Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbandono

Numero di risultati: 176 in 4 pagine

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Ricordi d'un viaggio in Sicilia

168900
De Amicis, Edmondo 1 occorrenze
  • 1908
  • Giannotta
  • Catania
  • Paraletteratura - Divulgazione
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L'angelo in famiglia

182387
Albini Crosta Maddalena 1 occorrenze
  • 1883
  • P. Clerc, Librajo Editore
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
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Talvolta, pur troppo (non lo dico a te), talvolta sono i padri, i fratelli, i parenti, e perfino le madri che hanno ricevuto dal diavolo l'indegna missione di tormentare e di scuotere, se fosse possibile, l'altrui fede; e perchè il loro ascendente sia maggiore, il maligno permette in essi taluna od anche molte di quelle virtù domestiche e civili, atte a guadagnar loro una stima cieca ed un intero abbandono del nostro cuore inesperto. Se tu, poveretta, avessi una tale sventura di vedere segnato dal marchio di una missione sì triste una persona che tu ami teneramente e colla quale vuoi e devi vivere in continuo contatto, fa di ricopiare in te, per ipocrisia non mai! ma con una santa emulazione le virtù tutte delle quali ti è dato l'esempio, ed adopera tutta la tua forza di volere e di amore per procurare a quell' anima cara quell'unica virtù che a tutte l'altre sovrasta, e senza la quale tutte le altre non sono oro, ma orpello... Tu devi essere, tu sei l'angelo della tua famiglia! io lo so, lo vedo, tu sei intorno al diletto genitore, al fratello, colle tue amorose cure, colla tua devozione, con quella parola timida ma sicura nel momento in cui il cuore che tu avvicini è titubante o commosso; colla tua costanza nelle tue pratiche di pietà, colla dolcezza inalterabile del tuo carattere, colla pazienza nelle contrarietà e nelle sventure, colla carità indivisibile da ogni tuo atto, da ogni tua parola, e con tutte quelle amorose arti che una pietà, illuminata sa suggerire all'anima tua. Sì, io ti vedo agire in tal guisa che non esito a preconizzarti un completo e non lontano trionfo. Il tuo genitore, il tuo fratello sente per te un affetto irresistibile; pure una lotta interna lo fa teco in quieto, adirato, e talvolta tu vedi un sorriso amaro sul suo labbro; un sorriso che ti fa agghiacciare il sangue, che ti turba, ti desola. Corri, corri a Maria, essa è là ansiosa ad attenderti; forse è oggi il dì di quella lotta tanto aspettata, tanto desiderata; forse oggi è il dì di quel trionfo sì difficile, ma sì durevole. Corri, corri a Maria, e vivi sicura d'aver ottenuta la grazia invocata, ad onta che tutte le apparenze ti dicano ch'essa è non solo lontana, ma impossibile. Ma tu aspettavi da me che solo ti parlassi delle occasioni di peccato, ed io t'ho invece parlato delle occasioni di bene; io stessa ho dovuto raccogliermi un momento a cercare la ragione per cui il Signore ha voluto che ti dicessi questo prima di quello. Ma non ho tardato ad accorgermi che il Signore vuole appunto che noi, e quindi anche tu, sappiamo convertire in occasione buona quella che era e sembrava un'occasione cattiva. Se tu colla persona incredula o poco credente, o indifferente, o beffarda in fatto di religione, con quella persona che sempre o quasi sempre sta al tuo fianco, che esercita sopra di te tutto il prestigio cui dà diritto un santo affetto di congiunto ed i pregi personali, invece di adoperare, come abbiamo veduto poc'anzi, tu avessi agito al modo mondano, certamente invece di trasfondere in essa il bisogno e l'abito di quella religione che è la tua vita, che sola può sostenerti nelle lotte dell'esistenza e che unica può premiare la tua virtù e la tua costanza, l'avresti tu stessa perduta. Ahimè! sola e miserabile ti troveresti in brevissimo tempo sprovvista d'ogni morale virtù, e destituita da quella forza che è la tua forza e senza cui non trova balsamo nessuna piaga, lenimento nessun dolore. Se collo sprezzatore della tua fede (foss' egli pure tuo fratello o tuo padre) ti porrai a patteggiare, a questionare, a disputare, non tarderà molto e la tua fede diventerà vacillante, smorta, nulla! No, per pietà, no, mia cara. Per pietà, guardati dal fuoco! io ti ripeto, guardati da quel fuoco distruggitore che incenerirà ogni tuo proposito, ogni tua buona tendenza... Ma, e perchè insisto io tanto a predicarti l'importanza dello schivare le occasioni, se tu ne sei più che convinta? Se fosse altrimenti, tu non leggeresti con tanto affetto questo libro, il quale, quantunque vergato sotto l'impulso di un potentissimo amore per l'anima tua, non ha che parole severe a dirti, virtù anche più severe ad importi! Quello che tu vuoi da me, e che io voglio dirti, si è dunque non tanto la massima di sfuggire le occasioni di peccato, quanto d'insegnarti il modo di poterle sfuggire e vincere e volgerle a bene. È forse necessario che io ti ripeta:non giuocare come lo spensierato col fucile carico? No; sarà meglio ti suggerisca di sparare all'aria l'archibugio, e tolga così amendue da un pericolo imminente e gravissimo. Se vedi che arde la casa del tuo vicino, ti è inutile continuar ad urlare al fuoco; bisogna invece che tu porti dell'acqua, dopo d'esserti adoperata a segregare la tua casa affinchè non divampi con quella. Te lo ripeto, e tel ripeterò incessantemente, non metterti a disputare e a discutere di religione con persona di te più colta e a te superiore; anzi sarei quasi tentata di dire, con persona alcuna: ma pronuncia la tua opinione con volto ed animo sicuro, protesta di non voler cedere assolutamente agli altrui ragionamenti, e se non puoi imporre silenzio, e neppure ti è dato pregare si voglia con te parlare di un argomento più conforme e più omogeneo al tuo modo di pensare, chiedine con bel garbo il permesso, e ritirati o nella tua camera, o in altro crocchio, o comecchè sia e come darà la possibilità, togliti da quel discorso. Se poi sei costretta a star lì, prega in segreto e segretamente protesta e ripara, atteggiandoti a serietà. Così facendo, l'ardito che si permette innanzi a te di porre in forse od in canzone le verità più sante e più care, si accorgerà ch'egli abusa della sua libertà, e violenta la tua coll'importi quanto non vuoi e non devi tollerare. Se poi quel cotale fosse persona tanto rozza e tanto mal educata da pretendere tu subissi intero il suo ragionamento, e vantasse in proposito la sua condizione ed i suoi titoli, non ti curar di lui, ma guarda e passa. Allorchè t'ho parlato di non curarti di quanto dirà il mondo, mi pare di averti detto alcun che di somigliante; ma il ripeto: quando si tratta di schivare le occasioni pericolose, non ci vogliono rispetti umani, o, se ci vogliono, ci vogliono per calpestarli, ed impedir loro di far poi capolino, e ci tentino e ci trascinino miseramente. 10 Ma oltre questi pericoli, in certo modo visibili, ve ne hanno degli altri, tanto più pericolosi e nocivi, quanto meno avvertiti; questi sono non i discorsi propriamente detti, contro la religione ed il costume, ma quelle parole mezzo serie, mezzo buttate là senza studio e senza ritegno, quelle parole ambigue le quali vogliono dire ben altro di quello che si tenta far credere, e fanno intanto salire il rossore sulle tue guancie, il riso sulle tue labbra, ed insieme un qualche cosa che somiglia rimorso al tuo cuore. Queste arti non saranno certo adoperate con te dai tuoi, ma dai così detti amici di casa; da quei bontemponi i quali non avendo meriti sodi da far valere, sfoggiano ed ostentano uno spirito che sarebbe piuttosto spirito da ardere, non da far valere nelle conversazioni. Se adunque in casa tua, o in casa altrui ti trovi vicina a siffatte vespe, chè io non le so chiamare nè considerare con altro nome, schivane il pungolo avvelenato benchè sottile, e non ti lasciar ingannare da loro perchè le vedi suggere il mele e lo zucchero, poichè se ti s'avvicinano e ti pungono, n'avrai deformato il viso e guasto fors'anche il sangue! No, non ti lasciar illudere dalle parole dolci e melate; non t'illuda l'eleganza della persona e del porgere; quello è pericolo, e tu lo devi schivare, e schivare tanto più quanto è più coperto, simulato ed insinuante. Talora perfino alcune signore, d'altronde simpatiche e gentili, hanno il tristissimo còmpito di pervertire le anime innocenti; ma se tu farai sempre con buona volontà ricorso a Maria, sarà illuminata la tua mente, agguerrito il tuo cuore, e non tarderai ad accorgerti delle insidie che ti si tendono, nè indugerai a schivarle. Se poi, il che è difficile, le persone le quali minacciano la tua credenza o la tua virtù sono in buona fede, allora tu potrai volgere a bene le stesse loro lusinghe, e sentendoti sul campo della verità, ti sarà agevole far cadere le squame che, come a S. Paolo, coprono loro gli occhi, e renderli illuminati colla luce evangelica, riscaldati dal calore del Sole di vita, Dio. Ma per tacere delle letture cattive, delle quali ti parlerò separatamente un altro giorno, debbo parlarti di un altro pericolo e grave, che ti può venire non solo dai parenti e dai conoscenti, ma altresì dai maestri e dalle amiche. La penna ripugna a scriverlo, perchè la mente ripugna a pensarlo, che i maestri e le amiche possano essere di pericolo alla tua fede, perchè invero non è, nè può esser vero maestro ed amico colui che insegna il male! Tuttavia, tu non sei più nel caro e sicuro recinto del tuo collegio, di quel collegio tanto ben diretto, sì bene animato; tu sei in una società che non possiamo dire buona e bene intenzionata, ma che ci è forza confessare corrotta e corruttrice, ingannata ed a sua volta ingannatrice. Tu sei obbligata a vivere in questa società, dove lo spirito delle tenebre lancia talvolta alcuni di quegli esseri i quali dovrebbero avere l'ufficio d'illuminare, e che adempiono invece quello d'inondare di tenebre dovunque posano il piede e toccano colla mano. Quando ti ragionerò del modo di schivare le occasioni di peccato non solo contro la fede come oggi t'ho parlato, ma altresì contro il costume, mi estenderò maggiormente; per oggi ti basti il già detto, cioè dover tu usare coi maestri e colle amiche, non altrimenti di quello che fai con chiunque insidia la pace della tua coscienza. Ove e appena ti accorgi che colla letteratura, colla storia e perfino colla musica, ti si vuol propinare l'errore, confidati coi tuoi genitori, e pregali a toglierti da sì grave pericolo o col dirizzare l'insegnamento, o col rimandare chi te lo amministra. Questo ti sarà meno difficile ancora colle amiche, alle quali devi imporre silenzio e rettitudine di pensieri e di discorsi, e se questo nol puoi ottenere, allontanati da esse, pregando molto e sempre per l'anima loro. Oh! sì, molto e sempre devi pregare per tutti coloro che ti fanno del male, o minacciano di fartene, e ove se ne porga l'occasione, non devi essere tarda nè restìa a far loro del bene colla parola, coll'opera, col cuore, e quell'Iddio che promette un premio eterno per un solo bicchier d'acqua dato per amor suo, te ne darà larga ricompensa in questa vita e nell'altra. Un altro pericolo del quale, come dal fuoco, ti devi guardare, si è la medesima tua debolezza, e per quanto ti paja e ti senta forte nelle tue convinzioni religiose, paventa sempre il pericolo. Non già il soldato trascurato e spavaldo è forte al momento della mischia; ma l'eroe è sempre colui che prima ha misurate le sue forze, ha tremato di sè, ed ha lungamente meditato la giustizia della sua causa. Sì, questi è l'eroe, che dimentico di sè tiene con una mano la bandiera, pugna coll'altra a difenderla, finchè o è giunto a salvarla, o è perito con essa. Sii tu pure l'eroe della tua religione, senza temere il ridicolo. Chi ride di te, o ride perchè non arriva a comprenderti, o perchè non ha forza da emularti. Guardati dal fuoco, e le fiamme dell'incredulità cadranno spente ai tuoi piedi. Dio ti benedica!

