Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Storia sentimentale dell'astronomia

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Piero Bianucci 50 occorrenze

A 16 anni Isaac aveva imparato il latino e il greco più qualche nozione di matematica. A questo punto la madre lo tolse dalla scuola per avviarlo all’attività rurale nell’azienda agricola di famiglia. Ma lui, invece di custodire il bestiame, si appartava per leggere e studiare. Una volta un maiale sconfinò nel podere di un vicino. Non restò che pagare una multa. Infine la madre prese atto della mancanza di vocazione contadina e, su pressioni del fratello William, l’intellettuale di famiglia, nel 1660 gli permise di tornare a scuola affinché potesse prepararsi all’esame di ammissione a Cambridge.

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Da Newton a Cavendish

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Kircher nasce nel 1602 a Geisa, appartato villaggio tedesco, giunge a Roma nel 1633 e muore nel 1680. Attenzione a queste date.

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Un altro oggetto studiato da Marshack è l’Isnango Bone, un osso inciso trovato negli Anni 60 del secolo scorso in Africa equatoriale vicino al lago Rodolfo, oggi conservato all’Istituto Reale di Scienze Naturali a Bruxelles. Ritenuto dapprima del 6500 a.C, ora è retrodatato fino a ventimila anni fa: le sue tacche sono 168, raggruppate in sequenze che corrisponderebbero a 5 mesi e mezzo di fasi lunari. Anche su altre ossa del paleolitico superiore compaiono gruppi di 15 o 16 incisioni: prova, secondo Marshack, che ci troviamo di fronte a rudimentali calendari.

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L’8 settembre 1940 un ragazzo francese, Marcel Ravidat, passeggiava con tre coetanei nella campagna di Montignac, in Dordogna, a mezzo chilometro dal castello di Lascaux. Il suo cane, di nome Robot, inseguì un coniglio che corse a ripararsi in una buca vicino a un albero sradicato. I quattro ragazzi scavarono e trovarono a un orifizio largo 20 centimetri. Un’uscita segreta del castello?

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Picard capì subito che Roemer era un giovane sveglio e lo sollecitò a misurare i tempi delle eclissi del satellite Io, il più vicino a Giove. Il progetto si tradusse nell’osservazione di 140 eclissi compiute a Uraniburg, nell’isola di Hven, dove Tycho Brahe aveva costruito il suo osservatorio. Il giovane danese fece un lavoro fu così accurato che otto mesi dopo Picard lo convinse a trasferirsi all’Osservatorio di Parigi. Qui Roemer rimarrà per dieci anni, fino al 1681, quando tornerà in Danimarca in seguito a contrasti con Cassini, personaggio che non aveva certo un buon carattere. A Parigi ebbe invece la stima e l’amicizia di Huygens, a sua volta, manco a dirlo, in pessimi rapporti con l’astronomo italiano. Roemer aveva applicato ai denti delle ruote la curva chiamata epicicloide (quella descritta da un punto su una circonferenza che rotola su un’altra circonferenza fissa e sullo stesso piano) con il risultato che il profilo epicicloidale assicurava agli ingranaggi una perfetta trasmissione del moto. Huygens, che con gli ingranaggi aveva a che fare per il suo orologio a pendolo, era la persona più adatta ad apprezzare questa idea di Roemer. Curiosamente, saranno ruote dentate a permettere nell’Ottocento una misura precisa della velocità della luce.

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Pensò a una cometa, ma non aveva né chioma né coda. La seguì per un po’ di sere constatando che l’orbita pareva quella di un pianeta posto tra Marte e Giove. Il 21 gennaio ne diede comunicazione a Titius, a Bode e a Barnaba Oriani dell’Osservatorio di Brera a Milano.

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Figlio di un burocrate dell’erario, Biot aveva incominciato a lavorare come garzone presso un commerciante di Le Havre ma poi si arruolò nell’esercito repubblicano e si distinse per il suo coraggio in campo di battaglia. Tornato a Parigi – pare sulla carrozza di Saint-Just – si iscrisse all’Ecole Normale. Laplace apprezzò le sue doti al punto da fargli leggere in anteprima le bozze del suo capolavoro La mécanique céleste. Fu lui a metterlo a capo della commissione incaricata di stabilire che cosa realmente fosse successo a L’Aigle.

