Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il codice della cortesia italiana

184586
Giuseppe Bortone 3 occorrenze
  • 1947
  • Società Editrice Internazionale
  • Torino
  • verismo
  • UNICT
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Al saluto non si suole, generalmente, attribuire tutta l'importanza che ha; pur dovendo ciascuno di noi convenire piú delle volte, l'opinione lusinghiera che abbiamo di amici e di conoscenti trova la sua giustificazione iniziale in un saluto. Un atto, quindi, che non va compiuto con leggerezza, e, quasi, con distrazione; tanto piú che, pur senza volerlo, si esprime con esso il sentimento da cui siamo animati verso la persona che si saluta: simpatia, benevolenza, rispetto, protezione, devozione; in ogni caso, diamo la misura della nostra educazione, della nostra distinzione, della nostra finezza. Se ci fermiamo all'angolo di una via, e ci guardiamo d'intorno, vediamo braccia che si protendono, inchini, scappellate; ma quanti modi diversi di compiere questi atti; sopra tutto, quanti diversi atteggiamenti del viso nel compierli! Il saluto è, spesso - specialmente da parte delle donne - accompagnato da un sorriso. E il sorriso è una di quelle cose su cui non è difficile fare del lirismo, ma che non si insegnano; sí che basterà dire che, con esso, possiamo esprimere tutta la gamma dei sentimenti, dal disdegno e dallo sprezzo alla simpatia e al compiacimento. E l'inchino? Ahimé, se non è piú che misurato, esso ci si presenta come un ricordo del passato, un vago ricordo, una forma antiquata di cortesia che, completata dai talloni congiunti e dal dorso rigido, rappresenta il saluto militaresco, ancora di moda fra le popolazioni teutoniche. Forma cara ai vecchi, piena nostalgia ottocentesca, ma non piú consona al nuovo costume italiano: tollerabile tuttavia, ma a condizione che gl'inchini non somiglino troppo a quei gesti meccanici dei pupazzi di gomma che fan sempre di sí col capo. I grandi inchini, ora, si possono vedere soltanto nelle ampie sale delle ambasciate e dove si balli il minuetto. Cominciamo, dunque, dal salutare gli amici e i conoscenti; mettendo sempre cordialità nel saluto, ma in grado maggiore o minore, secondo il grado di dimestichezza. Salutare per primi è come « assicurarsi il riconoscimento di una migliore educazione ». Salutare un amico alla voce, a distanza, non è bello; è sconveniente farlo con una signora. Se vi fermate con un amico, è prudente non chiedergli come sta: rischiereste di udire una filastrocca interminabile di guai - per lo piú immaginari - che vi metterebbero di malumore. Meglio sarà chiedergli, come vedremo altrove, quel che di bello v'ha da dire. Se si chiedessero notizie di voi, vi consiglierei quasi di rispondere ciceronianamente, come udii spesso nel contado senese: « Bene, se va ben di lei! ». Va da sé che l'uomo saluta per primo la donna; e scoprendosi, non facendo soltanto l'atto di scoprirsi: il piú giovane saluta il piú anziano, salvo che quello non occupi un posto piú elevato nel rango sociale. Ho detto «va da sé » riferendomi al costume generale e particolarmente a quello italiano; perché, in Inghilterra, e specialmente in America, ora saluta per prima la signora; quasi perché scelga lei, liberamente, chi vuol allietare o onorare col suo saluto. Accade talora di salutare, per errore, una signora che non si conosca: bisogna continuare a salutarla; salvo che essa non dimostri di gradir poco il nostro atto di omaggio. Non si saluta, né si parla con la sigaretta in bocca, o con una mano in tasca: anzi, le mani nelle tasche, specialmente dei calzoni, non si portano mai. Se non si hanno libere le mani, si fa cenno di portare la destra alla bocca o al cappello. Questo, se è floscio, non si prende per la tesa, ma per la parte superiore; né si solleva troppo in aria, o si agita, o si abbassa fino a mezza la persona. Lo si toglie con la mano della parte opposta a quella della persona che si vuol salutare, sempre che essa sia libera. Chi va a capo scoperto, o porta berretti di forma speciale - senza visiera, - s'inchina. I militari fanno il saluto di prescrizione, il quale è sempre il piú elegante, purché fatto con decisione e con marzialità. Una coppia saluta una signora sola. C'è chi saluta isolando, per cosí dire, il destinatario da quelli co' quali si trova: « buona sera, dottore! »: non è ben fatto; ugualmente, si deve salutare e rispondere ai saluti con chi è con noi. Quando s'è cominciato a salutar qualcuno per una speciale relazione stabilita con lui, si continua a salutarlo, anche quando quella relazione è finita. Sia detto questo specialmente per quei genitori - e non son pochi! - che salutano gl'insegnanti dei loro figlioli, e omettono poi la bella abitudine quando i figlioli passano ad altre classi o con altri insegnanti. È bene tener presente che l'« a rivederci! » è un modo amichevole di commiato: quindi, è del superiore verso l'inferiore, della donna verso l'uomo, mai il contrario. Se una signora ferma un amico o un conoscente, questo si scopre, e rimane a capo scoperto fino a quando la signora non lo autorizzerà a coprirsi; non le porgerà per primo la mano: non cercherà di trattenerla a lungo; non proseguirà il cammino con lei, salvo che non ne sia autorizzato. Se si accompagnerà con lei, o smetterà di fumare o le chiederà il permesso di continuare. Non si fermerà a parlare con altri, né le lascerà, come usava, sempre la destra, ma il posto piú comodo e piú sicuro; oggi specialmente che gl'investimenti non sono troppo rari. Nei casi di grande amicizia - o quando la signora ne abbia bisogno - le offre il braccio sinistro: gli ufficiali le offrono il destro quando portano la sciabola. È elegante che un ufficiale di grado piú elevato saluti per primo un suo inferiore quando quest'ultimo è accompagnato con signore. Due uomini mettono in mezzo una signora: di tre o piú uomini, si mettono in mezzo quelli piú ragguardevoli: alla destra di questi, o della signora, le persone, per cosí dire, numero due; alla sinistra quelle numero uno. Una coppia mette in mezzo una signora, o una signorina: il marito sempre alla destra della moglie, lasciando la destra a un altro. Due signorine possono mettere in mezzo un giovanotto, se c'è dimestichezza fra loro. Un giovinetto o una giovinetta vanno alla sinistra dello loro istitutrice: se sono in due, la mettono in mezzo. Si suol dire che è uno spagnolismo questo del posto: a me non pare; perché, in fondo, mira a far godere a tutti la compagnia e la conversazione della persona che si suol collocare in mezzo. Un uomo non ferma sulla via una signora che conosce; salvo casi urgenti, o che non possa incontrarla piú, o altrove. Per salutare una signora in auto, non s'introduce il capo nel finestrino. Alle signore non si dànno denari o lettere sulla via. Se, poi, è segno di dubbia educazione fissare insistentemente signore e signorine che passano, o volgersi indietro a guardarle, è indice di somma volgarità farle bersaglio di complimenti piú o meno sdolcinati e galanti. Lode incondizionata, a questo riguardo, merita l'iniziativa di alcuni Prefetti e di alcuni Questori i quali hanno energicamente affrontato l'increscioso inconveniente, sparpagliando da per tutto agenti della squadra mobile e facendo diffidare quegli stupidi elegantoni sfaccendati, detti «pappagalli della strada » - o esoticamente gagà - che si ostinano a infastidire le passanti. Molto spesso, in verità, anche le donne si volgono indietro per esaminarsi - ammirarsi o deridersi, secondo i casi; - ed è divertente vedere come rimangano male quando, voltatesi nel medesimo istante, si sorprendono a squadrarsi a vicenda. È sommamente ridicolo, per un uomo, fermarsi di fronte allo specchio di qualche mostra per compiacersi del nodo della cravatta o della piega dei calzoni. Per quanto è possibile, si deve evitar di camminare, come si suol dire, con la testa per aria; lo esige, prima di tutto, l'infernale movimento stradale moderno, che è quasi un permanente attentato alla incolumità e alla vita; e, in secondo luogo, l'obbligo di adempiere ai doveri della cortesia. Se si rimane mortificati quando si saluta uno sconosciuto scambiato per un conoscente, o gli si rivolge la parola, quando addirittura non lo si prenda sotto il braccio; e si risponde a un saluto che non era diretto a noi - il che, in fondo, non è gran male - si rimane peggio quando ci accorgiamo d'aver guardato una persona, cui eravamo stati presentati, senza vederla e senza farle un cenno di saluto. Quando le chiederemo scusa, la prossima volta che ci troveremo insieme, apprenderemo che essa aveva notato la nostra distrazione. Non è conveniente fermare sulla via amici professionisti - avvocati, ingegneri, medici, insegnanti - per consultarli intorno a cose riguardanti appunto la loro professione. Al passaggio d'un funerale, è doveroso fermarsi per salutare o cavandosi il cappello, o mettendosi sull'attenti, se si è a capo scoperto. Ugualmente, se passa la bandiera nazionale. Non diversamente, se passa una processione. Chi fosse d'altra confessione religiosa torna indietro, svolta, entra in una bottega; ma non rimane a capo coperto, quando tutti si scoprono ; se non per altro, come omaggio alla opinione altrui. È bello vedere in alcune città - a Siena, per esempio, - salutare le lettighe che passano con un malato. Non bisogna fermarsi in crocchi sulla via per discutere: i passanti son quasi come gli anelli di una catena: se ne tiri uno, vengono via tutti; se uno ne fermi tutti si arrestano. Il che accadrebbe anche se si leggessero giornali o lettere. Guardarsi dal parlare, per la via, a voce alta, o con gesti, o di cose delicate, o facendo nomi; dal bisticciarsi, per le coppie sopra tutto ; dall'indicare col dito; dal fischiare o zufolare; dal ridere sguaiatamente; dall'intavolare conversazioni con persone che sieno in finestra; dal passare davanti a persone ferme, che guardino vetrine o leggano manifesti; dal passare fra due o piú che vadano insieme. In alcuni paesi - e città! - si tenta finanche di passare fra due carabinieri di servizio, perché... porta fortuna! Se s'incontra una persona di nostra conoscenza in compagnia d'un'altra con la quale preferirebbe di non esser veduta, si passa oltre con disinvoltura come se non la si fosse notata. Se si porta l'ombrello, o il bastone guardarsi dal farlo roteare. Soltanto, poi, i venerandi pensionati di provincia fanno compiere all'ombrello l'ufficio del bastone. Su quello non ci si appoggia, passeggiando, né lo si porta, come un famoso personaggio da commedia, sotto il braccio, o in altro modo che possa dar noia a chi è al nostro fianco o ai passanti. Inoltre, per non intralciare il movimento, è doveroso andar sempre dal lato prescritto, che non è da per tutto lo stesso, specialmente nelle città dove le vie son senza marciapiede. Imbattendosi faccia a faccia con uno che non tenga la sua mano, piuttosto che fare per parecchi secondi quel grottesco va e vieni, da destra a sinistra e viceversa, con le braccia piú o meno aperte, proseguire risolutamente per la propria destra. Può darsi che si abbia bisogno di qualche indicazione o informazione: ci si rivolge garbatamente a qualche passante che si vede pratico del luogo o a una guardia - è meglio non disturbare una signora - chiedendo scusa del fastidio e ringraziando: si dà alla stessa maniera; dolenti se non siamo in grado di farlo. Se chi si rivolge a noi è uno straniero, non risparmiare anche qualche passo perché l'indicazione sia completa e precisa. Talora si formano, sulle vie e sulle piazze dei crocchi, degli assembramenti per un incidente o di fronte alla esposizione di una bottega: una signora specialmente non s'imbranca. E non si cerca in tutti i modi di passare ai primi posti, spingendo dietro gli altri, se c'è un qualsiasi pubblico avvenimento. Quando piove e noi siamo forniti d'impermeabile o d'ombrello, si lascia lo spazio piú riparato, presso i muri, ai passanti che ne sono sforniti: se s'incontra una signora amica in tali condizioni, meglio offrirle senz'altro l'ombrello che proporle di accompagnarla. Non si gettano sulla via carte strappate e né pure scatole vuote di cerini o di sigarette: se non ci sono, qua e là, lungo la via, gli speciali cestini metallici, si tiene tutto in tasca, salvo a sbarazzarsene quanto prima, e tanto meglio se in modo che ne possa usufruire la Croce Rossa. Mi si son proposti due quesiti: Possono le signore, per via, portare dei pacchetti? - Non era elegante, specialmente in alcune nostre regioni; ma, oramai, le signore hanno superato questo pregiudizio: a condizione, però, che i pacchetti, per il numero o per il peso, non diano l'idea dello sgombero. È elegante, per una signora, andare a passeggio con un cagnolino al guinzaglio? - Al guinzaglio si, non certo in quelle altre maniere in cui oltre Manica e in America - per quanto non sia altrettanto elegante fermarsi col cagnolino - lo si guardi o non lo si guardi!, a tutti gli spigoli e a tutti i pali...È bene altresí educare il proprio cagnolino - senza, beninteso, picchiarlo sulla via - a non annusare i passanti, né ad abbaiar loro dietro; per quanto le bestie, e i cani specialmente, abbiano un odorato piú fino degli uomini, e, meglio degli uomini, sappiano distinguere gli amici veri dai falsi; ma, allora, bisognerebbe condursi dietro, invece di un cagnolino, un molosso! Si può mangiare sulla via? - In linea generale, no ; ma ci son vie e vie, e cose e cose che si posson mangiare. Non sarebbe, certo, conveniente mangiare per qualcuna delle vie centrali delle nostre città, e all'ora del passeggio; o mangiare dovunque panini imbottiti o fette di cocomeri; ma perché non dovrebbe esser permesso di assaporare, per esempio, qualche marrone candito? Quindi, è questione di discrezione!

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Nelle lettere familiari e d'amicizia, una introduzione semplice e viva e una chiusa buona e affettuosa: tra l'una e l'altra, le notizie e, in genere, quel che abbiamo da dire, non con un ordine stringato, ma tuttavia senza andate e ritorni. È permesso qualche poscritto, che consente di tornare un momento su ciò che s'è detto, o di colmare una lacuna. Le lettere d'affari possono essere svariatissime, dalla commissione alla raccomandazione: requisiti principali, l'ordine, la chiarezza, la brevità: principalissimo, la gentilezza. Alcune lettere di questa categoria richiedono un tatto speciale: quelle, per esempio, con cui si dànno o si chiedono informazioni. In tal caso, bisogna scrivere secondo che la coscienza suggerisce e in termini prudenti, perché la piú piccola parola inconsiderata può pregiudicare moltissimo una persona o una istituzione. Si mettono fra le lettere dette di convenienza quelle che alcune circostanze speciali della vita obbligano a scrivere: lettere di condoglianze, di congratulazioni, di ringraziamento, di scusa. Le prime son le piú difficili. Esse si propongono di consolare. Tutto vi è delicato: la scelta del momento in cui si scrive, le parole che si usano, i sentimenti che si esprimono. E il complesso di questi diversi elementi dipende dalle relazioni fra mittente e destinatario. Se chi scrive è buon amico di colui cui la lettera è diretta, prende parte veramente al suo dolore: in tal caso, il cuore guiderà certamente la penna e farà dire delle cose delicate e consolanti. Se, invece, col destinatario, non si hanno che relazioni di società, gentili senza essere amichevoli, si andrà meno avanti nella intimità del dolore, si limiterà a dare l'assicurazione della propria simpatia. Il difficile, in parecchi casi, è di restare discreto, evitando di cadere nella freddezza, che è quasi un'offesa, come quando si scrive « condoglianze » su una carta da visita, o di profondersi in effusioni inverosimili. Ora, non si cadrà in questa mancanza di gusto se si è mossi da sentimenti, elevati e generosi; se, in una parola, si ha del cuore. Non vi possono esser regole per questa specie di lettere, il cui merito principale consiste nell'adattarsi al carattere delle persone e delle circostanze. Il dolore colpisce cosí diversamente le anime! Alcune quasi vi si adagiano; e, per queste, il miglior modo di condolersi è parlare della perdita patita. Altre, al contrario, mettono come del pudore a chiudere il loro dolore in fondo al cuore, e non amano sentir ricordare da altri l'oggetto amato e perduto: per queste, sarà opportuno scivolare sui ricordi dolorosi e guardarsi dal tentar di consolare un dolore inconsolabile. Insomma, nulla vale, per l'ispirazione, come la sincerità del sentimento. Per conto mio, quando si tratti di condoglianze e di congratulazioni, alla lettera preferisco il telegramma. Le altre lettere di questo gruppo debbono anch'esse, come quelle di condoglianza, essere scritte al momento opportuno; ossia non appena si può, dopo l'avvenimento che è la causa: nascita, matrimonio, onorificenza, favore ricevuto, offesa fatta. E anche qui la disposizione con cui prendiamo la penna è la guida migliore; il buon gusto farà evitare gli eccessi che, in parecchi casi, sono l'indifferenza o la effusione iperbolica. Che diremo, in ultimo, di quel tal generino di lettere qualificate « anonime »? Inviarne per far delazioni, maldicenze, calunnie, o per destare sospetti, è peggio che appiattarsi dietro a un muro per tirare una fucilata al viandante: è l'atto piú malvagio e piú vile, che mette l'autore al bando dell'umanità. Non bastano, poi, il contenuto e la forma: ci sono anche le forme, dalle quali altresí si giudica della buona educazione, della gentilezza, della finezza di modi di chi scrive. Non si partecipano i saluti di altri che ai propri pari e agli amici; eccezionalmente, agli sconosciuti e ai superiori; a questi si possono presentare soltanto i saluti dei genitori o dei parenti. Né s'incarica un superiore di salutare un inferiore; come il superiore eviterà di affidare all'inferiore i suoi saluti per qualcuno. Non sono convenienti i poscritti nelle lettere di riguardo; in nessun genere di lettere, per far proteste d'amicizia o per congratularsi. Se si affidano lettere ad amici perché cortesemente le recapitino ad altri, si consegnano aperte: gli amici si affretteranno a chiuderle. La carta dev'esser semplice, ma non ordinaria: la bianca è la migliore. Non dev'esser profumata. Non si scrive alle persone di riguardo su carta intestata o su cartoncini. La busta deve essere della medesima qualità e del medesimo colore del foglio. Dev'esser buono l'inchiostro: leggibile la calligrafia. Si lascia sempre un centimetro di margine laterale; né si rimandano alla pagina successiva i saluti. Non si cominciano le lettere col pronome Io né con un gerundio. Sono aboliti i qualificativi sperticati: ricordare che l'illustre è molto piú dell'illustrissimo e si può dare soltanto a pochi. Sul rovescio della busta è prudente scrivere il cognome e il recapito del mittente sia per ricordarlo a chi si scrive sia perché si sappia a chi restituire il messaggio nella eventualità che non si trovi il destinatario. Ecco i recapiti, con la forma diretta e indiretta, da usare con le varie categorie di personaggi: Al Sommo Pontefice: Alla Santità di - Santo Padre - Voi, a Voi, di Voi, Santità, Santo Padre. Ai Cardinali: Eminenza reverendissima - Eminenza - Voi, Eminenza - Di Voi, Eminenza. Agli Arcivescovi e Vescovi: Eccellenza - Voi, Eccellenza - A voi, Eccellenza. Non sappiamo se ai membri della Costituente sarà data la vecchia qualifica di Onorevole. L'Eccellenza ai Ministri, ai Prefetti, ecc. non è ormai che un ricordo e, per alcuni, una nostalgia piú o meno pungente. Quanto alla chiusa, secondo i casi: devozione filiale, devotissimo suddito, devoti ossequi, con devozione, devotissimo, ossequi, con devozione affettuosa, con affetto devoto, obbligatissimo, gratissimo, cordialissimi saluti, ecc. Scrivendo, poi, a persone di riguardo e alle signore, i pronomi e i possessivi vanno scritti con la maiuscola: Lei, La, Sua, ecc. Usa scrivere con la maiuscola anche i pronomi indiretti, incastrati in altre parole: scriverLe, salutarLa. In alcun Paesi, le qualifiche dei mariti sogliono prenderle anche le loro signore. In Italia, no. Nell'Italia meridionale - evidente avanzo di spagnolismo - usa dare comunemente il « don » e il « donna ». Se c'è ancora chi prende gusto a darlo o a sentirselo dare - ma nel meridionale - poco male, per quanto anche la legge sia intervenuta a disciplinare quest'uso. Normalmente, il « don » si dà soltanto agli ecclesiastici, anche davanti al cognome, e ad alcuni nobili. La data in cima al foglio, a destra: da Siena, a' 30 di maggio del 1945, il vocativo in mezzo, o al principio del rigo; se seguíto da punto, lettera maiuscola da capo; se da virgola, si prosegue, anche se da capo, con lettera minuscola. Si tenga presente che i numeri romani, hanno già il valore di ordinali; quindi, si scrive 30, ma con cifre arabe; III con numeri romani. In fondo alla lettera, è ridicolo mettere il caro o il carissimo con i « propri » saluti: secondo i casi, aff.to, aff.mo, dev.to, dev.mo: servitore, mai servo, che vuol dire schiavo. Nelle lettere familiari, meglio il possessivo: in quelle di riguardo, meglio a Lei, dev.mo, ecc. In queste, si suol anche ripetere il recapito in fondo al foglio, a sinistra. Non è corretto firmare con le iniziali o con sigle illeggibili. Scrivendo ad amici, basta il nome e l'iniziale puntata del cognome; o questo solamente. Non è corretto inviare lettere non sufficientemente affrancate. Il francobollo si attacca diritto, in cima a destra; il recapito deve avere tutte le indicazioni precise: sul rovescio della busta, il cognome e il recapito di chi spedisce; e questo sempre, facendo poco affidamento sulla memoria o sulla cura di colui a cui si scrive. Quando si desideri una risposta da persone con le quali non si sia in confidenza, unire il francobollo. Mi par quasi superfluo ricordare che non si scrive direttamente alle piú alte Autorità; ma alle persone loro specialmente addette, o agli uffici.

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Io, che seguo da vicino la evoluzione delle istituzioni scolastiche in tutti i Paesi, ho constatato che, sotto questo punto di vista, noi lasciamo ancora a desiderare; tanto che, si può dire, non abbiamo pubblicazioni sull'argomento, né vi sono esplicite e rigorose raccomandazioni governative al riguardo. Recentemente, il governo olandese ha inviato negli Stati Uniti una commissione per studiare se, nelle scuole americane, i bimbi sono piú felici di quelli europei nelle proprie scuole. La relazione è stata pubblicata recentemente, e merita di esser conosciuta e meditata; né soltanto per la larga messe di profonde osservazioni fatte nei differenti tipi di scuole di quarantotto Stati americani - dove, com'è noto, non esistono sistemi nazionali di educazione - ma anche per il raffronto fatto con le scuole di altri Paesi orientali ed occidentali. Di modo che, come dicevo, da nulla le norme che regolano il vivere cortese, generoso, buono zampillano cosí spontaneamente come da una concezione di vita equilibrata, serena, feconda, felice: concezione che si dà e si apprende specialmente nella scuola.

Pagina 257

Cosima

243679
Grazia Deledda 3 occorrenze
  • 1947
  • Arnoldo Mondadori Editore
  • Milano
  • verismo
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"Lascia stare" disse la nonnina; "noi, di lassú, non abbiamo bisogno di nulla. Sono venuta solo per un salutino, e ti porto anche i saluti di Francesco." Francesco era il nome del fidanzato di Beppa: pareva che la nonnina scherzasse crudelmente; ma poi si seppe che proprio quella notte, poco prima dell'ora del sogno di Cosima, il commendator Francesco era morto, dopo appena tre giorni di polmonite. Cosí secondo la misericordia divina, prendeva anche lui parte alla famiglia: e le cose di questo mondo erano appianate.