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Angiola Maria

207354
Carcano, Giulio 6 occorrenze
  • 1874
  • Paolo Carrara
  • Milano
  • Paraletteratura - Ragazzi
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E invece, poche parole di malinconici ricordi, poche lagrime versate in un momento d' abbandono e di fralezza, mi rapirono il frutto di tanto volere e di tanti sacrifizi. Che avrà detto, o pensato di me l'amico mio?... EgIi forse mi trovò ben mutato da quel che fui; o forse più non mi stima se non come un cuor debole, inetto alle grandi prove dell'esistenza, un povero illuso, un fanciullo! Ma se, all'opposto, fosse tutto amor proprio, fosse superbia che m'accieca, codesta brama di comparire agli occhi dell'amico altro da quel che sono? Non fu egli che m'aperse il cuor suo e la sua casa, che mi prodigò tutto quanto la santa amicizia può dare, che mi restituì il coraggio di vivere, e mi strappò alle braccia di morte che mi voleva far suo?... Egli sedè le intere notti al mio capezzale, quand' io lottando col male e venuto quasi all'agonia delirava e diceva parole di furore e di pianto alle mie fatali speranze, alla tradita giovinezza, alle mille ombre che giorno e notte m'assediavano. Egli stesso, con occhio sapiente, studiava intanto il lampo del mio sguardo e il pallor del mio viso; con la mano pietosa premeva la mia, contava i battiti delle mie arterie e i pochi minuti di posa che la febbre e il dolore concedevano allo strazio de' nervi e allo spavento dell'anima. - Io era solo, povero, lontano da' miei, calpestato da' potenti, umiliato dagli amici, languente in un letto non mio, sospiravo di finire una volta: ed egli fratello, amico, medico, benefattore, mi fece dono della vita perchè tornassi non indegnamente a respirare fra gli umani; egli rimise in pace l'animo mio, e mi rese quasi altero delle sofferte nemiche fortune. Su quel desco, ove con esempio raro di vera grandezza quell'uomo saggio e buono aveva con me spartito il suo pane e profferta la metà della sua tazza, io scrissi le pagine consacrate alla gloria d'un Grande che non è più; e a quelle pagine io poneva in fronte il nome dell' amico venerato e caro. Nulla di più m'era concesso. Ma questo nome che i piccoli e i buoni conoscono, questo nome che l'orfano e la povera femminetta impararono da tanto tempo a benedire, era per me il solo degno d'unirsi a quello del sommo genio italiano, per il quale fu rinnovata l'arcana scienza della natura e il nome della mia città non morrà mai. (*) Così, non vendei Ia memoria intemerata della sapienza all' oscuro dovizioso o all' indegno possente; non infransi l'aureo simulacro della gloria, per fondere la corona all'infamia: ma di quel nome altissimo feci l'umile ghirlanda della gratitudine al beneficio. (*) Pare che qui intendesse di parlare d'Alessandro Volta, del quale avea scritto a quel tempo. Qui il manoscritto presentava una lacuna, e pareva che fosse stato per parecchi mesi interrotto. A quel tempo, forse, si riportano i pochi brani delle lettere che trovai fra que' fogli, scritte con mano quasi illeggibile, spiegazzate e lacere, siccicè vedevasi che prima di finirle il vicecurato s' era pentito e le aveva gittate a parte. Amico mio. - M' è di grande consolazione il poter tornare a te in questi giorni d'amarezza e di prova, ne' quali anch'io, come Colui che portò tutti i nostri dolori, posso quasi dire: L'anima mia é trista fino alla morte.... Io viveva qui dimenticato, e non potei dimenticare. Le passioni degli uomini tornarono a visitarmi nella solitudine, e ascoltai quelle voci che altre volte avevano conturbata la mia giovinezza: un affetto ch' emunge le forze dello spirito e rimpicciolisce le idee dell' umanità e dell'infinito si risvegliò nel mio cuore, dove, non ancora spento del tutto, consumava non veduto le più pure sorgenti della vita, come fuoco che vive addormentato sotto la cenere. A tanto mio dolore s'aggiunge una piaga novella, il rimorso: poiché io sono ancora talvolta il trastullo d'una fuggitiva larva di bellezza, e mi trovo così debole e vile in faccia di me stesso, che parmi nessun sacrificio esser poco per ricompormi quest' avvenire che pur non voglio e non so disprezzare, che fugge sempre più da me lontano, con sè portando a brano a brano la mia vita. Tu sai la compassionevole vicenda che mi persuase di rinunziare alle facili glorie concesse dal mondo a chi appena sappia lusingar le inezie del proprio tempo, e farsi campione del vizio imbellettato di virtù.... Io volli sposare la parte di coloro che patiscono; e nato povero e nudo, morrò vero e nudo. Poiché, non per nulla, avrò detto addio alle splendide fantasie dell' arte, alle severe meditazioni della scienza, a' giorni tempestosi e ardenti della gioventù, alle grandi speranze dell'uom pellegrino in cerca della verità, a tutto quello che formò la poetica visione de' miei vent' anni . . Amore, amicizia, patria, sapienza, gloria, non bastano per legarmi a questa vita; più non sono per me altro che il primo batter dell'ale che fa l'anima nostra verso l'infinito, il simbolo della virtù eterna, di quel bene che non alligna in terra, perché la terra ritornerà nel suo nulla, e il bene è immortale. Amico! - V' ha qualche istante nel quale credo che Dio non abbia accolto il suo servo: e parmi ch' Egli maledica come opera di superbia, ovvero di disperazione, questo sacro e terribil dovere ch' io m' assunsi - io così pieno ancora di ribelle volontà, di mortali odii, d'inutili speranze - d'annunziare agli uomini la sua verità, il giorno del suo regno. Allora lo spavento e l' angoscia incurvano la mia fronte; vo cercando i luoghi più solinghi e dirupati di quest' alpi selvagge; piango, senza trovar sollievo dal piangere, e dico in mio cuore: O Signore! come potrò recar la tua pace agli uomini, io che non ebbi mai pace per me!... In codesti giorni d' abbandono e di miseria morale, mi sforzo di temperar l'interno patimento colle dolci distrazioni della lettura e dello studio, tornando ad evocar le belle imagini della poesia, le grandi ombre di coloro i quali parlarono il vero e furono infelici, e infelici ben più ch' io non sia! Ma anche la poesia è morta nel mio cuore! - Io aveva fermo nell' animo di non tornar mai più agli antichi prediletti studii poetici: voleva darmi tutto alle austere contemplazioni della sacra scienza, che sola oramai può consolarmi de' tanti disinganni provati, delle stolte speranze umane, delle menzognere imagini suscitate dall' inquieta fantasia che vuol levarsi nella regione dell' impossibile.... Eppure, in questi giorni, tornai alla poesia, al culto di quell' arte che mi rende ancora così belli gli anni giovenili. Rovistando fra vecchie carte, rinvenni abbozzi di novelle poetiche, di poemetti, di canzoni, di tragedie; sorrisi di me stesso e de' sogni miei, rileggendo que' miseri brani. Mi sembravano come le macerie d'un edifizio caduto in rovina prima che di poche braccia sorgesse dal terreno. Mi provai a scrivere; ma sarà in vano. La letteratura del nostro tempo, se ne togli pochi, i quali temono di mostrarsi fra gli altri per la coscienza di una virtù intemerata, ma pur tremante e sdegnosa, è fatta per tutt'altro che per educare il cuore e innalzar la mente a vera grandezza. È una letteratura smascolinata, come quell' arcigno del Baretti direbbe, una letteratura da canapè, buona tutt' al più per i gabinetti delle damine svenevoli e profumate. Nondimeno scrissi anch' io: ho gittato giù l' abbozzo di due tragedie. Nell'una, il Buondelmonte, vorrei dipingere, a diversità degli altri che tentarono lo stesso tema, l'origine della fiorentina Repubblica, e il fiero carattere del Mosca, Che disse, lasso! capo ha cosa fatta. " Nell' altra, il Procida, vorrei mostrare quanto possa amor di patria in lotta coll' amicizia e coll' amor paterno. Ma le mie forze non basteranno, io temo, all' altezza del concetto. Quando nè lo studio nè la contemplazione della natura valgono a levarmi dal cuore il peso che lo preme da tanto tempo, allora prendo la penna per scrivere a te, amico mio, a te che sai la storia di mia vita, e solo fra tutti puoi compatire il solitario prete, l' uomo che nulla più domanda su questa terra, tranne di vivere nella memoria onesta de' pochi montanari, i quali fanno la sua famiglia. Quando seppi rinunziare alle illusioni della mente, superba d' aver vestita di novelle forme la vecchia filosofia del dubbio quando parlai agli uomini d' una religione di fratellanza e d'amore che sola può apparecchiar l'avvenire, coloro che stavano in alto gittarono vergogna e disprezzo sopra di me. Avrebbero voluto che la mia fede si facesse serva delle imposture mondane, delle rugginose pretensioni della forza: io cercava invece d'abbracciare il povero e l'oppresso, che al par di me pativano e pregavano; e coloro mi rinfacciarono la ferrea legge del fatto, mi presentarono agli occhi de' miei fratelli come sognatore irrequieto, come uomo perduto dietro i delirii del pensiero umano, dietro le novità della filosofia e della religione. E i miei fratelli risero di me. Allora io non poteva più ritornar fanciullo, raccogliermi nell' innocenza della vita e della speranza; e sapendo già, per averne fatto duro saggio, quello che fosse il mondo, sentii tutta l' amarezza d'una vita inutile e tormentosa. Ma al tempo stesso una grande e nuova luce d' amore s' era fatta dentro di me, nel profondo: in questa luce si rinnovò la mia fede a poco a poco; e, divenuta matura, la ragione unì i pochi e deboli suoi sforzi a quelli de' tanti e tanti che combattono quaggiù per la causa della libertà nella giustizia. I miei mali cominciarono a parermi ben piccola cosa al paragone de' molti e grandissimi che aggravano l'umanità; e fui persuaso, da quel momento, che ognuno il quale cammini con semplicità per la via su cui la Provvidenza lo mise, nè mai rinneghi sè medesimo, nè venga a patto con la propria coscienza, potrà dire un giorno: O Signore, anch'io feci la mia parte di bene, e vissi sempre nella fede, nella speranza, e nell' amore! - Perdonai da quel punto all'uomo, che, col suo tradimento, m' aveva ferito nella più viva parte del cuore: e mi gittai nelle tue braccia, t' apersi tutti i miei segreti; e tu, mio amico e fratello, mi donasti il coraggio di vivere e d'operare. Gli uomini mi calunniavano, e io li amai; mi respinsero, e chinai la testa; poi venni a nascondere in questa povera valle il mio oscuro ma innocente apostolato. E oggi, anch' io ripeto a te le dolorose parole che un moribondo amico manda a me lontano: Fra me e te esiste un legame che la morte non rompe! Mio buon padre. Nel mio romitaggio, sento il bisogno di tornare a voi, di venir col pensiero all'umile casa ove nacqui, a quel paradiso de' miei anni infantili che si specchia nell' acque purissime del lago. Vedo, padre mio, il vostro incredulo sogghigno a queste poetiche ricordanze; ma se vi dirò che la nostra casetta, dove abita mia madre, dove, nascosta ome rosa silvestre, si fa bella e grande la buona Angioletta, è il più sacro, il più desiderato angolo della terra per me, che pur vidi molto e molto conobbi, forse non sorriderete più così, e darete un pensiero anche voi, un pensiero di compassione alla tristezza che bene spesso viene a tenermi compagnia. Non è già che mi lagni della condizione mia, e del trovarmi qui solo, in povera e lontana contrada, dopo che i primi augurii della vita m' avevano promesso un diverso avvenire. Sulla via che tentai d' aprirmi, ardente com' ero di volontà e di fiducia, ma scarso pur troppo di virtù, non trovai che spine; e m' avvidi come, nell' ampio teatro del mondo, il poco ch' io potessi fare m' avrebbe alla fine guadagnato le ire e le maligne persecuzioni di chi s' adombra d'ogni franca e generosa parola, di chi suol chiamar delitto il coraggio d' alzar la testa contro le prepotenze umane e quelle della fortuna. Per questo, benedissi come venuta dal cielo l' inspirazione che mi condusse qui, fra i poveri e i semplici, qui dove si soffre e si aspetta, dove passano smarrite o ignare tante creature per le quali morì crocifisso Colui che aveva pur detto a tutti: Io sono la via, la verità, e la vita!... Vi ricordate? La prima volta ch' io ho voluto parlar da un pulpito, con nuovo ardimento, di certe grandi verità delle quali non sarà mai strappata la radice dalla terra, delle mie parole si prevalse il fanatismo; le condannò il nuovo fariseo, ne fu scandolezzata la debole virtù. Così sempre avviene; ed io non ho voluto chiamar sulla casa di mio padre, sui vostri bianchi capegli, il turbine che di subito sorse a minacciarmi: pensai a mia madre, a mia sorella, e obbediente a chi mi percoteva, rinunziai ad ogni gloria e mi tenni abbastanza felice di questa parte che Dio m' aveva ancora serbata. Qui, i buoni alpigiani mi conoscono e mi riveriscono come padre, m' ascoltano e mi amano come fratello; qui m' è consolazione il pensiero di quel filosofo: Se utile non è quello che facciamo, stolta è la gloria. Ma non più di questo Ringrazierete per me l'Angioletta di quella cassettina contenente poche cipolle de' panporcini de' nostri monti, ch' essa mi mandò per il Bernardo, l'ultima volta che capitò al paese. Direte a lei e alla mamma che si ricordino di me nelle loro orazioni care al Signore; io non n'ebbi mai tanto bisogno come in questo momento. Se mai tornasse a vedervi l' amico mio p***, e vi domandasse di me, ditegli che i miei poveri nervi risentono ancora a quando a quando le fiere commozioni patite, e che la mia testa qualche volta non è a segno del tutto; ch' egli stesso mi scriva se le lunghe peregrinazioni, che vo facendo ogni giorno per questi monti, possano o no di soverchio abbattere le mie forze e fare in me effetto contrario a quello ch' io m' era promesso. Un' altra cosa vi commetto per la mia cara sorella. Ella sa dove stanno i pochi libri che innanzi partire lasciai, fra l' altre cose mie, in quella che fu la mia povera e beata cella. Nello scaffaletto a manca dello scrittoio, vicino alla finestra, troverà alcuni vecchi volumi giallognoli, mezzo rosi dal tarlo: sono i cari e preziosi amici di mia passata gioventù. »Fra essi vi son due libri rilegati in carta pecora, e intitolati l'uno: I Soliloquii di sant'Agostino, e l'altro La Città di Dio. Nell'armadio situato nell' angolo dov'era il mio letto, ne troverà pure alcuni altri più vecchi ancora, fra cui un volume delle Opere di san Tomaso, e uno di quelle di Sant' Ambrogio; e un altro più piccolo, al quale manca il frontispizio, è il Trionfo della Croce di Fra Girolamo Savonarola: quest' ultimo lo conoscerà dal mio nome scritto sull'ultima pagina di mia mano, sotto ad un braccio che tiene impugnata una spada e che vi disegnai quand'ero chierico ancora. Se l'Angiola riesce a raccozzare quel piccol mucchio di libri, ne' quali pongo tutta la mia speranza per quest' inverno, voi, mio buon padre, fate di trovar modo a spedirmeli al più presto, per la via più sicura; ne pagherò la spesa all'uomo che me li porterà. Mio padre. Vi raccomando quello che già vi scrissi nell' altra, di tener sempre presso di voi le lettere che per me venissero alla posta di Como, e di non darle in mano di nessuno, fuorchè del Bernardo, che verrà a pigliarle alla fin del mese, a mio nome. Se ve ne fosse alcuna pressante, queila potreste consegnarla all'amico mio p***, che sa come mandarla a questo mio nido di montagna. Dite a mia madre che, al tornare della primavera, ho speranza di venire a casa per qualche giorno: che non veggo il momento di sedermi ancora, come quand'ero fanciullo, vicino a lei sugli scalini della nostra porta: e che le farò raccontare un'altra volta la storia de' poveri morti di Torno. Oh! quante memorie leggiere, fuggitive, tessute, come tutte le cose della nostra vita, di piccole gioie e di grandi dolori, mi rifanno dinanzi al pensiero tutta l'età passata, e mi sforzano a piangere un'altra volta Perchè non sono io nato che per invocar la benedizione del Signore sopra coloro i quali devono trovare ogni lor bene nel patimento mitigato dalla speranza?... Io la sentiva pure nel mio cuore una fiamma più ardente, l' alito della fede, il coraggio di morire per i miei fratelli.... 