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L’origine spaziale delle meteoriti, sostenuta da Ernst Chladni in un lavoro del 1794, fu a lungo controversa: il buon senso si ribellava all’idea che dal cielo piovessero pietre. A chiudere la questione fu Jean-Baptiste Biot (1774-1862) quando il 26 aprile 1803 una gragnuola di meteoriti si abbatté sulla campagna intorno a L’Aigle, novemila abitanti, cittadina della Bassa Normandia, 140 chilometri a nord-ovest di Parigi.

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Aiutato da La Hire, Cassini nel 1718 completò la misura di due archi di meridiano, uno a nord e uno a sud di Parigi. Gli risultò che l’arco a nord era più breve e concluse che la Terra è appuntita come un limone. Ne venne fuori una controversia: la Terra somigliava a un limone o a un mandarino?

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Succede a Torino con Beccaria, a Milano con Boskovic, a Palermo con Piazzi. Tre sacerdoti.

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L’arco di meridiano che va da Dunkerque (estremo nord della Francia) a Barcellona fu quello prescelto, in quanto fino a Perpignan l’avevano già misurato Cassini III e La Caille: veniva comunemente chiamato “la Meridiana”. Pierre Méchain (1744-1804), il cacciatore di comete, e Jean-Baptiste Delambre (1749-1822), umanista convertito all’astronomia sui trent’anni, furono incaricati delle triangolazioni. Il primo si diresse a sud di Parigi, il secondo puntò a nord.

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Come si è già accennato, per ordine di Laplace l’epopea della misura del mondo proseguì con François Arago (1786-1853) e Jean-Baptiste Biot, che estesero la misura del meridiano fino a Formentera nelle isole Baleari per precisare meglio l’entità dello schiacciamento terrestre, oggi quantificato in 1/298. Raggiunta Formentera, nel 1807 Biot tornò a Parigi, mentre Arago volle proseguire le misure. Le sue triangolazioni scavalcavano fino a 170 chilometri di mare servendosi di segnali luminosi. Per un falò che aveva acceso sulla cima dell’Escolop, nel 1808 fu sospettato di spionaggio e imprigionato nella fortezza di Bellver. Dopo un mese di reclusione riuscì a fuggire e raggiunse Algeri a bordo di un peschereccio. Di qui si imbarcò verso Marsiglia. Purtroppo la nave, ormai in vista della meta, incappò nei corsari spagnoli: Arago si ritrovò agli arresti, prima in un mulino a Roses e poi a Palamòs. Rilasciato su richiesta del Bey di Algeri, partì di nuovo alla volta di Marsiglia ma neppure questa volta riuscì ad approdare a causa di una tempesta che dirottò la nave a Bougie sulla costa africana. Tradito dal mare, via terra Arago raggiunse di nuovo Algeri, dove arrivò la notte di natale. Trascorsi altri sei mesi, infine nel giugno 1809 riguadagnò Marsiglia. Ma prima di tornare a una vita normale dovette ancora farsi una quarantena, precauzione contro le epidemie di peste.

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Bessel allora tornò a puntare il suo eliometro verso 61 Cygni e nel 1838 poté annunciare che la parallasse di questa stella era pari a tre decimi di secondo d’arco. Dalla trigonometria sappiamo che un angolo di 0,3” corrisponde a una distanza pari a 680 mila volte la base, cioè 680 mila Unità Astronomiche, equivalenti a circa 11 anni luce.

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Quando Napoleone divenne console, fu per qualche tempo ministro dell’Interno e dall’imperatore ebbe grandi onori, ma al momento opportuno, nel 1814, non esitò a firmare l’atto della sua destituzione e fu uno dei primi a fare atto di sottomissione a Luigi XVIII.

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Di fronte a queste approssimazioni possiamo domandarci se la scoperta di Nettuno fu frutto del genio di Le Verrier o della fortuna. Verrebbe da rispondere che furono necessarie entrambe le cose. Ma il fatto che anche Adams sia giunto a indicare coordinate celesti abbastanza vicine a quelle di Le Verrier dimostra che il genio fu più importante della fortuna.

