Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il libro della terza classe elementare

210999
Deledda, Grazia 50 occorrenze
  • 1930
  • La Libreria dello Stato
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Il signor Goffredo non fece in tempo a rispondere alla sciocchezza del ragazzo che si udì un comando secco, emesso con il megafono. Di nuovo silenzio e una trepida attesa. Allora, come per incanto, accompagnata prima dal ronzare dei martinetti poi da un rumore sordo, la nave cominciò a muoversi, a calare verso l'acqua: a poco a poco accelerò la discesa, con la poppa alzò grandi schiume e infine, arrivata stabile e trionfante nel mare, parve essere soddisfatta ed esprimere: - Oh! finalmente sono a casa mia!

Il libro della terza classe elementare LA LIBRERIA DELLO STATO ROM A. IX Il libro della terza Classe elementare Letture - Religione Storia - Geografia - Aritmetica LA LIBRERIA DELLO STATO ROMA A. IX

Il frastuono delle macchine dapprima stordì un poco i nostri ragazzi, e quel vorticoso muoversi di bracci di ferro, quel girare di cinghie, quel saliscendi e batter sordo di magli idraulici li aveva un poco intimoriti come se si trovassero di fronte a una scena infernale. Poi presero dimestichezza e nello scorgere la buona impressione di quegli operai dai dorsi nudi, neri, sudati, quelli che prima sembravano diavoli e adesso nella gioia e nella serietà del loro lavoro si rivelavano per creature degne del Paradiso, i ragazzi furono davvero lieti della visita e a un di presso ne compresero l'utilità. Compresero quanto fosse faticoso per l'uomo costruire un ago, una spilla che uno sventato scolaro getta via. Compresero che la meravigliosa e divina macchina dell'uomo ha bisogno nel vivere civile di altre macchine, che le obbediscano ciecamente. Così tutto s'intreccia, tutto è utile, tutto si avvicina alla perfezione. - In tempo di guerra, con queste enormi macchine che ora sono silenziose, perchè non vi è bisogno di una superproduzione, si costruivano cannoni, - disse il piccolo ingegnere bianco - grandi cannoni. Quelle dieci piccole macchine a destra rumoreggiano e pigolano intorno a queste come pulcini intorno alla chioccia; invece che a cannoni servono a spille. Sono stato io a volerle e a costruirle vincendo le difficoltà degli azionisti, quando ero sconosciuto e povero. Ora producono immensamente.

Queste facciate si dicono perciò esposte a levante o a mattino (fig. 1). Pare poi che il sole si innalzi nel cielo fino a mezzogiorno e poi discenda, tramonti, verso sera, fino a scomparire, dalla parte opposta al levante. Tale parte si chiama Ponente, o Sera: le facciate delle case, delle

I più piccoli di tutti si leggono vicini a uno o a pochi quadrettini neri, che sono la pianta di una casa isolata o di un gruppetto di case. I corsivi più grandetti, e poi i grassetti e gli stampatelli di varia forma e altezza, si trovano accosto a gruppi sempre più grossi di case, visti in pianta: villaggi, borgate, piccole città e grandi città. Su quella carta, che vedete sul muro, c'è anche il vostro paese, e, a cercarla bene, la vostra strada e la casa vostra.

E anche i variopinti svizzeri che fanno guardia alle famose porte vaticane, presi dalla cordialità della popolazione con la quale sono a contatto, presto, a modo loro, parlano in romanesco e, se possono, dopo la ferma preferiscono rimanere su questi curiosi confini piuttosto che ritornare ai loro paesi nevosi dagli alti tetti.

È l'alba - seguitò a raccontare il signor Goffredo - e tutti si alzano con una grande voglia di lavorare. Voi sapete che la trebbiatrice... - Ma non bastava una sola biatrice ? - domandò ingenuamente Cherubino, che come al solito era rimasto un po' distratto. Tutti risero. - Voi sapete che la trebbiatrice è composta di due macchine distinte. L'una, quella che separa i chicchi del grano dallo stelo e dalla pula, è fatta di legno, è un monumentale carro con un sistema di grandi assi mosse da bracci che sfregano fra loro il prodotto, come io, vedete, sfrego fra le mie mani questa spiga. Per far muovere questa macchina in tutti i suoi congegni ne occorre un'altra che, simile a una piccola locomotiva, le trasmette, per mezzo di una poderosa cinghia a ruote, il movimento. La piccola locomotiva era prima a vapore, adesso per migliore rendimento agisce ad olio pesante. A questo punto il signor Goffredo disegnò sopra un taccuino la trebbiatrice completa, e i ragazzi allungarono il collo con vero interesse. - Tutti si sono alzati: chi impugna una forca, chi prepara i sacchi, chi mette a posto la pesa per misurare i quintali, chi s'appoggia ai rastrelli che subito serviranno a trascinare via la pula da una parte. Intanto dalla bianca strada provinciale, che si allunga fra belle siepi potate, arrivano in bicicletta altri lavoratori e anche donne con il fazzoletto intorno al collo, che presto metteranno sulla nuca per i raggi troppo forti del sole. Anche Ruggerino si è levato dal letto e guarda da una finestra che dà su di un ampio e rustico portico che sembra l'arca di Noè.

