimba impari a far la riverenza, è cosa puramente formale, e da lasciarsi al gusto dei genitori e dell'ambiente in cui vivono. Ma è assolutamente necessario invece avvezzarli a tacere quando parlano i grandi, a non interloquire a sproposito, a non mancar di rispetto ai vecchi, a trattar bene i domestici, a star in buona concordia tra fratelli e sorelle. La prima palestra di cortesia è la casa paterna. Perché si dovrebbe permettere al ragazzo di usar tra le mura domestiche quei modi irruenti e scorretti che gli sono severamente proibiti fuori? Coll'esempio, dunque, e colla persuasione, si cerchi di formar l'animo in questa età in cui è tale esuberanza di vita e nel tempo stesso tale facilità di adattamento. E' l'età in cui si può fare appello alla ragione, al sentimento, alla convenienza, al senso del decoro e dell'onore, per ottenere preziosi risultati; mentre nella prima puerizia bisognava contentarsi di ricorrere all'autorità, all'esempio, all'opportunità del momento. I fanciulli maleducati sono il terrore degli amici di casa! Chi si ricorda di Giannettino del Collodi? La fama di Pinocchio ha offuscata quella di tutte le altre opere del briosissimo autore; pure vi sarà ancora chi ricorderà Giannettino, il ragazzetto dagli occhi azzurri e dal ciuffo rosso, il quale ne fa di tutti i colori, e mette in fuga i visitatori dalla conversazione della mamma... e tormenta tutti, sino a che un vecchio amico di casa, il dottor Boccadoro, riesce a domarlo e a trasformarlo. In capo a un anno, un po' colle buone, un po' colle cattive, il miracolo è compiuto, e il bravo dottore riesce ad avere questa preziosissima confessione: - Davvero, se i ragazzi sguaiati sapessero quanto torna conto l'essere compiti e gentili, l'assicuro signor Dottore, che non si troverebbe più un ragazzo sguaiato a peso d'oro!, - All'opera, dunque! Il fanciullo deve avvezzarsi pulito e ravviato nella persona, e alla mattina e fra il giorno lavarsi abbondantemente. Anche alla sera, prima di coricarsi, si lavi il volto e le mani. Appena s'accorge di uno strappo o d'una macchia al suo vestito, sia pronto al rimedio. Una fanciullina deve saper fare da sè; il maschietto ricorra all'amorevolezza della piccola sorella, e non dimentichi mai di ringraziarla. Il primo saluto alla mattina e l'ultimo alla sera devono essere pei genitori. Una ragazzina di mia molto intima conoscenza era andata a letto, una sera, senza dar la buona notte. Si era appena stesa fra le lenzuola, quando si presentò a lei la domestica, avvertendola che i suoi genitori la chiamavano in salotto. Si rivestì subito, con un po' di sorpresa e di batticuore, si presentò ai genitori e chiese cosa desiderassero. Niente altro, le fu risposto, se non sentirci dare la buona notte! - La lezione fu indimenticabile. Essa ci ricorda quella del famoso scrittore inglese, Swift, il quale fece richiamare la sua giovane domestica, partita in tutta fretta per assistere alle nozze di sua sorella, perché venisse... a chiuder la porta che sbadatamente aveva lasciata aperta. Sicuro, anche questa della porta è una questione importante. C'è chi la lascia sempre aperta, e tocca poi al vento chiuderla rumorosamente, oppure alla persona che sedeva tranquilla alzarsi con suo incomodo: c'è chi la sbatacchia con mal garbo e fa tremare tutta la casa. Il ragazzo che entra od esce, per quanto in fretta, deve avvezzarsi a chiuder adagio e solidamente. Sulla soglia poi, se egli è colla sorellina (non occorre dire con persone superiori!) deve fermarsi e lasciarla passare. E mai deve trascurare le formule: con permesso, scusi, ecc. (evitando il francese pardon) tutte le volte che è costretto a recare altrui qualche lieve disturbo. E non si permetta ai maschi di far giuochi troppo rumorosi in casa, di alzar la voce soverchiamente, di cantare e strillare, di ridere sgangheratamente. Si frenino anche certe sgarbate dimostrazioni d'affetto: quel buttarsi scompostamente al collo di una persona, e sia pure la mamma, per tenerla sotto una pioggia di baci, quell'arruffarle i capelli, quel tirarla per le mani, quell'abbandonarsele addosso. L'affetto deve manifestarsi in modi più ragionevoli e gentili, senza perder nulla della sua intensità. Le femmine, colle loro tendenze più tranquille, e colle loro mosse naturalmente più composte, riescono, in generale, assai più facili a educare. Ma vi sono però delle fanciullette che hanno una vivacità straordinaria, veri maschietti, veri demonietti, si soglion dire. Ebbene, la brava mamma non incoraggerà e non tollererà queste tendenze. Per quanto i tempi moderni inclinino all'abolizione di ogni differenza tra i due sessi, ricordiamo che la gentilezza e la modestia rimangono sempre il pregio più caratteristico della donna. La fanciulletta maschilizzante nella voce, nei modi, nei salti deve dunque essere frenata a tempo, e siccome ciò accade specialmente quando, essendo unica femmina di casa, si diverte abitualmente coi fratelli e coi loro piccoli amici, la mamma cerchi di procurarle qualche compagna adatta, o la tenga molto presso di sè, occupandola piacevolmente. I giuochi tra compagni, giù nel cortile, o nella piazza vicina a casa, o nei giardini pubblici, vanno talvolta a finire in qualche lite. Allora volano le parole insolenti, si mena anche qualche pugno e alla fine i piccoli nemici si staccano malvolentieri dal campo di battaglia, per ritirarsi a casa a raccontar le cose come la passione loro suggerisce, e far nascere spesso disgusti, malumori e inimicizie tra le famiglie. Bisogna impedir questo, ad ogni modo. I fanciulli devono essere cortesi ed arrendevoli nel gioco: devono saper compatirsi a vicenda e non turbare la gioia comune per qualche puntiglio o qualche dispettuccio. I genitori hanno poi l'obbligo di formare nell'anima loro il senso della più scrupolosa lealtà nelle gare di forza o di abilità, il che costituirà un prezioso fondamento a ben altre applicazioni nella vita; gioverà inoltre a impedire molte questioni e dispute. Ma se queste accadessero i genitori impongano riconciliazione pronta, e scuse a chi si deve. Ho sempre nell'orecchio il tono grazioso con cui un fanciullo romano, a Villa Borghese, diceva a un suo piccolo amico: - Bene, ora perdonami, e giochiamo. - Eran da soli; l'imposizione non era dunque partita da nessun superiore, ma la parola onesta e gentile fioriva evidentemente sul labbro di quel ragazzetto per opera di una educazione domestica sollecitamente curata. Non si deve mai permettere a un ragazzo di usar soprannomi o parole offensive verso nessuno. Ma quante volte i genitori son colpevoli essi medesimi a questo riguardo! Quante volte parlano dell'assente con superbia o con sprezzo! Quante volte riferiscono, vantandosene, qualche tratto d'insolenza che a loro sembra giustizia! E non si permetta nemmeno che il fanciullo si avvezzi a trinciar sentenze su uomini e cose, e faccia osservazioni non competenti alla sua età. E, per carità, si freni la mania dei saputelli e, peggio ancora, delle saputelle, a voler mettere in mostra, a tutti i patti, il loro piccolo corredo di scienza! Verso i vecchi di casa i nipotini devono usare ogni riguardo. E' vero che l'affezione dei nonni e degli zii, affezione talora cieca e idolatra, basta talvolta a mettere tra loro la massima cordialità di relazioni. Ma talvolta i poveri vecchi sono un po' di cattivo umore, talvolta sono indisposti: allora bisogna impedire che la vivacità infantile li disturbi, allora bisogna che i fanciulli, e specialmente le fanciulle, sian più che mai affettuosi e servizievoli. Guai ai genitori che osassero dar l'esempio di qualche parola poco riguardosa, di qualche segno di dispetto! Coi domestici, i fanciulli stanno spesso e volentieri, e la cosa non è senza pericolo. Dai servitori potrebbero imparare parole sconce, dalle cameriere vanità e pettegolezzi. E' vero che oggi il personale di servizio va riducendosi tanto, che questi pericoli anch'essi gradatamente scompaiono. Tuttavia, in campagna e nelle famiglie agiate e numerose, il caso può darsi ancora. I savi genitori non lascino che i loro figli si trattengano in compagnia dei domestici più di quanto è necessario, anche se fossero persone (se ne trovano ancora, benchè troppo poche), di tutta loro fiducia. Nell'antichità classica la vecchia nutrice, il servo fidato era l'amico del giovane f atto adulto, era il confidente obbligatorio delle sue passioni nelle tragedie. Ora i servi si soglion dire nostri nemici pagati. Ma in presenza dei figli i bravi parenti non fanno mai sfoghi di cattivo gusto contro la servitù. E devono anche avvezzarli a trattar con bel garbo la persona di servizio, a usar anche con essa le formule usuali della cortesia: per piacere, grazie, scusa, ecc. Troppo spesso i ragazzi inclinano alla prepotenza e allo sgarbo, e le prime vittime ne sogliono essere i domestici. Se poi questi hanno l'ardire di difendere i loro diritti naturali, di risentirsi un po' ecco il prepotentello tramutarsi in delatore, e correr dalla mamma, e lamentarsi che gli è stato mancato di rispetto. E la mamma, si sa, inclina in generale a dar ragione al suo rampollo, e non risparmia la sgridata. Così non fa peraltro una donna, saggia e cristiana, la quale deve intendere come si faccia un pessimo regalo al fanciullo con quella momentanea soddisfazione data al suo orgoglio e alla sua vendetta. Ricordiamo, al contrario, la marchesa d'Azeglio che costrinse il suo piccolo Massimo a chiedere scusa ginocchioni al vecchio servo cui aveva menato, forse senza gran cattiveria, una bacchettata! Anche verso le povere bestie di casa il fanciullo deve essere amorevole e premuroso. E' buona abitudine dar loro in custodia qualche uccelletto, affidar alle bimbe il nutrimento delle galline, far che prestino qualche cura al vecchio cane o all'asinello o al puledro. E non si permettano mai le barbarie contro gli insetti, le frustate inutili ai cavalli, e si avvezzino a considerare il cane e il gatto, quali veramente sono, cioè amici discreti e sicuri, e servizievoli, ma della cui pazienza non bisogna poi abusare. Durante l'infanzia e alla fine di essa i fanciulli fanno due grandi passi nella vita religiosa: la Cresima e la prima Comunione. L'una e l'altra sono due solennità che la famiglia celebra con tutta la pompa che le è possibile; ma genitori dal retto sentire cercheranno che questa pompa esterna non sia mai a danno del raccoglimento interno. Ai due grandi sacramenti deve precedere una conveniente preparazione, e per la Comunione, specialmente, sarebbe desiderabile un ritiro. Che l'idea dei regali, delle vesti eleganti, degli svaghi e dei complimenti non profani la sacra purezza del senso religioso! E in quel giorno, dopo una intima e soave festività, tra parenti e amici, si tengano ben lontani i fanciulli da ogni distrazione mondana. In certi luoghi, purtroppo, non si fa così, e dalla mattina alla sera i cresimati e i neo-comunicati si vedono girar la città, vestiti ancora cogli abiti e cogli ornamenti della sacra cerimonia; e si conducono al passeggio pubblico, e in visite, e al caffè... e anche al cinematografo e al teatro. Che impressione può loro restare di questa giornata, e specialmente se è quella della Comunione, che suol essere detta «la più bella della vita»? Perchè sia tale, bisogna formare tutto intorno al fanciullo, un'atmosfera di pietà, di raccoglimento, di dolcezza e di affetti domestici, e custodirvelo scrupolosamente.

La lotta per la vita che si va facendo sempre più urgente, spinge spesso la donna fuori delle pareti domestiche, a guadagnarsi il suo pane con un lavoro fisso e regolarmente retribuito, a preferenza del lavoro domestico. E così noi vediamo spesso anche delle giovanissime fanciulle, sbalestrate qua e là, costrette ad assumersi responsabilità talvolta gravi, e a mettersi a contatto con ogni sorta di gente. Sono maestrine, sono impiegate nelle banche, o nelle poste e nei telegrafi o in altri uffici ancora, sono commesse e dattilografe. La giovane maestra che si reca in un paese nuovo (giacchè ben difficilmente può aver la fortuna di esercitare l'ufficio suo nella propria città) si trova in una condizione molto difficile, esposta a tutte le osservazioni, e spesso a critiche maligne. L'amore per il suo dovere, la serietà del contegno faranno però ch'ella riesca in breve a guadagnarsi la stima della gente. Il campagnuolo è osservatore, è esigente, ma è anche giusto. E spesso una brava e buona maestrina diventa l'idolo del paese. La maestra dovrebbe essere seriamente e gentilmente educata ancor più che istruita. Se, dopo aver lasciato i banchi della scuola, avrà dimenticato in breve le teorie d'Aristotile o la disposizione dei cieli danteschi, poco male; ma invece sarà malissimo se darà ai suoi scolari l'esempio di una condotta leggera, o di modi triviali. Non sarà obbligata, specialmente se è giovane e di carattere allegro a far vita di una suora, ma dovrà astenersi da rumorosi divertimenti, da gare di vanità. Se nel paese, vi sono villeggianti, e le circostanze vogliono ch'essa entri in qualche relazione con loro, si contenti del puro necessario, e si persuada che se volesse frequentar troppo la loro casa, prender parte a tutti i loro svaghi, oltre al trascurare i suoi doveri, si esporrebbe anche a ricevere qualche umiliazione. E' naturale che senta, nell'isolamento del suo stato, il desiderio di qualche amichevole conversazione, ma sia molto cauta nella scelta. Colle famiglie dei suoi scolari non abbia intimità parziali, e non accetti nè doni nè inviti. Potrà farlo, se dura ancora in loro la voglia, quando i fanciulli non siano più nella sua classe. Abbia rispetto alle abitudini del paese, usi speciali riguardi alle persone che godono maggiore stima: sia pronta a far un servizio, ma non si intrometta a dar consigli non richiesti, e si guardi bene dal darsi arie di dottoressa. Nel vestire, la maestra deve essere modello di serietà elegante e semplice. Le scollature, le trine trasparenti, e le gonnelle scarse spiacciono in tutte le donne che vogliono essere rispettabili, ma in una educatrice rappresentano una colpa imperdonabile. Le donne che stanno ai pubblici uffici hanno bisogno, oltre che di tutte le virtù dei loro colleghi maschi, anche d'una serietà a tutta prova, e di un vero spirito di sacrificio. E' una vera tentazione l'essere da mane a sera in vista della gente e spesso di gente che si fermerebbe volentieri a far ciarle di carattere tutt'altro che professionale. Le signorine devono in tal caso tagliar corto e mostrar di non gradire nessuna distrazione di questo genere. Ma tutto il loro contegno deve anticipatamente parlare in loro favore e scoraggiare gli insolenti. In generale, l'impiegata e la commessa portano un grembiulone scuro che nasconde e protegge il vestito. Ed è benissimo. Ma nel recarsi all'ufficio non sfoggi un'eleganza di cattivo gusto, che fa voltar la gente e domandarsi chi è mai quella giovane donna, che alle otto o alle nove del mattino, corre per le strade vestita così vistosamente. Ci guadagnerà la sua buona riputazione fra i colleghi e presso i superiori. Nell'ufficio non faccia chiacchiere inutili, non disturbi le colleghe, non si prenda libertà di scherzi e canzonature. Se ha dei colleghi maschi, sia molto riservata. E badi che in essi, talvolta, invece che degli ammiratori è molto più facile trovar dei rivali e degli invidiosi, sicchè piuttosto che di civetteria dovrà far uso di molta prudenza. Coi superiori sia sottomessa e rispettosa. Talvolta può darsi che siano ottime persone, con cui è facile l'ubbidire e il lavorare; talvolta hanno un carattere bisbetico ed esigenze soverchie. Qui appunto sarà il merito della signorina cortese e tollerante, e spesso avrà il suo premio. E si ricordi la signorina impiegata che, entrando essa a far parte del personale subalterno di un ufficio di uno studio, non perde già il suo diritto d'essere rispettata come si conviene, ma bisogna che si adatti a rinunziare a certe forme di riguardo concesse generalmente alla dorma per codice cavalleresco. Non pretenda dunque che il principale si alzi in piedi quando essa entra nel suo ufficio, nè che le ceda il passo all'uscio, nè che sia il primo a salutarla. Se egli lo farà, sarà per pura cortesia, ma essa non ha il diritto di pretendere nè questo, nè altro cerimoniale, e deve stare modestamente al suo posto di dipendente. Fuori dell'ufficio, poi, tornerà ad essere la signorina B la signorina C, e potrà avere anch'essa le soddisfazioni che son concesse a qualunque altra. Ma il pubblico che si trova a contatto con le impiegate, ha un duplice dovere di cortesia, verso queste oneste e povere lavoratrici, la cui vita è spesso tutto un sacrificio. Se sono giovani, un rispetto scrupoloso alla loro possibile debolezza, un gran riguardo ai casi pericolosi in cui possono trovarsi. Se sono anziane, si abbia riverenza alla cumulata fatica, alla vita sfiorata, alla stanchezza precocemente giunta. E tutto ciò si traduce nel risparmiar vane parole, nel render più agevole l'opera loro, nel ringraziarle, con semplice cortesia.

. - Non lasciarti indurre da lusinghe a far cose che non siano pel tuo meglio. 3. - Se puoi fare qualche cosa per il bene, falla. 4. - Nessuno abbia a soffrire per colpa tua. 5. - Non rimandare a domani ciò che puoi fare oggi. 6. - La tua vita vale tanto quanto saprai farla valere. 7. - Non promettere mai, non giurare mai, non giudicare mai troppo facilmente. 8. - Agisci sempre in modo da non doverti poi vergognare delle tue azioni. 9. - E' nel tuo interesse conservarti onesto e virtuoso. 10. - Fa prima il tuo dovere e poi prendi il mondo come viene. NICOLA ORLANDI

D'altra parte è necessario più che mai, essendo in vista a tutti, tener un contegno che ci faccia conoscere per educati e civili. Che diremo di quelli che corrono all'impazzata senza curarsi dello scompiglio che mettono, e del rischio a cui espongono sè e il malcapitato che non riesce a scansarli? Che diremo di quelli che fanno crocchio sul marciapiede, costringendo i pedoni a scendere e far un giro? Che diremo di quelli che, procedendo lentamente nel pubblico passeggio, per giunta si fermano a ogni tratto, discorrendo col compagno, e costringendo lui pure a fermarsi, e arrestando il movimento degli altri che seguono? Che diremo di quelli che fanno roteare il bastone, lo portano infilato sotto il braccio? E di quelli che gesticolano, agitando le braccia come mulini, minaccia al vicino e a chi viene incontro, e spesso ai vetri dei negozi, o alla mercanzia esposta all'aria libera? Chi cammina per la strada, specialmente se molto frequentata, tenga un passo nè troppo rapido nè troppo lento, cercando di conformarsi a quello della maggioranza. E' evidente che altro è andare pei nostri affari nelle ore della mattinata, altro è camminare intorno alla rotonda dei giardini pubblici, ascoltando la musica. Alla donna sconviene tuttavia il passo frettoloso di chi teme sempre d'arrivare in ritardo: è richiesta dal suo decoro una movenza di piedi sempre uguale non mai saltellante o strascicata. La strada è il luogo degli incontri e per conseguenza dei saluti. C'è chi abborre cordialmente gli uni gli altri, e quando vede spuntare da lontano un conoscente piega ad angolo per la prima strada o si ferma dinanzi a una vetrina, fingendosi seriamente occupato a guardare dei salami in mostra, o un'esposizione di bastoni e valige, finchè non s'accorge che l'amico è passato, e allora riprende la sua via. Sono persone misantrope, o che quel giorno hanno le lune a rovescio: vanno lasciate stare. Sarebbe un gesto birichino quello di batter loro sulle spalle e chiedere: Ehi, amico! come stai?... non mi avevi veduto? - Ma c'è da tirarsi addosso qualche risposta brusca e qualche fastidio. Altri invece par che vadano per la strada solo allo scopo di vedere e farsi vedere: tengono gli occhi tirati da ogni parte per vedere se spunta un conoscente, e hanno sempre la mano al cappello. Talvolta salutano anche persone che credono di conoscere, ma che scambiano con altre: salutano poi tutti quelli coi quali hanno avuto occasione di scambiar qualche parola in luogo pubblico, senza forse saper nemmeno il loro nome. E accade spesso di ricevere, con un freddo ricambio, uno sguardo interrogativo che dica: Chi è costui? di dove è sbucato fuori? Non si deve eccedere dunque, nè in un senso nè in un altro. Incontrando una signora, tocca prima all'uomo salutarla, o deve attendere un cenno di lei? In America e in Inghilterra è la donna che saluta la prima; e si giustifica l'uso col dire ch'essa ha il diritto di mostrare o no se le fa piacere di essere osservata. Da noi, e mi par meglio, l'uomo suol essere il primo: e infatti, se il saluto è segno di ossequio, la cavalleria vuole che l'uomo sia pronto a porgerlo alla signora che onora. Tuttavia, cosa strana! sarebbe facile a questo proposito una valida opposizione, citando per l'appunto quel tempo in cui, dice il Carducci,

