Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Della scultura e della pittura in Italia dall'epoca di Canova ai tempi nostri

251298
Poggi, Emilio 1 occorrenze
  • 1865
  • Tipografia toscana
  • Firenze
  • critica d'arte
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Si può dagli altri far tesoro dei precetti per apprendere la buona maniera di studiare la natura stessa, ma non già ricevere da speciali teorie la educazione a discernerla nelle sue forme, nei colori, nei rilievi, nella vita, nel sentimento; dalle quali cose tutte insieme unite, si ottiene la più perfetta imitazione del vero, unico scopo cui debbono tendere gli artisti, i quali abbiano il dono di saperlo comprendere e farsene un immutabil modello.

Il divenire della critica

251923
Dorfles, Gillo 1 occorrenze

Che le forme disegnate abbiano una qualche attinenza con figure umane o zoomorfe è evidente (gli stessi titoli lo denunciano: Il trionfo dell’astronauta, L’occupazione delle terre lunari, Il grande racconto della totale estinzione, ecc.); che, però, tali figure finiscano per acquistare il carattere di veri e propri geroglifici non ancora decifrati, è solo una gratuita apparenza. Quello che sorprende e stimola in questi dipinti (spesso notevoli anche per l’efficacia grafico-cromatica e compositiva) è la loro parentela con un linguaggio che oggi ci è assai familiare, quello appunto cotidianamente trasmesso dalle pagine di giornale, dai rotocalchi, dalle pubblicità a base di cartoni animati. Questo fatto permette di far rientrare l’odierna pittura di Perilli nel grande scompartimento degli artisti (come Lichtenstein, come Jim Dine e come, prima di loro, Rauschenberg e Johns) preoccupati di fissare l’elemento popolare dal rapido consumo, destinato alle masse, ma che diviene o sta divenendo materia prima per un consumo meno popolare e più sofisticato, per una presente o futura iconologia colta. Mentre, però, un Lichtenstein si vale della stessa iconologia di massa (il classico fumetto del quotidiano) dilatato e riprodotto sino a «diventar quadro», nel caso di Perilli l’elemento popolare è inventato; è solo in apparenza sussunto da elementi preesistenti, ed è, come tale, meno accettabile ad un primo esame. Non saprei dire se questa esperienza sia ripetibile a oltranza; ce lo diranno le prossime tappe dell’artista. Certo la pittura di Perilli costituisce assieme a quella (per citare due artisti che purtroppo mancano a questa Biennale) di Twombly e di Novelli, un esempio della volontà di trasferire, entro i «sacri recinti» dell’arte d’avanguardia, certi modi d’essere e certi modi di vedere - dunque certe situazioni percettive e fruitive - quali sono ormai consuetudinarie nei mass-media, conferendo alle stesse una diversa e più esclusiva dignità estetica.

Pagina 83

La pittura antica e moderna

252665
Farabulini, David 1 occorrenze
  • 1874
  • Tipografia e Libreria di Roma del Cav. Alessandro Befani
  • Roma
  • critica d'arte
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Il che c’incontra spesso di vedere in molte gallerìe moderne ed antiche, nelle quasi fa stupire che siano potute entrare e possano tuttavia dimorar pacificamente certe orride dipinture d’accanto alle bellissime, quasi vi abbiano preso con queste un privilegio di prescrizione o un comun diritto ai medesimi onori. È un deforme spettacolo che ci offende gravemente, e ci turba fin la gioconda vista delle cose più leggiadre e più nobili, anche in alcune gallerie romane. Ed è ignominioso e detestabile che il falso o il vile in certe nuove collezioni si spacci astutamente per vero e per ottimo, massime da chi mercanteggia, ed ha in uso di ciurmare e porre orpello.

