Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Le belle maniere

180267
Francesca Fiorentina 1 occorrenze
  • 1918
  • Libreria editrice internazionale
  • Torino
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
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L'autrice, che si nasconde sotto uno pseudonimo, ha molta facilità e abbondanza. Si direbbe che l'autrice nasconda la sua arte sotto la copia grande delle parole, anzichè rivelarla, e rivelarla in tratti salienti. Quel lavoro di scelta che ogni autore ha da fare nelle proprie cartelle bisogna qui farlo sulla stampa. Ma non lo si fa inutilmente:c'è in queste pagine una bontà diffusa, che rasserena e consola, un'esperienza della vita, e della scuola, che illumina tanti episodi bene osservati e narrati, un'umanità ridotta, se si vuole, ma sinceramente tutta femminile, che attrae e che piace. - La Stampa. 8 1915 LUIGI AMBROSINI. Francesca Fiorentina parla e scrive intorno ai più delicati argomenti con isquisitissimo garbo. Il volume Cercando la via. . . , non solo è un opera materiata di viva coltura, ma anche compenetrata di dolcezza e soavità. CARLO CALCATERRA del R. Istituto Nautico dl Cagliari . . . . Ho provato sincero rammarico quando giunsi al termine del libro Cercando la via. . . , e mi sono augurata che il libro potesse avere ben presto altri fratelli, per il bene delle giovinette italiane. L'Autrice, vera madre educatrice, ha saputo - cosa difficilissima - nobilmente educare e istruire dilettando, tanto saggi e preziosi sono i consigli dati in una forma semplice e varia, briosa e vivace in una lingua ricca, propria e pura. BEATRICE CALISSANO della R. Scuola Normale "Domenico Berti"di Torino. Ho letto con vero piacere il suo libro Cercando la via. . . e per esso ho rivissuto la mia vita di studentessa:vita riprodotta da Lei con tanta naturalezza ed efficacia. Quanti ricordi, per se stessi insignificanti, ma pur tanto graditi, quante impressioni dimenticate, quanti svariati sentimenti Ella fa risuscitare in chi la scuola ha lasciato da vari anni! E le giovinette che studiano, con quanto diletto leggeranno i suoi vivi racconti, le preziose lettere nelle quali sa dare tanti efficaci insegnamenti e consigli: e le vedo sorridere o arrossire delle loro buone qualità o dei loro difettucci vedendosi raffigurate con tanta efficacia rappresentativa. MARIA RIPANI Direttrice delle Scuole Normali di Fermo. Preludia alla sua opera educatrice col canto della donna giovane e bella, simbolo della vita attiva della Divina Commedia e prosegue quest'opera sua col sublime ideale che della donna aveva il divino Alighieri, il quale supera in modernità il concetto di alcuni studiosi del nostro tempo. Come il De Amicis, la chiara scrittrice, a trovar la via che va cercando, si trattiene per un anno scolastico colle allieve e ne delinea a rapidi tocchi le varie indoli. Senza saccenteria, senza salire, come suol dirsi, in cattedra, alla buona, ma pur sempre in una lingua viva razzente, che tutto dice e come vuole lo dice, con bozzetti o con intermezzi, se vogliamo, poetici, o in forma epistolare imparte salutari insegnamenti sull'ordine, sulle belle maniere, sulla storia, sul modo di studiare, sulla moda, sull'esattezza, sull'ambizione e non si schermisce di affrontare il gran problema dell'istruzione della donna, che vuole bensì colta, ma pur sempre donna, donna di casa e cristiana per giunta. Oh al posto di tanti altri libri, pascolo favorito della crescente generazione, quanto starebbe meglio questo! Lo regalino i babbi e le mamme ai loro figli e alle loro figlie e vedranno che ci guadagneranno un tanto e troveranno una via retta e sicura, che li condurrà al bene. Prof. FEDERICO CALVAUNA. E' tanto difficile trovare libri adatti a quella classe di giovinette che si danno agli studi! Chi si dà a questo genere di letteratura deve conoscere a fondo l'anima delle persone a cui si rivolge, deve saper penetrare in esse con delicatezza e discrezione per potervi sviluppare germi preziosi destinati a dare un tempo frutti copiosi ed abbondanti. Ora l'A. dimostra di avere una profonda e vasta conoscenza della psicologia femminile. L'atmosfera e l'ambiente in cui vivono le giovani studenti richiedono per loro dei libri speciali che sappiano infondere nelle loro anime e nelle loro intelligenze i sommi concetti della morale e della scienza vera senza che ease se ne accorgano anzi procurando loro un'ora di sollievo e di ricreazione così necessaria in mezzo agli studi opprimenti che sono frutti degli sbagliati metodi di istruzione addottati nelle scuole pubbliche. Questo libro della Fiorentina risponde in modo esauriente a tutte queste esigenze; dobbiamo adunque salutarlo con gioia come un ausiliario prezioso a tutte le opere che si occupano di questa classe di giovinette. Ciò che contribuisce a renderlo più apprezzabile è la purezza della lingua, altro pregio tanto difficile a trovare ai nostri giorni in cui l'imbarbarimento della lingua va sempre aumentando. Francesca Fiorentina ci fa gustare la prima armonia della nostra bella lingua e questo pregio è certo una raccomandazione di più per un libro da mettersi in mano a delle studenti. L'Azione Muliebre - 1915, Anno XV, 12 - 3 - Consiglierò certamente il libro Cercando la via. . . alle mie alunne, come il libro di lettura scritto bene, dilettevole, istruttivo, vario di contenuto, incitante efficacemente al bene. . . Auguro al volume l'accoglienza più lusinghiera e credo sinceramente che la meriti. MARIA LUCAT della Scuola Normale - Savona. "Cercando la via. . . è un bello e buon libro. All'Autrice la mia più rispettosa ammirazione per l'opera sua fervida e profonda". GIAN BISTOLFI. Or fan tre anni. Il Politeama Regina Margherita sprizzava fiamme di luci e di gemme:tutta la Genova intellettuale era accorsa a recare tributo di applausi e di fiori alla divina Virginia Reiter che, in occasion della serata in suo onore, affascinava coi nobilissimi incanti della sua grande arte, sotto le spoglie di mamam Colibry. Ci eravamo raccolti nell'atrio a commentare le sensazioni dolcissime, Alessandro Varaldo, Pastonchi, Gozzano, Pansieri, il mio povero fratello Giuseppe - il forte e gentile poeta del Sistro d'oro così immaturamente rapito all'arte - Antonio Pastore ed io. Precisamente in quella sera Antonio Pastore - l'autore di Socrate e di Stami di vita - rivolse a noi tutti gentile invito di recarci a visitare la sua scuola; insistendo specialmente con Alessandro Varaldo perchè dalla visita ai bimbi radunati in gaio sciame, avesse a trarre argomento da racchiudere in qualche pagina della sua prosa preziosa. La risposta fu breve come. . . "il motto di un anello o. . . come l'amor di donna "per dirla con l'infelice amante di Ofelia. "E' un campo oramai falciato dal mago De Amicis e non v'è più nulla di nuovo da poter dire"E tutti fummo della stessa opinione. Or sono passati tre anni; e Francesca Fiorentina col suo libro per le giovinette Cercando la via. . . (Torino - Libreria Editrice Internazionale, 1914)ha saputo trovare la. . . medesima per farmi mutare pensiero; procurandomi nuove e sane sensazioni dell'anima, riportandomi ai dolcissimi giorni della prima giovinezza oramai lontana, facendomi rivivere un'ora deliziosa di quei sogni soffusi d'una nostalgica dolcezza, pieni d'incanti e di speranze. Cercando la via. . . è un libro che fa bene all'anima:è un bagno d'ossigeno che ci ricrea e gioconda lo spirito. Siete mai entrati, durante un'afosa giornata d'estate, in una chiesetta romita, sperduta fra le campagne? Avete provato quel delizioso senso di fresco, di silenzio, di pace, che spira dai muri candidi, dalle alte finestre velate di pampini, mobili ad un alito di vento, che riempiono tutta la chiesa di un tremulo riflesso verde? Nell'aria c'è una fragranza sottile d'incenso e di rose appassite; i lini dell'altare odorano ancora di spigo, nel silenzio giunge a tratti un frullo d'ale, un cinguettío di passeri, il tubare d'una colomba, l'eco d'una lontana voce nei campi. Questo senso di riposo e di pace spira nel volume di Francesca Fiorentina. Ella è artista delicata e gentile che sa ascoltare la voce delle cose, appaiano pure piccole ed umili; e con semplicità ch'è finissima arte, casella e racchiude nella trama della purissima prosa e nell'armonia del verso scorrevole, melodioso ed elegante gli affetti più semplici e puri. La prefazione dice tutto il proponimento dell'autrice:parla alla mente e al cuore delle giovinette con una voce amica:non è l'arida precettista che posi a voler scrivere il manuale della perfetta normalista:ma una vera donna e vera e buona mamma per giunta, che, passata attraverso l'aspro cammino degli studi classici, sente di essersi mantenuta donna; e che - son parole sue - "vorrebbe dare alle giovinette il filo che le aiutasse a trovare la strada, ma non con astuzie, non con inganni, non con artifizi:un filo che fosse di luce e le conducesse senza far danno alla serenità". L'autrice vive nel suo libro un anno di vita scolastica con le giovinette: nella classe, in collegio; prova con loro ansie e speranze, gode delle loro virtù:ne studia con carità e arguzia i loro difetti che corregge amorosamente, con parola sobria e serena. Tutto ciò in brevi capitoli che sono mirabili quadretti d'ambiente e che rivelano nell'autrice una profonda conoscenza della psiche umana:e lo stile spigliato, elegante, che sa non riuscire noioso; la lingua pura, sebbene talvolta un po'troppo risciaquata in Arno, la elevatezza di concetti, la diritta e giusta visione delle cose, rilevano nell'Autrice una stoffa oramai elaborata a correr l'alea in lavori di maggior mole nel campo della letteratura. Certi tipi sono così perfettamente miniati nelle pagine di Cercando la via che sembrano saltar fuori dalle righe per sedere con noi e in mezzo a noi:la professoressa Stecchetti ad esempio è cosi palpitante di vita e - forse - d'attualità che basta, come tipo indovinato, a farci conoscere quanto valga Francesca Fiorentina come felicissima scrittrice di quelle"novelle"che ora, purtroppo, van diventando rare. Gigetto, Scemetto, la baita di Cianin, il pastrano del maestro, sono gemme incastonate nel cielo di Cercando la via. . . Sono novelle piene di pregi e altrettante rivelazioni. Quanta delicatezza di sentimenti ne La nostra pelle! Forse ne Le due sorelle l'ideale del sacrifizio è troppo alto per essere contenuto nella odierna umanità; e troppo. . . cauto è il buon frate pittore. . . Ma dinanzi ai pregi di Cercando la via. . . questi appunti non sono che nèi sulle guance di una bella dama del settecento. Se la tirannìa dello spazio non ci urgesse vorrei dir meglio e più a lungo dei meriti di questo libro che non dovrà mancare alla biblioteca delle nostre signore intellettuali. Troveranno in esso un buon amico, un consigliere devoto, zelante, affettuoso. Francesca Fiorentina è pure un'affettuosissima, una dolcissima, una santa mamma. Dal suo cuore materno scendono fiumane d'affetto, che commuovono e incantano! Io non la conosco che attraverso le pagine del suo volume:ma non posso rappresentarla agli occhi della mia mente che circondata dai suoi figli:e tanto è il profumo gentile d'amor materno, che esalano i suoi scritti ch'io - col pensiero, reverentemente, purissimamente, religiosamente, - bacerei le sue mani, che devono essere bianche e sottili come quelle della mia mamma. Il Lavoro, Cenova 13 maggio 1913 GUIDO DE'PAOLI. E' questo il titolo d'un libro testè licenziato alle stampe da una esimia professoressa di una tra le industri e graziose cittadine della bella occidentale ligure riviera. Il volume è dedicato alle allieve maestre che, traverso gli studi faticosi imposti da faticosissimi programmi, cercano la via per inoltrarsi nel delicato ufficio dell'insegnamento. Ed è un lavoro denso d'idee e di pensieri. Le une e gli altri attinti, più che dall'arduo, arido studio dei libri, dall'osservazione serena e quotidiana della vita scolastica, la quale è rappresentata in una serie di bozzetti graziosi, genialissimi, espressivi, riproducenti i pregi e i difetti d'un ambiente che attende ancora non poche modificazioni, quale è appunto l'ambiente morale e intellettuale caratteristico delle scuole normali. Qua e là il libro arieggia un tantino il Cuore del De Amicis:la materia vi si rivela più allargata, più ricca di varietà di contrasti, di episodi. Tuttavia lo spirito intimo che domina nel libro è tutto pascoliano, uno spirito che tranquilla, eleva, riposa in un'atmosfera satura della soave poesia delle piccole cose, fulgida di luce e di bellezza. Lo stile garbato e signorile, il pensiero sempre rigorosamente sintattico, la lingua pura, vivace, agile, il periodare serrato, robusto sono doti che accrescono pregio al volume, da cui le allieve maestre possono ricavare ottimi indirizzi e opportuni consigli. Tutto ciò che è inerente all'età giovinetta, nella stagione degli studi, tutto è vagliato, esaminato, discusso dall'egregia autrice, col fine tatto della donna dal pensiero aristocratico, con quel buon senso pratico che, purtroppo, oggi le non infrequenti indigestioni di cultura male assimilata tendono a soffocare. Tutti i passaggi, or lieti, or bruschi del pensiero delle giovinette alle prese con le fatiche, sovente soverchie, dello studio sono analizzati negli effetti che danno impronta all'animo delle giovinette che muovono i primi passi nella vita, così che chi legge, trova, nei differenti episodi, qualche momento identicamente vissuto, e identicamente attraversato e superato. Epperò quale e quanta messe di pensieri, d'insegnamenti, di conclusioni! Quante lezioni di condotta pratica, e di praticità nella condotta, il tutto esposto con una semplicità che attrae e che solo è prerogativa dei provetti! L'autrice è toscana, nè smentisce la sua nazionalità, il suo temperamento d'artista. La grazia, l'arguzia, l'eleganza tutta toscana, sono diffuse nel libro. La descrizione del paesaggio ligure che s'affaccia tratto tratto, col grande arco fatto dal limpido zaffiro, con le marine inghirlandate di aranceti, dà l'illusione d'un paesaggio primaverile, in cui si agitino e vivano delle creature cui l'età dei sogni e delle speranze sorride e allieta, come sorridono al maggio i cespi di rose tenere, profumate, anelanti alla vita. Così Francesca Fiorentina tesse la sua ghirlanda, scegliendo fiore da fiore, additando alle giovani lettrici, che cercano la via, un sentiero dove, anche tra i primi, erge la sua corolla che mai non avvizzisce, l'eletto fiore della speranza e della virtù. Prof. GIUSEPPE MALATESTA. La scrittrice di questo libro si rivolge alle giovinette durante un anno scolastico, che può essere l'ultimo, dopo il quale esse entreranno nella vita delle loro famiglie, per seguire ciascuna la vita indicata dalla propria vocazione. Le intrattiene, mese per mese, con narrazioni e scene della vita scolastica femminile, onde trae opportunità d'insegnamenti educativi, e con novelle e poesie informate a gentili e nobili sentimenti morali e religiosi. V'è gran ccpia di sagge osservazioni pedagogiche, ammonimenti e riflessioni di moderazione e buon senso contro gli eccessi della"femminilità"e del"femminismo"benchè, qua e là, si desideri maggior precisione di dottrina p. es. sulla carità cristiana verso gli eretici(pag. 150 - 153), e maggior esattezza in qualche espressione(p. es. altruismo invece della parola cristiana carità). La lingua è pura e corretta e lo stile garbatamente vivace e attraente. Civiltà Cattolica(quad. 156:4 - 9 - 915). Cercando la via. . . di Francesca Fiorentina, è un riuscitissimo libro di letture originali, destinato alle giovinette. Scritto con una rara mondezza veramente italiana di espressioni e con una rigida uniformità di morfologia e di sintassi, questo libro è evidentemente destinato a diventare un libro di lettura delle scuole femminili, proponendosi gli scopi ottenuti nelle scuole maschili dalla«Età preziosa»dell'indimenticabile De Marchi. E fra tante antologie, magazzino di grandi e di mediocri, emporio qualche volta mostruoso di tutti i generi letterari di ogni età, crediamo che il Cercando la via. . . avrà buona fortuna, anche perchè l'autrice, accompagnando le giovinette ad osservare se stesse nel piccolo mondo che le circonda, mostra una esperta dirittura di giudizio e, insieme, saldezza di sentimento e affettuosa penetrazione dell'anima femminile. Noi non coltiviamo, per principio, la pruderie, ma il rispetto che l'autrice ha per il suo piccolo pubblico, la commozione che è nelle sue parole, la bontà previdente che traspira dai suoi consigli sono doti commendevolissime. Le giovinette troveranno da educarsi e da dilettarsi. La Tribuna Illustrata. Pochi sono i libri che si possono dare in mano alla gioventù femminile, alla cui avidità di lettura è necessario opporre circospette barriere affinchè non ne venga guastato il delicato sentire, e giovino alla formazione e all'educazione del cuore e della mente. Poichè abbondano le opere dedicate alla donna di casa, alla sposa, alla madre, ci voleva il libro delle giovinette che frequentano la scuola, il libro che esponendo la loro vita interiore ed esteriore, si mettesse accanto ad esse a risvegliar pensieri, suggerir considerazioni, proporre giudizii, con una moralità emergente da tutta la tessitura delle notizie, con una eclettica varietà di forme e con un linguaggio italianamente puro. Questo difficile compito venne assunto dall'A. signora fiorentina di nascita e nutrita di buoni studi, conoscitrice amorosa della gioventù alla quale dedica, nella Scuole medie, un po'del tempo lasciatole libero dalla famiglia; il suo nuovissimo «Cercando la via. . . »sarà letto con piacere e con profitto da tutte le giovinette d'Italia, che vi troveranno sapientemente alternate scene della vita e della scuola, pensieri, considerazioni sul costume, novelle, poesie, ecc. La voce del Cuore, Mestre, 1 - 3 - 1915. Di questo libro che meritò una così lusinghiera accoglienza dal pubblico e tanti favorevoli giudizi di persone autorevoli, si è già parlato con lode su questo giornale. Siccome però il bene che esso può fare al cuore ed alla mente di tante fanciulle ci pare grandissimo, sentiamo il bisogno di ricordarlo ancora, raccomandandolo a quelli che possono farlo conoscere e diffonderlo in mezzo alla gioventù femminile. Porta, come motto, sulla copertina i dolci versi di Dante: . . . . e vo movendo intorno le belle mani a farmi una ghirlanda (PURG. XXVII). E una bella ghirlanda si formeranno davvero le giovinette, che sapranno trarre da questo libro, e serbarli gelosamente per la vita, gli insegnamenti buoni e i nobili sentimenti dei quali è così ricco. La forma semplice, elegante e varia, ne rende la lettura oltre che eminentemente efficace per l'educazione, dilettevole e cara. Se dovessimo consigliare un bel dono da offrire ad una fanciulla non esiteremmo a consigliare Cercando la via. Giornale di Parma, 8 - 4 - 916. E un buon libro, scritto con alto intelletto di amore. Si direbbe di una mamma, tanto vibra in tutte le pagine di quella tenerezza sollecita di affetto che solo sa dare il fatto della maternità. E la vita di un anno, vissuta con giovinette che frequentano le scuole superiori. La scrittrice entra con loro nella classe, nel collegio, le accompagna nella strada fra la casa e la scuola, per sentirne, provarne le ansie e le speranze, per godere di qualche loro virtù per sorprendere qualche loro difettuccio, e, con loro, cercare il mezzo di corregerlo. Per farsi vedere di buon occhio racconta anche qualche novella; novelle di fattura squisita, piene di una sincerità amabile e delicata. Cercando la via. . . è uno di quei libri che hanno tutto l'interesse di un piccolo romanzo, e la utilità di un trattato di educazione. Non alla vita fantastica che seguono tante, la scrittrice vuol preparare le giovinette:ma alla reale, a quella vita che è dovere. Libertà, Sassari, - 10 - 4 - 1915.