. - Questo si capisce, finchè un nuovo istinto non lo spinge a ricercarla. Tuttavia vi sono dei casi, ed ora vanno diventando sempre più frequenti, in cui la fanciulla si associa alla vita dei maschi, nella scuola specialmente, e nello sport, e in molteplici opere d'azione sociale. La questione se sia conveniente mandar le giovanette alle scuole maschili è stata vivamente dibattuta: c'è chi dice che certi pericoli sono immaginari, e che del resto bisogna prendere il mondo odierno qual'è, anzi assecondando certi movimenti in avanti (non oso scrivere progressisti!) e che in pratica talvolta non c'è altro mezzo di uscita. Io credo che la questione non si possa definire una volta per tutte, e che invece vada considerata caso per caso. Se la giovinetta è di carattere timido, debole, se la sua intelligenza non è molto pronta, non la si mandi tra i maschi turbolenti, tra cui avrà forse a subire umiliazioni e prepotenze. Se fosse poi invece intraprendente, un tantino vanitosa, allora è una ragione ancor più forte per tenerla lontana da un ambiente dove queste sue qualità potrebbero benissimo svilupparsi in altrettanta civetteria, e dove prenderebbe anche, molto facilmente, delle arie maschili un po' troppo libere. E va anche considerata la scuola per se stessa, e le persone che vi insegnano. Un buon preside, dei savi professori offrono in tutti i modi una certa garanzia: ma vi sono anche dei presidi che di certe responsabilità se ne lavan volentieri le mani, e certi professori che non hanno davvero l'anima educativa. Considerate tutte queste cose, una madre a cui veramente stia a cuore la formazione morale della sua figliola, in una età così pericolosa, deciderà se deve mandarla a questo o quell'istituto o tenersela a casa. All'università, ormai, le signorine vanno in tal numero che in certe facoltà superano quello dei maschi: all'età di venti e più anni, ormai, una donna deve saper come condursi, e i genitori devono avere in lei la massima fiducia, anche sapendola lungi dalla famiglia, o, in ogni modo per molte ore del giorno in libera relazione con professori, assistenti, condiscepoli e amici... Le mamme un po' severe non vedono di buon occhio questa mescolanza dei due sessi, e tengono volentieri lontane le loro fanciulle dagli amici dei loro fratelli. Ora a me sembra che questa severità sia un gran torto. Considerino queste ottime signore che l'uomo e la donna son destinati ad incontrarsi, ad amarsi, ad unirsi. E per far tutte queste belle cose, cioè per farle bene, è necessario prima conoscersi. In generale, il giovane arriva all'età del matrimonio senza aver una idea molto chiara della psiche femminile, e la fanciulla è spesso di una straordinaria incomprensione, per non dire ignoranza, riguardo agli uomini. Il tener troppo lontani i due sessi nell'epoca della formazione contribuisce, in massima parte, a tale stato di cose che dà luogo troppo spesso a conseguenze dolorose e irreparabili. Ma se la libera frequentazione di ragazzi e ragazze desse luogo a qualche simpatia? Se poi se ne sviluppasse qualche romanzetto? Cara signora, se il romanzetto è ingenuo e onesto, perchè impedirgli che si svolga? Se poi non fosse tale, toccherà a voi di troncarlo in tempo. Ma se voi desiderate pel vostro figliuolo o per la vostra figliuola una unione felice e in cui ci sia conoscenza e fiducia reciproca, sarà molto meglio che essi scelgano tra i compagni e le compagne d'adolescenza, anzichè tra quelli che si possono incontrare a una festa da ballo o a una partita di tennis, in un albergo di montagna, o in una spiaggia alla moda. Lasciate dunque che si frequentino, quando le circostanze lo richiedono, con una certa libertà; badate solo di vigilare attentamente e senza mostrarlo troppo. E vedrete che i giovani acquisteranno, stando insieme colle fanciulle, un riserbo e una gentilezza di modi che fra di loro non si sognano nemmeno di avere, e che le fanciulle acquisteranno disinvoltura e senso pratico per farne uso quando verrà anche per loro il gran momento. E chi non sa che le ragazze tenute troppo segregate son di una timidezza, di una ingenuità compassionevole, e che prestan subito fede alla prima parolina lusinghiera con cui qualcuno si voglia divertire? Giovanotti e signorine possono dunque star benissimo insieme, e in onesta libertà. Ma gli uni e le altre hanno i loro doveri di convivenza e di cortesia, per non parlare dei doveri molto più gravi che loro impone la legge morale. Il giovanotto cominci la propria cortesia in casa, verso le sorelle. Non si permetta mai con loro parole sgarbate e offensive, allusioni insolenti, scherzi di cattivo genere. Tante volte, la povera giovinetta, così umiliata e afflitta, non sa reagire, e si contenta di piangere in silenzio. Quelle lacrime o giovanotto, dovrebbero darvi vergogna e rimorso. Si mostri compiacente e volonteroso nell'accompagnarle dove non possono andar sole o coi genitori, e sappiano, a proposito, far anche qualche piccolo sacrificio. Uscendo con loro, curi in modo speciale il proprio abbigliamento, ove nulla vi deve essere di sciatto o di men che pulito. Non è bello che i due camminino a braccetto, come fossero sposi, ma a un passo difficile, o in mezzo alla folla, il giovanotto deve aiutare e tutelare la sorella porgendole la mano e anche stringendola a sè. Ma una signorina di giudizio non si caccerà volontariamente tra la folla, se proprio non vi è seria ragione, nè sola, nè accompagnata. Colle amiche della sorella, il giovane deve tenersi in quei debiti riguardi, o concedersi quelle oneste libertà che sono segnate dal grado di confidenza. Se son cresciuti insieme e le forme cerimoniose sembrano loro un'affettazione, le chiamino pure col nome di battesimo. E nel giocare, nello scherzare si mostrerebbero veramente indiscreti e villani se osassero metter loro le mani addosso per qualsiasi motivo. E se un giovane comincia a sentir per qualcuna di loro qualche cosa che è più dell'amicizia, se gli par che il suo sentimento sia anche condiviso, non lo lasci trapelar troppo presto, e procuri di assicurarsi, nella intimità libera da tal genere di preoccupazione se farà bene o non farà bene a parlare. Sarebbe poi uno sciocco e un malvagio se si divertisse a turbarle con inutili corteggiamenti, con lusinghe, con adulazioni e sarebbe per soprappiù un vigliacco, se ne facesse argomento di conversazione e di vanto fra i suoi amici. Per guarirlo di tale inclinazione, non molto rara tra i giovanotti, basterebbe domandargli se saprebbe tollerare che altri mancasse così di rispetto alle sue sorelle. S'intende però che la signorina deve, per conto suo, mostrarsi meritevole di ogni rispetto, anche nella massima confidenza. E cominciando dalle pareti domestiche, è forse permesso che le fanciulle si lascino vedere dai fratelli mezze scoperte nel succinto vestito da camera? Ciò è tanto male, quanto è sconveniente permettere che i giovanotti ciondolino per casa in pantofole e maniche di camicia. Nelle famiglie numerose, suole ogni sorella avere incarico della guardaroba d'un fratello: ottimo uso per avvezzarle alla diligenza, alla previdenza; mentre i fratelli per tal modo sentono maggiore l'affezione per le gentili creature che hanno cura di loro, che cercano di compiacerli in qualche scusabile vanità, e le ricambiano con gratitudine e con qualche piccolo favore. Ma se non trovassero poi le cose sempre fatte a modo loro, si guardino bene dall'insolentire o strepitare. Pensino che la compiacenza e la tolleranza si devono prima che in ogni altro luogo mettere in pratica tra le pareti domestiche, e che quello che a loro sembra una inescusabile trascuratezza è spesso null'altro che una svista, una dimenticanza, dovuta a qualche seria preoccupazione o a un lavoro eccezionale. La buona giovanetta alla sua volta cerca di compatire e scusare il fratello se egli cade in qualche errore, ed è causa di qualche screzio in famiglia. Talvolta una fanciulla, vero angelo di pace, riuscì a ricondurre al bene il fratello un po' traviato, e a comporre dolorose questioni. Nelle sue relazioni cogli altri giovani, quando sia tra di loro una certa libertà, non permetterà mai che ne abusino. Non li ecciti allo scherzo, non tolleri che la giovanile allegria passi i limiti della confidenza, e sappia con garbo e con fermezza mettere a posto chi le paresse troppo audace. Si mostri sempre disinvolta e amabile, pronta a render un servizio, fraternamente, ma senza mai farsi troppo avanti. Abbia cura della sua persona, e non si presenti mai a nessuna riunione, sia pure all'aria aperta, nella confidenza campestre, in abito troppo succinto. Se i suoi capelli, correndo, o danzando, si scomponessero troppo, se il suo volto si accendesse, si ritiri e si fermi, tanto che scompaia dalla sua persona quell'aria di baccante che invero è poco propizia a destar rispetto. Non parli mai a giovanotti di altre signorine, se non genericamente, e per dirne bene; si guardi poi da quello scherzo di pessimo genere, e talora di gravi conseguenze, che consiste nello stuzzicar un giovanotto fingendo di crederlo corteggiatore o innamorato di qualche amica. Nelle passeggiate, nei giuochi, può la signorina rimaner per un momento isolata con un giovane della compagnia, ma eviti che questo a parte, si prolunghi oltre lo stretto necessario, e nel lasciarsi porger la mano, sorreggere pel braccio, senza atteggiarsi a ridicola rigidezza, guardi bene di non concedere soverchia libertà. Un'amabile e disinvolta naturalezza sarà la migliore delle regole. E pensi pure la signorina che tra quei giovani che ella frequenta... può darsi benissimo che si trovi il compagno della sua vita; ma che ogni preoccupazione da parte sua sarebbe inopportuna, e bisognerebbe, se mai, saperla dissimulare. Li tratti pure fraternamente, li studi, li esamini, cerchi di scoprire quel che valgono e... se saran rose fioriranno. Ma di ciò ad un altro capitolo.

che tradotti in buon italiano (e meglio non si potrebbe), suonano così: «E che io m'affidi a tale mostro? E non so io forse che non si può prestar fede alla ingannevole bonaccia di questo mare?». Egli lo guarda dunque con fondata diffidenza, questo mare dall'aspetto tranquillo, sa che è ingannevole, e non se ne fida. Le cortesie esterne, le cerimonie, le proteste d'affetto e di stima non sono, per lui, (e lo dichiara più volte) se non una grande e comune finzione, sotto cui si nasconde il reciproco mal animo, la voglia di far a pugni col proprio simile. Homo homini lupus. E veramente a leggere nell'Osservatore nei Sermoni quel che scrive egli stesso dei salotti eleganti del suo tempo, a rievocar le scene del Goldoni, in cui mostra gli abbracci e i baci che mal celano la voglia di mordere, a ricordar anche quel che scrive il Parini nel suo Giorno (per contentarsi dei più noti) bisogna proprio concludere che allora il cerimoniale veniva considerato come una moneta falsa, che tutti accettavan per buona, per reciproca necessaria convenzione. Ed egli stesso, il Gozzi, conclude più volte che è molto meglio così, anziché lasciarsi andare ai moti naturali, i quali un po' alla volta tramuterebbero questo mondo in una selva di arrabbiati, come a lui fu mostrato in una specie di visione, dove interviene alla fine madama Civiltà, con le sue donzelle Cerimonie a frenar gli uomini che si azzuffano con pietre e bastoni. L'animo è rimasto lo stesso, ma almeno la vita diventa possibile. «Non ho mai potuto rimuovere il tale dalla sua opinione, e con tutto ciò egli mi ha pure favellato con molta gentilezza; che importa a me? Io avrei voluto piuttosto che desse una negativa aperta. - E s'egli l'avesse data, non gli saresti tu forse stato attorno con mille altri stimoli? Egli se ne sarebbe adirato, e tu ancora. A questo modo, udendo così belle e buone parole, tu non hai avuto cuore di andar più oltre, anzi fosti tu medesimo forzato dalla civiltà a fargli altrettante cerimonie, ed ecco un bell'effetto, che senza punto essere d'accordo, vi siete partiti l'un dall'altro in pace tuttedue, e rivedendovi di nuovo l'un l'altro, vi traete di testa vicendevolmente il cappello, vi fate baciamani e siete quegli amici di prima, se non in sostanza, almeno in pelle...». Filosofia bonaria, spicciola e pratica, come ognuno vede: dei due mali scegliere il minore. Amare sono invece le riflessioni di Melchiorre Gioia: «Siccome è più facile fare degli inchini che dei sacrifizi, atteggiare la testa e le gambe che coltivare gli affetti dell'animo, largheggiare nelle proteste con parole vuote di sentimento che essere pronti ad eseguirle, non pochi sembrano convinti che la maschera sia un rimedio alla bruttezza, perché riesce a nasconderla alcuni istanti». E c'è nell'aria la persuasione, anche ai nostri giorni, che la finzione regni in tutte le proteste di cortesia. - Senta, - diceva una giovinetta di mia molto intima conoscenza a un suo professore, - non è forse una menzogna dir a una persona di cui non c'importa nulla: Sono contentissimo di far la sua conoscenza? - Si mente, e si fa male! Il male, - rispose il professore, il quale non era solo un valente cultore delle matematiche e delle scienze, ma anche una nobile anima sacerdotale, - il male non consiste già nel dirle, quelle parole, ma nel non sentire quello che esprimono. Poichè si dovrebbe sempre essere contenti di conoscere una creatura di Dio simile a noi... - Egli aveva risolto sapientemente la difficile questione, considerandola nel suo intimo valore morale. Bisognerebbe dunque fare che i nostri atti esterni, tutti, rispondessero a sentimenti virtuosi o, meglio, bisognerebbe aver tanta dovizia di bontà e benevolenza che tutti i nostri atti esteriori ne fossero impregnati. Ora, per essere giusti, dobbiamo riconoscere che se non sempre tutti hanno tanta nobiltà d'animo, non è vero però che gli atti di cortesia esterna siano sempre un'odiosa finzione. E non è vero nemmeno che sempre corrispondano a una convenzione reciproca, basata sull'opportunità, e a cui non si dà nessun valore intimo. No, la cortesia dei modi risponde, in generale, a moti e bisogni dell'anima umana, di natura, grazie al cielo, assai più pregevole. E' il bisogno di riuscir graditi agli altri e di guadagnarsi la loro stima, è il desiderio di far loro piacere, è l'estrinsecazione naturale di una schietta generosità, è una istintiva antipatia per tutto ciò che si presenta come vile e grossolano, è la tendenza a pareggiar in decoro di modi e in opportunità di parole coloro con cui ci troviamo in qualche relazione. E nessuno dirà che sia ignobile l'amor proprio che si manifesta così, e nemmeno che sia da biasimarsi l'imitazione che tende a livellare, almeno in questo, le classi sociali. Queste tendenze dell'animo umano sono ormai diffuse per opera della civiltà odierna in tutto il nostro ambiente, ma sono anche innate e spontanee figlie della natura. Vedete due sorelle: hanno avuto la medesima educazione e i medesimi esempi: lo stesso sangue scorre nelle loro vene, eppure l'una ha modi e linguaggio di spontanea cortesia, l'altra conserva in tutto una irriducibile impronta di volgarità. E nelle campagne, si veggon talvolta vecchierelle amabili, servizievoli, cerimoniose persino... Chi ha insegnato loro ad esser tali?... E chi invece ha formato o sformato, l'animo dei loro figli e delle loro figlie, che vediamo spesso così petulanti, indiscreti, rumorosi, intrattabili? Cerchiamo dunque in fondo all'animo umano l'istinto di far piacere altrui, anche a costo di qualche sacrificio, il ragionevole desiderio di ottenere l'altrui gradimento, e, quando l'avremo trovato, le offerte cortesi, le istintive ripugnanze ad ogni atto basso e spiacevole. Tanto che la gentilezza, considerata nel suo scopo e ne' suoi mezzi, dice benissimo Melchiorre Gioia, non differisce dalla morale fuorchè nella gradazione. E infatti, salvar la vita a un pericolante, dar del denaro a un bisognoso, sono germogli della stessa radice da cui viene che si porga un mazzo di fiori, una sigaretta, un dolce. Mentre l'aggredire e il rubare sono fratelli maggiori di quei pessimi istinti che ci spingono a dir villania, o a sciupar un libro che ci venne prestato. E come per praticar la virtù bisogna spesso far violenza a noi stessi, così il galateo ci impone spesso di far tacere le nostre inclinazioni e sacrificare i nostri gusti, se vogliamo che la nostra compagnia riesca gradita agli altri. Taluno potrà negare questa intima connessione di fatti: taluno potrà dire che mentre le persone più cerimoniose son talvolta le più malvage, invece le più rozze sono spesso quelle che hanno più buon cuore. E si citerà per esempio il famoso Burbero benefico di Carlo Goldoni. Ebbene, che cosa vuol dir questo? Rispondiamo anzitutto che casi simili, benché esistano generalmente, sono la' minoranza. E del resto non ne consegue punto che debba essere così, né che sia bene così. Molto meglio se il Burbero benefico non facesse tremar tutto il palcoscenico..., molto meglio se potremo, coll'educazione continua dell'animo nostro, metter in valore le qualità reali, e renderle attraenti agli altri. Chè cogli altri dobbiamo continuamente vivere, e spesso la società giudica l'uomo più da come si presenta, che da come egli è realmente. E in certi casi è più difficile farci perdonare una sconvenienza che un vizio. Vi sono regole di convenienza che variano col tempo, vi son quelle che non possono variare mai, perché hanno, come dicevamo, la loro base nella stessa legge morale. Cambierà la forma del saluto; si potrà star a destra o sinistra d'una persona, secondo i casi, si discuterà se la moglie deve appoggiarsi al braccio del marito o (come si fa ora da più d'uno) se il marito deve tener il braccio della moglie... ma sarà sempre villania non rivolgere il saluto, non curarsi della persona che ci cammina accanto, offendersi tra marito e moglie. Importa dunque persuadersi che la cortesia non è propriamente un cerimoniale. Vi sono anche dei casi in cui le regole precise non si possono dare; e allora?. Allora un istinto ci guida a scegliere il tratto, la parola, il gesto più opportuno, se l'animo è abitualmente gentile, o ci induce a commettere goffaggini e inurbanità se non abbiamo la norma interna del buon gusto e del ben volere. L'arte di piacere agli altri è in gran parte quella di saper esercitare un costante dominio sopra noi stessi. Ecco perché le persone impulsive hanno raramente finezza di modi, ecco perché molti trovan più comodo andar avanti come piace a loro, e dichiarano che non vogliono seccarsi... Ma, a conti fatti, che cosa risulta? La loro scortese incuranza vien ripagata dall'antipatia che generalmente destano, e dalla privazione di molti vantaggi. Al contrario, coloro che si sorvegliano costantemente, che si frenano, che sanno opportunamente tollerare e dissimulare, si guadagnano simpatia, stima, affezione, si trovano facilitato dagli altri l'aspro cammino della vita. Quando noi leggiamo nel Vangelo: «Beati i mansueti perchè possederanno la terra» noi troviamo certo un insegnamento di alto valore mistico. Ma noi vi troviamo anche una constatazione pratica di ciò che accade realmente: coloro che hanno soavità di modi sanno rendersi padroni del cuore altrui e spesso foggiare la propria fortuna. E, del resto, in quel codice supremo di verità, noi possiamo trovar anche altre conferme a quanto abbiamo detto. Non si accompagna forse alla legge severa di non portar odio e di non recar danno alla persona del nostro prossimo, anche la proibizione di dirgli raca? E non è forse prescritta la cortesia del tratto quando vengono biasimati coloro che vogliono i primi posti nelle adunanze e nei banchetti? E quando ci viene insegnato a dir semplicemente si e no, oltre che la menzogna, non viene sbandita anche l'enfasi antipatica, la scortese diffidenza? E non ci viene imposto di mostrar un volto sorridente e aperto, anche quando ci siamo imposti qualche privazione, mentre gli ipocriti, senza curarsi di rattristar gli altri, vanno attorno con viso ostentatamente malinconico? Quando il Fariseo volle criticar la donna che aveva versato il balsamo odoroso sui piedi del Salvatore, egli si sentì da questo un tranquillo rimprovero perché nel riceverlo aveva trascurato con lui gli atti di urbanità in uso presso il loro popolo. Ma tutto si riduce, in fine, al gran precetto: Fate agli altri quello che vorreste fosse fatto a voi stessi - non fate agli altri quello che non vorreste fosse fatto a voi. - Su questa salda base si può edificare l'edificio intero del Galateo. E anche, per prevenire ogni pericolo di finzione, bisogna tener presente l'altro precetto: «dell'abbondanza del cuore parla la bocca». Di qui la necessità di educare l'animo a sentimenti gentili: di qui la cura che devono avere i genitori per cominciar presto coi loro figlioli. La padronanza di sè, lo spirito di sacrificio necessario tante volte nelle relazioni sociali, non si improvvisano. E può darsi talvolta che un generoso impulso dell'animo spinga ad atti eroici, in qualche occasione straordinaria, ma è difficile che l'autoeducazione giunga a tempo con cambiar il carattere d'un uomo che da piccolo non venne ben formato. D'altra parte riflettiamo che se l'eroismo e la generosità non sono sempre alla portata di tutti, la gentilezza, invece, la cortesia, la discrezione sono le necessità quotidiane della vita sociale. L'opportunità e finezza del tratto suppliscono spesso alla mancanza d'istruzione, dissimulano molti difetti, rendono più amabili le stesse virtù, come la grazia dà pregio alla bellezza; mentre la bellezza dura, fredda, sgarbata non ha potere sugli uomini. «Se tutti gli uomini conoscessero il loro interesse sarebbero tutti onesti» disse Spencer. E si può anche aggiungere: sarebbero sempre reciprocamente gentili. I genitori che insegnano per tempo ai loro figli questa grande arte della gentilezza, che la fanno diventar parte intrinseca del loro carattere, fanno loro uno dei doni più preziosi, poiché danno loro la possibilità di farsi degli amici dappertutto, e di vincere senz'urti molte delle grandi lotte della vita. E l'amico che dà a questo proposito un buon consiglio all'amico, merita tutta la sua riconoscenza; appunto come quel tal vescovo Matteo Gilberti di Verona, il quale mandò un dono prezioso al suo ospite, un certo conte Riccardo, con l'avvertimento che fra tutti i suoi modi così belli e costumati, disdiceva «un atto difforme colle labbra e colla bocca, masticando alla mensa con uno strepito molto spiacevole a udire». E il bravo conte, invece d'aversene a male, ringraziò il vescovo con tutta l'effusione per quel suo dono che tenne vera prova d'amicizia. Così ci racconta Monsignor Della Casa, il quale dice che l'ambasciatore scelto all'ufficio un po' difficile e delicato, era appunto quel tal Galateo che lo indusse a scrivere il fámoso trattato che porta tal nome. Cerchiamo dunque di far tutto quello che ragionevolmente può far piacere agli altri e ricordiamoci che la gentilezza è il fiore dell'umanità, e nel tempo stesso il profumo della virtù.

Parlo ora a te, ragazzetto che ormai frequenti le classi medie, e che godi i primi piaceri e i primi vantaggi della libertà, e ti prepari ad essere un uomo. Finora, quand'eri un bambino, gran parte della tua responsabilità era divisa coi tuoi genitori; ora sei in grado di comprendere e di eseguire i precetti che direttamente si rivolgono a te. E la tua sorellina, che anch'essa frequenta il ginnasio o le classi inferiori dell'istituto magistrale o altro corso di studi, può tener detto per sè quello che verrò dicendoti: anzi, nell'adempimento dei doveri del galateo scolastico, essa dovrà mettere una cura ancor maggiore, quel profumo di femminilità che una donnina di dieci e più anni deve ormai spandere intorno a sè. Io non parlerò dei doveri morali propriamente detti. C'è una bella lettera di Giuseppe Giusti a Giovanni Piacentini, che fa un'ampia trattazione dell'argomento, e che una volta si trovava su tutte le antologie. Ora, la materia nuova ha cacciato la vecchia, per buona che fosse. Tuttavia c'è il caso ancora di ritrovarla, la lettera consigliatrice, e di sentirsela commentare in iscuola. E in mancanza di questa, i maestri e gli altri superiori sapranno trovar altro modo di dirti quali sono i tuoi doveri, e di ribadirteli spesso nella memoria, la quale, purtroppo, ha bisogno spesso di essere rinfrescata. Io voglio tuttavia supporre che tu sia un ragazzo che ama lo studio, che va a scuola volentieri, che non trascura le sue lezioni. Ma non ti è mai capitato, alla consegna delle pagelle, di aver la sorpresa, fra tanti bei voti, di trovarne uno bruttissimo in condotta? Lo so, ci sono degli scolari che a questo voto non danno importanza; basta a loro, i vanitosetti, di esser bene classificati nelle materie di studio. E non sanno, probabilmente, che anche quel voto può esser causa di gravi conseguenze, nientemeno che dover fare tutti gli esami! Altri lo guardano con rammarico, ma anche con dispetto, e chiedono a se stessi: - Ma insomma, che cosa faccio di male? Ecco, mio caro, la risposta. Leggi con attenzione quanto verrò ora dicendoti, e se proprio ti pare di non mancar in nulla su questi punti, di' pure che i professori sono ingiusti, che ce l'hanno con te, che si divertono a dar cattivi voti. Se poi tu pensassi che sia per essi diletto speciale il dover fare gli esami a te e a qualche bricconcello tuo pari, sei padrone di pensare anche questa. Lo scolaro per bene si presenta alla scuola all'ora debita, con lieve anticipo. Non un quarto d'ora prima, non una mezz'ora prima, destinata a conversazioni rumorose davanti all'Istituto o nel cortile, o, peggio ancora, a grida e corse. Se per ragione straordinarissima gli convenisse giunger molto prima che comincino le lezioni (ciò può accadere se il ragazzo vien di fuori, col tram o col treno) entri in portineria, si metta in luogo tranquillo, che gli sarà probabilmente indicato e assegnato, e aspetti ripassando le sue lezioni. Può capitare anche il caso di un ritardo. Se esso è notevole, bisogna aver pazienza e aspettare l'ora della lezione successiva; se è lieve, una buona parola fatta dire dal preside al professore può ottenere l'ingresso. In ogni modo, lo scolaro deve addurre la sua ragione, e, se è ritenuta valida, ringraziare chi gli usa cortesia. A scuola si va sempre decenti e ravviati, si sa bene. Ma il ragazzo che è partito di casa collaudato dallo sguardo vigile della mamma giunge talvolta a scuola imbrattato di polvere, colle scarpe infangate, forse anche con un bottone di meno, e qualche strappo ai calzoncini. Come mai? Ma... son cose che capitano, quando non si va diritti per la propria strada, e ci si unisce con certi amici... Le ragazzine poi dovrebbero escludere dal loro vestito ogni idea di vanità. Niente fronzoli, niente braccialetti, niente catenelle e ciondolini che possono poi anche andar perduti. E le gonnelline sotto il ginocchio, se la mamma ha tanto buon senso da capire che non la manda a una scuola di ballo. Se poi la mamma non lo capisse, meriterebbe di vedersi dare una lezione dalla figlia, e per una volta tanto la ribellione sarebbe buona. A scuola, poi, c'è generalmente il provvido grembialone d'uniforme che rimedia a tanti sconci, pareggia tante ineguaglianze e dovrebbe toglier la voglia di vanità fuor di luogo. Gli scolari devono aspettare in silenzio la venuta del professore, e salutarlo levandosi in piedi senza rumore. I compiti devono essere fatti e le lezioni studiate, si sa bene. Ma come si presentano i compiti? Qualche ragazzo si piglia la libertà di usare un foglio sgualcito, un inchiostro sbiadito, oppure di un colore che ferisca gli occhi (non venne in mente a una mia piccola amica di scrivere i suoi compiti con inchiostro d'oro ossia di porporina?! E le parve una magnifica trovata!), e lasciarvi macchie e sgorbi. E la scrittura?... Sono uncini, sono geroglifici, sono talvolta contraddizioni dispettose a tutte le norme dell'arte. La calligrafia, si è detto da non so chi, ed è stato ripetuto da non so quanti pappagalli, è la scienza degli asini. Quando avrete modo di vedere gli autografi dei nostri grandi, a cominciare dal Petrarca per giungere sino al Carducci, vi accorgerete, cari ragazzi, che la cosa è ben diversa. E intanto persuadetevi che presentar un compito con una scrittura trasandata, arbitraria, sformata, è una grave mancanza di riguardo, e vi esponete al rischio di veder respinto il vostro lavoro, senza che nemmeno venga letto. Se vi cade qualche macchia sul foglio, d vi avete fatto delle correzioni troppo lunghe, abbiate pazienza e ricopiatelo. E la lezione che avete studiato, di cui eravate sicuri prima di venir a scuola, come la recitate? Con una cantilena noiosa, se è poesia, o altro esercizio a memoria, oppure con una gran precipitazione, come se non vedeste l'ora di cavarvi quella noia (e dire che si tratta spesso delle più alte creazioni dell'ingegno umano!). Se poi è cosa da ripetersi a senso, allora si cercan le parole, si balbetta, si torna indietro, non si riesce a mettere insieme un breve periodo senza storpiature. E perchè? Perchè avete studiata la lezione senza prepararvi alla forma con cui esporla, e così mettete a dura prova la pazienza degli insegnanti, fate una meschinissima figura, e vi private d'un esercizio che è assolutamente necessario a prender padronanza della nostra lingua. E i suggerimenti? Questi sono la piaga della scuola: un vizio che quasi nessun insegnante riesce a sradicare. Lo so anch'io che fa pena veder il compagno, l'amico restar lì impappinato, come chiedendo soccorso, mentre con una parolina o due lo possiamo levar d'impaccio. E c'è anche un po' di amor proprio, nel mostrar di saper la cosa che l'altro non sa o non ricorda. No, caro ragazzo, se il professore non vuol suggerimenti, ha ragione: perchè ognuno deve dare la misura del proprio valore; fa tacere dunque il tuo buon cuore, e serba la soddisfazione del tuo amor proprio per quando sarai interrogato. E poi, sei sicuro che quel suggerimento proprio sia dato a proposito? Che sia ben compreso? Che non imbrogli invece le cose peggio di prima? E' poi una vera slealtà presentar compiti non fatti da chi ci mette la propria firma. Il più elementare senso di decoro personale dovrebbe impedire questo inganno, che da noi alligna purtroppo ma di cui si vergognerebbe un ragazzo inglese o americano. Chi comincia a ingannare nella scuola si forma una coscienza subdola e doppia, che lo condurrà col tempo ad altri e maggiori inganni. Se l'insegnante rimprovera un negligente, se castiga chi non ha fatto il suo dovere, è obbligo accettare la sgridata o il castigo con sottomissione, e non aggravar la colpa con un fare dispettoso e superbo. Non si vieta però di addurre le proprie ragioni, quando si creda veramente d'averle, ma sempre con modi rispettosi e remissivi. Se lo scolaro non ha potuto fare il suo compito, o non si è potuto preparare alla lezione, ne avverta anticipatamente l'insegnante, il quale da persona assennata e amorevole, terrà conto delle ragioni. Durante la lezione non si deve voltarsi qua e là, chiacchierar col vicino, giocherellare colla penna o con altri arnesi scolastici, divertirsi in quei tanti modi che hanno inventato gli scolari svogliati, a cui quelle ore sembrano interminabili. E queste belle cose si fanno specialmente quando il professore interroga o corregge il compito di qualche compagno, e si crede che non veda o non senta. Oh, se vede, e se sente! Seguitate ancora un po' ad abusare della sua pazienza e ve ne accorgerete. Durante la spiegazione gli scolari devono fissare attentamente l'insegnante, e cercar di non perdere nè una parola, nè un'espressione del suo viso. Talvolta è questo il più efficace commento! E non interrompere mai per chiedere spiegazioni: bisogna aspettare che sia finita la lezione, o almeno la trattazione di quel dato punto. Quelli poi che mostrano noia, che si stirano, che apron la bocca allo sbadiglio, che consultano l'orologio, o chiedon con taciti segni al compagno che ora è, dimostrano proprio d'essere indegni del gran beneficio dell'istruzione che loro viene impartita. All'uscita del professore, non bisogna saltar fuori schiamazzando dai banchi, nè precipitarsi in tumulto nel corridoio. E se si resta in classe non si faccia un rumore assordante, che spesso disturba nell'aula vicina, ove forse si sta facendo qualche esercizio. Non si deve poi sgorbiare il banco con nomi, figurine, motti, sfoghi personali: si deve rispettar la lavagna e lasciarla al suo uso naturale. E sulle pareti della scuola non si deve scrivere nè il proprio nome, nè altro (nomina stultorum scripta sunt ubicumque locorum). E... le pareti di quei tali luoghi che sono tanto necessari, ma che, come dice il Manzoni in un suo giovanile sermone

