Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Le macchine invisibili: scienza e tecnica in tre camere e cucina

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Piero Bianucci 50 occorrenze

Una lavatrice di classe A, cioè tra le più efficienti, consuma circa 0,8 kWh per un ciclo di lavaggio a 60 °C. Per farla funzionare occorrerebbe il lavoro di quattro atleti capaci di generare in continuità 200 watt ciascuno. Da anni si consiglia di usare le lavatrici di notte, quando la produzione di elettricità è maggiore della domanda, ma pochi lo fanno, un po’ perché le vecchie lavatrici sono rumorose e un po’ perché l’utente non ne ha nessun vantaggio economico. Con il diffondersi dei contatori digitali sarà possibile differenziare le tariffe a seconda dell’ora. Avremo così un incentivo a fare il bucato di sera e di notte. Intanto dal 1999 al 2004 l’efficienza energetica delle lavatrici è aumentata del 4,5 per cento. Si potrà ancora migliorare, i margini però si restringono, a meno di tornare a macchine che usano forza muscolare: è recentissima una lavatrice a pedali messa insieme con pezzi di automobili riciclati. Ma non a tutti si può chiedere di essere eroi dell’ecologia.

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Ingrandita un migliaio di volte, la lamina di argento appare come una fitta compagine di microcristalli a facce piane, ognuna delle quali si comporta come un minuscolo specchio. L’unico problema è che l’argento lasciato esposto all’aria si ossida. Il vetro provvede a isolarlo e a proteggerlo.

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Il rasoio a lama

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Certo oggi il nostro senso dominante sia la vista, un sistema di percezione basato sullo stimolo che le onde elettromagnetiche appartenenti alla finestra spettrale della luce, compresa tra l’infrarosso e l’ultravioletto, esercitano sulle cellule a cono e a bastoncello della retina. Quasi altrettanto importante è il senso dell’udito, abbinabile a quello del tatto in quanto in entrambi i casi il cervello risponde a sollecitazioni meccaniche, si tratti di onde sonore che comprimono a ritmo alterno il timpano dell’orecchio o pressioni che si esercitano sulle terminazioni nervose della pelle.

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Il problema di convertire con efficienza lavoro in elettricità ed elettricità in lavoro fu risolto da Antonio Pacinotti tra il 1860 e il 1864 con il famoso ”anello” che porta il suo nome, prototipo della dinamo moderna: un avvolgimento a forma di ciambella ruota dentro un magnete o un elettromagnete, due spazzole poste a estremità opposte collegano l’indotto a un circuito esterno. Se si dà corrente all’avvolgimento abbiamo un motore a corrente continua, se mettiamo in moto l’indotto facendolo ruotare (per esempio a mano, pedalando o con una cascata d’acqua), questo genera corrente continua (dinamo). Il 13 maggio 1865 Pacinotti pubblica il suo lavoro sul Nuovo Cimento, senza preoccuparsi di brevettare l’invenzione, che ingenuamente presenterà poi al belga Zénobe Gramme. Sarà lui a perfezionarla e a brevettarla quattro anni dopo. Così va il mondo.

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Il vero inventore del motore elettrico a corrente alternata era nato il 30 ottobre 1847 a Livorno Vercellese, cittadina del Piemonte ora ribattezzata Livorno Ferraris. Rimasto orfano di madre a otto anni, fece i primi studi presso uno zio medico e si laureò in ingegneria a 22 anni. Si dice che l’idea del suo motore gli sia venuta a Torino mentre passeggiava sotto i portici di via Cernaia in una nitida giornata di sole. La scansione regolare delle colonne e delle loro ombre gli avrebbe suggerito la cosiddetta “gabbia di scoiattolo”, parte essenziale del “motore asincrono a induzione”.