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Maccioni con la nipote Giuseppina che a 85 anni si ricorda ancora l'uscita della piccola Cosima: «Abbiamo un bambino nuovo, un Sebastianino». Cambiato è il nome di Fortunio, pag. 106, il figlio del cancelliere, finito poi anche lui cancelliere come il padre: e come il nome è cambiata la natura dell'imperfezione che lo affliggeva: non era zoppo, ma guercio. Le due vecchie implacabili zitelle, pag. 85, rispondevano al nome di zia Tatana e zia Paschedda M., governanti del canonico S. La Continentale, pag. 45, era certa maestra Branca. Pag. 21. La casa paterna della scrittrice, coi grappoli d'uva appesi al soffitto, e la vista dei monti dalle finestre alte, è stata descritta a piú riprese nei libri della D. con gli adattamenti dei singoli casi. Vedi le prime pagine di Il paese del vento, di Sino al confine; sul giardino vedi il racconto intitolato Casa paterna in Nell'azzurro, nel quale racconto trovansi anche notizie sui primi studii di Grazia Cosima. Sulla casa paterna della D. vedi Pietro Pancrazi, La casa di Grazia, in Donne e buoi, pag. 219. Ed. Vallecchi, Firenze, 1934, e llarukichi Shimoi in «Unione Sarda», Cagliari, I° febbraio 1931. Pag. 33. «... un inverno lungo e crudelissimo...» A ricordo dei vecchi, veramente eccezionale. Vedi Comincia a nevicare... in Il dono di Natale (1930) pp. 17-20. Fu l'inverno del 1880. Pag. 42. Sul carattere della madre, vera «mater doloris», sopra le fatiche da lei sostenute nella direzione della casa vedi Pane casalingo in «Corriere della Sera» del 19 gennaio 1936. Aiutar la mamma a fare il pane era, per le ragazze, una insigne fatica. Pag. 46. L'ispettore: «un uomo tarchiato, con una testa di leone nero; tragico e colto come un gesuita. Ne abbiamo incontrati, di personaggi importanti, nella vita; nessuno che facesse tremare le vene come l'ispettore delle nostre scuole d'allora». Dal volume II primo passo: confessioni di scrittori contemporanei, raccolte da L. M. Personé, ed. Nemi, Firenze 1930: pagg. 113-120. Pag. 50. Gabriele d'Annunzio, accompagnato da Cesare Pascarella e da Edoardo Scarfoglio, giunse a Nuoro il 28 maggio 1882. «A Nuoro» scrive Scarfoglio (Libro di Don Chisciotte) «ci giunsero le prime copie del Canto nuovo» [finito di stampare in Roma il 5 dello stesso mese]. Un ricordo del viaggio in Sardegna D'Annunzio rievocherà nel 1909 nella Prefazione alla traduzione italiana di Osteria di Hans Barth, e farà un cenno, oltre che del « nepente d'Oliena», delle Case delle Fate rievocate in Cosima a pagina 20 e delle Tombe dei Giganti, a pagina 94. Pag. 51. Il pallone volante che si incendia ritornerà in Il paese del vento, pag. 37. Pag. 53. Quarto rondò dell'«Intermezzo melico» di Isaotta Guttadauro di G. d'Annunzio: primamente apparso coi tipi della «Tribuna», Roma, Natale 1886. Su D'A. citato con onore dalla D. vedi Tipi e paesaggi sardi, nella «Nuova Antologia» del 16 dicembre 1901. Nel romanzo Colombi e sparvieri (1912) il protagonista adolescente parla, cap. VII, delle sue letture dannunziane: «I romanzi e le novelle di G. d'A. ci rivelavano un mondo incantato e malefico, una plaga dolce e ardente piena di fiori velenosi e di frutti proibiti... In quel tempo rileggevo Terra vergine e sognavo grandi fiumi luminosi, tutto un paesaggio caldo e fantastico, con isole coperte di canne e di giuncheti ombreggiate da boschi di salici e di pioppi, velato di vapori rosei e popolati di donne belle e voluttuose: e queste donne le vedevo coperte anch'esse di veli fluttuanti, coi capelli sciolti e gli occhi in color di viola come il cielo del crepuscolo. Il mondo reale intorno a me era invece nitido e duro; un mondo fatto di rocce e di macchie dai rami contorti... e le donne erano vestite di nero e di giallo, di panno ruvido...». La D. nutri sempre una viva ammirazione per il grande scrittore abruzzese. Da ragazzetta era innamorata del De Amicis. Avrebbe voluto avere (Frammenti di memorie infantili, nel volume Nell'azzurro, raccolto nel 1890) «la penna d'uno dei nostri piú grandi scrittori - del De Amicis, per esempio - per scrivere le memorie della mia infanzia». Ma poco piú tardi, in Fior di Sardegna (pag. 218), con maggiori ambizioni, «oh la penna, la penna di Victor Hugo per un'ora sola, per descrivere queste lotte interne, queste tempeste in un cranio...». Sulle prime simpatie letterarie della giovinetta Grazia vedi Stella d'Oriente in «Avvenire di Sardegna», Cagliari 1889: vi si fanno i nomi di Moore, Byron, Hugo, Dumas, Sue (« gran romanziere glorioso o infame secondo i gusti, ma certo molto atto a commuovere l'anima poetica di un'ardente fanciulla»), Cavallotti. Piú tardi lesse Balzac, Amiel, Scott, Manzoni, Grossi, Guerrazzi, Pellico, Metastasio, Goldoni; poi s'accostò ai contemporanei: Fogazzaro, Verga, Stecchetti, D'Annunzio, Ada Negri, Aurelio Costanzo, poi ad altri stranieri: Carmen Sylva, Elena Vacarescu, Turgheniev, Gogol, Tolstoi, Gorki. Piú tardi ancora si appassionò di Dostoievschi. Pag. 55. Lo stesso stornello (mutos) cantano, sulla fine della prima parte di Cenere (1903), la prostituta cagliaritana Marta Rosa, e la giovine Gavina di Sino al confine (1909), «col solo motivo malinconico e primitivo ch'ella sapesse ripetere». In ques'ultimo romanzo il lettore troverà frequentemente personaggi, ambienti e situazioni simili a quelli di Cosima: il canonico Sulis, il padre, la cameretta di Gavina, e il fratello Luca, manesco come Andrea in Cosima a pag. 115. Pag. 68. Lettera a Epaminonda Provaglio direttore di «Ultima Moda», stampata in Roma dall'editore Edoardo Perino. «Quadrivio», Roma, 23 agosto 1936). «Mio padre è vecchio: colto da paralisi parla a stento e rimane silenzioso e cammina solo aiutato. Mia madre, tutta casa e famiglia, vestita in costume, non esce mai. Dei fratelli, uno studia a Cagliari, l'altro, ormai capo-famiglia, passa i suoi giorni tra gli affari, sempre a cavallo attraverso le nostre grandi tenute, pei monti e per le valli: mia sorella maggiore è fidanzata con un giovine avvocato e se ne andrà fra poco con lui; altre due sorelle, che completano la famiglia, sono piccole, quindici, tredici anni, e si divertono per conto loro senza pensare a me...» (marzo 1892). (Allo stesso) «Oh se tu sapessi come amo il mio babbo, e come egli era buono! Tutti, tutti gli vogliono bene. È vissuto beneficando, lasciando benedizioni dietro di sé, e non a Nuoro soltanto, ma in tutto il circondario. Vi furono anni di carestia, mi ricordo, in cui egli sostentò del suo intere famiglie, e una volta fece venire dal continente un bastimento di polenta per un miserabile villaggio, perduto nei monti piú desolati, che moriva di fame, senza aiuto, negli orrori dell'inverno...), (luglio 1892). (Allo stesso) «Avrai ricevuto il doloroso annunzio della morte del babbo mio... Benché preveduta, e da tanto tempo, questa disgrazia ha scosso profondamente le basi della felicità mia e di tutti i miei. Io ho sofferto tanto, tanto, che mi pare non si possa soffrire di piú. Ma ora sono calma e ritorno, a poco a poco, alle mie antiche abitudini ed ai miei antichi pensieri. Nella tristezza del lutto mi pare che il mio babbo amato mi sia sempre vicino, più di prima, e che il suo spirito aleggi sempre intorno a me, preservandomi da ogni sventura, e guidandomi nella buona via... Come vedi, però, le mie novelle sono molto tristi, e la mia esistenza è più che mai oscura e monotona. Tu non puoi immaginarti, con che rigidezza qui si osservi il lutto. Le nostre finestre son chiuse ed io non mi posso neppure avvicinare ai vetri. Per due o tre mesi noi donne dobbiamo stare ermeticamente chiuse in casa e poi ci sarà concesso di uscire sí, ma per ricambiare solo le visite o per andare in chiesa. Niente passeggio, a meno che non sia in campagna, nessuno svago, e un contegno sempre rigorosamente triste... E cosí per tre o quattro o magari cinque anni. Per buona fortuna io sono quasi avvezza a questa tetra esistenza, e spero di cambiarla fra due anni al piú tardi; altrimenti questo lutto artificiale unito al lutto intimo, mi ucciderebbe...» (novembre 1892). A Onorato Roux: lettera del marzo 1907, pubblicata in Infanzia e giovinezza di illustri italiani contemporanei, Ed. Bemporad Firenze, 1908, vol. I, parte 2ª. «Mio padre era un uomo intelligentissimo: poeta estemporaneo, dialettale. Di una bontà incredibile, egli conservava, forse, la sua natura di poeta anche nel trattare gli affari, perché aveva fiducia di tutti, aveva pietà di tutti, si lasciava raggirare da tutti. La nostra casa era come una specie di piccolo albergo gratuito. Da venti paesi del circondario di Nuoro venivano ospiti che se ne stavano due, tre e persino otto giorni in casa nostra: Erano tipi caratteristici: popolani, borghesi, preti, nobili, servi, dei quali io conservo vivissimo il ricordo...». Pag. 83. «Roma era la sua mèta...» Quante volte, nei romanzi anche dopo che la D. si fu incontinentata, ritorna come motivo di racconto questo fascino di,Roma: Cenere, Nostalgie ecc. Scriveva a Epaminonda Provaglio nel febbraio 1895: «Il mio più bel sogno è sempre di poter venire a Roma per conoscere un po' di questo mondo che tutti vogliono farmi credere brutto, mentre a me invece pare bellissimo. Ma chi sa quando ciò sarà, chi sa quando? Non ho nessuno che possa accompagnarmi; e poi c'è un'altra cosa: io vorrei viaggiare con lusso e fare un po' di figura...». Pag. 100. Rosa di macchia: in realtà, Fior di Sardegna. (La prefazione, dell'A. al Fiore, comincia con queste parole: «Fermarsi in un sito sconosciuto e montuoso dell'isola di Sardegna, cogliere fra i lentischi e le rocce una timida rosa montana nata all'ombra degli elci e fra i profumi delle folte borraccine - esaminarla foglia per foglia... ecco lo scopo del presente racconto». Il, romanzo, ed. da Perino nel 1891, è dedicato «Alla contessa Elda di Montedoro i in segno d'affettuosa gratitudine». Tale era lo pseudonimo di Epaminonda Provaglio, direttore - come s'è detto - di «Ultima Moda», col quale la giovine scrittrice ebbe dall'isola frequente carteggio ignorando per un po' di tempo sesso e carattere del suo corrispondente. «Hai ragione su quanto mi scrivi circa il mio modesto romanzo», scriveva la D. alla immaginaria Elda; «mi correggerò sempre piú sui difetti che ti son gratissima di avermi indicato, ma permettimi che io non accetti l'inverosimilità dei capitoli in cui Lara e Massimo si trovano insieme per quasi una notte intera senza che per ciò accadesse qualche guaio... È vero: la virtù di Lara è un po' troppo invulnerabile, un po' troppo fenomenale [a pag. 103 di Cosima, conviene sul carattere libresco di quegli amori e immaginario di quei convegni notturni], ma dimmi, se Lara non fosse stata cosí si sarebbe poi meritata il nome di Fiore che ho messo per titolo alla sua storia? E che mi dirai se ti assicuro che la tela di quel convegno io la ho rubata dalla lettera di un giovine scritta ad una fanciulla pallida e triste come Lara, il giorno dopo una notte passata insieme, cosí in un angolo di cortile, sotto un mantello, e senza alcun danno?... Oh, Elda, Elda! Tu l'hai detto: io conosco profondamente il cuore umano e, benché sia molto giovine, forse non ho piú nulla a imparare su ciò: i personaggi del mio racconto non sono esistiti, ma le passioni che ho descritto sono quasi generali in tutti, ed io non ho dovuto che semplicemente studiare intorno a me, dentro di me, nel libro della vita...». Lettera del 16 gennaio 1892 pubbl. in «Quadrivio», 23 agosto 1936. La Deledda rifiutò sempre di ristampare quel suo romanzo giovanile e s'imbronciava a sentirselo ricordare. Fu spesso ristam- pato alla macchia. Pag. 102. «Anche a costo di strapparle un po' dell'ideale che si sarà formato di me, immaginandomi forse bella e ardente, come la maggior parte delle fanciulle sarde, l'avverto che sono un tantino brutta e niente affatto interessante: e che di grazia, ahimé!, per una strana ironia, non posseggo che il nome. Per fortuna non mi affliggo tanto di queste mie disgrazie e mi conforto ricordandomi di aver letto che tutte le grandi scrittrici, dalla sua prediletta Sand alla mia favorita Miss Muloch, furono brutte». Lett. a Stanis Manca, 28 luglio 1891. «Le farò la mia silhouette in due o tre righe. Ho vent'anni e sono bruna e un tantino anche... brutta, non tanto però come sembro nell'orribile ritratto posto in prima pagina di Fior di Sardegna... Sono una modestissima signorina di provincia, che ha molta volontà e coraggio in arte, ma che nella sua vita intima, solitaria e silenziosa, è la piú timida e mite ragazza del mondo». Lett. a E. Provaglio, 15 maggio 1892 («Quadrivio», num. cit). Molte volte, col favore della terza persona romanzata, la D. tornerà a delineare il proprio ritratto fisico e morale intorno a quel tempo giovanile. Tra i piú riusciti quello del primo capitolo de Il paese del vento: «Piccola, scura, diffidente e sognante come una beduina [Io son di saracino sangue ardente..., cominciava una poesia intitolata Noi pubblicata in «Sardegna artistica» nel febbraio del 1893] che pur dal limite della sua tenda intravvede ai confini del deserto, i miraggi d'oro di un mondo fantastico, raccoglievo negli occhi il riflesso della vastità ardente...». Ivi a pag. 12, ritroveremo nel cortile un mufloncino che ci riconduce a quello dello straordinario racconto di Proto, pag. 35 di Cosima. Altra bella storia di muflone malinconico e fedele nella prima parte del romanzo Il vecchio e i fanciulli (1928). Nel racconto intitolato Il mio padrino in Il dono di Natale la D. ricorda il dono che il padrino per appunto le fece di un piccolo muflone. A proposito del racconto di Proto in Cosima, vedi l'interessante articolo Il lupo mannaro come motivo letterario di P. E. Pavolini in «Lares», Roma, marzo 1937. Pag. 103. Sullo scandalo che fecero a Nuoro i primi scritti stampati della D. vedi la cit. Casa Paterna in Nell'azzurro e Primi passi in «Corriere della Sera» del 21 giugno 193o; articolo, quest'ultimo, che si legge ristampato nel citato vol. di L. M. Personé, Il primo passo. Pag. 110. Sulla lettera-stroncatura vedi il cit. L. M. Personé. La lettera fu scritta alla D. da uno studioso e poeta solitario, Giovanni Antonio Murru; il quale piú tardi senti il bisogno di indirizzarle invece un sonetto di elogio che comincia: «Tu, de l'ingegno figlia benedetta - Non sogni lo svanir de le vïole, - Ma forte e ardente come la vendetta - Hai l'impeto de l'odio e le parole...». Pag. 119. Il frantoio delle olive e la pittoresca adunata di gente del popolo riapparirà in Cenere, Cap. III. Le osservazioni fatte sul linguaggio e le superstizioni di cui piú avanti, a pag. 123, la D. raccolse in un articolo apparso in « Rivista delle tradizioni italiane » diretta da Angelo De Gubernatis, intitolato Tradizioni popolari nuoresi. Pag. 123. Rami caduti: in realtà Anime oneste (1896) con prefazione di Ruggero Bonghi, datata da Torre del Greco il 28 agosto 1895. La Deledda fu incoraggiata a scrivere questo romanzo dalla direttrice della casa editrice milanese L. F. Cogliati («La Casa Cogliati vuole che io scriva un romanzo all'inglese, un romanzo famigliare d'anime buone e gentili »; e romanzo famigliare è specificato nel sottotitolo del libro. In un primo tempo il titolo doveva essere Gli onesti. Lettera a Epaminonda Provaglio del novembre 1894). La prefazione fu sollecitata dalla stessa editrice che era in grande amicizia col Bonghi e gli passò le bozze del romanzo. Ma il vero «lancio» della romanziera nel mondo letterario fu fatto circa un anno dopo, da una recensione di Luigi Capuana sopra l'opera successiva: La via del male. Al quale Capuana la D. scriverà da Nuoro, in data 30 marzo 1897: «Spero che l'opera mia, giacché non conto di fermarmi, debba sempre piú riuscirle gradita. Sono ancora molto giovane, molto piú giovane di quanto molti, giudicandone dalla mia produzione, mi credano: ebbi solamente il torto di cominciar troppo presto a pubblicare. Ma ero sola, come ancora lo sono, e non avevo maestri né guide. Se un vigile consiglio mi avesse guidata quel Fior di Sardegna, da Lei ricordato, e tanti e tant'altri lavori miei non avrebbero veduto la luce. Ma sento, ora che sono pienamente consapevole, che molto tempo ancora mi resta per compiere l'opera cominciata con La via del male. La guida che nei primi passi mi è mancata ora la sento in me stessa, ed è una intima voce che mi addita qualche cosa di alto e di puro e di fortemente luminoso ». La recensione del Capuana si legge raccolta ne Gli «ismi» contemporanei (Verismo, Simbolismo, Idealismo, Cosmopolitismo), Ed. Giannotta, Catania 1898, pagine 153-161. Il Capuana vi dava lode alla D. di non essersi lasciata traviare dagli «ismi» che stavano allora corrompendo gl'ingegni più virili. «La signorina Deledda fa benissimo di non uscire dalla sua Sardegna e di continuare a lavorare in questa preziosa miniera, dove ha già trovato un forte elemento di originalità». Nella riedizione di La via del male, del 1906, la D. fece tesoro delle critiche del Capuana, rinnovando alcune situazioni che questi aveva trovate troppo artificiali, certe risoluzioni da lui giudicate troppo melodrammatiche, precisando certi press'a poco di scrittura che il critico siciliano le aveva addebitato. Pag. 125. «...un alto, grasso, biondo giornalista...» È Stanis Manca, cronista e critico della «Tribuna». Egli fu dei primi a scrivere nei giornali sulla giovine scrittrice corregionale e si recò a Nuoro per conoscerla di persona nelle vacanze del 1891. La D. mantenne col Manca un'attiva corrispondenza, tra le piú preziose per una miglior conoscenza del suo animo, della sua formazione letteraria, dell'ambiente paesano e delle ragioni personali che indussero la D., per un certo tempo, a tralasciar di trattare argomenti sardi. Tali lettere, in possesso di Antonio Manca, fratello di Stanis, vedranno un giorno certamente la luce. Da una lettera dell'8 giugno 1891 stralciamo: «Ho letto attentamente il suo articolo sulla Vita Sarda e l'ho intensamente compresa ed ho provato qualcosa come il rimorso. Infatti dacché scrivo ho lasciato in coda e sempre la Sardegna coi suoi costumi, le sue passioni e i suoi paesaggi che nessuno studia e ammira piú di me. Però io lo feci appositamente... I primi bozzetti che scrissi erano sardi, puramente sardi i personaggi, i caratteri ritratti dal vivo, come piú e meglio potei nella mia debole fantasia di sedici anni. Credevo di far onore e piacere ai miei compatrioti e mi aspettavo da loro chissà che; si figuri dunque il mio dolore - il primo dolore - che provai allorché, comparsi alla luce quei racconti, per poco non venni lapidata dai miei conterranei. Si pretese di conoscere i tipi e si volle che i miei personaggi fossero vivi, benché taluni morti decisamente nei bozzetti; e questi eroi offesi, esasperati, non potendo sfidarmi a duello mi coprivano di maldicenza, di ingiurie, di ridicolo, arrivando persino a dire che altri scriveva nell'ombra ed io non facevo che firmare, tanto che il mio povero io, piccola e fragile creatura che non aveva mai fatto male ad alcuno, provò tale dispiacere, tale disillusione, da caderne quasi ammalata. Diventai pallida, febbricitante; e mentre i miei occhi pareva s'ingrandissero (è un fenomeno reale, riflettendo l'ombra dei miei sogni spezzati) la mia anima di bambina si faceva grande anch'essa, grande di sdegno e di dispiacere. Un'altra al mio posto avrebbe spezzato la penna maledicendola; avrebbe, a furia di calzette e di ricami, obliato il suo ideale di ragazza fantastica e annoiata; io invece temperai la mia penna... ma giurai di non tradurre piú sulla carta i fatti che potevano accadere d'intorno, non solo, ma nulla che potesse riferirsi a persone e avventure sarde. Mantenni la parola sino a questi ultimi tempi: i miei romanzi, le mie novelle piú notate accadono tutte fuori di Sardegna, con personaggi tutt'altro che sardi; e se, spinta dall'irresistibile amore del patrio loco, mi decisi qualche volta a mettere su la Sardegna, lo feci in modo che i paesaggi riuscissero veri, ma gli eroi tali da non destare la suscettibilità di nessuno... Il suo articolo, la sua graziosissima lettera e i suoi consigli han finito per convincermi; anzi mi hanno recato un po' di rimorso, perché prima d'ora avrei dovuto obliare il mio rancore e narrare la storia degli ermi casolari, le leggende dei nostri boschi e delle nostre vallate, descrivere i monti che vedo dalla mia finestra [altre volte ritorna, nella confidenziale corrispondenza con Stanis Manca, l'accenno a questa finestra della sua camera, avanti alla quale la giovinetta Grazia passava a tavolino le sue ore sognanti. Vedi anche a pag. 83, l'accenno al «paesaggio sonnolento dei monti alla finestra». Sulla «vista» da quella finestra vedi i versi della D.: All'Orthobene in Paesaggi sardi: «Tu sei la visïone - Consueta dei giorni solitari - Dolcissima muraglia - Che i sogni miei rattieni e li respingi - Col vento della notte»] e dove passai tanti giorni e tante notti sí azzurre e care alla mia memoria, invece di scorrazzare nel continente e magari in Russia o Scozia, attraverso palazzi e persone che non conosco e che purtroppo temo di non dover mai conoscere... [Chi avesse allora vaticinato alla D. le accoglienze trionfali di Stoccolma!]. Conchiuderò dicendole che oramai ho deciso di lasciare il di là per dedicarmi tutta al di qui, secondo le mie povere forze me lo permetteranno e se il buon Dio dell'arte proseguirà a darmi vita e speranza». E il 2 novembre 1893, allo stesso Manca confermava: « Ho bisogno di essere forte e calma per compiere il dovere che mi sono prefissa: quello, non vano, di fare del bene alla Sardegna, alla mia, alla nostra diletta Sardegna». Pag. 130. «Spesso vado in una campagna suggestiva: una pianura melanconica, deserta, senza alberi. La nostra vigna è l'ultima; due pini alti fremono continuamente sotto il cielo d'un azzurro triste di viola mammola; al di là cominciano le tancas melanconiche, animate solo da qualche greggia, e sembrano sconfinate. Da sotto il pino ove è inciso il nome di Sebastiano Satta che deve aver sentito la triste poesia di questo luogo, io guardo la vastità desolata e desidero andare, andare attraverso questa infinita eppur dolce tristezza della natura sarda. Chissà? se diventerò ricca, mi farò una casa qui sotto l'incessante murmure dei pini...». Lettera a Luigi Falchi, ottobre 1890: riprodotta in Confidenze dello stesso, Sassari, 1925. Ai tempi del soggiorno in quella vigna deve risalire la ispirazione e composizione del nuovo romanzo La via del male, uno dei maggiori successi, anche di traduzione in lingue straniere, della D.; il quale comincia per appunto con un idillio al tempo della vendemmia. In un primo tempo detto romanzo doveva intitolarsi L'indomabile (titolo che aveva il colore del tempo: ricorda L'invincibile di Gabriele d'Annunzio, che fu la prima redazione - dal cap. I al XVI - del Trionfo della morte apparsa nella «Tribuna illustrata» del 1890; al quale tenne dietro L'Inarrivabile di Diego Angeli, Ed. Bontempelli, Roma, 1893). Nel' frattempo uscí un romanzo con quel titolo, di una scrittrice veneta in corrispondenza con la D., Umbertina di Chamery. La D. se ne crucciò; ma a torto, ché il nuovo titolo era assai piú significativo e calzante. Uscí alla fine del 1896 a Torino, coi tipi dello Speirani, con una dedica ad Alfredo Niceforo e a Paolo Orano. Pag. 130. «Un colono del Continente...» Un antico ex-coatto rimasto volontariamente nel suo luogo di esilio. Un personaggio con funzione quasi di protagonista, che molto gli somiglia, sarà Efix (Elisio) il servo tutto devoto alle figlie del padrone da lui ucciso in Canne al vento. Il vero nome era Arcangelo e proveniva dalla Calabria. Pag. 165. La prima persona che vide. «Viso fresco, capelli castani ondulati, occhi pieni di gioia furbesca ma schietta.» Vedi tale incontro voltato in romanzesco in Il paese del vento. Nella realtà, Palmiro Madesani, «continentale» in età allora di 35 anni. Le sarà presentato qualche giorno dopo l'arrivo a Cagliari, alla fine d'ottobre del 1899, in teatro, dal prof. Luigi Falchi. Si fidanzarono ai primi del novembre successivo e sposarono ai primi di gennaio del 1900. Fidanzamento e matrimonio sono narrati in modo assai vicino al vero in Il paese del vento. Si stabilirono a Roma nel marzo dello stesso anno. Di quel tempo è un breve «poema» in otto componimenti in versi dei quali fu pubblicato solo il penultimo nella «Piccola rivista», Cagliari, 12 marzo 1900, col titolo A Palmiro (dalla Luna di miele di prossima pubblicazione). [Comprende: I fidanzati e La partenza dopo le nozze; L'aurora; Le ricordanze; Ancora le ricordanze; Il presente; La pineta e Verso l'ignoto, sciolti]. Sul fidanzamento vedi anche la lettera-prefazione alla traduzione tedesca di Tentazioni di E. Muller Roder, Ed. Bibliot. Univ. Lipsia, 1903. Sui versi, in genere, della D. vedi Stanis Ruinas in «Giornale di Genova» del 20 febbraio 1925 e in Scrittori di Sardegna, Ed. Campitelli 1928, e Adolfo Faggi in Il paesaggio in Sardegna in «Marzocco» del 22 gennaio 1928; e particolarmente la recente pubblicazione di Antonio Scano: G. D., la piccola poetessa: estratto dalla «Cultura moderna», N. I del 1937, Vallardi, Milano. Ma delle sue poesie d'amore la D. non voleva sentirne parlare. Pag. 166. Donna Maria Manca, direttrice di «Donna sarda», rivista cagliaritana della quale la D. era collaboratrice, con versi e prose, da parecchi anni. L'ospitale grazioso palazzo sorge tuttora in via S. Lucifero. Pag. 167. Lettera alla scrittrice Bisi Albini. «Lettura», agosto 1911. «Sofia, sono stata quaranta giorni a Cagliari, la luminosa nostra capitale, una graziosa città moresca il cui mare ardente, dai tramonti meravigliosi, fa sentire la vicina Africa. Mi hanno fatto festose accoglienze e mi sono riposata e divertita assai...» (dicembre 1899).

Pagina 173

La bambina si solleva tutta, afferrandosi allo spigolo del portone per allungarsi meglio, e grida la notizia per lei importantissima: «Abbiamo un bambino nuovo: un Sebastianino.» Risultò poi che era una femmina: ma la bambina desiderava un fratellino; e se lo era inventato, col nome e tutto.

Pagina 9

Documenti umani

244705
Federico De Roberto 3 occorrenze
  • 1889
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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"Ma, ignoranti, noi abbiamo una grande scienza; deboli, disponiamo d'una forza grandissima. Essa è la Preghiera. Che importa la natura e la forma del Dio, se possiamo intrattenerci con lui, se possiamo fargli l'olocausto dell'anima? "La Preghiera è divina: la Parola che s'innalza al trono di Dio partecipa della sua divinità. Nel cielo di Brahma essa si confonde con lui. - Io son la regina, canta negli inni del Rik; io porto Mitra, Indra, Agni, gli dei Asvini e gli altri tutti. Per mezzo degli Dei io sono presente in tutte le cose e penetro tutte le cose. "Che cosa sarebbe rinunziare al mondo, mortificarsi, vestire di cenci cuciti insieme raccattati nei cimiteri o fra le immondizie, vivere di elemosine non chieste, soffocare ogni istinto, per amore dell'eterna salute?... Ebbene basterà che preghiate. In ginocchio, pregate! Pregate per voi e pei vostri fratelli, pei morti e pei nascituri!. La preghiera sarà la colonna di vapore e di fuoco che vi guiderà giorno e notte; sarà il Sinai sul quale la Legge vi verrà rivelata.... Siate umili, fatevi più piccoli ancora di quel che non siete; accettate ciò che è, benedite le gioie ed i dolori; soffrite la vita, adorate la mano che vi accarezza e che vi flagella. E le vostre inquietudini svaniranno, voi sarete affrancati dai vostri terrori. Venga ora la morte, essa non avrà virtù di turbarvi; sereni voi vi chinerete sulla faccia dell'abisso.... "Bestemmiate ancora, ribellatevi se vi credete zimbello d'uno stolto potere, se stimate che vi fu data una vista illusoria poichè la verità è stata inescrutabilmente nascosta! La bestemmia è una preghiera al rovescio, ribellarsi è un modo di credere, l'angelo caduto ha anch'esso la sua grandezza, e tutto, tutto è preferibile alla limacciosa indifferenza dove s'impantanano le anime vostre.... "Guai a voi che nessuna cura del futuro non morde! Guai, guai al secolo che non scruta il problema dei destini! Quando l'ora fatale sarà scoccata, quando voi sarete per naufragare nel mare dell'immensità, non sarà il vostro orgoglio, non sarà la vostra potenza terrena, non saranno i vostri vani piaceri che vi daranno soccorso! Nel commercio della vita, nel cozzo delle passioni, non saranno essi che vi additeranno la diritta via! "Ascoltatemi ancora; io voglio dirvi ciò che orecchio umano non ha ancora saputo; voglio confessarmi a voi, tutto. Come potrei aspirare ad essere seguito, se fossi sospettato di non esser sincero?... Ascoltate: io peccai. Sollecitato da brame violente, assicuratomi della umana impunità, col tradimento più nero, io armai la mia mano. Odo ancora gemiti del caduto, fuggo ancora nella notte tremenda.... Ed era come se le mura, gli alberi, i monti, tutta la terra si rovesciasse dietro di me, perseguitandomi. La fuga era inutile; nessuno m'inseguiva, nessuno mi aveva scorto. Io portavo fra gli uomini la mia fronte alta e serena, la mia mano era ancora stretta dalle mani leali. Solo io leggevo un'accusa in ogni sguardo, in ogni parola, in tutte le cose; un'accusa sorda, implacabile.... Non era un'allucinazione della mente turbata? Tutto procedeva come di consueto, e nessuno mi rimproverava nulla. "Internamente, il rimorso mi assiderava; io mi chiedevo tremante: qual gastigo mi è riserbato? e stavo sempre nell'attesa di mali terribili, delle più spaventose miserie del corpo e dello spirito.... Il gastigo non veniva, la vita scorreva egualmente, con le stesse vicende. "Io mi chiedevo ancora, con più profondo terrore: Sarà forse la morte che mi colpirà, presto, prima che io abbia compita la mia carriera?... Ed io l'aspettavo da un momento all'altro; un triste sorriso m'increspava le labbra quando mi si parlava del domani. E la morte veniva; ma invece di colpir me, si abbatteva intorno a me, mi isolava in un cimitero sempre più vasto. Vecchi, giovani e piccoli, tutti se ne andavano: io solo persistevo, che avrei dovuto pagare pel primo; persistevo a misurare l'orrore dell'inutile colpa, la malvagità della speme bugiarda, il precipizio della nostra miseria; persistevo a misurare la terribilità del gastigo e la giustizia sovrana che l'infliggeva; invocando come una liberazione la morte temuta, ansioso di entrare finalmente nel Vero.... "Come me, voi tutti siete colpevoli; il giusto pecca sette volte il giorno; nessuno di voi è senza peccato! Nel profondo della vostra coscienza, inconfessata a voi stessi, è la storia delle vostre colpe; e che importa che esse non sieno state materialmente compiute, se esse sono state pensate? Il pensiero è infame.... Come me, voi tutti avete bisogno di redenzione!... "Io so la vostra risposta, io so la derisione di cui mi fate oggetto, per lo smarrimento in cui credete che il rimorso e l'età abbiano gettato la mia mente.... Siete voi, ciechi, stolti, miserabili, che mi fate pietà; è per voi, per riscattarvi, che io vorrei dare il poco sangue che ancora mi resta, che io vorrei salire un calvario e spirar sulla croce, se dall'alto d'una croce la mia parola fosse ascoltata. "Nessuno mi ascolta. La solitudine ed il silenzio mi circondano, il vento dell'oblìo disperde le mie parole, come il turbine del tempo disperde via l'un dopo l'altro i giorni irrevocabili...."