Studenti ed operai dei paesi nordici si sottopongono volentieri a sacrifici anche non lievi pur di potere viaggiare e conoscere genti e bellezze dell'Europa e del mondo. In ogni modo, anche da noi chi è veramente in grado di apprezzare spiritualmente ed intellettualmente il godimento di un bel viaggio e di provar tali vantaggi, non rimane certo come l'ostrica attaccata allo scoglio. Artisti, professori, dilettanti, letterati, girano l'Italia, oh se la girano! E fanno benissimo, e sono tanto più ammirevoli se la strettezza del loro bilancio impone loro un vero sacrificio per la spesa, per quanto modestamente la vogliano fare. Gli altri... gli altri è meglio che stiano tranquillamente a casa propria: con guadagno della borsa e della salute. A buon conto, prescindendo da questi viaggi che hanno un carattere tutto speciale, le ragioni di muoversi da una città all'altra sono così varie e numerose, specialmente in certi periodi dell'anno che i treni sono affollati, e non è cosa facile nè saper conquistare un posto, nè diportarsi fra tanta gente in modo che la cortesia e il rispetto reciproco non abbiano a subir qualche strappo. Il galateo del viaggio ha dunque, ai tempi nostri, una importanza speciale. E siccome la forma più comune del viaggio è quella per le strade ferrate, vediamo come ci si deve comportare nelle stazioni e in treno. Alla stazione si deve giungere con un discreto anticipo sia per prendere il biglietto a tempo sia per scegliere eventualmente il posto in treno. Non è però da approvare chi esagera in questo, e corre alla stazione un'ora prima, angustiando i familiari, facendo loro perder la testa, guastando forse gli ultimi preparativi, per modo che, giunti ansanti alla stazione, trovano chiuso lo sportello dei biglietti, vietato perciò' l'accesso alla sala d'aspetto, e in quel non desiderato intervallo cominciano a rammaricarsi di non aver forse ben chiusa quella finestra, di non aver dato quell'avviso al portinaio, o forse si avvedono d'aver dimenticato l'ombrello, o vien l'atroce dubbio di aver chiuso il gatto in cucina! Si stabilisca dunque quanto tempo è necessario per recarsi alla stazione, o in tram, o in carrozza, o a piedi, si provvedano possibilmente i biglietti in qualche agenzia di città, e si proceda con calma agli ultimi preparativi. Si suol dire che il treno non aspetta, ed è vero: ma è vero anche che nessun treno mai usa partire in anticipo sull'orario. I bagagli dovrebbero essere pochi, solidi, pratici. Se il viaggio è lungo, sarà meglio spedire un baule, e non ingombrarsi con valige e involti e fagotti. Ogni persona porti seco in una valigetta quel che può occorrere in treno o in una notte d'albergo: questo sarebbe il bagaglio ideale. Ma se le circostanze vogliono diversamente, si guardi di non oltrepassare i limiti di peso e volume segnati dal regolamento. Che cosa brutta e sconveniente è mai quella di veder una brigata numerosa, una famiglia, invader la vettura con valige e portamantelli, e fagotti, e sacchette, e accaparrarsi ogni spazio vuoto costringendo talvolta quelli che son giunti prima di loro a restringersi in modo incomodo, a ritirar i loro oggetti che prima avevano ben disposti nelle reti! E qualche volta accade anche che a una mossa brusca del treno tombola giù una borsetta o un cappellino, o un oggetto qualsiasi malamente issato in cima al mucchio... e pregare il cielo che non sia un oggetto pesante. Talvolta questi indiscreti si buscano delle osservazioni dai ferrovieri, che li invitano poi a far portare quella roba al bagagliaio, fatto apposta; e la lezione sta loro benissimo. Quando il treno si ferina alla stazione, chi è arrivato prima prende il posto che meglio gli aggrada. Se il treno è di passaggio, bisogna aspettare che siano scesi i viaggiatori che devono scendere, e dopo accomodarsi come si può. La fretta soverchia, gli urtoni, l'insistenza per passare avanti, oltre che esser prova di mala educazione, finiscono poi coll'esser più dannosi che utili: chi invece ha pazienza d'attendere, e occhio sicuro da guardare e osservare, finisce coll'accomodarsi meglio degli altri. Accade talvolta, alle fermate dei treni, che quelli che stanno comodi nei loro carrozzone guardano con una specie di inimicizia i poveretti che voglion salire, specialmente se vedan compagnie numerose, e riempiono gli sportelli e vorrebbero far credere che non c'è più posto per nessuno. Ahi, nelle piccole e nelle grandi cose, l'egoismo umano!... Homo homini lupus. No, non bisogna far così come non piacerebbe che a noi facessero altrettanto. Bisogna invece, con lealtà e cortesia, lasciar scorgere i posti liberi e stender la mano soccorrevole a qualche povera signora che trova difficile la salita e prender di mano a mettere a posto qualche valigia ingombrante. Il bello è che tante volte, quelle stesse persone che avevano mostrato una istintiva repulsione a lasciarvi salire, vi si mostrano più cortesi e servizievoli, e divengono ottimi compagni di viaggio. In viaggio si deve vestire decentemente, per rispetto a noi e agli altri, ma senza fronzoli ed eleganze malintese. La signora farà bene a indossare un vestito grigio o di altro colore neutro, dal taglio all'inglese; l'uomo non viaggerà mai in abito da cerimonia, anche se fosse diretto a qualche festa ufficiale. Bisogna, in tal caso, aver seco ciò ch'è necessario per mutarsi, all'arrivo. Un uomo farà bene a non tenere il cappello in treno. Si può aprire e anche togliersi del tutto la giacca o la pelliccia, se nello scompartimento si soffrisse troppo caldo: ma l'uomo che si toglie la giubba e si mostra in maniche di camicia commette una vera sconvenienza. Quando il sonno giunge, nei viaggi notturni, ci son di quelli che si sdraiano sui sedili, dopo aver semplificato al massimo il loro abbigliamento, ed essersi persino tolte le scarpe. Costoro seguono la teoria «che si deve f are il proprio comodo», teoria ottima per gli egoisti screanzati. Una signora, si capisce, sarebbe ancor più biasimevole se si accordasse simile libertà. Ma non le sarà proibito, specialmente se attempata e sofferente, appoggiarsi e stendersi per quanto lo spazio lo permette, senza esser d'incomodo ai vicini. Non occorre poi raccomandare a chi viaggia la massima accuratezza nell'abbigliamento intimo. Son tanti i casi che possono succedere! Una signora a cui dia noia il fumo non entra negli scompartimenti dei fumatori. Ma anche dove è permesso fumare, un uomo cortese chiederà se il sigaro disturba e si regolerà in conseguenza della risposta, o forse anche dal modo con cui è data, che spesso esprime assai bene un sì, mentre le labbra mormorano no... Potrà allora uscir un momento nel corridoio. Si intende poi che non sarà così villano da fumare dove è proibito. E non parliamo dell'orribile vizio di sputare in treno, contro cui si combatte ora una multilaterale e accanita battaglia, e che sembra abbia già ottenuto gran parte del suo intento. Una signora non rivolge mai la parola a uno sconosciuto, in treno, se non per chiedergli quei piccoli favori che non impongono se non l'obbligo di un grazie. Sconvenientissimo si mostrerebbe colui che volesse per forza attaccar conversazione con una signora: essa ha diritto di respingere questi tentativi con dignità e severità e, occorrendo, anche con modi più risoluti. Fra uomini poi, e più ancora fra signore, si avviano spesso e volentieri dei dialoghi che poi divengono generali, e spesso, dopo un'ora o due di viaggio comune, lo scompartimento sembra diventato un salottino dove ferve una conversazione ben nutrita, e squillano allegre risate. Niente di male, se quelle conversazioni si aggirano su terni di carattere generale, e danno modo a chi può di palesare il proprio ingegno e la propria arguzia. Ma sarebbe imprudente, e mostrerebbe piccolo cervello chi raccontasse in pubblico i fatti propri. Eppure accade qualche volta che, dopo un breve tragitto, una persona che ci sta accanto ha creduto bene di farci conoscere di sé e la patria e la condizione, e la famiglia, e gli amici, e le abitudini e i gusti, e le speranze e gli affari... Il nome talvolta sì, talvolta no. Questi originali bisogna lasciarli sfogare, e non dar loro troppa ansa, e soprattutto non credersi obbligati a contraccambiare confidenza con confidenza. La signorina che viaggia (ormai ce ne sono tante!) sarà riguardosa e riservata al massimo, e cercherà di non dare soverchia confidenza a nessuno. E' lecito in treno far colazione con qualche cosa che si sia portato seco. Ma siano cibi asciutti e senza troppi odori forti: un panino ripieno, una tavoletta di cioccolata, qualche frutto precedentemente sbucciato o facile a sbucciarsi e basta. Si lascino stare i polli, gli stufati, la roba unta in genere, i formaggi e i salami, che danno così sgradevole aspetto alla refezione. Si abbia un tovagliolo da stendere sulle ginocchia, un bicchierino per bere, e si gettino dalla finestra gli avanzi e le carte e ci si ripulisca bene le dita e la bocca, passando, se si può, nel camerino dove c'è (o ci dovrebbe essere) l'acqua corrente. Non è obbligo offrire agli altri ciò che si è portato per mangiare: se però ci fossero persone di conoscenza o con cui si avesse fatto un po' di conversazione, si può offrire un arancio, una caramella, un cioccolatino ecc. ecc. Coi bambini poi sarebbe quasi una crudeltà fare diversamente. Si tenga aperto o chiuso lo sportello vicino a noi secondo il piacer nostro; perchè questo è un diritto che il regolamento concede; ma si abbia anche riguardo a persona che mostrasse di soffrire, sebben lontana, l'aria corrente, o di sentirsi soffocare a finestrino chiuso. Non si deve muoversi spesso senza ragione, passando e ripassando davanti a chi siede, ma questi, alla loro volta, devono tener composte e non distese le gambe, per non impedire agli altri il passaggio. Chi arriva alla stazione di scesa raccolga con qualche anticipazione i suoi bagagli, si riaccomodi la persona, e stia pronto allo sportello. Con un cortese buon viaggio ai suoi compagni, qualcuno dei quali sarà sempre gentilmente pronto a porgere la valigia e ad aiutare in altro modo che occorra, si scende e si va dritti dritti verso l'uscita, dove si consegnerà al bigliettario il biglietto già preparato prima, per non far perdere il tempo e impedire il libero passaggio degli altri.

Chi si reca a un concerto deve mettersi in mente che va a rendere omaggio all'arte nella persona di qualche suo insigne cultore; deve dunque cacciar da parte l'idea di richiamar per conto suo l'attenzione e l'ammirazione. Intendiamoci bene, però: vi sono i grandi concerti a cui le signore e gli uomini si recano in abiti di gala: allora è un modo come un'altro di manifestare ammirazione ed ossequio, sancito, anzi voluto dalle consuetudini del bel mondo. Accade anche, talvolta, che il concerto rappresenta l'inizio di un trattenimento che finirà col ballo, e allora è evidente che gli abiti scollati delle signore, i neri abiti dei gentiluomini non sono fuori posto. Ma pei concerti comuni basta un elegante abito da passeggio. Le signore non si tolgono il cappello, si contentano di aprire o deporre la pellicceria, facendola ricadere con garbo sulla spalliera del sedile, in modo che non rechi noia a chi sta dietro, e a concerto finito, o da sè, o aiutata dalla sorella, dalla figlia, dall'amica che siedono vicino, si ricoprono con prudenza, per affrontar senza pericolo l'aria pungente delle serate invernali, nelle quali sogliono darsi comunemente simili trattenimenti. Durante il concerto è di regola il più assoluto silenzio: solo un provincialotto inesperto si farà lecito di discorrere, di battere il tempo, di cantarellare in sordina. Alla fine d'ogni pezzo la cortesia vuole che si applauda, anche se l'esecuzione non sia stata perfetta. Quando poi, invece, si è avuto la fortuna d'aver gustato un capolavoro musicale interpretato perfettamente, allora le testimonianze di plauso vengono così spontanee che è, se mai, opportuno richiamare le regole della convenienza per non trasmodare. In tutto deve regnare il buon gusto e la discrezione. Negli intervalli, si parla a voce moderata con chi sta vicino, non mai con chi sedesse a qualche distanza, e tanto meno una signora con un uomo. E' lecito scambiarsi le proprie impressioni, che sogliono essere in generale favorevoli; se qualche spirito raffinato avesse la sua critica da fare, o alla musica o agli esecutori, esponga il suo parere senza presunzione, senza malignità, e faccia in modo di non essere sentito se non dal suo interlocutore. E' ovvio poi che i concertisti, o siano essi cultori esclusivi dell'arte, o semplici dilettanti, devono far in modo che il pubblico non provi nessuna delusione e non abbia a deplorare la serata perduta. Quello che è detto per chi si reca a un concerto, che non sia una serata di gala, va detto anche per chi assiste ad una conferenza. Una signora può recarvisi sola; sarà bene però se, nell'uscire, si unirà con qualche amica fornita di cavaliere che la possa riaccompagnare a casa. Il vestire dev'essere modesto, ma accurato, e tanto più se il conferenziere è celebre e presume un pubblico ragguardevole. Ed è certo uno spettacolo assai nobile quello di una accolta, spesso numerosissima, di persone chiamate colà dal desiderio comune di intendere una parola alta, di aprire la mente a nuove verità, di vivere un'ora di vita intellettuale più intensa e più feconda. Tra quegli ascoltatori vi sono spesso uomini che hanno già un nome nell'arte e nella scienza, vi sono vecchi professori che credono di non saperne mai abbastanza, vi sono raffinati intellettuali che colgono bramosi ogni occasione per elaborare e tornire ancora più la loro coltura, vi sono anche dame gentili che sanno coltivare il sapere senza darsi l'aria pedante di superdonne. Un pubblico così fatto (e si riconosce subito) desta veramente riverenza, e impone dei doveri a cui la persona novizia deve sapersi piegare. Si entri dunque senza chiasso e gli uomini a capo scoperto: ciascuno prenda il posto che gli conviene, si attenda l'oratore in silenzio, oppure in moderata conversazione con chi siede vicino, e che deve immediatamente cessare, quando l'uomo col suo rotolo in mano, si presenta alla cattedra che gli è preparata. Si ascolti in silenzio, si approvi con discrezione qualche passo che sembra meritevole, ma senza interrompere frequentemente e senza prolungare un plauso che farà certo piacere al parlatore, ma che alle lunghe disorienta. Non è poi lecito mormorar commenti sottovoce, sia benevoli o no; e non si deve far mostra della propria erudizione, completando le citazioni classiche accennate dal parlatore. E' una tentazione, qualche volta assai viva. Finito il discorso, si applaudisca a piacere e si tributino anche quei segni di amicizia e di consenso che formano il coronamento della cerimonia. Gli amici più vicini gli stringan la mano con lodi e congratulazioni: altri si facciano presentare, tutti gli porgano ossequi e ringraziamenti per la bella ora passata, pel diletto di cui son debitori al conferenziere, il quale, intanto, poveretto, si terge il sudore dalla fronte non sa come fare a rispondere a tutti. Vi sono però conferenze di carattere popolare o informativo, ove le cose vanno molto più semplicemente; si fanno per lo più nei teatri o in altre sale di spettacoli pubblici, il pubblico rimane quasi estraneo all'oratore, e bene spesso composto di sconosciuti fra loro. In tali casi, v'è libertà massima nel vestiario, nell'entrata e uscita, nella scelta del posto: rimangono sempre però i doveri generali delle persone bene educate che devono guardarsi dal fare ogni cosa che possa disturbare o spiacere. E i conferenzieri hanno essi dei doveri verso il pubblico? E come, se ne hanno! Chi chiama della gente a spender una serata per udirlo, e spesse volte fa anche pagar un biglietto, si assume la sua bella responsabilità. Ma purtroppo, al giorno d'oggi, tale responsabilità viene assunta con molta leggerezza. Dante diceva dei suoi tempi guerreschi:

Ab Jove principium, dicevano i nostri antichi, e anche noi cominceremo col tracciare le linee di quel, galateo che, se deve sempre osservarsi dinanzi agli uomini e nelle case loro, a più forte ragione va riguardosamente osservato dinanzi al Creatore supremo e nelle case ove Egli risiede. Fra i miei lettori molti, io voglio sperarlo, possederanno il bene inestimabile della fede sotto quella forma che S. Paolo chiamò rationabile obsequium; sapranno dunque benissimo quali ragioni e quale importanza abbiano anche certe dimostrazioni esterne di culto o di convenienza che giustamente sono prescritte. Ma posso anche supporre che vi sian delle anime, perfettamente e sinceramente credenti, che non abbiano potuto acquistare la cognizione o la pratica di tali norme, posso supporre altresì che alcuni, pur non aderendo alla fede comune, abbiano il nobile e lodevole desiderio di comportarsi in modo che nulla possa offendere o disgustare i credenti con cui si trovino insieme. Le mie avvertenze, dunque, potranno far del bene a tutti, e non faranno male a nessuno. In chiesa si va per le funzioni religiose consuete; si va per alcune cerimonie solenni; si va, infine, per ammirare bellezze d'arte. E comincio subito da questo caso. La nostra Italia è così ricca di meraviglie architettoniche, di quadri, di sculture, di mosaici, intagli, cesellature e oggetti preziosi d'ogni sorta, che non vi è, si può dire, nessuna modesta città di provincia, e forse anche nessuno sperduto paesello che non veda entrar i visitatori nelle sue chiese. Nelle città principali poi, in quelle che la rinomanza ormai mondiale ha classificato tra le artistiche per eccellenza, è un flusso e riflusso perenne: tanto che saggiamente in alcuni luoghi sono state fissate alcune norme riguardo al tempo. E' evidente che non si sceglierà mai volentieri l'ora delle sacre funzioni e specialmente quella della Messa cantata. Chi ha senso di religiosità e riguardo gentile a quella degli altri, sa quanto sia molesto quello scalpiccio, quel mormorio, quel trapassar di luogo in luogo di un gruppo talvolta numeroso di persone, mentre tutto intorno spira e impone il mistico silenzio del raccoglimento. Ma quando fosse assolutamente inevitabile entrare in tali ore, la persona bene educata attenua il rumore dei passi, tien sommessa la voce, e se vi è un «cicerone» sta vicino a lui più che sia possibile, al fine di non costringerlo a parlar troppo forte. Non si creda però che, anche a chiesa vuota e silenziosa, sia lecito dipartirsi molto da queste norme. Vi può esser sempre, in un canto, qualche silenzioso orante che, proprio in quel momento, espande i dolori del suo cuore e chiede soccorso alla bontà suprema: rispetto a lui. E rispetto, sempre, in ogni caso, al luogo sacro. Non tutti sanno, ma tutti dovrebbero sapere che passando davanti all'altare del S.S. Sacramento è obbligo piegare il ginocchio a terra, e che se vi fosse esposizione solenne o per le Quarant'ore o per altra funzione, è prescritto piegarle ambedue. Così si deve fare anche nel momento dell'elevazione, nel caso che durante la visita si stesse celebrando qualche Messa: bisogna allora aver la pazienza di attendere che siano cessati gli squilli del campanello, e proseguir poi, più tacitamente e riguardosamente ancora, il pellegrinaggio d'arte. Le donne dovrebbero entrare in chiesa solamente col capo coperto e modestamente vestite... Ma ahimè! non tocchiamo un doloroso argomento. Basti, a nostra vergogna, ricordare i cartelli ammonitori che sono appesi alle porte d'ogni chiesa: basti dire che alle grandi basiliche, ormai, è stato necessario metter di guardia un vigile, il quale ha l'incarico, non credo gradito certamente, di ammonir le visitatrici (meno male che la maggior parte sono straniere) di coprirsi le braccia e le spalle di cui fino allora avevan fatto esposizione sul listone di Piazza S. Marco o nelle vie e ai caffè circostanti a S. Maria del Fiore, o sotto la Galleria Vittorio Emanuele presso al Duomo di Milano. C'è poi anche l'altro cartello: vietato sputare. E il divieto è espresso ora in questo, ora in quel modo, ma la sua insistenza prova che non siamo riusciti ancora a vincerla su questo importantissimo punto di igiene e di decoro. La persona sana e pulita non sente mai il bisogno di sputare: tuttavia, se circostanze e ragioni specialissime la obbligassero a farlo, non dimentichi che tale atto così schifoso a vedersi, deve essere compiuto con la massima secretezza, in un apposito fazzoletto. Veniamo ora al contegno da tenersi durante le sacre funzioni. Occorrerà dire che non si deve stare sdraiati sul sedile, né accavallar le gambe? Le nostre signore, così avvezze adesso a tale libertà di modi e alla gioia ineffabile di mostrar i polpacci e perfino le loro ginocchia, non sanno talvolta privarsene nemmeno nel luogo più sacro. Quando si deve stare in ginocchio e quando a sedere e quando in piedi è prescritto dalla liturgia. Alle persone deboli e vecchie è naturalmente concessa maggiore libertà; basta per loro che stiano genuflesse nei momenti più solenni, quando lo squillo del campanello li annunzia reiteratamente. Ma chi non può stare in ginocchio non si creda lecito però, se è fra i banchi, di stare in piedi mentre gli altri siedono o stanno genuflessi: è grave scortesia verso quelli che sono dietro toglier loro la vista dell'altare e delle cerimonie che vi si svolgono, per mostrar loro quella del proprio dorso, spesse volte massiccio ed esorbitante. Durante le prediche è prescritto un rispettoso e assoluto silenzio. Nel passato, era invalsa la strana usanza di testimoniar al predicatore la propria ammirazione con un concerto di tossi e raschiature di gola, che si alzava unanime quand'egli faceva punto per la prima pausa, e più ancora alla fine.