2 di maggio 18.... (*) « Niuna cosa violenta puo essere perpetua. » E fino a quando vedrò sulla terra il trionfo del male? O Signore, tu rovesci i potenti dal seggio, ed esalti gli umili; ma tu dicesti ancora: Il regno mio non è di questo mondo. Noi dovremo dunque piegar sempre la fronte, come in atto di vile osservanza, in faccia alla malizia che si veste di pompose apparenze, che vince la semplice onestà colle sue compre lusinghe, o colla ipocrisia, la peggiore delle tirannidi?... Combattere la forza brutale, che non concede alla stanca umanità di sollevare il capo da quella nebbia d' ignoranza in cui da secoli le misere generazioni son costrette a vivere, o piuttosto a morire; parlare in nome di Quello che dal Calvario annunziò agli uomini che sono tutti figliuoli dello stesso Padre che ama e perdona, è una grande e dolorosa parte, la quale a pochi fu dato di compire sulla terra! Il tempo, come spaventoso torrente, trascina via con sè uomini e idee: pochi nomi benedetti, poche sante e divine parole rimangono appena a far testimonianza del passato, a fermar la promessa del futuro. Avventurato chi visse nell'aspettazione de' tempi migliori, procacciando intanto e operando il bene, come se dovesse da un dì all'altro fruttare! Dio ha veduto il cuor suo, Dio raccolse le sue lagrime; e quando seduto in disparte, come Geremia, stette solitario e tacque, Dio gli perdonò il silenzio, e la luce del cielo venne sopra di lui. (*) Forse il manoscritto fu ripigliato all'entrar della seguente primavera; se pur non erano mancati alcuni foglietti. E il suo cuore sollevò un' altra volta quel profetico lamento: - « La parte mia è il Signore; e per questo io l' aspetterò. » Buono è il Signore all' anima che in lui pone speranza e lo cerca. » Buona cosa è procacciar nel silenzio la salute del Signore. » Buona cosa è all' uomo portare il giogo nella sua giovinezza. » Siederà solitario e tacerà; poiché Dio gl' impose il suo carico. » Metterà la sua bocca nella polve, cercando se vi sia speranza. » Porgerà la guancia a chi lo percote; sarà pasciuto d'obbrobrio; » Perocchè il Signore non lo respingerà da sé in sempiterno; » E s' egli affligge, ha pur compassione, secondo la moltitudine delle sue misericordie. » 12 di maggio. Qualche nuova e più grave sciagura sovrasta a me o ad alcuno de' miei cari. Io ne ho da parecchi giorni il doloroso presentimento; poichè alla pace gustata per alcun tempo, alle forti contemplazioni della scienza, infiammatrice dell' intelletto, alla soave poesia della natura, è succeduta nell'animo mio l'amarezza delle cose, la codardia del dubbio, e quasi una paura di me stesso. Questo fu sempre per me il presagio di un tristo giorno della vita. I miei vecchi volumi non mi racconsolano più; non mi sembrano più che vani, indicifrabili enigmi, i quali altra cosa non mi fanno certa, se non che quaggiù nulla è certo. Non posso scrivere, non posso nè manco pensare.... 19 d' agosto. Io mi reputava cosi forte, così provato nella vita, e padrone di me medesimo, da sostener con fronte serena e animo tranquillo ogni e qualunque nuova e più dura esperienza. Dopo essermi seduto tante volte al capezzale della morte, dopo aver veduto spirar nel bacio di Dio tante infelici e candide creature, e aver accompagnato sulla tremenda soglia dell'eternità tanti uomini ciechi del bene, travagliati dal patimento, consunti dalla disperazione o dal rimorso, io credeva che più nulla d'umano potesse conturbare ancora i miei pensieri - Deh! che cosa è mai l'uomo, se tu nol visiti colla tua forza, o Signore? Oggi, dopo molti anni, il caso, o piuttosto il volere di Chi tutto dispone per il bene, mi ricondusse dinanzi un uomo che forse fu la prima cagione di tutte le mie disgrazie. Io gli aveva dato, nella generosa effusione del mio cuore giovine ancora, il santo nome d'amico.... Ed egli lo rinnegò questo nome così bello! mi rapì la prima, la più poetica lusinga della vita, l'amore; mi derise con una crudele indifferenza nelle innocenti mie illusioni; e ligio a coloro che poco m' amavano, se pur non m' odiavano già per la mia naturale e avventata libertà del pensiero, per quello ardimento che di rado è scompagnato da un cuore acceso del desiderio d'operar qualche cosa a pro d'altrui, egli pose in mano de' potenti il segreto che doveva partorirmi l' infamia, farmi morire!... Ma, come Dio anche quaggiù non consente sempre la vittoria ai cattivi, io, povero, oscuro e calpestato verme, fui più forte di coloro che si levarono, come stormo nemico, contro di me. Vinsi l' impostura e l' aperta menzogna ; poi mi ritrassi a piangere il mio passato nel silenzio della casa nel Signore, e perdonai. Perdonai, sperando che Dio a me pure perdonasse. Ed Egli m'avea dato codesta pace: fatto puro il mio cuore del lievito dell' ira, parevami d'avere in me spogliato per sempre il vecchio Adamo. La mattina era bella. - Per sollevare i pensieri dal peso delle angosce che ne' passati dì m' avevano grandemente prostrato, m'incamminavo verso il sentiero della selva, dalla parte ove sorgono tappezzate di lambrusca e di parietaria le rovine dell' antica torre lombarda: è là dov' io passo, in faccia alle maestose, lontane ghiacciaie dell' alpi e all' interminato azzurro del cielo, le più solitarie e beate ore del viver mio. Appena fuor della porta, un uomo incappucciato in un gabbano da montanaro mi s'affaccia d' improvviso. Lo guardai; teneva china a terra la fronte, voleva come parlare; e pareva tremasse. « Chi siete? » domandai. « Uno che.... vi conosce; » rispose, o piuttosto balbettò, senza levar gli occhi. Quella voce non mi parve al tutto ignota; ma Io strano vestire, la sua dubitazione, lo sgomento con che andava guardandosi intorno, turbarono un poco me pure; e persuaso che foss'egli ben altro da quello che i suoi meschini panni mostravano, me gli feci più accosto e di nuovo il richiesi: « Che volete da me? » « Sono un povero fuggitivo; venni a chiedervi asilo. » « Ma, signore! » ripigliai; « nè vi conosco, nè so.... » « Sì, mi conoscete; è in nome dell'amicizia ch'io vengo a voi. » E dicendo così, tolse giù il vecchio cappellaccio che gli copriva mezzo il volto, e mi guardò con aria supplichevole, malcerta. Ancora noi ravvisai. « Per carità, apritemi la porta di casa vostra! voi, ministro del Signore, abbiate compassione del fuggiasco perseguitato.... » E qui abbassò la voce, e fatto un passo verso di me, dopo essersi di nuovo guardato dietro le spalle: « Io sono Alberto ***: fui vostro amico! » Era colui che m'avea tradito. Quello che passasse in quel momento nel mio cuore, non voglio nè potrei scriverlo. Egli dimorò sotto al mio tetto due dì e due notti, nè io gli domandai se fosse innocente, o perchè avesse scelto ricovero nella casa d'un uomo a cui egli aveva fatto tanto male, e che fors' anche avrebbe potuto restituirgli il suo tradimento. Ah no! mai, mai! Colui che uccide è più misero di chi rimane ucciso: egli mi credè generoso e incapace del delitto di che spensieratamente, e per leggiere cause, non dubitò farsi reo contro di me. Io non so le conseguenze, le quali per la mia pietà potrei incontrare; ma non le temo. Nè fu pietà la mia, fu giustizia. A lui diedi tutto quel poco denaro che avevo, pregai per esso il Signore, e in quel momento dimenticai tutto il passato. Egli era più che amico mio, era fratello; Dio solo, Dio che mi lesse nel fondo dell'anima, mi giudicherà! Quando volle partire, io gli aveva stesa la mano e lo contemplava fissamente senza far motto. Mi parve commosso, soggiogato dalla memoria di quello che fu tra me e lui: mi guardò egli pure , poi mi si gittò al collo, e pianse. 3 di maggio. . . . Nessuna novella del fuggitivo. Che il cielo l' accompagni! Il mio cuore s' è allargato nella pace di prima sono rassegnato e tranquillo nella mia coscienza. Non so spiegarmi come non ricevessi ancora riscontro alcuno da ***, e da *** alle ultime mie lettere.... Queste note e questi pensieri trovai qua e la sparsi sopra alcuni brani di carta frapposti alle pagine del manoscritto erano per avventura frammenti o postille di guaiate libricciuolo messo in luce, senza nome, in altro tempo. Ne tenni conto, perchè panni che rivelino meglio quali fossero la mente e il cuore del vicecurato. « Molti presuntuosi reputano impossibile tutto ciò che per loro o non si sa o non si fa; moltissimi considerano le grandi cose che non intendono, o che non sono capaci di operare, come inutile fatica d' un esaltato fanatismo; e stanchi prima d' intraprendere, si addormono sui morbidi ma dannosi letti dell' ozio. Tanto è superbo l' amore di noi stessi per non confessare la propria ignoranza e la propria debolezza; tanto è artificioso per giustificarla; tanto è ingiusto per assolverla! Frattanto l' infingardaggine si scusa colla pretesa impossibilità alle grandi cose, per non confessare il timore dell' utile fatica; e il vizio colla pretesa loro inutilità, per non denunciarsi da sè medesimo vile e iniquo; l' infingardaggine e il vizio diventano costume e perchè ciò che non è il costume dei più, sia tristo, sia buono, si chiama fanatismo e pazzia, ogni bello e generoso ardire vien collocato indegnamente in quest' ultima classe. .... « L'uomo contempla, rappresentata ne' grandi genii, in una pompa la più solenne e nella sua più illustre magnificenza, la propria natura: una sublime compiacenza lo fa inorgoglire delle proprie forze; l' animo s' eleva ai più ardui concepimenti; il cuore s' infiamma ai plà scabrosi sperimenti; nulla più si tollera di mediocre, senza una nausea mortale e un magnanimo disprezzo. » .... « Nella rivoluzione de' tempi occorrono età cosi sciagurate per corruttela di costume, e cosi impudenti per abitudine di vizio, che portano in trionfo la colpa, infamemente la collocano sugli altari della virtù, e, per averle cangiato nome, reputano di purgarsi da sacrilega idolatria. Allora, gentilezza di modi le mollezze, gloria l' oro, mo- destia destia la viltà, prudenza il timore, umiltà la codardia, obbedienza la venalità, senno il raggiro, economia l' usura, avvedutezza la frode, laude l'adulazione, belle arti la lussuria; in una parola, la colpa virtù. Tale è il rovescio miserando e scandaloso che si fa d' ogni buono in cattivo, quasichè, per mutar di vocabolo, mutino le cose: ma dando così chiaro a vedere che ogni uomo sente che non è stromento di scelleratezza, e che tale è necessità per esso la virtù, che il delitto non abbraccia se non colorato dalle tinte di quella. Anche scellerato, ama d' ingannarsi che non è; epperò, perdendo la virtù, ne conserva la divisa, onde molta è la ciurma degl' ipocriti: e così, se dappertutto ove sono uomini il delitto ha schiavi, in nessun luogo regna a fronte scoperta. Quindi accade che, se in così fatti tempi sorge un magnanimo amico della virtù e del vero, tutti se gli fanno intorno co' sassi; ed è ben conseguente, perocchè se giunga face là ove tutti hanno bisogno di tenebre per ascondere la colpa, tutti si sforzano di spegnerla subitamente. Delitto dell'amore di noi medesimi, che giustificando i propri errori è pur d'uopo che le virtù contrarie condanni per evitar contraddizione: sicchè in cuore invidia l'altrui virtù, e col labbro la lacera e la condanna. Del resto, la verace virtù che passeggia nel mezzo alla finta, tacitamente denunzia la colpa nascosa sotto le sue larve, e coll' opera del paragone squarcia la veste dell' impostura la più veneranda e la più astuta. Allora si distingue la virtù dall'ipocrisia che fa studio d'imitarla, coll' eguale facilità che da un re di scena un re da trono: ed è per questo che in tale condizione di tempi la virtù e la sapienza sono guardate come due possenti nemiche; è per questo che solo compaiono attraverso lo squarciato manto d'un' illustre povertà, e che sempre le ritrovi fuggiasche sulle spinose vie della persecuzione, e spesso ancora fra le catene, e dentro la carcere dell'omicida e del ladro. » .... « Le grandi speranze e i grandi sforzi sono dei generosi; le forti presunzioni e i deboli attentati, de' superbi.... Io tutto spero, tutto tento, nulla presumo! » .... « Se è vero che dal conoscere scende ogni volere, e dal volere ogni .operazione umana, con cui si satisfà all'inesorabile bisogno, si accontenta il desio insaziabile, e si avverano le indelebili speranze, nella cui somma soltanto può essere riposta quella felicità ch' è data ai mortali; se è vero, io dico, tutto questo, deve scusarsi la nostra curiosità che tutto ad un solo sguardo vorrebbe possedere lo scibile umano. Anzi questa curiosità io la reputo come il possente motivo onde la natura invita l' uomo a ricercarla nel sacrario della scienza: come col desio della felicità lo spinse alle perenni agitazioni delle sorti mortali. Quindi è che, una volta messa sulle vie delle indagini per un sì grande impulso, non già s'avanza gradatamente e con tarda saggezza, contenta ad un vero discreto; ma impaziente delle sagge dimore della riflessione, si avanza baldanzosa, prima fidata al solo probabile, poi al verisimile, ed in ultimo anche al falso in colore di vero; e così, per volere acquistare la vetta per la più spedita via, corre la più lubrica; e correndo questa, bene spesso precipita al basso. A spogliar la cosa di veste metaforica, fatto è che quando cessa il vero, ce lo fabbrichiamo coll' ipotesi del nostro cervello; e vien poi una demenza filosofica, che delira argomenti in suo soccorso; i quali, accreditati dall' umano orgoglio e dall'umana ignoranza, gli ottengono la cittadinanza del vero; e così, come dicevano i Greci, si abbraccia la nube per la diva. - Non già ch' io abborra dall' uso giudizioso dell'ipotesi: so benissimo ch' essa sola batte alle porte della verità; anzi m' aggrada quella sua audacia con che la sollecita a parlare e le squarcia il velo più misterioso. Mi rammento di Newton, che con essa s' innalzò in mezzo de' cieli e che da essa imparò come due mirabili forze equilibrino i firmamenti. Io abborro che lo stromento diventi la cosa, che la via si reputi la meta, e voglio che l' ipotesi non si usurpi nome di realtà, ma che con felice metamorfosi si cangi in essa. Ma pur troppo più persuadono i nomi che le cose: onde il fatto inesorabile bene spesso appalesa le gradite menzogne di noi stessi: decipimur specie recti. » .... « La feconda meditazione de' grandi, tacita e nascosa ne' suoi preziosi ritiri, non ha nemmeno l' applauso che il saltimbanco ottiene sul trivio; anzi spesso dal volgo le sue sapienti lentezze e le sue cautele da precipitato giudizio s' imputano a colpa, e si accusano d' ozio e di pi- grizia. Ma i grandi, sdegnosi di piatire con una plebe che ha bisogno d'assiduo cicaleccio, per non morir d' inedia sulla vie e ne' fori, ne confondono le menzogne, recando in pubblica luce il frutto delle loro nascoste fatiche. » « Le più sublimi speranze non bisogna misurar col solo calcolo del corto soffio dell' umana vita. Non bisogna solo calcolare quanto possa l'individuo; ma quanto può la specie, la cui vita è lunga come la sua perfettibilità. L'orgoglio umano è una menzogna quasi sempre nell'individuo; ma spesso nella specie è una verità; è uno sprone a quanto ella di fatto può. Questo esiste in ogni individuo; e ognuno, al divisamento, è pari all' idea che lo move; ma, all' opera, non potendo quanto la specie, ciò che non sa non fa, lo reputa per un cotale astuto giro dell' amor di sè stesso, o inutile o impossibile. - Ma la specie, all'opposto, può di più che non sappia: ognuno porti quel masso che reggono le sue spalle, e l'edificio s' innalzerà verso il cielo saldo e sublime. Io l'ho detto: Umana perfezione? un sogno: - Umana perfettibilità? una via di cui non conosco la meta, ma sulla quale io pure cammino.