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Tutti sono al loro posto come a un posto di battaglia: l'aurora estiva è brevissima e il sole sorge. Il capo colono non ha finito di formulare la sua domanda che la locomotiva si mette a fare tuf, tuf, e la trebbiatrice incomincia a ingoiare covoni che i contadini offrono con le forche, dall'alto, nelle sue materne bocche: il grano viene raccolto nei sacchi come un rivolo giallo: quando ogni sacco è pieno, due garzoni lo sollevano con un bastone trasversale e lo portano alla pesa: là viene equilibrato per un quintale, poi è trasportato nel magazzino. A poco a poco il giorno di luglio s'ingrandisce, il fresco del primo mattino diviene caldo, poi caldo rovente, ma sembra che l'opera di quegli uomini vada di pari passo con l'avanzare del sole: e quella opera calda, tra una fuliggine d'oro, tra il fragore della trebbiatrice, che sembra anch'essa acceleri il suo nobile lavoro, s'ingigantisce nel solleone con le grida eroiche di richiamo di quei trebbiatori sino a che, declinando il giorno, con la stanchezza essi accompagnano il tramonto rosso.

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A Scuola.

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Oltre la via Santa Marta, che è a sinistra di San Pietro, dalla parte della Sagrestia, i nostri scolari dopo aver percorso alcune vie, si trovarono di fronte ad un viadotto appena appena terminato e alla costruzione di una ferrovia. - Ecco le braccia che il Vaticano tende al mondo: un passaggio, un collegamento con le ferrovie italiane, che poi s'innestano a tutte le vie della terra. - Questa sera puoi vantarti d'aver fatto un viaggio all'estero - disse Anselmuccio con malizia a Cherubino. - Sei stato nella Città del Vaticano! Il signor Goffredo, intanto, raccontava la storia dei papi. Prima del Risorgimento italiano, essi avevano molte possessioni temporali: il Lazio, parte dell'Umbria, le Marche e la Romagna. Naturalmente tutti questi possedimenti della Curia Romana erano soggetti alle vicende storiche che si svolsero per lunghi secoli e che il maestro vi saprà spiegare a tempo opportuno. Quando gli italiani finalmente costituirono a grande potenza e unità la loro patria, conquistando Roma nel 1870 (ricordatevi di Porta Pia), il Papa non volle riconoscere l' esistenza di questo nuovo Stato. E, non per inimicizia, ma per forza tradizionale, si rinchiuse nel Vaticano.

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Un giorno Gesù si era raccolto da solo a pregare. Quand' ebbe finito, uno degli Apostoli gli disse: - Maestro, insegna anche a noi a pregare. - Allora Gesù rispose: - Quando pregate, dite così: Padre nostro, che sei ne' Cieli, sia santificato il tuo Nome, venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà come in Cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano; e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori. E non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male; e così sia. - È una preghiera tanto facile, che la capisce anche un bambino; ed è breve, come piace ai fanciulli. E come piace al Signore, che non vuole molte parole, ma vuole molto cuore.

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Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori. I nostri debiti con Dio sono i nostri peccati, le nostre mancanze. Possiamo noi dire di non aver mai mancato col Signore? Proprio no? Dunque sta bene che abbiamo a chiedergliene perdono nella preghiera. Dice il proverbio: - Peccato confessato è mezzo perdonato. - Questo con gli uomini; ma con Dio, peccato confessato, con vero pentimento, è perdonato. Però, affinchè il Signore abbia a perdonare a noi, è necessario che noi prima perdoniamo a chi ci ha offeso. Questa è una condizione rigorosissima e necessaria. E difatti, in che modo placherà il padre quel figliuolo che non vuol fare la pace col suo fratello? Un compagno, dunque, ci ha offeso? Ebbene, cosa ci costa perdonargli? La gioia serena del perdono ci metterà il cuore in pace. E non solo si deve perdonare, ma anche pregare di cuore per i nostri offensori. E questa è tutta una carità che porta sempre buon frutto da raccogliere in Cielo.

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In una piccola città di Galilea, chiamata Nazaret, viveva una vergine a nome Maria. Era sposa a Giuseppe ed era la creatura più santa che fosse sulla terra. Dio mandò a questa vergine l'Arcangelo Gabriele, il quale si presentò a Lei dicendole: - Ave, o Maria, piena di grazia. Il Signore è teco. Tu sei benedetta fra le donne. Maria si turbò a tale saluto, ma l'Arcangelo soggiunse: - Non temere, o Maria; per virtù dello Spirito Santo tu avrai un Figlio, al quale porrai nome Gesù. Egli sarà grande; sarà chiamato Figlio dell'Altissimo; regnerà e il suo regno non avrà fine. Maria allora rispose: - Ecco l'ancella del Signore; sia fatto di me secondo la tua parola. L'Angelo si partì, e la Vergine Maria da quel momento diventò la Madre di Dio. Questa pagina del Santo Vangelo ci mostra tutta la grandezza di Maria. Maria è la donna avventurata che Dio ha scelto a madre del suo Figliuolo. Ancor nel paradiso terrestre, Dio l'aveva promessa ai nostri progenitori colpevoli, come la madre di Colui che avrebbe riparato i danni della caduta.