Pagina 18

La pittura moderna in Italia ed in Francia

252887
Villari, Pasquale 2 occorrenze
  • 1869
  • Stabilimento di Gius. Pellas
  • Firenze
  • critica d'arte
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Il Morelli, invece, non si contenta d’una misura secondo le regole; vuole ancora che una mano o un braccio, oltre al non essere troppo lunghi o corti, abbiano carattere, e in ciò pone l’importanza maggiore del disegno. Ma questo carattere egli lo cerca col colore, e vuole innanzi tutto l’effetto, l’unità, l’evidenza della macchia generale del quadro. La sua tavolozza manifesta una ricchezza infinita, da cui risulta una luce mirabile, che agli accademici, i quali disegnano generalmente senza alcun vigore di colorito, pare chiasso pericoloso ed evitabile. Egli s’è formato collo studio del vero, della pittura francese, veneziana, fiamminga; ma in lui vive ancora lo spirito della vecchia scuola napoletana, illustrata da Salvator Rosa, dallo Spagnoletto, dal Cavaliere Calabrese, e tanti altri, che furono tutti pittori arditi, audaci e coloristi. Cosi quando a lui si presenta un soggetto, non può innamorarsene, se prima esso non si trasforma in un effetto di luce. Le immagini sorgono nella sua fantasia vestite già di colori, e quando una lo ferma e lo innamora, diviene subito e di necessità come la chiave del quadro, determina la macchia, decide la composizione; perchè in lui l’unità generale del colore è grandissima, e i suoi bozzetti sono perciò sempre stupendi. In questo modo però il carattere dei suoi personaggi viene qualche volta a soffrirne. Essi debbono piegarsi alle leggi inesorabili di questa magica armonia, la quale, nelle opere del Morelli, come in quelle dei veneziani, è la vita del quadro e del pittore. — Il Tasso che legge il suo poema alle tre Eleonore forma il soggetto del suo quadro principale all’Esposizione. Non è un soggetto nuovo, nè di grande importanza storica. Ma lo studio delle varie espressioni di queste tre donne, che ascoltano ed ambiscono l’amore del poeta, sebbene una sola ne sia sicura; e la difficoltà in cui deve trovarsi il Tasso che, innamorato d’una, non deve offendere le altre, presenta un contrasto di passioni, uno studio di caratteri e d’espressioni, che rende nuovo un soggetto antico. Se non che, a poco a poco, tutto questo è divenuto nel quadro parte secondaria; perchè le difficoltà di luce che l’artista ha superate, chiamano tutta l'attenzione dello spettatore. Quella delle tre donne che è seduta più vicina al poeta, seduto anch’esso, trovasi in ombra, ed è dipinta con una maestria di colore e una trasparenza inarrivabile. Essa segue con l’occhio la lettura del poeta, e rifugge dal guardare la rivale che le sta di contro. Questa, malata e abbandonata sulla poltrona, viene illuminata da una luce diretta, ed è dipinta con una finezza e delicatezza grandissima. È una nobile e gentile figura, che raccoglie la luce principale del quadro, come attira gli sguardi innamorati e i pensieri del poeta che legge. L’altra delle tre Eleonore, posta fra le due prime, s’accorge, sorpresa, che è tra due rivali, rivale anch’essa. Tutto ciò segue presso un verone che forma il fondo del quadro, e dal quale penetra una luce che lo illumina mirabilmente. Ed è ciò che forma il prestigio e lo scopo principale di questo lavoro, in cui il carattere dei personaggi, trovato e capito assai bene, viene in parte sacrificato al Dio onnipotente della luce. — Il Bagno di Pompei è anch’esso uno stupendo effetto di luce: una figura in mezzo del quadro, semi-nuda, illuminata dall’alto; un gioco stranamente difficile di riflessi che produce l’effetto proprio del vero. L’artista ha studiato l’architettura, i costumi del tempo, e li riproduce; ma lo spettatore s’avvede che lo scopo principale è l’effetto difficilissimo di luce; tutto il resto, un mezzo secondario: la vita romana e pompeiana nei bagni, è quasi l’accessorio del quadro.

Pagina 57

I pubblici edifizi, pei quali abbiamo speso parecchi milioni, sorgono senza che lo scultore o il pittore sieno mai chiamati a dare un compimento di cui si crede che non abbiano più bisogno. Si dice che è risparmio di spesa; ma una linea barocca costa quanto una elegante, e quello che si spende nei nostri saloni, per supplire con un lusso sfoggiante alla mancanza d’arte, basterebbe certo a fare il contrario. Ristabilire l’unità e l’armonia delle arti, sarebbe il più efficace sussidio che si potrebbe dare ad esse. I basso-rilievi del Partenone non potrebbero stare ovunque. Gli affreschi del Vaticano perderebbero assai in un altro edifizio. Perfino i barocchi erano, sotto questo aspetto in condizioni assai migliori di noi. Dai loro palazzi d’un’architettura esagerata e sfoggiante, dalle ampie scale ornate di statue, dalle terrazze che davano sui giardini, dai saloni colle mura e le volte ornate di grandi freschi, sino alla più minuta suppellettile, agli abiti, alla tabacchiera, all’orologio del cicisbeo, essi serbavano il medesimo stile; e l'arte loro, scorretta ed esagerata, aveva pure un carattere che manca alla nostra, e degli artisti le cui opere saranno pur sempre ammirate. Non si può, noi lo sappiamo, vincere affatto o fermare l’andazzo dei tempi; ma un efficace rimedio sarebbe l’istituzione d’una grande scuola di architettura, e d’un tirocinio regolare, se non imposto almeno indicato ed aperto a tutti. È una parte indispensabile d’un buon sistema d’istruzione in ogni paese civile.