Vi sono dei momenti nei quali una tragica fatalità sembra pesare su di noi; nei quali, con la nitida percezione di quel che ci avviene dintorno, noi abbiamo, come negl'incubi, l'assoluta impossibilità di far nulla per arrestare il corso delle cose.... Io vi dico tutto questo ora; in quel momento non vi fu il tempo di pensarne una minima parte. "Augusto Secchi - continuò il Vialli, sbattendo per terra la sua stecca - è stato ben fortunato di liberarsene.... "Oh, che scena; che terribile scena! S'intese, sul tavolato il rumore di un passo, che fece voltare tutta quella piccola folla, e il conte di Bauern, come un'apparizione fantastica, si avanzò verso il Vialli. Nessuno si mosse; io non avevo fiato da respirare. Quando il conte fu vicino al giuocatore, disse con voce d'una freddezza stridente - lasciate pure correre I'espressione - che mi risuona ancora all'orecchio: "Mentitore vigliacco!..." Come allo scatto di una molla, il Vialli alzò la stecca; allora il conte, in un lampo, glie la strappò di mano e mandando indietro l'uomo con un urto nel petto, ruppe sul ginocchio il forte bastone come fosse un fuscellino.... Cieco d'ira, il Vialli fece per slanciarsi su lui, ma era troppo: il terrore da cui eravamo stati ammaliati svanì; dieci, venti persone si slanciarono in mezzo, io fra questi; e, trovatomi vicino al conte, lo trascinai in un'altra stanza.... "Egli era stato ammirabile di coraggio e di sangue freddo; ancora non un tremito tradiva l'emozione che certo aveva dovuto essere formidabile. Tutti, concordemente, condannavano il Vialli. Calunniare una donna su cui nessuno aveva mai avuto nulla da dire, infamare la memoria di una morta senza nessuna possibile scusa, e ciò dinanzi a tanta gente, dinanzi al marito, era una leggerezza che rasentava la colpa. "So che ho torto - esclamava egli nell'altra stanza - ma non sono disposto a soffrire in pace gl'insulti." Il fatto è che, non potendo trovare padrini fra le persone presenti, fu costretto ad andarli a cercar fuori. Il conte, da parte sua, mi pregò con una correttezza impeccabile che in quel momento era ancor più notevole, di assisterlo in questa circostanza, indicandomi il barone Narconi come testimonio. "Accettino ogni patto; desidero solo che si faccia presto. Se è possibile, domani stesso." E andò via. Erano trascorsi pochi minuti, che tornò l'altro coi suoi secondi. Avrei voluto stabilire ogni cosa in poche parole; facevo i miei conti senza il signor Mendosa, il padrino del Vialli. Un avvocato in tribunale, un diplomatico incaricato di negoziare un trattato, non è più minuzioso, più meticoloso, più circospetto, più attaccato alle forme di quel che egli era. Io non avevo una gran pratica di queste cose; ma parevami che vi fosse poco da discutere. La qualità delle offese, il modo con cui erano state fatte, quale fosse la più grave, a chi toccasse la scelta delle condizioni, le condizioni stesse: tutto fu soggetto di lunghi dibattimenti. Prevedevo che, con quella specie di contradditore, avrei avuto molto da fare sul terreno. Come Dio volle, si stabilì che lo scontro, alla spada, a discrezione dei dottori, sarebbe avvenuto il domani alle otto del mattino: "Lasciai, la sera stessa, un biglietto dal portiere del conte, e il domani, alle sette, insieme col barone Narconi, passai da casa sua. Fummo introdotti in una sala di studio e il domestico passò ad annunziarci. Aspettammo, aspettammo: non veniva nessuno. Ci guardavamo l'un l'altro, non sapendo che cosa pensare. Ad un orologio vicino suonarono le sette e un quarto. E non veniva nessuno. È difficile farsi un'idea dell'imbarazzo in cui lo stranissimo caso ci metteva. Bisognava prendere una risoluzione: mi avvicinai ad un bottone di campanello elettrico e suonai. Lo stesso domestico riapparve. "Avete annunziata la nostra visita?" "Immediatamente." - "Il signor conte è levato?" "Signor sì." - Allora, ripassate a dirgli che non c'è tempo da perdere...." - Dopo qualche minuto, la porta si schiuse, ed il conte apparve. Si avanzò, lentamente, e con un tono di cerimonia, come dinanzi a degli sconosciuti, ci disse: "In che cosa posso servirli?..." Non mi perdo in commenti da darvi un'idea della nostra stupefazione, - più che stupefazione, cominciava ad essere sdegno. "Ma, scusi, iersera io le scrissi che lo scontro sarebbe avvenuto stamani alle 8!" - "Ah!" fece egli, e pareva cascasse dalle nuvole! Aveva ancora gli stessi abiti della sera, era evidente che tutta la notte non si era svestito. "Tutto è pronto - disse il barone - e sono già le sette e mezzo...." Il conte si passò una mano sulla fronte. "Dunque, bisogna andare?..." " Imaginatevi come rimanessi!.... In carrozza, nessuno disse una parola. Il conte guardava lo sfilare del paesaggio, e la sua destra passata nello sparato dell'abito aveva un piccolo tremito. Io cominciavo a sentire una viva inquietudine: quello che succedeva, mi faceva temere di peggio quando saremmo stati sul terreno, con l'aggravante che avremmo avuto da fare col terribile signor Mendosa. Il conte aveva paura di battersi: questa era la persuasione che, malgrado la scena drammatica a cui ci aveva fatto assistere la sera precedente, si faceva nel mio spirito. Il ridicolo della cosa ricadeva su di noi, ed io ero disposto a tutto, fuorchè a veder ridere il Mendosa alle mie spalle. "Si arrivò. Era una villa signorile, nella cui corte, al riparo da ogni sguardo curioso, il combattimento doveva seguire. Il combattimento! Ma il conte di Bauern pareva avesse tutte le voglie, fuorchè quella di battersi. Guardava per aria, si pigliava la fronte tra le mani, strappava delle foglie dalle piante - e tremava! È vero che la mattinata era rigida. Malgrado la perdita di tempo, eravamo arrivati i primi. S'intese una carrozza fermarsi: era il nostro dottore. Alcuni istanti dopo, arrivarono tutti gli altri. Salutati quei signori, mi voltai a cercare del conte. Il conte era scomparso! Aveva oltrepassata tutta la corte ed era andato ad appoggiarsi ad un angolo dell'inferriata del giardino. Mi avvicinai a lui e lo ricondussi sul terreno, dicendogli con una concitazione che mi pareva troppo giustificata: "Spero che il signor conte non perderà la sua presenza di spirito!" Quegli altri si avanzavano anch'essi. Allora, come il conte di Bauern scorse il Vialli, scoppiò in una risata.... - Il duello è finito! - esclamò ad un tratto il Monterani. - Ecco Villardi che chiama la carrozza.... L'interruttore si alzò, per andare a chieder notizie, fra le proteste degli altri ai quali l'interesse del racconto aveva fatto dimenticare la curiosità che li aveva là radunati. - Dicevi dunque?... - Che il conte scoppiò ad un tratto, alla vista del Vialli, in una risata. Dire l'impressione che quello scroscio di risa fece lì in mezzo, non è possibile; lo scoppio improvviso di un tuono a ciel sereno non avrebbe prodotto l'eguale. Ma la luce come di un lampo si fece ad un tratto nel mio spirito: mi slanciai verso il conte.... Il nostro dottore mi aveva prevenuto. Fermandomi con un gesto della mano, e mostrando quella scomposta figura, le cui palpebre tratto tratto battevano, dalla cui bocca uscivano mezze parole, egli disse vivacemente "Questo duello è impossibile; il signore non gode delle sue facoltà mentali...." E di subito, quasi a conferma di quella sentenza, il conte si strappò violentemente il vestito, frugandosi con una mano nel petto. Era impazzito.... - Oh! dalla paura?... - interruppe l'avvocato. - No, - rispose Baldassare Gargano. - E allora? - Voi volete sapere perchè il conte di Bauern era impazzito?... Perchè l'asserzione del Vialli nella sala dei bigliardi era vera; perchè Augusto Secchi era stato proprio l'amante della contessa.... - Che!... - esclamarono tutti. - Pare incredibile, non è vero? Eppure era stato così!... Rientrando in casa, quella sera, con le terribili parole ancora risuonanti all'orecchio, che cosa aveva provato il conte di Bauern? Quale sospetto rodente gli era entrato nel cervello? Per quali gradi insensibili o per quale rapido passaggio, l'indignazione prodotta dall'infame calunnia aveva dato luogo al dubbio tormentatore? Quali prove, quali indizii, quali ricordi sorsero nella sua mente e presero corpo? Nessuno potrebbe ridirlo. Non si possono accertare che i fatti; ed il fatto accertato è questo: che, dopo la morte della moglie, il conte passò, quella sera per la prima volta, nella stanza un tempo occupata dalla defunta, e lasciata religiosamente nello stato in cui si trovava quando era abitata. Nessuno seguì il conte in quella stanza; ma, al nostro arrivo, il domestico aveva trovato lì il suo padrone. In quella stanza, nascosta dentro un piccolo armadio la cui chiave stava ordinariamente nel nécessaire da lavoro della contessa, il conte trovò la corrispondenza di Augusto con la propria moglie.... Centinaia di lettere, le prove palpabili - le più eloquenti, le più irrefutabili! - di ciò che aveva asserito il Vialli! Quella relazione, troncata dalla morte, durava da più di due anni; e nessuno - o ben pochi - l'avevano sospettata, e il conte aveva votato tutto sè stesso alla memoria della moglie idolatrata!... Che cosa accadde dentro di lui alla improvvisa rivelazione? Dovette essere un crollo spaventevole, una rovina terribile. Un ciclone che si abbatte sopra la vostra casa, su tutto il vostro paese; un disastro che vi porta via tutta la vostra fortuna e non vi lascia altro che gli occhi per piangere; la morte d'una persona cara che isterilisce la sorgente delle lacrime, danno appena un'idea della miseria in cui il conto fu repentinamente piombato. L'amor suo per la contessa era tutta la sua vita; scomparsa la creatura reale, restava almeno nel suo cuore l'immateriale figura, la pura idea; ed in quella religione d'oltre tomba l'uomo trovava ancora una ragione - l'unica ragione di vivere. Ora avveniva questa cosa orribile: la profanazione d'un ricordo, la morte d'una fede!... Ad un tratto, quella imagine ideale portata gelosamente nell'anima, adorata, divinizzata, invocata a tutti gl'istanti come il supremo dei beni in tanta amarezza ed in tanta solitudine, ad un tratto si dissolveva in putredine.... Che cosa posso io dirvi ancora? Come poter seguire in tutte le sue fasi il processo svoltosi nel secreto della coscienza di quell'uomo? Io ve ne ho detto il risultato, lo smarrimento della ragione, preparato da lunghe ore di un'agonia spirituale, affrettato dalla vista di colui che per il primo gli aveva rivelata l'amara verità.... - Il marchese ha una spalla fracassata, - venne in quel momento a riferire il Monterani. - Ecco il giudizio di Dio! - esclamò l'avvocato Corsi. - Non conosco cosa più buffa, - riprese Baldassare Gargano. - Ed il comico di quella tragica scena, sapete voi qual era? Che il Mendosa, alla dichiarazione del dottore, esclamò guardando in giro: "È un caso imprevisto!..." Io non dimenticherò mai l'aria di meraviglia, di sbalordimento, di curiosità, di indignazione, di incredulità, che alla folle risata ed alle parole del medico gli si era dipinta sul viso: "È un caso imprevisto!..." "Una fede perduta, una ragione smarrita, un'esistenza spezzata, il terribile dramma scoppiato in una coscienza, si riducevano per quel signore ad un caso imprevisto nella giurisprudenza cavalleresca. Evidentemente, il codice aveva una lacuna. Perchè non si dice in un articolo che cosa bisogna fare se uno dei due avversari perde la ragione sul terreno? E quali conseguenze diverse derivano, secondo che l'impazzito è l'offeso o l'offensore? Come va fatto il verbale? E come accertare la pazzia?..." Vi era un grande umorismo nella serietà con cui Baldassare Gargano diceva quelle cose. - Avete ragione! - esclamò l'avvocato. - La verità, - aggiunse poi, a modo di conclusione, - è che siamo dei matti un po' tutti.

Non abbiamo figliuoli; ritorna a casa tua. Resteremo buoni amici, serberemo un bel ricordo dei giorni passati insieme." Che cosa potevo fare? "Ella protestò, commossa, che era sempre quella di prima, che le facevo male parlando così. Allora le proposi di andar via insieme; accettò. Partimmo. Il ladro ci venne dietro - come un ladro, di nascosto, senza farsi vedere. Un giorno, la incontrammo faccia a faccia. Io dissi a mia moglie: "Hai visto chi ci ha seguito?" Dapprima, parve non avesse capito; poi si mostrò offesa: chi mi aveva dato il diritto di sospettare? Poteva dire alla gente di restarsene a casa? "A casa, ci tornammo noi, Poichè non riuscivo a sbarazzarmi di colui, non valeva la pena di andar girando per il mondo. Io non amavo quella vita instabile, pensavo alla tranquillità delle mie abitudini, alle dolcezze del focolare domestico. Di queste dolcezze, mia moglie era sempre la più grande; fuori di lì mi pareva che mi appartenesse meno. "Passò così del tempo. Qualche volta, io ero triste per lei come al pensiero di una persona cara che sia affetta da una malattia incurabile... Non avevo testa da far nulla, un freddo mi passava da capo a piedi e mi pareva che il mondo stesse per finire. Vedevo quel che si preparava, e temevo di comprendere che era lei a volerlo. Allora, che cosa potevo farci?... Poi, mi persuadevo d'ingannarmi, speravo che tutto questo fosse un prodotto della mia fantasia, della mia paura. Ella non era nè triste, nè lieta; mi pareva un poco annoiata. Con me, era piuttosto fredda; capivo che il pericolo sarebbe stato nel caso contrario. Quell'uomo era ingolfato in affari politici, agitava il paese, non aveva tempo da scrivere una lettera. "Le lettere anonime sono una provvidenza. Data la fondamentale vigliaccheria umana, è provvidenziale che si possa far risapere una cosa o dare un consiglio senza arrischiar nulla. Mi scrissero che mia moglie era andata, un certo giorno, in una certa casa, a trovare quell'uomo. "Quando si dice che una cosa è inverosimile, che non vi si può credere, si fanno delle frasi. Io vi credetti subito. Mia moglie era lì, dinanzi a me, e ad un tratto mi parve che ella fosse tutta macchiata, tutta contaminata, e che se io l'avessi toccata soltanto con un dito quella bruttura mi si sarebbe attaccata addosso.... Le mostrai la lettera. Come ella mi vide gli occhi, si alzò di scatto. Io le domandai che cosa avesse fatto quel giorno. Sostenne il mio sguardo: perchè le facevo quella domanda? Le dissi io quello che aveva fatto. Negò altamente, mi accusò di prestar fede alle calunnie. Allora, io le ripetei tutti i particolari della lettera, e come li enumeravo, ella si turbava. Finì per ricascare sulla sedia, col viso tra le mani. Continuando, io le dissi: " Perchè hai fatto questo? Avevi da lagnarti di me? delle rappresaglie da esercitare? Non mi accettasti tu forse di tua libera elezione? Ti ho forse voluto bene meno di prima? Non ti avevo lasciato libera di andartene? Che cosa ti ho fatto?" "Qui, mi cadde ai piedi, domandandomi perdono. Non c'era stato nulla di male, me lo giurava dinanzi a Dio; era andata perchè quell'altro minacciava di ammazzarsi, di fare uno scandalo, di provocarmi. Era stata leggera, ne conveniva; avrebbe dovuto consigliarsi con me; se ne pentiva amaramente, mi domandava perdono.... "Sì, il perdono.... Ero io sicuro che ella non avesse ragione, che non l'avessi sospettata a torto?... Poi, io non potevo cacciarla via, io non potevo vivere senza di lei.... "Di questo ella ora mi minacciava. I miei sospetti l'avevano offesa, ed il perdono non era bastato. Ella era diventata irritabile, insofferente, trovando ogni giorno una ragione di muover lite, asserendo che morta la fiducia, la vita in comune non poteva più durare. Io mi facevo sempre più umile, sempre più paziente, sempre più premuroso; la vita senza di lei mi sarebbe parsa una nera cosa.... Poi, avrei voluto dirle che sapevo il motivo di quella sua irritabilità, di quelle sue provocazioni, che iI motivo era il pensiero dell'altro, di cui ella non si era scordata.... ma non lo dicevo, per non soffiare sul fuoco. Ero molto triste, ma nascondevo la mia tristezza; se no, che merito avrei avuto del mio perdono? "Un giorno, passando nella sua stanza da lavoro, le annunziai: "C'è di là Filippo." Filippo era il giardiniere; anche quell'altro si chiamava così. Come ella fece un moto repentino e mal represso, io le dissi, tranquillamente, quasi ridendo: "Non è lui, è il giardiniere...." Ella scattò in piedi, mi colmò di rimproveri, andò a chiudersi in camera. Aspettavo impazientemente l'ora del desinare; ero pentito di quel che avevo detto, volevo abbracciarla, domandarle scusa, dirle infine che tutto questo non era ragionevole.... Quando fu l'ora, ella non comparve. Era andata via da sua madre; la mia casa era deserta.... "Quella casa, la nostra casa, come aveva potuto lasciarla? Il colpo fu duro; mi pareva come una morte, come quando la mamma se ne era andata .Poi mi facevo una ragione: se non voleva più stare con me, potevo obbligarvela con la forza? "Un giorno, ricevetti la visita di sua madre. Mi annunziava che ella aveva presentata domanda di separazione; che allo stato in cui erano le cose era il meglio che si poteva fare. Sta bene, non mi sarei opposto; domandavo soltanto, per curiosità, per quella curiosità che gli ammalati hanno delle cause dei loro mali, che cosa ella aveva da dire contro di me. Mi rispose questo: che io non l'amavo più.... "Ed è lei che lo dice? e quale prova ne dà? La prova era questa: che io non ero geloso.... Mi venivano in bocca delle parole amare; le ingoiai. Le recriminazioni mi sono sempre parse inutili, qualche volta un poco ridicole per giunta. "Comparimmo, dapprima separatamente, dinanzi al signor presidente per l'esperimento della conciliazione. Dissi al magistrato tutta la verità; la verità ha un accento che la fa riconoscere: egli comprese che non mentivo. Condannava però il mio consenso alla separazione: lasciata a sè sola, quella donna si sarebbe perduta. Fummo messi in presenza l'uno dell'altra, la rividi.... Ella non potè sostenere il mio sguardo; se lo avesse sostenuto, vi avrebbe letto un dolore infinito.... Il presidente era deciso a spuntarla, vi metteva la sua coscienza di uomo onesto ed il suo amor proprio di funzionario. Ella era imbarazzata, confusa, intimidita. Ad uno ad uno, egli ribattè tutti i suoi fiacchi argomenti, la fece convenire del suo inganno, e la costrinse a confessare di essere stata messa su, di aver tutto da perdere nel lasciarmi.... La riebbi. "Credevo di aver fatto un brutto sogno. Ritrovandola al mio fianco, in casa mia, come ai giorni lontani, mi sentivo tornare da morte a vita. Ero stato pazzo di lasciarla libera di abbandonarmi! Riconoscevo la mia parte di colpa. Ella aveva avuto ragione accusandomi di non esser geloso; la gelosia è una prova d'amore. Io ero stato geloso in silenzio, dentro di me, per timore di increscerle; avevo sbagliato. Le donne, alle volte, vogliono essere dominate. "Come le dimostrai la mia gelosia, come le dissi soltanto che quell'uomo era indegno di lei, si mostrò offesa, non mi parlò per due giorni.... Ella mi aveva mentito: aveva dato retta a quell'uomo, era stata da lui indotta a lasciare la mia casa, e non avendo resistito alla prova del confronto dinanzi al magistrato, teneva ore secrete conferenze con un avvocato, per riprendere il processo di separazione.... "Non potevo più illudermi: era un'indegna, e non sapevo vivere senza di lei. Misurando tutta la mia abiezione, presi un giorno il mio revolver e pensai di uccidermi. Scrissi un testamento, che esiste ancora, e fui per eseguire il mio disegno. Sul punto di morire, volli tentare un ultimo passo. Chiamai mia moglie in camera mia e chiusi l'uscio. Come mi vide fare quell'atto, come scorse il revolver ancora sul tavolo, si slanciò verso la finestra, per chiamare Io l'afferrai alla vita, le caddi in ginocchio, le baciai le mani, dicendole tutta la stoltezza della sua paura. Parlai, parlai, parlai. Le tenni il linguaggio dell'amore, della speranza, del comando, della preghiera, della fede, del perdono; le ricordai il passato, la feci libera dell'avvenire, le dissi che volevo uccidermi.... Ella si scosse. Ancora una volta, avevo vinto. "Mezz'ora dopo, andò fuori. Io rimasi in camera mia, a pensare. Sul tardi, rincasò e mi venne incontro. L'avvocato era con lei. Veniva per dirmi che voleva andarsene via, che non voleva restare con me. Come?... ancora?... perchè?.... Le domande mi si affollavano alla mente. Non domandai nulla. Dissi: "Sia pure...." "Come la vidi allontanarsi, mi slanciai contro di lei. Volevo almeno abbracciarla un'ultima volta, volevo almeno vederla, se partiva per sempre..... Ella dette un grido, chiamando al soccorso. Due guardie, rimaste in sala, comparvero. "Come vidi le guardie in casa mia, corsi al tavolo, afferrai il revolver, l'uccisi..... ................... "Questo direi ai signori giurati, se l'avessi uccisa. Io non l'ho uccisa, l'ho vista andare via per sempre, vivo da lunghi giorni nel deserto di questa casa ancora tutta odorante di lei, apro ogni tanto l'album che racchiude il suo ritratto, lo bacio e piango."

Donna Paola

244852
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1897
  • Enrico Voghera editore
  • Roma
  • Verismo
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Il maggiore salì sul terrazzino interno che dava sul cortile, fece suonare la tromba, due volte: - Soldati - disse con voce tonante - abbiamo innanzi a noi Garibaldi, alle spalle arriva Vittorio Emanuele. Facciamo il nostro dovere. Viva Francesco II! - Viva! - disse qualche voce. E lentamente si misero in tenuta di partire. Andavano fiacchi, lenti, molli, attaccandosi la giberna, visitando i fucili; e il maggior loro dolore, per quei mercenari brutali, era di non poter banchettare, di non poter mangiare i gnocchi che le povere serve facevano in cucina. Gli ufficiali andavano, venivano, gridavano; ma inutilmente. - Consolatevi, signora - disse il maggiore a donna Cariclea, entrando nel salone ora vengono i Garibaldini. Ella non osò consolarsi. Stringeva la piccolina sul petto e non parlava. II parroco non levava la testa. - Addio, signori, non ci vedremo più - disse il maggiore. - Noi andiamo alla morte. E non tremava la sua voce. Uscì, si pose alla testa dei soldati, marziale, bellissimo a cavallo, camminando serenamente alla battaglia; dietro di lui i soldati svizzeri andavano, come pecore, stretti stretti, taciturni, torvi. Nessuno osò levare la voce, nel palazzo deserto, devastato; per un'ora tutti tacquero, innanzi all'altare, subendo ancora I'incubo di quell'assedio. - Ora vengono i Garibaldini - disse, a un tratto la bambina. E vennero. Portavano la camicia rossa, ma erano coperti di polvere, con le scarpe rotte, stanchi, sfiniti; volevano bere, volevano mangiare, non ne potevano più. - Che daremo loro? - diceva don Ottaviano, disperandosi. I Garibaldini non credevano che non ci fosse nulla. Erano una quarantina, estenuati; avevano trovato la devastazione dappertutto. Dappertutto i Borbonici avevano mangiato tutto, bevuto tutto, non vi era più nulla; come potevano dunque battersi? Un ufficiale, buonissimo, parlamentava con donna Cariclea e col parroco; era inutile, non vi era nulla, nulla. Ma un clamore venne dal cortile; i Garibaldini avevano scoperto la cucina e il caldaione dei gnocchi. - Ah, Borbonici, canaglia! Avevate da mangiare e ce lo negavate! Borbonici della malora, che vi porti via il diavolo! Ma fra quelle voci irritate, furiose, una vocina sorse: - Viva Garibaldi! La piccolina, in mezzo ai Garibaldini, agitava il suo cappelluccio col pomo di seta tricolore. Mentre la baciavano, levandola su in trionfo, ella strillava sempre. La madre piangeva.

Pagina 65

Il marito dell'amica

245084
Neera 3 occorrenze
  • 1885
  • Giuseppe Galli, Libraio-Editore
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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Pensate quante cose abbiamo a dirci. Eravamo in collegio insieme, lei con qualche anno più di me, e ci siamo amate con passione, con una intensità che faceva strabiliare tutti; molto più che i nostri caratteri sembrava dovessero armonizzare poco. Lei seria, studiosa, riflessiva... io tutta gaia, vivace... i maligni dicono anche leggera; ah! ma protesto. Maria mi conosce bene; sa che sotto una apparenza... come dire? - Incantevole. - Oh via! Gli diede un buffetto sotto il mento. - Dunque andatevene. - Ma sino a quando starà qui la vostra... - La mia amica? - Sì... Cercavo un nome ad hoc, come Castore e Polluce, Oreste e Pilade... ma è singolare, nella storia dell'amicizia mancano affatto i nomi femminili. - Maligno. Si vede proprio che parlate per invidia. Ebbene, saremo generose. Vi permettiamo di venire a farci la vostra corte alla sera. - Coram populo? Sofia si strinse nelle spalle con un movimento pieno di civetteria e di grazia. - Pazienza. Posso mandarvi alcuni fiori? - Sempre bene accetti. L'elegantissimo Alfredo Bandini tornò a baciarle la mano, sospirando, e si accomiatò. Sofia stette un momento a guardare l'uscio per dove era partito; aveva l'occhio brillante, il seno agitato da un palpito irregolare; si sentiva felice e malcontenta nello stesso tempo. Girando lo sguardo sulle pareti del gabinetto, la sua emozione parve trovare una fonte di mollezza nel verde tenero dove morivano le rose, sul divanuccio a spalliera dorata, dai contorni morbidi, nella luce della finestra, smorzata da tendinette di seta rosea; e sedette, cedendo al fascino di un languore che la invadeva tutta. Quel Bandini!... Il giorno in cui le aveva offerta la propria amicizia ella era uscita, irata, dalla prima battaglia col marito. Bandini le parlò con tanta grazia dei cuori che soffrono, mostrò di conoscere così bene l'organismo di un'anima femminile, trovò parole così eleganti, (era toscano e parlava come un angelo) che a lei parve di rinascere, come quando dopo una pioggia violenta si vede spuntare un raggio di sole. Ed ora, sì, ora c'era del pericolo. Sofia si raggomitolb sul divanuccio, abbandonando la testina sul guanciale. Si trovava nella stessa situazione di un fanciullo al quale venga proibito di aprire un vaso di miele, ma che a furia di girarvi intorno, riesce a scoprire nel vaso un forellino, dal quale succhia il dolce pensando di non far male. La cameriera venne a toglierla dall'estasi, domandandole gli ordini per la forestiera. - Ah sì! - fece Sofia. E si alzò, ratta, dimenticando subito Bandini per ricadere nella tenerezza che le suscitava l'amica, compiacendosi in quel passaggio violento dall'una all'altra emozione. - Dov'è? - È nel salotto. - Va bene. Quando viene mio marito avvertilo subito che c'è di là una mia carissima amica.

Vorrai pure ammettere, senza peccare di superbia, (sorrideva) che abbiamo un certo spirito: così il valoroso che ci dedica il suo amore non corre nemmeno il rischio di annoiarsi tra un bacio e l'altro. Essi, sicuro, vogliono farci credere che ci amano per farci piacere; ma il piacere lo fanno a sè stessi. Sofia rimase un momento sopraffatta; poi seguendo lo slancio dei suoi pensieri superficiali gridò: - E allora ho dunque ragione di dire che noi, povere donne sensibili, siamo costrette a cercare senza posa... - Punto - interruppe Maria, dissimulando un sorriso per la singolare conclusione. - Io direi invece che, poichè è sempre la stessa cosa, meglio il marito co' suoi difetti, co' suoi sbadigli, colla sua veste da camera... Non sarà eroico, ma è sincero. Sofia rise di cuore. Questa dissertazione sugli uomini l'aveva divertita; gli uomini erano un tema favorito per lei, anche a costo di dirne male, o di lagnarsene, o di vituperarli, accusandoli di tutte le disgrazie che colpiscono il sesso debole. - Siamo curiose noi due - disse alla fine. - Invece di raccontarci le nostre vicende siamo qui a discutere come avvocati. - Sì, parliamo un poco di noi. - Prima te. Che vita fu la tua dopo il collegio? - Ho sofferto molto. - Eppure sei rimasta buona: io vedi, quando ho qualche cosa che mi contraria divento cattiva. - Così è dei piccoli dolori; inaspriscono - rispose Maria colla sua gran calma serena, colla sua voce calda, dalle vibrazioni sonore. - Solamente i grandi, i veri dolori danno forza. Tu vivi in una piccola cerchia di piccole emozioni; il tuo mondo interno, scommetto, ha le proporzioni dell'ambiente che ti circonda: un salottino, un lembo di cielo, un raggio di sole, un po' d'aria... quanto basta, appena per respirare. - Ma io... - Cara, non te ne faccio una colpa. È press'a poco la vita di quasi tutte le donne. Che eri tu a cinque anni? Una bella bambina vestita di bianco, coi capelli sciolti sulle spalle; la mamma ti adorava, ti baciucchiava, ti chiamava il suo tesoro; gli amici di casa ti portavano i confetti... non è così? - Precisamente. - E a quindici? A quindici, l'abito era ancora bianco, quando non era color di rosa, ma sempre fatto all'ultima moda sotto l'occhio vigilante della mamma. Gli amici di casa, invece dei confetti, ti offrivano dei fiori, delle romanze... ti facevano dei complimenti. Ti alzavi alla mattina cantando, poi andavi a passeggio; alla sera ballavi. Tutti sorridevano intorno a te, facevano a gara per persuaderti che la vita è seminata di rose. - È vero. - Ti presentarono finalmente un marito; era giovane, ricco, piacente... tu lo hai preso. - Oh! - sospirò Sofia - non tutto questo, ma infine fu proprio così. - Ed ora concludi; come è vuota la vita! Ma sai perché la trovi vuota? Perché non hai sofferto mai. In fondo alla sua leggerezza Sofia non mancava nè di cuore, nè di ingegno. Le ultime parole dell'amica la colpirono fortemente; Maria se ne accorse e cedette più volentieri ancora a un sentimento generoso che le dettava di essere la prima a rivelarsi. - Senti; io rimasi orfana presto e per questo dovetti imparare a reggermi da me e ho conosciuto che cosa vuol dire lottare... Tu meriti la mia confidenza, Sofia; mi hai accolta in casa senza saper nulla di me; voglio renderti la prova di fiducia, voglio aprirti intero il mio cuore. - Oh cara... Due lagrime spuntarono sugli occhi di Sofia e scendendo lungo le guancie, tracciarono un piccolo solco nella polvere rosa della cipria. - Hai conosciuto mio padre, - continuò Maria. - Sai che uomo era, e come ad una mente elevata unisse un carattere fiero e indipendente. Povero, aveva fatto sforzi incredibili per provvedere alla mia educazione in collegio. Tornata con lui, la nostra vita ritiratissima veniva quasi interamente consacrata allo studio. Eravamo affatto soli; non avevo amiche; non andava mai al passeggio; il carattere un po' selvaggio di mio padre e i suoi crescenti malanni, ci facevano il vuoto intorno; nessuna eco delle gioie mondane veniva a scuotere il silenzio claustrale della nostra casa. Leggevo a mio padre i suoi libri di storia e di scienze naturali; ascoltavo le sue dissertazioni, i suoi lamenti di vecchio disilluso, le memorie e i rimpianti del tempo passato... e avevo sedici anni. Dentro a me la vita, intorno a me la morte. - Povera Maria! Io sarei morta davvero. Mi ricordo, l'unica volta che venni a trovarti che impressione mi fece il muraglione nero del tuo cortile, e quell'unico cipresso funebre che lo ombreggiava, e quella sala austera, vasta come un tempio, nuda e fredda come una prigione... - Te la ricordi? Ebbene in quella sala austera, in quella sala che somigliava ad una prigione ho passato la mia giovinezza, quasi tutta. Nelle belle mattine di primavera, sporgendomi sul muraglione nero coperto di muffa, seguivo in alto il volo delle rondini e da un vicino giardinetto mi veniva a ondate il profumo delle glicinie che non potevo vedere; leggevo sui libri le descrizioni dei prati verdi e degli alberi in fiore; avevo qualche volta una voglia pazza di correre, di gridare, di buttarmi sull'erba, di allargare le braccia verso il cielo sconfinato... D'estate, verso sera, sentivo le ragazze del vicinato che si vestivano, ridendo, e uscivano per il passeggio. Io mi accoccolavo per terra, sfinita, con un desiderio intenso di vivere. Non sapevo se io ero bella. Chi vuoi che me lo dicesse? ma avevo una voglia grandissima di essere bella e di essere amata. - Ma proprio nessuno veniva in casa tua? Tuo padre non capiva che soffrivi? Maria scosse il capo. - Mio padre era vecchio, infermo, disilluso del mondo; la pace, una pace assoluta, era il suo bene. E poi, eravamo sempre in grandi impicci economici; nell'età in cui le altre ragazze vivono serenamente di sogni, io conoscevo già il prezzo del pane sudato, misurato... oh! ma se tu sapessi come le avversità maturano l'intelletto, come tutto ciò che è lotta ringagliardisce e dà forza! Aggiungi che nella mia schiavitù avevo una specie di libertà superiore alle mie compagne, perchè mio padre non mi sorvegliava punto e nella sua biblioteca avevo trovato dei libri di filosofia, di scienza, di medicina sui quali io mi ero precipitata, come sull'unico spiraglio di luce che mi fosse concesso. Pascevo lo spirito per ingannare la lunga anemia del mio corpo. - Hai sempre amato lo studio, tu. - Sì, ma più che lo studio, la verità. Avevo la smania di sapere, di conoscere... Frugai impavida, in tutti i problemi religiosi e filosofici... Da un lieve segno di stanchezza apparso sul volto di Sofia, Maria comprese che si era messa in un argomento troppo serio; la leggiadra donnina non poteva seguirla sul sentiero faticoso dove la sua anima aveva combattuto. Sostò improvvisamente, turbata, sentendosi un rossore sulla fronte; pentita forse di quell'abbandono di sè stessa. Alle vive sollecitudini di Sofia, continuò: - Tu vedi ad ogni modo, come io crebbi; bene o male che sia, la mia educazione così differente da quella che si imparte alle fanciulle, mi fece quello che sono. - E nessuna altra corrente ti sviò... nemmeno più tardi? - Vuoi dire l'amore? Esso venne e ribadì le mie catene da una parte, allargò dall'altra l'orizzonte delle mie gioie ideali. La mia esistenza non mutò affatto - si fece solo più concentrata. Tutti i desideri, le ansie, i sospiri che tacitamente mandavo al mondo, al di sopra dei muri della mia prigione; le aspirazioni sitibonde alla vita che mi tentavano nelle sere d'estate, quando sentivo l'eco delle gioie altrui; i turbamenti ignoti, le smanie cocenti, tutto ciò che ondeggiava come nebbia nel mio cervello, come fuoco latente nelle mie vene; tutta infine la mia giovinezza compressa e selvaggia si radrizzò lanciandosi verso quel sentimento nuovo. L'amore prese subito il posto d'ogni cosa che mi mancava; ma l'amore compresso, l'amore segreto, l'amore senza speranza, il più fatale, il più forte degli amori! Esso mi fu gioia, mi fu sorriso d'amica, mi fu carezza di madre, fu la fede del mio avvenire... io non avevo che lui! Te lo immagini questo amore serio e profondo? Lo vedi crescere di giorno in giorno e mettere radici indistruttibili in un cuore come il mio, che non aveva nessuno degli allettamenti mondani? Sofia strinse un momento la piccola testa tra le manine eleganti. L'amica le aveva schiuso un abisso di pensieri. Ella si trovava per la prima volta davanti ad una vera passione e ne provava le vertigini, non esenti da un brivido di terrore. - Ma chi era quest'uomo? domandò timidamente. - Chi era?... (Un gran pallore passò sulla fronte di Maria). La crescente ristrettezza nostra ci consigliò di prendere in casa un giovane, caldamente raccomandato a mio padre per senno e sapere. Quando dico un giovane non ti devi figurare... no, non dei soliti. Egli aveva poco più di trent'anni, ma le fatiche di aridi studi lo avevano invecchiato anzi tempo, e più nello spirito che nel volto. - Tuttavia ti piacque? - Lo amai - disse. E dall'accento grave, quasi solenne, Sofia colpita non replicò altro. Trascorse un minuto di silenzio, dopo il quale l'amica avrebbe forse ripreso le sue confidenze; ma durante quel minuto lo squillo del campanello avvertì l'arrivo di qualcuno; infatti la cameriera facendosi sulla soglia annunciò il signor padrone. - Ripiglieremo questa sera i nostri discorsi, - disse Sofia alzandosi. - Con mio marito saremo obbligate a sorbirci un po' di noia... non è lui certamente che potrebbe comprenderti, cara la mia Mariuccia. - Mi spaventi - rispose Maria abbozzando un sorriso, e poichè il passo del marito già risuonava, nella stanza vicina, aggiunse. - Ma chi hai dunque sposato? - Non te l'ho ancor detto? Vedilo, il professore Emanuele Campo... Maria emise un grido rauco, soffocato; fu assalita da uno smarrimento improvviso; si aggrappò colle mani contratte ai bracciuoli della poltrona quasi temesse di cadere; e Sofia nulla vide, nulla udì, essendo balzata verso l'uscio, spalancandolo, con fracasso di imposte sbattute e di allegro vocio. Emanuele Campo entrò.