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Maria e Giuseppe suo sposo erano discendenti di Davide; e dovettero recarsi a dare il loro nome a Betlemme, la città di Davide. Dopo aver cercato inutilmente alloggio negli alberghi, si ritirarono fuori della città, in una grotta. E là, nella notte, nacque il Salvatore del mondo. Maria lo fasciò, lo pose a giacere in una mangiatoia e lo adorò insieme a Giuseppe. Ogni anno, a Natale, noi ricordiamo nel Presepio la dolcissima scena; vediamo la grotta di Betlemme, il Bambino Gesù nella mangiatoia, e due mansueti animali che lo riscaldano con il loro fiato. Gesù, Figlio di Dio, Signore del Cielo e della terra, ha voluto nascere nella più grande povertà, mentre avrebbe potuto circondarsi di ricchezza e di splendore. E ha voluto questo per insegnarci che la povertà non è un male; per confortare i poveri che

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Voi lo riconoscerete a questo segno: troverete un bambino avvolto in fasce, giacente in una mangiatoia. Ed ecco apparve una schiera di angeli, vicino a quello che aveva portato il grande annuncio; e tutti uniti lodavano Dio dicendo: - Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà. I pastori si affrettarono a cercare; trovarono nella grotta, con Maria e Giuseppe, il Bambino, come l'angelo aveva detto; e piamente lo adorarono.

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A dodici anni Gesù andò a Gerusalemme con Maria e Giuseppe, per la festa di Pasqua. Passati i giorni stabiliti, fecero ritorno; ma Gesù rimase in città, senza che Maria e il suo sposo se ne accorgessero. Quando se ne avvidero, tornarono a Gerusalemme e pieni di ansia lo cercarono. Dopo tre giorni lo trovarono nel Tempio. Era seduto in mezzo ai dottori della legge, li ascoltava e li interrogava, e tutti quelli che l'udivano si meravigliavano altamente della sua sapienza. Maria gli disse: - Figlio, perchè ci hai fatto questo? Il padre tuo ed io dolenti ti cercavamo. Gesù rispose: - Perchè mi cercavate? Non sapevate voi che io devo occuparmi delle cose del Padre mio celeste? Ma poi si accompagnò subito con loro e ritornò a Nazaret. Là visse fino ai trent' anni obbediente a Maria e a Giuseppe, e crebbe in sapienza, in età e in grazia dinnanzi a Dio ed agli uomini. Gesù dunque stette nascosto per molti anni; e solo per breve tempo predicò e fece miracoli. Fece così per insegnare con l' esempio che ognuno deve adempiere i doveri del proprio stato. E volle ancora insegnare a tutti, ma specialmente ai fanciulli, che

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Non dimentichiamo mai, nella vita, questo divino esempio; esso ci insegnerà ad amare il lavoro, e ci aiuterà a preparare a noi stessi il premio dell'eterno riposo.

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Chiamò a sè i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro ne diede due, a un terzo ne diede uno; insomma, aveva dato a ciascuno secondo la sua capacità. E se ne andò. Il servo che aveva ricevuto i cinque talenti, si mise subito a trafficarli, e ne guadagnò altri cinque. Cinque e cinque, dieci. Così fece il servo che ne aveva ricevuti due: tanto si ingegnò che in poco tempo ne guadagnò altri due. Contento anche lui. Ma il servo che ne aveva ricevuto uno solo, sapete cosa fece? per paura di perderlo, scavò una buca e ve lo sotterrò. Passa un po' di tempo, ed ecco il padrone ritorna, e, naturalmente, rifà i conti coi servi. Viene avanti quel dei cinque talenti, e gliene presenta altri cinque, dicendo: - Tu me n'hai dati cinque e, come vedi, io li ho raddoppiati. - Bravo servitore - gli dice il padrone: - tu sei stato fedele nel poco e io ti farò padrone del molto: vieni e godi della gioia del tuo signore. - Si fa avanti il secondo servo, egli dice: - Signore, prima di partire tu m'hai dato due talenti: eccone quattro! - E anche a lui dice il padrone: - Bravo servitore, sei stato fedele nel poco e io ti farò padrone del molto. Vieni anche tu e godi della gioia del tuo padrone. - Ultimo venne avanti quel d'un talento solo, tenendolo chiuso nel pugno. Il padrone capisce e con faccia brusca gli fa: - Servo da poco, non hai saputo far fruttificare il talento? ti toglierò anche questo, così imparerai. - E glielo portò via; anzi lo fece punire.

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Voleva insegnarci che, a tener lontana la colpa dall' anima, bisogna imparare a dire un bel no alle cattive inclinazioni che son dentro di noi, alle tentazioni che ci vengon dal diavolo, dai cattivi compagni e dalle cose pericolose della vita. Insomma, saper comandare a sè stessi, che è la cosa più difficile ma anche la più bella. Diceva, a questo proposito, Gesù: - La via del male è larga, ma conduce alla perdizione. Invece la via del Cielo è stretta, e solo i forti camminano per essa e arrivano alla gloria. - Noi non vorremo essere tra i forti?

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Or mentre gli Apostoli aguzzavan la vista nel cielo sforzandosi di rivederlo ancora una volta. due Angeli in bianchissima veste dissero loro così: - Uomini di Galilea, che fate qui a guardare il cielo? Quel Gesù che si è levato su in Cielo, tornerà di belnuovo dal Cielo! Allora gli Apostoli, pieni di gioia, ritornarono a Gerusalemme, si raccolsero in una stessa casa a pregare, in compagnia della Madonna, per prepararsi alla venuta dello Spirito Santo. Gesù aveva promesso che dal Cielo lo avrebbe mandato su di loro così che, tutti pieni di luce e di carità e di potenza, avrebbero incominciato a diffondere la Chiesa sulla faccia della terra. E così fu. I tesori divini che Gesù aveva portato dal Cielo in terra sarebbero giunti a tutti, perchè tutti, con la sua luce e la sua grazia, salissero al Cielo, la gran casa del Padre, dove Gesù ha preparato il posto per tutti e per sempre.