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Contessa Lara (Evelina Cattermole)

219980
Storie d'amore e di dolore 2 occorrenze
  • 1893
  • Casa editrice Galli
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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Mitchell, Margaret

222017
Via col vento 6 occorrenze
  • 1939
  • A. Mondadori
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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Tremante, atterrita, ella si afferrò al suo braccio con un subitaneo senso di abbandono. - Entri anche tu, Rhett? - No. - E risalí in carrozza. Ella salí in fretta i gradini, attraversò il porticato, spalancò la porta. Nella luce giallastra della lampada erano Ashley, zia Pitty e Lydia. Rossella pensò: «Che fa qui, Lydia? Melania le aveva proibito di rimettere piede in casa». I tre si alzarono vedendola; zia Pitty si morse le labbra per impedire che tremassero; Lydia la fissò addolorata e senza odio. Ashley sembrava inebetito come un sonnambulo e avvicinandosi a lei mettendole una mano sul braccio, parlò anche come un sonnambulo. - Ha chiesto di voi - disse. - Posso vederla adesso? - Si volse verso l'uscio chiuso della stanza di Melania. - No. C'è il dottore. Sono contento che siate venuta, Rossella. - Sono venuta il piú presto possibile. - Si tolse il cappello e il mantello. - Il treno... Ma è proprio...? Ditemi, Ashley: sta meglio, non è vero? Parlate! Non mi guardate cosí? È proprio... - Ha chiesto di voi - ripeté Ashley e la fissò. Nei suoi occhi ella lesse la risposta alla sua domanda. Per un attimo il suo cuore cessò di battere; quindi uno spavento piú forte dell'angoscia, piú forte del dolore, lo rianimò. «Non può essere vero» pensò con impeto, cercando di scacciare il pensiero atroce. «I dottori sbagliano. Non voglio crederlo. Non posso. Se lo credo mi metto a urlare. Devo pensare a un'altra cosa.» - Non lo credo! - gridò con veemenza guardando i tre visi che avevano i tratti tirati, come per sfidarli a contraddirla. - E perché Melania non me l'ha detto? Non sarei andata a Marietta se lo avessi saputo! Gli occhi di Ashley si svegliarono e furono pieni di tormento. - Non lo aveva voluto dire a nessuno, Rossella, e specialmente a voi. Temeva che se lo aveste saputo l'avreste sgridata. Voleva aspettare tre mesi... per essere sicura e certa che tutto andava bene; e allora ridere e dire a tutti quanti che i dottori avevano avuto torto. Ed era tanto felice. Sapete come è sempre stata amante dei bambini... e come desiderava una bimba. E tutto è andato bene fino... Senza nessuna ragione... La porta della stanza di Melania si aperse e il dottor Meade ne uscí, richiudendo l'uscio. Rimase per un attimo con la barba grigia piegata sul petto; quindi guardò i. quattro allibiti. Il suo sguardo cadde per ultimo su Rossella. Le si avvicinò ed ella vide che nei suoi occhi, oltre al dolore, era antipatia e disprezzo che le riempirono il cuore di rimorso. - Finalmente siete venuta - disse il dottore. Prima che ella rispondesse, Ashley si era avviato verso l'uscio chiuso. - Voi no, adesso - disse il dottore. - Vuole parlare con Rossella. - Dottore - fece Lydia mettendogli una mano sulla manica. Benché la sua voce fosse senza tono, era piú supplichevole che se avesse gridato. - Lasciatemela vedere un momento. Sono qui da stamattina aspettando, ma lei... Lasciatemela vedere un momento. Voglio dirle... debbo dirle... che ho avuto torto... per una certa cosa. Non guardò Ashley né Rossella; ma il dottor Meade lasciò cadere su quest'ultima un'occhiata glaciale. - Vedrò, miss Lydia - disse brevemente. - Ma solo se mi date la vostra parola di non affaticarla dicendole questo. Ella sa che avevate torto; e le vostre scuse non potranno che turbarla. Pitty cominciò timidamente: - Vi prego, dottore... - Miss Pitty, sapete benissimo che non fareste altro che gridare e svenire. Pitty si raddrizzò e ricambiò il dottore la sua occhiata. Aveva gli occhi asciutti e in ogni sua linea era una fiera dignità. - Bene, cara, vedremo piú tardi - disse il dottore rabbonito. - Venite, Rossella. Attraversarono il vestibolo in punta di piedi; dinanzi alla porta il dottore posò duramente una mano sulla spalla di Rossella. - Sentite, miss - sussurrò brevemente: - niente isterismi e niente confessioni al letto di morte da parte vostra; o, giuraddio, vi torco il collo! È inutile che mi guardiate con quell'aria innocente. Sapete quello che voglio dire. Miss Melly deve morire tranquilla; e voi non dovete alleggerire la vostra coscienza dicendole qualche cosa di Ashley. Non ho mai fatto male a una donna; ma se dite qualche cosa... ve la farò pagare. Aperse l'uscio prima che ella potesse rispondere, la spinse nella stanza e richiuse. La stanza, modestamente arredata con mobili di noce, era nella semioscurità; un giornale era stato messo dinanzi alla lampada come schermo. Sembrava la camera di una scolaretta, col suo lettino stretto a spalliera bassa, le tendine abbassate, i tappeti chiari; cosí diversa dalla sontuosità della camera da letto di Rossella coi suoi mobili intagliati, le tende di broccato rosso, i tappeti di velluto. Melania era a letto: sotto le coperte la sua figura era minuta e sottile come quella di una bimba. Due trecce nere le ricadevano ai lati del volto; sotto agli occhi chiusi si disegnavano due profondi cerchi violacei. Vedendola, Rossella rimase come radicata a terra, appoggiata allo stipite. Malgrado la semioscurità, vedeva che il volto di Melania aveva un color di cera giallognola, come se non avesse piú sangue; e il naso era stranamente assottigliato. Fino a quel momento Rossella aveva sperato che il dottor Meade fosse in errore. Ma ora sapeva. Aveva visto in ospedale troppi visi che avevano quell'espressione; e sapeva che cosa presagiva. Melania era moribonda; ma per un momento il cervello di Rossella rifiutò di arrendersi. Non poteva morire. Era impossibile che morisse. Dio non lo permetterebbe perché lei, Rossella, ne aveva troppo bisogno. Non se ne era mai resa conto prima. Ma ora la verità sorgeva dai piú ascosi recessi della sua anima. Ella aveva sempre fatto assegnamento su Melania come su stessa, senza saperlo. Ora Melania moriva e Rossella sapeva che non avrebbe potuto fare a meno di lei che era stata la sua spada e la sua difesa, la sua forza e il suo conforto. Attraversò la stanza in punta di piedi, col cuore stretto dal panico. «Non posso lasciarla morire!» pensò; e piombò accanto al letto in un gran fruscío di vesti. Afferrò la manina che giaceva sulla coperta e fu nuovamente atterrita sentendola cosí fredda. - Sono io, Melly - disse. Gli occhi di Melania si apersero un poco; poi, come se fosse stata soddisfatta nel vedere che era veramente Rossella, si richiusero. Dopo una pausa la moribonda trasse un respiro e mormorò: - Mi prometti? - Oh, tutto quello che vuoi! - Beau... ti occuperai di lui? Rossella poté soltanto annuire, sentendosi soffocare, e strinse lievemente la mano che era nella sua, per assentire. - Te lo do. - Vi fu un debole tentativo di sorriso. - Te lo diedi già una volta, prima... ricordi? prima che nascesse. Se si ricordava? Come poteva dimenticare quel periodo? Risentí precisamente come se fosse allora il calore soffocante del pomeriggio di settembre; ricordò la paura degli yankees, udí Io scalpiccío delle truppe in ritirata, riudí la voce di Melania che la pregava di tenere con sé il bambino se lei fosse morta... ricordò anche che quel giorno aveva odiato Melania e sperato che morisse. «L'ho uccisa io» pensò con angoscia superstiziosa. «Ho desiderato cosí spesso la sua morte; e Dio mi ha ascoltata e mi punisce. » - Non parlare cosí, Melly! Sai che supererai anche questo... - No. Prometti. Rossella deglutí. - Certo che prometto. Lo tratterò come se fosse mio figlio. - Collegio? - La voce di Melania era debolissima. - Certo! Università di Harvard, Europa e tutto ciò che sarà necessario... un pony... lezioni di musica... Oh Melly, ti supplico! Tenta di guarire! Il silenzio ricadde; sul volto di Melania apparvero i segni di una lotta per raccogliere la forza di parlare ancora. - Ashley... - disse. - Tu e Ashley... - E la voce tacque nuovamente. Il cuore di Rossella si fermò e le pesò come un masso di granito. Melania sapeva. Rossella lasciò cadere il capo sulla coperta e un singhiozzo che non volle uscire la strinse alla gola come una morsa di ferro. Melania sapeva. E Rossella non provava piú vergogna, piú nulla se non un selvaggio rimorso di avere per tanti anni offeso quella soave creatura. Melania aveva sempre saputo... eppure era rimasta sua amica. Oh, poter rivivere quegli anni! Non poserebbe mai piú i suoi occhi su quelli di Ashley... - O Dio - pregò rapidamente - ti supplico, falla vivere! Sarò buona con lei. Non parlerò piú con Ashley finché vivo, se la fai guarire! - Ashley... - riprese Melania debolmente; e le sue dita cercarono di toccare il capo chino di Rossella. Il pollice e l'indice riuscirono ad afferrare una ciocca di capelli, con la stessa forza che avrebbe avuto un bambino. Rossella comprese il desiderio della morente: che ella levasse il capo. Ma come incontrare lo sguardo di Melania e leggervi la conoscenza del suo tradimento? - Ashley... - mormorò nuovamente Melania. Rossella sentí che sarebbe assai meno tremendo per lei guardare in faccia Iddio, nel giorno del Giudizio Universale, e leggere la sentenza nei Suoi occhi. La sua anima si contorse, ma ella alzò il capo. Vide gli stessi occhi neri pieni di dolcezza, infossati e resi opachi dalla morte imminente; la stessa bocca affettuosa che tentava faticosamente di trarre il respiro. In essi non era alcun rimprovero, alcuna accusa... solo l'ansia di non avere abbastanza forza per parlare. Per un attimo Rossella fu cosí stupita che non provò neanche sollievo. Poi un fiotto di calda riconoscenza verso Dio la inondò; e per la prima volta dalla sua infanzia ella levò al Cielo una preghiera priva di egoismo. «Ti ringrazio, Dio mio. So che non ne sono degna; ma Ti ringrazio perché non glielo hai fatto sapere.» - Che vuoi dire di Ashley, Melly? - Ti... occuperai di lui? - Certo. - Si raffredda... cosí facilmente. Vi fu una pausa. - Occupati... dei suoi affari... capisci? - Capisco. Me ne occuperò. Fece un altro sforzo. - Ashley non è... un uomo pratico. Solo la morte poteva far riconoscere questo a Melania. - Occupati di lui, Rossella... ma... che non se ne accorga. - Sorveglierò lui e i suoi affari, senza che se ne accorga. Fingerò di dargli dei suggerimenti. Melania cercò di sorridere; i suoi occhi ebbero un'espressione di trionfo nell'incontrare quelli di Rossella. Il loro sguardo suggellò il contratto: la protezione di Ashley Wilkes contro un mondo troppo aspro per lui, passava da una donna a un'altra, e l'orgoglio maschile di Ashley non sarebbe mai stato umiliato dalla conoscenza di questo patto. Dopo la promessa di Rossella i lineamenti di Melania si distesero e sul suo volto apparve un'espressione di pace. - Sei cosí intelligente... e coraggiosa... e sei sempre stata cosí buona con me... A queste parole il singhiozzo liberò la gola di Rossella, la quale si chiuse la bocca con una mano. Aveva l'impulso di urlare come una bambina e di prorompere: «Non sono stata buona con te! Ti ho fatto torto! Non ho mai fatto nulla per te, ma solo per Ashley!» Si alzò in piedi bruscamente mordendosi un dito per riacquistare il dominio di sé. Le tornarono alla mente ancora una volta le parole di Rhett. «Ti vuol bene. Questa sarà la tua croce.» La croce era adesso piú pesante. Non bastava aver cercato in ogni modo di toglierle Ashley! Melania, che aveva avuto per tutta la vita una fiducia cieca in lei, le conservava lo stesso affetto e la stessa fiducia anche nella morte. No, non poteva parlare. Non poteva neanche dirle nuovamente: «Fai uno sforzo per vivere». Doveva lasciarla andare cosí, senza sforzi, senza pena, senza lacrime. L'uscio si aperse piano; il dottor Meade apparve sulla soglia facendole un cenno imperioso. Rossella si curvò sul letto, ricacciando indietro le lagrime e prendendo una mano di Melania se la posò contro la guancia. - Buona notte - le disse; e la sua voce fu piú ferma di quanto credeva. - Prometti... - e il sussurro fu ancor piú lieve questa volta. - Tutto, cara. - II capitano Butler... sii buona con lui. Ti... ti ama tanto. «Rhett?» pensò Rossella stupita; ma le parole rimasero senza significato per lei. - Sí, cara - rispose automaticamente; e dopo aver baciato leggermente la mano, la posò di nuovo sul letto. - Dite alle signore di venire subito - le mormorò il dottore mentre ella gli passava davanti. Con gli occhi annebbiati, Rossella vide Lydia e Pitty seguire il dottore, tenendo con le due mani le gonne accostate ai fianchi per impedire che frusciassero. L'uscio si chiuse dietro a lei e la casa fu silenziosa. Ashley non si vedeva. Rossella appoggiò il capo alla parete, come una bimba cattiva posta in un angolo, e premette una mano sulla gola che le doleva. Dietro quella porta Melania se ne stava andando e con lei se ne andava la forza che l'aveva inconsciamente sorretta per tanti anni. Perché, perché non aveva mai compreso quanto amasse Melania, quanto bisogno avesse di lei? Ma chi avrebbe mai pensato a quella piccola donna come a una torre di sostegno? Melania cosí timida dinanzi agli estranei, Melania che non osava dire ad alta voce la propria opinione, che temeva la disapprovazione delle vecchie signore, Melania che non aveva il coraggio di fare «sciò» a una gallina?! Eppure... Il pensiero di Rossella tornò attraverso gli anni a quel caldo meriggio a Tara, quando una nuvoletta di fumo grigio si levava da un corpo vestito di azzurro e Melania era al sommo della scala con la sciabola di Carlo fra le mani. Ricordò di aver pensato in quel momento: «Che sciocca! Non ha neanche la forza di alzare una spada!» Ma sapeva che se fosse stato necessario, Melania avrebbe sceso quella scala di corsa e avrebbe ucciso lo yankee... o ne sarebbe stata uccisa. Sí, Melania, con la spada in mano, era stata pronta a combattere per lei. Ed ora, guardandosi tristemente indietro, Rossella comprendeva che Melania era sempre stata al suo fianco con una spada in mano, discreta come un'ombra, amandola e lottando per lei con appassionata fedeltà, combattendo contro yankees, fuoco, povertà, opinione pubblica e perfino contro gli amati parenti. Rossella sentí il proprio coraggio e la propria fiducia in se stessa abbandonarla, quando si rese conto che la spada che aveva fiammeggiato fra lei e il mondo era rinchiusa per sempre nella sua guaina. «Melly è la sola amica che ho mai avuto» pensò tristemente «la sola donna, eccetto la mamma, che mi abbia mai voluto veramente bene. Anche lei è come la mamma. Tutti quelli che la conoscevano si afferravano alle sue gonne.» E ad un tratto ebbe l'impressione che dietro quell'uscio chiuso giacesse Elena che lasciava il mondo una seconda volta. Le parve di essere nuovamente a Tara, dinanzi al mondo, nella desolazione di sapere che non poteva fronteggiare la vita senza la terribile forza di chi era dolce, gentile, tenero di cuore.

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Un senso di solitudine, di abbandono che la fece raccapricciare. Quei forzati erano lontani da tutto e da tutti, e cosí completamente alla mercé di Johnnie Gallegher, che se egli li avesse frustati o comunque mal trattati, probabilmente lei non lo avrebbe mai saputo. E coloro non oserebbero lagnarsi con lei, per timore di peggiori punizioni dopo la sua partenza. - Sono sparuti. Date loro abbastanza da mangiare? Eppure Dio sa che per il loro vitto spendo tanto che potrebbero essere grassi come porcelli. Soltanto la farina e la carne di maiale sono costate trenta dollari il mese scorso. Che cosa date loro per cena stasera? Si avvicinò alla baracca e guardò dentro. Una grassa mulatta, che era curva su un vecchio fornello arrugginito, si volse abbozzando un saluto e continuò a mescolare in una casseruola dove cuocevano dei fagioli. Rossella sapeva che Johnnie Gallegher viveva con quella donna; ma ritenne che fosse meglio fingere di ignorarlo. Vide che eccettuato i fagioli e un pane di granturco non vi erano altri preparativi per la cena. - Non fate altro per questi uomini? - No, signora. - C'è della carne a cuocere insieme a quei fagioli? - No, signora. - Non c'è lardo? Ma i fagioli non valgono nulla senza lardo. Non nutrono abbastanza. Perché non c'è lardo? - Mist' Johnnie dice che è inutile. - Dovete mettercelo. Dove tenete le provviste? La negra volse gli occhi spaventati verso un piccolo armadio a muro che serviva da dispensa e che Rossella spalancò. Vi era a terra un bariletto aperto di farina di granturco, un sacchetto di farina di frumento, una libbra di caffè, un poco di zucchero, un barattolo di sorgo e due prosciutti. Uno di questi, posato sulla scansia, era stato cotto da poco e ne erano state tagliate un paio di fettine. Rossella si voltò verso Johnnie come una furia e incontrò il suo sguardo incollerito. - Dove sono i cinque sacchi di farina di frumento che vi ho mandato la settimana scorsa? E il sacco di zucchero e quello di caffè? Ho mandato cinque prosciutti e dieci libbre di lardo e non so quanti sacchi di ignami e di patate... Dove sono? Non potete averle consumate in una settimana, anche dando agli uomini cinque pasti al giorno. Avete venduto tutto, ladro che siete! Venduto i miei viveri e vi siete messo in tasca il denaro; e a questi uomini date fagioli e pane di granturco! Sfido che sono cosí magri! Levatevi di lí. Gli passò davanti impetuosamente e andò alla porta. - Ehi, voi lí in fondo! Sí, voi...! Venite qui! L'uomo si alzò e andò goffamente verso di lei, facendo tintinnare le catene; ella vide che i suoi malleoli nudi erano rossi e irritati per lo strofinare del ferro. - Quando avete avuto del prosciutto l'ultima volta? L'uomo guardò a terra. - Parlate! L'uomo continuò a tacere, avvilito. Finalmente alzò gli occhi, guardò Rossella implorando e li riabbassò. - Paura di parlare, eh? Bene, andate in dispensa e prendete quel prosciutto sulla scansia. Rebecca, dàgli il tuo coltello. Voi, portate il prosciutto a quegli uomini e dividetelo con loro. E tu, Rebecca, prepara delle focacce e del caffè per costoro. E dàgli del sorgo in abbondanza. Subito, cosí vedo mentre glielo dai. - Questo essere caffè privato e farina di mist' Johnnie - azzardò Rebecca sgomentata. - Di mister Johnnie, proprio?! Suppongo che anche il prosciutto sia suo. Fai quello che ti dico. Sbrigati. Johnnie Gallegher, venite con me fino al carrozzino. Attraversò lo spiazzo in disordine e si arrampicò nel veicolo, osservando con cupa soddisfazione che gli uomini strappavano il prosciutto a brandelli che ficcavano voracemente in bocca. Sembrava che temessero che qualcuno potesse da un momento all'altro rapir loro quel cibo. - Siete un vero furfante! - gridò furibonda a Johnnie che era accanto alla ruota, col cappello ricacciato indietro sulla fronte aggrottata. - E mi consegnerete il prezzo dei miei viveri. Per l'avvenire vi porterò le provviste giorno per giorno invece di mandarvi il necessario per un mese. Cosí non potrete truffarmi. - Per l'avvenire io non ci sarò. - Vi licenziate?! Ebbe l'impulso di gridare: «Tanto meglio!» ma la fredda mano della prudenza la trattenne. Che farebbe, se Johnnie se ne andasse? Con lui, era stato prodotto il doppio di legname di quanto se ne produceva sotto la gestione di Ugo. E proprio adesso ella aveva ricevuto una grande ordinazione, la piú grossa che avesse mai avuta; ed era urgente. Se Johnnie se ne andava, chi provvederebbe alla gestione dello stabilimento? - Sí, mi licenzio. Voi mi avete dato qui pieni poteri, e mi avete detto che da me non volevate altro se non la maggior quantità possibile di legname. Non mi avete detto allora che sistemi dovevo usare; e non intendo che veniate a dirmelo adesso. Non potete lagnarvi che io non abbia rispettato il contratto. Come ottengo il risultato, è cosa che non vi riguarda. Vi ho fatto guadagnare del denaro e ho ben guadagnato il mio salario... e quello che ho potuto arrangiare in piú. E adesso voi venite qui a immischiarvi, a rivolgere delle domande agli uomini, a distruggere la mia autorità. Come volete che, dopo questo, io possa conservare la disciplina? Che vi importa se occasionalmente qualcuno riceve un colpo di frusta? Sono degli indolenti che meritano anche di peggio. E se anche non sono rimpinzati?... Non meritano di meglio. O vi occupate degli affari vostri e lasciate che io mi occupi dei miei, o me ne vado stasera stessa. Il suo viso duro era piú spietato che mai; e Rossella si sentí incerta sul da farsi. «Che farò, se se ne va stasera? Non posso rimanere tutta la notte a guardia dei galeotti!» Evidentemente il suo volto rivelò il suo pensiero, perché l'espressione di Johnnie mutò alquanto e i suoi occhi sembravano meno crudeli. Anche la sua voce suonò meno aspra. - Si fa tardi, signora Kennedy; è meglio che andiate a casa. Non ci guasteremo per una piccola cosa come questa; vi pare? Potete trattenere dieci dollari sul mio stipendio del mese prossimo e siamo pari. Gli sguardi di Rossella andarono involontariamente al miserabile gruppo che stava divorando il prosciutto; poi pensò al malato. Avrebbe dovuto liberarsi di Johnnie Gallegher che era un ladro e un aguzzino. Chi sa che cosa faceva a quei disgraziati quando lei non c'era... Ma, d'altra parte era abile; e lei aveva bisogno di un uomo che sapesse il fatto suo. Inutile: ora non poteva mandarlo via. Soltanto, in avvenire sorveglierebbe che i forzati avessero le giuste razioni di vitto. - Vi tratterrò venti dollari - disse brevemente - e tornerò a discutere su questa faccenda di mattina. Raccolse le redini. Ma sapeva che non se ne sarebbe piú parlato. Era un affar finito; e anche Johnnie lo sapeva. Mentre percorreva il viottolo verso la strada di Decatur, la sua coscienza e il suo desiderio di guadagno combatterono un'aspra battaglia. Non vi era scopo ad esporre delle vite umane alla brutalità di quel piccolo uomo. Se uno di quei disgraziati moriva, ella sarebbe colpevole quanto lui, perché lo aveva lasciato a quel posto conoscendo i suoi mali trattamenti. Ma d'altra parte... d'altra parte, quegli uomini avevano il torto di essere dei forzati. Se avevano commesso dei delitti ed erano stati arrestati, meritavano ciò che loro capitava. Ciò in parte sollevò la sua coscienza; ma mentre percorreva la strada, i visi smunti dei forzati le tornarono dinanzi agli occhi. - Oh, vi penserò dopo! - si disse; e ricacciando il pensiero nel fondo piú recondito della sua mente, richiuse la porta del ripostiglio in cui nascondeva le immagini piú segrete.

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E ad un tratto ella provò un brivido che non aveva mai conosciuto: gioia, terrore, follia, eccitazione, abbandono a braccia che erano troppo forti, labbra troppo cocenti, fato troppo rapido. Per la prima volta in vita sua aveva trovato qualcuno piú forte di lei, qualcuno che non poteva tiranneggiare né spezzare, qualcuno che la tiranneggiava e la spezzava. E le morbide braccia di lei si strinsero intorno al collo maschile e le sue labbra tremarono sotto quelle di lui mentre essi salivano ancora nell'oscurità, un'oscurità dolce e vorticosa che li avvolgeva completamente.