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Ciò non ha impedito all’MP3 di affermarsi in modo travolgente in quanto, essendo i suoi file relativamente “leggeri” (una canzone di 5 minuti compressa a 128 kbit/secondo occupa da 3 a 5 Megabyte), possono essere scambiati con facilità via Internet e si prestano ad essere stivati a migliaia nelle nell’iPod della Apple e nelle comuni “chiavette”, quelle memorie flash a stato solido che hanno sostituito i floppy disk, stanno nel taschino della giacca e racchiudono fino a 8 gigabyte.

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Ancora intorno alla metà dell’Ottocento le agenzie di stampa ricorrevano a piccioni viaggiatori per inviare notizie da Londra a Bruxelles. Chi si stupisce oggi assistendo in diretta a una partita di calcio che si svolge a migliaia di chilometri di distanza? Chi pensa, telefonando da un continente all’altro, all’intricato itinerario della voce attraverso cavi, computer che la digitalizzano, ponti radio e satelliti artificiali in orbita a 36 mila chilometri dalla Terra, cioè a un decimo del tragitto che ci separa dalla Luna? Chi è consapevole dell’immensa ragnatela di Internet e dei milioni di computer che mettono a portata di mouse miliardi di pagine e di immagini?

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Il 17 settembre 1901 un temporale abbatté buona parte dell’antenna di Poldhu e poche settimane dopo la stessa sorte toccò a quella di Cape Cod. Fleming e Marconi ripiegarono allora su un’antenna trasmittente più semplice, a forma di ventaglio: 60 cavi erano ancorati a due robusti piloni a 50 metri l’uno dell’altro. A Cape Cod si sarebbero invece serviti di un aquilone per portare in alto il cavo dell’antenna ricevente.

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Il gas illuminante si afferma in Inghilterra, dove lo fa conoscere Frederick Albert Winsor (1763-1830), un commerciante di origine tedesca che inventerà anche il fornello a gas. Grazie a un finanziamento di Watt, nel 1806 sorge a Londra la National Light and Heat Company, la prima azienda che abbia fornito ai propri clienti luce e riscaldamento a gas. I lampioni a gas resisteranno per un secolo, fino all’illuminazione elettrica, e lasceranno una traccia romantica in uno dei più bei film di Charlie Chaplin.

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Lo schermo a cristalli liquidi fu inventato nel 1965 da George Heilmeier, un tecnico della RCA nato nel 1936 a Philadelphia, ma i cristalli liquidi erano già noti fin dal 1888 al botanico austriaco Friedrich Reinitzer (1857-1927), anche se a battezzarli così fu il fisico Otto Lehmann.

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L’astronautica, a partire dal 1957, anno del lancio del primo satellite artificiale, lo Sputnik, da parte dell’Unione Sovietica, permette di avere stazioni ripetitrici in orbita, e quindi di raggiungere con il segnale radio-televisivo qualsiasi luogo del mondo. L’orbita più preziosa per le telecomunicazioni globali è quella geosincrona, a 36 mila chilometri sopra l’equatore. Fedeli alla legge di Newton, i satelliti posti a questa distanza compiono un giro completo in 23 ore, 56 minuti e 4 secondi, cioè il tempo impiegato dalla Terra a ruotare su se stessa, e quindi rimangono sempre fermi sopra lo stesso punto dell’equatore. Con tre satelliti geosincroni disposti a 120 gradi l’uno dall’altro si riesce a coprire l’intera superficie terrestre abitata.

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La frequenza di lavoro dei telecomandi dipende dalla distanza a cui devono funzionare. Fino a venti metri, se non ci sono ostacoli, i raggi infrarossi sono la soluzione più comune. La loro sorgente è un Led (diodo a emissione di luce) che emette nel vicino infrarosso alla lunghezza d’onda di 950 nanometri (il colore rosso corrisponde a radiazione di circa 6500 nanometri). Il segnale è modulato a impulsi tra 20 e 70 cicli al secondo. Su distanze maggiori e con ostacoli intermedi si ricorre alle onde radio. È il caso dei radiocomandi per portoni, cancelli, antifurto, portiere delle auto.