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Me l'ha data il medico, lassù, in ringraziamento delle laute visite che noi gli abbiamo pagate.... - Credevo - rispose Maria con voce un po' tremante - che non si potessero trovare due fiori simili a questo; mi sono ingannata. - Perchè? - Ho veduto un'ora fa il signor Bandini in possesso di una gardenia identica. Sofia nulla rispose, ma le sue labbra tinte di cinabro si contrassero ad una smorfia che era metà sorriso, metà, dispetto. A Maria non restava più nessun dubbio sul buon accordo esistente tra Sofia e Bandini; ma fin dove giungeva? E ammesso che fossero ancora al di qua del confine, quanto tempo avrebbero impiegato a varcarlo? Di solito la corda si rompe nelle mani di chi la tiene troppo tesa. Maria, nella sua integra onestà, sentiva il disgusto di quella relazione effimera, tessuta di vanità e di libertinaggio, dove il cuore non aveva nessuna parte e dove la sua amica correva i più grandi rischi. A questo disgusto si univa una amarezza profonda pensando che Emanuele l'aveva abbandonata per una simile donna; e all'amarezza una compassione intensa e - forse - nelle intime latebre del cuore, l'inconscio tripudio dell'orgoglio vendicato. Ma ad ogni modo. Maria non volle ascoltare che il primo sentimento. La sua amica era in pericolo, la sua amica aveva bisogno di lei. Abbracciò risolutamente questa idea e vi si dedicò con ardore, felice, oltre a tutto di poter giovare ad Emanuele senza che egli lo sapesse. Ora vedeva uno scopo, una via tracciata. Scosse gli ultimi avanzi delle sue memorie, diede gli ultimi sospiri al suo amore perduto e concentrò tutti i suoi pensieri sull'amica. Forte di questa missione le parve anche di poter affrontare con maggior sicurezza lo sguardo di Emanuele. Decisamente tutto era finito tra loro due. Non retrocesse e non tremò, quando mezz'ora dopo, sollevando la portiera del salotto, udì la voce calma del professore che diceva: - Mia moglie è arrivata or ora dall'aver visitato il bambino. L'interlocutrice di Emanuele era la signora Bonamore. Fatta la presentazione, Maria sedette accanto alla signora, ed il padrone di casa terminò la frase scusando Sofia che si faceva aspettare. Egli aveva dei modi gentili, di una freddezza dolce che era eguale per tutti, una fisionomia poco mobile, che tradiva difficilmente le sensazioni. - È guarito questo caro fanciullino ? - domandò la signora Bonamore, esaminando Maria di sottecchi. - Perfettamente. - Allora avremo la festa? - Quale festa? - Sofia ci ha promesso quattro salti.... ed ora che è guarito il bambino.... - Giustissimo, le signore balleranno. Un sorriso sarcastico piegò le labbra di Emanuele. - Lei non sa... - la signora Bonamore abbassò gli occhi con imbarazzo, accarezzando il velluto del suo manicotto - se Sofia ha intenzione di invitare... la Guidobelli? - No, davvero, non lo so. - Se osassi... vorrei consigliare Sofia... Lei, professore, che opinione ha della Guidobelli? - Ho l'opinione che è una bella donna, molto elegante e che sta benissimo vestita di nero. - Non scherzi! - un po' impazientita, la Bonamore accarezzava il velluto a contropelo - Io dico rapporto al carattere... alla condotta... - Il carattere delle signore, in virtù di una legge salica in senso inverso, ha da secoli il diritto di essere sempre un carattere adorabile. - Insomma - la Bonamore rivolse direttamente la parola a Maria - parlerò a lei, poiché il professore non è affatto serio quest'oggi. Che le pare, cara signora, di una donna che cambia amanti tutti i mesi? Io non sono puritana... oh! comprendo gli abissi dell'amore... ma le convenienze, il mondo, una certa dignità... Che ne dice? - Sono straniera alla questione - rispose Maria - non conosco la signora Guidobelli, e, in tesi generale non saprei dire fino a quel punto una donna può conservarsi onesta agli occhi del mondo. L'onestà, mi pare, dovrebbe essere assoluta. Sofia entrava in quel punto; in buonissimo punto per rompere il ghiaccio che minacciava di isolare i tre personaggi. Emanuele prese subito commiato, salutando le signore con un gesto largo, e passando davanti a Maria che si trovava prossima all'uscio la risalutò, fermandosi un momento, quasi aspettasse da lei una parola. Maria abbassò il capo, freddamente, ed Emanuele uscì, lasciandola sotto l'impressione di una tranquillità forzata, come uno che abbia preso l'etere. Sofia e la Bonamore si ingolfarono subito in un cicaleccio leggiero e saltellante, sul quale venivano a galla alternativamente le loro amiche, i loro abiti e i loro cicisbei, mischiati allo scandalo del giorno e ad una puntina impercettibile di maldicenza. Venne di lì a poco la signora Guidobelli, così elegante nel suo abito di velluto nero a ricami di blonda applicata, che la Bonamore le fece, quasi senza accorgesene, una riverenza e un complimento. Poi capitò la contessa Barattani divota e caritatevole, vedova di due mariti, in procinto di prendere il terzo, e dominata dall'idea fissa di fondare un ospizio, a ottant'anni, in espiazione de' suoi peccati. Poi la graziosa Nina Menni, che era stata tanto infelice nel suo primo amore da farsi perdonare tutte le consolazioni prese dopo. Il salotto di Sofia si riempiva a poco a poco di fruscii di gonne frastagliate, di ondeggiamenti di trine, di guizzi serpentini, di carni profumate e di chiome dipinte. Era press'a poco la stessa società del concerto; con una musica di paroline melate che tenevano le veci dei notturni di Chopin; colle stesse occhiatine sapienti, coi sorrisi frenati nella cerchia lucente del cinabro. Si parlò della festa, Sofia volle schermirsi; disse che non era una festa, ma una semplice, semplicissima riunione di famiglia. - Quelle appunto che mi piacciono, - rispose la Bonamore. - Senza lusso - aggiunse la contessa. - Quell'odioso lusso - osservò la Guidobelli - ch'io non posso soffrire. Fa tanto piacere l'uscir di casa come ci si trova, alla buona... Tutte le signore approvarono, mulinando subito che toeletta avrebbero potuto sfoggiare alla festa di Sofia. Entrò Alfredo Bandini. Maria ebbe nel cuore un movimento di rivolta contro tanta impudenza, ma non diede a dividere nulla. Sofia le volse una occhiata inquieta: - Mi perdoni signora, se vengo a sorprenderla nel sacra sacrorum delle sue visite intime.... Sono impaziente di avere notizie del bambino. - Mio figlio sta benissimo, grazie. Nel rispondere così, la voce di Sofia era alquanto alterata; sembrava anche a lei che Bandini spingesse oltre il suo zelo. Si trovava presa in una rete le cui maglie si stringevano d'ora in ora. - Molto più - continuò Bandini - che un telegramma ricevuto in questo momento mi obbliga a partire stassera per Firenze. Ognuna di queste parole era sottolineata. Sofia comprese la necessità di nascondersi agli occhi del terribile areopago che le stava d'intorno ed esclamò con simulata indifferenza: - Ah sì? - poi volta a Nina Menni - Che bel cappellino! È ancora la Chaillon che ti serve? La Bonamore si alzò per uscire; la Guidobelli anche. Sofia le accompagnò fino all'uscio, e nel tornare al suo posto trovò Bandini insediato in una seggioletta bassa dietro la sua poltrona. - Come, lei sta lì?... - Se mi permette - rispose egli col sua brutto sorriso da satiro. Sofia si gettò nella poltrona con un abbandono di donna vinta; la poltrona cigolò, prima che il sorriso di Bandini fosse finito. La contessa e Nina Menni avevano impegnata una discussione sopra Sarah Bernarhdt, Nina assicurava che la Bernarhdt piace molto agli uomini; la contessa negava, in base alla propria esperienza, sostenendo che gli uomini amano le donne grasse. Intanto Bandini, audacemente, mormorava qualche parola nell'orecchio a Sofia. Maria fingendo di accomodare i fiori nelle giardiniere, non li perdeva di vista, finchè Bandini con una sveltezza di prestigiatore fece scivolare il suo piccolo portafogli dietro il guanciale sul quale Sofia appoggiava le spalle. - Le donne magre - strillò Nina Menni - hanno sempre fatto impazzire gli uomini. Che ne pensa il signor Bandini? - Noi uomini - disse Bandini , accompagnando la frase con una profonda occhiata da sfinge - amiamo la donna che ci ama. Un fremito sottile agitò le spalle di Sofia. - Ve ne andate di già? - chiese, vedendo le signore in piedi. Poco dopo uscì anche Bandini, trionfante, riempiendo il vano della porta colla sua aitante persona, dopo avere stretta la mano a Sofia in un modo speciale. Le due amiche si trovarono di fronte, sole. A Maria pesava assai il secreto che aveva scoperto e se non fosse stato il dubbio di peggiorare le cose con una risoluzione precipitata, avrebbe voluto prendere Sofia nelle braccia e scongiurarla di troncare ogni relazione con quel bellimbusto vanesio e insolente. - Hai veduto le mie amiche? - disse Sofia - amiche per modo di dire, perché non ve n'è una sola che io ami come amo te. - Lo spero bene. - Quelle signore non ti sono piaciute? - Sarò schietta. No. - E a me neppure. - Oh scusa... allora perchè le ricevi? - Mio Dio come si fa? Bisogna pur conoscere qualcuno. - Scegli meglio. - Scegliere! E chi scegliere? Dove? Se tutta la società è uguale! Si alzò e fece qualche passo, stringendo la mano, pendente lungo le pieghe della gonna. Maria sospettò che nascondesse così il portafogli di Bandini. Era agitata, nervosa; andò un momento nella sua camera e poi riapparve, sempre colla mano stretta fra le pieghe dell'abito; si avvicinò al tavolino, allo stipo, alla caminiera, toccando i vasi, i libri, con un fare che voleva parere svogliato e che tradiva invece una forte preoccupazione. Alla fine tornò a sedere, rassegnata. Il portafogli non era piú nella sua mano. - La signora Bonamore - riprese Maria, seguendo con una calma apparente il filo del discorso - non deve vedere di buon occhio la signora Guidobelli... - Lo credo. È la sua rivale. - Prima che tu venissi, ne parlava come di una relazione poco onorevole... - Già, perchè le ha rubato l'amante. - L'amante? - Sì, quello che aveva prima del cugino, che le è antipatico e le serve solamente negli interregni, come facente funzione. - Tutto ciò è molto brutto. - Ma! Sofia si strinse nelle spalle; prese, dal tavolino accanto una sigaretta, l'accese e incominciò a fumarla lentamente, cogli occhi distratti, rivolti al soffitto. - Infine tu sei amica della signora Guidobelli? - Come la sono di tutte, e di nessuna... - E la inviterai alla festa insieme alla signora Bonamore? - Perchè no? Sono donnine simpatiche, eleganti; dove vanno loro si traggono sempre dietro un codazzo di uomini. - Ma intimamente, tu le stimi? - Che domanda curiosa! Sei sempre la stessa. Come si fa a conoscere così bene le persone da sapere se si debbano stimare o no? - Ammesso che non è facile, vi sono tuttavia dei segni esterni che possono servire di guida; e poichè tu stessa narri le avventure galanti di queste signore... - Ma sono cose che si vedono tutti i giorni, che non hanno nessuna importanza. Si capisce proprio che hai vissuto in un deserto. Sofia diventava sempre più nervosa, acre; la voce le usciva dalla gola, con un sibilo acuto. Si seccava immensamente. Maria non si sgomentò; vedeva la crisi vicina e le moveva incontro coraggiosamente. Oramai si comprendevano. In quella battaglia coperta giuocavano la loro amicizia; o ne uscivano insieme abbracciate o diventavano nemiche per sempre. - Mia cara Sofia, quando una donna che ha un marito buono, onesto, leale, si lascia trascinare da frivole apparenze di passioni... - La signora Bonamore è vedova - interruppe Sofia seccamente. - Ed anchè la signora Guidobelli?... E Nina Menni ?... - Sì, sì, anche quelle, è vero. - Sofia era al massimo grado dell'eccitazione nervosa. - Ebbene, sono tutte così, che farci? È una marea che sale, sale sempre, ci avvolge, ci stringe, ci soffoca. Essa parte dai luoghi più turpi, attraversa la società equivoca, serpeggia nel mondo elegante, arriva fino alle donne oneste... ne siamo innondate addirittura. Difendersi è inutile. È come quando si cammina in mezzo al fango. Sulle prime si evita di fare la più piccola macchia, poi ci si adatta ad averne qualcuna, ma solamente sul tacco degli stivaletti; il fango cresce e ne abbiamo fino alla caviglia; un bel momento ci accorgiamo che esso è spruzzato anche sull'abito.... Ah! in fede mia, ciò stanca; e allora... Gettò la sigaretta, e si rovesciò sulla poltrona, accesa in volto, con le tempie che le battevano forte. Maria, tranquilla, ripetè: - Allor ? - Scusa sai? - si rizzò sulla vita, un po' dura - mi fai dei discorsi così strani... Se non ti dispiace parliamo d'altro. - Come vuoi. La calma severa di Maria suscitò nell'altra una specie di rimorso e di vergogna, per cui soggiunse con accento più dolce. - Della festa che darò e che mi preoccupa molto, del mio bambino, di... - Sì - interruppe Maria, afferrando questo soccorso inaspettato - parlami di tuo figlio. Non me lo hai ancora descritto. È biondo? nero? - Biondo, cogli occhi neri. I capelli di suo padre, gli occhi miei. La bocca non c'è che dire, anche quella è tutta di Emanuele. Hai osservato la bocca di mio marito? A questa improvvisa domanda il volto di Maria si contrasse dolorosamente; ma Sofia non ne fece caso, gettandosi a capo fitto nel nuovo argomento, felice di essere sfuggita all'argomento di prima. Continuò: - Ciò che mi incanta è la sua intelligenza. A undici mesi, figurati, balbettava mamma; e mi conosceva, e mi tendeva le sue manine, così... Uno dei passati giorni, quando stava molto male, vegliai molte ore alla sua culla. La nutrice, intanto, dormiva. Io sola lo avevo in custodia e guardando quel visino fatto pallido dalla febbre, quel corpicciuolo dimagrato, un pensiero atroce mi attraversò la mente. Mi figurai che fosse morto. Morto, mio Dio!... Sofia, volubile, si abbandonava adesso colle sue smanie solite ai trasporti dell'amor materno; e, sincera sempre, null'altro sentiva in quel momento che una ineffabile tenerezza. - Oh! se morisse davvero... Io non sono molto pia, no, credo poco... Non so precisamente quello che credo: ma allora mi rivolsi al Dio delle madri. Egli deve esistere, e gli chiesi a qualunque costo la vita del mio bambino. Piangeva. - Egli te l'ha concessa - disse Maria. - Sì. - E - le prese la mano con dolcezza somma, guardandola negli occhi, - non ti chiese a sua volta il patto? - No davvero - mormorò Sofia, sorridendo attraverso le lacrime. - Eppure, nell'istante che fra te e Dio si dibatteva la vita di tuo figlio, dimmi, non saresti stata disposta a concedere qualunque cosa? - Oh! senza dubbio. - Tu dunque sentivi che questa creaturina appena nata esercitava su di te un potere che supera tutti gli altri? Presso quella culla hai dimenticata la società, il mondo... se quella marea montante, se quel fango di cui parlavi poco fa, fosse salito a macchiare la coltre del tuo bambino, a coprirlo, a soffocarlo non ti saresti slanciata in suo aiuto? - Maria!... - Non avresti voluto, per lui, essere pura d'ogni colpa, monda perfin d'ogni sospetto? Erano, entrambe, immensamente commosse. Maria col volto presso il volto dell'amica, mormorava accentuando appena: - Non avresti voluto annientare ogni pensiero che non fosse nobile e santo? Distruggere qualunque traccia di debolezza? Fuggire le tentazioni, che ti rapiscono a lui?... Si guardavano negli occhi, dritto, fino in fondo, come due pantere in lotta. Sofia sentiva la propria debolezza e cedeva, vinta, spossata dalle emozioni. In quel mentre entrò la cameriera: - Il signor Bandini manda a prendere il portafogli che ha dimenticato qui. Sofia, senza muoversi, tese la mano; prese il portafogli, lo aperse e stracciò il primo foglietto - non abbastanza rapidamente che Maria non potesse leggervi un sì, scritto a grossi caratteri tremanti, con matita rossa; poi lo rese. Appena la cameriera fu uscita, le due amiche caddero nelle braccia l'una dell'altra; Sofia in preda a una convulsione di nervi, singhiozzando sulla spalla di Maria.

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Il romanzo della bambola

245591
Contessa Lara 1 occorrenze
  • 1896
  • Ulrico Hoepli editore libraio
  • Milano
  • Verismo
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Innanzi di lasciare Roma per tutti i mesi della villeggiatura, la signora de' Rivani soleva fare una distribuzione degli oggetti usati di vestiario alle sue persone di servizio e a' suoi poveri; ma prima che agli altri alla famiglia della propria sorella, signora Amalia Cerchi, mamma di Camilla: una signora che, come abbiamo detto, s'era maritata male ed era poco felice. Alla signora Amalia e a Camilla, dunque, venivano, quasi di diritto, gli oggetti migliori fra quelli scartati; e si dava loro anche roba addirittura nuova perchè non si mortificassero. Quell'anno, poi, c'era un monte di vestiti, di sottane, di mantelletti, una sfilata di cappelli, e scatole di guanti, e cassette di scarpe; più regali del solito, perchè anche il signor Giovanni aveva inzeppato il guardaroba al suo ritorno da Milano. Nella stanza degli armadi, davanti agli sportelli spalancati, stavano la signora de' Rivani con la signora Amalia e le due cuginette: la Marietta e Camilla. Nessuna persona di servizio assisteva a quella scelta, per non offendere la miseria della signora Cerchi. - Questo non lo prendo, sai - diceva la signora Amalia alla sorella, tenendo in mano un abitino di velluto - perchè per Camilla è troppo bello. - No, anzi, prendilo; l'ho messo da parte proprio per lei - insisteva la madre della Marietta.

Pagina 35

L'indomani

246093
Neera 4 occorrenze
  • 1889
  • Libreria editrice Galli
  • Milano
  • Verismo
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Maggio è un po' meglio; abbiamo le fragole se non altro. Giugno glielo raccomando; tutto fiorisce, tutto sorge da terra, i campi sono uno splendore, i piselli e i fagiuolini si vendono a buon mercato. Tiriamo un velo sul luglio e l'agosto, è la sola cosa che si possa fare in un tempo in cui ci si leverebbe perfino la camicia... - Lei conosce - interruppe Marta approfittando della pausa - la maestra del paese? - Quella gobbina? Sì. - Sta qui da molti anni? - Sette od otto, non saprei. - E la maestra precedente? - Conobbi anche quella. - Si chiamava Elvira? - Ma!... Elvira, come? - La parentela la ignoro. Era giovane? - Abbastanza. - Bella? - Una morettina, sa, di quelle morettine con gli occhi neri e coi denti bianchi, delle quali non si può mai dire che sieno assolutamente belle nè assolutamente brutte. - L'ha conosciuta molto? - Oh! dir molto sarebbe troppo. Le ho parlato una volta o due. Era simpatica. - Perchè è andata via? - Chi lo sa! Probabilmente le avranno cambiato destinazione. - Non si può dunque rammentare se si chiamava Elvira? - Proprio non lo rammento. Marca avendo chiuso l'ombrellino, tornò a far rotolare i sassi in silenzio. - Settembre - continuò il dottorone - ecco il trionfo dell'anno! È il mese in cui si riempiono le cantine e si provvede di selvaggina la tavola; le aie si spogliano del loro bel tappeto giallo per colmare i granai, la terra si riposa nella maestà tranquilla di una madre che contempla i suoi nati. E veda, veda che cielo limpido, senza nubi! Che splendore di vegetazione! Settembre - soggiunse dopo una pausa - è forse anche la migliore stagione della vita. Non lo crede? Marta, distratta, rispose con una esclamazione insignificante. - Io ne sono convinto. La giovinezza è troppo acerba, la virilità troppo burrascosa. Rialzò con una specie d'orgoglio la testa brizzolata, da un lato della quale la tuba stava in bilico per un miracolo d'equilibrio; i suoi occhi intelligenti scintillarono e le sue narici sensuali respirarono l'aria fortemente. - Le piante - disse Marta - sono più fortunate di noi. Egli non sapeva a che cosa alludesse Marta; rispose a caso: - Anche per esse c'è la grandine e l'accetta. Tacquero poi, obbedendo entrambi alla tirannia dei propri pensieri, subendo l'influenza di quel dolce pomeriggio d'autunno. Camminavano lesti, leggeri, aspirando il profumo dei prati, nella tranquilla ascoltazione delle cingallegre che volavano d'albero in albero; l'occhio vagante, il pensiero alato. Egli si fermò di botto. - Che cosa guarda? - domandò Marta dopo di aver aspettato qualche istante. - Coraggiosa bestiola! Questa esclamazione non essendo una risposta, Marta si pose anch'ella a guardare. Tra due rami d'acacia un ragno aveva gettato i suo fili dall'alto al basso, regolarmente, per accingersi poi a lavorare in tondo la tela; un bruco cadendo da un ramo superiore, gli aveva rotto uno dei fili, ed esso stava rimettendolo da capo. - Non è coraggio questo? Marta sorrise. - Ma non basta. Aspetti un momento, tanto che esso abbia attaccato il filo. Bellone! Or ecco un colpo della sorte. Diede un buffetto, coll'indice e il pollice, al nuovo filo. - Cattivo! - fece Marta. - Guardi, guardi - esclamò il dottorone entusiasmato - esso torna a zampettare, bravo! Bravo, ti dico. E così vita natural durante, sa? Questa bestiola non si avvilisce mai; rotto un filo ne getta un altro; il secondo si spezza, viene il terzo. Avanti, sempre avanti! È il suo motto gentilizio. Osservi come è già salito; è all'apice. Paf! - Oh! crudele - gridò Marta nel vedere che aveva strappato ancora il tenue filo - perfido uomo! Egli la scrutò in fondo agli occhi che ella chinò subito, turbata. - Le chiedo scusa; ho voluto mostrarle fino a qual punto si può essere coraggiosi. Il ragno rifaceva la tela, salendo, salendo, intanto che Marta lo guardava non senza sorvegliare il suo brutale compagno. Ma egli disse con semplicità: - Andiamo a trovare Alberto. - Ed ella subito si mosse in silenzio. Lo incontrarono non molto lontano. Se ne veniva lemme, lemme, con la sua bella fisionomia aperta, serena, il passo regolare d'uomo senza fastidi. Ritornarono insieme tutti e tre fino al paese, fino alla porta dei due coniugi, dove il dottorone si accommiatò. Marta pensava che Alberto era finalmente nelle sue mani, e se lo divorava con gli occhi, mentre egli appendeva tranquillamente il cappello. Visto così, di dietro, la sua nuca aveva una seduzione particolare, colle orecchie morbide bene attaccate, i muscoli solidi; la guancia offriva per tre quarti una linea pastosa, appena adombrata dalla lanuggine, che attirava i baci. - Ho appetito, e tu? - diss'egli sedendosi alla mensa apparecchiata. - Ma sì, discretamente. - Appollonia è riuscita a trovare queste benedette quaglie? - Oggi no, vi saranno per domani. Marta aveva le lettere in tasca; le levò e andò a riporle nel tavolino da lavoro; poi sedette accanto al marito, calma in apparenza, ma coll'occhio fisso, la mente inquieta. - La signora Merelli ha avuto una bambina stanotte. - Sì? - Potrai andare domani o dopo a farle una visita. - Ci anderò. - Pare che stia benissimo. Dopo una lunga pausa, intanto che Alberto versava da bere ella chiese: - Se io avessi una bambina come la chiameresti? - Come vorresti tu. - Ma però? - Il nome di mia madre, per esempio, o della tua. - Questo è meglio certamente; tuttavia vi sono persone che preferiscono nomi di fantasia: Ida, Olimpia, Elvira... Ti piace Elvira? - Nè più, nè meno degli altri; dò poca importanza al nome. Non mi sono mai informato come ti chiamavi tu, lo seppi da te stessa. Marta lo osservava attentamente, mentre un tremito l'agitava tutta, sperando che egli almeno si accorgesse della di lei inquietudine e glie ne chiedesse il motivo. Si era già preparata. Se le domandava: Ti senti male? la risposta doveva essere press'a poco così: Sì, di un male che tu solo puoi guarire, ecc., ecc. Ma nulla di tutto questo. Alberto mangiava, e, solamente, vedendo il piatto di Marta quasi sempre vuoto, la esortò a mangiare anche lei. Sulla fine del desinare domandò: - Tua madre non ha ancora scritto? - No. - Se tarderà molto a venire, sopravverrà il freddo. Ella avrebbe potuto svelare le ragioni del ritardo, entrare nei particolari di un contratempo abbastanza buffo, ma ciò l'avrebbe portata lontana dalle sue preoccupazioni e non si sentiva la forza di fingere, nè di frenarsi. Preferì restare muta, bucherellando con lo stuzzicadenti la tovaglia. Alberto disse ancora: - Quando viene le puoi allestire la camera in fondo al corridoio; vi starà meglio che altrove, è bene esposta e molto allegra. L'evocazione di sua madre commosse Marta nell'intimo dell'anima; il ricordo di tante tenerezze perdute le fece gruppo alla gola, per cui si alzò e fece due o tre giri nella stanza. Passando accanto al tavolino da lavoro aperse rapidamente il tiretto, ne tolse le lettere e buttandole davanti a suo marito: - Vedi che cosa ho trovato oggi nella cassa, la cassa vecchia su in soffitta! Alberto guardò le lettere, prima con indifferenza, poi con sorpresa, infine leggendone una esclamò: - Ma da qual parte sono venute fuori? - Te l'ho detto; erano nella cassa. - Sole? - Oh! con della frangia, delle cortine usate, dei chiodi... - To, to, to! - Non sapevi che erano là? - Neppur per sogno. - Ti dispiace che le abbia lette? - Figurati! Acqua passata non macina più. Respinse le lettere dolcemente, come dolcemente faceva tutto, disposto a parlar d'altro. Marta ebbe un'audacia insolita; andò a sedersi sopra i suoi ginocchi e cingendogli il collo gli mormorò con la bocca contro l'orecchio: - L'hai amata molto? Egli ebbe un momento di imbarazzo; la situazione richiedeva uno di quegli slanci ai quali il suo temperamento era refrattario; un solo bacio, ma ardente, sarebbe bastato. Alberto invece provò un movimento di stizza verso Marta che gli faceva subire questa seccatura. - Che c'entrano adesso tali cose? - Sono gelosa del tuo passato, lo sai - disse Marta senza staccarsi da lui, sprofondata nel tepore del suo collo, che succhiava con piccoli baci spessi. Alberto si sciolse adagino dalle braccia di sua moglie replicando: - E che ci posso fare io? Era una risposta ad uso Appollonia, una di quelle osservazioni fredde, piene di buon senso, che non lasciano nessun posto per le soavi bugie del sentimento. Eppure Marta, nel caso suo, avrebbe trovato, senza mentire, un'altra parola... Si tolse dai ginocchi di suo marito e si pose sulla sedia, mettendosi davanti le lettere. - È morta? - domandò a un tratto. - Non credo, ma da quando lasciò il paese non ne seppi più nulla. - Tu non le avevi promesso di sposarla? - Mai. Marta fu ripresa da uno dei suoi slanci: - Dimmi il vero, Alberto, dimmelo! Io ci capisco così poco in questi vostri amori d'uomo... - Che devo dirti? Ella si accorse che formulare con una frase il suo pensiero non era tanto facile; balbettò: - Se l'hai amata molto... molto... e che ella pure... - Non so se m'abbia amato molto molto. Marta interruppe: - Come dubitarne con queste lettere? - Oh! le lettere - esclamò Alberto ridendo - è l'amore di voi altre donne, frasi! Per parte mia mi piaceva. - Niente di più? - È quanto basta, credo, per fare all'amore con una ragazza. Ella poi si esaltava, immaginando una passione romanzesca, rapimenti, fughe, veleno. Sarei stato molto sfortunato sposandola. Marta tacque un po', e poi: - Era bella? - Simpatica. - Bionda o nera? - Nera. - Alta? - Così così. Altro silenzio. - Grassa - Oh!... non so, non ricordo, non mi pare. - Aveva le mani piccole? - Ma è un passaporto quello che mi chiedi. Parola d'onore, ci pensi più tu in cinque minuti di quello che ci abbia pensato io durante un anno intero. - Ciò vuoi dire che non l'amavi come ti amava lei! - Può darsi, e allora consolati, brucia questi scartafacci alla buon'ora. Tanto il passato non si cancella, nè si rinnuova. Era appunto ciò che pensava Marta, ma senza trovarvi nessuna consolazione. Che Alberto avesse amato Elvira molto, poco o niente affatto, restava per lei il fatto di quella corrispondenza infuocata che parlava pure di baci dati e ricevuti. Se dati per amore, perchè dimenticati? Se dati senza, perchè dati? Stracciava i foglietti lentamente sotto la tavola, ascoltando il piccolo rumore che facevano, divisa tra i rimorsi che le suscitava una eccessiva delicatezza e il piacere materiale, indegno di lei, di quel meschino trionfo; ma la vinceva il piacere. Quando i pezzettini delle lettere non furono più suddivisibili, ella riunì le pieghe della gonna, tenendoveli come dentro a un sacco e si levò in piedi. Diede uno sguardo ad Alberto, il quale aveva infilato la punta di un sigaro in uno stecchino, lo stecchino nel tappo di una bottiglia, mantenendo il sigaro trasversale, ed accostata una candela all'altra estremità del sigaro, assisteva alla combustione attentamente, con le mani in tasca. Pensò: gli farò dono di un accendisigari. E cedendo alla tenerezza egoistica del suo affetto di moglie, Marta appoggiò, passando, le labbra sul collo di Alberto. Poi corse leggera in cucina, dove, scostando Appollonia dal camino, rovesciò sul fuoco i frammenti di carta che teneva nella gonnella.