Pagina 62

La storia dell'arte

253448
Pinelli, Antonio 3 occorrenze

Occorre però precisare una cosa: sebbene abbiano lo stesso soggetto, i due dipinti hanno, per così dire, uno statuto molto diverso, e questo, almeno in teoria, rende assai meno calzante e pertinente il confronto. Quella di Gentile, infatti, è una pala d’altare di grandi dimensioni, con tutto ciò che questo comporta in fatto di ufficialità, solennità e connessa esibizione di ricchezza, mentre la tavoletta di Masaccio non è altro che uno scomparto di predella. Com’è noto, le predelle, quando sono previste, costituiscono un’appendice di una pala d’altare: una sorta di gradino posto a conclusione della pala nel suo margine inferiore, di norma scompartito in vari riquadri, in cui sono quasi rappresentate figure di santi o, più frequentemente, scene con episodi della vita dei personaggi sacri che figurano, da protagonisti, nella pala stessa. Per la loro collocazione e la loro dimensione, le figurazioni della predella hanno in genere un carattere molto diverso da quelle che compaiono nella pala e di cui rappresentano, per così dire, una sorta di nota a piè di pagina. Di solito gli artisti in questa zona del dipinto ricorrono ad un linguaggio più vivacemente narrativo e compendiario, rivolgendosi in modo più diretto e colloquiale al pubblico, mentre il linguaggio della pala è sempre più aulico e compassato, più ufficiale ed iconico. Per usare una similitudine estratta dalla nostra esperienza di tutti i giorni, diciamo che il linguaggio figurativo di una pala, di norma, sta a quello di una predella come l’abito da cerimonia sta ad un abbigliamento casual, più informale e disinibito. La pala si offre alla contemplazione e alla preghiera, la predella instaura con i fedeli un dialogo più fitto e ravvicinato, in cui prevale la dimensione del racconto.

Pagina 115

Sono passati solo un paio d’anni o poco più dall’esecuzione del Trittico di San Giovenale del ’22, e non c’è dubbio che le due Madonne abbiano una comune ascendenza, ma quella degli Uffizi è caratterizzata da un linguaggio ormai maturo ed omogeneo, senza quelle smagliature ed acerbità espressive che caratterizzano ancora le figure del trittico giovanile. Non mi sembra invece necessario risalire all’autografia di Masaccio per la mano in scorcio di Sant’Anna, perché Masolino, come del resto già Gentile da Fabriano nella sua Adorazione dei Magi, non ignorano l’uso dello scorcio prospettico, ma a differenza di Masaccio e degli altri innovatori fiorentini non applicano sistematicamente le regole della prospettiva, ma si limitano a farne uno sfoggio occasionale in certi dettagli.

Pagina 121

A questo punto, dopo aver constatato come Signorelli e Della Gatta, per evitare confusioni e fraintendimenti spazio-temporali, abbiano ben distinto queste due scene in primo piano, utilizzando a tal fine una ben precisa regìa di pose e di sguardi che le rende estranea l’una all’altra, non resta che inoltrare il nostro sguardo verso lo sfondo per cogliere, in alto a sinistra, l’ultimo atto della narrazione: il compianto sul corpo di Mosè, che giace a terra senza vita, steso sul lenzuolo che gli servirà da sudario (tav. 9f).

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Le due vie

255406
Brandi, Cesare 2 occorrenze

Ed è per questo che i trompe-l’oeil, anche se non abbiano propriamente stile, appartengono sempre ad un’epoca, e un trompel’oeil del ’700 non si può confondere con un quadro di Sciltian o di De Francesco. Comunque, il procedimento comune a tutti, è la riesistenzializzazione di qualcosa che già era risalita dalla mera percezione all’intenzione formale.

Pagina 163

Con questo non si intende dire che critici acuti come Jakobson e Lévi-Strauss non abbiano il senso della specificità dell’opera d’arte, come qualcosa di bloccato, di unico; lo dicono anzi chiaramente: «Riunendo ora i pezzi della nostra analisi, vediamo di mostrare come i differenti livelli ai quali ci si è posti, si sovrammettano, si completino o si combinino dando così alla poesia il carattere di un oggetto assoluto» 14. Ma resta il fatto che il punto d’arrivo dell’analisi non è già l’opera d’arte ma il suo contenuto, il significato: per cui, nel sonetto dei gatti, si va dal reale al surreale attraverso l’irreale.

Pagina 68

L'arte contemporanea tra mercato e nuovi linguaggi

256788
Vettese, Angela 2 occorrenze

Lo attesta la presenza di due santi, Sisto e Barbara, che pare abbiano le sembianze del papa Sisto IV, il committente della Cappella Sistina, e di sua nipote Lucrezia della Rovere e quindi un legame con la famiglia più rilevante della città di Piacenza, dove il quadro pare dovesse avere la sua sede definitiva. Maria avanza in un cielo composto da visi di bimbi monocromi che hanno le caratteristiche dei Cherubini: il tipo di angeli che ha la massima conoscenza di Dio, così com’è congruente per Maria, appunto, in quanto madre di un uomo che è anche Dio e figlio di Dio, nonché in quanto assunta in cielo con la sua stessa carne. Per questi motivi ella ha, dal punto di vista teologico, la massima conoscenza che una persona umana possa avere dell’essere superiore.