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Nel caso delle onde sonore ci troviamo di fronte a oscillazioni di tipo meccanico, un po’ come nel caso delle onde del mare o delle onde a cerchio prodotte da un sasso gettato in uno stagno. A meno di spendere enormi quantità di energia meccanica, non è dunque possibile creare onde sonore in grado di propagarsi a distanze superiori a qualche centinaio di metri.

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Con i falò – a un bit per volta – evidentemente era difficile comunicare messaggi complessi e i tempi necessari erano lunghi. D’altra parte i messaggeri a cavallo raggiungevano al massimo una velocità di 15 chilometri all’ora: occorrevano giorni per far arrivare una notizia dalla Gallia a Roma, sempre che qualche incidente non eliminasse lungo la strada messaggio e messaggero.

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Il telegrafo elettrico ha molti padri: l’americano Joseph Henry, che non brevettò la sua idea perché era un gran signore e voleva che i progressi della scienza fossero a disposizione di tutta l’umanità; il ginevrino Le Sage; Alexandre, Cooke e il già citato Wheatstone. Tutti fallimenti. Ci voleva qualcosa di più semplice. Samuel Morse arrivò alla soluzione nel 1832 mentre tornava dall’Europa negli Stati Uniti a bordo della nave Sully. Lo aiutò il suo meccanico Alfred Vail, e anzi pare che sia stato proprio lui a suggerire il codice a linee e punti. Fu Miss Ellsworth, figlia del direttore dell’Ufficio Brevetti, a far ottenere a Morse i primi finanziamenti. Nel 1852 c’erano già 66 mila chilometri di cavi. Nel 1901 Marconi trasmetteva via radio i tre puntini della S attraverso l’Atlantico, e non ci fu più bisogno neppure di cavi. Ma l’alfabeto Morse resisteva.

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Edison incominciò a pensare alla lampada elettrica a incandescenza nella primavera del 1878. Aveva 31 anni ed era un inventore affermato. Dal suo laboratorio era già uscito il fonografo, che nelle sue intenzioni doveva servire per dettare più rapidamente lettere di lavoro alle segretarie. A suggerirgli la lampada a incandescenza fu un amico docente universitario, George Barker. Edison giurò che entro sei settimane avrebbe portato la luce nelle case degli americani.

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Ma la telefonia non avrebbe avuto grande sviluppo se non si fosse risolto il problema della selezione automatica da utente a utente. Nei primi tempi ogni utente era collegato ad un centralino, e qui il centralinista, inserendo opportunamente delle spine, realizzava il collegamento con l’utente desiderato. Si deve ad Almon B. Strowger il primo apparecchio per la commutazione automatica, e si dice che a spingere Strowger a realizzarlo sia stato il fatto che spesso comunicazioni di affari a lui destinate (era un impresario di pompe funebri) venivano per errore inoltrate ai suoi concorrenti, sottraendogli così la clientela. La commutazione automatica fu perfezionata da Strowger nel 1902 con l’invenzione del selettore a sollevamento e rotazione, il cui principio è identico a quello “passo a passo” rimasto in uso fino all’avvento, a partire dal 1980, della commutazione elettronica.

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Il primo a studiare l’unione delle due invenzioni fu Nathan B. Stubblefield, un americano di Murray, Kentucky, che nel 1908 ottenne il brevetto USA 887357 per un wireless telephone. In realtà Stubblefield non pensava a una comunicazione radiotelefonica da utente a utente ma a sostituire con ponti radio i cavi tra le grandi centrali telefoniche.

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L’ungherese László József Bíró ebbe l’idea della penna a sfera vedendo la traccia lasciata sul terreno da una palla che aveva attraversato una pozzanghera. Marcel Bich fece tutto il resto. Cioè riuscì a farla funzionare, a produrla a basso costo, a venderla a vagoni, a farci i soldi. Alla fine di una lunga controversia legale, Biro riuscì anche a ottenere da Bich i diritti sul brevetto, che aveva depositato a Parigi il 29 ottobre 1938, ma non fece in tempo a diventare ricco: morì a Buenos Aires nel 1985 quasi in miseria. Bich invece, morto nel 1994, ha lasciato un impero, come si è già detto parlano del suo rasoio.