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Potete immaginare come cresceva l'odio contro di essa, e con quanta gioia erano colte a volo tutte le occasioni per manifestarlo! A Venezia la banda militare austriaca soleva tenere i suoi concerti in Piazza San Marco. Ed ecco i Veneziani, tutti d'accordo, rinunciare alla passeggiata nella bellissima piazza, quando vi suonava la banda dell'oppressore. Il governo austriaco ricavava molto danaro dal gioco del lotto e dalla vendita del tabacco. Ed ecco i Milanesi, tutti d'accordo, rinunciare al gioco del lotto ed al fumo. Figuratevi la rabbia degli Austriaci! D'un tratto, soldati e poliziotti ubbriachi, qualcuno con in bocca accesi persino due sigari insieme, si misero a percorrere furibondi la città, e ad aggredire i cittadini inermi! Molti caddero vittime di quel barbaro furore: tra gli uccisi vi fu anche un povero vecchio d'oltre settant'anni! Ma alla fine l'odio esacerbato scoppiò in aperta rivolta. Il popolo di Venezia insorse nel marzo 1848: a capo della rivolta si posero Daniele Manin e Niccolò Tommaseo, due altre belle figure di patriotti che dovete ricordare con affetto profondo. Gli Austriaci furono cacciati, e la città si proclamò indipendente. Nello stesso tempo la ribellione contro l'oppressore divampava anche a Milano.

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Le cinque giornate a Milano. A Milano la lotta tra gl'insorti ed i soldati austriaci durò accanita e sanguinosa per ben cinque giorni: dal 18 al 22 marzo. La guarnigione austriaca, forte e bene armata, era comandata dal maresciallo Radetzky, un vecchio di ottant'anni, ma autoritario e risoluto. Ma, come cantò Goffredo Mameli,

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ed a Montanara poche migliaia di Toscani, in gran parte studenti universitari, che avevano lasciato le aule scolastiche insieme con i loro professori per imbracciare il fucile, per lunghe ore contrastarono il passo agli Austriaci ben più numerosi. Così la meditata sorpresa andò a vuoto, e quando il vecchio maresciallo potè finalmente assalire Carlo Alberto, subì a Goito una sanguinosa disfatta. Durante la battaglia il primogenito del Re, Vittorio Emanuele, duca di Savoia, percorse instancabile le file dei combattenti, incuorandoli con la voce e con l'esempio. In un momento difficile della lotta, egli comparve, con la spada in pugno, gli occhi ardenti, ritto sul cavallo coperto di schiuma, davanti ai soldati del reggimento Guardie, ed al grido: «A me le Guardie, per l'onore di Casa Savoia!», li trascinò con sè a rompere il nemico. La vittoria era decisa, quando giunse a Carlo Alberto la notizia che anche la fortezza di Peschiera si era arresa. Un'immensa acclamazione si levò dai soldati esultanti «Viva il Re d'Italia!»: per la prima volta, dopo secoli di servitù, quell'evviva fatidico prorompeva sul campo di battaglia dai petti di tanti valorosi Italiani, che avevano vinto un nemico potente, stretti intorno ad un principe italiano! Ma intanto gli altri principi avevano ben compreso che, se l'Austria fosse stata vinta, essi avrebbero perduto i propri stati. Infatti tutta l'Italia avrebbe voluto riunirsi sotto Casa Savoia, grata di quanto aveva fatto per essa Carlo Alberto. Perciò questi principi si erano affrettati a ritirarsi dalla guerra, dando ordine alle loro truppe di ritornare. L'ordine non fu però da tutti eseguito; tra gli altri, il generale che comandava le truppe napoletane, Guglielmo Pepe, accorse a Venezia, dove gli fu affidato il comando della difesa contro gli Austriaci. Carlo Alberto era, così, abbandonato dagli altri principi, mentre aveva l'esercito decimato e stanco per i combattimenti e per le malattie. Al maresciallo Radetzky invece giungevano continuamente dall'Austria nuovi rinforzi. A Custoza, dal 22 al 26 luglio, infuriò la battaglia. Soldati, ufficiali, i principi, il Re rinnovarono prodigi di valore. Ma di fronte al numero fu dura necessità cedere. Carlo Alberto dovette ricondurre in Piemonte il suo esercito, glorioso sempre, anche nell'avversa fortuna, e piegarsi ad un armistizio.

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Gli Austriaci non erano riusciti a rioccupare Venezia, ed invano, anche dopo aver vinto a Novara, le intimarono la resa: la città rispose deliberando di resistere ad ogni costo. Ed infatti Venezia lottò ancora per cinque mesi. Gli Austriaci la strinsero d'assedio per terra e per mare; ne smantellarono le difese con il fuoco incessante delle grosse artiglierie ; ed infine, per ventiquattro giorni continui, rovesciarono una tempesta di bombe sulla città, uccidendo infermi, donne e bambini, danneggiando preziosi monumenti d'arte, provocando incendi e rovine. Ma a Venezia, oltre ai cannoni austriaci, facevano strage anche il colera e la fame; vennero inoltre a mancare le munizioni. La resa fu allora una dolorosa necessità. Dalle tre alte antenne di Piazza San Marco discesero mestamente le tre grandi bandiere tricolori, che, palpitando al vento per sedici mesi, avevano animato alla lotta i cittadini. Daniele Manin, Niccolò Tommaseo, Guglielmo Pepe presero la via dell'esilio. La sventura e la gloria di Venezia furono esaltate in versi pieni di dolore e di sdegno da Arnaldo Fusinato:

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Era nato a Torino nel 1810. Aveva 42 anni quando Vittorio Emanuele II lo chiamò a capo del governo. Era, come appare nei suoi ritratti, piccolo, un po' pingue, con gli occhi arguti, scintillanti dietro le lenti degli occhiali a stanghetta, con una caratteristica barbetta sotto il mento. I danni della guerra

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In quello stesso anno un pugno di giovani audaci riuscì a spingersi sino alle porte di Roma. Erano circa settanta, guidati da due fratelli, Enrico e Giovanni Cairoli. Discesero la corrente del Tevere sino a Ponte Milvio, appiattati in alcune barche. Qui attesero invano i segnali ed i messi dei compagni, che, secondo le intese, avrebbero dovuto far insorgere Roma. Allora posero piede a terra, e si appostarono a Villa Glori, sui Parioli, modesto rilievo collinoso, oramai compreso nella città. Comparvero ben presto i soldati pontifici, che quei pochi valorosi affrontarono con slancio impetuoso. Enrico Cairoli cadde ferito a morte, mentre correva avanti, in testa al glorioso manipolo, brandendo la carabina ed inneggiando all'Italia. Anche Giovanni venne colpito, e parecchi altri furono uccisi o feriti nella mischia ineguale a corpo a corpo. I superstiti si dispersero. Eroica famiglia, questa dei Cairoli! Erano cinque fratelli, che la madre, Adelaide, aveva offerto alla Patria con fermezza spartana. Ernesto era caduto nel 1859 a Varese: lo trovaron morto sul cadavere di un austriaco da lui ucciso. Benedetto, Enrico e Luigi avevano combattuto tra i Garibaldini nel 1860: i due primi erano rimasti feriti, e Luigi era morto di malattia. Ora Enrico lasciava la vita in vista di Roma, la mèta dei suoi sogni; e Giovanni, prigioniero, languiva in un ospedale.

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L'Italia intera prese il lutto; e le solenni esequie celebrate a Roma provarono l'amore e l'imperitura gratitudine, che gl'Italiani sentivano per il Sovrano che li aveva redenti. Ed invero bene a ragione egli è stato chiamato, oltre che «Re Galantuomo» anche «Padre della Patria». Oggi il corpo del gran Re riposa in Roma nel Pantheon; ed a Roma l'Italia riconoscente gli ha innalzato un grandioso monumento per esaltare la sua memoria.

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A Vittorio Emanuele II seguì sul trono il figlio Umberto, l' eroe del quadrato di Villafranca. Umberto I meritò d'esser chiamato il «Re Buono», il «Padre del popolo». Egli fu sempre pronto a portare il conforto delle sue amorevoli parole, il prezioso concorso della sua opera benefica dovunque

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Chiamato a prestar servizio nell'esercito non volle militare sotto la bandiera dell'oppressore e fuggi a Roma. Ma egli aveva consacrato il suo sangue all'Italia. Quando seppe che l'imperatore d'Austria, Francesco Giuseppe, si proponeva di visitare Trieste, Guglielmo Oberdan s'affrettò a ritornare nascostamente nella sua città. Sperava di suscitare una rivolta, che rendesse inevitabile la guerra tra l'Austria e l'Italia; fu invece arrestato, per la denuncia di un traditore, e condannato a morte. Guglielmo Oberdan rinnovò l'eroismo dei grandi martiri del nostro Risorgimento: condotto alla forca lanciò in faccia ai carnefici, prima di spirare, i suoi evviva all'Italia ed a Trieste italiana. Aveva 24 anni! Gl'Italiani non dimenticarono il suo nobile sacrificio: quando mossero all'ultima lotta contro il secolare nemico, dalle loro labbra tuonò, tra le canzoni di guerra, l'inno dedicato al suo nome:

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Il 24 ottobre 1917 i nemici mossero all'assalto delle nostre linee, riuscirono a superarle, a impadronirsi di Caporetto e a dilagare nella pianura veneta. Il nostro esercito dovette abbandonare l'Isonzo, e

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In furibonde mischie a corpo a corpo i soldati italiani contesero al nemico il sacro suolo della Patria risoluti a vincere o a morire. «Tutti eroi! O il Piave o tutti accoppati!» scrisse un fante, a grandi lettere, sul muro a mezzo rovinato di una casa abbattuta dal cannone. Gli Austriaci furono ricacciati al di là del

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Due assordanti detonazioni, due enormi colonne d'acqua, ed una delle corazzate austriache, la Santo Stefano, ferita a morte, affonda. I due M. A. S. sfuggono al tiro furioso delle altre navi nemiche, e rientrano intatti e trionfanti ad Ancona, mentre la squadra nemica, sgomenta, s' affretta a tutta velocità verso il rifugio di Pola.

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I nostri soldati entrarono a Trento, portarono trionfalmente il tricolore sino al Brennero, sbarcarono a Trieste ed a Pola. L'ordine del Re era stato eseguito: la bandiera d'Italia era piantata sui termini sacri della Patria! Da per tutto le popolazioni liberate coprivano di fiori, abbracciavano, baciavano quei prodi. La vittoria italiana provocò in Austria lo scoppio della rivoluzione: fu abbattuto l'Impero, ed i vari popoli che prima ne facevano parte formarono altrettanti Stati indipendenti.