Pagina 283

Le buone usanze

195497
Gina Sobrero 1 occorrenze
  • 1912
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
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Questo libro non è fatto essenzialmente per i milionari, onde è bene accennare a certe situazioni, che certo non sorgerebbero se quelli che vivono nella così detta società, nuotassero tutti nella ricchezza e nella abbondanza. Così, per esempio, può capitare ad un giovanotto che porta la sua carta da visita, di trovarsi, aperto l'uscio, faccia a faccia, colla padrona di casa, la quale sia stata costretta da una combinazione qualunque ad esercitare per un momento le funzioni della sua cameriera o del suo domestico; come dovrà regolarsi? Dirà subito lo scopo della sua venuta e, dopo avere cercato con uno scherzo, una parola graziosa di distruggere l'imbarazzo reciproco della situazione, rimetterà in tasca la carta; anzi, in vista di questo caso possibile, è prudenza che egli non la tenga in mano. Se la signora ha dello spirito, non sarà mortificata affatto della circostanza, e lo inviterà ad entrare o venirla a visitare "nel suo giorno,,. Un giovanotto non visita mai una signora senza esserne autorizzato dal marito o da lei stessa, nè a casa sua, nè in palco al teatro. Entrando nel palco di una signora sola, si siede davanti a lei, tiene in mano il cappello e discorre con garbo, ma non troppo forte da disturbare quelli che vanno a teatro per lo spettacolo, ed evita di pigliare quegli atteggiamenti languidi che compromettono una donna; se vi è il marito questi gli cederà il posto; se vi sono più signore e molti visitatori, egli cede il posto suo ai nuovi venuti per non obbligare tutti a stare a disagio. Può applaudire gli attori, ma non con troppo entusiasmo, altrimenti sarebbe una mancanza di riguardo alla dama che lo ospita e che ha diritto per il momento a tutta la sua attenzione. Può offrirle dei dolci, dei fiori, ma non si offre di accompagnarla al foyer, se c'è il marito od una persona di età più avanzata, a cui spetta questo diritto; se rimane sino alla fine dello spettacolo può aiutarla a mettersi il mantello e le offre il braccio, che ella autorizzata anche a rifiutare. Il giovane si mostra assai scortese se, ricevuto da una signora, insiste nel fissare coll'occhialetto un altro palco, scherza sulla ingenua ammirazione della sua ospite, o si compiace di contraddirla in virtù di una sua maggiore conoscenza dell'arte interpretata. Egli può avere la maggiore simpatia per un'altra spettatrice o per una attrice, ma dal momento che entra in un palco, deve dimenticarla per occuparsi intieramente di quella che accetta la sua compagnia. Per fare le sue visite nei palchi è meglio che scelga gli intermezzi. Se sta in poltrona, si dimostra il più grande in educato tenendo il cappello in testa, appoggiando il capo in atto di noia o di sonno sulla spalliera della sua sedia, o posando i piedi sulla sedia della persona che gli sta davanti, sia pur questo un uomo e magari un amico. È assai di cattivo gusto l'abitudine che hanno alcuni di mostrarsi assonnati e indifferenti davanti all'esecuzione di una produzione artistica, come è altrettanto di cattivo gusto un entusiasmo esagerato quando una ballerina prova l'agilità delle sue gambe, la perfezione delle sue membra; coloro che si comportano così, fanno semplicemente la figura di sciocchi, perchè, mentre anche un contadino è capace di apprezzare il trionfo della plastica e della destrezza, soltanto una persona intelligente sa apprezzare un'opera d'arte e d'ingegno. Un giovanotto che accompagna delle signore al teatro, deve addossarsi tutte le spese della serata e, senza mostrarsi importuno, provare che non gli è di peso il favore che gli fu concesso. Finito lo spettacolo le accompagna a casa a piedi o in vettura, e le ringrazia del privilegio accordatogli. In America egli è quasi obbligato di offrire alle sue compagne la cena; le nostre signore sono più discrete, egli quindi si accontenterà di esprimere il desiderio che esse accettino un rinfresco. Ho detto che entrando in una tranvia chiusa egli saluta quelli che lo hanno già preceduto; nelle carrozze aperte non è tenuto a questa cortesia; spegne però sempre il suo sigaro, e, se dopo di lui, entra una donna, giovane o vecchia, bella o brutta, ben vestita o dimessa, cede il proprio posto salutando con un leggiero inchino la persona a cui si usa riguardo. Uscendo si scopre nuovamente il capo e può, senza ledere la sua dignità, far fermare il veicolo: tutti i suoi compagni di viaggio gli saranno grati di non esporli alla possibilità di uno dei tanti e troppo comuni spettacoli di cadute e altri accidenti. In ferrovia è uguale la legge: l'uomo entra nello scompartimento salutando; depone le sue valigie e non accende il sigaro o la sigaretta senza chiederne il permesso, se vi si trova una signora. È vero che esistono, per comodità di tutti, gli scompartimenti pei fumatori, ma molte volte una signora, o per far compagnia al marito, al fratello, o per errore, vi sale essa pure, e un uomo dà prova di educazione non prevalendosi del diritto che gli concede la società ferroviaria e che nessuno gli contesta. La stessa regola va osservata sul ponte di un battello a vapore, in una diligenza, dovunque infine egli può urtare la giusta pretesa altrui alla comodità, ai proprii agi. Un uomo non viaggia mai in abito nero, nè in cappello a cilindro; correrà il rischio di essere scambiato per un deputato o per uno di quei forastieri che vengono in Italia ad imporci la musica dei dollari o delle piastre, e che, molto accurati nei loro paesi, si permettono tutte le libertà quando hanno passato le nostre Alpi, due classi di ugualmente spiacevoli compagni in viaggio. Vi sono particolari della moda che hanno avuto il privilegio di rimanere sempre immutati, così un uomo non fa visita ad una signora coll'abito col quale attende ai proprii affari; prima delle sei veste l'abito chiuso, redingote; dopo, se vuole essere elegante, l'abito a coda, anche se il pranzo a cui è invitato è famigliare, se la serata è intima. La padrona di casa gli sarà grata del riguardo, ammesso pure che per cortesia mostri di dolersi del disturbo che si è preso. Per i militari vi sono misure disciplinari che tolgono la necessità di consigli; essi però faranno bene mostrandosi cortesi anche coi borghesi, perchè sono in parte dovuti alla loro albagia gli urti troppo frequenti e altrettanto spiacevoli. Invitato ad un ballo, un giovanotto si presenta con tutta l'eleganza che consiglia la moda; saluta la padrona di casa, che è obbligato di invitare per un giro, se ella balla ancora, e se vi sono delle signorine, è tenuto di farle ballare a qualunque costo; anche se sono brutte, o se non conoscono perfettamente l'arte di Tersicore. Può servirsi al buffet, mangiare alla cena col bell'appetito della sua gioventù, ma eviti le volgarità che commettono alcuni, di giungere proprio per la cena e di dire apertamente che quello è il più bel momento della serata. Non ho bisogno di consigliarli a non eccedere; non siamo in Inghilterra, dove un giovane non si sente elegante se non ruzzola, alla fine di un simposio, sotto la tavola. Non commetta la scortesia di dimenticare la signora o signorina che ha impegnato per un ballabile, ma se a questa succede di dimenticarlo non si mostri troppo offeso, rischiando di procurarle un rimprovero dai suoi, o i tristi effetti di un chiasso prodotto per causa di lei. Egli ha l'obbligo di visitare la signora che lo ha invitato, prima che siano passati otto giorni. In un ballo privato può, durante il cotillon, invitare anche una signora che non conosce, ma dopo deve, o presentarsi a lei per mezzo del marito, del padre o della madre, oppure, ed è più corretto, deve pregare la padrona di casa a presentarlo. Ad un ballo di beneficenza, di sottoscrizione, di circolo, non deve assolutamente invitare una signora che non conosce; si esporrebbe ad un rifiuto giustificato per quanto mortificante. Conosciuta una signorina, le chiede il favore di essere presentato alla madre o a chi l'accompagna; trattandosi di una signora può fare a meno di intermediario profferendo in persona il proprio nome al marito di lei; fortunata combinazione questa che hanno gli uomini per bandire le difficoltà dalle relazioni sociali. Del resto il fatto delle presentazioni, che è pure un capitolo della vita di società, si va semplificando, tant'è vero che si generalizzano assai quelle abitudini che altra volta erano solo prerogativa dei militari, e uno studente può oggi farsi conoscere dal professore che incontrò in un ballo, una festa, in una riunione qualunque; e un impiegato si presenta al suo capo senza ledere per nulla i doveri disciplinari, il rispetto dovuto ai superiori. Per regola generale, se il giovane non balla, dia retta a me, non accetti inviti; glie ne saranno grate la padrona di casa, di cui non ingombrerà le sale, le ballerine, che potranno scusare colla mancanza di cavalieri la parte di tappezzeria che tocca sovente a loro di fare; senza contare poi che l'ozio delle sue gambe gli permetterebbe una serie di osservazioni poco benevole; di critiche dannose a quelle a cui egli deve sempre, se non altro, del rispetto. A questa regola fa eccezione chi possiede qualche talento naturale che gli permette di rendersi utile in qualche modo, e chi ha una speciale vocazione di distrarre e divertire le signore che non ballano. Un giovanotto, ballando anche nella più stretta intimità, non si toglie mai i guanti; posa il cappello; non stringe troppo la ballerina, per non sciuparle il vestito, nè la tiene lontana fino ad obbligarla ad una fatica per seguire il ritmo della danza. Ora è in voga il minuetto che richiede un po' di leziosaggine e molta sdolcinatura; i nostri uomini, per l'indole dei tempi, non sono più i muscadins che ci immaginiamo in parrucca incipriata, e abito ricamato, debbono quindi supplire alla favorevole cornice che altra volta offriva loro la moda, con una grande abilità e con una straordinaria dose di grazia. In massima però io consiglio l'uomo che non sa ballare molto bene, a non invitare mai una signora, per non farsi una nemica. Se ha la fortuna di saper suonare, cantare e accompagnare col piano od altro strumento, ne usi senza troppa parsimonia, ma non ne abusi; trattandosi di accompagnare una signora sappia farme emergere l'abilità, ecclissando la propria. Se si fanno i pochi simpatici giuochi di società, abbia i maggiori riguardi, tanto più se vi sono signorine, e rinunzii pure a fare sfoggio di spirito per mostrarsi, anzi tutto, compito cavaliere. Se fuma sigari o, disgraziatamente, la pipa, abbia molta cura di risciacquarsi bene la bocca prima di recarsi ad un ritrovo mondano; sono antipatiche le signore che cadono in deliquio per simili inezie, ma sono villani gli uomini che non le evitano. Parlando con signorine sia molto riguardoso nei suoi discorsi, non le esponga o ad arrossire, o a far pompa di teorie e di idee poco adatte a loro. Se, dopo un ricevimento serale, accompagna a casa delle signore, offra sempre il braccio alla maggiore di età; di giorno non è d' uso questa galanteria e di sera nemmeno è un obbligo, è però una delicatezza di cui gli si terrà conto. In chiesa, un giovanotto si comporta in modo adatto alla solennità del luogo; io non scrivo della morale; quindi non gli do consigli; però, sia egli scettico o credente, quando entra in un tempio, rispetti le convenienze, si scopra il capo, faccia insomma tutto quello che impone il rito della religione propria o dell'altrui, ed eviti di disturbare con stupide pretensioni gli altri. Se la sua visita ha uno scopo puramente artistico, eviti l'ora delle funzioni sacre; accanto alla sua indifferenza, vera o apparente, vi sono sincere credenze che hanno il diritto di essere rispettate. Sono assai sconvenienti quei giovanotti che vanno in chiesa solo per attrarre l'attenzione di una donna o delle donne; tanto ampio il mondo tanto vasto il dominio riservato all'amore e alla galanteria, che non mi pare necessario invadere e turbare la solennità di un luogo sacro. Un uomo che accompagna una signora a messa le porta il libro, se è molto intimo; le offre, se è credente, l'acqua benedetta; poi l'aiuta a trovar posto; cede il suo in ispecie ad una persona d'età avanzata; verso una donna è sempre tenuto a questa cortesia. All'uscita dalla funzione segue la sua via; niente di più indiscreto che quelle schiere di bellimbusti sfaccendati che stanno aspettando la sfilata delle devote all'uscir dalla chiesa. Presso altri popoli limitrofi, come per esempio in Francia, un giovinotto ha doveri mondani, dirò, relativi a certe funzioni religiose; riceve le signore alla porta del tempio, le accompagna a posto; alla questua, ecc., ma da noi, che siamo in certe cose molto più semplici, questi usi sono sconosciuti, quindi è inutile parlarne. Adattarsi sempre all'ambiente è il mezzo di vivere bene, e un giovinotto, trasportato per differenti vicende della vita fuori patria, se è educato, se ha spirito d'osservazione, sa in pochi giorni uniformarsi alle usanze che trova.

Pagina 40

Le buone maniere

202415
Caterina Pigorini-Beri 1 occorrenze
  • 1908
  • Torino
  • F. Casanova e C.ia, Editori Librai di S. M. il re d'Italia
  • paraletteratura-galateo
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Pagina 71