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. - Tre chilometri circa li abbiamo fatti, ne restano cinque. Fra mezz'ora saremo a casa. L'Appollonia ci aspetterà. Almeno ella sapeva che Appollonia era la serva. Ne avevano già parlato; suo marito gliel'aveva dipinta come una buona campagnuola affezionata e fedele. Ma in quel momento volle sapere se l'Appollonia era bella e lo domandò a voce alta; al che Alberto rispose con uno scroscio di risa, a cui fece eco una specie di singhiozzo giulivo da parte di Gerolamo, così che Marta stessa si pose a ridere infantilmente, con molto piacere di suo marito, il quale amava le persone di buon umore. - Vedrai - soggiunse Alberto a sua moglie, toccandole la spalla da buon camerata - anderai subito d'accordo con tutti, brava gente, ottima gente. Il dottorone già, curioso, vorrà vederti per il primo. - C'è un dottore curioso? - Curioso proprio no, ma in questo caso sarà curioso, perchè mi conosce da bambino e mi ha già avvertito che vuol farti la corte. Te ne intendi tu di poesia? E di cucina? Se hai sulle dita questi due argomenti, il dottore è tuo. - E con gli ammalati parla di poesia? - Egli non fa visite a nessun ammalato; non s'intende nemmeno del polso. Deve aver studiato medicina trent'anni fa, e per questo lo chiamano dottore; ma poi ha fatto un po' di tutto, il signore, il poeta, il cospiratore, il gaudente, il soldato, tutto fuorchè il medico. È un originale, un essere squilibrato. A volte parla troppo, a volte tace dei giorni intieri. Ma se hai da insegnargli qualche piatto ghiotto, parlerà. Intanto che Alberto schizzava il profilo del suo amico, Marta, che in venti o venticinque giorni di matrimonio non si era ancora saziata di guardarlo, seguiva i movimenti della sua bocca, de' suoi occhi, la pozzetta graziosissima che il sorriso scavava nella sua guancia sinistra. Mirava ad uno ad uno i peli dei suoi baffi e l'arricciatura morbida della barba nella quale egli faceva spesso passare la mano, seguendo quella mano, attaccandosi a lui per tutti i sensi, sentendosi sempre troppo lontana. A poco a poco gli si era accostata, muta, ansando lievemente col petto. Alberto allora si ritirò nell'angolo della carrozza, gentilmente, per farle posto. - Passa il signor Merelli - disse Gerolamo senza voltarsi, con la sua voce da ventriloquo. Ma Alberto l'udì. Si sporse vivamente fuori della carrozza sbracciandosi verso due individui che costeggiavano la strada maestra. I due si levarono il cappello. - Salite? - No, grazie. Ben arrivato. Nuovo saluto alla signora. - Nessuna novità? - Nessuna. - A rivederci. Terzo saluto. - Ah! cari - esclamò Alberto abbandonandosi sui cuscini della vettura - quel capo ameno di Merelli, quel simpaticone di un farmacista! Tanto per dire qualche cosa, per interessarsi anche lei a quello che interessava suo marito, Marta chiese : - Sono tuoi amici? - Merelli sì, Merelli fin dal ginnasio; abbiamo fatto la quarta e la quinta insieme. Fu lui che il giorno onomastico del professore... Ah! ma tu non sai, non sai, che bel matto! - E l'altro? - L'altro è il farmacista, Toniolo: quello che mi diceva sempre: prendi moglie, alla nostra età è ancora il meglio che si possa fare. Il piacere di aver riveduto i suoi amici, di riprendere le antiche abitudini, coloriva il volto di Alberto e faceva luccicare i suoi occhi piccoli e buoni. Egli si fregava i ginocchi colle mani, guardando la coda della cavalla. Marta si rimproverava di non partecipare a quella gioia, di provare invece una impressione di tristezza, quasi d'invidia. Le venne in mente sua madre, sua madre ch'ella aveva un poco dimenticata durante il viaggio, e che da piccina le diceva e da grande le ripeteva: «Marta sei troppo impressionabile, troppo esclusiva, senti troppo, pensi troppo. Ciò non conduce alla felicita.» Parole che ella aveva ritenute come un'aria da organetto e che ora le tornavano alla mente, ma più chiare, della chiarezza improvvisa di un lume che s'accende. Volendo vincersi, volendo uscire da quell'esclusivismo che, a detta di sua madre, non l'avrebbe resa felice, guardò intorno la bella campagna, gli alberi, le siepi entro cui svolazzavano le farfalle. - Ti piacciono questi luoghi? domandò Alberto. - Sì, molto. - Io non posso vedermi altrove. In città sto bene otto giorni, poi sento la nostalgia de' miei campi. - A me pare che starei bene dovunque con te. - Cara! Egli disse: cara. Non era una dolce parola? Perchè Marta non esultò? Perchè rimase fredda in apparenza e muta? Ella ascoltava ancora, ripercosso nell' aria e nel suo orecchio, il suono uguale, identico a quello di un momento prima, quando aveva detto: cari! E le pareva una stonatura, una nota falsa che alterasse il valore della parola. Si chinò verso di lui, con la bocca contro il suo collo, mormorandogli nel folto dei capelli: Caro! caro! caro! Egli la respinse vivamente, indicando Gerolamo. Marta alzò le spalle. Sarebbe stato così bello baciarsi, lì, sotto il cielo fulgido, intanto che la carrozzella correva! Chi li avrebbe visti? E quand'anche! Tornò a guardare la strada che fuggiva, guardò gli alberi; dal cortile di un cascinale saliva acuto nell'aria il chiocciare di alcune galline. I mandorli fioriti allargavano le braccia, i boccioli dei peschi punteggiavano, nella freschezza rosea di labbra dischiuse, i loro ramoscelli privi ancora di foglie; e delle goccie sparse, rugiada, gomma, lacrime misteriose della natura, luccicavano sopra il verde tenero; frammiste ai fili d'argento che gli aracnidi sospendevano da ramo a ramo. Il cuore di Marta si gonfiava, pieno di tenerezza, con un bisogno di espandersi, di abbracciare, col segreto desiderio di quelle ferite per cui l'animo trabocca e dilaga in passione, deliri, abbandoni, singhiozzi, tutta la forza rinchiusa, l'intima essenza del sentimento femminile. Assetata d'amore ella disse a se stessa, stringendosi nel mantello per sentire la carezza del proprio calore. «Egli mi ama, ne sono sicura. Perchè mi avrebbe presa? Mi ama sopra tutte le donne; è mio, tutto mio!» E, sollevata, sorrise a suo marito. Alberto, che per parte sua non pensava a nulla, fu molto soddisfatto nel vedere che la sua sposina aveva un buon temperamento; questo lo persuase sempre più di aver avuto la mano felice nella scelta. La cavalla intanto, sentendo prossima la stalla, prese un trotterello giulivo. Già si vedevano da lungi i tetti del paese dominati dal campanile, e, man mano che la carrozza progrediva, qualche cascinale sparso, qualche cane che abbaiava, una fanciulla che conduceva le oche. - Sono le oche di Gavazzini - disse Gerolamo, indirizzando la sua osservazione alla signora. - Chi è Gavazzini? - È il più ricco proprietario del paese - rispose Alberto. - Tuo amico? - Non dei più intimi, ma qui si è tutti amici. Del resto egli fa vita ritirata, e sua moglie non si vede mai. Oh! un romanzo! Lei era una istitutrice, fuggirono insieme, andarono in cima di un monte a passare la luna di miele, scrissero i loro amori sulle corteccia degli alberi. Figurati, una volta si punsero apposta un dito per bere il sangue l'uno dell'altro.... quando ti dico romanzi! Marta si interessava, avrebbe voluto chiedere di più, ma la faccia di Gerolamo, che sembrava quella di un filosofo stoico in mezzo alle follie del mondo, le dava un po' di soggezione. Incominciarono le prime case allineate, coi portoni aperti, da cui si intravedevano cortili verdeggianti, gruppi di vasi, lunghi anditi freschi, riparati da tendoni a righe; una gonnella svolazzava tra due usci, un visetto curioso spuntava da una finestra, i gatti scodinzolavano sulle sedie di paglia, sbadigliando, socchiudendo gli occhi. Più innanzi, nel centro del paese, si aprivano le poche botteghe; il fornaio, il pizzicagnolo, il mercante, il tabaccaio, il calzolaio, il barbiere. - Ecco la farmacia - disse Alberto. Marta guardò. Non c'era nessuno sulla soglia; una cortina verde, strofinata e attorcigliata come una fune, lasciava scorgere nell'interno un pezzo di scansia coi barattoli di terraglia bianca e azzurra. - Ha moglie il farmacista? - È vedovo; ma la riprenderà. Che cosa deve fare? - Sicuro - disse Marta, ripetendo macchinalmente tra sè: che cosa deve fare! - Guarda la casa di Merelli; sul canto di piazza, dipinta in giallo; l'hai vista? - No, non l'ho vista. - C'era la serva davanti alla porta. - No, non l'ho vista. Ha moglie Merelli? - Sì, ha moglie. - E la casa di.... di quel signore.... quello che ha bevuto il sangue.... - Gavazzini? Ah! non è qui; è fuori di paese, isolata; più isolata ancora della nostra. - La nostra è l'ultima, nevvero? È forse questa? La cavalla rallentò, Gerolamo fece una voltata dà cocchiere esperto, e, passando da un cancello spalancato, fermò di botto nel bel mezzo di un cortile vellutato d'erba minuta, con alte muraglie imbrunite dal tempo, su cui si sbizzarriva a rabeschi una lussureggiante glicina, carica di fiori. L'aspetto generale del fabbricato e del cortile era quello di una vecchia casa borghese, comoda, dove un seguito di generazioni agiate e tranquille si erano succedute senza scosse, senza cambiamenti. Appollonia corse fuori, tutta traballante nella sua rotondità di pan buffetto, con la facciona lucida raggiante di semplicità, la bocca aperta, le mani sporche di farina. Marta, nel guardarla, non potè a meno di sorridere, e balzando lesta dalla carrozza gridò: - Buon giorno, Appollonia. Furono le prime parole che la nuova padrona pronunciò entrando ne' suoi domini. Gerolamo ammiccò segretamente Appollonia, con uno stringimento di palpebre che voleva dire: Va bene, va bene! E la grossa serva, sgangherando la bocca fino alle orecchie, mostrò di aver inteso il senso di questa affermazione. Marta non doveva dimenticare più quel momento del suo arrivo, in un ridente giorno di aprile; i grappoli lilla che fiorivano sui muri, l'erba del cortile, una pace, una serenità diffusa nell'aria, un benessere sicuro che sembrava uscire dalle muraglie della vecchia casa; perfino il volto bonario di Appollonia e il nitrito della cavalla che scuoteva il muso fine sotto le carezze di Gerolamo. Alberto, senza aspettare ch'ella si levasse il cappello, passò il braccio sotto il braccio di sua moglie e la condusse subito a visitare la casa. Niente di ricercato nè di pomposo. Una grande comodità in tutto, nella disposizione delle camere, nei mobili, negli ampi seggioloni, nei divani sparsi con abbondanza; una certa ricchezza tradizionale ma tranquilla; buoni quadri, stipi intarsiati, biancheria accuratissima, delle vecchie maioliche di famiglie. - Queste sedie le ha ricamate mia madre - disse Alberto. Erano otto sedie di legno chiaro con profili dorati, coperte da ricami a mezzo punto, bellissimi, tutti l'uno differente dall'altro. Marta le ammirò religiosamente, commossa. - Questo è il mio ritratto di quando ero bambino. Marta vi si precipitò sopra, coprendolo di baci e di esclamazioni, portandolo sotto alla finestra per esaminarlo meglio. - Come è bellino! Care queste spalluccie nude! E che occhietti! E le manine, Dio, che manine... ma avevi le mani così piccole allora? - Caspita, i bambini!... Risero entrambi, stringendosi il braccio, felici. Salirono così lo scalone che conduceva al piano superiore. - Ma è tutto bello qui, sai? - Sì, non c'è male. È comodo. Entrarono nella camera da letto. Tre finestroni la illuminavano, facendo penetrare i raggi del sole attraverso un ricco cortinaggio di stoffa a fiori sopra un fondo cilestrino. Della medesima stoffa era il parato del letto, altissimo, ampio, per metà ricoperto di un piumino di seta celeste, sull'orlo del quale ricadeva, accuratamente stirata, la trina del lenzuolo. Sulla pettiniera un'altra trina, nel festone della quale serpeggiava un nastro celeste, faceva da sopporto a un servizio di cristallo, lucentissimo. Sugli specchi, sulle cornici non si scorgeva un atomo di polvere. - È stata l'Appollonia a preparare queste belle cose? - Lei, certamente. Vi avrà impiegato tutto il tempo che ci volle a noi per percorrere l'Italia; ma infine, ognuno fa quello che può. Marta, levandosi il cappello e la spolverina, sedette sul divano che era ai piedi del letto, sentendosi finalmente in casa propria. - Oh come si sta bene qui! Tese le mani a suo marito, invitandolo a sedersi anche lui sul divano. Ora non dubitava più di essere la signora Oriani. La sua felicità doveva incominciare da quel momento; prima era stata una corsa vertiginosa, contraria all'amore. L'amore ha bisogno di un nido. Marta sollevò gli occhi, girandoli torno torno come per prendere possesso d'ogni cosa; e quando ebbe ben riguardata la camera, il letto, le cortine a fiori, fissò Alberto con un'estasi tale di riconoscenza, di tenerezza timida e ardente, che egli, un po' sorpreso, la baciò, non sapendo che dire. Ella trasalì tutta, colla speranza di una rivelazione. - O mio Alberto, mi amerai sempre, sempre? - Che domanda! - Dillo! - Ne dubiti dunque! - Dillo... - ripetè Marta, stringendosi, avviticchiandosi a lui tutta tremante, con la bocca socchiusa. Un'ondata di sangue colorì la fronte di Alberto, che rispose per la durata di un attimo alla stretta di sua moglie. Poi si sciolse, dolcemente, ravviandosi i capelli. - Andiamo - disse - non facciamo ragazzate.

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Ma anche noi non possiamo vivere nella continua illusione dell'amore; per questo abbiamo la religione e la maternità. E ancora l'amore, ma l'amore che si trasforma; l'ideale risale al cielo, mentre la parte materiale di noi si anima e vive della nostra stessa carne... Marta non udiva, delle parole di sua madre, che il bisbiglio. Colle mani raccolte sul grembo, le palpebre socchiuse, il corpo abbandonato nei guanciali, aveva l'apparenza della più gran calma, ma un brivido la scuoteva internamente, un brivido e una puntura. Vedeva ancora quell'amplesso, quel bacio... come dubitarne, se tutto il suo essere ne era stato scosso, se all'improvvisa rivelazione aveva compreso, lei già donna, il mistero della virginità, quel mistero che è il segreto di Dio e che l'amore solo comunica agli uomini? Lievi lagrime brucianti sfuggivano dalle sue palpebre. - Marta! Marta! - Chiamava la mamma, curva su di lei, divinatrice amorosa della lotta che si combatteva nel di lei cuore. Marta, senza parlare, ripeteva fra sè: Sarà il raggio che sfolgora e muore, sarà l'illusione che passa, sarà il sogno, il delirio di un istante; pure esiste. Raggio che non scalda tutti i cuori, sogno che non rallegra tutte le notti... Ma intanto la piccola mano ripeteva con insistenza: Apri, io sono l'amore e la verità. E Marta rivedeva, in una specie di visione magnetica, la bella campagna estiva, gli alberi frondosi ramificanti sopra lo sfondo azzurro e un meschino insetto che tendeva i suoi fili d'argento. Spezzato un filo gettava l'altro, e un altro ancora e ancora, sempre avanti, la tela prendeva proporzioni gigantesche, i fili abbracciavano tutto il creato, salivano ad altezze vertiginose, toccavano il cielo. Era la vasta tela della vita umana, il lavoro ogni giorno rinnovato di chi soffre e combatte; il lavoro temerario che poggia nel vuoto guardando arditamente la luce; lo sforzo immane di milioni di esseri, intelligenze torturate, cuori spasimanti, schiavi in pena, tutti sorgenti dalle loro catene, tutti lanciando il loro filo d'argento al misterioso Ignoto. E i fili si spezzano, e la tela si strappa e la felicità dondola sempre sospesa all'impalpabile bava di un aracnide. Che importa? Tutto muore, tutto nasce, tutto cambia, tutto si rinnova, le tombe scoperchiate servono di culla, i cuori insanguinati e piangenti danno nuovo sangue e nuove lagrime alla vita. Avanti, coraggio! FINE.

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Per cambio della vostra gioventù, del vostro candore, dell'ideale di tutta la vostra vita, noi che non abbiamo più nè giovinezza, nè candore, nè ideali, vi offriamo una cosa così comune, così facile, una cosa che trovereste sul canto d'ogni via, se noi non ce ne fossimo fatto un esclusivo monopolio, crescendola di valore col negarvene la libertà, sostituendo il decoro, il pudore, la virtù umana alle divine leggi della natura. E fin da bambine, all'età degli zuccherini, vi si fa balenare davanti agli occhi quest'altro zuccherino, ammonendovi «se ve lo meriterete con la docilità, la modestia, la pazienza, l'abnegazione...» Marta rideva, ma quando il dottore era partito meditava le di lui sfuriate filosofiche e una lieve tristezza, che non era ancora scetticismo, ma che già scalzava la fede, si deponeva nell'animo suo. Tutta sbigottita udiva una voce interna che diceva: Costui l'hai tu scelto in mezzo alla folla, od è piuttosto quello che ti presentarono, il solo che hanno potuto pigliare e che tu, perchè buona e docile, perchè aspettavi da tanto tempo, ti persuadi essere veracemente colui che deve formare la tua felicità? Si disperava allora, correndo inquieta per la casa, urtando sempre nella freddezza dolce di Alberto che non comprendeva nulla di queste agitazioni, che le compativa però, suscitando così mille rimorsi nella coscienza di Marta; per cui ella si gettava di nuovo fra le braccia di suo marito singhiozzando.

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Il drago. Novelle, raccontini ed altri scritti per fanciulli

246765
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1895
  • Enrico Voghera editore
  • Roma
  • Verismo
  • UNICT
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Abbiamo percorso mezzo bosco, ci siamo smarriti, e ora non troviamo l'uscita. TARTAGLIA. To...torniamo addi...dietro ! ARLECCHINO. Se non portiamo notizie del Reuccio, il re ci farà tagliare le teste. TARTAGLIA. To...torniamo addi...dietro ! ARLECCHINO Che vedo? Non è il Reuccio colui che dorme per terra ? TARTAGLIA. È lu...lui ! ARLECCHINO. (chiamando:) Reuccio! Reuccio! TARTAGLIA. Accostiamoci... Ahi! (Porta la mano alla fronte quasi avesse urtato in un ostacolo invisibile). ARLECCHINO. Che è stato ? TARTAGLIA. Ahi ! Ahi ! Ho sba...sbattuto la te...sta ! ARLECCHINO. Dove ? Non c' è rami qui. Accostiamoci con cautela per non fargli paura (Fa qualche passo, e grida, come Tartaglia, portando la mano alla fronte:) Ahi ! Ahi ! TARTAGLIA. Che è stato ? ARLECCHINO. Ho sbattuto la testa anch'io. Qui c'è un ostacolo invisibile, qualche incanto del Mago. (Chiama:) Reuccio! Reuccio ! IL REUCCIO (destandosi:) Chi mi chiama ? ARLECCHINO. Siamo noi; ci manda il re. IL REUCCIO. (alzandosi, con gioia:) Ah, eccellenza Tartaglia! Ah, eccellenza Arlecchino! ARLECCHINO. Venite, fuggiamo mentre il mago non c'è.. IL REUCCIO. Non posso fuggire; sono circondato da un muro incantato. ARLECCHINO. Pur troppo ! Lo sanno le nostre fronti; ci siamo fatti un bernoccolo per uno. IL REUCCIO. Il mago tornerà fra poco. Intanto datemi notizia del re e della regina. ARLECCHINO. Piangono giorno e notte ; il regno tutto piange. Noi siamo stati mandati per trattare col Mago il vostro riscatto. Il re darebbe qualunque cosa, anche il sangue delle sue vene, pur di vedere liberato il suo caro figliuolo. IL REUCCIO. Ecco il mago ! Sento il rumore del suo alito. (Si sente un rumore strano, quasi di vento che scola le fronde degli alberi). ARLECCHINO (atterrito:) Mamma mia! TARTAGLIA (più atterrito di lui:) Ma...mamma mia! SCENA III. Il Mago e detti. Il Mago parla con vocione cupo cupo. IL MAGO. (fermandosi a guardarli:) Chi siete? Che fate qui ? ARLECCHINO (facendo un profondissimo inchino:) Eccellentissimo signor Mago ! TARTAGLIA. (inchinandosi:) Ecce...ecc...! IL MAGO, Sciagurati! Vi pentirete presto del vostro ardire. Chi siete? ARLECCHINO. Eccellentissimo signor Mago, siamo mandati dal re. Dice il re: Chiedete; tutto vi sarà concesso, pur che rilasciate libero il reuccio. Volete oro ? Volete gemme? Volete metà del suo regno ? IL MAGO. Non so che farmi di tutto questo. Voglio una focaccia, stacciata, impastata e infor- nata di mano della regina; non voglio altro. Appena l'avrò avuta, il reuccio sarà libero. Andate, e recatemi la risposta. Dite al re che se non l'avrò fra tre giorni, suo figlio rimarrà mio schiavo per sempre. ARLECCHINO. Prima di tre giorni saremo qui. IL MAGO. Per prova della mia potenza, portategli questo segno (Tocca con la sua verga prima Tartaglia poi Arlecchino). TARTAGLIA (parlando spedito:) Che segno? ARLECCHINO. (tartagliando:) Che se...segno?... Oh, Di...Dio, fu...fuggiamo.... se no di...divento mu...muto a dirittura!... TARTAGLIA. Ed io parlo sciolto! Grazie signor mago! (Escono). SCENA. IV. Il Mago e il Reuccio. IL MAGO. Hai spaccato la legna ? IL REUCCIO. L'ho spaccata. IL MAGO. Hai attinto l'acqua alla fontana ? IL REUCCIO. L'ho attinta. IL MAGO. Hai preparato il desinare? IL REUCCIO. L'ho preparato. IL. MAGO. Hai spazzato la casa? IL REUCCIO. Mi è mancato il tempo ; siete tornato troppo presto. IL MAGO. Ah! Sono tornato troppo presto ? Fannullone! T'insegnerò io a fare il tuo dovere. (Lo bastona). IL REUCCIO. Ah, povero a me ! (Corre ed entra in casa inseguito dal Mago che continua a bastonarlo). SCENA V. Sala del palazzo reale. Il Re, la Regina e tutta la Corte. IL RE Non tornano ancora! LA REGINA. (con stizza:) Dovevate andare voi stesso in persona! IL RE. E se il mago prendeva anche me ? LA REGINA. (sprezzante:) Che ne farebbe di voi ? Non siete buono a niente. Intanto il nostro caro figliuolo rimane schiavo... Non avete viscere di padre. IL RE (ironico:) Non siete andata neppure voi ! LA REGINA (rabbiosamente:) Io sono donna... Vorreste insomma sbarazzarvi di me? IL RE. Ecco: il torto è sempre mio ! (Si rassegna:) Nè tornano ancora! SCENA VI. Entrano precipitosamente Arlecchino e Tartaglia. ARLECCHINO. E...eccoci, Ma...maestà ! TARTAGLIA. Eccoci. IL RE. Respiro. Parlate, eccellenza Arlecchino. ARLECCHINO. Non po...posso. Ma...maestà! IL RE (severo:) Non è momento da scherzi. E poi, io non permetto che in mia presenza si canzoni un altro ministro. ARLECCHINO. Non sche...scherzo, Ma...maestà. IL RE (severo:) Finetela eccellenza Arlecchino. TARTAGLIA (parlando precipitosamente:) Maestà, permettete che parli io. La mia lingua, che il mago ha sciolta da ogni impiccio, vi sia testimone della nostra ambasciata compiuta. LA REGINA. Oh, portento ! IL RE. Stupisco! TARTAGLIA. (come sopra:) Dice il mago: Non voglio nè gemme, nè oro, nè metà di regno. Voglio una focaccia stacciata, impastata e infornata di mano della regina. LA REGINA (sdegnosamente:) Per chi mi ha presa costui ? Non sono una serva o una fornaia. IL RE. Rifiutate? LA REGINA. Rifiuto. IL RE. (accalorandosi:) Anche a costo di lasciar schiavo il reuccio? LA REGINA (accalorandosi:) Anche a costo di lasciar schiavo il reuccio ! IL RE (scoppiando:) E siete madre? LA REGINA. Sono Regina! E certi vili mestieri non li faccio. TARTAGLIA (supplicando:) Lasciatevi commuovere, Maestà! ARLECCHINO. (tartagliando:) lo ci ho... ci... ci... ho un rimedio. Ma ho ver...gogna di par...parlare così. Datemi ca...ca...ca... TARTAGLIA. (venendogli in aiuto:) Carta? ARLECCHINO. (accenna di sì:) E pe... pe... pe... pe... TARTAGLIA (Come sopra :) Penna? ARLECCHINO (accenna di sì:) E ca...ca... ca... ca... TARTAGLIA. E calamaio! Ho capito. IL RE. Si porti carta, penna e calamaio. (Una guardia eseguisce. Ad Arlecchino:) Scrivete. (Arlecchino scrive e porge lo scritto al Re che lo legge). IL Re (dopo aver letto:) Che idea luminosa! Arlecchino, vi faccio barone ! LA REGINA (sprezzante:) Che consiglia? Qualche bestialità. IL RE. Vedrete. Olà, guardie! Chiamate subito Tizzoncino. UNA GUARDIA. È qui; ha riportato il pane infornato. IL RE. Fatela entrare. SCENA VII. Tizzoncino col cesto vuoto, e detti. IL RE. Vieni, Tizzoncino. Abbiamo bisogno dell'opra tua. TIZZONCINO. Ai vostri comandi, Maestà. IL RE. Devi stacciare, impastare e infornare una focaccia con le tue proprie mani. TiZZONCINO. Sarete servito, Maestà. IL RE. Per domani. TIZZONCINO. Per domani. LA REGINA. Sempre allegra, Tizzoncino? TIZZONCINO. Sempre allegra, Maestà. LA REGINA. Ma perchè non ti lavi la faccia? TIZZONCINO. Ve l'ho già detto, Maestà: l'acqua mi sciuperebbe la pelle. IL RE. Perchè non ti pettini? TIZZONCINO. Ho i capelli fini, Maestà; il pettine me li strapperebbe. TARTAGLIA. Perchè non ti compri un paio di scarpe ? TIZZONCINO (ridendo). Co...come? Non tarta... ta...glia...te più? TARTAGLIA. No. TIZZONCINO. Allora tartaglierò io; perchè mi fa...fa... mi farebbero i ca...calli. ARLECCHINO. E pe...perchè la tu...tua ma... mamma... TIZZONCINO (ridendo forte:) O bella! Ora tartaglia questo qui! ARLECCHINO. (continuando:) Ti chia...chiama... TIZZONCINO. Spera di sole? Perchè sarò regina, se Dio Vuole! IL RE. Brava, Tizzoncino! LA REGINA. Quanto sei sciocca, Tizzoncino, se ti lusinghi così ! TIZZONCINO. Maestà si vedrà all'ultimo chi è la sciocca. Ora lasciatemi andare; ho da riportare altro pane dal forno. (Esce). LA REGINA (sprezzante, al re:) Che avete conchiuso? Credete di darla a bere al mago ? IL RE (infuriato:) Non mi fate scappare la pazienza, regina! LA REGINA. Bastonatemi; non vi resta altro da fare ! IL RE (frenandosi:) Andiamo, altrimenti mi scordo che sono re! Prepariamoci tutti pel viaggio di domani alla casa del mago. (Escono). SCENA VIII. Bosco: la casa del Mago in fondo. Il Reuccio porta un tronco d'albero su le spalle; il Mago, con la verga lo siegue. IL REUCCIO. Non posso più portare questo tronco; lasciatemi riprender fiato. IL MAGO (minacciando:) Avanti ! IL REUCCIO. Ho sete; lasciatemi bere un sorso d'acqua. IL MAGO (come sopra:) Avanti ! Berrai dopo. IL REUCCIO. Se mi vedesse in questo stato il re mio padre! IL MAGO. Il re tuo padre si è scordato di te. Oggi è il terzo giorno, e non ha ancora mandato la focaccia, stacciata, impastata e infornata di mano della regina. Se passa questa giornata, sarai mio schiavo per sempre. IL REUCCIO. Ah, padre e madre crudeli, vi siete scordati di me! (Entra in casa). IL MAGO. Io so che sono per via, Re, Regina, Tizzoncino e tutta la Corte. Essi credono d'in- gannarmi; hanno fatto stacciare, impastare e infornare la focaccia da Tizzoncino, e vogliono darmi a intendere che sia opra della regina. Ma gl'ingannati e i canzonati saranno loro. Con un mago come me, non si fa la burletta ! IL REUCCIO. (tornando fuori:) Ho portato il tronco nella legnaia. IL MAGO. Va ad attinger l'acqua alla fontana. IL REUCCIO. Ah, padre e madre crudeli, vi siete scordati di me!... (Guarda in fondo al bosco, e con giubilo esclama:) No, non è vero! Eccoli! Eccoli ! IL MAGO. Non dire una parola e sta lì, fermo, o ti faccio rimanere di sasso. (Il Reuccio resta immobile). SCENA IX. Il Re, la Regina, Tizzoncino, Tartaglia. Arlecchino, la Corte, Guardie e soldati e detti. IL RE. Potentissimo Mago, siamo venuti a presentarti la focaccia da te richiesta. IL MAGO. Chi ha stacciato la farina ? LA REGINA. L'ho stacciata io. IL MAGO. Chi l'ha impastata? LA REGINA. L'ho impastata io. IL MAGO. Chi ha infornato la focaccia? LA REGINA. L'ho infornata io. IL MAGO. Lasciatemela vedere. TIZZONCINO. (presentando la focaccia :) Eccola qui. IL MAGO. E tu chi sei? TIZZONCINO. Sono Tizzoncino. IL MAGO (facendo la voce grossa a Tizzzoncino:) Chi ha stacciato la farina? TIZZONCINO. La regina vi ha risposto : L' ho stacciata io. IL MAGO. (come sopra:) Chi l'ha impastata ? TIZZONCINO. La regina vi ha risposto: l'ho impastata io. IL MAGO. (come sopra:) Chi ha infornata la focaccia ? TIZZONCINO. La regina vi ha risposto : L' ho infornata io. IL MAGO. (accarezzandola:) Sei maliziosa; hai risposto bene ed hai detto la verità. IL RE (da sé:) Oh, Dio! Siamo scoperti. ARLECCHINo(a parte:) Sia... siamo fri...fritti! 'TARTAGLIA (a parte:) Siamo perduti! LA REGINA (a parte:) Ci siamo gettati da noi stessi in gola al lupo! IL MAGO (con voce cupa:) Tizzoncino, entra in quella casa, chiudi l'uscio e non venir fuori finchè non sarai chiamata. (Tizzoncino eseguisce). E voi altri, che volevate ingannarmi, ora capirete che vuol dire farsi beffe d'un mago. TUTTI. Ahimè! IL RE. Illustre Mago, potentissimo Mago, la colpa non è mia. (Additando Arlecchino:) È stato lui che mi ha consigliato. ARLECCHINO (tremante:) Lo sa...sa...sapevo che do...do...doveva fi...finire così! (piange:) Ah ! Ah ! Ah ! IL MAGO. Non piangere, animale! ARLECCHINO. Animalissimo, signor Ma...mago! Ma pe...perdono! Perdono. IL MAGO. E voi, regina superbiosa, madre snaturata... LA REGINA. Perdono, potentissimo Mago. Non sapevo ne stacciare, nè impastare, nè infornare! IL MAGO. Voglio essere generoso. C'è un solo rimedio per scampare dalla mia giusta vendetta. IL RE. Ditelo, ditelo potentissimo Mago. IL MAGO. Che ho chiesto ? Una focaccia stacdata, impastata e infornata di mano della regina; ebbene, fate che questa focaccia diventi tale, e il Reuccio sarà libero e sarete liberi tutti. IL RE. Subito? IL MAGO. Ora stesso, senza muoverci di qui. Il come dovete trovarlo voi. Rifletteteci bene. IL RE. Riflettiamo. TUTTI Riflettiamo! (Si mettono con una mano alla fronte in atto di riflettere). IL RE. (dopo un pezZetto, alla regina:) Avete trovato? LA REGINA. No. (A Tartaglia:) E voi ? TARTAGLIA. No. (Ad Arlecchino:) E voi? ARLECCHINO (saltando dalla gioia :) L'ho...tro... tro...vata! (Il Re, la Regina, Tartaglia, tutti gli altri si mettono a saltare dalla gioia, gridando:) L'ha trovata! IL MAGO. Sentiamo. Per far più presto, ti sciolgo la lingua. ARLECCHINO. Benissimo ! Grazie. Ecco : perchè questa focaccia diventi lì per lì stacciata, impastata e infornata di mano della regina, vi è un solo mezzo. IL RE, REGINA, TARTAGLIA (ansiosi:) Quale? ARLECCHINO. (al re:) Debbo o non debbo dirlo? IL RE. Ditelo pure. ARLECCHINO. Far diventare reginotta Tizzoncino, dandola in moglie al reuccio. TUTTI (meno il mago:) Oh ! Oh! Oh ! IL RE. Parola di re: sin da questo momento il Reuccio e Tizzoncino siano marito e moglie. IL MAGO. Datemi la focaccia. Il reuccio è libero. Io mi ritiro. Abbracciatevi. (Entra in casa). IL RE. (abbracciando il Reuccio:) Ah, figliuolo mio caro ! LA REGINA. Povero figlio mio, sposato a una fornaia! IL REUCCIO. Ma io non ho dato il consenso. Sposare quella bruttona? Quella cenciosa? Quella fuligginosa ? IL RE. Parola di re non va indietro; siete marito e moglie. IL REUCCIO. Prima morire, che sposare costei. TIZZONCINO. (di dentro, canzonandolo:) La vedremo, reuccio ! IL REUCCIO. Vieni fuori, bruttona, e ti risponderò meglio! TIZZONCINO (come sopra :) Non vi scaldate! IL REUCCIO. Vieni fuori, cenciosa, fuliginosa, piedi scalzi ! (Il Reuccio si avventa contro l'uscio per aprire). IL RE (alle guardie:) Fermatelo ! TIZZONCINO. (di dentro:) Guardami dal buco della serratura. IL REUCCIO (guarda dal buco della serratura, ed esclama :) Oh, Dio, che mai vedo ! (Resta estatico a guardare.) IL RE. Che vede? TUTTI. Che vede ? È rimasto incantato ! IL REUCCIO (guardando ancora:) Oh, che bellezza ! Oh, che cosa celeste! ARLECCHINO. È impazzito. TARTAGLIA. Pa...pare. IL REUCCIO (picchiando all'uscio :) Aprite e perdonatemi, reginotta mia ! TIZZONCINO (di dentro, facendogli il verso:) Fornaia ! Cenciosa ! IL REUCCIO (come sopra :) Aprite regina del cuor mio ! TIZZONCINO (di dentro, ridendo e facendogli il verso:) Ah ! Ah ! Bruttona ! Fuliginosa ! IL REUCCIO (picchiando più forte:) Apri, apri, Tizzoncino dell'anima mia ! (L'uscio si spalanca e comparisce Tizzoncino bella come il sole, vestita di abiti reali). TUTTI. (con gran meraviglia:) Ah ! IL RE (prendendo per le mani Tizzoncino e il Reuccio :) Figli miei, siate felici ! LA REGINA. Ora non sei più Tizzoncino ! TARTAGLIA. Spe...spera di so...le... ARLECCHINO. Lo direte domani, per ora lo dico io:. Spera di sole, spera di sole, Sarai regina, se Dio vuole E si è avverato ! Viva gli sposi ! TUTTI. Viva gli sposi ! (Cala il sipario).