Pagina 102

Un altro errore sarebbe ritenere che abbiano perso mordente le ricerche riguardanti l’identità individuale dell’artista, che, al contrario di quanto si ritiene, non era mai stata importante nell’arte dei secoli precedenti: non chiediamo a Canaletto o a Tiepolo di raccontarci le loro vicende intime. Quest’attenzione è invece propria del Novecento, anche grazie alla nascita della psicoanalisi: l'Interpretazione dei sogni di Sigmund Freud uscì nel 1900 e II motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, che spiega molto della creazione artistica, cinque anni dopo. Proprio questa attenzione al sentire interiore ha agevolato la strada all’astrattismo non geometrico: intesa come diretta emanazione del sé, l’opera non ha più avuto bisogno di rappresentare necessariamente qualcosa e hanno potuto diffondersi tecniche come la scrittura automatica e incontrollata, la libera associazione delle immagini, la pennellata gestuale che è al contempo emanazione del corpo e dell'inconscio dell’autore. Dall’Europa queste esperienze si spostarono negli Stati Uniti avviando quella che sarebbe diventata la prima forma di arte autenticamente americana, l’Espressionismo astratto, che assunse due principali direzioni: da un lato, la creazione casuale e dionisiaca alla Jackson Pollock, dall’altro, il fare silenzioso e contemplativo alla Mark Rothko. In entrambi gli autori, l’indagine introspettiva fu così profonda da condurre a tragici risvolti esistenziali: Pollock. il cui disagio confluì nell’alcolismo, perse la vita in un incidente automobilistico, mentre Rothko si suicidò nel suo studio a New York, vittima di una depressione abissale. Sembra incarnarsi qui quella solitudine del singolo raccontata da filosofi che vanno da Søren Kierkegaard a Georges Bataille.

Pagina 27

L'Europa delle capitali

257373
Argan, Giulio 2 occorrenze

Non si tratta più di provocare la sorpresa da una rottura della consuetudine e di mettere in moto, così, il meccanismo dell'immaginazione; ma di suscitare un’emozione e di prolungarla nel tempo, di darle un percorso in cui tutti i fatti, gli aspetti del reale (abbiano o non a che fare con la storia) vengono toccati ed accesi. La storia, nel suo insieme, non è che una continua, spesso crescente, emozione, in cui tutta la realtà viene chiamata alla ribalta, coinvolta, trascinata. Quando, nel secondo decennio, Rubens dipinge Il Figliolo Prodigo, il nucleo della storia non è più che un episodio marginale, quasi trascurabile nello spazio interamente occupato da un rustico pieno di animali e di attrezzi. Sarà quasi un modello per gli animalisti olandesi; ma qui il motivo “di genere” è esaltato dalla luce e dal colore intensi, perché lo scopo è di rendere l’emozione e la commozione della casa ritrovata, né si può raggiungerlo senza rendere più intensa o più vivida la visività delle cose che la suscitano.

Pagina 157

Se prima soltanto alle immagini che fossero anche forme costanti della realtà poteva attribuirsi un valore, ora tutte le immagini che popolano la nostra mente, siano esse ricevute dal mondo esterno per mezzo dei sensi o prodotte dall’immaginazione, hanno un incontestabile valore di realtà e si dubita perfino che vi siano immagini che abbiano un contenuto assoluto di verità. Nel Rinascimento le figurazioni di un Bosch o di un Bruegel apparivano capricci della fantasia, sogni; nel Seicento, figurazioni altrettanto incongrue rispetto all’esperienza appaiono verosimili o, comunque, accettabili come prodotti innegabilmente reali della fantasia.

Pagina 37

Manuale Seicento-Settecento

259882
Argan, Giulio 1 occorrenze

Non sorprende perciò che le idee architettoniche e urbanistiche del Borromini abbiano avuto, anche fuori d’Italia, un'irradiazione maggiore di quelle del Bernini: infatti, se non manifestano l’autorità spirituale della Chiesa e dello Stato, interpretano ed esprimono L’aspirazione spirituale dell’individuo e della comunità.