Giovanna la nonna del corsaro nero

204725
Metz, Vittorio 1 occorrenze
  • 1962
  • Rizzoli
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
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"Se vuoi bere acqua, ecco la Chusques la quale è una graminacea che contiene nei suoi culmi acqua fresca e dolce in abbondanza." "Acqua!" ripeté Nicolino, facendo una smorfia. "Se non ti piace l'acqua, ecco qui l'Agave cocui che fornisce un liquido zuccherino fermentante da cui si ricava un liquore fortemente alcoolico..." "Andiamo un po'meglio!" disse Nicolino. "E, di' un po': quel tipo di pera che cresce su quell'albero, si può mangiare?" "Quella pera" disse Battista "è un Avocato..." "Vuoi dire che da queste parti le pere studiano legge?" domandò Nicolino abbrutito. "E che se uno commette qualche reato si fa difendere da una pera?" "Avocato, non avvocato... È la corruzione del nome indigeno Aguacate... Sì, ha un ottimo sapore, ma quelle lì non credo che potresti mangiarle..." "Perché?" "Come puoi vedere, i rami dell'albero sono fortemente intrecciati con quelli di quell'albero del caucciù... Ciò costituisce una specie di innesto naturale..." "Cioè?" "Non credo che tu abbia voglia di mangiare delle pere di gomma! Di quelle che servono per..." "Oh, no, no!" si affrettò ad esclamare Nicolino, spaventato."Vuol dire che mi accontenterò di quelle castagne con quel liquorino..." Si avvicinò all'Artocarpus per coglierne qualche frutto, ma indietreggiò vivamente avendo visto qualche cosa fra i cespugli. "Là!" esclamò, balbettando come gli succedeva sempre quando aveva paura."Una ti... ti... ti..." "Una tignola?" domandò Battista."Ma no... Per quanto piccolo sia non si può confondere con una tignola... È un uccello mosca o colibrì..." "Una ti... ti... ti..." "Una tinca? Impossibile, in piena foresta vergine... Forse sarà un Cuiù-cuiù, come gli indigeni chiamano un pesce della famiglia dei doralidi e che vive tanto nell'acqua quanto sulla terraferma..." "Una tigre! Là! Là!" e Nicolino indicò un'enorme belva che avanzava strisciando verso di loro. "Macché tigre!" esclamò Battista, alzando le spalle con aria di sufficienza. "Non vedi che non ha le strisce?" "Sarà una tigre à pois!" "Non esistono tigri à pois. Quello, se lo vuoi sapere, è un giaguaro, cioè una tigre americana..." "Mangia l'uomo co... come quella africana?" domandò Nicolino tremando. "Certo" rispose Battista con calma. Ci ripensò quasi subito e spiccò un enorme salto in aria perdendo completamente la sua dignità. "È vero!" esclamò. "Mangia l'uomo come quella africana! Scappiamo!" Si misero a correre disperatamente verso destra, ma si fermarono di colpo avendo sentito provenire dal folto degli alberi dei rulli di tam tam. Nel medesimo tempo, da dietro i cespugli sbucarono le facce dipinte di alcuni guerrieri indiani che vedendo i due si scagliarono contro di loro lanciando urla selvagge. Nicolino, per la paura, lasciò cadere la spada di Giovanna gridando: "Mamma mia!" "Gli indiani!" esclamò il maggiordomo. "Presto, corriamo dalla signora contessa!" Attraversarono un lembo di foresta correndo a perdifiato e piombarono sulla spiaggia, gridando: "Signora Giovanna! Signora contessa...?" "Per le trippe del diavolo, che vi succede?" domandò Giovanna, balzando in piedi. "Signora contessa," disse il maggiordomo ansimante "sono costretto ad annunciarvi..." Indicò verso la foresta vergine dalla quale provenivano sempre più vicini le grida e i colpi di tam tam degli indiani, quindi si fece forza e, come se stesse annunciando una visita: "Gli indios bravos!" disse con voce ufficiale. "Vediamo se sono così 'bravos' come si raccontas'" esclamò la vecchia fieramente. Quindi, rivolta a Nicolino: "La mia spada..." "L'ho... lasciata nella foresta..." balbettò Nicolino. "Maledizione!" ruggì la vecchia contessa. E si chinò per raccogliere un sasso, mentre gli indiani, usciti dal folto della foresta, avanzavano puntando contro di loro le zagaglie e le frecce incoccate negli archi. "È inutile, nonna, con le sassate li irriterai solamente" disse Jolanda fermando la mano della vecchia che si era sollevata in aria per scagliare il sasso contro il più vicino degli indiani. "Meglio parlamentare..." "È giusto" disse Giovanna, abbassando la mano. Quindi rivolta al maggiordomo Battista: "Digli che ci conducano dal loro capo..." Il maggiordomo Battista si rivolse all'indiano che gli stava più vicino e gli disse una lunga frase in dialetto caraibo. Il selvaggio esitò un istante poi rispose qualche cosa. "Cosa ha detto?" domandò Giovanna. "Ha detto che ci condurrà dal suo capo. Può darsi che sia una persona gentile..." "Speriamo che ci inviti a pranzo!" esclamò Nicolino. "Quando ho paura mi viene appetito..." "Infatti," disse Battista "ha detto questo qui che aspettano solo noi per mangiare..." Nel bel mezzo del villaggio dei caraibi, Giovanna, Nicolino, Jolanda e il maggiordomo Battista, legati strettamente a quattro pali sormontati da mostruosi totem, guardavano gli indigeni che danzavano intorno ad essi la cosiddetta "danza della morte". A un certo punto due donne indiane che portavano una enorme marmitta attraversarono il cerchio dei danzatori e andarono a collocarla sopra un gran fuoco che ardeva a poca distanza dai quattro prigionieri, cominciando a riempirla d'acqua che attingevano da una sorgente che scaturiva lì accanto. "Ci preparano l'acqua calda per il bagno" commentò Nicolino, cercando di essere ottimista ad ogni costo. "Sono gentili..." "Non sono gentili," rispose il maggiordomo Battista, amaramente, "sono semplicemente cannibali..." "Sì, mio povero Nicolino," gli spiegò Jolanda "quella marmitta serve per far cuocere il primo di noi che verrà mangiato..." "Oh, mio Dio, quanto mi dispiace!" esclamò ipocritamente Nicolino. "Povera contessa Giovanna!" "Perché pensate che comincino proprio da me, imbecille?" esclamò Giovanna, in tono irritato. "Perché bisogna dar sempre la precedenza alle signore anziane..." "La mia carne è vecchia e coriacea" disse Giovanna. "Forse questi indiani conoscono qualche polverina che ringiovanisce le carni" disse Nicolino. "In Italia la usano... Oh, mamma mia!" Questa ultima esclamazione di Nicolino era stata causata dal fatto che due indiani si erano messi a girare intorno al suo palo, indicandoselo l'uno con l'altro e scambiandosi misteriose parole nel loro dialetto. "Ci preparano l'acqua calda per il bagno..." 4. Giovanna "Questi" disse Nicolino, allarmatissimo "ce l'hanno con me..." "Proprio così" confermò il maggiordomo Battista. "Pe... perché?" balbettò Nicolino, impallidendo. "Che cosa hanno detto?" "'Cominciamo con questo viso pallido" disse il maggiordomo. "Conoscete anche la loro lingua?" esclamò Jolanda, ammirata. "Un perfetto cameriere deve conoscere tutte le lingue" rispose il maggiordomo. "E perché vogliono incominciare proprio con me?" piagnucolò Nicolino. "Lo hanno detto loro che sono pallido... La carne bianca non è buona per il lesso..." Quindi, indicando con un cenno della testa il maggiordomo ai due selvaggi: "Cominciate con lui, che è bello colorito" disse. "Lui sta bene... Guardate che bella faccia di salute che tiene..." E, cantilenando come un venditore napoletano che, è risaputo, mette anche le sue grida in musica, gridò: "È bianco! È rosso! Quant'è buono! Jammo, magnate, magnate!" "È inutile" disse Jolanda. "Non conoscono la vostra lingua..." "Ma Battista, che la conosce, glielo può spiegare..." "Bravo!" disse Battista. "Così mangiano prima me di te!" I due indiani si avvicinarono al palo di Nicolino e, senza parlare, cominciarono a scioglierlo dai suoi legami. Nicolino, terrorizzato, si mise a gridare: "Aiuto! Signora contessa, aiuto, mi vogliono mangiare! Mi vogliono fare lesso!" Come se fossero rimasti impressionati dalle grida che uscivano dalla gola del nostromo, gli indiani si guardarono, poi uno di essi gli disse qualche cosa nel suo dialetto. Nicolino si rivolse a Battista. "Che... Che cosa mi ha detto?" "Ti ha detto" tradusse Battista: "'Sta' tranquillo, viso pallido! I guerrieri della tribù dei Guana Guana non ti vogliono fare lesso!'..." Il povero nostromo respirò di sollievo. "Oh, meno male!" esclamò. "'Ti vogliono fare arrosto'..." concluse Battista. "Quella pila serve soltanto per sbollentarti e toglierti i peli..." "Ma io non voglio essere sbollentato e spelacchiato!" protestò Nicolino. "A me l'acqua bollente mi scotta!" Attratto dagli strilli di Nicolino che urlava come una scimmia rossa, un tipo di indiano dall'aspetto autorevole si avvicinò al gruppo composto da Nicolino e dai due indiani che stavano trascinando il malcapitato nostromo verso la pila. "Zitto, arrosto!" disse a Nicolino parlando in tono autoritario come persona abituata al comando. Quindi, rivolto ai due indiani: "Attizzate il fuoco!" "Ehi, buon uomo!" disse Giovanna, rivolgendogli la parola. L'indiano dall'aspetto autorevole, che era il Cacicco della tribù, si voltò verso Giovanna. "Cosa vuoi, vecchia pallida?" le domandò, parlando uno spagnolo abbastanza comprensibile. La faccenda di essere chiamata vecchia pallida da un selvaggio impermalì Giovanna che fu pronta a rispondergli: "Meglio essere pallida che con la faccia rossa e dipinta come la tua!" Quindi indicando il nostromo Nicolino con il mento: "Come avete intenzione di cucinare quell'uomo?" domandò. "Allo spiedo, vecchia pallida" rispose il Cacicco. Giovanna abbozzò una smorfia di disprezzo. "Peuh!" esclamò. "Che cucina primitiva! Io, se fossi in voi, lo cucinerei in tutt'altro modo..." "E in che modo?" domandò il Cacicco, incuriosito... "Ci sono mille maniere per cucinare il nostromo... Io, però, penso che la ricetta migliore sia quella chiamata: 'nostromo arrosto alla moda'." "E come faresti, vecchia pallida, a cucinarlo in questa maniera?" "È facilissimo" rispose Giovanna."Si prenda un nostromo e dopo averlo aperto e pulito come si deve, lo si disossi completamente..." "Ma io non voglio essere disossato completamente!" protestò Nicolino. "Le ossa servono! Altro che, se servono!" "Zitto, arrosto!" gli dette sulla voce il Cacicco. Quindi, rivolto a Giovanna: "Seguita pure, vecchia pallida..." "Dunque, dopo averlo disossato completamente farcitelo con un ripieno fatto delle sue stesse interiora e di prosciutto di porco selvatico tritati, pane grattato, cinque o sei grossi pizzichi di pepe, un grosso pugno di sale, tre o quattro pizzichi di noce moscata, due pugni di carne secca e un pugno di erbe aromatiche..." "Qui, fra pizzichi e pugni, mi riducono un 'ecce homo'!" esclamò Nicolino. "Aggiungete quindi sette od otto spicchi d'aglio..." "No, l'aglio no, non lo digerisco!" protestò Nicolino. "Zitto, arrosto!" gli impose il Cacicco. "Continua, signora pallida" disse in tono molto più gentile di prima a Giovanna. "Una volta che sia riempito per bene, lardellatelo con delle fettine di guanciale, e adagiatelo su un letto di cipolle e olio bollente... Fatelo cuocere a fuoco lento per tre ore, poi toglietelo dal fuoco e fatelo riposare per un'ora..." "Ma come volete che faccia a riposare su un letto di cipolle e olio bollente?" "Zitto, arrosto! E poi?" domandò il Cacicco, rivolto a Giovanna. "E poi non resta che circondarlo di patate arrosto che se non mi sbaglio sono un prodotto locale e servirlo in tavola. La dose è per venti persone... Vedrete che mangiarlo sarà proprio un piacere!" "Sarà un piacere per voi, ma non per me!" blaterò Nicolino. "Silenzio, arrosto!" "Questo qui che continua a chiamarmi arrosto, mi dà fastidio!" bofonchiò Nicolino di pessimo umore. Il Cacicco stette a pensare un momento leccandosi le labbra, poi sul suo viso apparve un'espressione di diffidenza. "I visi pallidi" disse "hanno la lingua biforcuta. Forse carne cucinata così diventa velenosa..." "Datemi un maiale selvatico ed io lo cucinerò come ho detto e lo mangerò" propose Giovanna. "In tal modo avrete la prova che il 'nostromo arrosto alla moda' non può far male." "E invece fa male, malissimo!" esclamò Nicolino, rivolto agli indiani. "Ricordatevi che non mi avete comprato al mercato, mi avete trovato nel bosco... Io non sono un nostromo mangereccio, sono un nostromo velenoso..." "Silenzio, arrosto!" "E dagli!" esclamò Nicolino. Il Cacicco senza più esitare si rivolse ai due selvaggi che erano accanto a lui. "Si faccia la prova con il maiale selvatico!" ordinò. I due si allontanarono, mentre Nicolino disperato esclamava: "Tutta colpa di quel dannato Trencabar! Ah, se avessi a portata di mano qualcuno di quei maledetti spagnoli che hanno affondato la Tonante!"

Angiola Maria

207101
Carcano, Giulio 1 occorrenze
  • 1874
  • Paolo Carrara
  • Milano
  • Paraletteratura - Ragazzi
  • UNICT
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Se non fosse stato il buon galantuomo a rispondere, come pochi pur troppo rispondono in questi casì - Ma, io non ho che questa tosa, e ch'ella se lo trovi il marito, e sia contenta: sono un povero diavolo, è vero; ma è meglio pochi stracci e cuor contento, che non abbondanza di fuori , e cuor voto di dentro.... Non è così? » « Pigliatelo, vi dico, il dottore, tenetelo saldo, ch'è matto, matto da legare! » « E che mal ci sarebbe se la fosse come dice lui? » soggiunse il deputato. « Ma sì, che mal ci sarebbe? » ripetè il signor Gaspero. « Bene, dico io.... Ma sapete » conchiudeva il curato,

Pagina 117

L'uccellino azzurro

213407
Maeterlink, Maurice 2 occorrenze
  • 1926
  • Felice Le Monnier, Editore
  • Firenze
  • Paraletteratura - Ragazzi
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Mitchell, Margaret