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Caracciolo De' Principi di Fiorino, Enrichetta

222733
Misteri del chiostro napoletano 3 occorrenze
  • 1864
  • G. Barbèra
  • Firenze
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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Pagina 260

Il marito dell'amica

245084
Neera 1 occorrenze
  • 1885
  • Giuseppe Galli, Libraio-Editore
  • Milano
  • Verismo
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Sofia si gettò nella poltrona con un abbandono di donna vinta; la poltrona cigolò, prima che il sorriso di Bandini fosse finito. La contessa e Nina Menni avevano impegnata una discussione sopra Sarah Bernarhdt, Nina assicurava che la Bernarhdt piace molto agli uomini; la contessa negava, in base alla propria esperienza, sostenendo che gli uomini amano le donne grasse. Intanto Bandini, audacemente, mormorava qualche parola nell'orecchio a Sofia. Maria fingendo di accomodare i fiori nelle giardiniere, non li perdeva di vista, finchè Bandini con una sveltezza di prestigiatore fece scivolare il suo piccolo portafogli dietro il guanciale sul quale Sofia appoggiava le spalle. - Le donne magre - strillò Nina Menni - hanno sempre fatto impazzire gli uomini. Che ne pensa il signor Bandini? - Noi uomini - disse Bandini , accompagnando la frase con una profonda occhiata da sfinge - amiamo la donna che ci ama. Un fremito sottile agitò le spalle di Sofia. - Ve ne andate di già? - chiese, vedendo le signore in piedi. Poco dopo uscì anche Bandini, trionfante, riempiendo il vano della porta colla sua aitante persona, dopo avere stretta la mano a Sofia in un modo speciale. Le due amiche si trovarono di fronte, sole. A Maria pesava assai il secreto che aveva scoperto e se non fosse stato il dubbio di peggiorare le cose con una risoluzione precipitata, avrebbe voluto prendere Sofia nelle braccia e scongiurarla di troncare ogni relazione con quel bellimbusto vanesio e insolente. - Hai veduto le mie amiche? - disse Sofia - amiche per modo di dire, perché non ve n'è una sola che io ami come amo te. - Lo spero bene. - Quelle signore non ti sono piaciute? - Sarò schietta. No. - E a me neppure. - Oh scusa... allora perchè le ricevi? - Mio Dio come si fa? Bisogna pur conoscere qualcuno. - Scegli meglio. - Scegliere! E chi scegliere? Dove? Se tutta la società è uguale! Si alzò e fece qualche passo, stringendo la mano, pendente lungo le pieghe della gonna. Maria sospettò che nascondesse così il portafogli di Bandini. Era agitata, nervosa; andò un momento nella sua camera e poi riapparve, sempre colla mano stretta fra le pieghe dell'abito; si avvicinò al tavolino, allo stipo, alla caminiera, toccando i vasi, i libri, con un fare che voleva parere svogliato e che tradiva invece una forte preoccupazione. Alla fine tornò a sedere, rassegnata. Il portafogli non era piú nella sua mano. - La signora Bonamore - riprese Maria, seguendo con una calma apparente il filo del discorso - non deve vedere di buon occhio la signora Guidobelli... - Lo credo. È la sua rivale. - Prima che tu venissi, ne parlava come di una relazione poco onorevole... - Già, perchè le ha rubato l'amante. - L'amante? - Sì, quello che aveva prima del cugino, che le è antipatico e le serve solamente negli interregni, come facente funzione. - Tutto ciò è molto brutto. - Ma! Sofia si strinse nelle spalle; prese, dal tavolino accanto una sigaretta, l'accese e incominciò a fumarla lentamente, cogli occhi distratti, rivolti al soffitto. - Infine tu sei amica della signora Guidobelli? - Come la sono di tutte, e di nessuna... - E la inviterai alla festa insieme alla signora Bonamore? - Perchè no? Sono donnine simpatiche, eleganti; dove vanno loro si traggono sempre dietro un codazzo di uomini. - Ma intimamente, tu le stimi? - Che domanda curiosa! Sei sempre la stessa. Come si fa a conoscere così bene le persone da sapere se si debbano stimare o no? - Ammesso che non è facile, vi sono tuttavia dei segni esterni che possono servire di guida; e poichè tu stessa narri le avventure galanti di queste signore... - Ma sono cose che si vedono tutti i giorni, che non hanno nessuna importanza. Si capisce proprio che hai vissuto in un deserto. Sofia diventava sempre più nervosa, acre; la voce le usciva dalla gola, con un sibilo acuto. Si seccava immensamente. Maria non si sgomentò; vedeva la crisi vicina e le moveva incontro coraggiosamente. Oramai si comprendevano. In quella battaglia coperta giuocavano la loro amicizia; o ne uscivano insieme abbracciate o diventavano nemiche per sempre. - Mia cara Sofia, quando una donna che ha un marito buono, onesto, leale, si lascia trascinare da frivole apparenze di passioni... - La signora Bonamore è vedova - interruppe Sofia seccamente. - Ed anchè la signora Guidobelli?... E Nina Menni ?... - Sì, sì, anche quelle, è vero. - Sofia era al massimo grado dell'eccitazione nervosa. - Ebbene, sono tutte così, che farci? È una marea che sale, sale sempre, ci avvolge, ci stringe, ci soffoca. Essa parte dai luoghi più turpi, attraversa la società equivoca, serpeggia nel mondo elegante, arriva fino alle donne oneste... ne siamo innondate addirittura. Difendersi è inutile. È come quando si cammina in mezzo al fango. Sulle prime si evita di fare la più piccola macchia, poi ci si adatta ad averne qualcuna, ma solamente sul tacco degli stivaletti; il fango cresce e ne abbiamo fino alla caviglia; un bel momento ci accorgiamo che esso è spruzzato anche sull'abito.... Ah! in fede mia, ciò stanca; e allora... Gettò la sigaretta, e si rovesciò sulla poltrona, accesa in volto, con le tempie che le battevano forte. Maria, tranquilla, ripetè: - Allor ? - Scusa sai? - si rizzò sulla vita, un po' dura - mi fai dei discorsi così strani... Se non ti dispiace parliamo d'altro. - Come vuoi. La calma severa di Maria suscitò nell'altra una specie di rimorso e di vergogna, per cui soggiunse con accento più dolce. - Della festa che darò e che mi preoccupa molto, del mio bambino, di... - Sì - interruppe Maria, afferrando questo soccorso inaspettato - parlami di tuo figlio. Non me lo hai ancora descritto. È biondo? nero? - Biondo, cogli occhi neri. I capelli di suo padre, gli occhi miei. La bocca non c'è che dire, anche quella è tutta di Emanuele. Hai osservato la bocca di mio marito? A questa improvvisa domanda il volto di Maria si contrasse dolorosamente; ma Sofia non ne fece caso, gettandosi a capo fitto nel nuovo argomento, felice di essere sfuggita all'argomento di prima. Continuò: - Ciò che mi incanta è la sua intelligenza. A undici mesi, figurati, balbettava mamma; e mi conosceva, e mi tendeva le sue manine, così... Uno dei passati giorni, quando stava molto male, vegliai molte ore alla sua culla. La nutrice, intanto, dormiva. Io sola lo avevo in custodia e guardando quel visino fatto pallido dalla febbre, quel corpicciuolo dimagrato, un pensiero atroce mi attraversò la mente. Mi figurai che fosse morto. Morto, mio Dio!... Sofia, volubile, si abbandonava adesso colle sue smanie solite ai trasporti dell'amor materno; e, sincera sempre, null'altro sentiva in quel momento che una ineffabile tenerezza. - Oh! se morisse davvero... Io non sono molto pia, no, credo poco... Non so precisamente quello che credo: ma allora mi rivolsi al Dio delle madri. Egli deve esistere, e gli chiesi a qualunque costo la vita del mio bambino. Piangeva. - Egli te l'ha concessa - disse Maria. - Sì. - E - le prese la mano con dolcezza somma, guardandola negli occhi, - non ti chiese a sua volta il patto? - No davvero - mormorò Sofia, sorridendo attraverso le lacrime. - Eppure, nell'istante che fra te e Dio si dibatteva la vita di tuo figlio, dimmi, non saresti stata disposta a concedere qualunque cosa? - Oh! senza dubbio. - Tu dunque sentivi che questa creaturina appena nata esercitava su di te un potere che supera tutti gli altri? Presso quella culla hai dimenticata la società, il mondo... se quella marea montante, se quel fango di cui parlavi poco fa, fosse salito a macchiare la coltre del tuo bambino, a coprirlo, a soffocarlo non ti saresti slanciata in suo aiuto? - Maria!... - Non avresti voluto, per lui, essere pura d'ogni colpa, monda perfin d'ogni sospetto? Erano, entrambe, immensamente commosse. Maria col volto presso il volto dell'amica, mormorava accentuando appena: - Non avresti voluto annientare ogni pensiero che non fosse nobile e santo? Distruggere qualunque traccia di debolezza? Fuggire le tentazioni, che ti rapiscono a lui?... Si guardavano negli occhi, dritto, fino in fondo, come due pantere in lotta. Sofia sentiva la propria debolezza e cedeva, vinta, spossata dalle emozioni. In quel mentre entrò la cameriera: - Il signor Bandini manda a prendere il portafogli che ha dimenticato qui. Sofia, senza muoversi, tese la mano; prese il portafogli, lo aperse e stracciò il primo foglietto - non abbastanza rapidamente che Maria non potesse leggervi un sì, scritto a grossi caratteri tremanti, con matita rossa; poi lo rese. Appena la cameriera fu uscita, le due amiche caddero nelle braccia l'una dell'altra; Sofia in preda a una convulsione di nervi, singhiozzando sulla spalla di Maria.

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In Toscana e in Sicilia

245805
Giselda Fojanesi Rapisardi 1 occorrenze
  • 1914
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
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Finalmente, giunti in su un ripiano, si trovarono dinanzi alla torre bruna, antica, lasciata là in abbandono, e chissà a quale scopo eretta, allora nido d'uccelli notturni. - Ci siamo! - esclamò l'Anna con un grido soffocato di sodisfazione - Ci siamo! Avanti, il più è fatto: cercate il cerro grosso e storto.... Ve ne rammentate?... - E col lanternino illuminava in giro, uno dopo l'altro, i tronchi degli alberi. Bussolino poteva appena reggersi in piedi. - È questo? No? Quest'altro? Neppure! Via, guardate, cercate di rammentarvi, per 'un perder tanto tempo - abbadava a dire la donna con foga, esaltandosi e scuotendolo quasi con rabbia, come per vincere in lui quella specie di letargia prodotta dal terrore. Erano arrivati quasi in cima al burrone profondo che circondava il ripiano in mezzo al quale ergevasi paurosa, la torre. - Eccolo - disse ad un tratto Bussolino, con un fil di voce - eccolo, è questo. La donna emise un grido rauco di trionfo. - E ora contate dieci passi in avanti: uno, due, tre.... qui, qui ha da essere il tesoro, qui, 'un pò fallire, su, ecco la vanga, forza, scavate.... - E messo il lanternino in terra, si allontanò un poco per scrutare a traverso le tenebre, per ascoltare se le giungesse all'orecchio nessun rumore. Intanto aveva introdotta la mano destra nella saccoccia del grembiale, e a Bussolino parve di sentire uno scricchiolio secco, tanto che si voltò di botto verso di lei terrorizzato: - Chi c'è, che è stato? - O che volete che sia stato? Niente. Su, principiate a scavare e spicciatevi - diceva la donna sotto voce, concitata.... E Bussolino incominciò, tremando, avendo appena la forza d'introdurre la vanga nel terreno duro, calcandola a fatica col piede, per levare a palate la terra che gittava lì intorno per averla pronta a riempire dopo la fossa. Ogni tanto si fermava per asciugarsi con la manica della camicia, il sudorino freddo che gli rigava giù giù la fronte e le gote, anelante, trafelato, come se non fosse stato quello il suo mestiere, e si voltava a guardar l'Anna che, un passo dietro di lui, tendeva gli orecchi, e teneva gli occhi spalancati, trattenendo quasi il respiro, sulla buca, che man mano ingrandiva, mentre l'uomo andava dicendo, scorato: - Niente! niente! - come se volesse persuaderla a desistere, a dimettere il pensiero di cercare. Ma lei, inesorabile, implacabile, col viso duro e feroce: - Avanti, avanti, scavate, scavate.... Alla fine, la vanga urtò e s'intese un suono di coccio. L'Anna, a quel rumore, cacciò un urlo selvaggio, subito represso, che fece trasalire Bussolino. - Siete arrivato, siete arrivato! c'è una pentola di certo; fate piano per non romperla e sparpagliare quello che c'è dentro: girategli intorno, intorno, adagio, adagio, adagio.... così! E pareva un orribile uccellaccio di rapina, piegata in avanti, con gli occhi grifagni smisuratamente aperti, e il naso adunco come un becco di sparviero, che stesse per piombare sulla preda. Allorchè vide la pentola quasi del tutto scoperta e Bussolino sempre più chinato, che stava per smoverla, allora ritrasse con un movimento rapidissimo la mano che aveva tenuta sempre nella tasca del grembiale e, abbassandosi, in un baleno fu sul disgraziato, che le offriva la nuca scoperta, nella quale ella conficcò con quanta forza aveva, un lungo coltellaccio affilato che entrò profondamente..... La lotta fu breve, ma terribile: il povero assassinato stava per stramazzare a bocca avanti sulla pentola, ma la megera infame, ebbe la forza di tirarlo indietro, e quando lo vide steso a terra, senza movimento, aiutandosi con le mani e coi piedi, trascinò il cadavere fin sull'orlo del burrone e con un ultimo calcio lo fece rotolare giù, in fondo al precipizio, buttandogli dietro la vanga. Poi tornò di corsa alla fossa, illuminata dal lanternino, vi scese con precauzione, ne tolse la pentola, che sentì pesantissima e fuggì via a traverso il bosco, tenendosi la preda fra le braccia, stretta contro il petto. La sparizione di Bussolino fu notata dopo quindici giorni e il corpo sfracellato venne scoperto da alcuni boscaioli che tagliavano legna. I Tattanella caddero in sospetto, furono arrestati, ma le prove mancarono e vennero rimessi in libertà. Il marito bensì, per un altro misfatto, fu di nuovo cacciato in galera, dove morì, e la moglie diventò l'Annaccia, la ladra terribile, che metteva lo spavento intorno per un lungo tratto di campagna, finchè un giorno, non si sa come, sparì anche lei, nè più si vide, con gran sollievo delle buone massaie, le quali dicevano che il Signore s' era mosso a compassione delle loro preghiere e l'aveva fatta portar via sulle corna del diavolo, in anima ed in corpo.

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L'indomani

246171
Neera 1 occorrenze
  • 1889
  • Libreria editrice Galli
  • Milano
  • Verismo
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Con mano inconscia slacciava i ganci dell'abito, allentava i nastri, cedendo a una sensazione misteriosa di abbandono, con dei brividi a fior di pelle, la bocca assetata, arida, le braccia aperte disperatamente. Incapace a reggersi, piegava il capo sopra un guanciale, su una spalliera di poltrona, su tutto ciò che poteva darle l'illusione di una carezza. Perduta nelle immagini d'amore scioglieva i capelli, e, attorcigliandoseli sul volto, ne aspirava l'aroma giovanile, gemendo il proprio nome «Marta, Marta!», che la notte raccoglieva e agli echi deserti della campagna ripeteva «Marta, Marta!» Il tempo passava ancora, finchè l'eccitazione passando, la lasciava sfinita, con le membra rotte, gli occhi pesti e vacillanti. Tuttavia non andava a letto. Aspettava. Alberto la trovava quasi sempre distesa sul divano, pallida come cera, inerte. E la rimproverava; le diceva: «Dovevi coricarti, dovevi dormire.» Ella non rispondeva nulla. Barcollante terminava di svestirsi, con dei brividi nelle ossa, e si cacciava sotto le lenzuola. Ma quando suo marito avvicinandosele mormorava: «Andiamo, via....» tutto il suo corpo si irrigidiva, si gettava indietro. - Le donne - concludeva Alberto, voltandosi dall'altra parte » non si arriva mai a comprenderle. E Marta, sotto le coltri, piangeva.