La ballerina (in due volumi) Volume Secondo

247405
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
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Abbiamo passato insieme delle belle ore, io non le dimenticherò: nè tu, credo. Io mi ricorderò sempre di te, come di una buona ragazza: disgraziatamente, il mondo è cattivo e io non potevo, senza rovinarmi, nè sposarti, nè continuare la relazione con te. In qualunque ora della tua vita, pensa che hai in me un amico sincero e comandami in quanto posso, io lo farò volentieri per colei che è stata la mia Carmela. Ti mando un bacio afflitto e mi raccomando alla tua memoria. - Roberto Gargiulo». Non pianse, ella. Era nella via, in una via elegante e popolata che, in quell'ora pomeridiana, dopo la siesta, cominciava a riempirsi di gente. Ebbe bastante forza di camminare avanti, come se nulla fosse, stringendo nelle mani la lettera aperta. Verso Chiaia, anzi, mentre risaliva lentamente il marciapiede di destra, ella rilesse attentamente quello che le aveva scritto il suo amante, lasciandola. Quelle frasi, racimolate qua e là, dalla lettura dei romanzi dove Roberto Gargiulo attingeva tutta la sua rettorica amorosa, quelle vane e vaghe parole di rimpianto - e non una sola parola di amore - nascondevano a mal'appena l'egoismo freddo dell'uomo che, dopo aver goduto, scaccia da sè, irrimediabilmente, l'oggetto del suo godimento, quando gli sia diventato fastidioso e imbarazzante. Un tempo, a principio, tutte quelle belle parole che Roberto Gargiulo le scriveva, per deciderla ad amarlo, l'avevano assai lusingata, col compiacimento delle piccole anime sentimentali, appagate dal luccichìo e dal calore di certe frasi. Poi, man mano, ella aveva compreso tutta l'aridità che si celava sotto quella forma falsa di amore verboso, nelle parole e negli scritti: in questa ultima lettera, tutto il cinismo di un temperamento dato solo ai sensuali piaceri della vita, le completava la figura dell'uomo a cui aveva sacrificato la sua onestà. Neppure lo ricordava egli, così, con qualche dolcezza, questo sacrifizio che ella gli aveva fatto, l'ingrato! Mentre, metodicamente, ella se ne tornava, per Toledo, alla sua misera stanza del vicolo Paradiso - quanto aveva fatto bene a non abbandonarla mai! - ella si sentiva non disperata, no, ma col sangue inondato di amarezza. Quel senso di umilità muliebre che toccava il servilismo, da cui era affetto il suo cuore, le impediva di odiare Roberto Gargiulo per il tranello che le aveva teso, per la menzogna del suo amore, per il modo brutale e irrimediabile con cui l'abbandonava; ella non aveva nè ira, nè odio, contro lui che, infine, aveva fatto il suo giuoco, quello che tutti gli uomini fanno, per vedere se riesce: tutto sta, nella donna, a non entrare nel giuoco maschile! Vi è un detto popolare napoletano che si ripete a tutte le ragazze indifese, a tutte le giovanette pericolanti, a tutte le mogli giovani tentate dall'adulterio, un motto pieno di sapienza e di verità: l'uomo è cacciatore. Non farsi prendere a quella rete, bisognava! Adesso, che avrebbe potuto pretendere lei? Quando aveva ceduto a Roberto Gargiulo, così, per una ragione arcana, ella non gli aveva messo nessun patto, egli non aveva dato nessuna promessa, nè di matrimonio, nè di vita comune, nè di relazione eterna, nè di relazione lunga. In collera, perchè? Che diritto aveva, di essere in collera, lei, disgraziata, prima e dopo, ma la cui sorgente di ogni disgrazia era in se stessa, nella sua debolezza, nel suo isolamento, nell'ambiente in cui viveva, nei suoi ricordi d'infanzia, nella figura ideale di beltà e di piacere che era stata la sua madrina, Amina Boschetti, in sua madre che aveva una figliuola senz'essere mai stata maritata? Roberto Gargiulo aveva ragione, dunque. Ella non era in collera, non era disperata, non spasimava di angoscia: ma era piena di una tristezza mortale, con la bocca amara di quelli che hanno bevuto del metallo liquido. Le lagrime non uscivano dai suoi occhi secchi. Andava a casa, pallidissima, ma dall'aspetto composto. L'indomani, quell'altro giorno, più tardi, ella avrebbe dovuto sopportare i sogghigni e le beffe dei vicini, delle amiche di palcoscenico, di tutte le altre ballerine. Appena una di loro è abbandonata dall'amante, si sa subito: e anche le più buone ne gongolano, poichè esse stesse sono state e saranno abbandonate alla loro volta. Ella entrò in via Pignasecca, più commossa del momento in cui aveva letta e riletta l'ultima crudele missiva di Roberto Gargiulo. L'avvicinarsi alla sua casa, a tutti coloro che la conoscevano, le dava un tormento interiore che le faceva abbassare il capo sul petto. Aveva così poca fierezza ella! In piazza della Pignasecca, sulla soglia della ricca ed elegante farmacia del Caprio, il cavaliere Gabriele Scognamiglio era sulla porta, mentre un suo commesso inaffiava la via innanzi a lui. Il cavaliere stava sempre, dalle cinque alle otto, in farmacia, geloso dei suoi interessi, in fondo, sapendo bene dividere le ore dello svago da quelle del lavoro. - Oh donna Carmelina bella! - egli esclamò giocondamente - donde venite? - Dalla pruova, cavaliere - disse lei, fermandosi per cortesia. - Va presto, il Rolla, alle Varietà, cara carina? - Va sabato prossimo; fra tre giorni. - Verrò ad applaudirvi. Anzi, vi manderò dei fiori. Siete di prima fila alle Varietà? - Sì, sono guida di prima fila - mormorò ella, a occhi bassi. - Caspita, che avanzamento! - Sono teatro di estate, le Varietà: le buone ballerine mancano e allora... - No, non dite questo. Io verrò ad applaudirvi e vi manderò dei fiori. Non dirà nulla, Gargiulo? - ...No - rispose ella, dopo un momento di esitazione. Egli la guardò meglio: la squadrò, coi suoi occhietti vivi e maliziosi di uomo che capisce tutto, da una pausa, dalla velatura di una voce. - Che avete, donna Carmelina? siete malata? - No, grazie, sto benissimo, cavaliere. - Roberto Gargiulo vi ha lasciata - disse lui, crudamente. - Come lo sapete? - balbettò la poveretta, guardandolo con occhi persi. - Come se me lo avesse detto lui, Carmelina. Non poteva essere diversamente. - ...Già - sussurrò lei, a voce fioca. - Non vi disperate troppo, mia bella ragazza. - Le lagrime guastano la faccia e rovinano lo stomaco. - Io non ho pianto, cavaliere. Egli la scrutò bene: e le chiese, subito: - Dunque, non gli volevate bene? - ...No, cavaliere - rispose ella, voltandosi in - Neppure, lui, allora, ve ne voleva? - Lui, niente - ella replicò. - E allora... perchè? - Perchè?... e chi lo sa?... non si sa, il perchè. Buongiorno, cavaliere. - Ve ne andate? Restate. Ricordate che vi dissi, alla Regina d'Italia! Il vostro don Gabriele è qui, per voi. Siete una cara ragazza, io vi voglio molto bene, mi piacete assai; sono contento, in fondo, che vi siate liberata da quell'egoistaccio di Roberto. - Buongiorno, buongiorno, cavaliere - diss'ella, volendosene andare, non sopportando di udire quelle parole, ascoltandole per gentilezza e soffrendone molto. - Vi vengo a prendere questa sera. Andiamo a cena insieme? Non volete? Perchè non volete? Sono un galantuomo, sono un signore; vedrete subito la differenza con quel commesso! Non volete, siete ancora triste, eh? Andate a chiudervi in casa, un poco? Bene, bene, aspetterò, don Gabriele è un uomo paziente. Cara ragazza, non perdete tutta questa fortuna, non capita ogni giorno! E se ne rientrò in farmacia, indispettito in fondo, ma sereno nell'aspetto. La sera della prima rappresentazione del Rolla, il bel teatro estivo delle Varietà era gremito di una folla quasi simile, nella composizione, a quella che frequenta, nell'inverno, il teatro San Carlo, poichè la gente elegante napoletana lascia Napoli solo alla metà di luglio: nelle prime file di poltrone erano i soliti frequentatori del Massimo, fra cui don Gabriele Scognamiglio, e la corte che egli faceva a Carmela Minino era così evidente, i suoi bravo, Carmela! così udibili da tutta la fila, i fiori, che le aveva mandato nelle quinte, così olezzanti, che la ballerina ancora tutta triste dell'abbandono di Roberto si sentiva imbarazzata, confusa. Le compagne che l'avevano derisa per tre giorni, ora, la invidiavano, poichè, per quasi tutte loro, don Gabriele Scognamiglio rappresentava il tipo perfetto dell'amante di una ballerina, vecchio, ricco, donnaiuolo, generoso, occupato in molte ore della giornata, facile a ingannare: le sorelle Musto, scritturate anche esse, in prima fila, la tiravano in tutti gli angoli del palcoscenico, per dirle di non fare la imbecille, di non perdere questa magnifica occasione, di fare quattro giorni di buona vita, di accumulare un po' di denaro, almeno, per i tempi cattivi. E don Gabriele non era, anche, un simpaticissimo uomo, ben vestito, profumato? Carmela, stordita, confusa, crollava il capo, dicendo no, fiocamente, decisa a rifiutare, ma non sapendo farlo sgarbatamente. Così, solo per disimpegno, dichiarandoglielo, anzi, accettò di cenare, quella sera, con lui, al restaurantStarita, in Santa Lucia nova. Il restaurant Starita è collocato sulla penisoletta fra terra e mare, che è attaccata al forte Ovo: penisoletta circondata dal mare, in un piccolo porto artificiale, dove si ancorano piccoli yacht, piccoli cutters e le yoles dei due Circoli di canottieri, che sorgono dirimpetto. Colà sono delle case che furono fatte, in inizio, per albergare i marinai della vecchia strada di Santa Lucia, che è tutta in rifazione, da dieci anni; anzi, quelle poche case, a un piano, prendono il nome di Borgo Marinai. Però, veramente, marinai non ce ne sono ancora, poichè essi abitano sempre Santa Lucia vecchia, immobile sotto la lentezza della sua trasformazione: e la modicità delle pigioni di quel borgo vi ha indotto delle piccole famiglie di infima borghesia, vi ha indotto dei pittori poveri, e quasi tutti coloro che sono impiegati, in estate, al grande stabilimento di bagni Eldorado, con relativo cafè-chantant. La banchina di terrapieno, colà, fa un gomito lungo e sui due lati di questo gomito sono sorte tre o quattro trattorie, in piena aria, con le loro tavole imbandite sotto le tende, dietro alcune leggiere balaustre di legno dipinto, coi lumi che si riflettono nel mare, che è a un paio di metri di distanza. Ivi, di estate, con la vicinanza dell'Eldorado, delle Varietà, vi sono sempre persone che pranzano, che cenano, prima dello spettacolo e dopo lo spettacolo: alle famiglie borghesi si mescolano delle coppie d'innamorati; delle chanteuses, delle ballerine, delle equilibriste, delle mime, vi appaiono, in lieta compagnia. Due o tre di quelle trattorie sono più modeste, più volgari e vi va gente minuta: il restaurant Starita ne rappresenta l'aristocrazia. Si sta sul mare, al fresco, di sera: sotto le chiglie dei yacht, dei cutters ammassati si vede scintillare l'acqua bruna del piccolo porto, chiuso dalla scogliera; sulla via del Chiatamone brillano i lumi dei grandi alberghi Royal e Vésuve, passano equipaggi continuamente: alle spalle, il forte Ovo dirizza la sua singolar linea di castello tragico. Si mangiano delle zuppe di pesce, delle fritture di pesce, come al lontano Posillipo che tutti trascurano, oramai, poichè ci vogliono tre quarti d'ora per arrivarvi, e Santa Lucia nova è nel centro della città; si paga molto caro, ma è così bello, sul mare, nelle sere di estate, a un passo dal centro, sotto gli occhi di tutti gli uomini chic, scapoli specialmente, o mariti le cui mogli sono già partite per la villeggiatura, guardando tutte le bellezze vere o artifiziose che si agitano nel mondo del piacere, in estate, a Napoli! In verità, quella sera, don Gabriele Scognamiglio ebbe un tatto squisito per non impaurire Carmela Minino. Gli bastava, infine, a lui, per cominciare, che la ragazza avesse accettato di venire a cena con lui, al restaurant Starita, in un posto dove tutti quanti li avrebbero visti; non voleva altro, per allora. Egli non era innamorato di Carmela, giacchè, alla sua età, egli lo dichiarava, non si sentiva tanto stupido da innamorarsi di una donna qualsiasi, più giovane o meno giovane: forse, in tutta la sua vita, non era stato innamorato mai, sentendo, nel suo egoismo, che un tale sentimento, in tutta la sua esplicazione e in tutta la sua forza, avrebbe turbato la sua linea di condotta, dedita solo alla gioia. La ragazza gli piaceva, da più tempo, malgrado che non fosse nè bella, nè aggraziata, nè elegante: era giovine, era nuova, diceva lui, non aveva tutte le perfidie e le perversità di chi ha già troppo precocemente vissuto, e ciò gli bastava, a don Gabriele Scognamiglio. Non era una gran conquista, tanto più che vi era stato un altro prima di lui: ma, a circa sessant'anni, il gaudente farmacista sapeva contentarsi, e, quasi, quasi era contento di poter succedere a Roberto Gargiulo, senza preoccupazioni, senza rimorsi. Carmela Minino glielo aveva preferito: era troppo filosofo per seccarsi, quando le donne gli preferivano un giovane. E ora raccoglieva quella povera anima afflitta e abbandonata, la trattava con gentilezza, non le parlava d'amore, sapendo bene il modo come vanno prese le donne, esseri capricciosi, malati e incomprensibili: non incomprensibili a chi, da quarant'anni, non si occupava che di loro. Le camminava accanto, per la via del Chiatamone, senza darle il braccio, cercando di farla ridere con le sue barzellette, raccontandole qualche aneddoto spiritoso, narrandole qualche avventura di viaggio. Don Gabriele Scognamiglio presiedeva ai suoi affari, in farmacia, per dieci mesi dell'anno: ma due mesi, in primavera o in autunno, li consacrava ai viaggi all'estero, dove vi era grande vita e belle donne, o donne, senz'altro, ma donne diverse, donne varie. Più spesso andava a Parigi, anzi, malgrado la sua professione, malgrado i contatti delle sue giornate di lavoro e delle sue notti napoletane, era un parlatore di francese perfetto. Nel discorso, quando furono nella viottola che porta al forte Ovo, egli disse: - Carmelina, vi voglio portare a Parigi. Ella abbozzò un assai smorto sorriso. Sapeva che don Gabriele le diceva quello per solo atto di galanteria: ed ella, per buona educazione, non lo interrompeva. Malgrado fosse tardi, il restaurant Starita era pieno: i suoi lumi piovevano luce su tavole dove cenavano i Napoletani, a gruppi di tre, di quattro, di cinque, con un affaccendarsi di camerieri, che non bastavano alle richieste. - Vi piace, qui, Carmelina? - Sì, è bello - ella disse, guardando la città, il mare e il Vesuvio, macchinalmente. Trovarono un tavolino piccolo, per due, accanto a una tavola imbandita per otto persone, coperta di piattini di antipasto, da trionfi di frutta e da due mazzi di fiori, ma vuota. Era fissata la grande tavola, per una cena, dalla mattina. I commensali sarebbero arrivati fra un quarto d'ora: e il cameriere, che don Gabriele interrogava, sempre curioso, ne nominò qualcuno. - Il conte di Sanframondi, don Ferdinando Terzi, il conte Althan... - Tutti amici, tutte conoscenze... - approvava il farmacista gaudente, felice - di esser vicino a quella cena. Carmela Minino lo guardò con certi occhi supplici e smarriti; ora provava un imperioso bisogno di andarsene: ma non aveva il coraggio di dirlo al suo compagno. Fuggire, dove? Che avrebbe pensato, don Gabriele Scognamiglio? Che ella era una malcreata, una pazza. Come dirgli? Che cosa dirgli? E perchè fuggire? Là, o in altro posto, non era la medesima cosa? Trangugiando delle rade lacrime ardenti, che le erano salite agli occhi, ella restò al suo posto, sulle spine, rispondendo come meglio poteva a don Gabriele Scognamiglio, che le chiedeva che volesse da cena, tutta rigida nel suo vestitino di seta bianco e nero, il solo buono che possedesse, un po' terrea sotto un cappellino di velo celeste che la modista le aveva voluto fare assolutamente e che le stava abbastanza male. Così vicina, quell'altra tavola! E, infatti, dopo poco tempo, con un gran rumore di voci, di risate femminili giunsero le quattro coppie, Emilia Tromba, Concetta Giura, la chanteuse spagnuola Mariquita che cantava e ballava all'Eldorado, la mima Alina Bell che agiva nel ballo Rolla alle Varietà. Si sedettero, con gran fracasso di sedie, accanto ai quattro gentiluomini che le accompagnavano in silenzio. Carmela Minino non vedeva Concetta Giura ed Emilia Tromba dalla primavera, dalla fine della stagione di San Carlo: le due ballerine si davano il lusso di non ballare in estate. E malgrado si dicesse che Sanframondi non ne poteva più di Concetta, che Ferdinando Terzi tenesse Emilia Tromba solo per rimedio, oramai, ai sospetti di un marito geloso, i due continuavano a portare in giro le loro amanti, a pagar loro da cena. Ferdinando Terzi, nel sedersi, capitò dirimpetto a Carmela Minino. Nulla era mutato in lui: con una bottoniera di garofani bianchi allo smoking, egli era sempre il bel gentiluomo dai fini mustacchi biondi, rialzati mollemente sopra una bocca rossa e sensuale, che non sorrideva mai, dal profilo nobilissimo ma così rigorosamente aquilino che pareva tagliato col coltello, dagli occhi azzurro pallidi, freddissimi, altieri, glaciali. Per un istante li fissò sovra Carmela. Poi si curvò ad Emilia, facendole in due parole, una domanda. Carmela comprese subito che s'informava di lei, di quel posto e di quella compagnia in cui ella si trovava: e comprese anche, che, ridendo, in poche parole, Emilia Tromba gli narrava la sua caduta. Guardava Carmela intensamente e dal modo sprezzante delle labbra di Ferdinando Terzi, ella intese, sentì magicamente le due parole: - Che sciocca! Carmela guardò, nell'ombra, la città, il mare, la montagna ardente, senza vederli: e pensò che tutto, tutto era inutile.

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La sorte

248138
Federico De Roberto 1 occorrenze
  • 1887
  • Niccolò Giannotta editore
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Gli abbiamo trovato il tuo ritratto sul cuore. - Il mio ritratto? ... Guarda, guarda com'è serio!.. E gli dette uno spintone. - Ferma con le mani. Parlo sul serio, il tuo ritratto, nelle Campane, e c'è anche una copia del libretto, col tuo nome scritto sopra. - Voi davvero?.. Giesù, Giesù!.. E com'è stato?.. - Si è scannato, con un rasoio. - È morto? - chiese con grandi occhi spalancati. L'ispettore trinciò una piccola croce, col dito. - Il ritratto glie lo avevi dato tu? - Io? Siete pazzo! Chi lo conosceva!. - Allora, come? - Io che so! L'avrà comprato dal fotografo. - E.... non l'hai mai visto? - Dalli! V'ho detto che non lo conosco - Un giovanotto, coi baffetti castagni... occhi neri... alto... - Aspetta, aspetta... Con la lente?.. Mo' ricordo; qualche volta l'incontravo, dopo la recita, abbasso al portone. - E... non t'ha avvicinato mai? - Quante volte v'ho da dì... - L'incontrasti anche iersera? - Mi pare... - Poi aggiunse, curiosamente: - Chi ve l'ha detto?... L' ispettore la guardò, ammiccando: - Con chi eri? Teresella gli dette un altro spintone. - Ih com'è curioso!... S'intese una carrozza arrestarsi sotto l'Albergo; l'ispettore andò a guardare dalla finestra. - Lasciami andar via; portano la cassa. - Giesù, Giesù! Poi, mentre quegli stava per uscire sul corridoio, Teresella gli corse dietro. - Cavaliè... sentite... avessi mai da passà qualche seccatura?... L'ispettore le accarezzò il mento, paternamente. - Non aver paura. E salì nella stanza del morto. Dietro, il becchino portava la cassa: tre tavole inchiodate e una mobile. - Pretore, ci siamo? - Avanti. - Picciotti, a noi. Preso dalle spalle e dai piedi, il cadavere fu deposto nella cassa. L'abito aperto faceva ingombro; lo affagottarono alla meglio. Il tempo diventava sempre più scuro; alla luce triste, giallastra, filtrante tra i nuvoloni color creta, la faccia del morto pareva di cera. A un tratto s'intese, fuori il corridoio, un confuso rimescolio, voci sorde, indistinte; poi dei passi affrettati che si avvicinavano, striIli di bambino e un gridar rauco: - Assassino!... lasciatemi, sangue di Dio!... Assassino, assassino!... - Saverio!... per carità, Saverio!... Il padrone, terribile nella faccia accesa, gli occhi iniettati di sangue, i capelli rossicci sconvolti, si precipitò nella camera, come una furia. - Assassino!... dov'è l'assassino?... - E corse addosso alla cassa. Le guardie furono a tempo ad afferrarlo. Contorcendosi, tentando di svincolarsi, con la bava alla bocca, egli gridava parole mozze. - Il cuore debbo mangiargli... a cotesto infame!.. Mi ha rovinato!.. I'Albergo è rovinato!... - E nella rabbia dell'impotenza, gonfiò le gote e lanciò uno sputo che andò a stamparsi sulla fronte del morto. - Carogna, tieni! L'ispettore, facendo fischiare più forte l'aria fra i denti, gli si fece incontro, gli posò una mano sulla spalla, e disse, guardandolo fermo: - Principale, che facciamo? Restarono un momento così, gli occhi negli occhi. Il pretore guardava, impassibile, stropicciandosi le dita. Poi il padrone, fremente, con le labbra strette e le mascelle contratte, si lasciò portar via, barcollando. - Su, facciamo presto. Il becchino s'inginocchiò, inchiodò la cassa, leggermente; le guardie la presero da capo e piedi e gliela misero sulle spalle. Pel corridoio angusto, giù per la scaletta dalla volta bassa, il carico andava sbattendo di qua e di là. - Adagio!... attento alla porta!... più basso! - avvertivano don Ciccio e donna Vincenza. Sul marciapiede, la folla indietreggiò. La guardia aperse lo sportello del carrozzone, e come la cassa vi sdrucciolò, lo richiuse, sbattendolo. - Al deposito - disse al becchino, consegnandogli l'ufficio del pretore. Come il carrozzone fu partito, donna Vincenza, nel risalire, vide qualcosa di bianco per terra. - La lettera del passeggiere! - «Municipio di Messina» - lesse il pretore, interrompendo la redazione del verbale - «Oggetto: concorso fra gl'insegnanti elementari. Le si partecipa, in risposta alla sua del 20 corrente mese che, ai termini dell'avviso 8 ottobre, quando la patente di grado superiore è conseguita prima del 1878, occorre espressamente, per essere ammessi al concorso, il certificato speciale di abilitazione allo insegnamento della ginnastica. Tale essendo il suo caso, la commissione non può passare all'esame dei titoli già presentati se la Signoria Vostra non le farà pervenire il certificato di cui sopra.» FINE.