221398
Via col vento 5 occorrenze
  • 1939
  • A. Mondadori
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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Quantunque avesse una grande abbondanza di corteggiatori, non si era mai sentita piú avvilita. Non riusciva a capir come i suoi progetti della sera prima fossero miseramente falliti per quanto concerneva Ashley. Ella aveva attratto altri giovani a dozzine, ma non Ashley; e tutti i timori di ieri tornavano a invaderla facendo battere il suo cuore velocemente e facendo arrossire e impallidire a volta a volta le sue fresche guance. Ashley non aveva in alcun modo tentato di unirsi al circolo che ella aveva attorno; ed ella non aveva scambiato una parola sola con lui da quando era arrivata, dopo il loro primo saluto. Si era avanzato a salutarla quando la giovinetta era entrata nel giardino posteriore; ma dava il braccio a Melania la quale gli giungeva appena alla spalla. Era costei una creatura snella e fragile, che dava l'impressione di una bimba che avesse indossato per mascherarsi le enormi gonne a cerchi di sua madre; illusione che veniva aumentata dall'espressione timida, quasi sgomenta dei suoi occhi neri troppo grandi. Aveva una massa di riccioli bruni talmente stretti nella rete, che non ne sfuggiva neanche uno; e quella massa scura che si addensava sulla nuca lasciando il viso disadorno, ne accentuava la forma triangolare, per gli zigomi troppo larghi e il mento troppo appuntito. Era un viso dolce e timido, ma non bello; ed ella non aveva furberie femminili che facessero dimenticare agli osservatori la sua scarsa bellezza. Sembrava - ed era - semplice come la terra, buona come il pane, trasparente come acqua di fonte. Ma nonostante i suoi lineamenti non belli e la statura insufficiente, vi era nel suo modo di fare una tranquilla dignità che era stranamente commovente, e molto al disopra dei suoi diciassette anni. La sua veste di organza grigia, con la sciarpa di raso color ciliegia attorno alla vita, nascondeva coi suoi drappeggi e le sue pieghe quanto il suo corpo aveva di troppo infantile; e il cappello giallo coi lunghi fiocchi pure color ciliegia, rischiarava la sua carnagione avorio. I pesanti orecchini d'oro coi lunghi pendenti scendevano sotto le trecce strettamente ravviate, che giravano sulla fronte molto vicino agli occhi, i quali avevano il tranquillo splendore di un laghetto in una foresta durante l'inverno, quando le foglie brune si specchiano nell'acqua tranquilla. Aveva sorriso timidamente salutando Rossella e facendole un complimento per il suo abito verde; e questa aveva stentato a risponderle gentilmente tanto era violento il suo desiderio di parlare sola con Ashley. Da allora, Ashley era rimasta seduto su uno sgabello ai piedi di Melania, lontano dagli altri invitati, parlando tranquillamente con lei e sorridendo di quel sorriso un po' stanco che Rossella amava. Ciò che peggiorava le cose si era che sotto a quel sorriso gli occhi di Melania si erano un po' animati, sicché perfino Rossella fu costretta ad ammettere che era quasi graziosa. Quando Melania guardava Ashley, il suo viso si illuminava come di una fiamma interna; se mai un volto rivelò un cuore innamorato, questo era il volto di Melania Hamilton. Rossella tentò di guardare altrove; ma non poté; dopo ogni sguardo il suo brio andava aumentando; ella rideva, diceva delle cose spinte, scherzava coi suoi cavalieri, scuoteva la testa ai loro complimenti, agitando i lunghi orecchini. Esclamò ripetutamente: «Sciocchezze!» dichiarando che nessuno di loro era sincero, e giurando che non credeva nulla di quanto le dicevano gli uomini. Ma Ashley non sembrò accorgersi di lei. Alzava soltanto lo sguardo verso Melania e le parlava; e Melania abbassava lo sguardo su lui con un'espressione che affermava la sua dedizione. Cosí, Rossella era infelice. Per un osservatore esteriore, mai una fanciulla aveva avuto minor motivo di esserlo. Indubbiamente era la piú bella della riunione, il centro dell'attenzione generale. In qualsiasi altro momento l'entusiasmo degli uomini, insieme all'irritazione delle altre ragazze le avrebbe fatto un enorme piacere. Carlo Hamilton, reso ardito dalla sua cortesia, si era piantato alla sua destra rifiutando di lasciarsi sloggiare dagli sforzi combinati dei gemelli Tarleton. Teneva in una mano il ventaglio di Rossella e nell'altra il suo piatto di porchetta e rifiutava caparbiamente d'incontrare gli occhi di Gioia, la quale sembrava che stesse per scoppiare in lacrime. Claudio era graziosamente sdraiato alla sua sinistra, tirandole ogni tanto la gonna per richiamare la sua attenzione e guardando Stuart con occhi di fuoco. Fra lui e i gemelli vi era già una certa elettricità, nell'aria, ed erano state scambiate parole aspre. Franco Kannedy strepitava intorno come una gallina con un pulcino, correndo avanti e indietro dalla quercia alle tavole per prendere delle leccornie che dovevano tentare Rossella, come se non vi fossero una dozzina di servi per questo scopo. Come risultato, il cupo risentimento di Súsele aveva oltrepassato il limite di sopportazione femminile ed ella fissava sua sorella con occhi incandescenti. La piccola Carolene avrebbe pianto perché, contrariamente alle parole incoraggianti che Rossella le aveva detto al mattino, Brent non aveva fatto altro che dirle «Hallò, piccola,» e tirare il nastro dei capelli, prima di rivolgere tutta la sua attenzione a Rossella. Di solito egli era tanto buono e la trattava con una negligente deferenza che le dava l'impressione di essere una persona grande, e Carolene sognava segretamente il giorno in cui si sarebbe rialzata i capelli e avrebbe messo le gonne lunghe; allora avrebbe potuto riceverlo come un vero corteggiatore. E adesso invece era Rossella che se lo teneva accanto. Le ragazze Munroe celavano il loro dispiacere per la defezione dei bruni ragazzi Fontaine, ma erano annoiate della maniera in cui Tony e Alessandro stavano attorno al circolo aspettando di poter prendere posto vicino a Rossella, qualora uno degli altri si fosse alzato per un attimo. Telegrafarono a Etta Tarleton la loro disapprovazione per la condotta di Rossella, sollevando delicatamente le sopracciglia. La sola parola adatta per definirla era «sfacciata.» Simultaneamente le tre signorine alzarono i loro ombrellini di pizzo, dissero che avevano mangiato abbastanza, grazie, e posando leggermente le dita sul braccio dell'uomo che avevano piú vicino, dichiararono dolcemente che volevano vedere il giardino delle rose, il padiglione di primavera e quello d'estate. Questa ritirata strategica in buon ordine fu notata da tutte le donne presenti e da nessun uomo. Rossella rise fra i denti vedendo tre uomini rapiti al suo fascino e condotti a contemplare luoghi familiari alle fanciulle fin dalla loro infanzia. Lanciò uno sguardo acuto verso Ashley per capire se se ne fosse accorto: ma egli stava giocherellando con la sciarpa di Melania, e le sorrideva. Un dolore acuto le strinse il cuore. Sentí che sarebbe stata capace di graffiare con gioia la pelle di avorio di Melania, sino a farla sanguinare. Volgendo lo sguardo; incontrò quello di Rhett Butler, che non si era mescolato con la folla, ma conversava in disparte con John Wilkes. La stava osservando e quando ella lo guardò, rise clamorosamente. Rossella ebbe la spiacevole sensazione che quell'uomo che non era ricevuto, fosse il solo fra i presenti che sapesse ciò che si nascondeva sotto alla sua selvaggia gaiezza, e che questo gli procurasse un divertimento beffardo. Avrebbe graffiato con piacere anche lui. «Se posso resistere a questa riunione fino al pomeriggio,» pensò «tutte le ragazze andranno di sopra a fare un riposino per essere fresche stasera ed io rimarrò giú e riuscirò a parlare con Ashley. Certamente egli avrà notato come sono corteggiata.» Calmò il suo cuore con un'altra speranza: «Senza dubbio, dev'essere premuroso con Melania, perché dopo tutto è sua cugina e non ha corteggiatori; e se egli non si occupasse di lei, rimarrebbe a far parete.» Riprese coraggio a questo pensiero e raddoppiò i suoi sforzi in direzione di Carlo, i cui occhi neri la fissavano avidamente. Era una giornata magnifica per Carlo, una giornata di sogno, ed egli si era innamorato di Rossella senza sforzo alcuno. Dinanzi a questa nuova emozione, Gioia scompariva in una nebbia cupa: era un passero dalla voce stridula, mentre Rossella era un usignolo che gorgheggiava. Lo stuzzicava, lo favoriva, e gli rivolgeva delle domande a cui rispondeva lei stessa, sicché egli appariva intelligente senza dover dire una parola. Gli altri giovinotti erano perplessi e indispettiti da questo evidente interesse di Rossella per lui, poiché sapevano che Carlo era troppo timido per cucire assieme due parole, ed essi mettevano a dura prova la loro educazione per nascondere l'ira crescente. Tutti ardevano per quella fanciulla, e se non vi fosse stato Ashley, Rossella avrebbe goduto un autentico trionfo. Quando l'ultimo boccone di porchetta, di pollo, e di montone fu mangiato, Rossella sperò che Lydia si alzasse per dire alle signore di ritirarsi in casa. Erano le due e il sole era caldissimo; ma Lydia, stanca dopo tre giorni di preparativi per la riunione, era troppo contenta di poter stare un po' seduta sotto l'albero, parlando a voce altissima con un vecchio gentiluomo di Fayetteville, sordo come una campana. Una pigra sonnolenza discendeva sulla folla. I negri indugiavano sparecchiando le lunghe tavole su cui erano state le vivande. Le risate e le conversazioni diventavano meno animate; qua e là alcuni gruppi erano silenziosi. Tutti aspettavano dalla loro ospite il segnale che la prima parte della festa era finita. I ventagli di palma si agitavano piú lentamente, e parecchi vecchi signori lasciavano penzolare il capo per il sonno e per lo stomaco carico. Il banchetto era terminato, e tutti provavano il desiderio di riposarsi mentre il sole era alto nel cielo. In questo intervallo tra la festa della mattina e il ballo della sera tutti sembravano placidi e tranquilli. Solo i giovinotti conservavano la instancabile energia che fino a poco prima aveva animato tutti quanti. Muovendosi fra i gruppi, trascinando le parole con la loro voce dolce, erano belli come stalloni di sangue e altrettanto pericolosi. Il languore del meriggio pesava sull'elegante accolta, ma sotto a questa tranquillità si nascondevano temperamenti che potevano in un attimo balzare ad altezze straordinarie e infiammarsi con la stessa rapidità. Uomini e donne erano belli e selvaggi, tutti un po' violenti sotto le loro buone maniere, e solo in parte domati. La conversazione stava morendo, quando nella calma temporanea si udí la voce di Geraldo levarsi in accenti furibondi. A breve distanza dalle tavole, egli era al culmine di una discussione con John Wilkes. - Per la camicia di Giove! Desiderare un accordo pacifico con gli yankees! Dopo che abbiamo scacciato quei mascalzoni dal Forte Sumter? Pacifico? Il Sud mostrerà con le armi che non vuole essere insultato e che non si scinde dall'Unione per bontà di questa, ma per la propria forza! «Oh, Dio, ci siamo!» pensò Rossella. «Ora si rimane seduti qui fino a mezzanotte.» In un attimo la sonnolenza era scomparsa e qualche cosa di elettrico aveva attraversato l'aria. Gli uomini balzarono dai banchi e dalle sedie; furono braccia che si agitavano a larghi gesti e voci che proclamavano il diritto di farsi udire al di sopra delle altre. In tutta la mattina non si era parlato né di politica né di guerra perché il signor Wilkes aveva desiderato che non si annoiassero le signore. Ma ora Geraldo aveva urlato le parole «Forte Sumter» e tutti i presenti dimenticarono l'ammonimento dell'ospite. - Certo combatteremo... - Yankees ladri... - Ce ne sbarazzeremo in un mese... - Figuriamoci, un meridionale può tener testa a venti yankees... - Dargli una lezione che non dimenticheranno... - Pacifico? Ma sono loro che non ci lasciano in pace... - Avete visto come Mr. Lincoln ha insultato i nostri Commissari?... - Sí, li ha portati in giro per delle settimane, giurando che avrebbe fatto evacuare Forte Sumter!... - Vogliono la guerra: la avranno... - E sopra a tutte le voci, dominava quella di Geraldo. Tutto ciò che Rossella riusciva a udire era «Diritti di Stato, per Dio!» urlato sempre piú forte. Geraldo gongolava; ma non cosí sua figlia. Secessione... guerra... Da un pezzo queste parole erano diventate un vero incubo per Rossella; ma ora le odiava addirittura, perché il loro suono significava che ormai gli uomini sarebbero rimasti lí per delle ore a discutere; e lei non avrebbe avuto nessuna opportunità di trarre in disparte Ashley. Certamente la guerra non vi sarebbe, e gli uomini lo sapevano. Ma piaceva a loro di parlare e di ascoltarsi parlare. Carlo Hamilton non si era alzato con gli altri. Trovandosi relativamente solo con la ragazza, le si avvicinò e, con l'audacia nata dal nuovo amore, le sussurrò la sua confessione. - Miss O'Hara... io... ho già deciso che se faremo la guerra, dovrò andare nella Carolina del Sud e unirmi a quelle truppe. Si dice che il signor Wade Hampton stia organizzando uno squadrone di cavalleria e certamente io desidero andare con lui. È un grand'uomo ed era il migliore amico di mio padre. Rossella pensò: «E che cosa crede che io faccia adesso? Che gridi evviva?» L'espressione di Carlo mostrava che egli le stava rivelando i segreti del suo cuore; ma ella non seppe che cosa dirgli e si limitò a guardarlo, chiedendosi perché gli uomini sono tanto sciocchi da credere che le donne si interessano di queste storie! Egli credette che la sua espressione significasse muta approvazione e continuò rapidamente, audacemente: - Se andassi... vi dispiacerebbe, miss O'Hara? - Bagnerei di lagrime tutte le notti il mio guanciale - rispose Rossella facendo la disinvolta; ma Carlo prese le sue parole per moneta contante e arrossí di gioia. La mano di lei era nascosta fra le pieghe della sua veste; egli la cercò e la strinse, stupito della propria temerità e della condiscendenza di lei. - Pregherete per me? «Che idiota!» pensò amaramente Rossella, lanciando attorno uno sguardo furtivo, nella speranza che qualcuno venisse a salvarla da quella conversazione. - Sí o no? - Ma sí, certo, Mr. Hamilton! Almeno tre rosari per sera! Carlo si guardò attorno e irrigidí i muscoli del petto trattenendo il fiato. Erano praticamente soli; ed egli non avrebbe mai piú avuto una fortuna simile. E, anche se Domineddio gliel'avesse fatta avere, forse il coraggio gli sarebbe mancato. - Miss O'Hara... debbo dirvi una cosa... Vi... vi amo! - Hm? - fece Rossella distratta, cercando di vedere, attraverso la folla di uomini che ragionavano, se Ashley era ancora seduto ai piedi di Melania. - Sí - bisbigliò Carlo, in estasi perché ella non aveva riso, né era svenuta né aveva emesso un grido, come egli aveva sempre immaginato che ogni fanciulla dovesse fare in simili circostanze. - Vi amo! Siete la piú... la piú... - e per la prima volta in vita sua le parole non gli mancarono... la piú bella fanciulla che io abbia mai conosciuta, e la piú cara e la piú buona e la piú gentile; ed io vi amo con tutto il cuore. Non posso sperare che voi amiate uno come me, ma se voi, cara, vorrete darmi il piú piccolo incoraggiamento, io farò tutto al mondo per farmi amare da voi. Voglio... Si interruppe perché non riuscí a pensar nulla di abbastanza difficile per convincere Rossella della profondità dei propri sentimenti; quindi disse semplicemente: - Desidero sposarvi. Rossella tornò alla realtà con un sussulto, al suono della parola «sposarvi». Stava pensando al matrimonio e ad Ashley, e guardò Carlo con malcelata irritazione. Perché quel cretino col viso di vitello veniva ad annoiarla coi suoi sentimenti proprio in quel giorno in cui lei era cosí preoccupata che le sembrava di perdere il cervello? Guardò gli occhi bruni supplichevoli e non comprese affatto la bellezza del primo amore di un ragazzo timido, dell'adorazione di un ideale divenuto realtà, della felicità e della tenerezza che mettevano in quegli occhi una fiamma. Rossella era abituata agli uomini che le chiedevano di sposarla, uomini piú attraenti di Carlo Hamilton, uomini che avevano la delicatezza di non fare una domanda di matrimonio durante un convito all'aperto, mentre lei aveva da pensare a tante altre cose piú importanti. Vide soltanto un ragazzo di vent'anni, rosso come un peperone e con l'aria molto sciocca. Ebbe il desiderio di dirgli quanto era idiota. Ma automaticamente le salirono alle labbra le parole che Elena le aveva insegnato a dire in simili circostanze, e abbassando pudicamente gli occhi, per forza di abitudine, mormorò: - Mr. Hamilton, sono molto sensibile all'onore che mi fate chiedendomi di diventar vostra moglie; ma la cosa è per me talmente inattesa che non so che cosa dirvi. Era un modo grazioso di accarezzare la vanità di un uomo e di tenerlo sulla corda; e Carlo abboccò a quell'amo come se fosse nuovo ed egli fosse il primo a inghiottirlo. - Aspetterò quanto vorrete! Voglio che siate sicura di voi... Ditemi che posso sperare, miss O'Hara! - Hm - fece Rossella, i cui occhi di lince osservavano in quel momento Ashley, il quale non si era alzato per prender parte alla discussione degli uomini sulla guerra e stava sorridendo a Melania. Se questo stupido che stava cercando di ottenere la sua mano tacesse un minuto, forse le riuscirebbe di udire ciò che quei due stavano dicendo. Doveva udirlo. Che cosa diceva Melania per destare negli occhi di lui quell'espressione di interessamento? Le parole di Carlo soverchiavano le voci che ella anelava di udire. - Oh, ssst! - gli bisbigliò pizzicandogli una mano senza neanche guardarlo. Spaventato e vergognoso, Carlo arrossí al rabbuffo; poi, vedendo gli occhi di lei fissi su sua sorella, sorrise. Rossella temeva che qualcuno potesse udire le sue parole. Naturalmente era imbarazzata e timida, e l'idea che altri potessero udire la sgomentava. Carlo si sentí invadere da un'onda di mascolinità che non aveva mai provata, perché questa era la prima volta in vita sua che egli turbava una ragazza. L'emozione fu inebriante. Diede al suo volto quella che credeva essere un'espressione indifferente e prudentemente ricambiò il pizzicotto di Rossella per mostrarle che era uomo di mondo e che comprendeva e accettava il suo rimprovero. Ella non sentí neppure il pizzicotto, perché in quel momento udiva la dolce voce che costituiva il fascino principale di Melania: - Non sono d'accordo con te su Thackeray. È un cinico. E credo che non sia un signore come Dickens. «Che stupidi discorsi da fare a un uomo» pensò Rossella, pronta a ridere di sollievo. «Non è che una bas bleu, e tutti sanno che cosa pensano gli uomini delle bas bleu!» Per interessare un uomo e conservar vivo il suo interesse, bisognava parlargli di lui e poi gradatamente condurre la conversazione su se stessa... e mantenervela. Rossella si sarebbe allarmata se Melania avesse detto: «Sei straordinario!» oppure: «Come fai a pensare queste cose? Il mio cervellino scoppierebbe, se cercassi anch'io di pensarle!» Ed eccola lí, con un uomo ai suoi piedi, a parlare seriamente come se fosse in chiesa. La prospettiva apparve a Rossella piú brillante; tanto brillante che rivolse a Carlo degli occhi radiosi e un sorriso giocondo. Entusiasmato per questa prova di affetto, egli afferrò il suo ventaglio e lo richiuse con tanto ardore che ella si sentí drizzare i capelli. - Non ci avete favorito la vostra opinione, Ashley - disse Giacomo Tarleton volgendosi dal gruppo maschile vociferante; Ashley si scusò e si alzò. Nessuno era bello come lui - pensò Rossella osservando la grazia del suo atteggiamento negligente e i capelli e i baffi che il sole faceva scintillare. Anche gli uomini anziani si interruppero per ascoltare le sue parole. - Ebbene, signori miei, se la Georgia combatterà, andrò anch'io. Altrimenti perché fare parte dello Squadrone? - furono le sue parole. I suoi occhi grigi erano spalancati e la loro sonnolenza era scomparsa dando luogo a una vivezza che Rossella non aveva mai vista prima. - Ma, come il babbo, spero che gli yankees ci lasceranno in pace e che la guerra non si farà... - Alzò la mano con un sorriso, perché dai ragazzi Tarleton e dai Fontaine giungeva una babele di voci. - Sí sí, so che ci hanno insultati e che ci hanno mentito... ma se noi fossimo stati nei loro panni, come avremmo agito? Probabilmente nello stesso modo. «Eccolo, al solito» pensò Rossella. «Sempre la smania di mettersi nei panni degli altri.» Per lei, in ogni argomento non vi era che un solo lato. A volte non era punto d'accordo con Ashley. - Non ci scaldiamo troppo la testa e non cerchiamo la guerra. La maggior parte delle miserie del mondo è stata cagionata dalle guerre. E quando le guerre erano finite, nessuno sapeva piú la ragione che le aveva suscitate. Rosella arricciò il naso. Meno male che Ashley aveva una inattaccabile reputazione di coraggio; altrimenti le cose si sarebbero guastate. Mentre ella pensava questo, attorno ad Ashley si levò un clamore di voci dissenzienti e indignate. Sotto l'albero, il vecchio sordo percosse lievemente il ginocchio di Lydia. - Che c'è? - chiese. - Che stanno dicendo? - Guerra! - gli gridò Lydia nell'orecchio facendosi cornetto con la mano. - Vogliono far la guerra agli yankees! - La guerra? - gridò a sua volta il sordo cercando il suo bastone e alzandosi con maggiore energia di quanta ne avesse mostrata da anni. - Gliene parlerò io, della guerra. Vi sono stato. - Non capitava spesso a Mr. McRae l'occasione di poter parlare della guerra, perché le sue donne gli imponevano sempre il silenzio. Raggiunse rapidamente il gruppo, agitando il bastone e gridando e, siccome non udiva le voci degli altri, in breve fu padrone indisturbato del campo. - Ascoltatemi, giovani mangiatori di fuoco. Voi non potete volere la guerra. Io l'ho fatta e lo so. Quella contro i Seminoli; e fui tanto pazzo da fare anche la guerra messicana. Voialtri non sapete che cos'è la guerra. Credete che si tratti soltanto di cavalcare un bel cavallo, con le ragazze che vi gettano fiori chiamandovi eroe. Non è cosí, signori miei! Si tratta di soffrir la fame e di buscarsi polmoniti e malattie della pelle dormendo nell'umidità. E se non sono quelle, sono gli intestini che non vanno. Sí, signori; non potete immaginare che cos'è la guerra per gl'intestini degli uomini: dissenteria e cose del genere e... Le signore erano diventate rosse. Mr. McRae stava ricordando i momenti piú volgari della vita, come la nonna Fontaine con le sue sconcie flatulenze: momenti che ognuno preferiva dimenticare. - Corri a chiamare il nonno - sussurrò una delle figlie del vecchio gentiluomo a una bimba che le era accanto. - Vi assicuro - mormorò poi alle signore attorno - che va peggiorando ogni giorno. Credereste che stamattina ha detto a Maria (la quale ha solo sedici anni): «Ora, figliuola...» - e il resto della frase si perse in un sussurro, mentre la nipotina correva a cercar di indurre il nonno a tornare a sedere all'ombra. Nei gruppi che si affollavano intorno agli alberi, fanciulle che sorridevano e uomini che parlavano appassionatamente, una sola persona sembrava aver conservato la calma. Gli occhi di Rossella si volsero verso Rhett Butler che stava appoggiato a un albero con le mani sprofondate nelle tasche dei calzoni. Da quando John Wilkes si era allontanato, egli era rimasto solo e non aveva pronunciato parola mentre la conversazione si riscaldava. Le labbra rosse sotto i baffetti si increspavano e negli occhi neri passavano lampi di disprezzo divertito; come se ascoltasse delle chiacchiere infantili. «Un sorriso sgradevole» pensò Rossella. Egli continuò ad ascoltare tranquillamente, finché Stuart Tarleton, coi rossi capelli arruffati e gli occhi scintillanti, gridò: - Ce li leveremo dai piedi in un mese! I gentiluomini combattono sempre meglio della plebe. Un mese... macché, una battaglia... - Signori - interruppe senza muoversi dal suo posto Rhett Butler, con un accento strascicato che rivelava la sua nascita (Charleston) e senza togliersi le mani di tasca - posso dire una parola? Il gruppo si volse verso di lui e gli prestò ascolto con la cortesia dovuta a uno straniero. - Ha mai pensato, nessuno di voi, che non vi è una fabbrica di cannoni a sud della linea Mason-Dixon? E alle poche fonderie che vi sono nel Sud? E industrie per la lana o per il cotone o concerie? Avete mai pensato che non abbiamo una sola nave da guerra e che gli yankees possono imbottigliare i nostri porti in una settimana, sicché non potremmo piú vendere il nostro cotone all'estero? Ma... certamente avete pensato a queste cose. «Questo significa che i ragazzi sono una massa di stupidi!» pensò Rossella indignata; e il sangue le salí al volto. Evidentemente non era la sola ad aver quest'idea, perché parecchi giovinotti cominciavano a drizzar la cresta. John Wilkes lasciò il suo posto in maniera indifferente, ma avanzandosi rapidamente verso colui che aveva parlato, come per ricordare ai presenti che quell'uomo era suo ospite e che, inoltre, vi erano delle signore presenti. - Il torto di molti di noi meridionali - proseguí Rhett - è che non viaggiamo abbastanza e non approfittiamo abbastanza dei nostri viaggi. Tutti voi, certamente, avete viaggiato. Ma che cosa avete visto? L'Europa, Nuova York, Filadefia; e le signore, senza dubbio, sono state a Saratoga. - Si inchinò lievemente verso il gruppo sotto gli alberi. - Avete visto i musei, gli alberghi, i balli e le case da giuoco. E siete tornati a casa convinti che non vi fosse un altro luogo come il Sud. Quanto a me, sono nato a Charleston, ma ho passato questi ultimi anni nel Nord. - Un sorriso dei suoi denti candidi fece comprendere che egli era sicuro che tutti quanti sapevano perché egli non dimorava piú a Charleston, e non gl'importava nulla che lo sapessero. - Ho visto molte cose che voialtri non avete vedute. Migliaia di emigranti che sarebbero ben contenti di combattere per gli yankees avendone in cambio vitto e un po' di denaro; le fabbriche, le fonderie, i cantieri, le miniere di carbone e di ferro... tutte cose che noi non abbiamo. Quello che noi abbiamo è cotone, schiavi... e arroganza... In un mese ci batterebbero completamente. Un minuto di tensione silenziosa. Rhett Butler trasse dalla tasca della giubba un bel fazzoletto di lino e si spolverò distrattamente una manica. Quindi dalla folla sorse un mormorio minaccioso e da sotto gli alberi giunse un ronzio simile a quello di un'arnia disturbata. Benché Rossella sentisse ancora sulle guance il rosso calore della collera, pure qualche cosa nel suo spirito pratico le fece comprendere che quell'uomo aveva ragione e parlava con buonsenso. Infatti, ella non aveva mai visto una fabbrica né conosciuto nessuno che ne possedesse una. Ma anche se tutto ciò era vero, un gentiluomo non doveva fare queste dichiarazioni... soprattutto durante un ricevimento dove tutti si stavano divertendo. Stuart Tarleton si avanzò, con la fronte aggrottata, insieme con Brent. Senza dubbio, i gemelli erano dei ragazzi educati e non avrebbero fatto una scenata durante una riunione mondana, pur essendo provocati. Malgrado ciò, le signore erano piacevolmente eccitate, perché era ben raro, per loro, assistere a una scenata o a una lite. Di solito ne sentivano parlare di terza mano. - Che intendete dire, signore? - disse Stuart lentamente. Rhett lo guardò con occhio gentile ma beffardo. - Intendo dire che Napoleone... forse ne avete sentito parlare? dichiarò una volta «Dio è dalla parte del battaglione piú forte». - Quindi si volse a John Wilkes, con una gentilezza che non era finta: - Mi avevate promesso di mostrarmi la vostra biblioteca. Posso chiedervi il favore di mostrarmela adesso? Debbo tornare a Jonesboro piuttosto presto nel pomeriggio, a causa di un affare. Si volse fronteggiando la folla, batté i tacchi e si inchinò come un maestro di danza; un inchino grazioso in un uomo cosí forte, e insolente come un ceffone. Quindi attraversò il prato con John Wilkes, col nero capo eretto; e il suono della sua risata scoraggiante pervenne al gruppo che era rimasto presso le tavole. Vi fu un attimo di silenzio allarmato; quindi il ronzio ricominciò. Lydia si levò stancamente dalla sua sedia sotto l'albero e si avvicinò all'incollerito Stuart Tarleton. Rossella non udí le sue parole, ma l'espressione dei suoi occhi mentre ella lo fissava in volto diede una specie di rimorso alla sua coscienza. Era la stessa espressione di dedizione che aveva Melania quando guardava Ashley; ma Stuart non la vide. Dunque, Lydia lo amava. Rossella pensò che se lei non avesse civettato cosí sfacciatamente con Stuart l'anno scorso, a quella riunione politica, forse a quest'ora egli avrebbe sposato Lydia. Ma il rimorso si dileguò subito, col pensiero che dopo tutto non era colpa sua se le altre ragazze non sapevano trattenere gli uomini accanto a loro. Finalmente Stuart sorrise a Lydia, un sorriso involontario, e accennò di sí. Probabilmente Lydia lo aveva pregato di non seguire Mr. Butler e di non fare questioni. Un tumulto gentile si levò sotto agli alberi quando gli invitati si alzarono, scrollandosi dal grembo le briciole. Le signore maritate chiamarono le bambinaie e i bambini piccoli riunendo le loro covate per la partenza; gruppi di giovinette si misero in moto verso la casa, ridendo e chiacchierando, per recarsi nelle stanze da letto al piano di sopra a scambiar pettegolezzi e a fare un po' di siesta. Tutte le signore, eccetto la signora Tarleton, lasciarono l'ombra delle querce; Beatrice era trattenuta da Geraldo, da Calvert e da altri, che insistevano per aver da lei la risposta concernente i cavalli per lo Squadrone. Ashley si avviò lentamente verso il luogo ove sedevano Rossella e Carlo, con un sorriso curioso e divertito. - Un bell'arrogante, non è vero? - fece seguendo Butler con lo sguardo. - Sembra un Borgia. Rossella rifletté rapidamente, ma non ricordò nessuno della Contea o di Atlanta o di Savannah che si chiamasse cosí. - Non li conosco. È un loro parente? Chi sono? Una strana espressione si dipinse sul volto di Carlo, in cui incredulità e vergogna si trovarono a lottare con l'amore. Ma questo trionfò; egli si disse che per una ragazza bastava esser carina, dolce, e bella, anche se la sua istruzione era scarsa, e si affrettò a rispondere: - I Borgia erano italiani. - Ah, - fece Rossella disinteressandosi. - Stranieri. Rivolse ad Ashley il suo piú bel sorriso, ma egli non la guardava in quel momento. Guardava Carlo e sul volto era comprensione e un po' di compassione.