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La ballerina (in due volumi) Volume Primo

246851
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
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Carmela Minino taceva: e oppressa dai suoi pensieri di miseria e di abbandono, oppressa dall'ambiente, abbassava la faccia dietro la grama veletta nera del suo cappello. - Poggioreale! Poggioreale - gridarono dalla minuscola stazione del cimitero i due ferrovieri. E quasi immediatamente, con un gran rumore di sportelli battuti, il piccolo treno si vuotò tutto, mentre pel viale saliente al largo ingresso inferiore del cimitero, un flutto di gente si avviava, portando i suoi pacchetti di cerei, le sue corone di canutiglie, di semprevivi, di fiori freschi. Attorno all'ampio cancello una quantità di omnibus, di calessi, di char-à-bancs, di biroccini, stazionava, coi cavalli senza cavezza, la testa immersa in un sacco di crusca, coi cocchieri che fumavano la pipa, seduti di traverso sulle loro serpi, alcuni aggruppati, altri in cerca di qualche osteria dei dintorni, dove mangiare un boccone, aspettando i passeggieri che dovevano ritornare dal loro lugubre pellegrinaggio. Sotto il cielo basso e bigio, in quel tetro giorno di novembre, il camposanto di Napoli che occupa una delle sue più belle e più amene colline, quella di Poggioreale, conservava il suo aspetto d'immenso e florido giardino signorile: e i suoi cespuglietti di fiori vivaci che circondano le tombe e le sue siepi di bosso e di mortella che dividono gli ombrosi viali dai campi pieni di lapidi e i boschetti di alberi dove da mattina a sera cinguettano gli uccellini, gli alberi alti che ombreggiamo le sue cappellette, le sue chiesette, i suoi più grandi monumenti, gli conservano, in ogni stagione questo grandioso aspetto di parco aristocratico, qua e là interrotto da piccoli edifici, ora vezzosi, ora pomposi. Non solo nel giorno della commemorazione dei morti, ma sempre vi lavorano giardinieri, sotto la direzione di qualcuno che ama quel camposanto teneramente, e le più belle rose di Napoli vi crescono e i meravigliosi crisantemi, di ogni tinta, ne smaltano persino le aiuole dei poveri e in tutte le stagioni pare che vi sorrida dolcemente la primavera dei morti. Tutto l'anno il camposanto di Poggioreale ha un aspetto, nella sua florida solitudine, raccolto, non triste; mentre in quel giorno, coi suoi viali neri di gente, con tutte le porte delle sue cappelle, delle sue chiese, dei suoi grandi monumenti aperte da cui escivan chiarore di cerei, canti liturgici e odore d'incensi, misto a quello dei fiori freschi, il suo aspetto, sempre, non era triste, ma singolare, ma bizzarro, come di una strana fiera mortuaria, come di una mai vista pompa funebre, in un parco vastissimo, percorso da una folla immensa e svariata. L'ampio viale onde Carmela Minino, insieme con gli altri, saliva alle alture del cimitero ove sono le chiese più belle e i monumenti funerari più ricchi e più artistici, era murato e sulle mura vi eran delle lapidi cementate, le più antiche, con date di trenta o quarant'anni: la ballerina ne lesse due o tre ed ebbe un moto d'indifferenza. Che mai eran quelle donne, quei bimbi, quegli uomini che essa non avea mai conosciuti? Nulla a lei e, forse, nulla a nessuno di costoro che salivan con lei: quaranta, cinquant'anni sono troppi, perchè mi morto possa esser più niente a nessuno. Qua e là, ora che cominciavano i prati fioriti di rose, di cinerarie, di tutti que' fiori bigi, lilla, violetti che par che Iddio faccia nascere nell'autunno per esser di accordo con la stagione e con le tombe dei morti, gruppetti di due o tre persone si agitavano intorno alle pietre mortuarie, infisse semplicemente nella terra e, ripulitele, amorosamente, vi depositavano le corone novelle e infiggevamo, nella terra i cerei che ardevano nel giorno, con certe linguelle di fiamma esili e pallide, e qualcuno s'inginocchiava, pregando, senza, curarsi di chi passava; e un singhiozzo, ogni tanto, rompeva l'aria, sulle tombe più recenti, singhiozzi scoppianti da donne vestite di nero, austeramente velate, mentre da tutte le cappelle, da tutte le chiese grandi e piccole, da ogni maestoso monumento escivano i canti del De profundis e della Libera e scintillavano, nel fondo di pietra, le candele accese e si dilatava l'odore dell'incenso, nell'aria. Carmela Minino, disfatta, sentendo sul suo corpo e sulla sua anima tutto un insopportabile peso di dolore, quasi non poteva avanzare più passo: un desiderio folle la travolgeva, di gittar via, quella corona, di buttarsi sulle erba, sui fiori, faccia a terra, e di sciogliersi in lacrime, fino a che la morte l'avesse sorpresa, colà! Ma, a un tratto, il monumento elevato ad Amina Boschetti le apparve innanzi, quasi magicamente. Sorgeva in un quadrivio pieno di alberi, alti e folti, pieno di odorati cespugli di fiori: aveva dirimpetto la cappella magnatizia dei principi di Sansevero: da un lato la chiesa votiva per la morte della giovanissima duchessa di Noja; ma il tempio eretto alla memoria della ballerina era più ampio, più ricco, più bello delle due chiese patrizie. Aveva un'architettura schiettamente egiziana, imitante una delle antiche tombe faraoniche, tutto in granito oscurissimo e in lucido basalto grigio: le due porte, di un massiccio e puro artistico bronzo cesellato, erano schiuse: intorno intorno a quelle possenti, gravi e larghe masse di granito, girava un giardino fiorito, chiuso a sua volta da un cancello di bronzo. Guardandolo di lontano, il tempio egizio costruito per chiudere la leggiera salma della danzatrice, pareva tozzo, goffo, come sempre appariscono queste architetture, anche laggiù, fra il Nilo e il deserto. Ma come vi si avvicinava, le linee si sviluppavano, si ingrandivano, diventavamo imponenti, maestose. E bastò questo solo suo aspetto grandioso e calmo, per dare un sussulto di coraggio a Carmela Minino; bastarono le due semplici parole, in bronzo dorato, scritte sul sommo della porta: AMINA BOSCHETTI, perchè mia novella forza la ringagliardisse. Man mano che ella si accostava a quella magnifica forma di tempio, dove la fortuna, la ricchezza e la potenza della sua madrina, ricevevano la consacrazione del trionfo anche dopo la morte, una esaltazione facea balzare l'anima di Carmela, asciugandone, disseccandone tutte le lacrime, gonfiandole di tenerezza, ma di tenerezza superba, il suo piccolo cuore. Fu senza dolore, con un senso singolarissimo e inesplicato a lei, che ella entrò nel tempio egizio, segnandosi piamente. Il tempio era riccamente adorno per la commemorazione di Amina Boschetti: dal soffitto pendevano quattro massiccie lampade d'argento, sospese a grosse catene di argento, dove bruciava l'olio votivo: quattro alti e adorni candelieri di argento sopportanti i grossi cerei accesi erano collocati innanzi al breve altare funebre, disposto sotto la lapide che murava la salma. Tutto il tempio, intorno, spariva, sotto le corone fresche di fiori rarissimi: ve ne erano, di fiori, sparsi per terra, sul basalto: e la lapide ne era coperta. Un prete, assistito da due altri, in ricchi paramenti dai colori mortuari celebrava la decima o la duodecima messa funebre, colà, e come egli era venuto dopo gli altri, altri sarebbero venuti dopo lui, sino alle tre pomeridiane: e due chierici spandevano incenso dagli incensieri di argento. Due camerieri in livrea, appartenenti alla casa del banchiere Schulte, colui che aveva, per dieci anni della sua vita, adorato la leggiadrissima danzatrice, che le avea dato la sua fortuna e che, fedele oltre la morte, in un miscuglio singolare di amore, di misticismo e di cinismo, le dava tutte le pompe più ricche del culto religioso, stavano in fondo al tempio, muti, immobili; il loro padrone era venuto presto colà e tutto era stato disposto secondo i suoi ordini, sotto i suoi occhi, e tutti quei fiori li aveva portati lui, ed egli stesso aveva pregato per un'ora, lì dentro, incapace di dimenticare, incapace di consolarsi. l due camerieri presero silenziosamente dalle mani di Carmela Minino la corona di fiori, per deporla presso l'altare: - Sulla pietra, sulla sua pietra - ella mormorò, supplice, tremante di una emozione che non era solo dolore, anzi quasi non era dolore. Poi, quando la corona andò ad appoggiarsi a metà della lapide marmorea, sul posto dove giaceva, dietro la fredda pietra, il freddo cuore della incantevole Amina, la sua figlioccia, si piegò sovra un inginocchiatoio di legno scolpito, dal cuscino di velluto rosso, dove, un'ora prima, era venuto a pregare Otto Schulte e chiuso il volto fra le mani mentre il prete orava, pronunziando le parole tetre, tristi, dolenti, ploranti, della messa per i defunti, mentre il grido dell'anima cristiana che, giunta davanti all'Eterno suo giudice, domanda misericordia esciva dalle labbra dei suoi coadiutori, invece di pregare, Carmela Minino vide innanzi agli occhi della sua immaginazione colei che era sepolta dietro quel marmo, colei per cui era stato eretto quel tempio ricchissimo, colei per cui ardevano quelle lampade e quei candelabri, per cui olezzavano quei fiori, per cui pregavano il Signore quei sacerdoti. E vide una figura esile e lieve, un paio di occhi larghi, bruni, pensosi e ridenti insieme, un sorriso sopra una bocca deliziosamente espressiva, un fascino emanante da ogni atto gentile, un fascino di bellezza, di grazia, di giovinezza, di poesia, qualche cosa di trasvolante tra i veli candidi, fra lo scintillio dei corsaletti ricamati d'oro, qualche cosa, di fugace, di alato, d'inafferrabile che facea palpitare e fremere non solo gli uomini giovani ma i vecchi, non solo gli uomini ma le donne: Amina Boschetti! Fra la luce, innanzi ai teatri zeppi e semioscuri, ella appariva, sottile come uno stelo, con la sua piccola testa carica di capelli bruni, e non toccava terra nelle sue gonne simili a una nuvola e i suoi piccoli piedi calzati di seta rosa non toccavan terra e appena appena parea ricamassero delle cifre posate fra i fiori, sulle aiuole. Ella sorrideva dagli occhi e dalle labbra, danzando, mentre il suo corpo pieghevole si arrotondava allo slancio lievissimo: ella danzava, senza che mai quel sorriso, quel lampeggio degli occhi venissero meno, per la fatica: ella danzava, così, come se null'altro ella fosse venuta a fare, sulla terra. E veramente, la sua irresistibile perizia, veramente la delizia di quella danza facevano delirare le platee: e dal loggione dove il popolo si ammassava nelle serate classiche alle poltrone d'orchestra dove si raccoglieva la nobiltà napoletana, il nome di Amina Boschetti era acclamato come quello di una trionfatrice. La coprivano di fiori, di doni, di gioielli: le offrivano i loro cuori e le loro fortune: ed ella tutto accoglieva, sorvolando su tutto, sapendo che i fiori, i gioielli, i cuori, le fortune, eran fatti per lei, perchè i suoi piedini calzati dalle fini scarpette di raso rosa vi facessero in mezzo una gaia danza. Ella aveva ville a Portici e a Posillipo, palazzi a Napoli, mobili sontuosi, equipaggi ricchissimi, vesti e pietre preziose degne di una sovrana; e la sua lieta giovinezza spensierata rideva di tutto ciò: ed ella dava in cambio tutta la poesia della sua bellezza, tutta la poesia della sua danza, sorridendo ai sogni di amore e di piacere. Così, nella sua infanzia, Carmela Minino l'aveva vista, ammirata, amata, come se Amina Boschetti avesse in sè qualche cosa di divino: così la povera figliuola della rammendatrice di maglie, la figliuola di Bettina Minino, aveva volto gli occhi pieni di ammirazione trepida e devota alla fata delle danze. Tutti quei deliri, tutte quelle acclamazioni, tutti quei gioielli, tutto quel denaro che la gente gittava innanti alla danzatrice adorabile, non sembravano, alla oscura piccola corifea, che un omaggio naturale, giusto, dovuto a quel leggiadrissimo idolo. La messa, funebre quasi finiva, mentre alte risuonavano le parole latine d'implorazione del sacerdote, sotto la volta granitica del tempio egizio. Ma Carmela Minino che, pure, era una, umile e pia cristiana, ancora non pensava a pregare per l'anima della sua madrina. Ora, si rammentava come la bella danzatrice era entrata nella sua piccola vita, piena di ombre, di tristez- ze, di miserie! si rammentava di essere stata condotta, un giorno, due giorni, varie volte, in quel grande palazzo della Riviera di Chiaia, dove Amina Boschetti viveva fra la ricchezza del lusso e dell'arte, e in quell'amena, fresca villa di Portici, posta fra gli orti, i giardini e il mare: sua madre rammendatrice di maglie di seta, aveva servito la Boschetti, quando costei era una semplice ballerinetta di quarta fila, e, più tardi, quando la ballerinetta era diventata una stella fulgida, la povera rammendatrice, assai misera per mancanza, di lavoro, andava a raccogliere le vecchie maglie che la Boschetti gittava via, gli scarpini di raso rosa che la Boschetti metteva una volta soltanto, e di questi doni, facili alla prodigalità, della grande artista delle danze, Bettina Minino faceva un piccolo commercio. Allora, Carmela Minino aveva dieci anni, due grandi occhi neri e dei bei capelli neri, non pareva che dovesse diventare bruttina come era, poi, più tardi, di- venuta pur conservando il dono dei belli occhi e dei bei capelli. Ogni tanto, Amina Boschetti passava nella sua anticamera, dove Carmela si rannicchiava in un angolo; la carezzava lievemente, passando, nelle sue ampie vesti di lana bianca che avevan del peplo greco e da cui si ergeva la seducente testina. - E falla ballare, falla ballare - rispondeva familiarmente la Boschetti, quando la sua vecchia rammendatrice sospirava, parlando di sua figlia. - E se è brutta, Eccellenza? - Speriamo di no. - E se si perde l'anima e il corpo a teatro? - Chi si perde, si ritrova - replicava, ridendo, la Boschetti. Ciò finì con questo: che la Boschetti dava venticinque lire il mese, per vari anni, a Bettina Minino, perchè la sua figliuola, potesse imparare il ballo. Ohimè, la piccola Carmela mancava di grazia, di brio, di leggerezza, nella danza: studiava molto, si stancava enormemente, era obbediente, sommessa alle osservazioni del maestro, tentava del suo meglio, ma non arrivava a conquistare quelle qualità necessarie ad una ballerina. Anche, verso i sedici anni, invece di fiorire come tutte le giovinette, deperì. La sua carnagione si fece bruna e opaca, le linee s' indurirono ai pomelli, al mento; le labbra s'impallidirono. Forse mangiava poco: forse, ballava troppo: forse mancava d'aria e di luce, in quella stanza del vico Paradiso; ma la sua gioventù fu sfiorata, restandole solo quei begli occhi un