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Nel sogno

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Matilde Serao 1 occorrenze

Oh, tu sei morto, Antonio Cecchi, dilettissimo amico, sulla terra di Africa dove vedesti cadere tanti altri, sognanti come te una gloria di civiltà e di redenzione: noi ti abbiamo perduto e non ci resta che abbracciare le tue ceneri fredde, quando arriveranno alla nostra marina, d'onde, anima tenera e gagliarda, tante volte ti salutammo partente. Tu sei morto, amico impareggiabile, impareggiabile cittadino, come Giuseppe Chiarini, come il nostro Licata, come Gustavo Bianchi, come Eugenio Ruspoli, come Vittorio Bòttego, morti, morti tutti, sognatori tutti, ma sognatori grandi, ma sognatori ammirabili, ma sognatori sublimi, morti sulla terra che vi ha sedotti, morti sul campo delle vostre visioni, morti in pieno sogno di eroismo. E voi siete perite, o dame del Bazar di Carità! Belle, ricche, nobili signore: gentili, leggiadre, briose signorine: monache delle case ospitaliere, il fuoco ha distrutto le vostre vite care alla fortuna, care alle vostre famiglie, care alla religione; siete morte mentre compivate un sogno di carità largo, vastissimo, tale da diffondere il bene nel cerchio più ampio e più oscuro delle tristezze umane. Più di cento donne sono morte a Parigi, facendo il bene, morte alcune senza voler fuggire, eroiche sino all'ultimo minuto della loro vita, trascinate dall'eroismo più sublime, dalla sognante passione della carità. Una di esse, mentre già le fiamme la investivano, ha abbracciato una monaca e le ha detto: Sorella mia, ora andiamo insieme in Paradiso. È vero. Deve esser vero. Dio ha fatto il Paradiso per chi muore, sognando così.

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Una peccatrice

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Giovanni Verga 5 occorrenze
  • 1866
  • Augusto Federico Negro
  • Torino
  • Verismo
  • UNICT
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Parecchie settimane dopo, in Napoli, ad una delle serate che dava il barone di Monterosso, noi ritroviamo Narcisa, accompagnata dal marito e dal giovanotto ufficiale di cavalleria negli Usseri, che abbiamo incontrato con lei a Catania. Il sottotenente, che apparteneva ad una delle più nobili famiglie del Napoletano, l'avea presentata ad una signora di mezza età, la quale recava con tutta disinvoltura gli occhiali sul naso, appartenente anch'essa alla più alta società, e che col suo ingegno si è fatto un nome che comincia ad esser celebre anche fuori d'Italia. Le due donne, l'una circondata e adulata pel potere dei suoi vezzi, l'altra pel prestigio del suo nome, sedevano l'una presso all'altra su di un canapè, accerchiate da uno stuolo di cortigiani. Il barone di Monterosso venne a complimentare la signora contessa R***, e a dire anche due parole d'occasione a Narcisa. - Avrò la fortuna, signora contessa, - disse, parlando alla donna matura, - di presentarle stasera un uomo, che, ancora giovanissimo, si è aperta diggià la più brillante carriera nella letteratura drammatica. - L'autore di Gilberto forse? - domandò la signora. - Lo conosce? - No; ne ho udito semplicemente parlare; è un dramma che ha incontrato moltissimo, a quel che pare; e di cui i giornali si sono disputati i meriti con quell'accanimento che dà sempre della rinomanza all'autore. È napoletano? - È siciliano; si chiama Pietro Brusio. - Brusio?... Non ho mai udito questo nome..... - Fra otto giorni questo nome sarà pronunziato come quello di Giacometti e di Gherardi del Testa. - È una celebrità in erba dunque? - Sì, signora contessa: una celebrità che nasce, ma in mezzo ad una splendida aurora. Il suo dramma è stato replicato quattro volte a richiesta, e domani fu desiderato per la quinta: l'impresario glielo ha pagato come non si sogliono pagare quasi mai le produzioni letterarie in Italia, e l'ha impegnato a scrivere pei Fiorentini con un appuntamento che lo farà vivere da signore. - Domani andrò ai Fiorentini, - disse la dama, - stasera mi presenti il suo protetto; lo pregherò di passare da me le sere cui ricevo. Il barone s'inchinò allontanandosi per dar retta ad altri invitati. Narcisa ballò come una silfide e confessò al suo cavaliere di mai essersi divertita come in quella sera. Verso mezzanotte il barone si avvicinò di nuovo al divano ove sedevano Narcisa e la contessa, accompagnato da un giovane alto e bruno, di cui l'espressione fredda, altiera e quasi severa era appena temperata dal contegno grazioso che gl'imponeva l'atto che andava a compiere. - Mi permetta, signora contessa R***, - disse il barone con il garbo di un uomo di società, - che abbia l'onore di presentarle il signor Pietro Brusio, il giovane autore di cui le feci parola. Pietro s'inchinò in silenzio, mentre la dama originale l'esaminava con tutta flemma, attraverso gli occhiali, dal capo alle piante e gli faceva i complimenti d'uso. Anche Narcisa esaminava il nuovo arrivato con una curiosità che andò a finire nella maggior sorpresa. Ella stentò a riconoscere il giovane incognito che a Catania incontrava ad ogni passo, divorando degli occhi il suo sguardo, e che passava le notti sul marciapiede dirimpetto alla sua casa, in quel giovane che le stava dinanzi colla fronte nobile, quantunque solcata dalle febbrili emozioni della creazione, e dai delirii sublimi del pensiero; coi lineamenti sbattuti dalle fatiche del lavoro, dalle lotte ardenti dell'idea, che aveva sentito immensa, colla forma, che spesso non sentiva abbastanza. Egli avea l'occhio brillante della confidenza che dà la giovinezza e l'avvenire, quando si affaccia ridente; il suo vestito irreprensibile sviluppava la forte e maschia eleganza del corpo; si presentava con tutta la grazia di un abituato alle più aristocratiche riunioni. Ciò che più di ogni cosa servì a farglielo riconoscere, meglio che l'altiero portamento della fronte, ch'egli non avea saputo rendere grazioso in quel momento come il sorriso a cui aveva forzato il suo labbro sdegnoso nel presentarsi alla contessa R***, fu questo: La contessa gli parlava con la famigliarità che dà la parentela del genio, e gli stringeva la mano. Il cerchio degli ammiratori di lei gli si affollava d'attorno, e lo guardava con occhio invidioso. Tutt'a un tratto ella lo vide diventar pallido come un cadavere, e dirizzarsi sulla persona con un movimento macchinale che non seppe padroneggiare; e ciò fu quando il barone (che era rimasto al suo fianco frapponendosi tra di lui e Narcisa) si allontanò. Pietro aveva veduto la contessa di Prato, alla quale il sottotenente dirigeva un complimento ch'ella non ascoltava. Brusio rimase un momento immobile, senza poter parlare, cogli occhi, che si erano fatti di una sorprendente lucidità, fissi su quelli di lei, mentre una leggiera convulsione faceva tremare sul suo labbro superiore i baffi castagni. La signora R***, che gli parlava in quel momento, fu sorpresa di non avere risposta, e lo guardò con curiosità. Pietro staccò quasi con isforzo gli occhi da quelli di Narcisa, che lo fissavano col loro sguardo limpido e chiaro, per volgerli all'ufficiale che anch'esso lo guardava sorpreso, arricciandosi le basette. Egli fu freddo, distratto, impacciato tutto il tempo che rimase a discorrere colla donna celebre. Quando questa gli parlava dello splendido avvenire che la riuscita della sua produzione l'autorizzava ad aspettarsi, rispose tristamente: - Forse, signora contessa, giammai in tutta la mia vita potrò compiere un lavoro come quello che scrissi in otto giorni, e al quale il publico ha avuto la bontà di fare buon viso. - È sola modestia che le fa dir ciò? - No, signora; forse è presentimento. - Bisognerebbe, in tal caso, non ammettere questo dramma come parto del suo ingegno, ma piuttosto... - Del cuore? - interruppe il giovane: - sì, signora! - Ella ha ragione: in un momento di passione si possono oprar miracoli che parrebbero impossibili a tentarsi un minuto dopo. Pel bene del suo avvenire voglio augurarmi che tale non sia il suo Gilberto. - Chi lo sa?... E lo sguardo del giovane, che s'inchinava per allontanarsi, incontrò quello di Narcisa fisso su di lui con un'espressione che dimostrava più della semplice curiosità. Si ordinavano le coppie per un valtzer; e l'ufficiale venne a presentare il suo braccio a Narcisa, che vi abbandonò il suo corpo flessibile, splendida di tutta la sua strana bellezza; coi capelli, intrecciati di perle; cadenti sulle spalle bianchissime e vellutate; col bel seno anelante sotto il velo ed il merletto che lo copriva; col suo sorriso indefinibile sulle labbra, e gli occhi che, senza esser brillanti, avevano un'onda di voluttà nei loro raggi. Ella si avanzò lentamente, mollemente, come immedesimandosi al corpo dell'uomo a cui si accompagnava, con un inimitabile movimento del suo collo da cigno, quasi le perle e i fiori che s'intrecciavano ai suoi capelli, e il volume di questi fossero troppo pesanti per quella piccola testa; presentendo nello sguardo sorridente e scintillante tutto quel torrente d'impetuose voluttà che il valtzer, questo ballo degli innamorati, dovea darle; come appoggiando tutti i delicati tesori del suo corpo al braccio del suo cavaliere per trarne quella foga d'esaltazione che la musica, l'eccitamento, il contatto del corpo dell'uomo elegante doveano darle. Nulla varrà a riprodurre, ad accennare soltanto, l'impressione voluttuosamente affascinante di quel corpo leggiero da silfide, che librava, direi, le ali coll'espressione del suo sguardo, per abbandonarsi a tutto il trasporto di quel ballo. Le coppie cominciarono a girare; la musica eseguiva il Bacio di Arditi. Dopo il primo giro, quando la contessa si fermò, anelante, come cullandosi al braccio del suo splendido cavaliere, sfiorandogli un'ultima volta il viso cui suoi capelli; colle guance accese, il petto anelante, gli occhi umidi di languore e di piacere, incontrò un altro sguardo, umido ancor esso di una indicibile espressione d'angoscia e quasi di cruccio, che brillava su di una fronte alquanto calva e pallida di una spaventosa pallidezza. Ella fissò un lungo sguardo su quello che si fissava su di lei. - Vogliamo ricominciare? - le susurrò all'orecchio l'ufficiale passandole il braccio - attorno alla vita da bajadera. - È inutile... mi sento stanca... Non ballo più... Ella cercò cogli occhi un'altra volta quello sguardo supplichevole e nello stesso tempo minaccioso: era scomparso - Oh! questo Bacio! questo Bacio!... avrò da sentirlo dappertutto... - mormorava Pietro delirante scendendo le scale. - Domani ai Fiorentini si darà un dramma che ha fatto furore, a quanto si dice; avrete la compiacenza di accompagnarmivici? - domandò Narcisa al marito. Questi s'inchinò in silenzio. L'indomani infatti, alle 9 e mezzo, la contessa, che non si ricordava di essere entrata in teatro a tal ora, era in un palchetto di seconda fila sul proscenio: Il sipario non era ancora alzato e la sala era affollatissima. La contessa recava in mano un magnifico mazzo di viole bianche che posò sul parapetto insieme all'occhialetto. Il dramma fu recitato in mezzo ad una di quelle ovazioni che sembrano strappate agli spettatori quando l'autore ha saputo scuotere tutte le corde dei cuori colla sua mano potente: era una di quelle opere spontanee, tutte di un sol getto, che sono belle perchè sono vere, che sono inimitabili perchè sono semplici e comuni. Narcisa rivide quel giovanetto che passava le notti sotto i suoi veroni; lo rivide nel protagonista di quel dramma, con tutti i suoi fremiti d'amore e i suoi disinganni disperati; ella sentì che quel dramma parlava di lei, era scritto per lei, in tutte quelle sfumature di rimembranze che l'accennavano ad ogni passo... L'ufficiale, che avea battuto le mani quando l'aristocrazia aveva applaudito, osservò con sorpresa che ella rimaneva indifferente alle sue sollecitudini, tutta assorta in quel Gilberto che ad ogni parola destava in lei una reminiscenza e le svelava quale amore quasi sopranaturale avea saputo destare. Nel mezzo della scena che l'avea commossa dippiù, ella, coll'ispirazione improvvisa e adorabile della donna leggiera e capricciosa, s'era tolto dal dito un magnifico anello di brillanti e l'avea legato al nastro del mazzetto. Alla fine del second'atto l'autore, chiamato fragorosamente dal publico, venne sulla scena. Egli non ebbe che uno sguardo, in mezzo al turbine di quegli applausi frenetici, in mezzo all'agitazione di quella folla che si levava gridando il suo nome, in mezzo all'inebbriamento di quell'ovazione quasi delirante: uno sguardo che andò a posarsi su di un palchetto di proscenio al second'ordine. Egli vi vide la contessa... verso della quale si chinava sorridendo il biondo giovanotto dalla brillante divisa di ufficiale degli usseri. Pietro dimenticò quegli applausi, quelle corone che gli cadevano ai piedi, quei fiori che lo coprivano come in un nembo, quelle acclamazioni al suo nome; egli non badò più neanche ad un mazzo di viole bianche che gli era caduto ai piedi dal palchetto di Narcisa e che avea raccolto, per fuggire come un delirante, come un uomo che teme d'impazzire, poichè tutti questi applausi non potevano dargli quello sguardo ch'era venuto a cercare sino a Napoli, che avea voluto comprare a prezzo delle ispirazioni del suo genio, e che avea visto rivolto sul giovane sottotenente. La folla chiamò invano replicate volte l'autore. - Che ne dite del dramma? - domandò la contessa all'ufficiale, dopo l'ultimo atto, approfittando del tempo in cui il conte era uscito per fare ordinare la carrozza dal jokey che aspettava sul corridoio. - Molto bello, in verità; e anche assai applaudito. - E dell'autore? - Che volete che ne dica?... ch'è un autore come tutti gli altri; - soggiunse colui con il supremo disprezzo degli uomini di spada. - Eppure quest'uomo è celebre! - aggiunse la contessa avvolgendosi nella sua vespertina di cachemire bianco. - Sarà anche questo. - Sento che amerei quest'uomo come una pazza! - esclamò Narcisa punta dal freddo motteggio del suo vagheggino, colla viva schiettezza del suo carattere mobile ed impetuoso. - Confessate almeno che questa franchezza è odiosa!... - rispose ridendo il sottotenente, poichè non sapeva se dovesse prendere la cosa sul serio, sebbene l'espressione affatto nuova della contessa gli desse molto a pensare. - Ha però sempre il merito della franchezza! - replicò con tutta flemma Narcisa: - quest'uomo io l'amo... poichè la sua celebrità è opera mia!... opera di cui posso andare superba! ... Partite per la guerra, signore, a farvi uccidere per me o a ritornare generale d'armata, e allora... ma allora soltanto... forse... io vi amerò come sento che amo in questo momento quell'uomo! - Signora! - esclamò l'ufficiale coi denti stretti, facendosi pallido. - Non mi accompagnate sino alla mia carrozza? - disse senza scomporsi Narcisa, dandogli la busta dell'occhialetto da recarle nel momento che suo marito rientrava nel palchetto. Brusio era ritornato a sua casa agitatissimo, e passò la notte senza dormire. Ella! Narcisa! avea assistito al suo trionfo, avea palpitato dei suoi sentimenti, gli avea gettato quel mazzetto che avea fatto appassire a furia di baci!... Ma ella non era sola!... quel giovane, quel soldato, sì giovane, sì bello, sì splendido! che le parlava sì da presso... che le sorrideva in quel modo!... Tutt'a un tratto i suoi diti incontrarono l'anello che era legato al mazzo; un dubbio atroce lo fece impallidire: quei fiori, che la donna adorata avea lasciato cadere su di lui, invece di essere l'espressione della simpatia non dimostrava piuttosto uno di quei volgari applausi, uno di quegli splendidi regali con cui si paga l'abilità di un istrione?... Quest'idea lo martellò a lungo; e l'indomani, ancora sotto questa impressione, scrisse il seguente biglietto a Narcisa - sarcasmo pungente ed amaro velato dalla forma più delicata:

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. - Noi abbiamo torti reciproci, - aggiunse Narcisa col suo sorriso ammaliatore; - siamo franchi in tal caso dall'una parte e dall'altra per poterceli perdonare scambievolmente... - Reciproci torti? - interruppe Pietro come trasognato. - I miei saranno più gravi; - rispose Narcisa, - ma ho la buona fede di confessarli e la risoluzione di espiarli... E voi? - Io non me ne trovo che uno!... ma sì grande... che io non oso rammentarlo senza arrossire in faccia a voi... - Confessatelo allora; forse vi verrà perdonato. - Contessa!... - È molto grave adunque perchè non abbiate il coraggio di questa confessione? - Le vostre parole me lo danno; io ho commesso l'indegnità d'insultarvi rimandandovi il mazzo e l'anello, e poco fa anche il biglietto... - Avete avuto torto nell'ultimo caso, non l'avevate nel primo... - Perchè? - Perchè nel primo caso quello che a voi pare colpa, mi provava piuttosto... - Narcisa!... - Che voi... - Che io vi amo come un pazzo!... come un uomo che non è più conscio di quello che fa, poichè voi gli avete tolto la mente e la ragione, Narcisa!... Così dicendo Pietro divorava coi baci quelle mani che si teneva fra le sue. - Ora che la vostra confessione è fatta, - diss'ella, non rispondendo direttamente, - veniamo alla mia. Pietro si accosciò sul tappeto ai piedi della contessa, tenendo sempre le sue mani. - Vi scrissi di aver conosciuto a Catania un giovanetto generoso sino al sacrifizio, nobile sino all'eroismo... Perdonatemi, non m'interrompete. Allora non sapevo chi fosse, non conoscevo che un giovane come se ne veggono tanti, inferiore fors'anche a quei giovani eleganti che mi facevano la corte. Anch'esso mi faceva la corte alla sua maniera, come la fanno i provinciali e gli adolescenti... Guardai qualche voltai costui che incontravo sempre sui miei passi in istrada, sulla porta del Teatro, uscendo e rientrando in casa... Qualche volta, quando paragonavo il suo stato a quello di coloro che mi amavano come lui ma che potevano dirmelo o almeno provarmelo, aspirare almeno ad un mio sorriso, ad una mia parola... mentre costui doveva sacrificarsi giorni e notti intiere per vedermi scendere da carrozza o per passarmi d'accanto al ritorno di un ballo ebbi un momento di curiosità, ed anche di riconoscenza sì lontana da sfumare nella compassione, per questo giovane che mi amava in tal modo, e mi amava senza speranza... Poi, non ci pensai più... - Poco tempo fa lo rividi in una festa: - riprese la contessa: - era l'uomo in voga; l'alta società avea per lui le più squisite cortesie, le donne più belle e più nobili gli sorridevano... Un vero trionfo! lo ammirai quella fronte larga e pallida, e mi sembrò di scorgervi qualche cosa di nobile che non vi avevo prima notato; mi parve di leggere un mondo intiero nei suoi occhi, sebbene alquanto malinconici. Lo sguardo ch'egli mi volse mi fece pensare al giovanetto sconosciuto... e provai una viva commozione a quel pensiero: C'era trionfo ed orgoglio soltanto in quel punto. Oh! io sono schietta, signore, per farmi credere quello che ho da dire in seguito. Quest'uomo avea fatto un miracolo pel mio amore - un miracolo di genio... lo l'ho veduto in quell'opera, come egli non ha veduto che me creandola, prendermi la mano, sorridendo del suo triste sorriso, e farmi passare in rassegna il suo cuore coi suoi palpiti, le sue speranze e le sue lagrime... e trasportarmi ai giorni delle vaghe aspirazioni e dei sogni ineffabili. Poi mi ha fatto piangere del suo pianto disperato a quelli spasimanti di passione... e si è arrestato anelante, spossato, colle braccia stese, nel punto in cui sentiva sfuggirsi questo fantasma a cui incatenava la sua esistenza... Oh, in quel momento, signore... s'io avessi veduto dinanzi a me quest'uomo, come l'ho veduto nel suo sogno, nel suo dramma... gli avrei stese le braccia ad incontrare le sue... - Narcisa!... - mormorò soffocato Brusio, sollevandosi sino ad inginocchiarsi. - Qualche volta, quando penso a quest'amore sì ardente e sì immenso che non avrei saputo immaginare, se non l'avessi ispirato, io che ho sorriso e folleggiato fra le ancor più folli proteste di mille galanti, io stordita da quest'incenso d'adulazioni e di corteggio che gli uomini più eleganti, più ricchi e nobili si affollano a bruciarmi ai piedi... io ho un movimento d'incerto terrore;... mi pare che debba essere terribile, divorante questa passione quando è giunta a tal grado;... mi pare ch'essa debba assorbire la vita in un bacio di fuoco.. ma in un bacio di tale ebbrezza da sembrare troppo piccolo compenso la vita, e troppo corti i giorni per avvelenarsene... - Narcisa!!... - ripetè Pietro colle lagrime agli occhi, prendendole le mani con violenza, mentre avea ascoltato sin allora cogli occhi spalancati e fissi, come pazzo di felicità, e coi gomiti appoggiati sulle ginocchia di lei. La fata si curvò mollemente verso di lui, e gli posò le braccia sullo spalle... poi lo sollevò lentamente, con quell'abbandono inimitabile e seducente che le era particolare; e guardandolo sempre col suo sorriso da sirena gli susurrò, quasi sulle labbra, colla sua voce più bella e più carezzevole: - Son venuta a vedere il tuo gabinetto da studio... Pietro... Quel soffio passò come un vento ghiacciato sul sudore che inondava la fronte di lui, che, impotente a più contenersi, la sollevò, prendendola fra le braccia, come un caro fanciullo, e la divorò dei baci, singhiozzando in un sublime delirio: - Tu sei il mio Dio! ed io non avrò mai forza per amarti come vorrei!!!... La portiera ricadde ondeggiante dietro di loro. Pochi giorni dopo, verso il tramonto, due giovani che s'avvincevano colle braccia allacciate, come le rampicanti che coprivano i fusti dei grandi alberi del giardino pensile, appoggiati alla ringhiera di pietra della terrazza, guardavano il sole che tramontava dietro quel mare azzurro che si stendeva immenso ai loro piedi ed ove si specchiavano Ischia e Procida. Narcisa teneva appoggiata la testa sulla spalla di Pietro, e di quando in quando si aggrappava al collo di lui colle sue candide braccia per passare i suoi labbri sulla fronte e gli occhi di lui con mille baci muti della sua bocca tremante che ne formavano un solo. - Che vita!... mio Dio! che vita!!... - mormorava ella soltanto qualche volta. - Eppure, mio dolce angioletto, quando io bacio questa tua fronte, e mi premo fra le labbra questi capelli, e ti chiudo gli occhi colle mie mani, e mi sento fremere fra le braccia questo tuo corpo da fata... io non credo, no... malgrado che io chiuda gli occhi, malgrado che io torturi disperatamente il mio cervello, per crederlo, che ciò che io provo di sì immenso, di sì convulso, di sì spasimante nella voluttà del piacere, nel delirio del godimento, mi viene da te;... che tutto ciò non è uno splendido sogno della mia fantasia, come ti sognai nel mio dramma... e ti sognai delirante, stringendomi la testa infuocata fra le mani, premendomi il cuore che sembrava scoppiarmi, seduto sul marciapiede di faccia ai tuoi veroni!... No... io non posso credere che quella donna che incontravo al passeggio, al braccio di un altr'uomo, fra l'ammirazione di quanti la vedevano, facendo palpitare il mio cuore col fruscio del suo strascico sulle vie;... che quella donna che vidi al Teatro; che mi passò da presso senza guardarmi; che seguii come un fanciullo, come un cane;... che non mi stancai a vedere dalla strada, per due mesi intieri, sotto la sua casa, ascoltando il minimo rumore che mi venisse da lei, che mi accennasse la sua presenza facendomi trasalire;... che quella donna che proferì quelle parole... quella notte... dal verone;... che mi torturò il cuore colle note strillanti del suo valtzer, quando mi parve che il mio cuore fosse rotto;... che quella donna ch'io non osavo avvicinare per non rompere il cerchio luminoso che la circondava d'aureola, per non rapirle un atomo di quella atmosfera profumata della quale si circondava, che faceva il suo prestigio;... che quella donna che adorai infine come un pazzo, spaventandomi di adorarla in tal modo, è mia!... mi ama!... mi è fra le braccia!!... che io posso chiamarla ogni giorno, ad ogni ora, ad ogni minuto;... che io ad ogni ora, ad ogni minuto posso udire quella voce che proferì: quell'uomo è pazzo: che mi dice che m'ama!... che io posso ad ogni ora, ad ogni minuto vivere la sua vita e suggergliela coi baci dalle labbra... Oh, no! Narcisa... per credere a ciò bisogna che noi ritorniamo a Catania, che noi abitiamo quella stessa casa, che io guardai con più venerazione della casa di Dio; che io respiri l'aria istessa di quelle camere; che mi metta a quel verone, con te, al posto che occupavi seduta sulla poltrona; e che io ti legga, seduto accanto alle tue ginocchia, come quell'uomo... Bisogna che mi metta con te, di notte, a quell'ora, a quel verone; e che tu ripeta quelle parole infami che io annegherei sulle tue labbra coi miei baci; bisogna che le tue mani ripetano su quel pianoforte le note di quel valtzer che m'inseguirono spietatamente quando fuggivo delirante come se fuggissi il cuore che sanguinava dirotto; bisogna che io mi segga su quel marciapiede, colla fronte fra le mani, come allora; e che io ascolti lo stormire di quegli alberi, il suono di quell'orologio, il murmure lontano di quel mare, il fruscio della tua veste;... e che io vegga il lume che rischiara la tua camera;... e che la tua voce sopratutto, la tua voce inebbriante, mi ripeta ad ogni ora, ad ogni minuto, che quello non è un sogno, che io non son pazzo;... e che i tuoi labbri, posandosi sulla mia fronte, mi scaccino questo turbine affannoso che mi sconvolge la mente, che mi fa dubitare della mia felicità... - Andiamo a Catania! - mormorò Narcisa, dandogli un lungo bacio e bagnandogli la fronte di due lagrime di voluttà.