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Nato a Trento, allo scoppio della guerra mondiale accorse in Italia, e quando questa intervenne volle essere mandato a combattere tra gli alpini come soldato semplice. Col suo valore conquistò il grado di tenente. Il 10 luglio 1916, alla testa della sua compagnia, muove all'assalto di una forte posizione nemica. Circondato da forze soverchianti, resiste sino all'estremo finchè, sopraffatto dal numero, cade nelle mani degli Austriaci. Riconosciuto, processato come colpevole di alto tradimento, fu condannato a morte. Due giorni soltanto dopo

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la cattura, nella fossa del Castello del Buon Consiglio a Trento, il carnefice gli strinse alla gola il capestro. Cesare Battisti si era avviato al luogo del supplizio a testa alta, eretto nella fiera figura morì da eroe come da eroe aveva combattuto, e la sua voce non tremò nel lanciare l'ultimo grido di «Viva l'Italia!».

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Era nato a Capodistria e quindi, come Cesare Battisti, suddito austriaco. Capitano marittimo, per quanto avesse moglie e cinque figli, non esitò a fuggire, per farsi marinaio d'Italia nella guerra contro l'Austria. Al comando di siluranti, prima, di un sottomarino, poi, divenne presto il terrore del nemico. Pur troppo il suo sottomarino s'incagliò su le coste nemiche, e Nazario Sauro venne catturato il 30 luglio 1916. Egli non fu riconosciuto subito, ma gli Austriaci sin dal principio avevano sospettato la sua vera personalità. Durante il processo lo misero a confronto con la madre e con la sorella. Pensate ora, bambini, alla terribile tragedia di questi tre esseri dello stesso sangue, che si amavano intensamente, e che pure dovettero trovare la forza di mostrarsi indifferenti, di apparire persone che non si conoscevano, mentre il loro cuore era lacerato dallo strazio! Pur troppo così sublime eroismo fu reso vano da delatori infami, che rivelarono l' identità del prigioniero. Nazario Sauro fu impiccato a Pola il 16 agosto 1916. Le lettere che egli aveva scritto alla moglie ed al figlio Nino in previsione della morte ci dicono tutta la sua grandezza. Cara Nina, Non posso che chiederti perdono per averti lasciato con i nostri cinque figli ancora col latte sulle labbra. So quanto dovrai lottare e patire per portarli e conservarli sulla buona strada che li farà procedere su quella del loro padre; ma non mi resta a dir altro che io muoio contento di aver fatto soltanto il mio dovere di Italiano. Siate pur felici, chè la mia felicità è soltanto questa: che gli Italiani hanno saputo e voluto fare il loro dovere. Cara consorte, insegna ai nostri figli che il loro padre fu prima Italiano, poi padre e poi cittadino. Tuo Nazario. Caro Nino. Tu forse comprendi, o altrimenti comprenderai fra qualche anno, quale era il mio dovere di Italiano. Diedi a te. a Libero, ad Anita, a Italo, ad Albania, nomi di libertà; ma non solo su la carta: questi nomi avevano bisogno di un suggello, ed il mio giuramento io l'ho mantenuto. Io muoio col solo dispiacere di privare i miei carissimi e buonissimi figli del loro amato padre, ma vi rimane la Patria che di me farà le veci. e su questa Patria giura, o Nino, e farai giurare ai tuoi fratelli, quando avranno l'età per ben comprendere, che sarete sempre, ovunque e prima di tutto, Italiani! Dà un bacio alla mia mamma, che è quella che più di tutti soffrirà per me. Amate vostra madre! E porta il mio saluto a mio padre. I miei baci e la mia benedizione. Papà.

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Autentico figlio del popolo, nato a Roma, era rimasto mutilato della gamba sinistra per una disgrazia toccatagli mentre lavorava come fuochista nelle ferrovie, tanto che doveva reggersi con l'aiuto di una stampella. Pure, scoppiata la guerra, chiese ed ottenne di partire volontario per il fronte come bersagliere. Nei combattimenti si distinse sempre fra i più valorosi. Nell'assalto ad una trincea austriaca, Enrico Toti continuamente incuorò i compagni gridando: «Avanti, Bersaglieri!». Conquistata la trincea, si espose audacemente a far fuoco dal parapetto di essa. Ferito una prima ed una seconda volta, insistette a sparare sul nemico. Una terza pallottola lo colpì a morte e lo abbattè. Ma raccolte tutte le sue forze, Enrico Toti si risolleva, e scaglia agli Austriaci, come sfida suprema, la sua stampella. Spirò quasi subito dopo, baciando il suo piumetto di bersagliere Alla sua memoria fu assegnata la medaglia d'oro.

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Ma vi furono uomini di mala fede, che vollero giovarsi di tali disagi, per adoperarsi a spegnere la gioia della vittoria. Erano costoro i sovversivi, gente senza patria, che si erano proposti di far credere inutili agli Italiani i sacrifici sostenuti per raggiunger la vittoria. Essi volevano in tal modo eccitare il popolo all'odio ed alla rivolta. Il Governo di allora non si oppose a questa propaganda deleteria, e perciò divennero i veri padroni d'Italia. Essi spingevano operai e contadini a scioperare, a devastare le officine e i campi, ad insultare e percuotere i reduci dalla grande guerra, gli ufficiali, i sacerdoti, a lacerare ed abbattere il nostro bel tricolore. L'Italia era su l'orlo di un terribile baratro Ma su la sua salvezza vigilava Benito Mussolini.