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Le cose stavano a questo punto quando nel dicembre 1859 giunge a Le Verrier la lettera di un medico dilettante di astronomia, Edmond Modeste Lescarbault (Châteaudun 1814-Orgères-en-Beauce 1894). Il messaggio che contiene corrisponde proprio a ciò che Le Verrier andava elucubrando: l’astrofilo gli scriveva di aver osservato il transito davanti al Sole del pianeta ipotizzato.

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Nato a Savigliano nel 1835, figlio di un fornaciaio che produceva tegole e mattoni, dopo essersi laureato in ingegneria idraulica a Torino, Giovanni Virginio Schiaparelli studiò astronomia a Berlino con Encke e a San Pietroburgo con Struve. Nominato astronomo a Brera, nel 1861 scoprì il pianetino Esperia, poi individuò l’origine degli sciami di meteore nei detriti che le comete disperdono nello spazio, eseguì undicimila misure di stelle doppie, fondò la cartografia di Marte, eseguì osservazioni originali di Venere e Mercurio, fu un attento storico dell’astronomia antica e un elegante divulgatore di quella moderna. Senatore del Regno d’Italia (incarico che per dieci anni cercò di respingere), morì a Milano nel 1910 dopo aver diretto l’Osservatorio di Brera dal 1862 al 1900: gli subentrò Giovanni Celoria, originario di Casale Monferrato, che aveva rifiutato la direzione dell’Osservatorio di Arcetri pur di stargli accanto come assistente.

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Eugène Antoniadi, nato nel 1870 a Costantinopoli da una famiglia greca, fece studi classici e seguì i corsi di architettura. A 17 anni iniziò le sue osservazioni a Prinkipo, un’isoletta del Mar di Marmara, usando un rifrattore da 7,5 centimetri di obiettivo e capace di 300 ingrandimenti per realizzare i suoi primi disegni di Marte. A 23 anni durante un soggiorno a Parigi conobbe Camille Flammarion, fervente sostenitore dell’esistenza su Marte di canali artificiali.

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Nicéphore Niépce era nato nel 1765 a Chalon-sur-Saone, Borgogna, in una famiglia di avvocati. Dopo gli studi in seminario, rinuncia al sacerdozio e nel 1792 è volontario nell’armata rivoluzionaria, poi si trasferisce a Nizza, si sposa e nel 1796 la moglie Agnés Roméro mette alla luce il piccolo Isidoro. Affiora il suo gusto per le invenzioni: con il fratello Claudio, che fu uno dei tanti sognatori del moto perpetuo e morì in preda alla follia, ideò un motore a scoppio per uso marino e nel 1816 incominciò a sperimentare l’eliografia.

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Se ne occupò invece un italiano, Macedonio Melloni, nato a Parma nel 1798. Dopo avere studiato belle arti, per imparare meglio la tecnica dell’incisione Melloni andò a Parigi, dove nel tempo libero seguì come uditore le lezioni dell’Ecole Polytechnique. Ne ricavò una preparazione in fisica e matematica così buona da guadagnarsi nel 1824 la cattedra di fisica all’Università di Parma. Gli atteggiamenti patriottici lo costrinsero all’esilio prima a Firenze, poi a Ginevra e a Parigi. Aiutato da François Arago e Humboldt, dopo aver partecipato ai moti libertari del 1848, riprese la carriera accademica a Napoli e divenne direttore dell’Osservatorio Vesuviano. Morì di colera a Portici nel 1854. Allo studio della radiazione infrarossa si dedicò dopo il 1831 aiutato da Leopoldo Nobili: accoppiando una pila termoelettrica con un galvanometro costruì il primo strumento in grado di misurarla e dimostrò che, come la luce visibile, anche la radiazione infrarossa dava luogo a fenomeni di riflessione, rifrazione e polarizzazione.

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Tenendo davanti a sé la lastra fotografica, Annie, mezza sorda, gridava di ogni stella la classificazione spettrale che aveva individuato a colpo d’occhio e un’assistente la annotava. In questo modo riusciva a catalogare tre stelle al minuto nelle zone di cielo poco affollate, circa la metà nelle regioni più popolate. Intanto annotava anche le stelle variabili: nel 1903 ne pubblica un catalogo di 1227, che salgono a 3748 nel 1907. Di esse 277 sono sue scoperte, più quattro “nove” e una doppia spettroscopica.