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Facile a dirsi, difficile a realizzarsi. La tecnologia per fabbricare in grande serie sfere così precise, con tolleranze di qualche millesimo di millimetro, è tutt’altro che banale. Le penne a sfera americane sbavavano, imbrattavano giacche e camicie. I sovietici addirittura non riuscirono mai a copiare questo simbolo della cultura occidentale: fino al 1980 a Mosca le penne a sfera erano più ricercate dei jeans e delle calze di nylon.

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Wi-Fi (da Wireless Fidelity) è un dispositivo che distribuisce Internet fino a una distanza di qualche centinaio di metri su frequenze di 2,4 (molto vicina a quella dei forni a microonde) e 5,4 gigahertz.

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Wi-Max (da Worldwide Interoperability for Microwawe Access) nasce dallo sforzo congiunto di oltre 400 aziende per offrire l’accesso a Internet a larga banda e senza fili su distanze di qualche decina di chilometri (fino a 122) utilizzando frequenze tra 2 66 GHz.

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Quando nel 1955 arrivarono i primi orologi al cesio, si sapeva già, grazie ai pendoli di Shortt e agli orologi piezoelettrici al quarzo, che il moto di rotazione della Terra non è del tutto regolare: in alcuni periodi il nostro pianeta rallenta, in altri accelera lievemente, ma in generale prevale il rallentamento, per cui il giorno tende a durare sempre di più. Gli orologi atomici, oltre a confermare questa tendenza della Terra a perdere giri, hanno messo in evidenza piccole irregolarità caotiche nella rotazione terrestre. Probabilmente dipendono da varie cause: spostamenti di grandi masse dentro il globo terrestre dovute a moti di convezione nel mantello e a terremoti, fenomeni atmosferici a scala planetaria legati ai cambi di stagione, persino il ritorno delle foglie in primavera.

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Da anni l'Osservatorio, a parte lo strumento dei passaggi usato per determinare la linea meridiana e l’ora siderale, non aveva più telescopi. Le luci di Londra li avevano accecati e costretti a emigrare prima a Herstmonceux, nel Sussex, e poi all’isola di La Palma, nell’arcipelago delle Canarie, e in altri luoghi remoti. Dal 1990 anche gli uffici dell’Osservatorio erano finiti a Cambridge. A Greenwich restavano soltanto cimeli da museo, a ricordare che nel 1884, alla Conferenza Internazionale di Washington, il suo meridiano era stato prescelto come Meridiano Zero e riferimento universale del tempo.

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Passa mezzo milione di anni e verso il 1100 avanti Cristo gli egizi incominciano a fabbricare candele di papiro e pece o cera di api. A Pompei dal primo al terzo secolo d. C. fiorisce l’industria dei lumi a olio, ma bisogna aspettare il 1831 per avere i primi fiammiferi. La rivoluzione francese aveva appena spento le 24 mila lanterne che rischiaravano i giardini di Versailles quando, nel 1792, l’ingegnere scozzese William Murdoch incomincia a sperimentare il gas illuminante. Avrà vita breve: lo liquiderà la lampadina elettrica a incandescenza.

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Per la loro struttura, gli OLED si prestano a costruire sorgenti di luce sottili come fogli di carta, che possono essere applicate su oggetti dalle forme più varie: non c’è limite per i progettisti più creativi. L’obiettivo è di giungere a piastrelle che emettano luce bianca intensa (mille candele per metro quadrato) con una grande efficienza energetica (50 lumen per Watt) e con una lunga durata (15 mila ore, contro le 1500 delle lampade a incandescenza e le 5000 di quelle a fluorescenza). Le applicazioni commerciali sono previste per il 2010-2012.