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Erano rimasti soltanto i vecchi, gli invalidi e le donne; queste passavano il loro tempo a far la maglia e a cucire, a coltivare con piú abbondanza cotone e grano e ad allevare maggior numero di maiali, pecore e mucche per l'esercito. Non si vedeva mai un vero uomo, eccetto quando una volta al mese veniva il commissario dello Squadrone, il maturo corteggiatore e di Súsele, Franco Kennedy, a rifornirsi di viveri. Gli uomini dei commissariati non erano molto eccitanti, e il timido corteggiamento di Franco la infastidiva fino a renderle difficile l'essere cortese nei suoi riguardi. Se almeno lui e Súsele si fossero decisi! Ma se anche il commissario dei viveri fosse stato piú interessante, ciò non avrebbe mutato la sua situazione. Ella era vedova, e il suo cuore era nella tomba; per lo meno tutti ne erano convinti e pensavano che ella dovesse agire in conformità. Ciò la irritava perché, per quanto cercasse, non riusciva a rammentare nulla di Carlo se non la sua espressione di vitello moribondo, quando ella gli aveva detto che lo avrebbe sposato. E anche questa immagine andava scomparendo. Ma era vedova e doveva sorvegliare il proprio contegno. I divertimenti delle ragazze non erano piú per lei. Doveva ormai essere grave e seria. Elena glie lo aveva fatto capire il giorno che aveva trovato il luogotenente di Franco che gironzolava con Rossella nel giardino e la faceva ridere di cuore. Profondamente colpita, Elena le aveva detto come era facile che si chiacchierasse sul conto di una vedova. La condotta di questa doveva essere assai piú circospetta di quella di una donna con marito. «E Dio solo sa» pensò Rossella mentre ascoltava ubbidiente la dolce voce di sua madre «che le donne sposate non si divertono affatto; dunque per le vedove tanto vale morire.» Una vedova doveva portare degli orribili vestiti neri senza neanche una guarnizione per ravvivarli, né fiori né nastri né pizzi e neanche gioielli: soltanto spille di onice o collane fatte coi capelli del defunto. E il velo di crespo nero che portava sulla cuffia, doveva arrivarle alle ginocchia e poteva essere accorciato solo dopo tre anni di vedovanza, per giungere all'altezza delle spalle. Le vedove non potevano chiacchierare vivamente né ridere forte. Anche quando sorridevano, il loro doveva essere un sorriso triste e tragico, e - questa era poi la cosa piú terribile - non potevano in nessun modo mostrare di provar piacere nella compagnia maschile. E se qualche uomo fosse cosí indelicato da mostrare dell'interessamento, ella doveva ghiacciarlo con un dignitoso riferimento al ricordo del proprio marito. «Oh, sí,» pensava Rossella tristemente. «Vi sono delle vedove che si rimaritano, ma quando sono vecchie e raggrinzite. E Dio solo sa come vi riescono, con tutti i vicini che si occupano sempre di loro! E di solito è con qualche vecchio vedovo desolato, il quale deve badare a una grande piantagione e a una dozzina di bambini.» Il matrimonio era già una brutta cosa; ma la vedovanza... Oh, allora la vita era finita per sempre! Come erano sciocchi quelli che le dicevano che il piccolo Wade Hampton doveva esserle di gran conforto ora che Carlo non c'era piú, e com'erano noiosi dicendole che ora aveva uno scopo nella vita! Tutti affermavano che doveva essere assai dolce per lei avere questo pegno postumo del suo amore; e naturalmente ella non li disingannava. Ma questo pensiero era il piú lontano di tutti dalla sua mente. S'interessava pochissimo a Wade e qualche volta stentava perfino a ricordarsi che era suo. La mattina, quando si svegliava, nei primi momenti di dormiveglia era ancora Rossella O'Hara; il sole brillava tra i rami della magnolia dinanzi alla sua finestra, i merli cantavano e il piacevole odore del lardo fritto saliva alle sue narici. Era di nuovo giovane e spensierata. Quindi udiva un vagito affamato, e vi era sempre in lei un attimo di sorpresa durante il quale pensava: «Ma come, c'è un bambino in casa!» E allora si ricordava che era suo. E Ashley! Oh, piú di tutto Ashley! Per la prima volta in vita sua ella detestò Tara, detestò la lunga strada rossa che conduceva dalla collina al fiume, detestò i campi purpurei coi verdi germogli del cotone. Ogni palmo di terreno, ogni albero ed ogni ruscello, ogni viale ed ogni sentiero le ricordavano lui. Egli apparteneva ad un'altra donna ed era andato alla guerra, ma il suo spirito vagava ancora sulle strade nel crepuscolo e le sorrideva coi suoi occhi grigi e sonnolenti nell'ombra del porticato. Ogni volta che lo strepito di zoccoli le giungeva dalla strada delle Dodici Querce, per un dolce attimo ella pensava: Ashley! Ora odiava le Dodici Querce, che una volta aveva amato. Le odiava, ma vi era trascinata, per poter udire John Wilkes e le ragazze parlare di lui; udir leggere le sue lettere dalla Virginia. Le facevano male ma voleva udirle. Le erano antipatiche Lydia cosí rigida e Gioia scioccherella e chiacchierona, e sapeva di essere ugualmente antipatica a loro. Ma non poteva rimanerne lontana. Ed ogni volta che tornava a casa dalle Dodici Querce, si metteva a letto di malumore e rifiutava di alzarsi per andare a cena. Questo rifiuto di mangiare era quello che maggiormente preoccupava Elena e Mammy. Mammy le portava dei vassoi pieni di cibi allettanti, insinuando che adesso che era vedova poteva mangiare quanto voleva; ma Rossella non aveva appetito. Quando il dottor Fontaine disse gravemente a Elena che il dolore spesso può minare un temperamento florido e condurlo alla tomba, la signora O'Hara impallidí, perché questo era il timore che ella nascondeva nel profondo del cuore. - E non si può far nulla, dottore? - Un cambiamento d'aria sarebbe la miglior cosa per lei - rispose il dottore, ansioso di liberarsi di un'ammalata cosí restia. E cosí Rossella, senza entusiasmo, partí col suo bambino, prima per recarsi a visitare i suoi parenti O'Hara e Robillard a Savannah e poi per andare presso le sorelle di Elena a Charleston. A Savannah furono gentili con lei, ma Giacomo e Andrea e le loro mogli erano vecchi e amavano sedere tranquillamente a parlare di un passato che non aveva alcun interesse per Rossella. Lo stesso fu coi Robillard; e Charleston fu addirittura terribile. Zia Paolina e suo marito, un piccolo vecchio pieno di una cortesia formale e volubile e con l'aria assente di una persona che vivesse in un altro secolo, abitavano in una piantagione sul fiume, molto piú isolata di Tara. I loro vicini piú prossimi abitavano a una distanza di venti miglia che bisognava percorrere attraverso foreste vergini, paludi, boschi di cipressi e di querce. Le querce, con i loro drappeggi di musco grigio, davano sempre i brividi a Rossella, e le ricordavano le storie di Geraldo di spiriti irlandesi erranti fra le nebbie color di cenere. Non vi era nulla da fare tutto il giorno se non lavorare a maglia; e la sera ascoltare lo zio Carey che leggeva ad alta voce le opere istruttive di Bulwer Lytton. Eulalia, nascosta in un giardino dalle alte mura in una grande casa presso la Batteria di Charleston, non era piú divertente. Rossella, abituata all'ampio paesaggio di colline rossastre, ebbe l'impressione di essere in prigione. Vi era qui piú vita sociale che presso zia Paolina; ma Rossella non provava alcuna simpatia per i visitatori, con le loro tradizioni, le loro arie, le loro enfasi a proposito della famiglia. Sapeva che tutti la ritenevano il prodotto di una «mésalliance» e che erano ancora stupefatti che una Robillard avesse sposato un volgare irlandese. Rossella sentiva che la zia Eulalia la scusava dietro le spalle; cosa che la irritava perché, come suo padre, ella non teneva affatto all'aristocrazia della famiglia. Ed era fiera di ciò che Geraldo era riuscito a fare senz'altro aiuto se non il suo astuto cervello d'irlandese. E anche quelli di Charleston se la prendevano tanto per il Forte Sumter! Dio mio, ma non capivano che se non fossero stati loro a commettere la sciocchezza di sparare le prime fucilate che avevano portato alla guerra, vi sarebbero stati altri pazzi che lo avrebbero fatto? Abituata alle voci acute della Georgia dell'altipiano, le voci gravi e strascicate della pianura le davano noia. In certi momenti aveva voglia di urlare. Durante una visita di cerimonia giunse a un tal punto di esasperazione che ricorse al dialetto di Geraldo, con gran scandalo di sua zia. Allora decise di ritornare a Tara. Meglio essere tormentata dal ricordo di Ashley che dall'accento di Charleston. Elena, occupata giorno e notte a raddoppiare il prodotto della piantagione per aiutare la Confederazione, fu terrorizzata quando si vide tornare a casa la figlia maggiore, magra, pallida e inasprita. Aveva avuto ella pure il cuore spezzato; quindi, coricata accanto a Geraldo che russava, passava la notte a cercare che cosa potrebbe fare per alleviare il dolore di Rossella. La zia di Carlo, Pittypatt Hamilton, aveva scritto parecchie volte chiedendole di permettere a Rossella di recarsi ad Atlanta per un lungo soggiorno; ed ora, per la prima volta, Elena considerò con serietà la proposta. «Sono sola con Melania nella vasta casa - scriveva Miss Pittypatt - senza protezione maschile ora che il caro Carlo è morto. È vero che c'è mio fratello Enrico, ma non abita con noi. Forse Rossella vi ha parlato di Enrico. La delicatezza mi vieta di scrivere lungamente sul suo conto. Melly ed io ci sentiremo piú tranquille e sicure con Rossella in casa. Tre donne sole stanno meglio di due. E forse Rossella troverà un po' di sollievo al suo dolore, curando - come fa Melly - i nostri bravi soldati negli ospedali di qui... E poi, Melly ed io desideriamo tanto di vedere il caro piccino...» Cosí il baule di Rossella fu chiuso di nuovo con dentro i suoi abiti da lutto, ed ella partí per Atlanta con Wade Hampton, la sua bambinaia Prissy, una quantità di avvertimenti sul suo contegno da parte di Elena e di Mammy e cento dollari in biglietti della Confederazione datile da Geraldo. Non desiderava particolarmente di andare ad Atlanta. Riteneva zia Pittypat la piú noiosa vecchia che dar si potesse; e l'idea di vivere sotto lo stesso tetto con la moglie di Ashley le ripugnava. Ma la Contea, con tutti i suoi ricordi, era un soggiorno impossibile; e qualsiasi mutamento era il benvenuto.