Pagina 173

Personaggi e vicende dell'arte moderna

260975
Venturoli, Marcello 1 occorrenze
  • 1965
  • Nistri-Lischi
  • Pisa
  • critica d'arte
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Noi non sappiamo se gli ultimi «ismi» abbiano creato in Pirandello un certo timore reverenziale, oppure se l’artista andando innanzi negli anni, in questa sua fuga progressiva dai contenuti «fisici», di verosimiglianza, narrativi, in un processo puramente mentale, si sia illuso di trovare la forma dei suoi passati contenuti, quasi una legge interna, prima sconosciuta, oggi emblematica, che regolasse le sue spiagge e i suoi nuotatori; un fatto è certo, sulla scorta di questi cinque «pezzi»: che l’artista si fa meno apprezzare quanto più si allontana da quella realtà sensibile, quanto più questa realtà, un tempo ai ferri corti con l’astrazione, assume una labilità, diremmo una impassibilità di «fattura», perdendo l’originaria tensione. Si guardino i nuotatori, ridotti a un puro arabesco di mosse-pose dentro una atmosfera di aloni bianchi e di scaglie d’argento: il «reo peso» delle antiche carni di terra, diventa qui tutt’uno col giulivo e un po’ esterno spazio decorativo, la plasticazione terrea di una volta in quelle selve di umanità nuda sulle spiagge, un ghirigoro figurale di cadmio e arancio. E che dire delle «Bagnanti»? Grigette, scaldate appena da un giallo di Napoli su ritagli d’aria e d’acqua fra azzurra e cenere, appaiono troppo meditatamente divise in due parti, il busto all’asciutto a fare i conti con l’aria, i sederi, scompagnati e lunati, sotto il pelo dell’acqua, per conto loro. L’unico dipinto che conservi in parte l’unità vigorosa e drammatica di un tempo è il «Nudo riverso»: per il difficile scorcio, per l’ombra nera sotto la gamba destra, nostalgia chiaroscurale qui per nulla fuori posto, per la tensione del collo e del braccio, per la coloritura delle tessere che piegano solidamente nel cadmio e nell’arancio, in una tavolozza meno squillante, sull’ocra e le terre, questo dipinto ricorda le opere del miglior Pirandello.

Pagina 365

Relazione critica intorno all'opera "Il quadro parlante" del maestro Bacchini

261761
Fabrini, Enrico 2 occorrenze
  • 1871
  • Tipografia della Società dei compositori- tipografi
  • Firenze
  • critica d'arte
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Il Quadro Parlante è lavoro d’un giovane che principia, d’un giovane che procede modesto, ma volenteroso e sicuro, senza titubazioni eccessive e senza smodate pretese: talchè lodando il melodramma, e col melodramma lodando l’autore, non è volontà nostra concedere all’uno ed all’altro un peso ed un valore maggiori che non abbiano. Ci preme soltanto significare, fungendo l’ufficio nostro di critici, che fummo incitati alla lode particolarmente da questo, dal convincimento cioè che la strada scelta dal maestro Bacchini a parer nostro è la buona, come quella che muove da’ capolavori, rispetta le tradizioni, ed è arra di nuove vittorie su’ maniaci riformatori d’oggidì. Egli sdegna gli artificj infecondi co’ quali in oggi s’asconde il difetto delle doti più lusinghiere dell’intelligenza e del cuore, co’ quali in conseguenza si supplanta l’arte: fa quindi dell’orchestra un sostegno, non un personaggio od un dramma: porta infine fiducioso un’insegna, sulla quale è scritto a caratteri indelebili melodia italiana: s’inanimisca viemaggiormente e prosegua guidato da questi sanissimi criterii di critica e d’estetica, ch’egli ne trarrà utile grande, e l’arte non isdegnerà noverarlo tra’ suoi più fidi e più logici cultori. C’è di più che lo studio indefesso intorno a’ modelli, e la volontà perseverante di perdurare ne’ precetti salutari che menano diritto al conseguimento degli altissimi fini dell’arte, ci sembrano sola salvaguardia d’una probabile originalità futura: perchè l’originalità stessa, qualità suprema ed eccellentissima del genio, non si consegue se non per lungo abito di tenaci meditazioni e di laboriose ricerche. Chè poi, a maggior giustificazione delle lodi da noi prodigate al Bacchini, siamo fatti e composti di maniera che, i giovani modesti e studiosi i quali s’affaticano ed operano, reputiamo debbano essere ammoniti amorevolmente, loro al tempo stesso indicando con franca cordialità i mancamenti e i difetti: non depressi già nè avviliti, com’è costume degli invidi professanti l’arte medesima i quali, generalmente incapaci d’immaginare e di comporre nella stessa misura, ingrandiscono le colpe che si palesano tali, ne creano altre, e gettano quindi a piene mani l’amaro veleno dell’ironia e dello sprezzo sulla povera vittima, come fossero tanti Rossini redivivi, giudici in terz’istanza senza rivocamento e senz’appello.