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Inclusa nell'era della grande unificazione, c’è anche una fugace ma importante “era inflattiva”: per qualche infinitesimo istante - da 10 alla meno 36 a 10 alla meno 34 secondi dopo il big bang - l'universo si espande con una velocità eccezionale, superiore a quella della luce. Poi, giunti a 10 alla meno 34 secondi dall'Istante Zero, dal groviglio primordiale si separa un’altra forza, che i fisici hanno battezzato “interazione forte”. Di questa torneremo a parlare, perché è molto importante: tiene insieme i nuclei atomici.

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A sgrovigliare le due forze residue fu Carlo Rubbia, che per questo nel 1984 ebbe il premio Nobel insieme con Simon van der Meer. In che senso le ha sgrovigliate? Scoprendo a quale livello di energia, o se preferite a quale livello di temperatura, queste due forze si separano e assumono ognuna la propria individualità.

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I paleoantropologi hanno trovato tracce di focolari che risalgono a 790 mila anni fa. Servivano a tener lontani gli animali feroci, a riscaldare, illuminare, poi anche a cucinare. L’arte di trattare i cibi con il calore risale dunque a Homo erectus e precede di mezzo milione di anni la comparsa dell’Homo sapiens: le ricerche di Luca Cavalli-Sforza, genetista di popolazioni all’Università di Stanford, indicano che l’uomo moderno si diffuse nel mondo partendo dall’Africa centro-orientale soltanto 160 mila anni fa.

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Nel Becco Bunsen la fiamma alla base ha una temperatura intorno a 300 °C, a due terzi della sua altezza raggiunge i 1400 °C. Il colore della fiamma è un buon indice della temperatura: l’amaranto pallido corrisponde a 480 °C, il rosso a 675 °C, il rosa a 900 °C, il giallo a 995 °C, il bianco a 1205 °C, l’azzurro a 1400 °C. Ma il colore può essere determinato anche dalla sostanza esposta alla fiamma: il comune sale da cucina (cloruro di sodio) dà il giallo-arancio, il cloruro di bario e il solfato di rame danno il verde, il nitrato di potassio il viola.

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Quelli a gas, un tempo molto diffusi, tendono a scomparire perché poco affidabili: nell’accenderli è troppo facile produrre esplosioni.

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Intervennero poi altre aziende a perfezionarlo. Essenziale fu adattare il magnetron a funzionare senza il carico dell’antenna: quelli progettati per i radar, messi a funzionare in un forno, avevano vita breve. Il primo forno a microonde da tavolo è del 1967. Finalmente negli Anni 80 la tecnologia diventa matura e i prezzi incominciano a scendere rapidamente. Oggi un forno a microonde costa un centinaio di euro. È la felicità dei “single”. Basta metterci dentro un piatto surgelato, e in pochi minuti ci si può sedere a tavola. Spencer, inventore per caso ma non troppo (deteneva 200 brevetti), è morto a 76 anni nel 1970, poco prima di vedere il trionfo della sua creatura.

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Quanto al campo magnetico, raggiunge l‘intensità di 75-200 micro Tesla a tre centimetri dal forno (fino a quattro volte il campo magnetico terrestre che orienta la bussola) ma alla distanza di un metro si riduce a 0,2, il limite di legge estremamente prudenziale adottato in Italia. La dispersione di microonde a 5 centimetri dal forno non supera 1 millesimo di watt per centimetro quadrato, la metà di un telefono cellulare. Con la differenza che il telefono si usa a contatto con la testa, cosa non prevista nel caso del forno.

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I difetti del forno a microonde sono l’altra faccia dei suoi pregi. La bassa temperatura raggiunta può non essere sufficiente a eliminare completamente eventuali batteri che si siano sviluppati in cibi preconfezionati. Il rischio di infezioni alimentari è accentuato dal fatto che non sempre l’irradiazione è omogenea: certe parti del cibo potrebbero non riscaldarsi a sufficienza. I forni a piatto rotante prevengono questo inconveniente.