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Vi è da mangiare in abbondanza e sono fornite di medicinali e di coperte... - Oh, lo so che sono ben provvisti! - esclamò Melania con amarezza. - Ma non danno niente ai prigionieri. E voi lo sapete, Mr. Kennedy; ma parlate cosí per tranquillizzarmi. Se si potessero fare scomparire gli yankees dalla faccia della Terra! Che volete, sono certa che Ashley è... - Non lo dire! - gridò Rossella col cuore in gola. Finché nessuno diceva che Ashley era morto, in lei sussisteva una debole speranza che egli vivesse ancora; ma le sembrava che se quelle parole fossero pronunciate, in quel momento egli morrebbe. - Non vi preoccupate per vostro marito, Mrs. Wilkes - intervenne il monocolo. - Io fui catturato nei primi tempi e poi fui scambiato; e mentre ero in prigione mangiavo polli e focacce... - Bugiardo! - E Melania accennò a un sorriso. E poi, per cambiare argomento: - Se vogliamo andare in salotto, vi canterò qualche canzone di Natale. Il pianoforte è la sola cosa che gli yankees non hanno potuto portar via. Dev'essere terribilmente stonato; vero, Súsele? - Terribilmente - rispose Súsele, sorridendo a Franco. Si alzarono per passare nell'altra stanza; sulla soglia Franco trattenne Rossella per la manica. - Posso parlarvi un momento a quattr'occhi? Per un attimo ella ebbe il timore che l'ufficiale volesse chiederle le sue provviste di vettovaglie; e si preparò a mentire coraggiosamente. Rimasero soli dinanzi al caminetto; e tutta la falsa gaiezza che aveva animato il volto di Franco Kennedy scomparve. Rossella ebbe l'impressione di trovarsi dinanzi a un vecchio. Egli si tirò un momento le fedine grige e si raschiò la gola prima di parlare. - Mi dispiace molto di vostra madre, miss Rossella... - Non ne parliamo, vi prego! - E vostro padre... è cosí da quando...? - Sí... non è piú in sé... Ma vi supplico... - Scusate, miss Rossella. - E stropicciò i piedi nervosamente. - Ma il fatto è... Insomma, volevo dire qualche cosa a vostro padre, ma capisco che è inutile. - Forse potete parlare con me, Mr. Kennedy. Oramai... sono io il capo di casa. - Ecco... - e Franco ricominciò a tirarsi la barba. - Volevo... volevo chiedergli la mano di miss Súsele. - Ma come! - esclamò Rossella stupita. - Non gliel'avevate ancora chiesta? E le fate la corte da tanti anni! Egli arrossí e sorrise imbarazzato, come un ragazzo timido. - Ma... non sapevo se... se vostra sorella era disposta... Io sono molto piú vecchio di lei... E c'erano tanti giovinotti che giravano qui intorno... «Bah!» pensò Rossella. «Venivano per me, non per lei!» - E non so neanche adesso se... se mi vuole. Non gliel'ho mai domandato, ma... credo che lei sappia qual è il mio sentimento. Miss Rossella, io non ho piú nulla. Avevo molto denaro - scusatemi se ne parlo - ma non mi è rimasto altro che il mio cavallo e l'abito che ho addosso. Quando mi arruolai vendetti la maggior parte della mia proprietà e investii il denaro in titoli della Confederazione; e voi sapete che cosa valgono oggi. Meno della carta su cui sono stampati. D'altronde, non ho neppure questi, perché sono andati bruciati quando gli yankees incendiarono la casa di mia sorella. So che ho torto a chiedere miss Súsele oggi, ma... Non so che cosa succederà di noi quando la guerra sarà finita. Mi sembra la fine del mondo: non siamo sicuri di nulla. Però... penso che potrebbe essere un conforto per me e forse anche per lei se fossimo fidanzati. Non chiedo di sposarla finché non potrò essere in grado di mantenerla; e non so quando ciò potrà accadere. Ma se il vero amore può equivalere alla ricchezza, vi assicuro che Súsele, da questo punto di vista, sarà ricca come nessun'altra al mondo. Disse queste ultime parole con una dignità che commosse Rossella, benché le sembrasse strano che qualcuno potesse amare sua sorella. Questa le sembrava un mostro di egoismo e di perversità. - Va bene, Mr. Kennedy - rispose tranquilla. - Credo di potervi rispondere a nome di mio padre. Egli ha sempre avuto simpatia per voi ed era sicuro che Súsele vi avrebbe sposato. - Davvero? - esclamò Franco, felice. - Senza dubbio - e nascose un sorriso ricordando quante volte Geraldo aveva brontolato perché lo spasimante di Súsele non si decideva a manifestare le sue intenzioni. - Le parlerò stasera - proseguí egli, con le labbra un po' tremanti. Poi prese la mano di Rossella e la strinse. - Siete molto buona, miss Rossella. - Adesso ve la mando - e Rossella si avviò verso il salotto, da cui giungeva suono del pianoforte e la voce di Melania che cantava un inno. Bruscamente si volse verso Kennedy. - Che avete voluto significare dicendo che vi pare la fine del mondo? - Vi parlerò con franchezza - cominciò Franco lentamente - ma non vorrei che spaventaste le altre signore ripetendo loro quello che vi dirò. La guerra non può piú durare a lungo: non abbiamo piú uomini e i disertori sono numerosissimi; molto di quanto si voglia riconoscere. Non vi sono viveri, e senza mangiare non si può combattere. Lo so perché sono addetto appunto al vettovagliamento. Ho percorso in tutti i sensi questa regione da quando abbiamo ripreso Atlanta: non vi è di che nutrire un uccellino. E lo stesso è per trecento miglia a sud di Atlanta. Il popolo muore di fame; le ferrovie sono distrutte; non abbiamo piú fucili, le munizioni si stanno esaurendo e non vi è cuoio per le scarpe... Perciò, siamo alla fine. La fine delle speranze della Confederazione turbò Rossella meno delle notizie sulla scarsità di viveri. Se quanto diceva Franco era vero, era inutile mandare Pork col denaro degli Stati Uniti a cercare di procurare qualche cosa... Ma Macon non era caduta. A Macon dovevano esservi dei viveri. Appena il commissario del dipartimento fosse ripartito, ella manderebbe Pork a Macon. Pazienza: correrebbe il rischio che il cavallo fosse requisito dall'esercito! Ma valeva la pena di tentare. - Bene, non parliamo di cose spiacevoli stasera, Mr. Kennedy - disse. - Andate nello studietto della mamma; vi manderò Súsele, cosí potrete... insomma, avrete un colloquio con lei. Sorridendo, rosso di emozione, Franco uscí dalla stanza: Rossella lo seguí con lo sguardo. «Peccato che non possa sposarla adesso» pensò. «Sarebbe una bocca di meno in casa.»

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Tutto il mondo chiedeva cotone, e il nuovo terreno della Contea, fertile e non sfruttato, ne produceva in abbondanza. Il cotone era la pulsazione del cuore del paese; la semina e il raccolto erano la sistole e diastole della vermiglia terra. Dai solchi sinuosi veniva la ricchezza e anche l'arroganza; arroganza fondata sui verdi cespugli e sugli ettari di un bianco fioccoso. Se il cotone poteva farli ricchi in una generazione, quanto piú ricchi sarebbero nella prossima! La certezza dell'indomani dava entusiasmo e gioia di vivere; e la gente della Contea godeva la vita con un fervore che Elena non riuscí mai a comprendere. Avevano abbastanza denaro e abbastanza schiavi per avere anche il tempo di divertirsi; e si divertivano volentieri. Sembrava che non fossero mai tanto occupati da dover mancare a una partita di pesca, a una caccia o a una corsa di cavalli: ed era raro che passasse una settimana senza la sua riunione a base di porchette arrostite e il suo ballo. Elena non avrebbe mai potuto o voluto diventare simile a loro - aveva lasciato a Savannah troppo di se stessa - ma li rispettava e, col tempo ammirò la franchezza e la rettitudine di quel popolo che aveva poche reticenze ed apprezzava un uomo per quel che valeva. Divenne la signora piú amata della Contea. Era una vigile ed economa padrona di casa, una buona madre e una moglie devota. L'altruismo che avrebbe dedicato alla Chiesa fu invece consacrato al servizio dei suoi figliuoli, della sua casa e dell'uomo che l'aveva allontanata da Savannah e dai suoi ricordi e non le aveva mai rivolto alcuna domanda. Quando Rossella ebbe un anno - piú sana e vigorosa di qualsiasi altra bambina, secondo Mammy - nacque la seconda bambina di Elena, Susanna Eleonora, sempre chiamata Súsele, e, alla debita distanza, venne Carolene, iscritta nella Bibbia familiare come Carolina Irene. Seguirono poi tre maschietti, ognuno dei quali morí prima di avere imparato a camminare; tre bambini che ora dormivano sotto i cedri contorti, nel cimitero a cento metri dalla casa, sotto tre pietre ciascuna delle quali portava l'iscrizione «Geraldo O' Hara, Jr.» Dal giorno in cui Elena giunse a Tara, il luogo fu trasformato. Benché avesse solo quindici anni, ella era nondimeno pronta per tutte le responsabilità di una padrona di piantagione. Anche allora, prima del matrimonio, le ragazze dovevano essere soprattutto belle, gentili, decorative; ma dopo sposate, bisognava che fossero in grado di dirigere un'azienda domestica che contava oltre cento persone, fra bianchi e negri; e venivano educate in vista di questo. Elena aveva ricevuto quella preparazione per il matrimonio che veniva data a tutte le fanciulle di buona nascita; inoltre aveva con sé Mammy, la quale, con la sua energia, era capace di galvanizzare il negro piú inetto. In breve ella portò nel governo della casa di Geraldo ordine e dignità e diede a Tara una bellezza che non aveva mai avuta prima. La casa era stata costruita senza alcun piano architettonico prestabilito, aggiungendo delle camere quando occorrevano; ma con l'attenzione e la cura di Elena, acquistò un fascino speciale che derivava appunto dalla sua mancanza di disegno. Il viale di cedri che conduceva dalla strada principale alla casa - quel viale di cedri senza il quale nessuna casa di piantatore georgiano sarebbe stata completa - spandeva un'ombra cupa e fresca che per contrasto dava maggior vivezza e splendore al verde degli altri alberi. Il convolvolo che si arrampicava sulle verande appariva di un verde chiaro sul bianco delle mura; e insieme ad esso il rosa dei cespugli di ibisco accanto alla porta e le magnolie dai candidi fiori che si ergevano sulla spianata, nascondevano alquanto le linee goffe dell'edificio. In primavera e in estate il trifoglio e l'erba medica del prato diventavano color smeraldo, di uno smeraldo cosí seducente che rappresentava una tentazione irresistibile per i branchi di tacchini e di oche bianche che avrebbero, in realtà, dovuto abitare solo le regioni dietro alla casa. I volatili tentavano sempre delle clandestine avanzate sulla spianata, attratti dal verde dell'erba e dalla seducente promessa dei cespugli di gelsomini del Capo e delle aiuole di zinnie. Contro le loro ruberie era stata installata sotto al porticato una piccola sentinella nera. Il bambino seduto sui gradini, armato di un grande straccio bianco, faceva parte del quadro di Tara; ma era molto infelice perché gli era proibito di inseguire i gallinacei e doveva limitarsi a gridare e ad agitare lo straccio per spaventarli. Elena addestrava a questo còmpito dozzine di bambini negri: era il primo ufficio con una responsabilità che gli schiavi maschi avessero a Tara. Dopo i dieci anni venivano mandati dal vecchio Daddy, il ciabattino della piantagione per imparare il suo mestiere, o da Amos, il carpentiere, o da Filippo, il vaccaro, o da Cuffee, il guardiano delle mule. Se non mostravano attitudine per alcuno di questi mestieri, diventavano coltivatori e, nell'opinione dei negri, avevano perso il diritto a qualsiasi posizione sociale. La vita di Elena non era facile né felice; ma ella non si era aspettata che fosse facile, e quanto alla felicità, quello era il destino della donna. Il mondo era degli uomini ed ella lo accettava cosí. L'uomo era lodato per l'ordine della sua proprietà e la donna lodava la sua abilità. L'uomo rugghiava come un toro se una scheggia gli si ficcava in un dito e la donna soffocava i gemiti, quando metteva al mondo un figlio, per timore di disturbarlo. Gli uomini erano sgarbati e spesso ubriachi. Le donne ignoravano le cattive parole e mettevano gli ubriachi a letto senza parlare. Gli uomini erano rudi e brontoloni, le donne erano sempre buone, gentili e disposte a perdonare. Era stata educata nella tradizione delle grandi dame e le era stato insegnato a sopportare i propri dolori conservando il suo sorriso; ed ella intendeva che anche le sue tre figlie fossero, come lei delle vere signore. Con le figlie piú giovani era riuscita, perché Súsele desiderava tanto di essere piacente che prestava orecchio attento agli insegnamenti di sua madre, e Carolene era timida e facile da guidare. Ma, per Rossella, figlia di Geraldo, la via della signorilità fu dura. Con grande indignazione di Mammy, ella preferiva compagni di gioco che non fossero le sue ubbidienti sorelline o le bene educate fanciulle Wilkes, ma i bambini negri della piantagione e i maschietti del vicinato, ed era capace di arrampicarsi su un albero e di lanciar sassi. Mammy era molto turbata che la figlia di Elena avesse simili inclinazioni, e spesso la scongiurava di «condursi come una signora», ma Elena considerava la faccenda con una tolleranza piú lungimirante. Ella sapeva che i compagni d'infanzia sarebbero piú tardi diventati dei corteggiatori; e il primo dovere di una ragazza era sposarsi. Diceva quindi fra sé che la bimba era semplicemente piena di vita e che vi era tempo per insegnarle le arti e i modi che attraggono gli uomini. A tal fine Elena e Mammy riunirono i loro sforzi, e col passare degli anni, Rossella divenne una buona allieva, ma solo in questa materia, ché per tutto il resto imparava assai poco. Malgrado una successione di istitutrici e due anni trascorsi nella Accademia Femminile di Fayetteville, la sua educazione era incompleta; ma nessuna fanciulla della Contea parlava piú graziosamente di lei. Ella sapeva sorridere con garbo, camminare facendo ondeggiare i cerchi della sua gonna in modo attraente, sapeva guardare un uomo in faccia e poi abbassare gli occhi e battere le palpebre rapidamente in modo che sembrasse il tremito di una dolce emozione; e, soprattutto, aveva imparato a nascondere agli uomini un'intelligenza acuta sotto un viso dolce e semplice come quello di un bambino. Elena con la sua voce ammonitrice e Mammy con le sue costanti censure cercavano d'inculcare in lei le qualità che l'avrebbero resa veramente desiderabile come moglie. - Devi essere piú dolce, cara, piú remissiva - diceva Elena. - Non devi interrompere gli uomini che ti parlano, anche se credi di saperne piú di loro sull'argomento. Gli uomini non amano le ragazze troppo perspicaci. - Ragazze superbe che darsi arie e dire «voglio questo, voglio quello» di solito non trovare marito - profetizzava cupamente Mammy. - Le ragazze dovere abbassare occhi e dire «bene signore» e poi «Sí signore» e «avete ragione signore.» Le insegnarono dunque tutto ciò che una gentildonna doveva sapere, ma ella imparò soltanto la vernice della gentilezza. Non apprese mai la grazia interiore da cui questa gentilezza doveva sgorgare, e non vedeva neppure la ragione di apprenderla. Le apparenze bastavano, perché le apparenze della signorilità le acquistavano dei corteggiatori; ed ella non desiderava di piú. Geraldo proclamava che sua figlia era la piú bella di cinque Contee, e con un certo fondo di verità; infatti ella ebbe proposte di matrimonio da quasi tutti i giovani del vicinato ed anche da luoghi lontani, come Atlanta e Savannah. A sedici anni, grazie a Mammy e ad Elena, appariva gentile, simpatica e briosa, mentre in realtà era volontaria, vana e caparbia. Aveva ereditato la facile eccitabilità del padre irlandese e nulla della natura altruista e indulgente di sua madre, se non d'apparenza. Elena non si rese mai completamente conto che era soltanto una vernice, perché Rossella le mostrava soltanto il suo volto migliore, nascondendo le sue scappate, piegando il suo temperamento e apparendo in presenza di Elena piú dolce che poteva, perché sua madre, con un solo sguardo di rimprovero, riusciva a mortificarla fino alle lagrime. Ma Mammy non aveva illusioni sul suo conto ed era continuamente sul «chi vive» per le screpolature della vernice. Gli occhi di Mammy erano piú acuti di quelli di Elena, e Rossella non ricordava di essere mai riuscita ad ingannarla per molto tempo. Non che questi due mentori affettuosi deplorassero la vivacità, il fascino e la disinvoltura della giovinetta. Di tali qualità le donne meridionali andavano fiere. Erano invece preoccupate dalla natura impetuosa e dalla cocciutaggine di Geraldo che risorgevano in lei; e talvolta temevano che questi difetti non si sarebbero potuti nascondere prima che ella facesse un buon matrimonio. Ma Rossella intendeva sposarsi - e sposare Ashley - e perciò voleva apparire modesta, docile, e leggera, se queste erano le qualità che attraevano gli uomini. Non sapeva perché gli uomini fossero cosí; sapeva soltanto che questi metodi funzionavano. La cosa non l'interessò mai tanto da farle cercare la ragione di questo, poiché ella ignorava il lavorio interiore di ogni essere umano, e perfino il suo. Sapeva soltanto che se ella diceva o faceva «cosí - e cosà» gli uomini invariabilmente rispondevano col complimento «cosí - e cosà». Era come una formula matematica e non piú difficile di questa, perché la matematica era l'unica materia che era sembrata facile a Rossella quando andava a scuola. Se conosceva poco il raziocinio maschile, conosceva ancor meno quello femminile, perché le donne l'interessavano poco. Non aveva mai avuto un'amica e non ne aveva mai sentito la mancanza. Per lei tutte le donne, comprese le sue due sorelle, erano nemiche naturali che inseguivano la stessa preda: l'uomo. Tutte le donne, eccetto sua madre. Elena O'Hara era diversa, e Rossella la considerava come qualche cosa di sacro, fuori da tutto il resto del genere umano. Da bambina confondeva sua madre con la Vergine Maria, ed ora che era grande non vedeva ragione di mutare la sua opinione. Per lei Elena rappresentava la completa sicurezza che solo il cielo o una madre possono dare. Ella sapeva che sua madre era la personificazione della giustizia, della verità, della tenerezza affettuosa e della profonda saggezza: una gran dama. Rossella desiderava molto di essere come sua madre. La sola difficoltà era che essendo giuste e sincere, tenere e altruiste, si lasciavano sfuggire la maggior parte delle gioie della vita e senza dubbio si allontanavano molti corteggiatori. La vita era troppo breve per rinunciare a tante cose piacevoli. Un giorno, quando avesse sposato Ashley e fosse vecchia, un giorno, quando ne avrebbe il tempo, cercherebbe di essere come Elena. Ma fino allora...