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chiese illuminate dal sole che tramonta si dicono esposte a ponente o a sera (fig. 2). Mettetevi ora con la faccia rivolta verso ponente. La parte del cielo che avrete alla vostra sinistra dicesi Mezzodì, quella che avrete alla vostra destra dicesi Mezzanotte o Settentrione. Le facciate delle case esposte a mezzodì sono illuminate dal sole tutto il giorno: quelle esposte a mezzanotte sono sempre in ombra.

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Se ci avvenisse di non sapere che strada prendere per tornare a casa, dovremmo anzitutto cercare i punti cardinali, cercare l'oriente, orientarci. Così, se ci siamo allontanati da casa dirigendoci, per esempio, verso nord, dovremo, per ritornare, voltarci e camminare verso sud. Ma per far questo, bisogna che sappiamo da che parte è il nord. Più che l'oriente è facile trovare il nord. Se c'è il sole, cioè se è giorno sereno, basta aspettare quando suonano le campane di mezzodì e vedere da che parte sono dirette le ombre, la nostra, quella delle piante. Da quella parte è il nord, e allora il sud è dietro le spalle, l'est a destra e l'ovest a sinistra (fig. 6).

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Se è notte, ci sono le stelle, e tra esse una che serve a orientarci. Le stelle ci appaiono come tanti spilli lucenti infissi nella volta del cielo. Sono di diverso splendore: alcune più luminose paiono più grandi e spiccano nello sciame delle stelle più piccole, disseminate come sciame di lucciole, come nube di polvere. Fissate bene una di quelle stelle luminose, a sera non molto tarda, prima di andare a letto: fissatela bene, in modo da poterla poi riconoscere assieme a un gruppo di quelle vicine. Alzatevi da letto la mattina dopo, prestino, prima che sorga il sole e muoiano le stelle. Cercate allora la vostra stella colle sue compagne; vedrete che quella e queste non hanno il posto che avevano la sera prima. Tutte le stelle si sono mosse, una sola fra tutte non si è mossa. Attorno ad essa tutte le stelle girano e fanno un giro intero in un giorno. Quella bella stella luminosa, che ieri avete fissata fra le altre, oggi, alla stessa ora d'ieri, la trovate allo stesso punto di allora.

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Anche i muri delle case esposti a mezzanotte, a nord, hanno, per la stessa ragione, una tinta più scura dei muri esposti a mezzodì, a sud.

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E sul ghiaccio si fanno le belle scivolate, e colla neve si gioca a tirarsi le palle e a fare i fantocci. Ma una parte dell'acqua che piove rimane sul terreno, scorre dove il terreno è inclinato, e si raccoglie nei solchi in rigagnoli; i rigagnoli diventano ruscelli i ruscelli torrenti e fiumi.

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barconi, a remi o a motore, come le automobili. Il fiume è come una strada che nei paesi piani trasporta uomini e merci anche a grande distanza. Ce n'è di piccoli, di grandi, di immensi dove da una sponda non si vede l'altra; ma questo in paesi molto lontani.

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Più a sud, e più vicina al mare, in mezzo a una campagna una volta deserta, dove per merito del Fascismo ferve

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.), che è eguale a 10 grammi; l'ettogrammo (hg.), che è eguale a 100 grammi; il chilogrammo O, semplicemente, chilo. (kg.), che è eguale a 1000 grammi; il decigrammo (dg.), che è la decima parte del grammo; il centigrammo (cg.), che è la centesima parte del grammo; il milligrammo (mg.), che è la millesima parte del grammo. Il decagrammo, l'ettogrammo e il chilogrammo sono dunque multipli del grammo, il decigrammo, il centigrammo e il milligrammo sono suoi sottomultipli. Sono pure in uso il quintale (q.), che è eguale a 100 chilogrammi e la tonnellata (t.), che è eguale a 10 quintali, ossia a 1000 chilogrammi. Si noti che: 1 hg. = 10 dag., 1 kg. = 10 hg. = 100 dag.; e che: 1 dg. = 10 cg. = 100 mg., 1 cg. = 10 mg.

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Rubino aveva la faccia infarinata, un cappello a tricorno e camminava sulle mani. Baconchi invece aveva un enorme vestito a quadretti tutto strappato. I ragazzi si fecero attenti al gioco, quando l'orchestra cessò di suonare. Dopo molti cascatoni e schiaffi e risate, i due pagliacci cominciarono: - Io sono più furbo di te - disse Baconchi. - Facciamo la conta che io sono più furbo di te - rispose Rubino. Fecero la conta. Tre pari. Rifecero. Zero pari. Rifecero ancora una volta. Cinque pari. I ragazzi ridevano. - Allora - disse Baconchi - facciamo la conta a chi è più sciocco. Tre pari. Zero pari. Cinque pari. Fingendosi arrabbiato Rubino allungò un ceffone a Baconchi: ma questo fece civetta e Rubino nell'irruenza del colpo fallito andò a finire per terra. Allora tutto arrabbiato incominciò a inseguire Baconchi che fuggiva con grida di disperazione lungo il riparo del circo: tutti gli spettatori ridevano. Ad un tratto quando stava per essere raggiunto da Rubino, cominciò a tirare dai pantaloni grandi colpi di rivoltella e a spandere un grande fumo bianco. Rubino si gettò a terra fingendo di morire. Quando cessò la sparatoria di Baconchi, che si era nascosta una pistola innocua e ben preparata nei pantaloni, e il fumo fu dissipato, Rubino si alzò e gli chiese con autorità: - Hai il porto d'armi di rivoltella? - No - rispose Baconchi - ho quello di ricottella!