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Il forno a microonde offre il vantaggio della rapidità. Il calore della fiamma a gas deve passare per conduzione prima alla pentola e poi al cibo, nel quale penetra lentamente strato dopo strato. Se facciamo bollire dell’acqua, oltre alla conduzione deve intervenire anche la convezione a rimescolare il liquido più caldo (che tende a salire) con quello più freddo (che tende a scendere). Con il forno a microonde il riscaldamento è immediato, dipendendo da un’azione meccanica. Inoltre questa azione si svolge fin dall’inizio anche dentro il cibo, in quanto esso è trasparente alle microonde. Un sistema perfetto per scongelare gli alimenti appena estratti dal freezer e per riscaldare piatti già cucinati.

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Cottura a induzione

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È così che funziona il piano di cottura a induzione. Un grosso avvolgimento elettrico a forma piatta (un cilindro schiacciato) è posto sotto una superficie in vetroceramica: il fondo della casseruola fa da piastra conduttrice. Più il fondo sarà spesso, maggiore sarà l’efficienza. La corrente alternata che scorre nell’avvolgimento piatto ha una frequenza elevata, intorno a 25 mila cicli al secondo: un oscillatore provvede a moltiplicare per 500 la frequenza della corrente alternata a 50 Hz proveniente dalla rete. Non conviene superare i 25 kHz perché oltre la corrente tende a non circolare più sulla superficie del conduttore (il famoso effetto pelle) e ciò comporta una perdita di efficienza.

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Anzi, morì in miseria e fu sepolto a Massy nella fossa comune. A brevettare il processo, ormai noto come “appertizzazione”, fu nel 1810 l’inglese Peter Durand, in origine per conservare e trasportare il latte. In Italia la produzione industriale di scatolette inizia con Francesco Cirio, nato a Casale Monferrato nel 1836 e morto nel 1900. I piselli furono il primo prodotto inscatolato da Cirio: per la “naturalezza” della loro conservazione si guadagnò premi a Torino e a Parigi.

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La pentola a pressione nasce per motivi umanitari a vantaggio delle classi più povere: doveva servire a rendere più appetitose, o almeno commestibili, carni dure di animali macellati in età avanzata. Anche le ossa, cotte in quel modo, diventavano morbide e si potevano mangiate.

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La pentola a pressione

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Una leggenda attribuisce a Papin l’invenzione della macchina a vapore, che avrebbe applicato a un battello costruito insieme con Boyle, cosa del tutto infondata. È vero invece che Papin ideò una caldaia verticale chiusa al di sopra da un pistone. Facendovi bollire dell’acqua, il pistone saliva e la macchina poteva sollevare grossi pesi. Altrettanto vero è che la valvola di sicurezza di Papin troverà applicazione in tutte le successive macchine a vapore, compresa la prima locomotiva, realizzata nel 1825 in Inghilterra da George Stephenson (1781-1848).

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La pentola a pressione, completata da un cestello interno, permette un’ottima cottura a vapore a temperatura compresa tra 110 e 120 °C. I tempi si abbreviano notevolmente, con un forte risparmio di energia. Ma per un gastronomo ha gravi limiti: non permettendo di rimescolare o di aggiungere ingredienti, si presta soltanto a preparare minestre e bolliti.

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Le prese elettriche della nostra casa mettono a disposizione una potenza da 3 a 5 kilowatt (cioè 3000-5000 watt) a seconda del contratto stipulato con il fornitore. La potenza, utilizzata per un certo tempo, si chiama lavoro. Se uso 1 kilowatt per un’ora ho un lavoro di 1 kilowattora.

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Per parecchi anni le etichette intelligenti si troveranno a convivere con il vecchio e familiare codice a barre, tuttora dominante sui prodotti in vendita al supermercato. L’idea del codice a barre venne nel 1948 a due studenti dell’Università di Drexel, Joseph Woodland e Bernard Silver. Nel 1952 la brevettarono. Ma i tempi non erano maturi. All’inizio i due giovanotti pensarono di usare il codice Morse, poi provarono codici a barre ovali e codici bidimensionali. La difficoltà più seria era però la mancanza di una tecnologia per rendere veloce ed esatta la lettura. Le fotocellule usate per leggere il sonoro dei film non davano risultati affidabili e richiedevano lampade da 500 watt che, consumo a parte, rischiavano di bruciare le etichette.