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Emarginata dal protagonismo di Pickering e oscurata dalla sua umiltà, miss Leavitt negli anni in cui svolgeva ricerche fondamentali per la conoscenza dell’universo a grande scala non aveva visto riconosciuti i suoi meriti (né fece qualcosa per farseli riconoscere). A lei pensò nel 1925 il professor Mittag-Leffler dell’Accademia delle Scienze svedese: scrisse a Shapley manifestandogli l’intenzione di proporre Henrietta per il premio Nobel a riconoscimento della sua scoperta del rapporto periodo/luminosità nelle cefeidi. Shapley poté solo rispondere che miss Leavitt era morta quattro anni prima, il 12 dicembre 1921.

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La maggior parte delle stelle – circa il 90 per cento – si dispone lungo una curva inclinata che parte a sinistra in alto con le stelle più calde e luminose e termina in basso a destra con le stelle rosse più deboli. In alto a destra si colloca un gruppo isolato: le stelle supergiganti rosse. In basso, rispettivamente a sinistra e a destra, spiccano altri due gruppi isolati, quelli delle stelle nane bianche e delle nane rosse.

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Nella loro vita più o meno lunga, da pochi milioni di anni a decine di miliardi, tutte le stelle passano per la sequenza principale e ci si fermano più o meno a lungo. È una fase nella quale bruciano idrogeno trasformandolo in elio. L’equilibrio tra l’energia prodotta, che tende a farle espandere, e la gravità, che tende a farle contrarre ha qualcosa di miracoloso: le stelle sono bombe all’idrogeno, ma la reazione esplosiva è perfettamente controllata.

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Da ragazzino imparò a suonare il violino, passione che coltivò fino alla vecchiaia: fu un musicista mediocre ma non disprezzabile. A 11 anni ebbe un breve ardore religioso, presto sfumato. A 16 sognò di correre accanto a un raggio di luce – intuizione che gli spianerà la strada nella scoperta della relatività speciale – e si innamorò di Marie, una ragazza che aveva due anni più di lui. Galeotto fu il violino: lei suonava il pianoforte, lui l’accompagnava. Un amore candido, felice e breve. Il quel periodo il padre si era trasferito in Italia per esportarvi motori elettrici. Albert rimase a Monaco. Quando si ricongiunse ai genitori abitò prima a Milano, in via Bigli 21 (il poeta Eugenio Montale, Nobel per la letteratura, abiterà al numero 15) e poi a Pavia, nella stessa casa che nel 1808 aveva ospitato Ugo Foscolo. Nell’estate del 1895 fece, a piedi, una gita da Pavia a Genova. Vacanze d’altri tempi.

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Fu un altro esperimento mentale a orientare Einstein verso la soluzione. Nel 1907, mentre era ancora un umile “mezze maniche”, ebbe una intuizione analoga a quella della corsa accanto a un raggio di luce. “Ero seduto su una sedia dell’Ufficio Brevetti di Berna – racconterà poi – quando all’improvviso un pensiero mi ha attraversato la mente: se una persona è in caduta libera, non avverte il suo stesso peso. Ero sbigottito. Questo semplice pensiero mi fece una profonda impressione e mi spinse a viva forza verso la teoria della gravitazione”.

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Nato a Lugo (Ravenna) nel 1853, dopo studi classici seguiti privatamente, Ricci-Curbastro si era iscritto a Matematica prima a Roma, poi a Bologna, infine alla Scuola Normale di Pisa. Una borsa di studio lo portò a Monaco di Baviera, esperienza importante perché vi incontrò Klein e l’ambiente dei matematici tedeschi. A 27 anni fu nominato professore straordinario di fisica matematica a Padova ma diventò ordinario solo 12 anni più tardi. Dopo essersi occupato di elettromagnetismo, partendo da Gauss e dalla geometria non euclidea di Riemann, incominciò a sviluppare quello che diventerà il calcolo differenziale assoluto. Lì per lì la sua importanza non fu capita: sembrava soltanto un modo più complicato per arrivare a soluzioni già note. Decisivo fu un saggio che ricapitolava l’intera ricerca pubblicato nel 1897 sulla prestigiosa rivista tedesca Mathematische Annalen, firmato insieme con Tullio Levi-Civita, il più brillante dei suoi allievi.