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E dàgli del sorgo in abbondanza. Subito, cosí vedo mentre glielo dai. - Questo essere caffè privato e farina di mist' Johnnie - azzardò Rebecca sgomentata. - Di mister Johnnie, proprio?! Suppongo che anche il prosciutto sia suo. Fai quello che ti dico. Sbrigati. Johnnie Gallegher, venite con me fino al carrozzino. Attraversò lo spiazzo in disordine e si arrampicò nel veicolo, osservando con cupa soddisfazione che gli uomini strappavano il prosciutto a brandelli che ficcavano voracemente in bocca. Sembrava che temessero che qualcuno potesse da un momento all'altro rapir loro quel cibo. - Siete un vero furfante! - gridò furibonda a Johnnie che era accanto alla ruota, col cappello ricacciato indietro sulla fronte aggrottata. - E mi consegnerete il prezzo dei miei viveri. Per l'avvenire vi porterò le provviste giorno per giorno invece di mandarvi il necessario per un mese. Cosí non potrete truffarmi. - Per l'avvenire io non ci sarò. - Vi licenziate?! Ebbe l'impulso di gridare: «Tanto meglio!» ma la fredda mano della prudenza la trattenne. Che farebbe, se Johnnie se ne andasse? Con lui, era stato prodotto il doppio di legname di quanto se ne produceva sotto la gestione di Ugo. E proprio adesso ella aveva ricevuto una grande ordinazione, la piú grossa che avesse mai avuta; ed era urgente. Se Johnnie se ne andava, chi provvederebbe alla gestione dello stabilimento? - Sí, mi licenzio. Voi mi avete dato qui pieni poteri, e mi avete detto che da me non volevate altro se non la maggior quantità possibile di legname. Non mi avete detto allora che sistemi dovevo usare; e non intendo che veniate a dirmelo adesso. Non potete lagnarvi che io non abbia rispettato il contratto. Come ottengo il risultato, è cosa che non vi riguarda. Vi ho fatto guadagnare del denaro e ho ben guadagnato il mio salario... e quello che ho potuto arrangiare in piú. E adesso voi venite qui a immischiarvi, a rivolgere delle domande agli uomini, a distruggere la mia autorità. Come volete che, dopo questo, io possa conservare la disciplina? Che vi importa se occasionalmente qualcuno riceve un colpo di frusta? Sono degli indolenti che meritano anche di peggio. E se anche non sono rimpinzati?... Non meritano di meglio. O vi occupate degli affari vostri e lasciate che io mi occupi dei miei, o me ne vado stasera stessa. Il suo viso duro era piú spietato che mai; e Rossella si sentí incerta sul da farsi. «Che farò, se se ne va stasera? Non posso rimanere tutta la notte a guardia dei galeotti!» Evidentemente il suo volto rivelò il suo pensiero, perché l'espressione di Johnnie mutò alquanto e i suoi occhi sembravano meno crudeli. Anche la sua voce suonò meno aspra. - Si fa tardi, signora Kennedy; è meglio che andiate a casa. Non ci guasteremo per una piccola cosa come questa; vi pare? Potete trattenere dieci dollari sul mio stipendio del mese prossimo e siamo pari. Gli sguardi di Rossella andarono involontariamente al miserabile gruppo che stava divorando il prosciutto; poi pensò al malato. Avrebbe dovuto liberarsi di Johnnie Gallegher che era un ladro e un aguzzino. Chi sa che cosa faceva a quei disgraziati quando lei non c'era... Ma, d'altra parte era abile; e lei aveva bisogno di un uomo che sapesse il fatto suo. Inutile: ora non poteva mandarlo via. Soltanto, in avvenire sorveglierebbe che i forzati avessero le giuste razioni di vitto. - Vi tratterrò venti dollari - disse brevemente - e tornerò a discutere su questa faccenda di mattina. Raccolse le redini. Ma sapeva che non se ne sarebbe piú parlato. Era un affar finito; e anche Johnnie lo sapeva. Mentre percorreva il viottolo verso la strada di Decatur, la sua coscienza e il suo desiderio di guadagno combatterono un'aspra battaglia. Non vi era scopo ad esporre delle vite umane alla brutalità di quel piccolo uomo. Se uno di quei disgraziati moriva, ella sarebbe colpevole quanto lui, perché lo aveva lasciato a quel posto conoscendo i suoi mali trattamenti. Ma d'altra parte... d'altra parte, quegli uomini avevano il torto di essere dei forzati. Se avevano commesso dei delitti ed erano stati arrestati, meritavano ciò che loro capitava. Ciò in parte sollevò la sua coscienza; ma mentre percorreva la strada, i visi smunti dei forzati le tornarono dinanzi agli occhi. - Oh, vi penserò dopo! - si disse; e ricacciando il pensiero nel fondo piú recondito della sua mente, richiuse la porta del ripostiglio in cui nascondeva le immagini piú segrete.

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La ballerina (in due volumi) Volume Secondo