Ma più ancora, come vi si troverebbe un ragazzo abbandonato a sè, senza l'appoggio dei genitori e le norme che suol osservare in famiglia? La disciplina del collegio è quella che lo sostiene, lo guida, gli dà garanzia che tutte le azioni della sua giornata sono buone, utili, ben dirette. Bisogna dunque avvezzarsi a considerarla come un appoggio e non come un ostacolo, e procurare d'amarla. Amandola, la rispetteremo, e il vantaggio che tutti la rispettino ricadrà su ciascuno in particolare. Per prima cosa, puntualità! Quando suona quella benedetta campana, si ubbidisce subito: sia che imponga di alzarsi dal letto (ahi! ahi!) sia che inviti a pranzo, sia che segni il termine della ricreazione. Ma non occorre, per mostrarsi puntuali, incalzarsi l'un l'altro, premendo e urtando alla porta. Nei collegi ben tenuti è d'uso la fila a coppie: ciascuno stia col suo compagno e lasci passar gli altri che lo precedono. Puntualità e ordine. Tutto a posto, tutto a suo tempo. Cresciuti in età, vedrete, o giovani collegiali, quanto preziosa sia quell'abitudine che avrete contratto nell'istituto, dove in generale è più severamente vigilata che in casa. Oltre alla tenuta dei libri e quaderni, pei quali vi è assegnato un luogo apposito, e che dovrete tener sempre pulitissimo, vi è anche affidata, in parte almeno, la cura del vostro vestiario, a cui in casa provvede la mammina buona o la zia. Sicuro, cari giovanetti, voi dovrete avvezzarvi a spazzolare i vostri panni d'uniforme, dovrete fors'anche imparare a lucidarvi le scarpe, e anche, talvolta, ad attaccarvi qualche bottone. E le giovanette poi devono riguardar la loro biancheria, stirarla, accudir alla pulizia del loro vestito, rimediare a qualche strappo, togliersi qualche macchia. La responsabilità del loro piccolo corredo è affidata tutta a loro. Ora pensino i collegiali, maschi e femmine, come disdica presentarsi in mezzo agli altri con le scarpe mal pulite, colle vesti non allacciate, con qualche spilla di sicurezza che tien luogo d'un bottone mancante, col fazzoletto lacero e sudicio! Ad ogni lieve disordine del vestiario si deve invece porre subito rimedio, perchè una piccola macchia o un piccolo buco si tolgono presto, mentre se si lascia andare, dopo, la fatica è doppia e l'esito è incerto. Anche la considerazione economica deve avere la sua parte! I vestiti, la biancheria, le scarpe costano ben cari al giorno d'oggi; può un ragazzo onesto ed affettuoso aggravar colla sua negligenza le spese più grandi che i genitori sostengono per lui? Attenti dunque a conservar bene la vostra roba, attenti a non perdere fazzoletti, calze, pettini, spazzole... Tante volte è colpa della pigrizia e della sbadataggine: non si fa la nota del bucato, non si verifica ricevendo, e la roba va a finire nel cassetto di altri negligenti. Oppure si presta qualche oggetto a un compagno notoriamente sbadato, e non si tien più d'occhio la restituzione. E allora tocca ai poveri genitori provvedere un'altra volta. Il vestito d'uniforme dev'essere caro ai collegiali come al soldato la sua divisa; oltre a tenerlo pulito ed ordinato, è obbligo anche rispettarne l'integrità, ossia non aggiungervi, nè togliervi nulla. Questo specialmente per le giovinette che volentieri correggerebbero con qualche fronzolo la semplicità che a loro pare eccessiva, e che invece è così elegante, e piace tanto se uguale in tutti. E anche nel pettinarsi, stiamo al regolamento che proibisce cincischiamenti, nastri, pettini, arricciature. Credano ai loro superiori, quando affermano che questi attributi di vanità non si possono affatto conciliare con le idee regolatrici di un luogo d'educazione. La cura che si deve aver per la roba propria è doverosissima anche per quella del collegio. Non è lecito tagliuzzare i banchi, sporcare i muri, danneggiare le piante del giardino; bisogna star attenti a non fracassar vetri, a non sgangherar sedie, a non rompere stoviglie. In ricreazione bisogna accontentarsi del luogo a questa assegnato, e non uscirne, per esempio, a calpestar le aiuole o a dar la scalata agli alberi. E' vero che ci sono i superiori a sorvegliare: ma cercate, cari ragazzi, che questa sorveglianza che già per se stessa è una fatica, non diventi addirittura un tormento! Alla ricreazione, i giovanetti educandi devono prender parte con allegria comune. Vadano d'accordo sui giuochi da farsi, e non si facciano esclusioni o prepotenze: ognuno ceda un po' e tutti saranno contenti. Non bisogna poi schiamazzare incivilmente, correre all'impazzata, buttarsi come frenetici all'entusiasmo del gioco. E nemmeno sta bene appartarsi ostentatamente dagli altri e tener muso duro in mezzo alla comune allegria. In sala da studio, è prescritto un silenzio rigoroso. Questo non si deve rompere nemmeno per studiare a mezza voce, con fastidio grande dei vicini: non si deve nemmeno agitarsi continuamente, lasciar cadere a terra per negligenza oggetti rumorosi, sbadigliare, mormorare, disturbar insomma quelli che hanno voglia di star raccolti. Le ore dello studio sono quelle destinate appunto ai compiti e alle lezioni: bisogna tenersele care, e non guastarle nè per noi, nè per gli altri. Se dopo adempiuti questi doveri, avanza un po' di tempo, si potrà leggere qualche buon libro, o disegnare, o far qualche altro piacevole esercizio. A tavola si devono tenere le regole solite prescritte alle persone che vogliono mostrarsi bene educate, e non è qui necessario il ripeterle. Ma vi è un difetto gravissimo in cui cadono tanti e tanti collegiali. E' anzi una piaga quasi generale: quella di ostentar disprezzo per i cibi della mensa comune, e spesso di rifiutarli per partito preso, accontentandosi magari, per soddisfar questo capriccio d'orgoglio, di mangiar pane asciutto, oppure mangiucchiando poi le golosità che in altro modo si sono potute procurare. E', ripeto, più che altro un capriccio d'orgoglio, in cui cadono certi scioccherelli, i quali vorrebbero far credere che a casa loro sono avvezzi con cibi sopraffini, e che quelli del collegio non sono degni di loro. Ed è curioso ciò che si nota quasi sempre dai direttori e dalle direttrici: queste smorfie son fatte assai più frequentemente da ragazzi appartenenti a famiglie volgari che da quelli che provengono da buone famiglie. Il male è che generalmente si montano la testa l'uno coll'altro e allora respingono collettivamente la minestra perchè non piace al loro fantastico palato, la carne perchè sembra troppo dura a quei denti che pur rompono nocciole e sgretolano castagne secche, o qualche altra pietanza che abbia la sfortuna di esser mal considerata nel gusto comune. E' una mancanza gravissima di riguardo e di disciplina; ma c'è ancora di più: pensate, ragazzi, quante povere creature farebbero festa alla roba così malamente sciupata! Bisogna padroneggiare i capricci e la gola, e persuadersi che il cibo del collegio se non sarà sempre luculliano (e questo è un vero bene per voi!) è sempre sano, adatto alla vostra età, e sorvegliato da persone che vi tengono cari. E i genitori si guardino bene dall'assecondar queste tendenze, e dal favorirle, come fanno specialmente quelli di campagna, somministrando agli educandi cibi e goloserie in quantità. Nei collegi si suole usare una cura maggiore per le pratiche religiose, che non nelle famiglie. Generalmente vi è la Messa quotidiana; alla sera il Rosario e altre preghiere in comune. Quei ragazzi che a casa loro erano avvezzi a far solo in gran fretta le preghiere della mattina e della sera, o anche a dimenticarsene, inclineranno forse a pensare che è troppo...Non tocca a loro decider questo: tocca bensì a loro tener durante queste pratiche religiose il contegno più rispettoso e più quieto: non disturberanno gli altri, e potranno star meglio raccolti; per modo che si farà strada nella loro mente, un po' alla volta, un senso più chiaro dei doveri religiosi e vi si affezioneranno, con vantaggio grande, poi, per tutta la vita. Tra compagni è naturale che ci sia più simpatia per questo o per quello. E talvolta, queste simpatie, maturate negli anni, divengono le più care amicizie, e durano per sempre. Ma le simpatie improvvise e capricciose, le simpatie esagerate vanno spesso a finire in delusioni e dispiaceri: attenti a non cadervi. Ma attenti ancor più a non lasciarvi dominare dalle antipatie! Oltre che essere cosa brutta e crudele per se stessa respingere un compagno perchè non piace ai nostri occhi, o perchè ci sembra di condizione inferiore, o per altre ragioni di questo genere, ci si espone spesso a commettere gravi errori. Quante volte, praticando più da vicino una persona che ci era riuscita a prima vista antipatica, conoscendola meglio, abbiamo scoperto in essa delle qualità preziose, che poi ce l'hanno resa carissima! Sia dunque amorevole con tutti il bravo collegiale, pronto più a giudicar bene che male, pronto sempre a render servizio a un compagno, ad aiutarlo onestamente nel fare i suoi compiti, a intercedere in favore, a scusare una sua colpa. Agli educandi nuovi, specialmente, bisogna presentarsi col volto amichevole, incoraggiante: metterli al corrente della vita interna e istradarli all'adempimento dei comuni doveri. E non fare come certi sventati che cominciano subito i loro discorsi col dir male del collegio e dei superiori. I superiori hanno, qui, doppiamente i diritti e i doveri dei genitori poichè ne assumono interamente l'ufficio. Con loro, dunque, un bravo e buon ragazzo terrà il contegno di un affettuoso rispetto, e non si permetterà mai di criticarli, di farli segno alle malevolenze degli altri, di mostrarsi riottoso e sgarbato. E verso gli istitutori subalterni, che sono più a contatto con loro e che hanno obblighi maggiori e non sempre piacevoli, devono usar lo stesso rispetto, e procurar di unirvi fiducia e affezione. Vi sono poi alcune incombenze di collegio che sono affidate per turno agli educandi, e più ancora alle educande. e ciò ha il duplice scopo di facilitare il servizio e di avvezzar i giovani a certe incombenze domestiche, a cui possono ritrovarsi nella vita. Non dispiaccia troppo alle fanciulle, anche di buona famiglia, maneggiar la scopa o il cencio, lavar i bicchieri! Pensino che queste abilità possono giovar molto spesso, famiglia, ora che le persone di servizio van facendosi così rare; e che del resto non si perde la propria dignità in faccende che giovano al comune. Facciano dunque con viso sereno, e colla massima diligenza possibile, quello che loro viene comandato. In un luogo di educazione comune si devono evitare tutte le singolarità. Rispettando dunque la disciplina, e tenendo cari i consigli degli istitutori, si guardino i giovanetti dal chiedere continuamente e senza ragione delle dispense per non fare ciò che fanno gli altri. Pronti alla scuola, alla chiesa, allo studio, devono anche mostrarsi contenti degli svaghi comuni, e non fare gli schizzinosi. Perchè rifiutarsi di uscire alla passeggiata, e trovar mille pretesti? Si ubbidisca a questa legge di uguaglianza e di igiene, e non si insista, con disturbo degli istitutori. Nell'uscir a passeggio, poi, badino gli educandi alla massima pulizia e compostezza delle loro vesti, e procurino di non alterarla mettendo i piedi sbadatamente nella polvere o nel fango, e, quando son rotte le file, correndo e saltando disordinatamente. Camminando per le vie della città non alzino la voce, non stropiccino i piedi, non battano i tacchi. Ogni coppia cammini con passo regolare in modo da non costringer la fila a rallentare o a impedirsi il passo accavallandosi. Non si deve nemmeno rivolger la parola a quelli che stanno davanti o di dietro, e nemmeno camminar colla testa per aria, e mettersi nel rischio di battere contro qualche cosa. Incontrando persone di conoscenza, si può, anzi si deve, rivolger loro un cortese cenno di saluto; non mai alzar la voce e peggio chiamarle per nome. In dormitorio, quiete e silenzio! Se c'è chi non può dormire (ben raro caso a quell'età) procuri di non disturbare gli altri... Vi son dei ragazzi che tormentano i loro vicini di letto, chiamandoli, costringendoli a parlare, impedendo loro di dormire. E aspettano che il sorvegliante si sia ritirato, per far chiacchiericci e burle... No; nessuna regola del collegio dev'essere violata anche se manca la persona che sia preposta alla vigilanza immediata. A questa deve supplire il senso del dovere e il riguardo che ogni anima ben nata deve avere per i diritti altrui e per il proprio perfezionamento morale. Niente soppiatterie, niente indisciplinatezze. Così, il giovanetto educando si guadagnerà l'affetto comune, troverà più leggera la disciplina collegiale, e gli anni passati colà gli lasceranno un dolce ricordo, non esente di rimpianto, per tutta la vita.

Pagina 116

Se per i maschi, a detta di Emilio De Marchi, l'età preziosa è tra i quindici e diciotto anni, per le femmine si può dire che anticipa assai. L'epoca della loro formazione va dai tredici in su, e a diciotto, quando il fratello esce appena dalla preparazione alla vita, e si accinge al lavoro più arduo per formarsi un carattere e una posizione, la giovane donna spesso è già pronta al nuovo destino. Parlo naturalmente della fanciulla che ha la fortuna d'una madre educatrice, o che, pur essendone priva, riesca da sè a comprendere la grave responsabilità dei suoi doveri, e l'assume con animo lieto e volonteroso. La serietà, la grazia, la prontezza a sacrificarsi pel bene e pel piacere altrui debbono essere le sue caratteristiche.

Pagina 126

Si è gridato dai giornali, ma le nostre ragazze si sono accanite a far tutto il contrario. Ora, non sarebbe tempo di fare un po' di macchina indietro? «Così fanno anche le altre!» si suole rispondere da quelle che non sono le peggiori. Ebbene, non sarebbe opportuno, finalmente, imparare a far quello che le altre non fanno? E distinguersi nella massa, non più colle vesti indecenti, colle mosse arrischiate, colla trasandatezza dei modi, colle affettate monellerie, ma col garbo serio e riservato, colla signorile semplicità del tratto? Sarebbe una vera originalità, ai tempi nostri, e una originalità, finalmente!... di buon gusto. Fanno noia e dispetto le ragazze che intorno ai venti anni si atteggiano ancora a bambinone, a monelle, e rincalzano le ridicolaggini della moda con mosse scomposte, con un cinguettio da passere, con smorfie capricci. A diciotto o vent'anni si deve essere donne saperlo mostrare. Vediamo dunque come si può realizzare ancora quel tipo di saggia e graziosa fanciulla che fu l'amore il sospiro d'un tempo, sapendolo, naturalmente, adattare ai tempi nostri. Una giusta libertà è accordata, anche nelle famiglie più severe, alle nostre fanciulle. Guai, una volta, a non uscire accompagnate! O il babbo o la mamma, qualche altro parente anziano; alla peggio la donna di servizio. Ora, in questi tempi frettolosi, i genitori gli altri parenti hanno ben poco tempo per accompagnare le figlie, e le donne di servizio - lasciando stare che in molte famiglie si sono dovute sopprimere - hanno ben altre faccende. Così la giovanetta esce sola per andare a scuola, per andare in chiesa, per le spesucce sue e di casa, e per qualche visita alle amiche. Invero, non c'è nulla di male, purché righi dritto per la sua strada, e tolga ad ognuno il pensiero di considerarla come una capricciosetta che va a spasso, e con cui si può tentare qualche avventura. Ora, questo potrà realmente accadere, se la fanciulla esce con vesti troppo vistose, se si dimena camminando e gira il capo in qua e in là, se si ferma ad ogni momento a guardar le vetrine e le edicole. E se le giovanette che vanno insieme, ridono, e parlano a voce chiassosa, e fanno capannello sul pubblico passeggio, si mostreranno frivole e leggere e non si dovranno lamentare se poi qualcuno manca loro di rispetto. Andando alla scuola, o sole o con qualche compagna, vadano per la via più breve. Ma se la via più breve fosse molto frequentata, convien loro, per economia di tempo e a scanso di fastidi, prenderne una anche più lunga, purchè sia tranquilla. In classe si ricordino che se il galateo scolastico generale dev'essere rispettato da tutti tanto più deve essere una norma imprescrittibile per una signorina. E se avessero da fare con maschi (ora che anche gli istituti secondari sono promiscui) non accordino loro nessuna confidenza... e non abbiano altro pensiero che di superarli nel progresso e nell'amore allo studio. Molto spesso, nelle famiglie facoltose, si tiene una istitutrice o si provvede all'istruzione della signorina con lezioni private. Allora essa deve ricordarsi che la sua posizione privilegiata non dev'essere mai una scusa per la negligenza, la svogliataggine, la mancanza di riguardo per coloro che l'ammaestrano e la educano. Avrà per l'istitutrice tutti i riguardi che si devono avere per una persona superiore in età e. in merito (e spesse volte in natali!) e non si permetterà mai un'osservazione contro di lei o la maldicenza che talvolta forma l'argomento prediletto nelle conversazioni tra fanciulle. Ricevendo poi lezioni in casa, si faccia trovar pronta e puntuale all'ora stabilita, nel salottino da studio, pulita e composta nella persona, e... ben preparata alle lezioni. Se l'insegnante è una signora, tocca a lei aiutarla a deporre il mantello o il soprabito, e a rimetterlo poi. Le chieda brevemente conto della sua salute, con termini gentili, ma non avvii una conversazione. E non interrompa l'insegnante con digressioni oziose, e non mostri stanchezza se si trattenesse un po' più del consueto. Non dimentichi mai di ringraziarla, accompagnandola alla porta. La signorina amerà lo studio sul serio, e non per fare una vana mostra nei salotti, pensando che possa bastare una lieve infarinatura d'ogni materia. Or non è più così, le esigenze sono accresciute, e chi non ha una vera coltura farà molto meglio a tenersi in un prudente silenzio. In una fanciulla, poi, la saccenteria e la presunzione sarebbero intollerabili. Richiesta di dar prova della sua abilità nel canto o nel suono, la signorina consenta senza farsi troppo pregare, se si sente veramente capace di soddisfare l'aspettazione altrui. Ma se così non fosse, rifiuti con bei modi, ma inesorabilmente. Perchè non confessare che quell'arte è destinata solo a procurare un po' di svago a sè, ma non ad esser oggetto di esposizione? Meglio la breve critica che forse taluno farà di questa risposta, anzichè le critiche prolungate e maligne di ascoltatori delusi e annoiati. Un'arte gentile che può coltivare con minore noia degli altri, e che non richiederà mai sacrifici alla timidezza è la pittura o il disegno: anche il ricamo e il l avoro a maglia le faranno passare gradevoli momenti e le forniranno il modo di far dei regali che riusciranno veramente cari. E' giusto che la giovanetta faccia di tutto per meritarsi l'altrui simpatia e per dare agli altri un buon concetto di sè. E ciò accadrà se lascerà trasparir naturalmente la bontà e la grazia dell'animo: mentre ogni affettazione o finzione sarebbe facilmente smascherata e le guadagnerebbe invece la diffidenza e l'antipatia. Bisogna dunque che con tutti quelli che pratica si mostri desiderosa di giovar loro, di compiacerli, di usar ogni rispetto. La signorina deve specialmente assuefarsi per tempo a coadiuvar la madre nei graditi doveri dell'ospitalità. Essa assiste ai ricevimenti di casa: deve dunque sapere come ci si comporta in un salotto. All'entrar di una visitatrice, si alza e le va incontro, salutando e stringendo lievemente la mano che la signora le porgerà. Se vi è qualche sua coetanea, il saluto può essere più espansivo; non sono però consigliabili i baci e gli abbracci davanti ad altra gente. E' naturale che la conversazione sarà più animata tra signorine, ma non è lecito far gruppo a sè, e dimenticar quasi le altre visitatrici. La signorina bene educata sa mescolarsi ogni tanto nella conversazione generale, sempre con qualche frase gentile, e senza mai permettersi (Dio guardi!) osservazioni maligne e inopportune, tratti di spirito di cattivo gusto. Se viene offerto il thè il caffè, tocca a lei far girare le tazze, porger lo zucchero, la panna, i biscotti. Ella poi accompagnerà le visitatrici alla soglia del salotto, e, in mancanza di persone di servizio, aprirà loro la porta, badando bene di non rinchiuderla finchè non sente che sono scese di qualche scala. Nei trattenimenti di maggior importanza, la fanciulla ha una parte assai notevole. Tocca a lei preparar con buon gusto i fiori nei vasi, i dolci e i biscotti nelle coppe, tocca a lei sorvegliare il servizio dei domestici nel giro dei rinfreschi, o sostituirlo addirittura. Per questi ricevimenti, indosserà un vestito chiaro ed elegante, ma non mai troppo sfarzoso, per non aver l'aria di sopraffare le sue ospiti. Se c'è un po' di ballo in confidenza, la signorina suol aprirlo con qualche giovanotto intimo di casa; ma se vedesse scarsezza di cavalieri, dopo di questo, saprà rinunziare con bel garbo, ed esortare invece gli amici del fratello a invitar le signorine, presentandoli all'occorrenza. A tavola, se ci sono invitati, terrà d'occhio che non manchi nulla a nessuno, e rivolgerà specialmente ai bambini o a fanciulli timidi le sue gentili premure. S'intende poi che la preparazione della mensa, con tutte le eleganze permesse dalla condizione della famiglia, suol essere opera delle brave fanciulle di casa. E spesso è opera loro anche qualche pietanza speciale, qualche dolce; del quale però si guarderanno bene d'annunziare: - L'ho fatto io! - Tocca ai genitori, se sono in confidenza, procurar loro questa piccola soddisfazione d'amor proprio. Se vi sono ospiti in casa per qualche giorno, la giovanetta si unisce alla mamma per preparare tutto il necessario nelle loro camere, e nel far passare più gradevolmente che sia possibile il tempo in cui si tratterranno. Naturalmente, si compiacerà di più nella compagnia delle sue coetanee, ma sapendosi sacrificare all'occorrenza anche per qualche signora anziana, o per qualche vecchio un po' fastidioso. Le signorine generalmente non fanno visite da sole, e da sole non ne ricevono, quando si tratta di visite di etichetta, mentre scambiano le normali visite di amicizia, secondo le convenienze, e prendono normalmente parte a riunioni, sia fra loro che con amici. Talvolta queste riunioni hanno uno scopo benefico. E benedetta pure quella carità che prende nuova attrattiva dalla grazia femminile. Ma attente alla beneficenza che prende l'aspetto di un divertimento, e diventa una esposizione di novità! Meglio non far le cose buone che profanarle e snaturarle. La signorina che esce colla mamma le cede sempre la destra e così fa coll'istitutrice. Naturalmente se esce col babbo o coi fratelli, la destra è sua. In altri tempi, una signorina non doveva mostrarsi mai per la strada con uomini che non fossero suo padre o suoi parenti. Al giorno d'oggi questa regola è più che superata; una giovane farà però bene, nell'accompagnarsi a giovanotti, a tener conto dei possibili pettegolezzi ed a non esporvisi troppo. Solamente se fosse un vecchio rispettabile o persona molto a lei superiore che la trattenesse, potrà farlo liberamente. Un ultimo avvertimento. Per quanto alla sua età sia lecito amare il divertimento, e se le condizioni della sua famiglia lo permettono, si guardi bene dall'intervenire a ogni spettacolo, a ogni ballo, a ogni trattenimento. Di una fanciulla che si vede dappertutto, si suppone ch'ella voglia mettersi troppo in mostra, e questa opinione sfavorevole si traduce spesso (chi lo crederebbe? non certo le signorine che in tal modo pensano appunto a trovar più felicemente marito) si traduce, dico, nel far cadere le intenzioni matrimoniali in qualche giovane di buona volontà.