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Eratostene aveva notizia che a Siene, oggi Assuan, città posta molto più a sud di Alessandria, nel giorno del solstizio d’estate a mezzodì il Sole si specchiava nei pozzi. Cioè non proiettava ombre, e dunque stava allo zenit. Non era così ad Alessandria: al solstizio estivo le ombre erano corte ma c’erano.

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Ancora bambino Edwin legge i romanzi di Jules Verne, a otto anni si fa regalare un piccolo telescopio, a 12 risponde per lettera al nonno che gli faceva domande su Marte e sulla Luna con tanta competenza che quello scritto viene pubblicato sul giornale di Springfield. A 16 anni entra all’Università di Chicago per studiare astronomia.

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La mattina del 28 settembre 1953, dopo aver lavorato come al solito nel suo ufficio di Barbara Street, la moglie Grace andò a prenderlo in auto per portarlo a casa a fare pranzo. Lungo la strada parlarono delle quattro notti di osservazione che stava preparando a Monte Palomar. Sulla porta della loro villetta a due piani di San Marino un infarto lo fulminò. Così Hubble fornì un altro titolo al New York Times. Tre settimane dopo avrebbe compiuto 64 anni.

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La vicenda degli “omini verdi” si concluse definitivamente nel 1974, quando il premio Nobel per la fisica andò a Hewish e a Ryle a riconoscimento del ruolo che avevano svolto nella scoperta delle pulsar e dei quasar. Jocelyn si consolò con un gioco di parole: “Io sono la signora No-Bell”. Ma fu ospite d’onore nel 1993 a Stoccolma per la consegna del Nobel a Joseph Taylor e Russell Hulse, che avevano dato una prova indiretta delle onde gravitazionali osservando una doppia pulsar. Un maestro e un allievo, questa volta, premiati alla pari.

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Nata nel 1928 a Filadelfia, Vera dormiva in una stanza rivolta a nord. Il lato settentrionale del cielo è il più monotono, le stelle sopra l’orizzonte sono le stesse per tutto l’anno, mentre gli spettacoli astronomici più divertenti vanno in scena sul lato sud. Vera invece fu come ipnotizzata dal lento girotondo delle stelle intorno alla Polare. A 10 anni si procurò delle lenti e le fissò in un tubo di cartone che aveva contenuto un rotolo di linoleum, materiale plastico che allora si usava per fare pavimenti a basso costo. Con quel telescopio di fortuna incominciò a sondare la notte e a fotografare gli astri. In mancanza di una montatura stabile, i risultati fotografici erano pessimi, scoraggiante era l’invito a lasciar perdere l’astronomia che le veniva dai genitori e dagli insegnanti. Vera resistette a tutte le pressioni. A 17 anni vinse una borsa di studio che le permise di scegliere liberamente la propria strada e nel 1948 al Vassar College si laureò in astronomia. Nel frattempo aveva conosciuto un giovane fisico-chimico e se n’era innamorata. Lo sposò, divenne la signora Rubin e lo seguì alla Cornell University rinunciando a un posto più prestigioso che le offrivano ad Harvard.

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Tolomeo poneva il confine dell’universo a 20 mila raggi terrestri, dove immaginava ci fosse la sfera delle stelle fisse. Ventimila raggi terrestri sono meno della distanza del Sole ed equivalgono a 0,000014 anni luce, mentre la stella più vicina è a 4,3 anni luce e i confini del cosmo sono a 13, 7 miliardi di anni luce. L’uomo antico, possiamo concludere, sottovalutava l’universo. Di noi che diranno tra qualche secolo?

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Wolfgang Pauli avanzò a malincuore l’audace ipotesi dell’esistenza del neutrino. Lo fece per salvare un principio-base della fisica: la conservazione dell’energia. Avrebbe dovuto presentare la sua idea ad un convegno dei fisici tedeschi in programma a Tubinga il 6 dicembre 1930, ma nello stesso giorno era stato invitato a un ballo a Zurigo. Preferì andare al ballo, anche perché lì avrebbe incontrato una ragazza che gli stava a cuore. Come dargli torto?