Pagina 17

Pagina 5

Saggi di critica d'arte

261826
Cantalamessa, Giulio 3 occorrenze
  • 1890
  • Zanichelli
  • Bologna
  • critica d'arte
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Egli era ingiusto come tutti coloro che, affrettando rapidi i passi, si dilungano molto dai predecessori, sì che, volgendosi indietro e vedendoli lontani, li giudicano stremati di forze; era ingiusto di quella ingiustizia che quasi fatalmente convien che abbiano quei grandi a cui la natura speciale del loro genio prescrive di limitar nettamente l’orbita dell’ideale, tanto che s’abituano a non intendere più ciò che sta fuori di quell'orbita, e a supporre che altro ideale diverso dal loro non ci possa essere. Sublime aberrazione dei magnanimi, senza cui forse non sarebbero nate opere che conquidono per l’indipendenza e la forza che le suggellano! Un uomo che aveva esplorato tutte le leggi della struttura umana, rese al suo animo si familiari le forme da farsene quasi linguaggio agile e perfetto, che del suo nobile possesso si vale per sollevare il corpo dell’uomo a un ideale di gagliardia, ch’egli aveva intraveduto nella vergine natura primitiva, e poi attribuisce a quest’uomo sì trasfigurato e forte tutte le infelicità della vita nostra, facendolo contorcere tra gli spasimi, illanguidirsi implorando pietà, gemere sotto un’ira mal repressa, sollevare il viso in atto ribelle, ma sempre serbarlo consapevole e altero della nobiltà di sua natura, quest’uomo, dico, dovea necessariamente trovar povera un’arte ove spira la tranquillità, ancor alquanto impacciata per amabile peritanza istintiva, desiderosa di simmetria, paga di linee che si svolgono semplici e pavida di arrischiarsi alle grandi difficoltà. Si capisce che Michelangelo avesse lodato i pittori di Mezzaratta. Non hanno la scienza delle forme, avrà pensato; sono bambini che balbettano, ma almeno sono animosi, tentano grandi cose, hanno movimento, fuoco, brio. Ma il Francia, tanto men coraggioso di essi quant’è più dotto, non poteva piacergli.

Pagina 10

Sebbene Guido si maturasse artista colla scorta dei Caracci, e questi abbiano il precipuo vanto della gloria ch’ei seppe poi procacciarsi, m’è parso non inutile ricordare il suo primo maestro, perchè Guido non ne dimenticò si presto gl’insegnamenti. C’è in questa pinacoteca un suo quadro molto giovanile, in cui nelle quattro figure dei santi ritte sul piano l’influenza caraccesca è già evidentissima, ma nelle tre figure poste in alto, come apparizione, è evidente del pari la persistenza dei modi appresi nella prima scuola. E siccome una terza cosa vi apparisce, ossia il colore terso e fluido e la facilità incantevole delle modellazioni, ossia vi apparisce l’ingegno personale di Guido, tanto che quel quadro è il preannunzio di ciò che egli diventerà, reputo si possa dire che l’elemento desunto dal Calvari sia stato da lui mantenuto per deliberata volontà, giacchè egli era già si padrone dei mezzi dell’arte da potersene, se avesse voluto, sciogliere affatto. E fosse riconoscenza, che negli animi gentili non si estingue mai, fosse ricorso di quelle compiacenze indimenticabili di certe forme dell'arte provate nell’adolescenza da quelli che la Diva ha toccati in fronte, certo è che Guido non scordò il Calvart mai del tutto, anzi se ne rammentò dipingendo, molto più tardi, una delle sue opere più. perfette. Chi di voi ha veduto il suo Michele nella Concezione dei cappuccini a Roma? Il Delaborde non cita questo quadro nè molti altri dei migliori di Guido; certo non li ha obliati per proposito; ma sia dimenticanza innocente, sia cognizione incompleta, tali silenzi nuocciono non poco alla sua critica. Or io vi dirò candidamente il parer mio. Dopo Raffaello non s’era avuta una più alta idealità di bellezza, una più perfetta depurazione della forma umana da tutti i caratteri della caducità, una percezione più nitida di ciò che, pur sussidiato dai sensi, trasvola oltre i sensi, una rispondenza più immediata tra la visione e la facoltà della mano. Michele è veramente un celeste, il cui volto meraviglioso par che scintilli d’una luce ch’è fuor della nostra natura; la chioma mossa dall’impeto del volo gli aggiunge un accento d’imperio e ne invigorisce la transumana eleganza. Combatte risoluto, ma tranquillo, come chi è certo della vittoria, e abbassa lo sguardo sul nemico, che gli si divincola al piede, con un’alterezza olimpica, da farci pensare che il gentil seme latino, con immutato ideale artistico, ricorra sempre per istinto allo stesso linguaggio dei grandi antichi, e che questo sia il più eletto, il definitivo modo di esprimersi. Ma Guido, dipingendo quella figura, non ha potuto, o non ha voluto, deporre del tutto il ricordo del S. Michele che il Calvari avea dipinto per la cappella Barbazzi in San Petronio; quadrò che ha molto sofferto, ma in cui si può anche adesso ravvisare una delle più felici ispirazioni di questo fiammingo devoto all’arte italiana ed a Bologna.