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Di qui tanti modi cuocere: arrostitura alla fiamma; scottatura (in pentola rovente, su piastra metallica, su pietra, ai ferri); gratinatura al forno elettrico per indurire la superficie dell’alimento; affogatura quando si immerge il cibo in acqua sotto la temperatura di ebollizione; bollitura (immersione più o meno prolungata in acqua a 100 °C); stufatura (bollitura prolungata in poca acqua a pentola aperta); brasatura (processo che richiede prima una scottatura in un grasso e poi una stufatura); frittura (immersione o esposizione superficiale a un grasso a temperatura almeno di 130 °C.); cottura a vapore; saltatura (una sorta di frittura ma a temperatura maggiore e per un tempo più breve che si ottiene facendo “saltare” gli alimenti). La cottura nella pentola a pressione ha le caratteristiche dalla bollitura, ma poiché avviene a temperatura più alta (fino a 130 °C) le reazioni chimiche avvengono a velocità tripla, e ciò rende più rapida la preparazione di carni e verdure lesse.

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La prima è la fonte di calore, che può essere la fiamma, il forno elettrico, la pentola a pressione, il forno a microonde, la piastra a induzione e così via. Ognuna di queste sorgenti di calore raggiunge una temperatura massima diversa: alcune centinaia di gradi la fiamma, fino a 250 °C il forno elettrico, 120 °C la pentola a pressione, 100 °C il forno a microonde e la cottura in acqua bollente, 100 o meno di 100 °C il bagnomaria. Altre variabili sono il tipo di contenitore e di condimento usati: anche questi fattori intervengono sulla distribuzione del calore e sulla temperatura di cottura. Una terza variabile è il tempo di esposizione, che può essere brevissimo (quando “scottiamo” un pezzo di carne) o anche molto prolungato (ad esempio nel caso dei bolliti).

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Le trasformazioni chimiche e fisiche subite dai cibi esposti al calore sono complesse e se ne sa ancora poco perché soltanto da qualche decennio si è incominciato a studiarle seriamente. Il punto di partenza possiamo fissarlo nell’anno 1912 e nei lavori del biochimico francese Louis-Camille Maillard. Il suo nome è legato a quanto di più appetitoso si può produrre in cucina usando una fonte di calore sufficientemente intensa: la reazione di Maillard avviene tra zuccheri e proteine e inizia a 130 °C, accelera a 140 e dà il meglio di sé fino a 160 °C. A temperatura più alta si arriva a caramellare gli zuccheri. Dal punto di vista della scienza dei materiali, il caramello ottenuto per termodegradazione del comune zucchero da tavola è un vetro, cioè un materiale che, pur essendo allo stato solido, ha una struttura molecolare disordinata come un liquido.

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Dario Bressanini sulla rivista Le Scienze ha spiegato che l’albume coagula a 62 gradi e diventa un solido morbido a 65. L’ovotransferrina, che costituisce il 12 per cento delle proteine dell’albume, coagula a temperatura più alta, e quindi mantiene la morbidezza. A 85 gradi anche l’ovalbunina, che rappresenta più di metà delle proteine dell’albume, incomincia a coagulare. Il tuorlo, che è fatto di grassi, solidifica a 70. Conclusione: il perfetto uovo sodo si ottiene con un compromesso termico: tenendolo per un’ora a 65 gradi. Solo così avrà la consistenza e il gusto ideali, senza che si formi intorno al tuorlo una pellicola verdognola: un solfuro di ferro dall’aspetto poco appetitoso.

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Attenzione però a non ustionarsi la lingua. Una gradazione alcolica più alta abbassa la temperatura di fusione. Un Porto a 15 gradi alcolici (15 parti di alcol su 100 di acqua) gela a 5 gradi sotto zero, un Genepy a 30 gradi alcolici ghiaccia a -15 °C, una Vodka a 40 gradi ghiaccia a -24 °C e una Grappa a 50 gradi a -37 °C.

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