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Giuseppe Cocconi è morto a 94 anni nel 2008. Era nato a Como e si era laureato all’Università di Milano. Nel 1938 Edoardo Amaldi lo invitò a Roma al celebre Istituto di via Panisperna. Qui conobbe Fermi e lavorò con lui a un rivelatore di mesoni, poi si dedicò a studi sui raggi cosmici. Scherzando, Cocconi faceva notare che la sua comparsa a Roma coincise con la scomparsa di Majorana.

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Invece tutto va a posto ricordando che Dante per un attimo coglie l’accecante visione di Dio circondato dai cori angelici usando gli occhi di Beatrice come uno specchio. “L’immagine allo specchio – ricorda Patapievici – è simile a quella reale, solo che è invertita”. Il mondo invisibile diventa allora un “calco rovesciato del mondo visibile”: l’empireo è Dio-centrico mentre la Terra è diavolo-centrica, i cori angelici orbitano intorno a Dio a velocità sempre più alta via via che ci si avvicina a Dio mentre i cieli accelerano via via che ci si allontana dalla Terra, l’invisibile obbedisce a norme opposte rispetto al visibile.

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Dalla bicicletta all’elicottero, innumerevoli sono le invenzioni che, a torto o a ragione, si attribuiscono a Leonardo. Il telescopio – sia il rifrattore di Galileo sia il riflettore di Newton – non fa eccezione. Nel Codice Atlantico troviamo l’appunto “fa ochiali per vedere la luna grande” e un passo del Codice Arundel accenna all’osservazione dei pianeti riflessi in uno specchio.

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Per spiegare i moti osservati e tenere la Terra al centro, Tolomeo aveva poi dovuto scendere a vari compromessi. A muoversi su orbite circolari non erano i pianeti veri e propri ma un punto intorno al quale i pianeti descrivevano un’altra piccola orbita circolare, detta epiciclo. Le sfere cristalline a loro volta non ruotavano proprio intorno alla Terra ma intorno a una serie di punti leggermente decentrati diversi per ogni sfera chiamati “equanti” e il grande cerchio centrato sul punto equante era detto “deferente”.

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Costretto a rinunciare alla dittatura che da autentico despota aveva instaurato all’isola di Hven, prima cercò di arrangiarsi a Copenaghen, senza troppo successo. Tornò allora a Rostock, dove trent’anni prima aveva lasciato il naso, e infine riuscì a risalire la scala sociale con l’appoggio di Rodolfo II, imperatore del Sacro Romano Impero assai sensibile all’astrologia.

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L’eredità di Tycho, accumulata in 38 anni di scrupolose osservazioni, si può contemplare nei quindici volumi raccolti e pubblicati a Copenaghen dal 1913 al 1929. È l’imponente sistemazione di una astronomia in bilico tra vecchio e nuovo. Contiene errori concettuali ma anche misure di formidabile precisione, che Keplero saprà mettere a frutto appropriandosene con disinvoltura. Tuttavia il suo non fu propriamente un furto di dati scientifici, come molti hanno sostenuto. Già due giorni dopo la morte di Tycho, il segretario imperiale Barwitz annunciava a Keplero la nomina a successore dell’astronomo danese e lo invitava a fare domanda per ottenere il corrispondente stipendio, a patto che completasse le Tavole Rudolfine.

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La supernova si accese proprio il 9 ottobre 3 gradi a ovest di Marte e Giove e 4 a est di Saturno. Baldassar Capra, da sempre rivale di Galileo, rivendica di essere stato il primo a osservare l’astro mirabolante il 10 ottobre, insieme con il calabrese Camillo Sasso e il suo maestro Simon Mayr. La priorità spetterebbe però al monaco Ilario Altobelli, che dichiarò di aver avvistato la nuova stella il 9 ottobre osservando il cielo da Verona. Da Praga il 10 ottobre la notò anche Johannes Brunowski, un allievo di Keplero. Poco dopo, ma non abbiamo date precise, fu la volta di Peiresc, che scrive a Paolo Gualdo: “Nell’ottobre scorso ero in un piccolo paese chiamato Belgentier quando mi accorsi della nuova stella vicino a Giove, a occidente... Scintillava, e ciò mi fece concludere che si trattava di una stella fissa”.