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Il signor Goffredo si mise a ridere, pensando che bisogna pur avere la forza di sopportare le ingratitudini. Si presentò con grande sussiego l'asino sapiente. Perchè mi dànno sempre dell'asino se esso è sapiente? - domandò Cherubino. - Tu sei un asino ignorante. - Ma asino è sempre asino. - Quello è andato a scuola. Cherubino non era convinto. - E perchè allora non è diventato cavallo? La stupidaggine di Cherubino non ebbe eco, perchè l'asino sapiente cominciò i suoi esercizi. Era un asinello bigio, quasi eguale a quello dell'erbivendola che stava di fronte alla scuola, ma molto più pulito e con la testa paziente; se non del tutto eretta, almeno portata con quella dignità che si confaceva alla sua razza, ingiustamente creduta inferiore. Dopo alcuni salti e alcune sgropponate, gli furono messi dinanzi cinque grandi cartoni bianchi sui quali erano stampate in grandi caratteri queste lettere: S, N, A, O, I. - Miei giovani amici! - gridò il direttore del circo, rivolgendosi a tutti i ragazzi del pubblico - Uno di voi mi dica a voce alta una di queste lettere: e il mio fedele compagno ve la troverà. Vi fu silenzio. Poi si udì una voce. - Enne! Era stato Cherubino. Subito l'asino, posò la zampa sulla lettera N, e tutti rimasero stupefatti. - Ancora! - gridò il direttore. - I - disse un'altra voce. Di nuovo l'asino posò la zampa sull'I. - Avanti! - O - L'asinello senza sbagliare accennò la O. L'entusiasmo e la meraviglia crescevano: da tutte le parti del circo aumentavano le domande di modo che l'asino sapiente non faceva quasi in tempo a segnare le lettere: già s'udivano i piccoli battimani della gioia dei ragazzi, quando ad un tratto il direttore fece fare silenzio con un cortese gesto e domandò al paziente animale: - Che cosa è quel signorino là? - indicando Cherubino. Allora il somarello con la zampa compose le lettere che comparvero in questa maniera: A, S, I, N, O. Le risate arrivarono al colmo. Il direttore si diresse verso Cherubino e gli regalò un pacchetto di cioccolatini.

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In parte è stata la natura a farlo nascere brutto e d'animo malizioso, in parte è la vita che gli tocca di condurre. I genitori sono benestanti; posseggono una grande drogheria, ed anche l'appartamento dove abitano è di loro proprietà: ma, costretti a stare tutto il giorno in bottega, poco si curano del loro unico figlio. Quando non va a scuola egli passa la giornata in casa, molestando la donna di servizio, che a sua volta lo perseguita con minacce e cattive parole; e, nonostante che i genitori glielo proibiscano, scende nella strada a giocare con altri ragazzi della sua risma. Il padre, un giorno, lo sorprese appunto sul marciapiedi davanti al palazzo dove abitavano, che si azzuffava col figlio dell'erbivendola. Questa volta Cherubino aveva ragione; poichè l'altro ragazzo lo accusava di aver rubato un'arancia dai cestini messi in mostra sulla soglia del negozio, e il figlio del droghiere tutti i difetti aveva, tranne quello di esser ladro. Il padre però, non solo non volle ascoltare le sue ragioni, ma lo prese per un braccio e a furia di scapaccioni lo spinse dentro la bottega dell'erbivendola, e davanti a tutte le donnicciole che facevano la spesa, lo costrinse a domandar scusa della colpa che non aveva commesso. Un'altra volta fu per otto giorni privato della frutta a tavola (del resto egli sapeva aprire di nascosto la credenza e faceva man bassa di tutto quello che ci trovava per una vetrata rotta) sebbene egli affermasse di non aver commesso il danno. Tutti i guai che succedevano in casa, venivano attribuiti a lui, e continue accuse dai suoi amici di strada e dai compagni di scuola, sul conto suo, pervenivano ai genitori. Ma il dolore più grande egli lo provò, quando un giorno di carnevale il bidello lo riportò a casa, perchè il maestro, avendo trovato l'aula della classe inondata di coriandoli, lo aveva cacciato di scuola. - Siamo stati tutti, a farlo, - egli gemeva, sotto le solite busse paterne; - tutti, anche Sergio, anche Anselmuccio... Non per questo le busse cessarono; la madre, però, pietosa e giusta, quando furono soli, gli disse: - Così impari. Vedi, tutte le colpe vengono attribuite a te perchè non fili dritto. E basta che un ragazzo, od anche un grande, commetta un errore, perchè si creda che egli non sappia mai fare il suo dovere. Io ho un orologio che per tanti anni è andato bene e sempre ho avuto una fiducia illimitata in esso: è bastata una sola volta che si fermasse, pur avendolo caricato a dovere, che non gli avessi più portato fiducia. Impara.

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Trascorreva il suo tempo a pescare alla lenza, andava a' caccia o viaggiava: non dava noia a nessuno, non faceva amicizia con nessuno. Sopraggiunta la guerra, sebbene la flotta nemica bombardasse spesso la costa, e quelli che abitavano vicino alla spiaggia si fossero ritirati nell'interno del paesetto, egli continuò a starsene nella villa: anzi, alcuni ragazzi, figli di pescatori, che senza paura continuavano a scorrazzare sulla spiaggia, lo vedevano sulla terrazza alta della sua casa solitaria, guardare col binocolo o il cannocchiale verso il mare.

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