Pagina 127

Quando un giovane è giunto all'età del matrimonio, quando s'è formato uno stato che gli permetta di guardar senza timore l'avvenire, quando sente in buona coscienza di poter dare alla sua futura compagna tutta quella felicità che dipende da lui, allora comincia a pensar sul serio all'amore e al matrimonio. E se tra le fanciulle ch'egli conosce c'è quella che gli sembra corrispondere, per l'età, per i gusti, per l'educazione, per le condizioni economiche, a quanto egli ragionevolmente desidera, allora il giovane serio non perde tempo e avanza la sua domanda. Generalmente però, non va lui di persona. Se ha il padre, e tanto più s'è persona autorevole, l'incarico spetta a lui: altrimenti alla madre o al più prossimo parente. E la domanda va fatta al padre della fanciulla, o a chi ne fa le veci, oppure al tutore. Solamente se l'aspirante fosse uomo ormai maturo, potrà andare direttamente a sbrigar da sé questo delicatissimo interesse. E' di prammatica per tale visita un abito accuratissimo. I genitori, generalmente, non sono colti alla sprovvista. Tuttavia pur mostrando di gradire l'onorevole richiesta, si riservano di dare una risposta decisiva fra qualche giorno, e dichiarando di voler interpellare la fanciulla. Essa, naturalmente, non assiste al colloquio: deve ignorarlo... o fingere d'ignorarlo. Eh, sì, probabilmente è nella sua stanza vicina, col cuore che le fa un gran tic tac... Il suo consenso, in generale, è ben presto ottenuto. Ma ci possono davvero esser dei casi in cui la principale interessata ignora il passo di cui è l'oggetto: ci può essere anche il caso, che pur sapendolo, sia affatto contrario ai suoi desideri, e allora è suo diritto rispondere con un fermo e deciso e motivato rifiuto ai genitori, che lo trasmetteranno colla massima cortesia al non gradito pretendente. Dico «è suo diritto» perchè in un caso grave come questo, i genitori possono bensì porger consigli, fare osservazioni, muover forse anche qualche rimostranza, ma non mai imporre la loro volontà. Siamo ben lontani dai tempi in cui le fanciulle venivan patteggiate nei colloqui dei padri, che non si sognavan neppure d'interpellarle. Ricordate la scena tra Lunardo e Margherita nei Quattro rusteghi? Si tratta di Lucietta, già promessa, senza che lo pensi affatto, a Filippetto. Margherita - E la gutta, quando lo saverala? Lunardo - Co i se sposerà. Margherita - E non i s'a da veder avanti? Lunardo - Siora no. Margherita - Seu seguro ch'el gh'abbia da piaser? Lunardo - Son paron mi. Traduzione: - E la fanciulla, quando lo saprà? - Quando si sposerà. - E non s'hanno a vedere prima? - No, signora. - Siete sicuro che abbia a piacerle? - Sono padrone io. E ci vuole uno stratagemma della brava Felicie perchè i due poveretti possano incontrarsi almeno una volta, e poco manca che questo grande atto d'audacia mandi a monte il matrimonio. Tra questo e il moderno costume inglese e americano, che i giovani si fidanzino per conto loro, avvertendo i genitori solo a cose fatte, c'è posto per una quantità di casi e di circostanze graduate. Comunque sia, questo colloquio iniziale tra le due parti deve avere la massima chiarezza e la massima serietà. E non si tema di affrontar la questione finanziaria: dopo, sarebbe molto più malagevole e, del resto, per dare o rifiutare un consenso è giusto che si abbiano in mano tutti gli elementi. Appena accettato come futuro sposo il giovane fa la sua prima visita da fidanzato. Se tale visita deve rivestire la forma di presentazione ufficiale alla famiglia, la fidanzata, vestita elegantemente (ma non mai con troppo sfarzo) circondata dai parenti e dagli amici intimi che sono stati invitati per farle festa e conoscere lo sposo, lo accoglierà, cercando di frenare il soverchio della sua commozione, e di mostrarsi serena, disinvolta, schietta, nella sua letizia. Da quel giorno, egli può frequentar la casa, nelle ore e nei modi che saranno fissati di comune accordo. La convenienza non permette che i due giovani rimangano soli nei loro colloqui, e la mamma o chi per lei non può sempre essere a loro disposizione: è bene dunque che le visite sian fatte con discrezione e quando meglio convenga alla famiglia. E' permesso, però, al giovane dar una rapida capatina, anche ogni giorno, se vuole, e informarsi come sta la sua diletta. Non tarderà molto a consegnar l'anello di promessa, che sarà più o meno ricco secondo la sua condizione, ma nel quale cercherà di indovinare il gusto di lei. Una semplice gemma bene incastonata in un leggero cerchio è meglio adatta di ogni complicato lavoro d'oreficeria. C'è chi diffida delle perle perchè «significan lacrime» si dice in Germania, c'è chi guarda con orrore l'opale, come portator di disgrazia. Avviso a chi credesse di tenerne conto. La sposa potrà contraccambiare con un regalo analogo: una spilla, un paio di gemelli ecc. non mai con un altro anello. Usano in certi luoghi partecipar il fidanzamento con annunci a stampa. Comunque esso si annuncia agli amici e parenti con lettera o a voce, secondo i casi; spesso l'annunzio ufficiale alla famiglia si dà con un pranzo, unendo questa cerimonia colla consegna dell'anello. E comincia allora pei due giovani un periodo lieto e solenne, come auspicio della futura felicità; ma nel quale hanno nuovi doveri di convenienza a cui non possono venir meno. E' il periodo in cui si studiano e si preparano: devono comunque star insieme quant'è giusto e ragionevole, e aprirsi liberamente l'animo loro, e anticipar quella fusione d'idee e di sentimenti ch'è garanzia di felicità matrimoniale. Non si mostrino dunque bramosi di svaghi e distrazioni; se il giovanotto non sarà biasimato perchè talvolta va ancora al caffè coi suoi amici, o si fa vedere al teatro, la signorina eviti possibilmente, se il fidanzato abita nella stessa città, di recarsi per abitudine a divertimenti ai quali egli non intervenga. Ciò dimostrerebbe una smania di godere che darebbe poca garanzia della sua serietà di sposa futura. I due giovani, se escono colla madre o con altro parente, le si metteranno ai lati, e non cammineranno innanzi frettolosi, lasciando dietro a sè, sola e sgambettante, la persona anziana a cui debbono tutto il rispetto. Son cose che non si dovrebbero dire eppure l'amore rende talvolta ciechi ed egoisti, e fa dimenticare un po' le convenienze. I guardiani, alla loro volta, non prenderanno delle arie da carabiniere, e non invocheranno gli occhi d'Argo. Se il giovane è ben educato non oserà certo prendersi una libertà meno che rispettosa verso colei ch'egli deve stimare e onorare per tutta la vita: e una fanciulla saggia e modesta, in nessun caso lo permetterebbe Non ci sarà dunque niente di male, se durante le visite convenute, resteranno per qualche minuto a quattr'occhi. E' bensì severamente proibito dal codice delle convenienze che il giovane dorma sotto lo stesso tetto della fanciulla: ma le mutate condizioni della vita d'oggi fanno sì che spesso questa regola non sia più osservata. Del resto, quando i due giovani siano conosciuti per la loro rettitudine e per la loro solida formazione, nessuno penserà ad interpretare male questa infrazione alla vecchia regola. S'intende che quando i due fidanzati si assenteranno insieme per qualche giorno, in occasione di qualche gita od altro eviteranno di andare soli, a meno che non vadano ospiti di parenti o amici. Se i fidanzati sono lontani, è ben naturale che provino il desiderio di estendere in lunghe lettere i loro sentimenti. Si lasci su questo la massima libertà: e sarebbe veramente indiscreta la madre che, salvo gravissime ragioni, volesse leggere quella corrispondenza... d'amorosi sensi. Non è bene anticipar i nomi di parentela ai futuri suoceri, cognati, ecc. Se poi tutto andasse all'aria? E ciò potrebbe anche accadere. Ci son delle gravi ragioni per cui i due giovani, dopo essersi praticati alquanto, capiscono ch'è meglio rinunziare al disegno vagheggiato. E se la rottura è fatta seriamente, dignitosamente e ragionevolmente, si dirà dalle persone di buon senso: Meglio così che un matrimonio mal riuscito. Durante il fidanzamento (che non dovrebbe mai esser meno di tre mesi o più di un anno, salvo specialissime circostanze) si procede in casa della sposa all'allestimento del corredo. Questo dev'essere adatto alla condizione della sposa e alla vita che dovrà condurre: si preferisca roba solida, di qualità fine e ben lavorata, a quel subisso di trine, di veli, di mussoline e di sete trasparenti che si è cercato di mettere di moda. E' una eleganza frivola, costosa e niente affatto pratica ne conveniente. Una volta, la giovanetta cominciava ben presto a preparare il suo corredo, e se lo trovava pronto al momento delle nozze; ora si ordina, si compra, si commette di qua e di là, e talvolta con troppa fretta. Il corredo personale della sposa vien portato nella futura casa nei giorni imminenti a quello dello sposalizio, e dovrebbe esser tutto pronto e cifrato già colle sue iniziali. C'è poi il corredo della casa, che suol essere fornito dallo sposo o dalla sposa, secondo l'usanza del paese o secondo i comuni accordi: questo deve portar le iniziali del marito ed esser pure composto di roba solida più che vistosa. S'intende però che la pompa delle tovaglie di Fiandra (benchè ora non siano più in gran uso) e dei ricchi lenzuoli di lino ricamato non è vietata a chi può procurarsela. E' uso in certi luoghi esporre il corredo della sposa; uso ch'io non temo di asserire indiscreto e sconveniente. E'. invece normale l'esposizione dei regali, col relativo bigliettino portante il nome del donatore. Agli sposi si regala quello che si può e si vuole: a cominciar dai ricchi gioielli, che però sogliono esser dono solo dei parenti o degli amici strettissimi, giù giù per una serie infinita di cose, utili o inutili, ricche modeste, artistiche o... antiartistiche. Quel che temono specialmente gli sposi e che dispiace anche al donatore è il duplicato, il triplicato dello stesso dono... Si cercherà di evitarlo indagando opportunamente in modo più o meno diretto il gusto e il desiderio degli interessati. Quando poi s'avvicina il gran giorno, si procuri d'aver previsto tutto e provveduto a tutto: gli annunzi, gli inviti, ogni particolare del vestiario e ricevimento, e di esser perfettamente in regola colle carte e colle pratiche sia civili, sia ecclesiastiche. E non sarà male ricorrere, per questo, all'aiuto di qualche buon amico di famiglia, che abbia più tempo a sua disposizione, e meno pensieri per la testa. Ora, in seguito al Concordato del Laterano il matrimonio religioso assume il valore del matrimonio civile: la cerimonia è dunque una sola. I due sposi vestiranno colla massima eleganza relativa alle loro condizioni: «tight» o abito scuro da mattina lo sposo, se è civile, o grande uniforme se è militare; la sposa non rinunzi, se può, alla leggiadra poesia della bianca veste e del velo fluttuante. Ma se essa non fosse più giovanissima, se non si credesse opportuno uno sfoggio di toilette, può avere un bello e ricco abito da società e un elegante cappellino, e in conformità al suo vestire sarà quello delle signore del corteo. Lo sposo eviti l'abito da pranzo (il cosiddetto «smoking») che contrariamente a quanto molti credono, specialmente nei piccoli centri, non va mai portato di mattina nè per altre occasioni che non siano, come dice il nome, una riunione serale. Le automobili se non sono di famiglia, devono essere provvedute dallo sposo. Nel primo veicolo entra la sposa col parente che deve condurla all'altare, nel secondo lo sposo coi parenti più prossimi della sposa suoi, negli altri i testimoni e gli invitati. La sposa è condotta alla chiesa e su per le scale del municipio dal padre, o dallo zio o dal tutore, e apre il corteo; segue immediatamente lo sposo colla futura suocera o la più stretta parente. In Francia e in certe città si usano le damigelle e i cavalieri d'onore, giovani amici e parenti, disposti a coppie (una o due) ed elegantemente vestiti. Nei matrimoni di gran lusso vi sono anche i paggetti che reggono lo strascico della sposa. Ma ora si tende anche in queste cerimonie a una gran semplicità, anche da famiglie molto facoltose, Purchè gli sposi sian felici - si suol dire - che cosa importano tante pompe? Perchè dar tanto pascolo alla curiosità? E taluni spingono questa teoria sino a celebrare il matrimonio quasi clandestinamente. E fanno male, perchè questo atto, compiuto nel libero giubilo del cuore, segna l'inizio di una vita nuova e merita d'esser celebrato con quanto apparato si può. Al ritorno dalla chiesa, la compagnia si trattiene per un rinfresco (che deve essere finissimo ed abbondante) o per una ricca colazione. C'è chi usa farla addirittura all'albergo, per risparmio di tempo e di brighe, ma altri biasimano come troppo prosaico tale uso. Però una bella sala elegante, una mensa riccamente adorna, fiori a profusione possono trasformar anche il banale aspetto di un luogo d'albergo. Lo sposo e la sposa staranno vicini, e intorno a loro i parenti e i testimoni, per ordine d'importanza e di intimità. E' difficile che alla fine del banchetto non ci siano i brindisi: ma, per carità, brevi e discreti! Gli sposi potranno rispondere con un semplice grazie; qualche parente anziano può alzarsi e parlar in nome loro e della famiglia. Ai presenti si distribuiscono confetti. Le scatolette di dolci per amici e conoscenti vanno inviate nei giorni seguenti le nozze. La spedizione degli annunzi matrimoniali, precedentemente preparati, si fa almeno una settimana priprima del giorno del matrimonio. Per gli invitati al ricevimento, si acclude alla partecipazione un biglietto di invito a stampa. Il testo di quest'invito sarà il seguente: «Il signor e la signora X Y saranno in casa il giorno ..... all'ora ..... (oppure: dopo la cerimonia) per un saluto agli sposi». Generalmente sono i parenti degli sposi che figurano nella partecipazione; ma se gli sposi non sono più molto giovani, o se non hanno più i loro genitori, la comunicazione avviene direttamente colla formula più semplice: - Carlo M. e Maria G. annunziano il loro matrimonio -. Alla data si aggiunge l'indicazione del domicilio, affinchè si possano spedire i biglietti di congratulazione e d'augurio.

Pagina 144

Ma è accaduto che, in tempi più recenti, qualche oratore veramente eloquente, che era riuscito a scuoter le fibre più intime in un affollato uditorio, sentì uno scroscio fragoroso di applausi salutar la sua perorazione. Caso d'eccezione, e come tale scusabile, ma guai se divenisse comune. Durante la predica, non si deve mostrar noia né disapprovazione in nessun modo: non sbadigliare, non mormorare, non commentare; se il predicatore infiorasse di qualche barzelletta il suo dire, basta che un sorriso sfiori le nostre labbra, e lasciamo alle donnicciole la risatina discretamente rumorosa e prolungata che a loro sembra un doveroso segno di consenso e di ringraziamento. Nelle preghiere comuni la persona bene educata non alza mai troppo la voce e non batte la cantilena; se poi si cantano i bellissimi inni ecclesiastici, si guardi bene dall'esporre tutta la forza dei suoi polmoni, per quanto grande sia l'entusiasmo devoto ed, eventualmente, anche la sua valentia nell'arte. In chiesa, come in ogni altro luogo pubblico, del resto, si cede volentieri il posto a una signora, a un vecchio, ad altra persona debole che, giunta un po' in ritardo, sta disagiata. In generale, la cortesia impone, in questo caso, più di accettare che di rifiutare. Tuttavia si può, dopo aver seduto qualche tempo, restituire alla persona gentile il posto che essa ha ceduto. In chiesa non si dovrebbe nè salutare, nè stringersi la mano, nè avviar conversazioni nemmeno tra persone che da un pezzo non si vedevano. Senza esser troppo rigorosi, basterà in tal caso accennare col capo e con un lieve sorriso il piacere dell'incontro, riservando poi, all'uscita, i saluti e la conversazione. Vi sono poi delle funzioni e cerimonie speciali, durante l'anno ecclesiastico, che hanno del caratteristico e del pittoresco per modo tale che la curiosità si confonde ben spesso colla devozione. In tali casi è più che mai necessario il debito riguardo ai diritti altrui, che sono pur quelli di vedere e sentire come noi, e il massimo rispetto anche a ciò che può prendere un tantino la sembianza di uno spettacolo profano. Avviso specialmente ai nostri fratelli meridionali, o ai forestieri che si recassero colà, dove la devozione assume talvolta forme così singolari. Durante le meste e suggestive cerimonie della settimana santa, dove molti concorrono, specialmente a Roma, come a uno spettacolo gratuito, silenzio e rispetto! Purtroppo, nelle grandi basiliche, si vede una folla rumorosa e ondeggiante prender d'assalto i banchi, accavallarsi, disturbare e profanare quelle ore di raccoglimento: si sente un rumore confuso di passi, e un suonar di favelle svariate... A quelle funzioni, e in generale, durante la settimana santa, è riguardo e rispetto un vestire serio e composto, a colori scuri. Nei paesi latini, ai Sacramenti le donne devono accostarsi col capo coperto; è questo un obbligo che non esiste nei paesi germanici, ma al quale da noi sarebbe grave irriverenza mancare. Ma forse molti non sanno che alla Comunione si dovrebbe andare senza guanti. Il vestire della donna, del resto, dovrebbe sempre esser modesto, durante ogni funzione ecclesiastica. E' giusto che alla domenica si sfoggi un po' più di eleganza, è anche ragionevole e conveniente, e direi persino rispettoso, portar nella casa di Dio anche la massima cura che ci sia possibile nel nostro vestiario... ma di questo a convertirla in un bazar di nastri, di sete, di frange, di trine, a un'esposizione di braccia e di colli e di gambe, ci corre, oh, ci corre!!... Oltre che per queste consuete funzioni si va in chiesa anche per alcune cerimonie solenni: tali sono i battesimi, le nozze, le prime comunioni e le cresime. E purtroppo ci sono anche i funerali. Nella gloriosa cerimonia del battesimo, al piccolo incosciente che dorme o vagisce tra le candide trine, fa corteo una radunanza più o meno numerosa di persone: il babbo felice, i fratellini, spesso altri parenti, gli amici, i padrini. Tutti hanno l'obbligo di un contegno serio e riverente, e non può servire di scusa alla trasgressione la straordinaria eccitazione del momento. Ma il padrino e la madrina devono anche saper bene quale è il loro ufficio in quel momento: essi assumono una responsabilità seria davanti alla Chiesa e davanti al neonato, e debbono rispondere in suo nome. Sappiano dunque (lasciando ad altro luogo considerazioni più gravi) che quelle cerimonie hanno un profondo significato, e le assecondino debitamente. Durante gli esorcismi, il padrino e la madrina stenderanno la mano senza guanto, insieme col sacerdote, sul capo del bambino, e un'altra volta quando l'acqua è versata. Poi, sempre con la mano destra, prendono un cero acceso che rendono subito dopo che il prete ha benedetto il piccino in nome della Chiesa. S'intende che si devono pronunziare a voce chiara, se non molto squillante, le risposte prescritte, e che si dovrà recitare correntemente e rispettosamente il Credo che forma parte della cerimonia solenne:

Pagina 162

Poichè cominciavano già i tempi in cui solamente l'aspetto di una veste nera metteva in iscompiglio molti nervi, e dava occasione alle manifestazioni di un patriottismo a molto buon mercato. Vennero poi quelli in cui, secondo Massimo d'Azeglio, «a batter sul prete si diventava cavaliere», motivo pel quale a lui faceva voglia lasciarli stare... Ora son passati, grazie al cielo, o, come si suol dire con neologismo di gran voga, sono superati. Era forse una crisi necessaria nella nostra crescenza di popolo giovane e impetuoso; ora gli animi si sono acquetati, l'educazione nazionale si è meglio formata e si è giunti a comprendere che il prete è un uomo e cittadino, partecipante a tutti i diritti comuni di rispetto, se non altro; ma che inoltre la sua speciale condizione richiede riguardi che una persona bene educata non deve trascurare. Cominciamo col richiamare che ad ogni ecclesiastico si deve dar il titolo che dalla gerarchia gli viene attribuito; se questo titolo è un semplice reverendo, si cerchi di pronunziarlo con voce ed espressione di rispetto che varrà o togliergli quel tantino di banale e quasi di familiarmente canzonatorio che l'uso ha finito coll'introdurvi in certi casi. Un prete può aver anche altri titoli, o accademici, o nobiliari, o civili, nia tutti devono cedere il campo, nella conversazione, al titolo ecclesiastico, e nelle soprascritte delle lettere esser posti in seconda linea. Scriveremo dunque per esempio: - Al Rev.mo Monsignor (oppure: Al Monsignor Rev.mo Dott. Comm. A. Z.). Al Sacerdote non si porge mai per primo la mano (e tanto meno farà quest'atto una signora), al Vescovo si bacia l'anello, piegando il ginocchio. A mensa, l'ecclesiastico invitato dev'essere messo al posto d'onore o almeno a uno dei primi posti, se vi fossero altri invitati di condizione molto superiore. S'egli reciterà il Benedicite, tutti si alzeranno in piedi, assecondando rispettosamente la preghiera. S'intende facilmente che alla sua presenza bisognerà vigilare in modo speciale la conversazione, perchè nulla vi si possa insinuare che offenda la sua fede e il suo decoro sacerdotale. E si eviteranno le discussioni politiche e religiose. E nemmeno si tireranno in campo questioni dogmatiche o di carattere troppo spirituale, se non si è proprio nella intimità, nel desiderio di sentire una parola illuminante e confortante. Ma per quelle bisogna saper scegliere il tempo e il luogo, e un salotto di conversazione non è certo il più opportuno. Come non è permesso rivolgere ad alcun professionista domande troppo curiose o indiscrete, così (e tanto più) non si deve indagar nella vita privata, nelle abitudini, nelle relazioni che può aver un ecclesiastico, allo scopo di farsene poi bello con notizie inedite. Qui l'indiscrezione sarebbe doppiamente biasimevole. Naturalmente, ancor più riservata e corretta nel suo contegno, quando abbia a che fare con un religioso, dovrà essere una signora, la quale dovrà evitare ogni familiarità ed ogni libertà che possa prestarsi ad interpretazioni malevole o mettere l'ecclesiastico nell'imbarazzo. Il padre provinciale dei Cappuccini di Monza conduce Agnese e Lucia dalla Signora. «Ma state un po' discoste - dice loro - perchè la gente si diletta a dir male, e chi sa quante chiacchiere si farebbero se si vedesse il padre provinciale con una bella giovane... con donne, voglio dire». Che diremo poi di quelle signore le quali in tram, in ferrovia, trovandosi alla presenza di un religioso, non sanno trattenersi da quella deplorevole libertà di mosse e di posizioni che l'uso moderno (non però delle persone rispettabili) ha introdotto? E di quelle che si fanno trovar in casa propria e in casa di comuni amici con vesti tirate e succinte, e con larga esposizione delle membra superiori e inferiori? Mi raccontava un egregio monsignore che, invitato a un castello per tenervi alcune conferenze, la gentil padrona di casa gli andò incontro coll'automobile, alla stazione del paese. Era d'estate... e l'abbigliamento della signora, tutto veli e trasparenza e svolazzi, lo mise tanto a disagio che per tutto il tragitto non se la sentì di alzar gli occhi su lei. A tavola, le commensali non eran da meno. Ed egli dovette trovar la franchezza cristiana di fare, quando gli parve il momento buono, una rimostranza che fu, del resto, benevolmente accolta, giacchè quelle brave signore non peccavano se non per frivolezza. Interroghiamo insomma il buon senso e il buon cuore, e i suggerimenti che ci daranno rispetto a persone che hanno diritto a riguardi più oculati e a un contegno più corretto, saranno certo i più opportuni. E se ciò si dice per i sacerdoti, e per i frati, e pei religiosi in genere, molto più deve dirsi per le suore. Di queste creature silenziose, raccolte, attive, ora se ne trovano sempre in gran numero, per le strade, nei tram, in ferrovia, nelle anticamere. Esse hanno diritto al rispetto più scrupoloso, a tutti gli atti che la cortesia ci suggerisce come utili. Se ad ogni dama e ad ogni donna si deve riverenza, tanto più ne han diritto queste che dedicano tutta la loro vita al bene, ed è giusto che il contegno pubblico attesti la pubblica riconoscenza. Si rifletta altresì che ad uno sgarbo maschile o femminile, una signora del mondo può ribellarsi, e far sentire le sue proteste, e fors'anche metter molto bene a posto l'insolente. Una suora invece deve tacere e soffrire. Basterebbe questo per frenar la parola e l'atto scortese che assumerebbe un carattere di prepotenza e di viltà. Il che naturalmente è tutto alieno dall'animo dei miei gentili lettori, che non scorrono queste pagine se non per aver una conferma al loro consueto modo di agire.

Pagina 170

E perché non ci sia dubbio che la donna gentile non fosse proprio lei la prima a salutare, leggiamo la graziosa prosetta ov'egli descrive, all'età di diciotto anni, il suo secondo incontro con Beatrice, la quale gli veniva incontro vestita di bianco e accompagnata da due donne di maggiore età. «E volgendo lo sguardo dove io era, molto pauroso, mi salutò così virtuosamente che a me parve trascendere tutti i termini della beatitudine». Povero Dante!...E andò a casa con la testa così in visibilio, che fece un sogno misterioso e bizzarro, e vi compose sopra il primo sonetto. Quando Beatrice poi venne a sapere che Dante corteggiava la così detta donna della difesa, ne ebbe tanto dispetto che non lo salutò più. L'uomo cortese può largheggiare di saluti col sesso femminile, anche senz'essere un fatuo. Luigi XIV, che si faceva chiamare il Re Sole e aveva la sua buona dose di prepotenza e di vanità, era per altro così riguardoso verso le buone usanze che non incontrava su per le scale di Versailles la moindre coiffe (di cameriera o governante, intendiamo) senza togliersi cortesemente il cappello. Anche dunque alle donne di umile condizione e di scarsa appariscenza l'uomo ben educato farà il suo saluto. In America, si usa solo toccare il cappello: noi non ammettiamo questa forma frettolosa se non in gran confidenza tra eguali, e vogliamo che il saluto maschile sia fatto secondo le regole: si alzi il cappello e si abbassi più o meno profondamente davanti alla persona cui si vuole rendere omaggio: non si riponga in capo sinché la persona non è passata, e fermandosi eventualmente con essa, si attenda il suo cenno per ricoprirsi. E si badi di togliersi il cappello colla destra e non mai colla sinistra; se la destra fosse impedita con bastone, ombrello o altro, si passi rapidamente all'altra mano per averla libera. E chi avesse il sigaro in bocca, se lo tolga colla sinistra, e si scopra colla destra. Ma ora che gli uomini vanno quasi sempre a capo scoperto per le strade, queste norme sono buone solo per l'inverno. E allora? anche gli uomini saluteranno come le donne, cioè con un lieve chinar di capo. Se però il saluto è di molto rispetto, bisognerà che si fermino e che facciano l'inchino di società. Chi accompagna per via una signora è obbligato a salutare tutti quelli che la salutano anche se non li conosce. E se essa si arresta un momento a parlar con qualcuno, l'uomo bene educato si tiene in disparte. La strada non è il luogo delle espansioni esagerate: abbracci e baci in pubblico sono sconvenienti e qualche volta un po' ridicoli. Incontrando un amico che da molto tempo non si rivedeva, e la cui presenza improvvisa ci reca una gran gioia, si cerchi tuttavia di non dare spettacolo al pubblico: basta una viva esclamazione, una calorosa stretta della mano o anche di ambedue le mani, e si serbi il resto (lo dico specialmente alle donne che sentono assai più il bisogno di baciarsi e di stringersi) a luogo più opportuno. E non si facciano lunghe fermate per via: talvolta ciò disturba il conoscente, a cui pretendiamo invece, in tal modo, di mostrar affetto e premura, e disturbano gli altri passanti, specialmente se queste fermate si fanno lungo i marciapiedi e sulle cantonate. Camminando in più persone, bisogna aver riguardo alla reciproca dignità. Se sono in due, il posto d'onore è a destra o lungo il marciapiede. Se sono in tre, il più degno starà nel mezzo; a destra verrà chi gli viene appresso per grado o età, a sinistra l'altro. Se la brigata fosse di quattro o più favoriranno dividersi per non ingombrare tutto il marciapiede. Dovendo attraversare un passaggio stretto, è ovvio che si lasci prima passare il superiore; ma se fosse un passo un po' pericoloso o difficile, come può accadere in campagna, il più giovane preceda l'altro per esser pronto a porgergli la mano. Discorrendo coi nostri compagni di passaggio, si abbia cura di non alzar soverchiamente la voce, di non rider troppo, di non far cenno che sembri offesa o scherno a chi si trova sul nostro cammino. E' poi molto scortese, come già si è detto, fermarsi, nell'enfasi del discorso, sul marciapiede e costringer così anche gli altri a fermarsi. E' un perditempo e poi un intoppo alla circolazione. La persona bene educata tiene, o sola o accompagnata che sia, un contegno serio e riservato; una donna poi peccherebbe troppo gravemente d'imprudenza se si allontanasse dalle norme più severe. Essa in tal modo incoraggerebbe i bellimbusti e gli avventurieri, i quali non mancano mai, specialmente nelle grandi citta. Ma può capitare anche alla fanciulla più riservata, alla signora più rispettabile d'aver a fare qualche volta con un mascalzone (altro titolo non merita) che si ponga a darle molestia. Se il contegno più austero, se il silenzio più sprezzante non bastano a scoraggiare colui, la donna seria e prudente non si abbassi a rimproveri nè a minacce; faccia cenno al primo vigile che le capita, e gli affidi l'incarico di dare al malcreato la debita lezione. E' il mezzo più semplice e il più conveniente. Davanti agli avvisi, alle vetrine, alle curiosità d'altro genere, non si facciano lunghe fermate, il che è indizio di curiosità eccessiva e di poco riguardo agli altri. Se poi è uno spettacolo sconcio, come una lite, un ubriaco, o altro, si ricordi il severo rimprovero che si buscò Dante dal suo maestro Virgilio e Maestro Adamo. E il povero Dante ne rimase così umiliato, così vergognoso, che non sapeva nemmeno trovar parole per scusarsi: tanto che il buon maestro ebbe compassione di lui e, concedendogli tosto il suo perdono, gli aggiunse un prezioso consiglio che fa anche per noi e per tutti:

Pagina 179

Si diceva una volta che conveniva tener sempre la destra, camminando nei luoghi molto frequentati, e ognuno stava nel suo diritto, non scendendo dal marciapiede se non per cedere a una signora o a persona ragguardevole. Ora son cambiate le norme e nelle grandi città tutti devon tenere la sinistra. Rimangono naturalmente immutati i riguardi di cortesia, anche se si applicano in modo tutto inverso a quello che s'è fatto fin qui. Ma se qualcuno ignorasse le regole, o fosse distratto, o avesse altra ragione per non osservarle scrupolosamente, si lasci correre senza puntigli e liti e questioni che sogliono indicar testa piccola e tempo da perdere, senza contare eventualmente qualche altra più grave conseguenza. A un alto personaggio del Governo, a un Vescovo, a qualche illustre ospite della città si compete un saluto ossequioso. Incontrando un funerale o una processione, l'uomo si tolga il cappello, la donna si inchini; nessuno si vergogni di far in pubblico quelle testimonianze di riverenza che il cuore e il dovere gli suggeriscono. Se per istrada accade involontariamente di urtare o disturbare qualcuno, si facciano subito le debite scuse. E le scuse devono essere più ampie, se si trattasse d'un cieco, d'un mutilato, d'un vecchio. Essendo la strada il luogo dove si può essere esposti a qualunque incontro, si abbia cura di non scendervi se non vestiti di tutto punto. So di una certa signora, che fidandosi perché era scuro, e doveva far quattro passi e non più nella strada, uscì colle scarpe da casa, col cappello alla diavola, col soprabito male abbottonato... ed ebbe la bella sorte d'imbattersi nella più elegante e più maldicente delle sue amiche... Ma la strada non è soltanto il luogo dove si cammina. Anzi, ai tempi che corrono, ai poveri pedoni vien limitato e contrastato in ogni modo lo spazio: tutto il resto è il regno delle vetture, dei tranvai, delle biciclette, e soprattutto delle terribili automobili. Camminare per certe strade è talvolta un'impresa, traversare certi incroci di vie principali è una fortuna non comune. I vecchi, i malati, i bambini non dovrebbero arrischiarsi, preferendo dare un giro più lungo, ma più sicuro; gli altri faccian uso di tutta la loro prudenza e di tutta la loro calma, attenendosi poi rigorosamente ai cenni dei vigili, che sono messi apposta. S'intende poi che chi corre pazzamente in bicicletta, in carrozza, in automobile, infischiandosi dei regolamenti, dimostra di essere un villano, egoista e superbo. Purtroppo riescono talvolta a sfuggir ai castighi che si meritano, e vi sono di quelli che, dopo aver buttato a terra qualcuno, proseguono con doppia velocità la loro corsa, esimendosi dal dovere sacrosanto di riparare alla disgrazia cagionata, per quanto è possibile, nei vari casi. La persona bene educata rispetta i regolamenti, non si espone al rischio di far male a nessuno, serba un contegno calmo e signorile, sia che guidi la sua bicicletta, sia che tenga il volante di un'automobile.

Pagina 183

Che direbbe il Poeta se avesse a leggere nella cronaca dei giornali ogni lunedì la lunga serie delle disgrazie che accadono per le strade d'Italia ogni domenica? I posti nell'automobile non sogliono aver precedenza, perchè ognuno ha i suoi gusti: è naturale però che i più comodi e i più riparati sono per le persone di maggior riguardo. In vettura a quattro posti la regola è questa: a destra del sedile maggiore interno sta la persona superiore, al suo fianco è il secondo posto; il terzo in faccia al primo, il quarto in faccia al secondo. Nel salire, va innanzi la persona di maggior riguardo che si mette al suo posto, salgono poi le altre secondo il loro grado: ultima chi fa gli onori. Nel discendere si tien l'ordine opposto: l'ultima è la persona più cospicua, a cui si fa l'atto di tender la mano e porgere aiuto.

Pagina 185

Noi invece, fortunatamente, abbiamo cambiato opinione, e il pubblico giustamente s'inquieta quando, a metà del primo atto o più oltre ancora ode sbatter le porte dei palchetti, ode quei molteplici rumori di assestamento con cui le ritardatarie disturbano l'attenzione tutta rivolta a quel che accade sulla scena. Anzi si è fatto un passo di più: a certi spettacoli eccezionali è vietato l'ingresso oltrepassata l'ora convenuta. Ed è giustissimo che chi va al teatro unicamente per godere la sublime elevazione di spirito a cui lo rapisce la musica o il dramma, e forse per quella volta sola, e a prezzo può darsi anche di qualche tacito sacrificio, non debba aver sciupato il suo diletto dalla scortesia di vanitosi ristucchi. Ma che diremo poi dei palchetti ove si fa conversazione durante lo spettacolo? Costoro dimostrano non solo mancanza assoluta di riguardo verso gli altri spettatori e verso gli attori, ma anche piccolezza di mente, insensibilità artistica, boria insolente. E' anche non è bene commentar lo spettacolo coi vicini (se non fosse quell'esclamazione spontanea e rapida che la passione commossa ci chiama nostro malgrado alle labbra), criticare, far confronti, mostrar erudizione non richiesta, disprezzare, disapprovare. In quanto all'applauso, esso è il compenso più ambito dall'autore e dagli artisti, ed è giusto non lesinar loro questo premio alle loro fatiche. Soltanto gli uomini dovrebbero applaudire colle mani; ora però si transige molto su questo, e bene a ragione. Se a una serata di gala intervengono principi o sovrani, o Capi di Stato il pubblico li saluta con affettuoso entusiasmo plaudendo e sveltolando i fazzoletti, tutti si levano in piedi. Così pure al suono di inni patriottici. E son quelli, bisogna pur dirlo, i momenti in cui l'animo esulta ancor più che per dilettazione per quanto sublime dell'arte perchè allora passa, aleggiando su tutto e tutti, lo spirito della Patria. Gli uomini che intervengono alle serate di gala devono portar l'abito nero, cravatta e guanti bianchi. A spettacoli più modesti basterà, sia per uomini, sia per donne, un corretto abito da passeggio. Negli intervalli fra un atto e l'altro, il pubblico si riposa, per così dire, delle sue fatiche intellettuali, si piglia il gusto di un po' di rassegna, di commenti, di critiche. Si scambiano allora visite di palco in palco si gira intorno lo sguardo armato di cannocchiale. Ma bisogna che le visite siano brevi; al suono del campanello che accenna la ripresa dello spettacolo, ognuno se ne ritorni al suo posto; se pur la confidenza con la signora visitata non permette di trattenersi, per meno male, sino alla fine del nuovo atto. E anche nell'uso del cannocchiale ci sia riguardo e discrezione. E' cosa molto scortese prender di mira con prolungata insistenza quel tal palchetto o quella tal signora. In un palco, il posto d'onore è quello che guarda la scena; ed è quello che la signora occuperà se con lei fosse una figlia o altra signorina, e che cederà ad una signora più attempata e ragguardevole. Non è bello però cambiar il posto ad ogni atto; basterà farlo una volta o due durante lo spettacolo. E' permesso a un visitatore, quando sia in confidenza, offrir qualche dolce alle signore da cui si reca. S'intende che il babbo o il marito o il fratello, non devono lasciar una signora sola nel palchetto per scender in platea o recarsi a far qualche visita: potrà far questo solo se intanto vi è con lei qualcuno che si è recato a visitarla. E non si esca e non ci si alzi se non quando lo spettacolo è veramente finito, e non quando le ultime battute, commozione, ansia, esultanza, strazio, espresso dall'artista colla massima tensione del suo genio, risuonano dalla scena e attirano a sè in un ultimo slancio l'anima protesa di un pubblico vero. Quei momenti sono sacri e vanno rispettati, anche se un insulso qualunque non è più capace a forza di materiale abitudine di intendere il grido supremo di Otello o l'estremo gemito di Violetta. Quando dunque il sipario è calato, e gli artisti lieti della bene spesa fatica, si presentano al pubblico per ricevere il premio dei suoi plausi, nei palchetti si può alzarsi e disporsi alla partenza. E' doveroso per gli uomini aiutare le signore a indossare i loro mantelli; le signorine faranno bene ad essere pronte esse, se fosse il caso, a servir la mamma, la zia, altra parente o amica che fosse con loro. Scendendo le scale non sono proibiti i commenti e i saluti, e spesso qualche incontro amichevole fornisce il completamento più bello della serata, nello scambio sincero e moderato delle impressioni. Così vanno le cose... o così dovrebbero andare, a grandi spettacoli. Ma vi sono spettacoli più alla buona: gli spettacoli di prosa, a cui, come si diceva, si va in abito da passeggio, spesso con una determinazione presa lì per lì, all'annuncio di un lavoro celebre, o anche per procurarsi uno svago inaspettato. Eccettuato che per l'impegno dell'abbigliamento, le regole però rimangono press'a poco le stesse, le regole di persone bene educate, che rispettano sè e gli altri e che hanno il debito riguardo per non far nulla che possa turbare o diminuire il piacere altrui. Si presenta però talvolta un caso. A sua insaputa, una persona onesta può trovarsi al fatto di vedere sulla scena ciò che profondamente disgusta la moralità dell'animo suo. So di due ottime zitellone che da chi sa quando non andavano più al teatro, trattenute da speciali impegni, e che una sera, finalmente, trovandosi libere, stabilirono di regalarsi una serata straordinaria. Si vestirono a tempo, presero i loro posti ed entrarono. Era l'epoca delle riesumazioni classiche cinquecentesche... e le due ottime signore si trovarono ad assistere... alla Mandragola! Se non morirono di vergogna fu un miracolo, e appena finì il primo atto se la svignarono come fu loro possibile, nascondendosi il viso. Bisogna dunque che una persona che va al dramma sappia, press'a poco, qual genere di rappresentazione gli si presenterà, e ciò è obbligo speciale per un capo di famiglia, che voglia condurre la propria moglie o le figlie, al fine di non esporle a una dolorosa mortificazione. Si vuol avvertire talvolta: non è spettacolo per signorine. Ma io consiglierei anche le signore assennate a non intervenire: ciò che disgusta e offende i sentimenti più delicati dell'animo femminile non dovrebbe trovare scusa o connivenza a nessuna età. E forse, davanti a un contegno più serio e più reciso della maggioranza femminile, i capocomici e gli autori cambierebbero rotta! Nei teatri popolari, il pubblico si abbandona più facilmente alla manifestazione clamorosa delle sue impressioni. E passi pure per gli applausi e le esclamazioni, e non ci faccia sorridere di meraviglia scherzevole l'ingenua commozione di qualche buona donna che piglia proprio sul serio la faccenda e piange e freme... Ricordiamo il grazioso sonetto di Neri Tanfucio, in cui il pubblico inveisce contro il tiranno, all'Arena. Fin qui, niente di male. Ma il male è quando il popolo non abbastanza educato, tumultua, grida e fischia. Il fischiare è un atto crudelmente villano contro chi non si può difendere, e ha fatto quanto meglio poteva per divertire il pubblico e farsi un po' d'onore. La persona bene educata non fischia mai. ... Cioè, ammetto un solo caso. Ed è questo: se una scena immorale fosse accolta da una salve di fischi, la lezione sarebbe severa per chi tocca, ma non certo inefficace. In tutti gli altri casi è inutile usare tal modo di riprovazione, quando c'è quell'altro così semplice e dignitoso, e che non fa male a nessuno: alzarsi e andarsene.

Pagina 207

Le feste da ballo presentano una serie di immensa varietà e crescente importanza, a cominciar dai così detti quattro salti in famiglia, giungendo sino ai balli di Corte. E ci sono le festicciuole di campagna e agli stabilimenti balneari, e ci sono le feste nei casini e nei circoli, e i veglioni, e i balli mascherati, e i balli pubblici e i balli da bambini, e chi più ne ha, più ne metta. Prima di tutto, è bene risolvere una questione che molte mamme si pongono innanzi con una certa preoccupazione: E' conveniente o no condurre le proprie figlie al ballo? A queste mamme prudenti e coscienziose, il cui numero pur troppo va sempre più diminuendo, si può rispondere che, colle debite precauzioni, il ballo può benissimo esser concesso alle fanciulle, come svago adatto veramente alla loro età, e anche esercizio di grazia, di disinvoltura, e modo d'imparar a conoscere un po' il mondo e... valutarlo quanto si merita. Si escludano dunque senz'altro i balli nei circoli e nei casini di cui non si conosca perfettamente l'ambiente perchè vi si possono trovare delle sgradevolissime sorprese, si scartino senz'altro i balli pubblici agli stabilimenti e negli alberghi e si accetti con riconoscenza l'invito fatto da qualche famiglia amica, ove non si troveranno che persone della propria condizione, o con lievissima differenza, e soprattutto di garantita moralità. Alle grandi feste poi, nelle ambasciate e nei balli di Corte, le signorine giovani non sogliono intervenire. Ai veglioni potranno fare una fuggevole comparsa, non trattenendovisi mai oltre la mezzanotte, e non accettando nessun invito al ballo. Possono però far qualche danza, se proprio ne hanno voglia, con chi loro serve da cavaliere o con qualche amico di casa. Chi riceve un invito al ballo, riceve anche, presso a poco, l'indicazione dell'abbigliamento che deve usare. A un ballo d'importanza, si va in abito di gran gala: gli uomini in marsina (frac), le signore con ricche vesti scollate, e adorne dei loro gioielli. Se fosse una festicciuola alla buona o almeno senza grande importanza, gli uomini possono usare un elegante abito da passeggio, o da visita, nero o di colore scuro, preferibilmente grigio o turchino, le signore faranno bene a non rinunziare alla gaia parata di un vestitino fresco e chiaro, lievemente scollato. Se poi nell'invito è dettò che il ballo sarà bianco O di color rosa, o violetto, ecc., è chiaro che le danzatrici dovranno indossare un abito elegantissimo, del colore prescritto: gli uomini porteranno all'occhiello un fiore di tale tinta. E se si tratta di balli simbolici (fiori, gioielli, ecc.) di balli in costume, si deve porre la massima cura nel preparare un vestiario che risponda perfettamente al carattere del fiore, del gioiello, della maschera, del tipo che si vuol rappresentare, per non portare una spiacevole stonatura e farsi giudicare persone di poco gusto e di scarsa istruzione. Naturalmente, chi non si sente di presentarsi a un ballo dove le esigenze gli sembrano superiori alle sue forze, farà bene rispondendo con un cortese rifiuto, e adducendo un pretesto qualunque, purchè plausibile. E' poi obbligo suo, entro gli otto giorni, una visita di ringraziamento, come se avesse accettato. L'ora in cui suole incominciare un ballo è fra le nove e le dieci: in generale c'è una certa ripugnanza a comparir fra i primi, ma non è nemmeno buon gusto aspettar a festa troppo inoltrata. Le mamme e i babbi non danzano, almeno per regola generale, e non sono quindi obbligati a conoscere i balli moderni; ma le giovani spose e le signorine i giovanotti vanno proprio per quello: dovranno dunque esser sicuri di ballare bene, il che vuol dire con precisione e con grazia. E' dunque da approvarsi la madre di famiglia che fa istruire i propri figli in quest'arte, la quale potrà benissimo esser detta frivola, ma è pur necessaria a chi vuol frequentare la società. E del resto, intesa bene, la danza giova ad assuefare alla grazia, alla compostezza, alla disinvoltura nel movimento e nel tratto. Ma che diremo di certi balli moderni? Essi hanno ormai fatto tanto discorrere di sè, e hanno sollevato tali tempeste di accuse e di difese, che ormai sembra un fastidio inutile e zelo sprecato aggiungere altro. Si può dire però che ogni ballo può essere più o meno onesto secondo il modo con cui viene eseguito. La saggia madre di famiglia assisterà alle lezioni dei suoi figliuoli, farà eseguir qualche prova, e raccomanderà le opportune correzioni, se ve ne fosse bisogno. E anche mentre danzano le sue figliuole, le terrà d'occhio, e se vedesse che qualche cavaliere non usa con loro i riguardi che si devono, sia nelle mosse, sia nel tenerle avvinte per la vita o pel braccio, saprà facilmente porvi rimedio. Le signore non vanno mai sole al ballo; la moglie deve sempre essere accompagnata dal marito, o se questi manca, un fratello o il figlio maggiore servirà di cavaliere. Entrando nella sala da ballo, la signora o la signorina, a braccio del rispettivo cavaliere si recano anzitutto a salutare la padrona di casa (la quale generalmente si aggira per la sala e muove incontro agli invitati) indi siede dove meglio le sembra, possibilmente presso a qualcuno che già conosce. Le signorine, generalmente vanno al ballo con una grande smania di ballare, e mal volentieri sopportano il caso di restar qualche volta a sedere: i giovanotti, invece, sogliono averne pochissima voglia e spesso si vedono, appena hanno collocato le loro signore, ritirarsi in altra sala, e star lì ore intere, a fumare e discorrere. Questi giovani fanno molto male: mancano di riguardo ai padroni di casa che li hanno invitati per render più animate le danze, mostrano di sprezzare il resto della compagnia e di non aver debiti riguardi verso il sesso gentile. Farebbero molto meglio a rimanersene a casa, anzichè ingombrar le pareti e darsi l'aria di antipatici posatori. Il giovane bene educato, dopo aver salutato la padrona di casa, la invita per un giro, se ella balla, invita poi le figlie o le altre parenti. E' buona cosa non invitar mai una signorina senza esserle presentato: ora si va derogando da questa regola, sia presentandosi da sè, sia facendo a meno della presentazione, ma è abuso da lasciarsi ai balli pubblici, dove, come ho detto, una saggia madre non condurrà mai le sue figlie. Per il cotillon il giovane può invitare anche una signora o una signorina che non conosce, ma dopo deve presentarsi a lei per mezzo di qualche conoscente comune o della padrona di casa. Egli ha l'obbligo di far ballare tutte le signorine, anche se non sono belle o simpatiche, anche se non sono molto eleganti, o non hanno grazia nella danza. In questo appunto spicca la cortesia di un giovane ben nato. S'intende ch'egli può anche lasciarsi guidare dalle sue simpatie, ma con discrezione; perché se troppo frequentemente danzasse colla stessa signora o signorina, farebbe sorgere delle ciarle spiacevoli. In quanto alla signorina, toccherà a lei evitar con garbo e prudenza di aver troppo spesso lo stesso cavaliere. Purtroppo gli occhi che si fissano su di lei non s empre sono benevoli, e talvolta l'invidia fa travedere, e suggerisce male interpretazioni a cose per se stesse forse innocentissime: ella non deve tollerare che la sua riputazione sia nemmeno lievemente sfiorata. S'intende che, dopo aver rifiutato una danza a chi l'ha invitata per primo, non l'accetterà da nessun altro, e starà presso la madre per tutto quel tempo. Per non errare nell'ordine dei balli concessi, una volta si usava il taccuino che i francesi chiamano carnet e che soleva essere presentato alle dame, al loro ingresso in sala. Comunque sia ora, abbia la signorina la massima cura per non commettere dimenticanze e trasposizioni che potrebbero offendere o venire mal interpretate. Un vero gentiluomo, però non si mostra offeso se per caso gli accadesse d'esser dimenticato da una danzatrice con cui aveva preso impegno di qualche ballabile; se è uomo di spirito saprà uscirne con decoro e senza bisogno di umiliare la smemorata. Durante il ballo vi suol essere servizio di rinfresco e gelati che son portati in giro dai camerieri e a cui ognuno pensa da sé; se il ballo è un po' più di riguardo, vi è il così detto buffet a cui i cavalieri conducono le loro dame, e dove è obbligo degli uni o degli altri comportarsi senza indiscrezione e lungi da ogni volgarità. Al ballo di gran gala spesso vi è una cena, che si suol servire per lo più tra mezzanotte e il tocco; in una sala elegantissima, con piccoli tavolini da due a quattro persone al più, dove si servono cibi freddi e molto ricercati. Ogni cavaliere vi conduce la propria dama, le si pone accanto, la serve di quanto essa desidera e la intrattiene in piacevoli discorsi. Se le signore s'accorgessero che la loro toilette ha bisogno di qualche ritocco, sappiano approfittare del gabinetto che dev'essere annesso alle sale, ove una cameriera sta pronta a prestar i servizi necessari. Quando poi una signora s'accorge che il ballo l'ha troppo riscaldata, e sente di non aver più l'elasticità di prima, e di ancare e di perder l'armonia dei suoi lineamenti nello sforzo del moto, si ponga tranquillamente a sedere, rinunziando al resto della nottata a qualunque invito, e contentandosi del piacere di veder gli altri. Le mamme che conducono al ballo le loro figliuole devono mostrarsi oculate e piene di tatto. Si ricordino anzitutto che sarebbero imperdonabili se danzassero anch'esse (sia lecito solo un giro, nelle feste di gran confidenza, fatto per compiacenza con qualche loro... contemporaneo) e badino poi dove vanno e dove si fermano le signorine, e con chi si accompagnano, e si facciano presentare i cavalieri nuovi. Non turbino il piacere dei loro giovani col mostrarsi annoiate o stanche, col profferir troppo presto la spiacevole frase: ora si va a casa... A casa si va dopo che la maggior parte delle danze si sono svolte. Ultimo, o quasi, è il cotillon, che prepara ai ballerini le maggiori attrattive, coi suoi giuochi svariati, colle sue brillanti sorprese. Se non vi è una seria ragione, è una scortesia andarsene prima. Verso l'alba, anche i più infaticabili ballerini cominciano a dare qualche segno di stanchezza. La serie dei balli è stata svolta, e con qualche aggiunta anche, se la confidenza lo permette; i padroni di casa si mostrano i meno stanchi e i più disposti (poveretti!) a prolungare la festa.. ma tutto deve avere una fine a questo mondo, e la musica tace, e la brigata si scioglie con mille ringraziamenti agli ospiti gentili e saluti reciproci. Talvolta però si usa andarsene all'inglese, cioè senza prendere congedo. E veramente non è da disapprovare quell'uso che toglie ai padroni di casa la fatica di reiterati complimenti, e presenta anche il vantaggio di lasciare maggior libertà a chi vuole andarsene e non mettere a disagio chi resta. Nei balli numerosi si faccia dunque così. Ma nei balli più intimi, è meglio salutare e ringraziare, prima d'andarsene; facendo però, se la dipartita fosse sollecita, in modo che gli altri non se n'accorgano e che non interpretino quest'atto come il segnale della fine; cosa che potrebbe spiacere a molti, e più che mai ai padroni di casa. Chi è intervenuto a un ballo deve far la sua visita di convenienza entro gli otto giorni. S'intende poi che si mostrerebbe veramente maleducato e indiscreto chi andasse poi criticando, presso il terzo e il quarto, o le persone che han preso parte alla festa, o il modo con cui è stata data. Se qualche particolare può essere spiaciuto, se qualche incidente deplorevole è accaduto, nonostante il buon volere dei padroni di casa, è stretto obbligo di chi ha ricevuto una cortesia, non contraccambiarla colla maldicenza. Un silenzio prudente e non affettato non costa nulla e risparmia molti fastidi.