po' tristi, ma pur fieri, che, del resto, hanno le napoletane più brutte, quei bei capelli, che, anche, sono un pregio assai comune, a Napoli. - Signora mia, è brutta, è brutta - diceva, piagnucolando, ogni tanto, Bettina Minino alla sua benefattrice. - Pazienza! Così non si perderà - rispondeva, sorridendo la Boschetti. E per la sua protezione, solo per questo, Carmela Minino era entrata nel corpo di ballo di San Carlo: ma nell'ultima fila, con due lire e cinquanta ogni sera di ballo, con l'obbligo di fornirsi del basso vestiario, scarpette, coturni, maglie di seta, gonnellini di velo, coll'obbligo di venire ben pettinata o di farsi pettinare dal parrucchiere del teatro, con tanti obblighi, tutti costosi, che riducevano a nulla le due lire e cinquanta serotine. Era, anche, una grazia, particolare, perchè a San Carlo non volevano brutte ballerine, anche nell'ultima fila, perehè Carmela ballava così e così, sovra tutto mancava di sorriso, sempre con quel viso senza gioventù e gli occhi malinconici. Con il poco guadagno della madre, con le venticinque lire il mese del sussidio Boschetti, meno male, si tirava avanti, quando Amina Boschetti morì... Ora, la messa era finita e il prete secondato dai due coadiutori, benediceva con l'acqua santa il tumolo, cioè la lapide. E invece di pregare per colei che dormiva da sei anni l'eterno sonno della morte, dietro quel macigno di granito, Carmela Minino pensava alla morte di Amina Boschetti. Ella l'aveva vista ballare, l'ultima volta, in un ballo grandioso, di carattere egizio: Le figlie di Cheops. Le due figliuole del Faraonide eran rappresentate da una bellissima mima, alta, formosa, Assunta Mezzanotte, che poi, più tardi, doveva tentare con minor fortuna il teatro di prosa, e l'altra figliuola, la sorella, la rivale, era Amina Boschetti. Non so per quante sere, nelle vesti orientali, con l'ibis d'oro fermante i capelli bruni sulla fronte, carica di gioielli antichi, Amina Boschetti aveva ballato, e più che ballato, sceneggiato e drammatizzato quel ballo delle Figlie di Cheops: e non so quale storia d'amore vincitore e vinto, fra le due sorelle, conduceva la minore Faraonide, la danzatrice, alla morte. Nell'ultima scena, ell'appariva in una festa sacra, bella di una ieratica bellezza fatale, coverta di ori e di gemme preziose, con un sorriso inebbriato ed inebbriante sulle labbra, con qualche cosa di folle negli occhi scintillanti. Così la Faraonide Amina Boschetti imprendeva una sua danza religiosa insieme a uno serpente: a un serpente pitone, sacro alle deità egizie, che ella si avvolgeva alle braccia, al corpo, scherzando, giuocando con esso, accostandosene lietamente e follemente la testa al volto, gittandolo via, ghermendolo, agitandolo intorno a sè, in volute bizzarre. Poi, l'affanno delle danze cresceva, cresceva, i capelli della danzatrice si scioglievano sulle spalle, ella girava come folle, come convulsa, fino a che, appuntando la testa del serpente sul suo petto nudo, si faceva mordere, cadeva, moriva, fra il terrore di tutti. In questo ballo, in quest'ultima scena, Amina Boschetti esciva dal limite della danzatrice felice, vaga e spensierata: ell'assumeva un aspetto drammatico e il pubblico ne aveva un effetto più profondo e più alto. Quattro giorni dopo la chiusura del San Carlo, quattro giorni dopo l'ultima trionfale rappresentazione delle Figlie di Cheops, non ancora trentenne, in piena beltà, in pieno trionfo, Amina Boschetti moriva nel suo palazzo della Riviera di Chiaia, in pochi minuti per la rottura di un aneurisma. Niuno sapeva che ella fosse malata al cuore: forse, lo sapeva ella sola. E nella limitata intelligenza di Carmela Minino, la esaltazione dell'adorazione che ella portava ad limina Boschetti, la induceva oltre i confini della piccola anima popolana, la slanciava in pieno sogno. Quel tempio, quegli argenti, quei fiori, quegli incensi, quelle preghiere, quel culto d'amore e di lusso grandioso che oltrepassava il tempo, che oltrepassava la morte, non dicevano l'imperio della grande maga, ancora, sempre? Non era Amina Boschetti indimenticabile, indimenticata, come una suprema parvenza di poesia? Nessuna ne aveva preso il posto nella fervida ammirazione del pubblico e tutta una folla la rimpiangeva, ogni volta che una nuova ballerina appariva sulle scene del San Carlo: nessuno ne aveva preso il posto, nel cuore di colui che l'aveva amata. Nessuno, nulla, nè il tempo nè gli eventi avrebbero potuto prenderne il posto nella oscura vita, di Carmela Minino, la corifea. Colà, sola, innanzi a quella tomba, piegate le ginocchia innanzi a un diletto nome scritto sulla pietra, nell'ardore che le bruciava le vene, Carmela Minino promise, giurò, alla sua madrina morta, di fare sempre quello che ella aveva voluto la sua figlioccia facesse: promise, giurò di continuare quel mestiere duro, faticoso, pieno di pericoli, pieno di tristezze, che appena le dava il pane, che la lasciava mesi intieri senza lavoro, che la esponeva alle delusioni, alle amarezze, ai dileggi di tutto l'orribile mondo teatrale, che la teneva fra il disonore e la miseria e che, infine, l'avrebbe portata, chi sa, all'elemosina, all'ospedale: che importava? Ella aveva voluto così: e Carmela s'inchinava ancora una volta, ebbra di obbedienza, ebbra di devozione, oltre la tomba, sino alla morte e oltre la morte. Anzi, nella sua febbre di amore e di sacrificio, Carmela dimenticò completamente di pregare. Con la familiarità religiosa comune ai cuori semplici napoletani, con la empietà ingenua dei cuori passionali , ella era certa, certa, che il Signore aveva perdonato ad Amina Boschetti tutti i suoi peccati. La corifea rientrò in Napoli verso le cinque. Quasi annottava. Questa volta, per trovarsi più presto in Via Paradiso, alla Pignasecca, voltò dalla Stazione per la regione settentrionale di Napoli, Via Cirillo, Via Foria. Quando fu presso il Museo Nazionale, la pioggia cominciò a cader fitta fitta. Temendo pel suo vestito, pel suo cappello, per le scarpe, ella si rifugiò nella Galleria Principe di Napoli, dove centinaia di altre persone, senza ombrello, o con qualche vecchio ombrello consunto, aspettavano che finisse di piovere. Si faceva tardi, per Carmela. La pioggia diminuiva ed ella discese la scalinata della Galleria verso via Toledo; guardando innanzi a sè, ella scorse un elegantissimo coupé signorile fermo innanzi al grande arco della Galleria. Sul marciapiede, piegato verso lo sportello, nascondendone il vano, un signore parlava alacremente e attentamente ascoltava chi era dentro la vettura. Malgrado che le volgesse le spalle e che avesse cambiato vestito, Carmela riconobbe subito il Conte Ferdinando Terzi. Ella si fermò un istante sugli scalini, guardando verso il coupé, cercando timidamente di scorgere chi vi si trovasse dentro. Oh ella sapeva bene, Carmela, che Ferdinando Terzi nascondeva e mal nascondeva, una perigliosa e violenta relazione con una giovane signora dell'aristocrazia, a cui Emilia Tromba faceva o da paravento o da diversivo: sul palcoscenico se ne parlava, fra le ballerine che spettegoleggiavano sugli amori e sui vizi del mondo aristocratico, in cui spesso hanno delle rivali, e Carmela conosceva il nome e il volto giovanile, pensoso e dolce di colei che si diceva, amasse follemente Ferdinando Terzi. Ma pioveva ancora e fra le penombre del crepuscolo, il velo sottile della pioggia, nel giro largo e lento che Carmela Minino fece intorno alla piccola carrozza signorile, non giunse a distinguere nulla. Lentamente, la ballerina si allontanò lungo il marciapiede opposto, andando verso la sua casa: si voltò solo, sotto ombrello, due o tre volte, a guardare indietro. Il coupé era sempre fermo, Ferdinando Terzi - le pareva a Carmela - si era sollevato, guardandosi intorno, per diffidenza: poi si era curvato di nuovo, a discorrere. Ma in quell'ora, con quel tempo, lontano dal centro aristocratico di Napoli, fra le oscurità del crepuscolo che si facea sera, sotto la pioggia, chi potea, lassù, riconoscere Ferdinando Terzi e il coupé della marchesa.... chi, se non l'occhio umile ma acuto di una poveretta che ritornava dal cimitero, a piedi dalla ferrovia, tutta molle di umidità, senz'aver pranzato, anelando alla sua stanzetta solinga e a un po' di cibo? Fu più in là, verso piazza Dante, che una voce amabile interruppe il cammino di Carmela. Sulla soglia di uno dei grandi magazzini inglesi di Gutteridge, un giovanotto l'aveva interpellata: - Oh signorina Minino, buonaseral non mi salutate, neppure? - Buonasera, buonasera - ella mormorò, interdetta, fermandosi e pentendosi subito di essersi fermata. - Entrate un poco, signorina - soggiunse il giovane, liberando l'entrata. - No, non posso, signor Gargiulo, ho fretta. - Sempre così! E donde venite, sempre simpatica, sempre così simpatica e così cattiva, con me? Da una prova di ballo? - A quest'ora? - ella mormorò, senza badare ai complimenti. - Io vengo dal camposanto. - Scusate - disse Garginlo, interdetto. - Andate a casa? Posso accompagnarvi, un poco? - No, no, grazie, badate al vostro lavoro. - Oh, è già sera, non verrà più nessuno, dico a un compagno di supplirmi alla cassa. Permettete? - Nossignore, buonasera, signor Gargiulo - concluse lei, in fretta licenziandosi. Il giovane cassiere rimase un po' interdetto: ma lo stesso sorriso un po' fatuo gli restò sulle labbra, mentre guardava allontanarsi la ballerina. Egli era alto e magro, con un viso olivastro e un po' di baffetti bruni a cui teneva molto, accarezzandoli spesso: portava i capelli neri tagliati a spazzola sulla fronte e non mancava di una certa linea di eleganza, nella sua magrezza. Parlava con sovrabbondanza, come tutti i commessi di negozio, con uno spolvero di false buone maniere, con le unghie lunghe e accurate e un brillante al mignolo: vivente maluccio col suo stipendio di cassiere, ma sempre ben vestito, con quella ricercatezza speciale dei giovani commessi, amatore dello smoking e frequentatore accanito di teatri e di balletti borghesi. In teatro andava gratuitamente, per mezzo di un giornalista suo amico, specie a San Carlo: e, talvolta, con l'amico era andato ad aspettare l'uscita delle ballerine dopo lo spettacolo. Colà aveva visto passare, varie sere, Carmela Minino sola: le aveva diretto qualche parola, così, per far anche lui il corteggiatore di una ballerina. - Lascia fare - gli aveva mormorato l'amico giornalista. - È brutta ed onesta. - Ne sei certo - Certissimo. Sono otto o dieci, ancora zitelle, a San Carlo, fra cui la Minino. - Allora, sarebbe un bel guaio per me. - Naturalmente. Niente altro. Ma sempre che la incontrava, Roberto Gargiulo si avvicinava a Carmela, le faceva dei complimenti vivaci e delle allusioni poco velate. Ella rispondeva poco o nulla, si schermiva alla meglio, si allontanava,. Pure, Gargiulo che aveva fatto qualche conquista, nel monduccio borghese ove si aggirava, pensava che se avesse voluto, con una corte assidua, con qualche regaluccio, Carmela Minino avrebbe finito per amarlo. Conveniva a lui, però, insistere, poichè la ballerina era onesta, affrontare certe conseguenze, portare la catena di una relazione simile? Chi sa... più tardi... forse... e intanto, ogni volta che ella gl'impediva di continuare i suoi discorsi, egli conservava il suo sorriso fatuo, di seduttore che non vuole insistere. Carmela affrettava il passo, verso via Pignasecca, aveva crollato le spalle, lasciando Roberto Gargiulo. Egli non le dispiaceva e non le piaceva, ma ella adoperava con lui le armi di difesa abituali di una donna che ha paura dell'amore e paura del peccato. Credendosi anche più brutta di quello che era, una istintiva, selvatica diffidenza le veniva contro ogni accenno di corte; ella supponeva sempre un inganno maschile, una trama, per farla cadere nel peccato, per burlarsi di lei, subito dopo. Vagamente, nella sua coscienza di povera serva sociale, di povero atomo, senza forza e senza coraggio, ella sentiva che, un giorno o l'altro, questo sarebbe accaduto: ma con tutte le cure quotidiane ella respingeva da sè questo avvenimento, ciecamente respingendo chiunque avesse potuto rappresentarlo: adoperava le più puerili e le più inani armi di difesa, fuggendo le conversazioni, fuggendo i contatti, evitando ogni occasione, facendosi anche più rustica e più sgraziata. Oh non molti la corteggiavano, mal vestita, sempre sola, sempre danzante nelle ultime file, senza un gioiello, senza un fiore nei capelli, ma ogni tanto qualcuno, Roberto Gargiulo o don Gabriele Scognamiglio, il cav. Gabriele Scognamiglio, il ricco farmacista, consuetudinario di San Carlo, che abitava in piazza della Pignasecca, o il figliuolo del direttore del palcoscenico, qualcuno di questi la perseguitava per due o tre giorni, per una settimana, dicendole sempre le stesse cose, volendo tutti la medesima cosa, ingannarla, cioè, pensava lei, condurla al peccato, per piantarla subito. No, no. Ella li scoraggiava, facendosi vedere sempre più sgraziata, a occhi bassi, troncando i discorsi, fuggendo, quasi sempre. - Buonasera, donna Carmelina! - disse una voce d'uomo, mentre ella sbucava sulla piazza della Pignasecca. - Ecco l'altro - mormorò fra sè, Carmela. - Buonasera, cavaliere. Era don Gabriele Scognamiglio, il ricco farmacista, celibe impenitente, famoso donnaiuolo: un uomo che aveva già i suoi cinquantacinque anni, ma che portava la sua barba bianca bene tagliata e profumata, quasi sempre in marsina, la sera, pulito, svelto, che sapeva parlare alle donne, brutale, del resto, nel fondo del suo animo, freddo e calcolatore. - Donna Carmelina, volete venire a pranzo con me, a Frisio, stasera? - Grazie, cavaliere, ho già pranzato. - Allora, andiamo insieme al cafè concerto, donna Carmelina, che ne dite? Dopo mezzanotte, si cena... - Buonasera, buon divertimento, cavaliere - diss'ella, allontanandosi. - Siete proprio una scema, donna Carmelina, ve ne pentirete! - esclamò lui, ridendo, chiamando una carrozza per andare a pranzo. Ah, quando fu in casa, nella stanza al quarto piano, piena di umidità, Carmela Minino fu presa da una stanchezza mortale. A forza si trascinò sino al tavolino per accendere il lume a petrolio; e per forza se ne andò in cucina, ad accendere un po' di fuoco, per cucinarsi un paio di uova, che aveva in casa: niente altro, perchè sarebbe morta di fame, anzi che discendere quei quattro piani a comperarsi qualche altra cosa. Moriva di fatica, di lassitudine morale, di segreta tristezza: e mangiando quel poco di cibo, sopra un angolo nudo del suo tavolino, alla luce fumosa della sua lampada, pensò, sì, di essere una scema, come aveva detto don Gabriele Scognamiglio. Ma non se ne pentì, in quella sera.