Pagina 123

Pagina 30

Scritti giovanili 1912-1922

264000
Longhi, Roberto 1 occorrenze

Tuttavia non ci sembra che né il Morelli né il Cavalcaselle, ad onta dei loro meriti particolari quasi infiniti nell'illuminazione della scuola bresciana abbiano condotto a risoluzione il problema. Il Cavalcaselle vide abbastanza giustamente l'orbita puramente veneziana di Romanino, ma quanto al Moretto fu guasto dalla credenza in certe tradizioni che davano a Moretto giovine opere che non si possono ritenere in nessun caso della sua mano 3. Il Morelli fu alquanto sviato dall'obbiettività, dalla sua compiacenza nel contraddire per partito preso il Cavalcaselle; ciò l'avrebbe ricondotto automaticamente sulla via giusta almeno per il Moretto, e ad ogni modo la sua sperienza di conoscitore gli fece correggere al proposito molte cose, o almeno parecchie attribuzioni; ma il suo contrasto con il Cavalcaselle e il Bode lo rinserrò in una meschineria provinciale, per cui s'ostinava a cercare le origini locali di Romanino e a combattere la teoria del «palmismo» di quell'artista. Sarebbe stato utile domandare al Morelli che se è vero che tra il 1510 e il 1515 Romanino trovò la caratteristica armonia cromatica della scuola bresciana 4, resta da rispondere in che cosa mai questa armonia cromatica differisca da quella dei veneti contemporanei che si equilibrano sul terzetto Giorgione-Palma-Tiziano Giovine; e d'altronde il Morelli stesso riconosce chiaramente altrove il carattere veneziano di Romanino 5. Più spiacevole si è ch'egli riduca a una pura questione di puntiglio la questione di Moretto; CavalcaseIle, egli dice, sbaglia nel credere che Moretto nel suo primo periodo abbia imitato Palma o Tiziano; e noi ci consoleremmo se non fosse che Morelli fa rientrare per la finestra quello che ha cacciato dalla porta: Moretto dal 1521 non ha fatto che sviluppare e se si vuole raffinare l'armonia cromatica trovata da Romanino nelle pale di Padova e di San Francesco a Brescia 6. Ma in questo caso poiché Romanino non è che un veneto noi siamo ancora al punto del Lanzi; i bresciani si nascondono ancora nello «stuolo dei Tizianeschi».

Pagina 327

Scultura e pittura d'oggi. Ricerche

265762
Boito, Camillo 3 occorrenze
  • 1877
  • Fratelli Bocca
  • Roma-Torino- Firenze
  • critica d'arte
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Il talare rasson e il camilaucio non sembra che abbiano altro fine all’infuori del contrastare col bianco della fustanella, coi berretti e i fessi e i giubbetti e i calzari tutti arricchiti di ricami e di ori. Si ripensava in faccia a quelle tele fiorite la strofa che comincia: Oro ed argento fino e cocco e Macca — Smeraldo, indico legno.....

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Non sappiamo davvero come il Winckelmann prima ed il Lessing poi abbiano potuto vedere sul volto e in tutto il corpo di Laocoonte un’anima grande e imperturbabile. Que’due dotti e i loro tanti seguaci confusero i caratteri della scultura eginetica e fidiaca coi caratteri della scultura greca, che decadeva: decadenza sublime, ma nella quale la divina serenità della precedente arte s’intorbida, il purissimo candore si va macchiando, e la misura dei moti e degli affetti perdendo. Il Laocoonte somiglia ai fregi del Partenone e al timpano del tempio di Egina, come le statue del Bernini somigliano a quelle del Ghiberti e del Donatello: il Laocoonte è barocco. Ci rammentiamo di avere letto un libro francese del dottore Duchenne, in cui, con l’aiuto di ottantaquattro tavole fotografiche, era studiata l'applicazione del meccanismo della fisonomia umana o dell’analisi elettro-fisiologica nell’espressione delle passioni alla pratica delle arti plastiche. L’autore censurava il Laocoonte; ma perchè non abbiamo nella memoria le ragioni scientifiche di quelle censure e ci manca il tempo di consultare il volume, il lettore, se gli preme, cerchi da sè. Ad ogni modo, almeno nell’apparenza, il Laocoonte è modellato con una verità e con una vigoria ammirabili: e intendiamo la sola figura di lui, perchè nei figliuoli è un altro paio di maniche. In essi la tradizione dell’arte greca pare scrupolosamente seguita: codesti ometti, con le teste piccole e le membra sottili, stanno fra le anella degli spaventosi serpenti in attitudine quieta e aggraziata. Ne’ fanciulli è ancora idealizzatala eleganza tranquilla del corpo umano, mentre nel padre le cautele dell’arte lasciano luogo alla veemenza della espressione. Il difetto capitale del famoso gruppo sta dunque nella mancanza di unità di stile: fosse tutto barocco sarebbe tutto stupendo.