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1 – A OCCHIO NUDO

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Nella seconda metà del Seicento un rimedio parziale si ottenne con obiettivi a grande distanza focale (fino a parecchie decine di metri) che permettevano di mettere a fuoco l’immagine in un solo colore, ma si trattava di uno scomodo ripiego. Privi di tubo a causa delle loro enormi dimensioni, questi strumenti sono passati alla storia come “telescopi aerei”. L’ottico romano Giuseppe Campani ne costruì uno lungo 41 metri per Giovanni Domenico Cassini. Il primato rimane al francese Adrien Auzout con 180 metri.

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Comunque siano andate le cose, alla fine del 1608 l’ambasciatore francese a La Hague acquistava un telescopio per Enrico IV e poco dopo a Parigi entravano in commercio i cannocchiali-giocattolo da tre ingrandimenti. Nell’autunno del 1609 un venditore ambulante di Francoforte mostrò all’astronomo Simon Marius un tubo ottico che ingrandiva “parecchie volte”. Poco dopo cannocchiali costruiti a Londra fecero la loro comparsa a Milano e a Padova. Sembra che i cannocchiali olandesi, diversamente da quelli di Galileo, usassero per oculare una lente biconvessa, come quelli che costruirà poi Keplero, e quindi dessero immagini rovesciate.

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La tradizione più diffusa fa nascere il cannocchiale nella primavera del 1608 e lo attribuisce a Hans Lipperhey (o Lippershey), un occhialaio nato a Wesel in Germania nel 1570 e trasferitosi in Olanda a Middleburg, dove rimase fino alla morte (1619). L’idea gli sarebbe venuta vedendo due bambini che, giocando con delle lenti, dicevano di vedere ingrandita una banderuola sopra una chiesa poco distante. Il suo contributo si sarebbe limitato a fissare le lenti alle estremità di un tubo e a chiedere il brevetto dello strumento. A contenderglielo arrivarono poche settimane dopo, nell’ottobre 1608, l’ottico tedesco Jacob Metius (1571-1628) e Zacharias Jansen (1585-1632), altro occhialaio di Middleburg, che oltre al telescopio avrebbe inventato anche il microscopio.

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Con un cannocchiale da 15 ingrandimenti Galileo vede due stelline a sinistra di Giove e una a destra. La sera dopo le tre stelle sono tutte a destra del pianeta. Galileo è perplesso: sono davvero stelle? Il 9 gennaio il cielo è nuvoloso. Il 10 due stelline sono di nuovo a sinistra di Giove, e così pure il giorno seguente. Il 12 gennaio Galileo vede due stelline a sinistra e una destra. Il 13 le stelline sono quattro, una a sinistra e tre a destra. Il 14 il cielo è coperto. Il 15 le quattro stelline sono tutte a destra del pianeta. Galileo incomincia a capire: sta osservando le lune di Giove, un sistema planetario in miniatura. Il sistema copernicano, verso il quale fino ad allora era stato un simpatizzante, ora gli sembra molto più plausibile.

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Senza laurea e con titoli esigui, Galileo va a caccia di una cattedra universitaria. A Bologna è vacante il posto di Egnazio Danti, divenuto vescovo di Alatri. Si fa raccomandare dal matematico gesuita Cristoforo Clavio (artefice della riforma del calendario), falsifica l’età aggiungendosi due anni e millanta un insegnamento a Siena inesistente. Niente da fare, vince l’astronomo e cartografo tolemaico Giovanni Antonio Magini (1555-1616). Anche a Pisa in un primo tempo viene respinto ma poi, grazie all’appoggio di Guidobaldo Del Monte, nel 1589 conquista l’anelata cattedra, e pazienza se lo stipendio è di appena 60 scudi, mentre il suo collega Jacopo Mazzoni, docente di filosofia, ne riceve 500, poi aumentati a 700.

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Quello con Marina fu un amore carnale a modo suo fedele, ma finì nel 1610 con il trasferimento di Galileo da Padova a Firenze. Tramite il canonico padovano Lorenzo Pignoria, Marina continuerà comunque a ricevere gli alimenti per Vincenzio fino a quando questi diventerà abbastanza grande per raggiungere il padre nel Granducato di Toscana. Pare che Galileo stesso l’abbia aiutata ad accasarsi con un certo Giovanni Bartoluzzi, faccendiere che curava gli affari dei nobili Dolfin. I tre mantennero rapporti cordiali. Era gente di mondo.

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Ritorno a Firenze

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