247294
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
  • UNICT
  • w
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Vi si paga una lira e cinquanta la colazione, due lire il pranzo: ma, per quel prezzo, dovuto alla concorrenza, vi si mangia bene, relativamente, con abbondanza, i signori studenti, impiegati , viaggiatori di commercio e provinciali essendo molto esigenti. La Regina d'Italia, dunque, è molto popolare e mentre altre trattorie allogate meglio, più nel centro della città, con gli stessi prezzi, languiscono e falliscono, essa mantiene la sua posizione, brillantemente. Giova molto alla sua popolarità l'essere aperta sino ad ora avanzata della notte, cosa che è rara, a Napoli: così che tutti i nottambuli, tutti quelli che hanno una ragazza da portare a cena, tutti i vitaiuoli, giuocatori che hanno vuotato le loro scarselle, giornalisti e reporters dei giornali notturni, delegati di pubblica sicurezza e agenti segreti, affiliati eleganti della mala vita, camorristi di qualità più fine, in soprabito e guanti chiari, tutti, nella sera, nella notte, dànno una capatina alla Regina d'Italia. Spesso, a ora tarda, vi si trova anche qualche gentiluomo elegantissimo, con qualche compagna molto chic: forse è per desiderio d'incanagliarsi un poco; forse, è per cambiare; forse, è per un celato criterio di economia; o, forse, perchè i grandi caffè, i grandi restaurants sono già chiusi. Carmela Minino e Roberto Gargiulo salirono per la scaletta di marmo, non assolutamente pulita, ma passabile, adorna di una striscia di tappeto, in cocco, che si era assai scolorita e sciupata, sotto i piedi degli avventori. Sulla soglia, un grosso e alto uomo si presentò a loro: - Ostricaro! Ostricaro! Volete ostriche? - Vuoi una dozzina d'ostriche, Lina? - chiese, magnificamente, Roberto Gargiulo, con un fare da ricco viveur. - No, no - diss'ella, subito, passando avanti. - Quattro fasolari, signorina; una dozzina di ancini... - diceva ancora, monotonamente, l'ostricaro. Nella prima stanzetta di entrata, che aveva una porta sulla cucina, erano esposte le vettovaglie, sovra una grande credenza di marmo bianco: delle costolette crude, in un piatto enorme; dei polli spiumati e già legati per essere arrostiti; in un grande piatto ovale dei pesci morti, crudi, una spinola, delle triglie, dei calamaretti. E, insieme, dei piatti contenenti un prosciutto cotto, roseo, tagliato a metà e delle salsiccie da cuocersi, contenenti dei latticini, cioè mozzarelle, formaggi freschi e secchi, contenenti frutta fresche e secche: una torta alla romana, cui mancava la metà, faceva mostra di sè, carica di zucchero, gocciolante di crema. Tutta quella roba cruda e cotta doveva eccitare la fame: ma Carmela Minino abbassò gli occhi, passandovi innanzi. - Hai visto, Linuccia? vi erano certe triglie grosse così, un amore. Ce le ordiniamo al pomodoro, eh? - Costeranno... - osò dire lei. - Questo non ti deve importare - replicò lui, subito, un po' sdegnato. - Questa sera si fa festa. - E sì, sì, ordina pure - soggiunse presto, lei, che non voleva contraddirlo. Le sale della Regina d'Italia sono come un budello, una dopo altra, quattro o cinque sino all'ultima, più grande, che sbuca su Toledo. Roberto Gargiulo lasciava andare avanti, per galanteria, la sua amante e la seguiva, col suo passo elastico di uomo abituato a quei posti, a quelle compagnie, a quelle cene; attraverso quelle sale, tutte stuccate di bianco, mobigliate di reps rosso, con certi divani, lungo il muro, innanzi ai quali erano collocate le tavole, divani lunghi e stretti, molto duri e, insieme, molto sfiancati per le migliaia di persone che vi si erano sedute da anni, con certi specchi dalle sbiadite cornici di oro, Gargiulo sogguardava, qua e là, se vi fossero altri vitaiuoli, sue conoscenze, se la gente lo guardasse e lo ammirasse, con la sua aria di finto gran signore, il suo panciotto bianco sotto il thait, la sua catena di oro, e la catenella di argento, dalla tasca del panciotto in quella dei pantaloni, per sostenere le chiavi e il lapis, ultima moda inglese. Nella prima sala, non vi era nessuno. Nella seconda, un solo tavolino occupato, da un marito e una moglie, certo, di provincia, che dovevano aver assistito a uno spettacolo teatrale; il marito aveva condotto la moglie colà, per darle un'idea delle ebbrezze cittadine; nella seconda, due tavolini occupati, da un giovanotto biondo e fine, venticinquenne, con una ragazza vestita vistosamente, la gonna di un colore, il busto di un altro, un fiocco di un terzo colore al collo, un cappello bizzarro, e le mani rosse e nude, una sartina, o una modista, certo, di quelle che si acconciano coi ritagli delle stoffe che rubacchiano alle clienti - l'altro tavolino da Rosina Musto, la zitellona quarantenne, brutta ma simpatica, goffa ma ballerina provetta, col suo antico e costante amatore, don Pasquale Sambrini, il negoziante di generi coloniali. Mentre Carmela passava, Rosina Musto le fece un cenno affettuoso di saluto. - Sta sempre con Sambrini - mormorò Roberto Gargiulo. - Si dice... si dice che siano sposati, in chiesa - osservò Carmela Minino. - Oh! - esclamò lui diventato freddissimo. Eran fermi, nel salone , l'ultimo, il più vasto, che formava angolo, avendo una finestra sul vicolo Speranzella e due balconi sulla via Toledo. Roberto non cenava che lì. Egli cercava, con gli occhi, quale tavola dovesse prescegliere. Si decise per una, situata giustamente nell'angolo, fra la finestra e il balcone. Mentre si sedevano, il cameriere rianimò i becchi del gas. Carmela, macchinalmente, si tolse la giacchetta di panno, a taglio maschile: apparve con un vestito di casimiro lilla, guarnito di velluto lilla alla cintura, al collo e alle maniche: un dono di Roberto, stoffa, guarnizione, fodera, ella avendone pagato solo la manifattura, giacchè non accettava mai un soldo, in denaro, da lui. Anzi, quelle dodici lire di manifattura le erano pesate abbastanza: ma non aveva detto nulla, poichè egli era stato così gentile e generoso! - Perchè non hai messo il cappello nuovo? - chiese lui, che la esaminava attentamente. - Si sciupa tutto, in quel teatro... - ella rispose, vagamente. - Qui non siamo in teatro - osservò l'amante. - Non sapevo... non sapevo che saremmo venuti. Ella era alquanto cambiata, nell'aspetto. Anzi tutto, un tempo, prima di uscire da teatro ella si strofinava sempre il volto per toglierne le traccie del rossetto e dei cold cream; ora, per desiderio di Roberto, espresso più volte, ella si rifaceva il viso, prima di venir via, giacchè egli odiava le facce pallide e opache come la sua: pure gli occhi erano sottolineati dal kohl, sebbene non ne avessero bisogno e le labbra erano vivificate dal lapis di carminio. A lui piaceva, perversamente, di mostrarsi con una giovane molto imbellettata, sempre tendendo a far prendere la povera, semplice timida corifea di terza fila, per qualche donna di grande vita di piacere, carica di cosmetici: ed egli stesso le portava tutte quelle pomate, quegli unguenti, quelle polveri. Ella aveva un paio di guanti portabili, una catenina d'oro con la crocetta, al collo, un paio di orecchini, falsi - ma bene imitati - di brillanti, alle orecchie. Tutto lui, le aveva dato, man mano, dispiacendosi di vederla con le mani nude, senza un ornamento al collo, senza orecchini: erano guanti di fondo di bottega, a una e cinquanta il paio, la crocetta con la catenina era di argento dorato, gli orecchini costavano quindici lire: ma egli se ne teneva, come se accompagnasse una donna coperta da mezzo milione di diamanti. E al lume del gas Carmela Minino si mostrava sotto il suo nuovo aspetto: bizzarramente imbellettata, meno brutta, un po' più piacente, conservando di sincero solo i suoi ricchi capelli neri e un sorriso dolce, assai dolce: le mani, malgrado la glicerina, erano restate brunastre, magre, con le traccie delle fatiche materiali che ella compiva, da anni, in casa sua. Roberto l'aveva pregata di togliersi i guanti meno che poteva; tanto più che non aveva potuto ancora regalarle nessun anello. Erano appena seduti, che entrò una altra coppia, nel salone: era un giovane signore dell'aristocrazia napoletana, un transfuga e un degenerato, veramente, che aveva mangiato al giuoco e con le donne tutta la sua proprietà; egli aveva dato l'ultimo colpo alla sua fortuna con Lodoiska, una chanteuse che portava un nome russo, ma che era genovese: ora, senza un soldo, egli viveva sempre con Lodoiska, alle spalle di lei, anzi si annunziava, dappertutto, il loro matrimonio. I suoi parenti lontani, poiché Placido Massamormile non aveva parenti vicini, facevan di tutto, perché egli lasciasse Napoli, non potendo sopportare tanto obbrobrio. Placido Massamormile era piccolo, asciutto, molto ben fatto, bruno, con capelli e baffi nerissimi, una fisonomia orientale, ma senza mollezze di linee: Lodoiska era alta, bionda, formosa, rosea, con certi begli occhi celesti, ma di cui uno, disgraziatamente, era storto. Ella vestiva di rosso, con un gran cappello bianco, coperto di piume bianche, sulla testa, e aveva un paio di orecchini, almeno di duemila lire, alle orecchie. Roberto Gargiulo e Massamormile si salutarono: Roberto arrossì dal piacere, tanto teneva al saluto delle persone nobili, anche se fossero corrotte e perdute come Placido Massamormile. Carmela e Roberto mangiavano in silenzio un piccolo antipasto banale, di sottaceti, burro e alici: Lodoiska, al solito, con voce bassa, sorda e roca, si disputava con Placido. Ella lo sopportava, adesso, anche povero in canna, anche squalificato, messo al bando da tutte le persone per bene, lo sopportava perchè Placido Massamormile era sempre una buona insegna per una donna come lei, perchè non aveva altri in vista, in quel momento, e perchè, forse, lo amava un poco. Ma si litigavano sempre, irritati ognuno dalla propria condizione, non sapendo come uscirne, Placido col suo fare beffardo e sprezzante, sprezzante anche di sè stesso, Lodoiska con la sua trivialità di chanteuse grottesca, abituata alle smorfie, agli urli, ai salti. Si vedeva che Placido Massamormile sotto quella bella maschera di arabo smarrito in Italia, sotto quell'aria ironica e superba, soffriva di quel contatto, di quei litigi, di quelle scene: e lei ne godeva, invece, più rotonda, più rosea che mai, col suo terribile occhio azzurro che guardava da una parte, mentre l'altr'occhio guardava dall'altra. Invero Roberto Gargiulo invidiava Placido: che era mai quella piccola pecora taciturna di Carmela Minino, innanzi a quella chanteuse che possedea, dicevano, trecentomila lire non guadagnate col canto e che, forse, si sarebbe fatta sposare da un nobile? La meschinità, la grettezza della sua conquista amorosa, ogni tanto, umiliavano profondamente Roberto Gargiulo e gli facevano gittare degli sguardi indifferenti, talvolta astiosi, su Carmela Minino. Comprendeva ella? Forse. Da che Lodoiska era entrata, ella aveva curvato il capo, teneva gli occhi abbassati sul piatto, faceva meccanicamente delle pallottole di mollica: giungendo, così, a irritare sempre più il suo amante che avrebbe voluto vederla tutta lieta, scintillante negli occhi, brillante nella voce e nella parola. - Che hai? Che ti è successo? - le domandò, duramente. - Niente... niente - ella disse, levando gli occhi, un poco sgomenta. - Tu mi sembri un convoglio funebre - soggiunse lui, anche più annoiato dal vederle gli occhi pieni di lacrime. - Era meglio che ti avessi condotta a casa. - Io... io non volevo venire - balbettò lei, soffocando un singulto che le rompeva il petto. - Ci penserò bene, un'altra volta - concluse lui, con secchezza, dandosi accuratamente a liberare la triglia dalle sue spine. Tacquero. Per frenare le lacrime, le palpebre di Carmela battettero, due o tre volte: ella giunse a comporre il suo viso: finse di mangiare, disinvoltamente. Del resto, altra gente entrava. Era Carlo Altamura, un usuraio a giorni, a ore, che esercitava il suo ufficio strozzatorio nelle case da giuoco, dove faceva firmare delle cambiali di ventiquattr'ore ai giuocatori, facendo mettere firme false, facendo firmare delle implicite dichiarazioni di truffa, di furto, tendendo, infine, ogni tranello ai poveri giuocatori disperati e appassionati: era Gaetano d'Amora, un grosso e grasso reporter di giornale notturno, una figura di monaco sfratato; era, infine, tutto solo, senza compagnia di donne, don Gabriele Scognamiglio, il galante, ricco e popolare farmacista di via Pignasecca. Questi tre erano giunti insieme: Altamura, perchè i suoi tetri lavori notturni erano compiuti, per quella notte: Gaetano d'Amora fra una gita e l'altra alla questura e al giornale: e don Gabriele per abitudine, per vizio, non potendo andare a dormire senza cena, senza veder donnette a cenare, magari non con lui, preferendo reggere il moccolo alle coppie degli innamorati, anzi che non avere lo spettacolo dell'amore. Con la sua barbetta bianca bene tagliata e profumata, con le sue guancie colorite e i suoi occhietti maliziosi, elegantemente vestito, col fiore all'occhiello, con due fulgidi anelli di brillanti alle mani, con un bastone dal manico d'argento cesellato, col suo passo ancora fermo malgrado i cinquantacinque anni molto suonati, egli godeva, nei teatri, nei caffè, nei ritrovi notturni, presso donne giovani e vecchie, attrici, ballerine, chanteuses, creature dallo stato civile impreciso, una popolarità, invincibile. Appena entrato, egli aveva salutato affettuosamente Roberto Gargiulo e Carmela Minino, inviando loro quasi un cenno di benedizione. Poi, vi fu un cambio. Gaetano d'Amora aveva chiamato un minuto, in disparte, Roberto Gargiulo e man mano lo aveva condotto fuori il secondo balcone di Toledo, a parlottare: cortesemente, don Gabriele Scognamiglio si era subito avvicinato a Carmela Minino, per non lasciarla sola. - Oh donna Carmelina nostra, voi diventate sempre più bella - le disse, a voce bassa, con un sorriso sulle labbra. - Sono belli gli occhi vostri - rispose, con la frase consuetudinaria simbolica napoletana, Carmela. - Oh io son vecchio, son vecchio, donna Carmelina! nessuno vuole più saperne di me. - Non dite questo... non è vero, cavaliere. - E voi, forse, mi volete? Non mi avete sempre detto no? E invece, come tutte le altre, avete preferito il giovanotto. Egli sogguardava verso il balcone, cautamente, con finezza, parlando piano, con un amabile sorriso. Ella lo guardava, arrossendo, impallidendo, non avendo il coraggio d'interromperlo, poichè quel vecchio ricco, generoso, bene educato, dalle avventure fantastiche, le faceva soggezione. - Che ci trovate, in quel giovanotto? Gli volete molto bene, proprio molto? - chiese don Gabriele, sempre più aggressivo. - Oh! - esclamò lei senz'altro, turbatissima. - Vi dà molto danaro forse? E dove lo piglia? - Niente danaro, niente! - replicò lei, subito, con un moto d'ira e di fierezza. - Non vi offendete, perdonatemi donna Carmelina. Allora vi fa morir di fame? Per i suoi belli occhi? Qualche regaluccio, null'altro, ho capito! E voi ci rimettete anche qualche soldo... Ella tremava di sgomento, poichè tutto quello che don Gabriele diceva era crudele, ma vero, poichè le sembrava un delitto non difendere Roberto Gargiulo, poichè le pareva ben brutale che le si potesse parlare così, da quel peccatore che non si voleva pentire; tutto era vero e tutto era così doloroso, per lei, che ella si appoggiò alla sedia, come se mancasse. - Non vi affliggete, donna Carmelina, non vi voglio vedere così triste - soggiunse il farmacista. - Ma ve lo dico da vero amico, quale vi sono, perchè vi ho conosciuta da bambina e perchè siete una brava ragazza... Ella gli rivolse uno sguardo supplichevole. Don Gabriele ebbe l'aria di non notarlo e proseguì: - Ve lo dico schietto: un giorno o l'altro, Roberto Gargiulo vi lascia. Forse il giorno non è lontano... - Forse il giorno non è lontano... - ripetè lei, macchinalmente, come se ciò rispondesse a un suo intimo pensiero. - E che fate, allora? Chi vi trovate? Chi chiamate, donna Carmelina? - Chi trovo? Chi chiamo? - replicò lei, smarrita. - Vi trovate il vostro vecchio amico Gabriele, che non ha ventott'anni, che non ha i baffetti in aria e la scrima all'imperatore, ma è una persona seria, donna Carmelina. Chiamate don Gabriele e don Gabriele vi risponde, col saluto militare: presente! E coronò con una bella risata il suo discorso, poichè Roberto Gargiulo si riavvicinava, con la sua aria d'importanza. Anzi, osservando che Carmela era scomposta nel viso, evidentemente commossa, don Gabriele si lanciò in un discorso, frammezzato da risate: - Caro, caro Gargiulo, giacchè scortesemente avevate lasciata sola questa bella ragazza, io, da fedel cavaliere, sono venuto a tenerle compagnia... - E le avete fatto la corte? - disse, briosamente, Roberto, ricominciando a cenare. - Già, gliela faccio sempre. Stasera più che mai. - E con che risultato, cavaliere? - A mia vergogna, lo confesso, con nessun risultato - disse, sghignazzando, l'antico peccatore. - Voi mi mortificate, cavaliere... - mormorò Carmela che era già rimessa dall'emozione, ma restava imbarazzata. - Tenetevela cara, questa donnetta, Gargiulo, vi vuol bene: vi adora: è un mostro di fedeltà. Nulla ha potuto smuoverla. Io sono un vecchio birbante, ma lei è un angelo! E malgrado il leggiero tono d'ironia che era in queste parole, malgrado la loro esagerazione, Roberto Gargiulo si ringalluzzì. Quando don Gabriele Scognamiglio si fu allontanato per andare a cenare, soddisfatto di quel che era riescito a dire a Carmela, Roberto le stese la mano sulla tavola e le toccò, con una carezza, la mano. - Ti chiedo scusa, se sono stato maleducato, poco fa. - Non importa, non importa - diss'ella, di nuovo molto commossa. Quando salì le scale di casa sua, di quel quarto piano nel vicolo Paradiso, tutta sola, la ballerina abbassava il capo, ansando per una pena fisica e morale e il fiato le sibilava fra i denti stretti. Sotto il portoncino di casa sua, come ogni volta che l'accompagnava, dopo cena, Roberto Gargiulo le aveva domandato di lasciarlo salir sopra, un poco, non per tutta la notte, per una mezz'ora. E lei, ostinatamente, aveva rifiutato. In casa, no! Da che si era data a Roberto Gargiulo e la gente, purtroppo, lo aveva saputo, ella si vergognava immensamente dei suoi vicini, dalla fruttivendola rabbiosa che aggrottava le ciglia, vedendola passare, e faceva esclamazioni apertamente maligne, alla carbonaia, che seguitando a sferruzzare sulla sua calzetta, cRollava la testa malinconicamente, da don Santo il panettiere, che dava grandi colpi di coltello per tagliare i grossi tortani di pane, dicendo: che siamo noi, che siamo mai, noi, al giovane vinaio, figliuolo della Sangiovannara, che le aveva tolto il saluto. Persino Gaetanella la pettinatrice, adesso che ella si pettinava ogni giorno, veniva da lei a bocca stretta, con parole caute e sottolineate, con qualche allusione alle giovani che si rovinavano, sul teatro e via: e infine il suo portinaio, quello di cui essa più aveva scorno, che la guardava con un certo sogghigno strano, ogni volta che ella usciva a ora insolita. In casa, no, mai! Si vergognava di tutto quello che vi era dentro, della Madonna sospesa a capo letto, delle reliquie di sant'Antonio di cui era tanto devota, di tutto quello che le rammentava la sua giovinezza ancora casta, ancora pura. Non esprimeva nulla di ciò, a Roberto, per paura che si burlasse di lei; ma si ostinava a non volerlo, in casa. La stanza era così miseramente arredata, malgrado le sue fatiche per tenerla pulita, che una fiamma le saliva al viso all'idea che il suo amante, così pretenzioso sullo chic, volesse penetrarvi. Quella sera, anche, egli aveva insistito, presso lei, infastidito di doverla vedere, da solo a sola, in un alberghetto di terz'ordine, verso la ferrovia, una locanduccia detta La bella Napoli, come se ella fosse una donna maritata, con un marito geloso: infastidito, anche, senza volerlo dire, di dovere spendere qualche lira, per questo convegno, quando ella era sola in casa, e con cinquanta centesimi dati al portinaio, costui avrebbe taciuto. - No, no, no - aveva replicatamente risposto lei, con la cocciutaggine dei timidi, dei paurosi. Quella sera istessa, Roberto Gargiulo le aveva offerto di farle cambiar casa, di affittarle una stanza mobiliata, in un'altra via, in un altro quartiere, dove nessuno la conoscesse; offerta già fattale altre volte, ma sempre vagamente, senza mai fissarne i termini. Ella aveva sempre rifiutato: e, in fondo, Roberto Garginlo sarebbe stato bene mistificato, se ella avesse accettato. Una stanza mobiliata, almeno quaranta o cinquanta lire al mese; spesa insopportabile al bilancio del giovane cassiere: e, insieme, tanti altri obblighi, una serva da pagare, il portinaio da compensare, e le padrone di casa corrompitrici e avide, e il vincolo con Carmela fatto più saldo, più forte da questo cambiamento di vita, da lui voluto. Così, per scimmiottare il gran signore, egli aveva pronunziato, due o tre volte, questa frase: felice di non essere preso in parola. Ella non aveva voluto, seria, con quel senso di economia rigorosa che le veniva dalla povertà, con quel senso di conservazione di tutte le creature semplici, che amano la loro vecchia strada, la loro brutta casa, i loro cattivi vicini. Pure, ogni volta che non lo lasciava salire in casa, Roberto Gargiulo andava via in collera. Sicuro di esser adorato da Carmela Minino, sapendola obbediente a ogni suo cenno, certissimo di tenerla soggiogata sotto il fascino del suo amore, della sua generosità - non le faceva sempre dei regalucci? - questa ribellione lo indignava. - Dunque, ti vergogni di quel che hai fatto? E perchè lo hai fatto? - la investiva, arrivando alle ingiurie. - Perchè... perché... - diceva lei, cRollando il capo, misteriosamente. Giunta innanzi alla sua porta e avendo aperto, senza togliersi nè il cappello, nè la giacchetta, all'oscuro, con la fioca luce che veniva dalla finestra, donde erano chiusi solo i vetri, ella si lasciò cadere sopra una sedia, che aveva urtato col piede, e si nascose il viso fra le mani. Ella sapeva che, adesso, Roberto Gargiulo se ne tornava alla sua casa, sull'altura di San Potito: e che, dormitovi su, non avrebbe più pensato alla loro lite, piccola del resto. Ma essa, sola, all'oscuro, si sentiva così miserabile, così perduta, così disperata, che si chiese, ad alta voce, come se vi fosse un'altra persona: - Ma che ho? Che mi è successo? Ah pensando, pensando, in quella ombra, in quel silenzio, in quell'ora alta della notte, ella lo vedeva bene, quello che le era successo! Le era successo che aveva commesso il suo primo e il suo grande errore, quello che non si ripara mai più, quello per cui solo Dio, forse, può aver misericordia, commesso non per passione, non per amore, non per vanità, non per interesse, ma perchè era una creatura fiacca e senza volontà, incapace di resistere, incapace di reagire: aveva offeso il Signore e la Madonna, aveva addolorato la benedetta anima di sua madre che era, forse, in Purgatorio, si era perduta nell'opinione della gente onesta, non si poteva più confessare, non si poteva più comunicare, così, così, senza una ragione forte, possente, che la scusasse, che le servisse di compenso. Ella era molto legata a Roberto Gargiulo per gratitudine delle sue gentilezze, della sua bontà, dei doni che le faceva, ella avrebbe fatto per lui ogni sacrificio, per mostrargli la propria riconoscenza, ma volergli bene, come si vuol bene a un amante, questo non lo sentiva. - Perchè l'ho fatto, dunque? Perche l'ho fatto? Nella notte che si faceva più fredda, in quella stanza in cui aveva battuto i denti tutto l'inverno, sotto le sue grame coverte, ella rivolgeva a sè questa frase che, tante volte, nelle dispute, era proferita da Roberto: e niuna risposta ne veniva dai recessi oscuri della sua anima, dove, pure, qualche cosa di profondo viveva. E come se ne era pentita, subito dal primo momento, si pentiva quella notte, di ritorno da quella cena alla Regina d'Italia, quella cena che ella aveva inghiottita di traverso, fra quella gente curiosa notturna, con quelle pretensioni, quei malumori, quegli sgarbi di Roberto Gargiulo, con quel terribile discorso di Don Gabriele Scognamiglio, il discorso in cui le si rivelava, limpidamente e crudamente, l'errore passato e il dolore futuro. Forse che Roberto Gargiulo veramente era innamorato di lei? Non era ella brutta, malgrado la gioventù, malgrado i begli occhi neri e i bei capelli neri, e Gargiulo non era, forse, un bel giovane e aveva avuto delle altre amanti, almeno come diceva lui, centomila volte più belle di lei? Che ci poteva trovare in lei, Roberto Gargiulo? Per questo la obbligava a caricarsi le guancie di belletto, e tingersi gli occhi e le labbra, a riempirsi di gioielli falsi, a lavarsi le mani con la pasta di mandorle, perchè la doveva trovare rozza, comune, brutta, servile. L'amava Gargiulo? Ma che! ma che! Ella non era di quelle donne cui si vuol bene: la fortuna d'ispirare un grande amore, almeno un amore forte, non le era riserbata. Ciò era fatto per le prime ballerine, per le comprimarie, per quelle felici di prima fila, che sanno ballare bene, che hanno le gonnelline sempre fresche, i bustini di raso sempre nuovi, le mani bianche della donna oziosa e qualche bel gioiello, al collo: non era ella una infelice ballerina di terza fila, perduta fra le sorelle Musto e Marietta Sanges, fra Filomena Scoppa e Checchina Cozzolino, portando delle gonnelle appassite, dei calzari sdruciti e niente al collo? Gargiulo, amarla? Ma che! - Perchè l'ho fatto, dunque? Perchè l'ho fatto? Ella se ne pentiva amaramente. Le gioie fisiche dell'amore nulla avevano detto al suo temperamento abituato alla castità: ella le subiva senza mormorare, come una punizione del suo peccato: in certi giorni le davano una ripugnanza invincibile. Sentimentale, di quella piccola sentimentalità meridionale, ella avrebbe voluto che Roberto Gargiulo le scrivesse sempre delle lunghe lettere, come le prime, che le trascrivesse dei versi, da qualche libro, che le portasse dei fiori, che le dicesse tante dolci parole, che le facesse tante carezze, soavi e pure: e lui, invece, avendo preso una ballerina per amante, riteneva inutile, oramai, tutto questo che si fa con le signorine per bene, con la fidanzata e assumeva un tono disinvolto, superiore, cinico, di persona rotta alla vita. Sì, le faceva dei doni: una quantità di cose, che le mancavano, di cui aveva sentito molto la mancanza, poichè sono necessarie alla vita, gliele portava lui, col suo contegno bonario e largo di persona generosa. Ella aveva dei fazzoletti di falsa battista, delle calzette di mezza seta, una sottana di surah, comperata di seconda mano: qualche gioielletto di poche lire, lo aveva. Le aveva dato il vestito lilla, per Pasqua, e gliene prometteva uno di setina, a righe bianche e nere, per l'estate. Egli spendeva, per le piccole cene, per le piccole colazioni, per le carrozze: forse, ella gli costava già tre o quattrocento lire, in due mesi di relazione. Ma Carmela stessa, non era costretta, dalla sua relazione, a una quantità di cose che non avrebbe mai fatte? Non cucinava più da sè, per non rovinarsi le mani, come egli diceva: e aveva una servetta, cui dava otto lire il mese. Non aveva dovuto spendere in un paio di scarpini, in un busto nuovo, in quella giacchetta che un sarto le aveva fatto, a credito, pagando due lire la settimana? Ora, ai 15 maggio quando ricorreva il compleanno di Roberto, ed ella lo sapeva, non doveva ella disobbligarsi, facendogli un dono, spendendo almeno una trentina di lire in un portasigarette d'argento? Egli era un giovine così innamorato dello chic! Ella si trovava singolarmente spostata, in finanze. Di solito, nei quattro mesi in cui San Carlo era aperto, con quelle centocinque lire mensili, ella faceva delle economie, le quali, in estate, insieme a qualche scrittura a Bari, a Caserta, a Reggio, dove le davano un paio di lire al giorno, l'aiutavano a vivere. Ora, da due mesi, non faceva più un soldo di economia: aveva speso tutto, per figurar bene, con Roberto: e aveva anche qualche debito, il che la faceva tremare di dispiacere. Tutte le sue abitudini erano mutate: ella non dormiva più quanto le serviva per riposarsi, mangiava dei cibi che le facevano male, ad ore insolite, era tormentata sempre da una grande fretta. Nei crepuscoli liberi, non andava più al vespero nella parrocchia dei Pellegrini; per la messa aveva cambiato chiesa, lasciando Io Spirito Santo per la Madonna delle Grazie, dove niuno la conosceva. Non indossava più lo scapolare della Vergine del Carmine, sua patrona, invocata in ogni momento di pena di tristezza: si era tolto dai fianchi il cordone di Terz'Ordine di san Francesco, poichè non si credeva più degna ne dell'uno, nè dell'altro. Viveva in istato di peccato: in quella Pasqua di risurrezione non aveva potuto comunicarsi. Dio è misericordioso, Dio perdona, Dio assolve: ma bisogna uscire dal peccato, ed ella vi era dentro. - Perchè l'ho fatto, dunque? Perchè l'ho fatto? Se vi pensava, innanzi, nell'avvenire imminente, ella tremava di ribrezzo, di sgomento. Quanto poteva durare, questa relazione con Roberto Gargiulo? Ella lo sentiva, non legato a lei, non preso con l'anima e coi sensi; ma lusingato nell'amor proprio maschile per aver sedotto una giovane che si era mantenuta onesta, sino allora, malgrado la povertà e malgrado le insidie del palcoscenico; accarezzato nelle sue fantasticherie di piccolo impiegato di commercio, spostato nel voler fare la vita di piacere del signore; ma tutto contento, esteriormente, nella sua vanità meridionale di andar a teatro la sera, per sorridere ostentatamente all'amante ballerina, che, arrivando innanzi alla ribalta, ballando, con tutta la sua fila, ostentatamente lo saluta e gli sorride. Egli era gentile, ma non tenero; egli era galante, ma non amoroso; egli era facile al dono, ma al dono che serviva a lui, che doveva farlo figurare come un uomo largo, spendereccio, spensierato, non al dono pratico, utile, dell'amante provvido e innamorato. D'altronde, spesso Roberto Gargiulo aveva dei mutamenti di umore che Carmela Minino osservava subito e di cui non domandava conto, con la sua timidità abituale, ma che la turbavano molto. Si mostrava pensieroso, preoccupato. Talvolta usciva in escandescenze, contro la umiltà della sua condizione, mentre egli era nato con istinti principeschi, con gusti di uomo raffinato: parlava dei ricchi, specialmente del suo principale, che era già milionario, con dispetto, con rabbia. Spesso nominava la cifra di danaro che gli era passata per le mani come cassiere, con una intonazione bizzarra, che faceva rabbrividire di un'ignota paura la sua amante. Spesso, taceva. Ella sapeva che nel magazzino inglese erano molto buoni, molto cortesi, non a parole soltanto, ma anche a fatti, con gli impiegati, pagandoli bene compensandoli per il lavoro soverchio, dando loro delle belle gratificazioni quando le chiusure d'inventario erano brillanti, ma che, in cambio, domandavano intelligenza, zelo, solerzia, integrità, correttezza, buoni costumi. Roberto Gargiulo le aveva nascosto che, nel passato, egli aveva avuto varii freddi richiami, circa la sua condotta privata, dal capo della casa; pure, qualche cosa di ciò Carmela Minino aveva intravvisto, da qualche frase sfuggitagli. Subito, Roberto Gargiulo, che prometteva di mutar vita, faceva due o tre mesi di astinenza, nel senso che andava poco a teatro, non si faceva vedere con donne, non frequentava le trattorie e i caffè notturni. Poi ricominciava. Adesso, da più di due mesi, egli si faceva vedere dappertutto con Carmela Minino, con un contegno di uomo superiore, di mondano lanciato nella esistenza più ardente dei piaceri, infischiantesi della casa inglese, del suo rigido capo. Pure, talvolta, aveva dei lunghi minuti di silenzio. Forse spendeva troppo, anche. Aveva qualche economia, ma doveva essere finita da un pezzo. Su che spendeva? Qualche giorno diventava avaro; non prendeva neppure una carrozzella per mezza corsa, per risparmiare i sette soldi, non entrava, con Carmela, in caffè, contentandosi di pagarle un bicchiere di acqua e sciroppo dall'acquafrescaio, spendendo un soldo. Aveva, dei debiti, forse, di già. E ripensando a tutte queste cose, che notava ogni giorno, senza che neppure una le sfuggisse, sentendo che il suo errore pesava egualmente sulla vita di Roberto Gargiulo, come sulla sua, ella affannosamente, si chiedeva: - Perchè l'ho fatto? Perchè l'ho fatto? E la ragione intima, profonda, segretissima che era chiusa in un recesso oscuro della sua anima, ella non voleva dirla nè ad altri, nè a se stessa.