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Pare che le cose perfette abbiano quasi del tondo e dell'untuoso: non si sa da che parte pigliarle: si apprezzano, si lodano e si dimenticano; mentre un difetto è come il manico, col quale la bellezza stessa si afferra più facilmente. Le statue del Bernini, stupende ad ogni modo, si ammirano forse perchè i loro muscoli, sono troppo gonfii, i loro panni troppo svolazzanti e le loro movenze troppo sgangherate; alle statue del Donatello ci si sente forse inclinati in grazia della loro secchezza, a quelle del Canova in grazia forse della loro mellifluità, e a quelle di alcuni realisti d’oggi in grazia forse delle rughe e delle grinze, che si contano sulla loro epidermide. Volevamo aggiungere il fortunato difetto dei Greci, e non sappiamo trovarlo. Ma insomma, salvo questa benedetta arte greca, la quale, mentre noi si afferma pedantescamente che il bello non è assoluto, mentre noi si grida cinicamente che non vi è nulla di eterno sulla terra mortale, ci smentisce col suo sereno sorriso da Dea, l’arte ha nello stesso suo squilibrio una cagione di forza e di novità.

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Ultime tendenze nell'arte d'oggi. Dall'informale al neo-oggettuale

267610
Dorfles, Gillo 2 occorrenze
  • 1999
  • Feltrinelli
  • Milano
  • critica d'arte
  • UNIFI
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(E non fa specie pertanto che molti di questi artisti abbiano avuto legami con letterati, scrittori, intellettuali interessati a simili indirizzi mistici e iniziatici; come non fa specie che un legame più o meno sotterraneo leghi gli stessi con personaggi come Burroughs, Kerouac, Cage, Ginsberg.) Ma un’altra radice, altrettanto essenziale, deve essere ricercata nella poetica dadaista, e in particolar modo in quella di Duchamp. È chiaro ormai che il progenitore di molte forme attuali dell’arte non solo visiva è stato proprio il grande “inventore” francese; ed è indiscutibile che molte delle sue, ormai remote, invenzioni linguistiche, dei suoi puns, delle sue metafore visivo-verbali, dei suoi giochi di parole figurati, siano alla base di molte odierne elucubrazioni concettuali. Lo stesso fenomeno della dissacrazione dell'oggetto artistico (attraverso la sua riconsacrazione negli svariati tipi di ready-made, di oggetti trovati) è una prima importantissima operazione di tipo concettuale, cui dovevano attingere sia i concettuali più “puri” (come Kosuth, Beuys, Barry, Weiner, Mel Ramsden, Ian Bum), sia quelli definiti da Szeeman (nella mostra "Documenta 5") come autori di “mitologie individuali” come George Brecht, Melani, Boltanski, Ruscha, Samaras, ecc. i quali presentano ancora un evidente legame col neo-dadà e il pop attraverso il neo-surrealismo. Sicché potremo affermare che la radice duchampiana è stata utilizzata, per il suo lato più estrinseco e teatrale, da alcune correnti pop e surreali; e per il suo lato più letterario e metaforico, dall'arte concettuale e da molta arte povera.

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Non me ne scuso; né vado cercando delle attenuanti a queste esclusioni: ho lasciato da parte a bella posta tutti gli artisti che militano ancora nel campo del realismo, del "naturalismo accademico,” tutti i surreali tradizionalisti e in genere tutti quegli artisti che non abbiano saputo trovare una nuova forma espressiva, da un punto di vista tecnico ed estetico, per dar vita alle loro figurazioni. Ecco perché potrò trattare d’un Dubuffet, o d'un de Kooning, d'un Rauschenberg o d'un Beuys, ma non d’un Buffet, d’un Guttuso, d’un Dall. La distinzione, infatti, non si pone, per me, tra astrattismo e figurativismo, tra oggettualismo e concettualismo, ma tra arte autenticamente attuale e arte di derivazione dal passato e inattuale. E siccome è necessario per ragioni di chiarezza e di semplicità fissare anche un termine a quo, dirò subito che è mia intenzione riferirmi soltanto alle arti sviluppatesi dopo la guerra, anzi nell’ultimo ventennio, lasciando perciò da parte anche quegli artisti la cui opera era iniziata ed era già giunta a maturazione nel periodo tra le due guerre e la cui forma ar tistica appartiene perciò a quel periodo più che al nostro. Anche questa limitazione era necessaria, ed è per questo che non potrò soffermarmi su grandissime personalità come quelle di un Mondrian, di un Klee, di un Duchamp, di un Picasso e neppure su altri artisti ancora viventi e spesso vivacemente operanti (come un Ben Nicholson, un Mirò, un Marino), la cui opera — importantissima e degna della massima lode — non rientra tuttavia nei limiti di quelle correnti che intendo considerare. Mentre — sia pure marginalmente — intendo discorrere di altri artisti — più anziani della media trattata, come Tobey, Calder, Fontana — perché proprio a loro si devono certe "scoperte” e certe formulazioni senza le quali sarebbero incomprensibili e difficilmente verificabili anche le opere di molti altri giovani artisti di oggi.

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