Pagina 222

Questa grande massima di giustizia sociale che ha una così larga portata, e che se fosse ben compresa taglierebbe corto a molte spinose questioni, va applicata anche a quelle questioni spicciole di convenienza e di cortesia che pur hanno anch'esse tanta importanza nella tranquillità della vita. Ci piace che gli altri siano con noi riguardosi, gentili, previdenti? Ebbene, cominciamo noi col mostrar verso di loro e riguardi, e gentilezze e premure, e mettiamo le basi di uno scambio nel quale raramente o mai avremo da perdere. E questo scambio si cominci nella famiglia, che della società è la base, e più precisamente tra marito e moglie che della famiglia sono il centro. Durante il fidanzamento e nei primi tempi del matrimonio dura ancora la poesia dell'amore che ha spinto l'un verso l'altro i due esseri di cui ciascuno pareva perfetto all'occhio dell'altro. Un po' alla volta, i veli cadono. L'amore dura, se è basato sopra una solida stima, se ci sono le vere qualità essenziali, ma si cominciano a vedere i difetti, si cominciano a dimenticare certi riguardi. Un proverbio toscano, molto pessimista, suona così: «Il primo mese gli è rose e miele, dentro sei mesi gli è miele e fiele, in capo all'anno gli è tutto fiele». Così però non è sempre, grazie al cielo, e così non deve essere, se lo sposo e la sposa avranno cura di conservar sempre accesa la lampada profumata della reciproca cortesia. Un buon marito, una buona moglie non sono soltanto quelli che adempiono ai doveri sostanziali del loro stato, ma che cercano di rendersi bella reciprocamente la vita col rispetto, l'amorevolezza, la sollecitudine. L'art. 130 del Codice Civile che si legge solennemente dinnanzi ai due sposi prescrive l'obbligo della fedeltà, della coabitazione, dell'assistenza reciproca. E va benissimo; ma anche adempiendo perfettamente questi obblighi, la coppia coniugale può, dopo qualche tempo, sentir molto grave il peso della sua catena. Ci vuol qualche altra cosa che il codice non impone, ma che deve sgorgare dal profondo del cuore: una quantità di piccole avvertenze le quali servono mirabilmente a impedir che si senta il peso di quella tal catena, anzi riesce a mutarla in catena di rose. Ci sono dei coniugi che non solo, dopo molti e molti anni di unione, non han perduto nulla della poesia del loro amore, ma che l'han sentita farsi sempre più forte, più pura, più soave, via via che il tempo passava e che diminuivano le attrattive fisiche, e si avanzavano i mali della tarda età. Il marito deve ben essere persuaso che colei che egli ha liberamente scelto, ha diritto, come padrona della sua casa, come madre dei suoi figli, ad ogni rispetto da parte sua. E come non deve tollerare che altri la offenda o la disgusti così deve egli usar sempre nella civile società, verso ogni signora. Egli non si permetterà mai attitudini volgari in sua presenza, nè un parlare scorretto anche nell'intimità; le userà a tavola, a passeggio, in conversazione, le piccole cortesie che il galateo impone, e che non si devono affatto trascurare anche colle persone di maggior confidenza. Cercherà di porgerle aiuto nei piccoli impicci domestici, prestandosi a qualche spesa, a qualche commissione a cui ella non possa attendere. In certi momenti di crisi ancillare è veramente prezioso l'uomo cortese che risparmia alla moglie l'uscir di casa per comprar ciò che occorre, che le porge la mano in qualche faccenduola, che va a sollecitare qualche fornitore. E non credano per questo i signori uomini, di perder nulla del loro decoro. Le persone sagge non potranno che stimarli di più, e la moglie sentirà una tenerezza e una riconoscenza speciale per queste amorevoli e modeste prestazioni. E se qualche volta le cose non vanno proprio a modo suo, il marito non brontoli, non protesti, non si indispettisca. Basta talvolta una parola opportuna, un consiglio chiaro e pratico per togliere un inconveniente, per rimediare a una irregolarità. E soprattutto bisogna ricordare che i modi acerbi e burberi feriscono inutilmente, mentre le belle maniere penetrano l'animo e persuadono: bisogna ricordare che la giovane donna esce talvolta da una famiglia in cui non si è avuto abbastanza cura di prepararla alla nuova vita, e che la sua inesperienza è scusabile. La buona volontà, il desiderio di corrispondere alla fiducia dello sposo riusciranno in breve tempo a farle acquistare le doti necessarie. Sommamente scortese si mostrerebbe quel marito che facesse a sua moglie delle osservazioni pungenti in presenza di persone di servizio o dei figli. Eppure ci sono degli uomini che non sanno frenarsi e che sfogano impulsivamente il loro malumore appena qualche cosa li irriti o li punga: le prime persone con cui inveiscono sono quelle di famiglia. E non badano se a torto o a ragione. Ecco qui; tornano a casa dai loro affari colla luna a rovescio, con una fiera voglia di brontolare e criticare tutto. Siedono a mensa, e mentre nella riunione delle persone più care dovrebbero sentirsi rammorbidire e raddolcire l'animo, si direbbe che si rallegrino d'aver trovato su chi versare tutta l'acerbità e l'amarezza. Nulla va bene di ciò ch'è portato in tavola, nulla lascian passare di qualche inavvertenza del servizio; gridano, protestano, convertono in un supplizio l'ora della più cara intimità domestica. E di tutto fanno responsabile la moglie, a ragione, e a torto, e la mortificano duramente in presenza anche di ospiti, e non pensano forse che sorta di tortura infliggano alla povera donna, la quale spesso deve tacere e soffrire per meno male. «Preferirei cento schiaffi in camera - diceva una buona signora a cui il marito (stimatissimo galantuomo del resto) si pigliava il gusto d'infliggere tale quotidiano supplizio - piuttosto di una mortificazione in presenza di altra gente». Al contrario, il marito bene educato deve sempre mostrare di approvare ciò ch'ella fa, e difenderla contro gli altri, anche se in cuor suo giudichi che ella abbia torto. Tale gentilezza cavalleresca non gli impedirà poi di disapprovarla, o anche rimproverarla a quattr'occhi: è questo, anzi, suo preciso dovere. Ma sarà severissimo nell'esigere dai servi e dai figli il massimo rispetto verso di lei. Vi sono persino dei casi in cui il marito e la moglie, disuniti nell'animo da profondi dissapori, hanno così bene saputo osservar le convenienze reciproche da andar avanti anni ed anni, colle apparenze di una pace domestica che riusciva a ingannare anche gli intimi. E chi oserebbe biasimare un tale inganno, che conservò ai figli il rispetto verso i genitori e risparmiò all'animo loro terribili impressioni in un'età in cui non si cancellano più? Fuori, di casa, il gentiluomo deve sempre mostrarsi lieto e onorato di accompagnarsi con sua moglie, e deve farla partecipe di quegli onesti piaceri che la loro condizione permette. E' brutto veder il marito che frequenta le conversazioni, i teatri, persino i balli, lasciare a casa la moglie senza una legittima ragione. Se poi egli è un uomo di studi e alieno dalla mondanità, pensi che non può pretendere altrettanto da una giovane donna, e procuri di vincere le sue ripugnanze e accompagnarla a qualche ritrovo da lei specialmente desiderato. Nelle sere poi in cui c'è ricevimento in casa, non gli è assolutamente permesso assentarsene del tutto, e dovrà anzi coadiuvare la moglie nell'accogliere gli ospiti, nel presentare i rinfreschi, nel trattenerli piacevolmente. Gli sarà bensì permesso, dopo aver adempiuto questi obblighi, ritirarsi cogli amici nel salotto a fumare o a far qualche partita di bigliardo. Nelle visite di giorno, però, il marito non suole accompagnare la moglie se non nel giro consueto, dopo il ritorno dal viaggio di nozze, e quando, fissandosi per ragione d'ufficio in qualche città nuova, si fa la conoscenza dei superiori e dei colleghi. E in queste visite egli porterà tutto il garbo e la prudenza, astenendosi da ogni osservazione e da ogni frase che possa mettere a disagio la sposa, in riguardo a persone estranee, e assecondandola, anzi, in quello che ella dice e propone. Ma ai doveri del marito corrispondono quelli della moglie, e la mancanza, da parte sua, è ancor più biasimevole. L'amorevolezza, il buon garbo, la cura della propria persona sono doti assai più femminili che maschili: basta talvolta la mancanza di una di queste per mandar all'aria la pace domestica. Uno scrittore francese ha scritto che il primo dovere della donna è quello di essere bella. Un paradosso, si capisce, ma che pure ha un fondo di verità. La fanciulla ha istintivo il culto della propria persona, il desiderio di abbellirsi. E' la natura che glie lo ha messo nel cuore, come ha dato i petali variopinti ai fiori, e le ali screziate alla farfalla. E' il desiderio di attirare, di piacere: desiderio spesso inconscio, e che si accompagna spesso, senza contraddirle, con le doti più belle dell'anima. Ma accade talvolta che, dopo il matrimonio, la cura della propria persona, il desiderio di piacere cedano alla negligenza e alla svogliataggine. E allora la sposina, la giovane madre, girano per la casa spettinate e malvestite, o in pantofole o in veste da camera, scusandosi colle faccende domestiche, e dichiarando che non hanno ambizione... che ormai son piaciute a uno e basta così. Ma proprio quell'uno prova un senso di disgusto e di mortificazione nel veder così sciatta la bella personcina che aveva presentato, a lui, la incarnazione del suo ideale. E' una caduta lacrimevole dalla poesia alla prosa! E sarà feconda di molti guai se egli farà, forse anche involontariamente, il confronto colle signore che vede fuori, linde, agghindate, eleganti. La saggia sposa, dunque, non creda che soltanto le sue virtù domestiche possano bastare: procuri di conservar sempre le sue attrattive fisiche; si pettini con garbo e si mostri sempre con un vestitino accurato e grazioso. Se vuol attendere alle faccende domestiche si copra d'un ampio grembiulone, se non vuol sciuparsi le mani faccia uso di grossi guanti. Ma procuri di mostrare al marito, quand'egli la ritrova tornando dalle sue occupazioni, una donnina graziosa e piacente. E i suoi modi siano sempre gentili, il suo aspetto sempre sereno. Bisogna pensare che l'uomo che talvolta rincasa, stanco e di cattivo umore, ha bisogno di chi l'aiuti a dimenticare i guai della vita, e che proprio a lei è affidato questo ufficio gentile. Largheggi pure di saluti e d'accoglienze affettuose, e insegni ai figliuoli a fare altrettanto. Se lo vede burbero, se riceve qualche parola pungente, non s'indispettisca, non ribatta: lasci passare quel momento, e la serenità non tarderà a comparire. E procuri che la mensa abbia un gaio aspetto, e che nei cibi sia accontentato il suo gusto. Talvolta basta un'inezia di questo genere per rasserenare un animo torbido. Se ella ha avuto qualche fastidio domestico, se la donna di servizio si è licenziata, se i bambini sono petulanti, procuri di dimenticare queste piccole contrarietà e di frenare il malumore. Ma che dire, invece, di quelle mogli che, appena il marito rincasa, lo assalgono col racconto di ogni spiacevolezza, e guastano al pover'uomo quel poco riposo che gli è concesso? S'intende che negli affari domestici esse devono prendere consiglio dal marito, e partecipargli ciò che riguarda la servitù o i figliuoli, ma devono saper scegliere il tempo, e farlo con modi discreti. La saggia moglie gli risparmi tutto quello che può inutilmente infastidirlo; non gli introni il capo con pettegolezzi di vicini, con ciarle sconclusionate. Cerchi invece di portare il discorso su argomenti piacevoli e cari ad entrambi, cerchi d'interessarsi a quanto egli racconta, e se le par il caso di esprimere un giudizio e di dargli un parere, lo faccia con modi prudenti e cortesi e non manchi mai di ringraziare alle piccole cortesie ch'egli le usa a mensa o altrove, e cerchi alla sua volta di mostrarsi servizievole e pronta ad ogni suo desiderio. Talvolta il marito desidera uscire a passeggio o passar una serata al teatro, ma da solo, dice, non si divertirebbe: ci vuole la compagnia della moglie. E allora essa sappia apprezzare quel sentimento, e lo assecondi: anche se il suo desiderio sarebbe stato invece di rimanersene a casa, si vesta ed esca, e procuri di fargli buona compagnia. Solo nel caso che avesse bambini piccoli, il dovere verso di loro l'assolverebbe da ogni altro. Ma, del resto, bisogna ricordarsi che la vita in comune è fatta tutta di piccole condiscendenze e di piccoli sacrifici, i quali però trovano sempre ampio compenso. E a questo mondo non c'è nulla che valga la pace domestica. Se il marito è uomo di studi, se occupa un posto pubblico molto elevato, la donna si ricordi che sarebbe una vera colpevolezza da parte sua molestarlo con esigenze personali, turbargli l'ordine delle sue occupazioni. Sappia comprendere e rispettare il raccoglimento che spesso egli impone intorno a sè, e non mostri un volgare egoismo nel pretendere che i grandi interessi della scienza o della cosa pubblica cedano alle sue voglie e ai suoi gusti. Mostri in tal caso una onesta compiacenza dei meriti di suo marito: si guardi però bene dal forzare le sue confidenze o, peggio, di darsi importanza in pubblico. La casa è il regno della donna. Nel farla bella, ella non deve soddisfar solo una sua personale inclinazione, ma deve anche pensare di gradire al marito, assecondando le sue inclinazioni. Se a lui piacciono i fiori, le piante, gli oggetti d'arte, è una vera fortuna: sarà tanto più facile a lei accontentarlo in cose sì facili e belle e guadagnarsene la gratitudine e l'ammirazione. Abbia poi la moglie tutta la cura verso la biancheria e i vestiti del marito. Anche se vi fossero persone di servizio in abbondanza, ella si riservi di sorvegliar la sua guardaroba, perchè nulla vi manchi. E se il marito ha a questo proposito una qualche mania, una esigenza un po' esagerata, procuri di compatire di assecondare. E' forse meglio che un uomo pecchi di soverchia ricercatezza che di trascuratezza volgare. E, del resto, quando un uomo si presenta in società, si giudica spesso dal suo vestire l'abilità della moglie il grado del suo affetto per lui... Un bottone ciondolante, una camicia male stirata sono stati origine, talvolta, di scene domestiche assai disgustose, e di commenti estranei molto... pungenti per la signora.

Pagina 234

IL PORTAMENTO - LE VESTI A MENSA - IN CONVERSAZIONE PRESTAZIONI - SALUTI COMPLIMENTI 2

Pagina 26

L'invito a una festa da ballo deve essere fatto quindici giorni prima; quello a un tè pomeridiano o a un trattenimento serale almeno una settimana prima, e così pure a un pranzo di gala. Per un pranzo alla buona, si può invitar anche due o tre giorni prima. Si può fare l'invito a voce se si è in confidenza. Altrimenti si scrive un cortese biglietto oppure si manda un cartoncino elegantemente stampato. In quest'ultimo caso, la dicitura è press'a poco questa: «Il signore e la signora X Y saranno in casa la sera del ..... alle ore .....» Si suole anche aggiungere: abito da società o abito nero, il che vuol dire la massima gala, a cui corrisponde abito scollato per le signore. Ciò è comodo a sapersi dagli invitati. Dare una festa da ballo è certo un grave impegno, e non ci si deve mettere chi non abbia il modo di cavarsela con molto onore. Bisogna anzi tutto stabilire nel bilancio preventivo una spesa notevole, bisogna poi avere una casa adatta, e poter disporre di almeno tre sale libere e comunicanti, dopo l'anticamera. Nella prima sala, ch'è la più ampia, si svolgono le danze. Essa dev'essere abbondantemente illuminata, adorna secondo il gusto della padrona di casa. Nessun mobile, se non divani e sedie lungo B. muro: una tela stesa a terra a guisa di tappeto. In un angolo, dissimulata tra i fiori e gli arbusti, l'orchestrina. Si capisce che in una vera festa da ballo si chiamano suonatori di professione, e non si pensa neppure d'inchiodar al piano qualcuno della famiglia, o magari di pregare qualche invitato. Al giorno d'oggi però, quando il ballo non debba avere un carattere speciale d'ufficialità o etichetta, l'orchestrina è spesso sostituita da un radiogrammofono con buoni dischi, sempre s'intende se è ballo in casa privata. La seconda sala è ad uso delle mamme che non ballano, e in generale delle persone mature che stanno a discorrere fra di loro: qui vengono anche i danzatori a riposarsi. Abbandoneranno poltrone, sedie, divani e ogni comodità. Per gli uomini però sarà meglio, potendo, preparar una saletta apposita, perchè vi stiano a fumare e trattenersi a loro agio; tanto meglio, se c'è, il bigliardo. Finalmente c'è la saletta del buffet, che deve rimaner chiusa sin verso mezzanotte. Essa avrà una lunga tavola centrale su cui stanno disposti cibi freddi e bevande, e, se vi è spazio sufficiente, piccole tavole ove siederanno gli invitati. Il trattamento deve essere finissimo: pollo in galantina, sformati, crostini assortiti, pesce in mayonnaise, arrosto di vitello ecc.; paste, dolci in quantità, biscotti e confetture, aranci e mandarini. Per bevande, vini bianchi, asciutti e dolci, e lo champagne che può benissimo essere sostituito dal nostro spumante d'Asti. Generalmente gl'invitati si servono da loro, o per meglio dire i cavalieri servono le loro dame, dopo averle fatte sedere. Ci devono però essere almeno due domestici al servizio generale. E s'intende che, anche prima o dopo la cena, devono circolare altri rinfreschi: limonate, aranciate, gelati, ecc. I padroni di casa debbono essere pronti qualche tempo prima dell'ora fissata, per ricevere i loro ospiti. Indosseranno l'abito prescritto: se gli invitati devono portare la marsina sarebbe una grave sconvenienza che il padrone di casa avesse la giacchetta o l'abito chiuso, per le signore sarebbe poi una mortificazione assai grande giungere, per esempio, con un vestito di mezza gala, e trovar la padrona scollata e tutta scintillante di gioielli. Il padrone di casa, sua moglie, gli altri della famiglia devono dedicarsi esclusivamente ai loro ospiti. Se sono in età ancor giovane, aprono il ballo rispettivamente coll'ospite di maggior riguardo: se così non è, tale ufficio spetta ai loro figli o nipoti. Avranno cura che nessuna signorina resti a sedere troppo a lungo, invitando e facendo invitare quelle che non avessero molti cavalieri desiderosi di loro: faranno buona compagnia alle mamme sedute, gireranno per le sale, osservando che tutto vada bene e incoraggiando con piacevole serenità il divertimento comune. Avranno poi d'occhio la sala del buffet perché ognuno si serva e sia servito agiatamente, e avranno anche pensato - cosa indispensabile - a un gabinetto di toilette dove una cameriera stia pronta a rimediar qualche guasto accaduto durante il fervor delle danze. La festa suol finire generalmente verso le quattro o cinque del mattino, dopo il cotillon nel quale saranno distribuiti doni graziosi ed eleganti: talvolta anche di qualche valore. Invitando a un trattenimento serale con musica, è bene dar anche il programma dei pezzi che saranno eseguiti. Non si faranno cantare e suonare solo dei dilettanti, ma ci vorrà anche qualche artista. Si badi però che il programma musicale non sia troppo denso... perché molti amano più conversare che ascoltare, e nemmeno troppo grave, perché la musica classica non è da tutti. Anche per questo, sarà cura degli invitanti preparare una o più sale ampie e ben illuminate, ornate con eleganza severa, e disporre perché circolino abbondanti rinfreschi. L'abbigliamento può essere di gran gala (e allora i padroni avvertiranno) oppure di mezza gala, non mai da visita o da passeggio, ed essi ne daranno l'esempio. I tè sono riunioni che tengono la mezza via tra gli inviti di lusso e quelli intimi, e terminano a volte con quattro salti. Si svolgono fra le cinque e le otto del pomeriggio. La prima cosa per offrire bene un tè... è farlo buono, il che non è sempre facile. Un buon tè dev'essere biondo, chiaro, caldissimo. La padrona di casa serve il tè ella stessa, facendosi aiutare dalle signorine o anche da qualche giovanotto intimo di casa. Sulla tavola coperta di una finissima tovaglietta stanno la teiera, il bricco del latte, il limone o la caraffa del liquore; tartine, dolci e biscotti svariati e abbondanti. Soltanto se il numero degli invitati fosse molto grande, si serve a gruppi, su piccoli tavolini, altrimenti ciascuno rimane al suo posto. Ad ogni persona si chieda, servendola, se gradisce limone, panna o liquore coll'aromatica bevanda, si ripete poi il giro, offrendo una seconda tazza e magari anche una terza. Ma siccome non tutti hanno pel tè una grande simpatia, sarà bene aver anche pronto un bricco di ottimo caffè, nonché vermouth e aperitivi per chi arriva sul tardi. Oltre ai biscotti, ai crostini (non mai paste con crema o panna) si suol mettere sulla tavola, seguendo l'uso inglese, un dolce di larghe proporzioni: torta, marzapane, plum cake o simili, che si taglia per ultimo. Si faranno poi circolare bibite svariate, caramelle e cioccolatini in eleganti coppe. La padrona di casa che offre un tè riceve con un abito elegantissimo, non però scollato; le visitatrici in abito da visita con qualche ricercatezza. Non si toglieranno il cappello. In questo dopoguerra sono venuti di gran moda, sulla scia dell'uso americano, i cocktails, che permettono di invitare anche gli uomini, i quali, essendo occupati durante la giornata, difficilmente possono intervenire a un tè. Si tratta di riunioni che iniziandosi verso le sette di sera, dovrebbero di regola durare due tre ore, ma volendo si possono anche protrarre (comunque, non oltre la mezzanotte) assumendo un po' il tono di cena in piedi, e che possono essere anche danzanti. Ai cocktails non si offre tè, ma aperitivi, vermouth, bibite varie e soprattutto quelle misture di liquori che danno il nome alla riunione: il tutto accompagnato da tartine, pasticcini salati e dolci come per il tè, ad esclusione delle torte. Se la riunione assume il tono di cena si offrirà anche una tazza di brodo, o un risotto, e qualche piatto freddo. Le signore indosseranno per questi inviti un abito più elegante che non per i tè, da mezza sera, che può essere un po' scollato ma non lungo; gli uomini un abito normale grigio scuro o blu. I pranzi di gran lusso, quelli a cui si va in marsina e abito scollato, sono, più che altro, noiose parate di convenienza. Chi è al caso di offrirne ha generalmente a sua disposizione anche un maggiordomo e un capo cuoco coadiuvato da numerosi vassalli (come dice Dante) e non ha bisogno dei consigli di questo libro. La sala ove si darà il pranzo dovrà essere ampia in proporzione degli invitati, riscaldata moderatamente nell'inverno, aereata nell'estate. L'illuminazione deve essere abbondante. Generalmente pendono dal soffitto le eleganti lumiere o circondano i doppieri le pareti, ma qualcuno usa anche mettere bei candelabri con candele di cera. Questione di gusti. La tavola ampia, in modo che ognuno disponga almeno di sessanta centimetri di spazio, sarà coperta da una tovaglia ricadente ai lati: la tela damascata di Fiandra, benchè ancora usata dalle famiglie che ne hanno guarniti gli armadi, non è più moderna, e viene sostituita piuttosto da altre tele di lino, purchè finissime, variamente lavorate. Sotto la tovaglia ci deve però essere una grossa coperta, bianca o di colore adatto alla trasparenza se la tovaglia è traforata, per attutire i rumori e preservare il tavolo dalle eventuali macchie. La decorazione di fiori si può fare in vario modo: grandi coppe larghe e basse, per non impedire la vista, ricolme di fiori variopinti, o vasetti di fino cristallo o di metallo collocati presso ogni convitato, o ghirlandine leggere che corrono lungo la tovaglia. Si badi però di evitare ogni ingombro soverchio. Per questo sono state abolite anche le grandi alzate di frutta e dolci che una volta solevano guarnire le mense. Il tovagliolo va messo alla sinistra del piatto, piegato in quattro, semplicemente: a destra coltello e cucchiaio, a sinistra la forchetta. La piccola posata per frutta e dolce si colloca orizzontalmente davanti al piatto. Tre calici di varia dimensione servono per l'acqua, pel vino da pasto e pel vino bianco. Le coppe dello spumante si possono portare al momento. Sulla credenza e sopra una piccola tavola, ambedue coperte di fini tovagliette, staranno pile di piatti, posate di ricambio, tovaglioli di riserva, bicchieri, boccie di acqua e di vino già pronto, oltre alle bottiglie che vanno sturate al momento. L'argenteria abbondante e massiccia, la fine porcellana, i cristalli delicati sono la gloria e l'eleganza della mensa, oltre la biancheria. E' troppo giusto che gli invitanti sfoggino quanto hanno di meglio in queste occasioni, e non lo fanno certamente per vanità, ma pel desiderio di onorare gli ospiti. I posti sono talvolta indicati da cartelli, e così pure si suol collocare vicino ad ogni piatto la lista dei cibi, in elegante cartoncino fregiato da decorazioni artistiche. Ma questa usanza sa troppo di albergo... o di banchetto diplomatico. Il padrone e la padrona di casa siedono l'uno di fronte all'altro ai due capi della tavola, avendo ciascuno ai lati le persone di maggior importanza. Se vi è un sacerdote, spetta a lui il posto d'onore che è quello a destra della padrona di casa. Il servizio comincia il suo primo giro dalla signora che sta a destra del padrone, il secondo dalla signora che sta a sinistra, il terzo dal signore che sta a destra della padrona, il quarto da quello che le sta a sinistra. Ad ogni portata, si deve far girare due volte il vassoio. Le persone che fanno il servizio devono essere addestrate a farlo con precisione e disinvoltura; la padrona le tenga d'occhio, ma se qualche principiante commettesse una svista, non metta in evidenza la cosa, e si riservi a far dopo le sue avvertenze. Nulla è più spiacevole di sentir a tavola, una signora dar lezione alla cameriera, e peggio ancora se la rimproverasse o mortificasse. La scelta delle portate dev'essere varia e gustosa per avere il gradimento generale. Ora non si usano più, grazie al cielo, i banchetti pantagruelici a cui resistevano, e non si capisce come! gli stomachi dei nostri avi. Ma non bisogna esagerare nell'altro senso. Chi si reca alla mensa altrui ha diritto che sia soddisfatto ampiamente il suo appetito, e il numero e la varietà dei cibi deve in certo modo compensare la libertà ch'egli avrebbe a casa sua, di scegliere e mangiare comodamente, nonchè il sacrifizio delle sue abitudini e dei suoi gusti personali. Bisogna dunque usare una certa larghezza. Francesco Petrarca si compiaceva per conto suo dei pesciolini che gli riusciva di pigliare nelle «chiare, fresche e dolci acque» della sua Sorga, e del pane scuro che si faceva dare dall'ortolano, ma quando riceveva ospiti li trattava splendidamente. Un pranzo di gala è composto di tre o quattro portate oltre la minestra e il dolce. Dopo la minestra si avrà un primo piatto leggero, generalmente pesce con salsa; anche un fritto variato può andar bene. Indi un piatto di carne con contorno, uno sformato o pasticcio, l'arrosto di pollo o vitello con insalata, e finalmente il dolce e le frutta. In pranzi più semplici si sopprimerà il primo piatto di carne e magari anche il piatto di mezzo. Una colazione sarà sempre molto più semplice di un pranzo, poiché si suppone che gli invitati debbano andarsene presto avendo altri impegni per il pomeriggio: in generale avrà al massimo una portata di carne ed una di verdura, oltre, si capisce, dolce e frutta. Alla minestra asciutta si potrà sostituire un antipasto variato (prosciutto, burro, acciughe, sottaceti, insalata alla russa, ecc.), accompagnato magari da una tazza di brodo. Si tenga comunque presente, nell'organizzare un pranzo, che in nessun caso la durata di esso dovrebbe superare l'ora. La minestra non si porta in tavola, ma si serve da un lato, o si fa trovar pronta nelle scodelle. La prima portata deve sempre essere presentata da sinistra, mentre il piatto usato si porta via da destra: le posate si cambiano ogni volta. A tavola non si scalca: i polli devono comparire già fatti a pezzi e la carne tagliata a fette. L'insalata si presenta già condita. Per evitare la sbucciatura delle frutta è molto elegante l'uso della cosidetta macedonia, molto impropriamente chiamata, all'inglese, insalata di frutta. Zucchero e vino bianco finissimo si versa nelle coppe ove prima saranno disposte sbucciate e tagliate a spicchi o a fette le frutta più delicate. Se si serve il gelato, vi deve sempre essere unito un piatto di pasticcini leggeri. Il caffè dev'essere aromatico, caldissimo, abbondante: si serve in eleganti tazzine che sono di stile speciale, oppure analoghe al servizio già usato per la mensa. I vini si servono gradualmente secondo i cibi, dai più leggeri ai più forti. Ogni regione di questa nostra fertilissima Italia ha i suoi, sicché si potrà pasteggiare con Chianti e il Barbera, servir il Capri dopo il pesce, il Barolo dopo l'arrosto, il vin Santo e lo Spumante d'Asti in fine di tavola. Ma nessuna eleganza di preparativi, nessuna squisitezza di cibi o bevande potrà valere quanto la cordiale cortesia degli invitanti. Essi devono tener presente che tutto, in quelle ore, deve contribuire alla gioia e alla serenità dei loro ospiti. L'accoglienza dovra dunque essere improntata al desiderio di compiacerli e rallegrarli in tutto. Essi li attenderanno in una sala attigua, vestiti con eleganza, e pronti un quarto d'ora almeno prima dell'invito; faranno festa ad ogni arrivante e lo presenteranno agli altri, trattenendo la compagnia in piacevole conversazione, sino a che non viene dato l'annunzio che il pranzo è servito. Allora il padrone di casa offre il braccio alla dama più ragguardevole: vengono poi gli altri, a coppie, e ultima la signora di casa col suo cavaliere. Durante il pranzo gli anfitrioni devono vigilare che tutti siano ben serviti. Toccherà a loro mantener nutrita la conversazione, proponendo piacevoli argomenti, ed eliminando avvedutamente ogni soggetto meno che conveniente. Se c'è un festeggiato, il padrone di casa farà, alla fine del pranzo, un breve brindisi in suo onore; se il brindisi è fatto da altri, si alzerà a rispondere in nome di tutti. Avvertiamo che ora, nei brindisi, non si usa più toccare i bicchieri: basta alzarli moderatamente. E dopo tanta... prosa, non dispiaccia la poetica descrizione d'un banchetto, dovuta a quell'impareggiabile artefice di versi che fu Ugo Foscolo:

Pagina 314

Nulla è più sgradevole di una voce chioccia, o stridula, o rimbombante, nulla toglie di più il suo fascino a una signora, pur bellissima ed elegante, che il sentirla strillare in falsetto. Al contrario, è un dono grandissimo quello d'una voce nè troppo alta nè troppo bassa, dalle inflessioni svariate, dal tono penetrante, or soave e carezzevole, ora incisivo e squillante. Chi la possiede ha un'arma potente per vincere molti ostacoli, ha una chiave magica per penetrare i cuori. L'educazione musicale può contribuire molto a formar simili voci: ma l'educazione più comune dovrebbe bastare a farci evitare vizi spiacevoli come lo strillare, il tener sempre lo stesso diapason, e specialmente nei toni acuti, l'esplodere improvvisamente e rumorosamente... Ma l'educazione della voce si dovrebbe cominciar molto presto. Ora accade che nella scuola, in tempo di ricreazione, si lasciano liberi fanciulli e fanciulle di gridare con quanto ne hanno in canna, e sotto l'aspetto igienico non si può biasimare questa libertà. Ma il male è che si lasciano i ragazzi interpellarsi stridulamente e vociar fra di loro, anche conversando; e anche quando recitan le preghiere fanno un coro rumoroso e screanzato, e quando ripeton la lezione, specialmente nelle scuole di campagna, ad altro non badano che ad urlare quanto possono, per mostrare che son sicuri del fatto loro. Dovrebbero invece i maestri, e più ancora le maestre, imporre un tono moderato, una giusta modulazione. E nella recitazione di poesie a memoria, dovrebbero trovare la più bella occasione di formar la voce e il modo di porgere. Vi sono, è vero, delle voci disgraziate per loro natura, e appartengono talvolta anche a persone di condizione ragguardevole e di buona educazione. Ma in questo caso, se l'opera di un bravo specialista non ha potuto giovare a correggere il difetto, c'è sempre il modo di attenuarlo, parlando poco, e cercando di tener sempre basso il tono. In tutti i modi, tener troppo alta la voce, parlando in società, è cosa sgarbata e spiacevole, specialmente se le voci tendono a soverchiarsi, e può anche dar idea di presunzione e alterigia. E il riso? C'è un proverbio che dice: dimmi con chi pratichi e li dirò chi sei. Tante volte ho pensato che si potrebbe anche dire: Da quando e da come uno ride, si può giudicare il suo carattere. Lo stolto ride a ogni momento e per ogni più piccola cosa: il superbo non si degna neppure di stender le labbra arcigne, lo sguaiato ride alle volgari facezie; lo scostumato ai racconti scandalosi; l'uomo colto e arguto ai motti sottili, alle allusioni sagaci. I fanciulli hanno sempre il riso sulle labbra: benedetto privilegio dell'età! Ma l'uomo adulto e il vecchio ridono solo quando sono in lieta compagnia, a qualche spettacolo ameno, e dimenticano per qualche tempo i loro affari e i loro guai. La donna ride forse più spesso e facilmente dell'uomo. Ma l'estetica del riso ha le sue regole molto severe. Lo sghignazzare è una delle cose più spiacevoli all'orecchio: ma sconvolge e contorce anche la fisionomia: non c'è bellezza di donna che non ne rimanga alterata. E il riso stridulo, e il riso prolungato, e il riso a singhiozzi... Generalmente chi ha sgradevole la voce ha sgradevole anche il riso: di qui la necessità di sorvegliare e l'una e l'altro. Si avvezzino i fanciulli, e specialmente le giovanette, a ridere moderatamente, con grazia, senza sussulti e cachinni. Un riso argentino e trillante piace sopra una fresca bocca giovanile. Ma non si abusi nemmeno di questo. «- Ah - dice Dante nel «Convivio» - lo mirabile riso della mia donna lo quale non si sentia se non per gli occhi...». Il che, tradotto in lingua moderna, vuol dire che non se ne accorgeva se non chi la guardava. Se brutta è la sguaiataggine del ridere sgangherato, se fende il cervello il riso stridulo, se è vero che il riso abbonda in bocca agli stolti, è vero altresì, però, che spiace anche un muso duro, una continua affettazione di malcontento. Soffiare, sbuffare, sospirare rumorosamente, corrugare la fronte e volger gli occhi torvi, indica che la compagnia vi riesce fastidiosa, e che non sapete sacrificare il vostro cruccio particolare alla convenienza delle reciproche relazioni. Talvolta però la malinconia è ostentata, è una posa, come suol dirsi con parola non prettamente italiana, ma espressiva; una posa per attirar su di noi gli sguardi, per atteggiarsi a vittime del destino o di ideali troppo alti per la maggioranza del genere umano. Nella prima metà del secolo scorso, imperanti Lamartine, Byron, Foscolo, Leopardi, un giovane ben nato e specialmente una fanciulla, si sarebbero creduti disonorati, abbandonandosi alla festiva spensieratezza della loro età. Ora, le arie cupe e misteriose, i volti pallidi, le fronti corrugate, son passate di moda. Ma per chi credesse di scegliere tale atteggiamento allo scopo di particolare eleganza, trascrivo le parole del Leopardi: «I giovani assai comunemente credono di rendersi amabili, fingendosi malinconici. E forse, quando è finta, la malinconia per breve spazio può piacere, specialmente alle donne. Ma vera, è fuggita da tutto il genere umano...». Si badi a quel forse e a quel per breve spazio. E si rifletta che la malinconia finta, oltre ad essere per se stessa una deplorevole ipocrisia, finisce poi col mutarsi in abito reale dell'animo e frutta uggia e malumore in noi e negli altri. Con quanto vantaggio della piacevolezza sociale e della simpatia che ognuno ama destare, si vede ben facilmente.

Pagina 35

Ma noi che viviamo in tempi di maggior naturalezza e libertà, useremo dei piaceri della mensa quanto si conviene a persona temperata e civile, e in proporzione ai bisogni del nostro organismo. L'avidità e l'ingordigia destano l'idea di un bruto, ma chi tocca appena i cibi, chi mangia a fior di labbra, chi crede di mostrar la sua continenza e la sua fine educazione col rifiutar quasi tutto ciò che gli è offerto, dà l'idea di uno schifiltoso e disgusta gli altri. A questo proposito, mi sia lecito citare la massima di un mio buon amico, persona di appetito invidiabile e di umore allegro. - Io - diceva egli - quando sono invitato, faccio onore largamente alle portate. Perchè, se i padroni di casa sono gente cordiale e generosa, ne avranno piacere; se poi fosse il contrario... allora mi godo nel far loro dispetto.

Pagina 57

I BAMBINI - IL FANCIULLO A SCUOLA - IN COLLEGIO LA GIOVINETTA TRA SIGNORINE E GIOVANOTTI FIDANZATI E SPOSI 3

Pagina 82

Invece, l'ufficio dell'educatore è quello di togliergli a poco a poco queste brillanti illusioni. E non è veramente ufficio gradito! Se noi consideriamo però la parte che al fanciullo vien fatta nella società odierna, dobbiamo riconoscere che tutto sembra concorrere a dargli un'idea della sua straordinaria importanza. Mode per bambini e figurini appositi, giornali per bambini, spettacoli per bambini (che non hanno a far nulla colle marionette di buona memoria), balli per bambini, tutta una letteratura infantile, e persino... perdonate, o grandi ombre di Omero, di Virgilio, di Dante!... persino la riduzione e l'adattamento dei grandi capolavori letterari alle loro povere testoline! Nel fanciullo si considera l'uomo dell'avvenire; è giusto dunque, per amore della società, di porre ogni cura nel preparargli assistenza sempre migliore. Ma cautela massima, assolutamente necessaria perchè non fallisca l'opera educativa, è che il fanciullo non s'accorga se non in parte delle cure, delle prevenienze di cui è l'oggetto, finirebbe col gonfiarsi di vanità, col credersi il centro intorno a cui gravitano tutti gli altri mortali, come i pianeti intorno al sole, e assumerebbe naturalmente il tono e i capricci di un tirannello. Si suol dire che l'educazione di un bambino comincia sin dalle fasce; può sembrare esagerazione, e invece è verità. Il bambino deve essere avvezzato ai suoi pasti regolari, al bagno quotidiano, all'addormentarsi senza ninna nanna. E' una vera schiavitù per la povera mamma (o per chiunque altro sia) girare per la casa ore e ore, col piccolo ribelle tra le braccia, che ride coi suoi occhietti aperti, e comincia a guaire appena lo mettono nella culla. E nemmeno il dondolio della culla è cosa da permettersi: il bambino che ne prende l'abitudine tormenterà colla sua insonnia intempestiva la mamma o la balia. Non si dovrebbe nemmeno aver troppo timore dei rumori domestici, mentre il bimbo dorme: altrimenti il piccolo esigente finirà coll'arrestar la vita della casa in quelle ore. S'intende che non per questo si crederà necessario il battere e il picchiare; ogni sensazione violenta è malefica a quei teneri organismi, e per questo, altresì, risvegliando il bambino sarà bene procedere con dolcezza e non esporlo, nemmeno, alla luce improvvisa e troppo viva. Bisogna anche avvezzarli a non aver paura del buio, e far che s'addormentino tranquillamente anche da soli: s'intende quando sono sani e tranquilli. Ma le piccole malattie dei bambini non devono impensierire soverchiamente la mammina; sono tributi che la natura chiede o prima o poi, e colla saggia igiene e i consigli di un buon medico quelle piccole crisi si risolvono benignamente. Non deve dunque, per la dentizione, per una piccola costipazione, per la rosolia o altro male infantile, perder la testa, impensierire maggiormente il marito, trascurar i doveri domestici, annoiare i visitatori. Quando il bambino comincia a camminare e a parlare, allora è il momento di infondergli le idee, i sentimenti, le abitudini di bontà e cortesia che dovranno accompagnarlo per tutta la vita. Chi non ricorda la severa educazione che Massimo d'Azeglio ricevette dai suoi genitori? Essi sapevano - dice egli - che noi siamo d'una stoffa ove non si cancellano mai le prime pieghe. Il bambino piace per la sua grazia, per la sua ingenuità, per la semplicità e la pulizia della sua personcina e delle sue vesti. E' dunque necessario avvezzarlo a non macchiarsi e lordarsi per negligenza e sbadataggine, è necessario avvezzarlo a lasciarsi lavare pettinare senza smorfie e pianti e strilli. Nessuno gli deve impedire di giocar allegramente e liberamente: Dio ne guardi dalla crudeltà d'imporre al bimbo di star fermo e compassato per amore dei suoi vestiti! Ma nemmeno si lasci che si butti e si rotoli per terra, cacci le manine in ogni luogo... Un senso di decoro rispetto alla sua personcina deve formarsi presto in lui e crescere cogli anni. Il bambino rida e scherzi pure allegramente, ma non gli si deve mai permettere nè trivialità, nè soverchie confidenze. E si badi bene di non farsi udire da lui, quando ci venisse la mala ispirazione di criticar qualche assente. Gli imprudenti genitori potrebbero esser sicuri che la loro maldicenza aprirà le ali e giungerà volando dove meno s'aspettano e dove meno vorrebbero. Son così osservatori i bambini! Sembra che non vedano e non odano nulla, e invece le impressioni si fissano nel loro cervellino con una incancellabile sicurezza, e vengono poi fuori nelle loro parole quando meno ce l'aspettiamo. Non per nulla si chiamano gli enfants terribles. Son quelli che chiedono alla vecchia signora che viene in visita perchè mai le son più tornati i denti davanti, quelli che dicono: Sì, sì la mamma c'è, mentre la donna di servizio sta pronunziando la formula rituale: La signora non è in casa - quelli che notano il colore cangiante nei capelli di qualche frequentatrice della casa, o si meravigliano perchè ha anch'essa i peli intorno alle labbra o sul mento. Si guardino bene i genitori dall'incoraggiare nel bambino un tale spirito di osservazione. Le mamme sudan freddo, è vero, davanti all'ospite malcapitato, ma ci son di quelle che poi, in famiglia, se ne divertono, e raccontano agli intimi le bravate dei loro demonietti (mettendo in questo epiteto una mal celata compiacenza) e ridono e mostrano di ammirare tanto ingegno e tanto brio. I bambini non chiedono altro! Lasciateli fare e, alla prima occasione, rincareranno la dose. I parenti hanno, si sa bene, l'inclinazione di veder nei più semplici atti e nelle parole più comuni dei loro piccini, i segni d'uno straordinario precoce ingegno. Quante sciocchezze, a questo proposito ho sentito dire da babbi e mamme e, più ancora, da nonni e vecchie zie idolatre! Quel bambino poi che si annunzia a tre o quattro anni come un genio, si palesa ben presto un ragazzetto ordinario, poi un giovanetto dappoco, e spesso spesso un uomo da nulla. Ma la persuasione dei suoi meriti che gli è stata ben ribadita nella testa non lo lascia più, e gli fornisce il modo di far una serie di sciocchezze, rendendosi uggioso agli altri, e danneggiando se stesso. Qualunque sia l'opinione dei genitori riguardo alle doti eccezionali dei loro bambini, abbiano almeno la prudenza e la cortesia di tenerla per sè, e di non costringer gli amici a una ammirazione seccante e fittizia. Ma è ben raro che tale saggia norma sia messa in pratica. Il visitatore che capita nel salotto dove già si trova la piccola meraviglia è costretto a udir la strimpellatina sul pianoforte, la poesiola d'occasione, la canzonetta in francese. Ricorderò sempre un bambino dai cinque ai sei anni, che era stato ammaestrato a cantar l'aria del Trovatore: - Di quella pira... - e l'aveva eseguita in un pubblico concerto. Il giorno dopo, in un salotto di signore, apparve con la sua mamma, e ci fu chi le rivolse qualche complimento sull'esito di quel concerto e sulla disinvoltura che il piccino aveva mostrato. La buona mamma, tutta ringalluzzita, credette dovere di gratitudine offrir di nuovo lo spettacolo e il bimbo accondiscese subito, e con molta serietà. Uscì dal salotto e passò nel corridoio attiguo, poi, sollevando la tenda, proprio come gli avevano insegnato a fare, si presentò sulla soglia e fece un grande inchino. E non dimenticherò mai l'espressione crucciata e sdegnosa del visetto, perché, alla sua comparsa, non si fece immediato silenzio. Poi eseguì la sua cantatina, fece di nuovo un inchino, e si ritirò colla gravità di un hidalgo spagnolo. Comparendo poi di nuovo nel salotto, apparve non molto soddisfatto degli applausi e delle lodi che pure non gli furono lesinate. Mamme di buon senso, risparmiateci questi miserandi spettacoli. Per regola generale, i bambini non dovrebbero esser condotti in visita, e nemmeno trovarsi nei salotti. Se una mamma vuol tuttavia procurare ai suoi piccini il gusto di star con qualche lieto coetaneo, lo faccia pure, quando sappia che la casa ove li conduce ha un giardino o un cortile, o almeno una stanza dove potranno giocare sorvegliati da una donna, non mai in altro caso. Bisogna anche avvezzare i bambini a non toccare quel che vedono, a non mostrarsi indiscreti, se vien loro offerto qualche dolce o qualche frutto. E se nascesse qualche piccola lite fra loro, la mamma prudente tagli corto, non dia importanza alla cosa: rimasta poi sola coi suoi, potrà farsi raccontare com'è andata la cosa, ma si guardi da quella benedetta parzialità che la farebbe inclinare a dar loro ragione, anche quando non la meritano. Ci sono ora, e in gran voga, i balli di bambini. Meglio sarebbe per quelle creaturine delicate e impressionabili, una bella passeggiata all'aria aperta; più igienica e soprattutto più educativa. Ma poiché ormai non si può abolire l'usanza, e non sempre si possono rifiutare gli inviti, la buona mamma abbia almeno cura che le sue creaturine (specialmente le femminette) non abbiano a ricevere troppo anticipatamente colà quelle tristi impressioni di vanità, di leziosaggine che purtroppo son destinate a trovare in seguito. A tavola, devono avvezzarsi presto e conoscere e osservare le buone regole. Si avvezzino inoltre a parlar poco, a non essere esigenti, a far buon viso a ogni cibo. Quando ci sono invitati, i bimbi sotto i dieci anni non dovrebbero sedere cogli altri così pure i genitori, invitati da un'altra famiglia, dovrebbero lasciar a casa i loro figlioletti. Ma se questo spiacesse agli ospiti, se per i figli di questi fosse una gioia desiderata l'aver dei piccoli compagni, si può condurli, a patto però che sappiano stare da personcine bene educate. Allora si prepara loro una piccola mensa presso a quella dei grandi e, pur sorvegliandoli, si lascino godere in libertà. Nelle famiglie aristocratiche, però, i bimbi non compaiono mai a tavola se c'è invito, e pranzano con la governante in altra sala. Sarebbe molto desiderabile che i bambini non fossero nemmeno condotti in chiesa, finchè son troppo piccini. E' impossibile tenerli quieti durante le funzioni, e con la loro irrequietezza, con le loro strillatine, con l'andare e venire fuori del banco, disturbano gravemente. Inoltre mi sembra anche più rispettoso e più educativo serbar loro come un'attrattiva e come un premio il recarsi alla chiesa quando avranno la capacità di starvi convenientemente. Ma se bisogna condurveli, si sorveglino almeno con molta serietà, e si conducano fuori se non si possono frenare. In viaggio... la faccenda diventa seria. Passato il momento della prima sorpresa, dopo aver assaltato i canapè e i finestrini, i bimbi cominciano ad annoiarsi, ad aver mille bisogni, a piagnucolare. Gli altri viaggiatori sbuffano, la povera mamma arrossisce, si tormenta, cerca di contentare una voglia, di frenar un'altra e promette e minaccia come può, e chiede scusa ai molestati, e ricorre a tutti gli espedienti. Se la irrequietudine dei poveri bimbi chiusi in quello stretto spazio e privati dei piccoli comodi a cui sono assuefatti non tocca gli estremi limiti, i viaggiatori devono mostrarsi cortesi e arrendevoli, e pronti a compatire. Ma se i bimbi sono stati viziati da una mamma troppo debole, la mamma raccoglie, in questi primi contatti col pubblico, i primi amari frutti delle sue mancanze. A buon conto, ci sono i compartimenti per signore sole e bambini: la mamma viaggiatrice procuri di accaparrarsene uno, e si sentirà meno a disagio. Una buona abitudine da far subito prendere ai bambini è quella della lingua nazionale, invece che del dialetto. Ma badiamo bene, sia lingua buona, e non un intruglio di provincialismi: una bambinaia toscana sarebbe a questo proposito un elemento prezioso. Circa l'uso che c'è ancora, nelle famiglie ricche, di prendere una straniera perchè i bimbi agevolmente s'impadroniscano di altre lingue, non v'è nulla da biasimare; si badi soltanto che queste lingue straniere non prendano la precedenza sulla lingua nazionale, col bel risultato di renderla malagevole e imbarbarita sul labbro dei nostri ragazzi. Il bambino deve essere lieto spontaneamente, per la sua anima ingenua e aperta a tutte le impressioni. Se lo vedete scontroso e crucciato, cercate di guadagnarvi la sua fiducia con modi carezzevoli, ottenete la confidenza del suo dispiacere, che sarà cosa ben facilmente consolabile e rimediabile, e mandatelo poi a giocare. Non si deve dargli vinti tutti i punti, perché non diventi capriccioso e ostinato, ma nemmeno si deve contrastarlo o affliggerlo senza ragione, il che gli metterebbe nel cuore i germi della tristezza, dell'invidia, della ribellione. E si usino sempre con lui modi soavi e tranquilli: al fare ruvido e sgarbato egli risponderà, per reazione, con altrettanto sgarbo, e ne prenderà l'abitudine. Quanto male gli porterà poi questo nella vita! Che diremo poi di quelli che si godono a stuzzicare i bambini, facendoli inquietare a bella posta? Che nascondono i loro giocattoli, li contrariano nelle loro voglie, li beffano, li irritano, per lo stupido gusto di goder le loro bizze? Costoro sono responsabili dei caratteri irascibili, diffidenti, dispettosi, che si formeranno in tal modo. Non è bene nemmeno stuzzicarli a una smoderata allegria, come fanno altri, per divertirsi in modo tutto opposto. Il bambino ha il diritto di esser trattato con quei riguardi che si devono a un essere in formazione, sacro per la sua innocenza e per la sua debolezza. Lasciamoli alla naturale ingenuità, alla loro grazia timida e sincera, e non guastiamo il bello che veramente è in loro; ci basti assecondare con senno l'opera santa della natura.

Pagina 85

A. G. Fronzoni ERMINIA VESCOVI Come presentarmi in società Vannini

Pagina copertina

Grazie a questo e a chi ancora avesse utili osservazioni da farci. Quando un libro prende le mosse per le ampie vie del mondo, capita spesso di veder l'autore accompagnarlo fin sulla soglia, tutto modesto, e, inchinandosi al pubblico, chieder quasi scusa d'averlo incomodato. In realtà, aggiunger materia su materia a quella che si va aggravando già tanto nel campo librario, può rappresentar qualche volta un'audacia tale, da aver bisogno di scuse. Ma questa volta, più che al pubblico, le scuse dovrebbero essere dirette a coloro che ci hanno preceduto trattando l'argomento. E son tanti e valenti! Non solo i classici, ormai canonizzati e lasciati, si può dire, a godersi tranquillamente la loro gloria; ma anche moltissimi moderni che han scritto di buone regole di galateo con garbo e con competenza. Ma ciascuno d'essi, si direbbe, ha avuto d'occhio una porzione speciale di pubblico, oppur ha considerato le cose sotto un aspetto generale. Ne viene che quei libri, tanto pregevoli per altre ragioni, presentano il grave difetto di qualche lacuna, ora in un punto, ora in un altro. L'Editore e l'Autrice di questo nuovo trattato hanno avuto l'intenzione di dirigersi invece a tutte le classi di persone e di presentar norme a ciascuno nei casi particolari. Perciò la dama nel suo salotto e l'impiegata nel suo ufficio, il professore e lo studente, il gentiluomo e il collegiale, l'operaio e il negoziante troveranno tutti una parola adatta per loro. E si accompagnerà l'uomo nelle varie circostanze della sua vita, sia ch'egli serva di padrino a un battesimo, sia ch'egli faccia visita a Corte. No, non avremo questa imprudenza. Diremo solo che s'è cercato, per quant'era possibile, di fare un'opera completa, che si avvicini, quant'è possibile, al compimento di ogni desiderio e bisogno. Se il pubblico vorrà assisterla col suo favore, se la critica benevola vorrà additarci impensate lacune da riempire, difetti da correggere, sarà opera questa di altre edizioni, nelle quali il manuale potrà avvicinarsi sempre più al grado sognato di perfezione. L'EDITORE

Pagina premessa

Cerca

Modifica ricerca