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La ballerina (in due volumi) Volume Secondo

247405
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
  • UNICT
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Pagina 66

Una peccatrice

249661
Giovanni Verga 2 occorrenze
  • 1866
  • Augusto Federico Negro
  • Torino
  • Verismo
  • UNICT
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Passeggiavano da quasi cinque minuti in silenzio, quando una signora, abbigliata con gusto squisito, appoggiandosi con il molle e voluttuoso abbandono che posseggono solo le innamorate o le spose nella luna di miele, al braccio di un uomo, anch'esso molto elegante, passò loro dinanzi e lo strascico della sua lunghissima veste sfiorò i calzoni del giovane alto e bruno che stava a diritta, il quale non sembrò accorgersene. - La bella donna! - esclamò il suo compagno, un giovane biondo, come per rompere quel silenzio, che durava da un pezzo. L'altro, istintivamente, alzò il capo e guardò la signora, che, o naturalmente, o per l'istinto della donna, avea volto a metà il viso verso di loro, parlando con l'uomo che l'accompagnava. Il bruno sembrò esaminarla di un lungo sguardo dalla piuma del suo cappellino, che scherzava coi ricci dei suoi magnifici capelli cadenti sin quasi sulle sopracciglia, alla punta del suo piccolo piede, chiuso in stivaletti di seta nera, che allora, forse per la più squisita civetteria, l'ampia guarnizione della veste lasciava scoperto sino al basso di una gamba sottile e ben modellata. - Sì, molto bella! - diss'egli, come rispondendo a sè stesso. E malgrado che tentasse immergersi di nuovo nei pensieri che lo tenevano sì preoccupato un momento innanzi, due o tre volte alzò gli occhi a fissare la veste, che ancora strisciava lontana sulla sabbia del viale. Alla porta ella montò nella carrozza che l'aspettava, e partì. - Ella non dev'essere siciliana; - ripigliò il bruno, che si chiamava Pietro. - Chi te lo dice? - Tutto: il suo genere d'eleganza, la sua andatura... il modo stesso con cui accolse la tua esclamazione. - L'ha udito dunque! - mormorò il biondo, arrossendo come un collegiale. - Raimondo, amico mio, sarai sempre un ragazzetto su questo argomento. Credi dunque che quando una bella donna ti passa dinanzi badi ad ascoltare le sciocchezze che le sussurra un imbecille qualunque sotto il naso? - Ma quest'imbecille può anche essere un amante... e allora... - E allora ragion dippiù per ascoltare ciò che si dice di lei, quale impressione desta passando, per poi fare un presente all'innamorato delle tue osservazioni (se sono favorevoli però, bada!) sotto il pretesto di riderne; presente che deve rendere innamorato quel povero allocco per dieci gradi dippiù. Raimondo rise dell'osservazione; e ambedue proseguirono a passeggiare in silenzio. All'ingresso del giardino si separarono, colla tacita promessa, data nella più tacita stretta di mano, di rivedersi l'indomani. Noi cercheremo di delineare questi due personaggi, dei quali uno è destinato ad avere la maggior parte negli avvenimenti che verranno in seguito. Pietro Brusio, l'uno dei due (ricorriamo al pseudonimo per questo come per quasi tutti i nostri personaggi, viventi ancora la maggior parte e molto conosciuti) è, come abbiamo accennato, un giovanotto alto; di circa 25 anni; alquanto magro, ciò che non impedisce che abbia delle belle forme, le quali sarebbero più eleganti, se avesse il segreto, come l'hanno molti, di saperle fare spiccare; ha i capelli assai radi, di un castagno molto più chiaro di quello dei suoi pizzi e dei baffi; pelle bruna; occhi piccoli e vivissimi; labbra alquanto grosse e sensuali; narici larghe e dilatantisi sempre più alla minima aspirazione del suo carattere impetuoso; piedi e mani piccolissime in rapporto alla sua statura. Nell'assieme figura energica e maschia, che può avere anche i suoi riflessi di bellezza, messa sul suo piedistallo, nella sua giusta luce, al suo posto insomma. È un giovane quale se ne incontrano molti in Sicilia: sangue arabo in vene andaluse: orgoglioso come un Cyd egli non dissimula menomamente le sue pretensioni di superiorità, che nulla sembra autorizzare nel suo esteriore. Vivo ed impetuoso come tutti i meridionali, egli scenderebbe sino alla lotta di piazza pel minimo sguardo un pò dubbio che s'incrociasse col suo. Natura generosa del resto, elevata, con molte aspirazioni al superiore, troppo nobile forse per trovarsi in contatto colla società del giorno senza risentirne gli urti, egli passa colla maggior facilità dall'estrema confidenza nella sua stella, nel suo avvenire (poichè egli avea dato due o tre drammi al teatro di Siracusa, dei quali si era parlato il giorno dopo soltanto, o non si era parlato affatto) allo scoraggiamento massimo, alla disillusione più completa di tutti quei sogni rosati, che pur riempiono un gran vuoto, rispondono ad un gran bisogno in quell'età in cui il cuore e l'immaginazione vivono anch'essi la loro vita. Il compagno che gli passeggiava allato è molto più piccolo; biondo, piuttosto grasso; uno di quei caratteri che non servono sovente ad altro che a far spiccare una individualità superiore a cui si accompagnano, di cui sentono e subiscono l'influenza come un satellite. Raimondo, il biondo, ha però il merito di essere come il compimento del carattere infiammabile, sovente del soverchio, del suo amico. Egli non ha la superiorità d'ingegno di lui, ma molta maturità di giudizio, ciò che lo fa ragionare calmo ed assennato, ed impedisce a Pietro di commettere mille pazzie, poichè Raimondo ha la voce dolce ed insinuante ed il carattere conciliativo; sembra infine che l'ardente carattere dell'amico suo subisca a sua volta l'influenza della pacata indole di lui. Entrambi appartengono a due buone famiglie di Siracusa. Raimondo è già laureato in medicina da quasi un anno, e Pietro studia legge per studiare qualche cosa che non gli rendesse soltanto strette di mano dei comici, che per altro si misuravano dal numero dei rinfreschi offerti e mai rifiutati, e qualche applauso, assai freddo, della platea, che avea il valore di un biglietto gratis. Abbiamo insistito, forse di soverchio, su questi dettagli fisici e morali, d'uso per alcuni, per noi resi indispensabili dalla necessità, che abbiamo peculiare, di far sentire, diremmo, i caratteri che presentiamo prima di agitarli nelle scene di un racconto intimo. Scopriamo sin dal principio il meccanismo, per non attirarci la taccia, poscia, di aver fatto agire delle marionette, da chi non ne vedesse il filo motore ch'è il cuore. Cinque giorni dopo, all'ora solita, noi incontriamo i due amici, che passeggiano, colla stessa sbadataggine, sotto gli alberi de Rinazzo; l'uno, il biondo, chiacchierando quasi sempre solo; il suo compagno col capo basso e le mani dietro le reni. - Mio caro, - diceva il biondo, guardando l'amico negli occhi in aria di malizia, - risponderai almeno questa volta a quella piccina? - Io? - rispose bruscamente Pietro, come destandosi di soprassalto, - e perchè fare? - Bella risposta! che pure non avrebbe avuto l'opportunità, di venir fuori oggi, se tu l'avessi data a te stesso il giorno, o piuttosto la sera, che ti venne in mente di accalappiare colle tue commedie quella poveretta. - Credo che tu abbi ragione in quanto alla risposta; e che tu dica una bestialità, ciò che fai spessissimo, in quanto a quello che mi vai cantando di accalappiamenti e di poverette... - Pietro... - Lasciami tranquillo, ti dico!... Ci credi sul serio dunque che a quest'ora Maddalena, la piccina, come la chiami, pianga e si disperi perchè non le scrivo più, perchè la sera, onde aspettarla sotto il verone, non rischio più di farmi gettare delle immondezze sul capo da qualche serva maligna, che finga di non vedermi, e perchè non do più lo spettacolo ai vicini, che si mettono ad origliare dietro le imposte, di quelle freddure che si ricantano sempre sullo stesso tuono: buona sera; come stai? mi ami sempre? non quanto me... ecc. ecc. poichè le varianti sono pochissime!! ln fede mia che ne ho abbastanza di tali amori da quindici anni!!.. se mi avesse permesso di salire un momento sulle scale... pazienza!... - Sì, Pazienza per altri otto giorni! la sarebbe finita come tutte le altre... Eppure ti assicuro che se tu l'avessi veduta piangere come io l'ho veduta; se ella ti avesse abbracciato i ginocchi come li ha abbracciati a me, per indurti ad andarla a vedere, a scriverle almeno... se tu avessi udito le parole ch'ella mi diceva!... - Parola d'onore! - esclamò sghignazzando Pietro, - che tu ne sei innamorato cotto. Va, Raimondo, amico mio, tu farai il tuo cammino, coi tuoi ventidue anni, i tuoi capelli biondi, e il tuo volto fresco e roseo. Il biondo prese quegli scherzi come li prendeva sempre, dalla parte che lasciano ad un uomo di spirito, ch'è quella di riderne pel primo, e riprese: - Se così fosse, confessa che mi saresti molto obbligato di averti sbarazzato di una noia, senza i ritornelli soliti di traditore, Iddio è giusto, ecc. Pietro ne rise esso pure, e strinse con effusione la mano del suo amico. - Sentimi, caro Raimondo; - diss'egli alquanto gravemente; - io non son di quelli che dicono: fo così perchè così fanno gli altri. Mi sento troppo superiore a questi altri per seguirne l'esempio. A diciott'anni è permesso credere ancora all'amore, alla fedeltà, alla donna tipo, eroina, come impastocchiano gli sfaccendati nei romanzi... A ventiquattro (è desolante quello che dico, ma non è men vero) si è scettico come lo scetticismo, quando cento volte si sono ascoltate le più appassionate proteste, fatte colle lagrime agli occhi, dalla donna che ha in saccoccia la lettera del rivale. - É curiosa! - interruppe Raimondo. - Che cosa? - Come ti hanno guastato i romanzi di Sue; tu, accannito avversario dell'esagerazione della scuola francese, e che ora mi copii sì bravamente l'Uomo stufo a ventun'anni, lo Scipione del Martino il Trovatello... - Non copio io! - disse Pietro quasi con asprezza; - ti dico soltanto quello che penso. Ti dico anche che darei qualche cosa del mio avvenire per possedere ancora le illusioni sì care de' miei diciassette anni... Tu conosci la mia vita, Raimondo!... Ti ricordi di una giovanetta che amai alla follia... Che fece quella giovanetta per la quale avevo pianto... ne ho vergogna anche a pensarci... pianto dinanzi a te... come un fanciullo... come un vile?! ... Ella m'ingannò per un mercante; poi; poi per un nobile, per un uomo ammogliato... E questa donna, che avea dato appuntamento per la sera al suo amico, che ascoltava tremando le ore che segnava l'orologio del salotto, poichè temeva ch'io m'incontrassi con lui, abbracciava i miei ginocchi, come ieri Maddalena abbracciava i tuoi; mi supplicava colle lagrime più ardenti, colle carezze più tenere, cogli accenti più deliranti di non lasciarla sì tosto, di non lasciarla in collera, poichè s'era accorta ch'io avevo sospetto di quello che dovevo vedere mezz'ora più tardi... Dopo amai una maritata; credei che una signora che rischia di romperla colla società, e colla sua felicità istessa, dovesse molto sentire quest'affetto, al quale sacrifica il suo decoro, la pace domestica, e, presso di noi, fors'anche la vita... Quindici giorni dopo, a caso, in una festa da ballo, seppi, da uno di quegli amici che s'incontrano dappertutto, che da tre giorni egli era in relazione con quella signora... e le espressioni appassionate di lei, che egli mi citò, erano le stesse di quelle che aveva impiegato per farmi credere al suo amore... In seguito amai una fanciulla... pura siccome un angiolo: come direbbe il il signor Darmont nella Traviata; ella aveva tutto ciò che può far credere alla purità del cuore: distinzione d'educazione, coltura d'ingegno, bontà di sentimenti... Io l'amai come un pazzo, quella fanciulla dal viso pallido e dagli occhi cerulei... Scesi persino alle puerilità del collegiale... passare sotto i suoi veroni, seguitarla al passeggio e in chiesa... Quella giovanetta rispose finalmente alle mie lettere, mi promise amore e fedeltà, nell'istesso tenore, suppongo, in cui l'aveva promesso sei mesi prima ad un giovane che sposò alcune settimane appresso... E dopo questo, dopo innumerevoli esempi, che ogni giorno cadono sott'occhio, credi che si possa più averi fede nell'amore propriamente detto, in quest'amore chiesto o giurato spesso col rituale alla mano, senza passare almeno per uno scolare di primo anno? - Ti rispondo colle tue parole: Credo che abbi ragione almeno per metà; ma confessa che per l'altra tu esageri un pochino, lasciandoti trasportare, al solito, dalla tua immaginazione. - Può essere anche questo; - rispose sorridendo il giovane; - del resto colla Maddalena l'ho rotta tranquillamente o diplomaticamente, come vuoi meglio. Infine vuoi una parabola per convincerti? - Fuori la parabola! - Ecco! - e Pietro trasse dal suo portasigari, che avea trasformato anche in portafogli e portamonete, un bigliettino in carta profumata ed involto in una sopracoperta piccolissima color rosa; colla stessa flemma ne prese un sigaro ed un fiammifero. Acceso il foglietto, cominciò accenderne tranquillamente il sigaro. Raimondo ebbe il tempo di leggere le ultime frasi assai tenere del bigliettino, scritto con quel carattere minuto ed uguale che sembra particolare alle signorine distinte, firmato in basso colle sole iniziali. - Hai veduto? - gli domandò Pietro trionfante, buffandogli in faccia il fumo azzurrognolo del sigaro. - Ho guardato ma non ho visto, come il cieco della Bibbia. - È semplicissimo: vi è un detto celebre: Fumo di gloria non val fumo di pipa: ciò che in parentesi dimostrerebbe che le mie più belle produzioni-erba non valgono il fumo delizioso di questo regalia; io ne faccio un altro: Amor di donna, e d'uomo, se si vuole, non dura piú di cenere di carta, o biglietto amoroso... o sigaro regalia. Spero di farmi nome almeno coi proverbi... giacchè non l'ho potuto con opere di maggior lena... Ma guarda laggiù, imbecille!... - Che c'è? - Cospetto!... la signora che incontrammo l'altra volta alla Villa! - È vero. - Che donna... Perdio!... - Non è poi quella maraviglia che mi vai cantando... - Non ho parlato di maraviglie. Ti dico semplicemente che a Catania, e in tutta Sicilia anche, son poche le donne che sappiano recare così bene il suo pardessus reine-blanche, e che sappiano appoggiarsi con tanta grazia al braccio di quel briccone in guanti paglia e pince-nez che ha la fortuna di premere quel polsino contro le sue costole. Essi passarono quasi rasente a quella donna, che questa volta non li vide, o fece le viste di non vederli, e che sorrideva del suo riso incantevole al suo cavaliere, mentre gli parlava. - Hai udito che bella voce! - esclamò Pietro, premendo il braccio del suo compagno; - all'accento mi parve torinese... lo adoro tutto il Piemonte in questo momento... - Eppure veduta dappresso non è bella... - È adorabile, se non è bella! Essa non ha la bellezza regolare, compassata, che direi statuaria, e che non invidio ai modelli dei pittori; ma ha occhio che affascina, e sorriso che seduce carezzando, quando questo fascino ci può fare atterrire coi suoi brividi troppo potenti. Questa donna alta e sottile, di cui le forme voluttuosamente eleganti sembrano ondeggiare lente e indecise sotto la scelta toletta che le riproduce con tutta l'attrattiva vaporosa delle mezze tinte, ha tutte le perfezioni per poter coprire ed anche far ammirare come pregi altre imperfezioni; questa donna che ha bisogno di tutta la delicatezza e la bellezza di contorno del suo collo da inglese per non far troppo spiccare la piccolezza della sua testa da bambina; di tutta la flessibilità della sua vita per far dimenticare l'estrema sottigliezza del suo corpo; di tutta l'abbagliante bianchezza dei suoi denti per fare una bellezza della sua bocca alquanto grande, con cui ella sorride sì dolce cha sarebbe a desiderarsi di vederla sempre sorridere; che si serve di tutte le ombre, di tutti i riflessi più lucidi, più belli, più azzurrognoli dei suo magnifici capelli neri per nascondere che la sua fronte è alquanto larga ed alta del soverchio di tutta la limpidità dello sguardo dei suoi occhi, infine, per farne ammirare la pupilla di un riflesso molto chiaro; questa donna mi colpisce mille volte dippiù coll'effetto direi strano, sorprendente, poichè rubato a Dio, della sua beltà... Io non potrei giammai esprimerti l'effetto che mi fa questa bellezza, che non è tale che quasi per un miracolo, poichè non ha nulla per esserlo, ed in cui tutto sembra formare un assieme di grazia e di incanto; questa bellezza che ha bisogno di tutte le risorse della toletta, di tutte le seduzioni dei modi e dell'accento, di tutto l'incanto dello sguardo e del sorriso, per circondarsi di questo vapore trasparente... illusorio, lo confesso, che la fa bella però, che la fa adorabile, poichè sembra non farla vedere che in nube, attraverso l'incenso e l'orpello; questa bellezza che vuol essere tale a dispetto della natura che l'avea fatta comune; questa figura plastica che non ha di bello che gli elementi, direi, per divenir tale, e lo spirito creatore che fa nascere tutte le grazie di cui si circonda; che si mette allo specchio donna per sortirne silfide... maga... sirena... - To... to... to!... Pietro, amico mio, ne saresti innamorato?... - lo! - rispose il giovane scrollando le spalle, come cadendo dalla sua esaltazione, - sei pazzo! - Eppure tutti i pregi di costei non valgono un solo di Maddalena. Venti ancor più belle di lei non farebbero un angioletto così bello e perfetto qual è la piccina, come mi piace chiamarla; che pure hai abbandonato senza un pensiero. Pietro fissò uno sguardo sull'amico, poi un altro sulla signora ch'era già molto lontana, e rispose semplicemente, abbassando il capo: - Maddalena non sa neanche annodarsi il nastro del cappellino come colei. - È graziosa! - esclamò Raimondo. - Dunque ameresti dippiù una donna che avesse bisogno, per essere amata, d'impiegare prima due ore allo specchio? - Sì, lo confesso... Chiamala anche civetteria, o ciò che vuoi; nella donna che dovrei amare io vorrei tutte queste cure minute, tutte queste precauzioni delicate, tutte le perfezioni dello spirito e le squisitezze dell'educazione, tutti questi dettagli dell'assieme, insomma, che servirebbero a formarmi l'aureola della donna che dovrei avvicinare colla riverenza e il delirio dei sensi, che tal prestigio dovrebbe recarmi, poichè a riverenza del cuore io non l'ho più. Io amo nella donna i velluti, i veli, i diamanti, il profumo, la mezza luce, il lusso... tutto ciò che brilla ed affascina, tutto ciò che seduce e addormenta.. tutto ciò che può farmi credere, per mezzo dei sensi, che questo fiore delicato, del cui odore m'inebbrio, che mi trastullo fra le mani, non nasconde un verme; che quest'essere non è come il mio, debole e creta... E allora io l'amerei... un giorno, un'ora, ma l'amerei... Quanto alle altre donne, le amerò allorchè scoprirò un cuore nella donna. Pietro, dopo questa scappata, rimase muto alcuni altri secondi, aspirando voluttuosamente, colle narici dilatate, il fumo del sigaro, come se attraverso quella nube cenerognola volesse discernere le forme indecise del tipo che avea ornato di tale incanto nella sua imaginazione. Poscia, come arrossendo del suo trasporto, si mise a ridere fragorosamente, esclamando: - Che ne dici della mia tirata, Pilade? - Non è cosa nuova in te. Dimentichi troppo spesso che sei scritto sul ruolo degli studenti di terzo anno in legge, per trasportarti ai tempi in cui impiastricciavi carta. - Hai ragione; bisogna dimenticare quei tempi... - disse il giovane con una forzata allegria, che pure avea una leggiera tinta d'amarezza. - Destino! ecco la gran parola che gli uomini non sanno proferire più spesso, ma nella quale io son credente come un maomettano... Io, povero sciocco, che m'ero fitto in capo di salire le scale del Campidoglio, e raccogliervi una corona qualunque... eccomi destinato probabilmente a logorare quelle dei tribunali, e di corone non si parla più... fossero anche di cavoli. Se gli uomini sapessero far valere questa parola quanto essa lo merita, l'incolpabilità delle azioni umane rimarebbe sugli scritti dei penalisti: ecco che, almeno una volta, parlo da saggio... - Ed anche il merito delle azioni umane, in tal caso... E tu sei superstizioso in quest'idea? - Al fanatismo! - Ma se tu fossi destinato ad amare quella donna, che non hai veduto che due volte, in passando?... Pietro cominciò dallo scrollare le spalle, al solito; indi rimase alcuni minuti in silenzio, e disse tristamente, come se quell'idea gli facesse pena o paura: - Chi lo sa!?...

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Ella gli sorrideva del suo riso da sirena; e di quando in quando, allorchè il conte rimaneva come stordito nel fascino di quelle seduzioni mirabili di voluttà, ella gli prendeva le mani colle sue manine affilate e bianchissime, e se ne lisciava la fronte, e le nascondeva fra il setoso volume dei suoi capelli, e se le posava sugli occhi e sulle labbra, ma lentamente, con quel suo abbandono ch'era irresistibile, come se avesse voluto dare il tempo a tutte le emanazioni inebbrianti che scaturivano dai suoi pori di penetrare in lui sino al midollo delle ossa. Raimondo, quasi spaventato, pel suo amico, da quella vista, fu scosso dai singhiozzi di lui che prorompevano soffocati come singulti; e, riponendo tristamente nell'astuccio l'occhialetto, disse con tuono di chi prende una risoluzione: - Via, Pietro, è tempo di partire! Tua madre ti attende a casa mia! - Mia madre!... - esclamò il giovane con un sussulto che dimostrava come quella corda vibrasse ancora potentemente nel suo cuore; mentre tutte le altre erano allentate e sconvolte. - Sì, tua madre, spaventata dalla tua estraordinaria tardanza, che ti cerca da me come una pazza. - È tanto tardi dunque? - domandò egli come parlando io sogno. - Son le tre fra poco. - Non credevo fosse sì tardi... Hai ragione, andiamo via... bisogna essere uomini! Poscia si fermò in mezzo alla strada, quasi non avesse avuto la forza di staccarsi da quel punto. - Ben dicesti: bisogna essere uomini e non fanciulli! - replicò Raimondo, dando al suo accento la possibile espressione e strascinandolo in qualche modo per forza, mentre Pietro si lasciava condurre a capo chino come un ragazzo.

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