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- interruppe egli, stringendomi le mani, quasi avesse voluto infondermi forza per ascoltare quello che avea a dirmi, e raddolcire quanto vi poteva essere di amaro; non si può sempre vivere di questa vita che noi abbiamo fatto, che è la mia più dolce memoria, senza avere delle ricchezze, che io non posseggo, e neanche tu, e le possedessi, io non potrei accettarle da te; bisogna che io mi faccia una posizione, che risponda alle aspettative che si son potute basare sul mio primo lavoro, che è bello del tuo riflesso soltanto. Per ciò fare bisogna piegarsi un poco a tutte quelle convenienze che la società esige rigorosamente. Io ho dimenticato tutto per te, sei intieri mesi: gli amici, il mio avvenire, gli impegni assunti; anche una madre che adoravo, la più buona, la più santa fra le madri, che aveva pur diritto all'amore del figlio suo, e che sei intieri mesi non ha avuto una parola da lui, non l'ha abbracciato una volta... Oh, credimi, Narcisa... è colla più viva commozione, colla più profonda riconoscenza anche, che io rammento questi sei mesi d'amore... Ma perchè quest'amore istesso duri con tutti i suoi incanti bisogna che esso sia assaporato lentamente: in fondo all'ebbrezza che stordisce si trova presto la disillusione che uccide l'amore... ed io voglio amarti sempre, mia Narcisa! «Soffocai i miei gemiti col fazzoletto, e rimasi muta, pietrificata dinanzi a lui che mi stringeva ancora le mani, e mi fissava quasi avesse voluto leggere nei miei occhi. «Dio mio! quello che soffersi in quel punto, credo che non potrò soffrirlo mai più... neanche al momento... «Quand'ebbi la forza di parlare gli dissi tristemente, divorando tutta l'estensione del mio dolore per nasconderglielo: « - Se mi amassi ancora, come dici, non avresti mai proferito ciò... « - Narcisa! - replicò egli, tradendo una viva impazienza, - non son uso a mentire... mi pare... « - Oh no! tu non mentisci... o piuttosto tu vuoi ingannare te stesso, perchè hai pietà di me... Grazie, Pietro! « - Io avrei dovuto parlarti da qualche tempo su questo proposito, - mi diss'egli; ho temuto sempre di farti dispiacere, ed ho indugiato. Tentai di lavorare per adempiere in parte agli obblighi impostimi, ma ti confesso che nulla mi è riuscito.... Mia madre mi ha scritto molte volte le più calde preghiere perchè io vada ad abbracciarla... «Egli aveva esitato a proferire l'ultima frase, e l'avea poscia pronunziata colla precipitazione di colui che prende una risoluzione decisiva. «Mi aggrappai al suo braccio, poichè sentivo le gambe piegarmisi sotto. « - È giusto, - mormorai quindi a metà soffocata: - tua madre ha ragione!... «Ebbi il coraggio supremo di non piangere. Egli rimase muto, facendo sforzi visibili per dominare la sua commozione. « - Mi accorderai almeno quindici giorni prima di partire? - gli diss'io, gettandogli le braccia al collo, piangendo in silenzio. « - Oh! amor mio! - esclamò Pietro quasi con le lagrime agli occhi: - non credevo di essermi meritate tali parole!... « - Ebbene!... fra quindici giorni tu partirai per vedere tua madre!... «Volle abbracciarmi, come per ringraziarmi del sacrifizio che gli facevo, ma mi allontanai di un passo, supplicandolo colle mani giunte di non farlo. «Temevo di perdere la forza della mia risoluzione in quell'abbraccio, al quale mi sentivo spinta violentemente da tutte le passioni, suscitate sino al parossismo, che tumultuavano in me. «Egli rimase colpito e sorpreso da quell'apparente freddezza, e m'accorsi ch'era anche indispettito. « - Grazie! - mi rispose freddamente. «E rimase muto... E non una parola di più... Come se avesse temuto ch'io mi pentissi di ciò che gli avevo accordato. «Ripresi il suo braccio per continuare a passeggiare, mentre non avevo la forza di strascinarmi. Lo guardavo: era freddo, pensieroso, quasi cupo. « - Oh,Pietro - gridai quindi singhiozzante, non sapendo più frenarmi, avvinchiandogli Ie braccia al collo; - mi ami?... mi ami come prima?!... Oh, Pietro!.... una volta mi promettesti, mi giurasti... che mi avresti confessato quando tu non mi avresti amato più... come prima... Pietro!... confessalo che non mi ami più!... « - Narcisa! te ne supplico... queste parole mi fanno male! - m'interruppe egli impallidendo. « - Oh, per pietà!... per pietà, Pietro! Me, l'hai promesso... me l'hai giurato!... Sii uomo!... dillo, dillo che non mi ami più! «Invece di volere questa conferma al mio doloroso sospetto, attendevo, con ansia smaniosa, una parola in contrario, che avesse potuto farmi gettare nella sue braccia, delirante di passione. Egli esitò... egli non l'ebbe;... e rimase muto, immobile... come combattuto da un'interna tempesta. « - Non ha dunque cuore quest'uomo! - gridai come una pazza, dopo avere invano atteso, in una terribile angoscia, col petto anelante, le mani giunte, le lagrime agli occhi, quella risposta. Non ha cuore per comprendere quello che si passa nel mio, per farmi felice anche con una menzogna! avevo detto in quelle parole. « Quelle parole però mi perdettero. « Pietro non capì il vero senso appassionato, addolorato, ansioso, che dava loro il mio cuore in quello stato, proferendole; egli capì soltanto tutte quello che vi è di duro, di sprezzante, d'insultante anche - sì, d'insultante - in queste parole prese alla lettera, che parevano dire: Siete un vile! mentre avevano detto: Non avete pietà di me? «Egli si levò pallido, coll'occhio, un momento innanzi umido di lagrime, asciutto e quasi fosco, coi lineamenti duri e severi; egli... quest'uomo! ebbe la forza di dirmi colla sua voce più calma ed incisiva: « - È meglio forse che ci separiamo, Narcisa. «Ebbi paura di lui. «Non potrei mai riprodurre tutto quello che vi era di lacerante in quelle fredde parole che soffocavano in lui il risentimento, che fa supporre pur sempre l'amore, per esprimere la calma ed inflessibile decisione della mente. «Mi sentivo morire, e caddi annichilata sul muricciolo accanto alla strada; Pietro mi diede il braccio, mi sollevò, e mi strascinò quasi sino alla carrozza. «Là, inginocchiata sul tappeto, col volto nascosto fra i cuscini, piansi lagrime ardenti, disperate. «Ora che ci penso a mente più serena, io non risento tutto il pentimento di quelle parole delle quali gli chiesi perdono a mani giunte, colle espressioni più umili, e che mi parvero aver deciso la mia condanna; se Pietro mi avesse amato ancora, egli non avrebbe dato la significazione letterale a quelle parole;... se il suo cuore non fosse stato morto per me, egli non avrebbe potuto prendere quella risoluzione. «Era finita dunque per me!... per sempre!... Ed io, folle!... folle!... gli chiedevo ancora quella franca confessione che mi avevo fatto promettere in un delirio d'amore, come se le parole avessero potuto illudermi, quando tutto parlava in lui chiaramente. «Passai una notte d'inferno, lacerando coi denti il merletto dei guanciali inzuppati di lagrime. «Quando il chiarore incerto che penetrava dalle tende del verone cominciò ad oscurare il globo d'alabastro della lampada da notte, mi alzai, ancora vestita degli abiti che indossavo la sera scorsa... Esitai un istante prima di tirare il cordone del campanello: volevo illudermi ancora su tutta l'estensione della mia sventura. « - È alzato il signore? - domandai alla cameriera che veniva a prendere i miei ordini. « - Anzi Giuseppe, il suo cameriere, crede che non sia nemmeno andato a letto; poichè l'ha udito passeggiare tutta la notte. «Fui commossa profondamente; dunque anch'egli aveva provato tutta la lotta di quella disperata passione! «Mi acconciai allo specchio, con triste civetteria; non volevo accrescere il suo dolore colle tracce del mio; volevo attaccarmi a lui con tutte le risorse di quell'eleganza che egli aveva tanto ammirato in me; e passai nelle sue stanze. «Lo trovai che scriveva, seduto al tavolino nella sua stanza da studio, con un lume ancora acceso dinanzi, sebbene morente. «Oh, signor Raimondo, mi perdoni questi dettagli, sui quali insisto con il doloroso piacere che si prova a ritornare sui particolari di dolci malinconiche rimembranze. «I fiori che ornavano ogni mattina la giardiniera, situata a semicerchio attorno al suo tavolino, quei fiori fra i quali egli s'immergeva, direi, quando si metteva a scrivere, e che avvolgevano i suoi sensi in un vapore di colori e di profumi, e suscitavano mille indefinite percezioni nella sua mente; quei fiori dei quali egli avea detto di aver bisogno come dell'aria per lavorare e per pensare a me, erano appassiti; le tende delle finestre chiuse, sicchè eravi quasi buio nella stanza; attraverso l'uscio aperto della sua camera da dormire vidi il letto scomposto, colle lenzuola lacerate e cadenti a terra, ed un cuscino sul tappeto accanto ad una poltrona rovesciata. «Pietro mi voltava le spalle, colla testa appoggiala fra le mani; aveva dinanzi un monte di quaderni e di fogli di carta, dei quali alcuni lacerati; sul foglio che gli stava sotto la mano era scritta l'intestazione di una lettera e tre o quattro versi cancellati. Egli non mi udì avvicinare, e si riscosse bruscamente quando mi vide vicino a lui. Poscia si alzò e venne a stringermi la mano, sorridendo tristamente. « - Volevo venire a farmi perdonare le mie cattiverie di ieri sera... però non potevo supporti alzata a quest'ora. « - Non ho dormito, Pietro... - gli risposi colle lagrime agli occhi. «Egli volse i suoi in giro per l'appartamento, quasi avesse voluto nascondermi il disordine; li abbassò, e rimase muto. «Non aveva voluto confessarmi che ancor esso avea sofferto: sentii stringermi il cuore dolorosamente. «Venni ad appoggiarmi alla sua spalla, come nei bei giorni in cui sentivo un brivido percorrerlo allo sfiorargli il volto coi miei capelli, e lo guardai in silenzio, spalancando gli occhi per dissimularne le lagrime. Vidi lo sforzo ch'egli faceva per contenersi, baciandomi sulle labbra; ma quel bacio commosso non aveva il febbrile trasporto di una volta, che gli avrebbe fatto stringere il mio corpo fra le sue braccia fino a soffocarmi... Fu solo.. quasi triste.. « - Tu scrivi? - gli diss'io con un coraggio di cui non mi sarei creduta mai capace. «Come colto in fallo egli abbassò gli occhi sulle carte che gli stavano ammonticchiate dinanzi alla rinfusa, e rispose con un cenno del capo, quasi avesse dubitato di avere la mia forza. « - Scrivi a tua madre, Pietro... Le hai detto che fra quindici giorni sarai da lei?... «Questa volta egli non rispose e si recò la mia mano alle labbra. «Mi portai l'altra al cuore, per comprimerne i battiti, dei quali il rumore mi spaventava. «Oh, signor Raimondo... un uomo di ferro avrebbe avuto pietà di quest'agonia straziante, che mi affascinava però colla forza stessa del dolore, che mi strascinava a misurare tutta l'estensione della mia disgrazia... Pietro!... egli!.. non ebbe pietà di quest'agonia, che pure avrebbe dovuto indovinare dalla calma disperata del mio accento, dal tremito convulso delle mie braccia, che si appoggiavano alla sua spalla, dalla terribile tensione del dolore che inaridiva le lagrime sulla mia orbita... Egli non ebbe una parola... una sola!... o piuttosto non ne ebbe la forza... Egli rimase colle labbra fredde e tremanti sulla mia mano, che recava quella percezione al cuore come una stilettata, cercandovi forse la forza di rispondermi. «Un impeto cieco, disperato mi spingeva. « - Son venuta a chiederti una grazia, Pietro, - gli dissi; - questi ultimi quindici giorni che hai avuto la bontà di concedermi... io... io vorrei passarli in Aci-Castello... su quella bella spiaggia che visitammo sì spesso nelle nostre passeggiate notturne... Siamo al 28 di Ottobre, il 13 di Novembre partirai. «Speravo ch'egli soffocandomi dei suoi baci, avesse annullata la sua risoluzione della sera... Non fu nulla di ciò... « - Oggi stesso manderò Giuseppe ad affittarvi un casino: - mi rispose stringendomi le mani e figgendomi gli occhi in volto come cercandovi la spiegazione di quel desiderio; - e domani partiremo. Vuoi che usciamo assieme oggi? «Quella domanda fu il mio colpo di grazia: quando egli mi amava come un pazzo mi avrebbe pregata di non uscire; in appresso non mi avrebbe fatto quella domanda poichè non si sarebbe potuto supporre che l'uno di noi potesse uscir solo... negli ultimi giorni mi amava ancora abbastanza per non propormi una passeggiata come un compenso, come per ringraziarmi del sacrifizio che gli facevo, ciò che equivaleva a dichiararmela una compiacenza, come avea fatto in quel momento. «Mi voltai a cogliere un fiore da un vaso di porcellana per recare il fazzoletto alla bocca... Mi sentivo soffocare... Ebbi appena la forza di mormorargli: « - No... no... grazie... Non uscirò tutta la giornata... «Io stessa non udii il suono di quelle parole... Forse neanche egli le avrà udite... Uscii barcollando, operando uno sforzo supremo per dominare il mio dolore immenso, aggrappandomi alle tende che incontravo per non cadere... Nel mio salotto caddi su di una duchesse, annichilata. «Pietro passò al mio fianco tutto il giorno. Mi faceva una pena orribile a vedere gli sforzi che faceva per contenere la sua commozione, per combattere la lotta che ferveva in lui, per mantenersi saldo nella risoluzione che parea essersi fissata, e che quei momenti avevano fatto ondeggiare in lui... Egli fu amoroso con me, come si può esserlo sino ai limiti della commozione, senza il trasporto però della passione, di quell'amore caldo, cieco, irresistibile, quale egli me l'avea fatto provare, quale ormai m'era necessario per vivere, quale avrebbemi fatto dimenticare, almeno, per un'ora, in un bacio, tutta l'estensione dell'immensa sventura che mi percuoteva. «Egli non ebbe una parola, non una sola parola che alludesse alla nostra separazione; ma neanche un'altra che la facesse mettere in dubbio. «Un momento mi parve cattivo e spietato quell'uomo che non mi amava più. «Poi gli baciai le mani, delirante, piangendo a calde lagrime; gli avvinchiai le braccia al collo e lo soffocai quasi fra le mie lagrime e i miei baci, come se avessi voluto farmi perdonare la triste impressione di quel momento. «Giammai! giammai io ho amato Pietro di quest'amore immenso, frenetico, divorante di cui l'ho amato in quel punto... «L'indomani partimmo per Aci-Castello. «No! se anche scrivessi questi versi col sangue che tale tortura ha stillato dal mio cuore, io non potrei arrivare a descrivere tutto lo strazio ineffabile di quest'agonia immensa che è durata 15 giorni; in cui ho dovuto divorare lo mie lagrime; soffocare gli urli disperati del mio cuore, perchè m'impedivano di vedere, di sentire come ogni ora di più il cuore di lui s'allontani dal mio; come quelle sensazioni impercettibili, che formavano l'amore sovrumano di cui quest'uomo mi adorava, vadano morendo in lui... lo non potrò esprimere quello che ho provato di orribile in tutta l'intensità del dolore, quando, con la terribile lucidità che mi dà la mia angoscia, ho letto chiaramente in quel cuore... troppo chiaramente, per mia sventura!... la sorpresa, la tristezza di lui, direi anche, il rimorso delle perdute illusioni del suo amore di un tempo che cerca invano... lo l'ho veduto quell'uomo, quel cuore, chiudere gli occhi, immergersi nel vortice delle più tempestose carezze, soffocarmi coi più febbrili trasporti... frenetico... furibondo quasi, cercando quelle illusioni che avea adorato in me... e nulla!!... nulla!!... e staccarsene pallido, annichilato... quasi piangendo come un fanciullo, guardandosi attorno come smemorato, come cercando ancora quelle sensazioni che non sa più trovare in me... e che io!!!... disgraziata!!... io non posso più dargli!!... «Oh, signore! nessuno!... no! nessuno potrà mai arrivare a comprendere la sublime agonia di quell'istante! «Dio!... Dio mio!... se impazzissi! «No! Dio non è giusto! No! Dio non ha pietà di questo dolore sovrumano! «Pietro è triste, malinconico ogni giorno di più, la pietà istessa che risento di me, di quest'amore di cui l'amo, ch'egli comprende, e del quale non può contraccambiarmi, malgrado tutti i suoi sforzi generosi, questa pietà lo distacca da me, lo fa fuggire, come se temesse di trovare un rimorso nei miei occhi, che, Dio sa con qual coraggio gli nascondono quello che si passa in me. Egli è sdegnato contro se stesso e dolente della simulazione che deve imporsi per compassione di me, delle menzogne che deve giurarmi col volto cosperso del rossore della vergogna. La notte lo sento passeggiare spesso sino all'alba, ora in cui parte per la caccia, e non ritorna che a sera, stanco, spossato, come se avesse voluto nella stanchezza dei sensi addormentare il rimorso del suo amore perduto, e trovarvi una pace che la tempesta delle sue passioni non gli accorda giammai. Eppure, dopo queste corse che hanno gonfiato i suoi piedi, che hanno logorato le suo forze sino alla prostrazione, egli non trova sonno nel letto... egli si stanca ancora a passeggiare per la sua camera... «Qualche volta ho trovato l'indomani il suo fazzoletto e i suoi guanciali umidi: al sapore acre ho conosciuto che erano lagrime... «Lui! questo carattere orgoglioso e forte, quest'uomo di ferro... ha pianto!... ha pianto di dolore, di rimorso, di rabbia, per quest'amore che gli sfugge, che vorrebbe imporsi. «No!.. tale martirio non può durare per entrambi... Io sarò forte!... sì, quest'amore istesso me ne darà la forza. «Morire, mio Dio! morire nelle sue braccia almeno... addormentata dalle sue carezze!... «Abbiamo passato 13 giorni su questa spiaggia che mi sembra deliziosa, malgrado le ore crudeli che vi ho provate. Si dice che il dolore rende fosche le tinte più brillanti del luogo ove si prova... Anch'io ho sentito ciò altravolta; ma quì, in questi ultimi giorni, questi luoghi io li ho amati nei loro minimi particolari; forse perchè mi è caro anche il dolore di quest'agonia che posso provare vicino a lui. «Nel momento in cui scrivo per parlare di lui, per illudermi con lui... sola, di notte, nella mia camera da letto... vedo, attraverso le tende della mia finestra aperta, sbattute dal vento tempestoso di questi ultimi giorni d'autunno che spoglia gli alberi delle foglie, la massa antica, imponente, severamente e grandemente poetica del vecchio e rovinoso castello che pende da una balza suI mare; coi suoi muri massicci e screpolati, sui quali stridono i gufi in mezzo alle ginestre che vi germogliano, che disegnano Ia loro massa bruna su questo cielo trasparente ove risplende la più bella luna del mondo; con questo mare immenso, lucido, che da questa lontananza sembra calmo e lievemente increspato e che muggisce colla sua voce potente fra i precipizii dell'abisso che circonda le fondamenta del castello. «L'altro giorno volli vedere questo castello a metà distrutto, su cui sembra talvolta vedere ancora passeggiare le scolte luccicanti di ferro fra i merli dei torrioni; che mi fa vivere in mezzo agli uomini di una volta che l'hanno abitato coi vivi ricordi che tramanda e che sembrano infondersi incancellabilmente alla sua vista. Pietro volle dissuadermene, dicendo che la strada per giungervi era molto pericolosa per una donna. « - Non sarai tu con me? - gli dissi, come se mi fosse stato impossibile un accidente vicino a lui, o come se quest'infortunio avessi dovuto amarlo, dividendolo con lui. «Egli... costui, cui l'amore avea dato squisite percezioni, cui avea fatto oprare un miracolo di genio e di sentimento nel suo dramma, capì appena tutto il senso di quelle parole. «Mi diede il braccio, come per nascondermi il suo imbarazzo, e mi accompagnò alla salita che precede l'ingresso della rocca. «I muri della torre principale che guardano il paesetto, sembrano di un'altezza smisurata, guardati dal basso, in quel punto, elevati come sono su di un immenso scoglio che dalla parte del mezzogiorno sospende le sue torri sul mare. Due tavoloni di querce sono gettati su di un arco in rovina per traversare l'abisso orribile che si stende al di sotto, in fondo al quale mormora il mare di un sordo rumore, e che fa venire le vertigini al solo guardarlo. «Pietro passò innanzi e mi porse la mano raccomandandomi di non guardare il precipizio per non avere la vertigine; all'incontro io provavo un'affascinante sensazione nel mirare quella gola oscura, a quasi duecento piedi sotto di noi, ove, fra le acute punte degli scogli, biancheggiava la spuma minuta delle onde rotte e imprigionate nella caverna, su cui l'assito che ci sosteneva si piegava sotto il peso dei nostri corpi scricchiolando. «Se cadessimo,qui, abbracciati! - esclamai io quasi involontariamente, stringendo la mano di Pietro che mi guidava. «Mi pareva più dolce quella morte; e preferibile alle torture che provavo, e che supponevo anche in lui. « - Quale pazzia! - mormorò egli stringendo il mio braccio, come per prevenire l'effetto di un capogiro, e accelerando il passo, che avea reso ardito e sicuro, quasi per garantire la mia vita ch'eragli sospesa. «Egli non ha detto: Che cara pazzia!... Ha detto semplicemente: Quale pazzia!... «Ho veduto dalla sommità di quelle torri questo mare azzurro che si confonde con il ceruleo dell'orizzonte, che si stende nella sua grande immobilità in lontananza e freme e spumeggia ai miei piedi; ho veduto quelle barche che sembravano giocatoli da quell'altezza, quel litorale sparso di ville e di paesetti, e Catania... Catania ove Pietro mi aveva tanto amato... «Vi fissai un lungo sguardo, non avvertendo le lagrime che bagnavano le mie guance. « - Che guardi? - mi domandò egli, come se mi avesse domandato: Perchè piangi? « - Catania! - risposi colla voce ancora tremante. «Egli sentì forse tutto quanto vi era di passione e di rimembranze in quella parola; e lo provò anch'egli fors'anche in quel momento, poichè soggiunse, come cedendo ad una generosa risoluzione: « - Vuoi che ritorniamo a Catania? «Non risposi e restai cogli occhi umidi e fissi sul golfo in fondo al quale biancheggiavano le cupole che indicavano la città, appoggiandomi al braccio di lui. Sentivo quanto vi era di nobile sacrifizio in quella proposta; ciò ch'escludeva l'amore, ch'era quello che mi bisognava. « - Dov'è Siracusa? - domandai poscia, come non accorgendomene, cedendo ad un intimo impulso. «Pietro mi additò un punto tra mezzogiorno e ponente, dietro il Capo Passaro che si vedeva distintamente, ove dovea essere il suo paese natale. « - Perchè non mi conduci a Siracusa piuttosto? - gli dissi gettandogli le braccia al collo, singhiozzando e fissando nei suoi i miei occhi brillanti di lagrime. Egli abbassò gli occhi, baciandomi le mani, e rispose, dopo avere esitato un istante: « - Se lo vuoi... « - No! Io non lo voglio... Ciò che io voglio è il tuo amore! il tuo amore sfrenato, ardente, quale lo sentivi per me, quale cerchi ancora come smanioso e non sai più trovare, quale io spero qualche volta illudendomi, e tento tutte le occasioni per travedere in te... e non m'accorgo, pazza, disgraziata ch'io sono, che tu non lo trovi... che tu hai la generosità, la nobiltà di fingerlo meco; ciò di cui senti rimorso;... e che tutto... tutto!... perfino le tue carezze, perfino i tuoi sacrifizii mi dimostrano che tu non senti più per me... « - Partiamo! - soggiunsi poco dopo strascinandolo pel braccio, soffocando l'emozione che sentivo prorompere nell'eccitazione della corsa, poichè mi sentivo morire. «L'ultimo raggio di sole rischiarava ancora i merli della più alta torre, e nell'abisso che dovevamo traversare era buio profondo; e gli echi ne erano mugghianti; e gli sprazzi di spuma biancheggiavano come giganteschi fantasmi. «Un momento mi sembrò che l'immenso fascino di quello spaventevole abisso attraesse l'abisso doloroso del mio cuore; che quei bianchi fantasmi mi stendessero le braccia come a prepararmi un letto eterno che dovesse accogliermi assieme all'uomo che adoravo tanto più freneticamente quanto più lo vedevo allontanarsi da me... Un momento il mio piede si stese sul precipizio e la mia mano strinse più forte la sua per allacciarlo in un modo che nulla sarebbe valso a rapirmelo mai più... « - No! no! gridò il mio cuore gemente: no!... ch'egli viva! ch'egli sia felice!... io non potrò mai essergli grata abbastanza dei giorni che mi ha dato, dei sacrifizi che ha avuto la bontà d'imporsi per me!... Ch'egli sia felice... anche con un'altra!... « Un'altra!... Ecco quell'idea terribile, sanguinosa, che mi ha attraversato il cuore come un ferro infuocato, e alla quale non avrei forse saputo resistere se ci avessi prima pensato... «Mi avvidi, quasi con gioia, come se fossi stata salvata da un immenso pericolo, che camminavamo sul selciato della strada. «Una o due volte, in quella notte agitata e febbrile passata al davanzale della mia finestra, ho avuto dei momenti di speranza, d'illusione, speranza tale che mi faceva mettere dei gridi di gioia, che mi faceva comprimere le tempia fra le mani, quasi le arterie che battevano di felicità, minacciassero di sconvolgermi la ragione... Egli mi avea proposto di accompagnarmi a Catania!... egli aveva avuto forse un istante d'amore per me!... dell'amore di una volta!... «Oh! Dio! Dio!... morire almeno in tal momento!... «Ieri volli uscire con lui; volli fare una passeggiata in barca. Egli prese i remi, ed entrambi, soli, ci cullammo nella piccola barchetta da pescatori su quelle onde azzurre come il cielo. «Quand'egli è solo, pensieroso, vicino a me... provo un momento di dubbio, d'incertezza... Mi pare di sperare, mi pare di averlo mio! tutto mio!... e che nulla abbia potenza di strapparlo all'amplesso frenetico delle mie braccia. «Appena fummo al largo egli lasciò i remi e venne a prendere la mia mano. «Lo guardai come non l'avevo mai guardato: sentivo che non potevo amarlo di più di quanto io l'amavo in quel momento; mi pareva impossibile ch'egli dovesse lasciarmi il dopodomani. «Egli baciava le mie mani, e sostava per guardarle in silenzio, come se avesse temuto di alzare gli occhi nei miei, e per tornare a baciarle... Le sentii umide delle sue lagrime. « - Pietro! - esclamai palpitante di una sublime emozione, mentre tutti i pori del mio cuore si dilatavano ad assorbire le inebbrianti emanazioni di una lusinghiera speranza; - ieri ti pregai di condurmi a Siracusa!... con te... «Egli non potè più frenare il pianto, e scosse la testa tristamente. « - Impossibile! - mormorò con un soffio appena intelligibile. « - Impossibile?... - ripetei radunando tutte le forze di cui mi sentivo capace; - e perchè, Pietro?!... « - Oh! grazia! grazia, Narcisa! - singhiozzò egli stringendomi fra le sue braccia, nascondendo la sua testa nel mio petto: - grazia!... io sono molto vile!!... «Era orribile a vedersi l'angoscia disperata di quel volto energico, l'annichilamento completo di quel carattere di bronzo. « - Sì, io son vile! io son colpevole! io sono infame!... - seguitò con voce delirante: - oh! grazia, Narcisa!... «L'amavo tanto che non sentii tutto lo spasimo sublime che quelle parole mi facevano provare: ebbi soltanto pietà di lui. «Lo abbracciai; piangendo anch'io; tremando convulsivamente del suo tremito; mischiando le mie labbra alle sue. « - Dillo! Pietro... dillo! - gridai con disperato sforzo di volontà, - tu non mi ami più!... tu non mi ami più come prima! «Egli rimase abbattuto, in silenzio, sulla panchetta della barca. «Quel silenzio durò cinque minuti. «Quando risollevò il volto fui atterrita dallo spaventevole pallore che copriva i suoi lineamenti solcati profondamente. « - Ascoltami, Narcisa! - cominciò egli con voce solenne, quasi calma: - io ho un sacro dovere di gratitudine verso di te... dovere che mi fanno care le reminiscenze che non potrò dimenticare giammai, e che formano ora il mio inferno... Eppure, te lo giurò sul mio onore, io non mi trovo colpevole... no!... che soltanto queste reminiscenze mi restino ora vicino a te... Tu hai il diritto di disporre di me, in tutto... Io sacrificherò al dovere quello che avrei sacrificato all'amore, e farò quanto è possibile all'uomo per renderti la tua felicità. Ho tanto provato di sì immenso nella voluttà del godimento, nel delirio dell'esser felice che forse all'uomo non è concesso di godere... e Dio mi punisce col soffiare su tutte quelle sensazioni che formavano il mio amore... che cerco invano da due mesi... e spegnerle per me. Nel tremito ardente dei tuoi labbri sul tiepore della tua pelle rosata, nelle nervose e convulse pressioni delle tue braccia, nel delirio fervente delle tue carezze; ho cercato invano un atomo, un atomo solo, di quello che provavo d'arcano, d'indefinibile, di più che terreno, quando, seduto sul lastrico della. strada, ti vedevo al verone, ciò che formava il delirio dei miei sogni; che nei primi trasporti del possederti, quando mi pareva di divenir folle per la felicità dell'amor tuo, io provai sino a quel parossismo del godimento che ci annienta, direi, nel godimento istesso, e che ci lascia sbalorditi della sua estensione. lo ho cercato invano questo profumo, questo vapore che ti circondava d'incenso come gli angeli, e in cui non osavo immergermi per timore di perdervi la ragione o di perdervi l'illusione... È duro, è crudele quello che dico... ma tu hai mente per apprezzarlo e cuore per perdonarmelo... come mi hai perdonato tutto quello che ti ho fatto soffrire da due mesi, che mi son rimproverato, e di cui il rimorso mi lacera... Quello che io piango, Narcisa, è l'amore che ho provato e che non posso più trovare... che cerco assetato per inebbriarmene, poichè la sete che ne ho è ardente, divoratrice, e che mi fugge sempre dinanzi come un fuoco fatuo... Io avrei paura, rimanendoti più a lungo vicino, che la stanchezza dell'animo non vincesse anche il desiderio ineffabile che ho di quest'amore... e che tutto questo tesoro di diletti che trovasi in te, di cui m'abbeverai forse sino all'ebbrietà, non vada perduto dell'intutto per me! Oh! io ho paura di ciò, Narcisa!... poichè la speranza di riamarti un giorno come ti ho amato, m'impedisce che mi bruci le cervella, non avendo più nulla a godere sulla terra. Bisogna che io mi allontani da te per qualche tempo, ch'io torni a dubitare della felicità che ho goduto... ch'io dubiti della speranza fin anche di questa felicità, per esser pazzo di te come ero quando passavo le notti innanzi la tua casa senza sperare un'occhiata da te... bisogna che io ti vegga ancora lontana da me, in mezzo allo pompe del tuo lusso, all'incanto delle tue seduzioni, per cercarti ansioso, cieco, folle, come allora; e stendere le braccia, delirante, invocando un altro sorso di questa coppa fatata... a cui fui tanto stolto da bere troppo... «Egli non potè più proseguire, soffocato dalla violenza della sua commozione; tenendosi il petto colle mani increspate da una violenta contrazione; inginocchiato ai miei piedi; coll'occhio luccicante di una fosca luce sul pallore quasi tetro del suo volto; coi capelli irti sulla fronte madida di freddo sudore. «Quest'addio che quel cuore mi dava era grande, era sublime, come l'amore di cui m'aveva amato. «Lo sollevai fra le mie braccia; lo baciai in fronte, sentendomi ancor io fredda di sudore ghiacciato, provando una forte risoluzione che quelle parole infondevanmi, la quale correva al cuore, quasi con gli smarrimenti di una vertigine, insieme al sangue che da tutte le vene vi affluiva. « - Addio dunque! - gli dissi con una calma nella voce della quale io stessa ero atterrita: - Addio, Pietro!... «Egli cercò i miei labbri coi suoi freddi, tremanti d'angoscia e di voluttà. « - Addio!... gli mormorarono ancora i miei labbri palpitanti nei suoi. - E svenni fra le sue braccia.

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A proposito... potremmo approfittare dell'invito dei signori A***, che abbiamo per stassera. - Vi si balla? - Sì. - Andiamo, in tal caso! M'immaginerò di ballare colla mia bella Piemontese; - aggiunse Brusio, forzando le labbra ad un sorriso. Essi furono accolti con festa dall'allegra brigata che era radunata nel salone. Pietro sedette al pianoforte e suonò un valtzer, che otto o dieci coppie ballarono. - Vi lasciaste molto aspettare, signorini! - disse in tuono di scherzevole rimprovero una graziosa giovanetta, figlia del padrone di casa e maritata ad un cugino di Raimondo, appena Pietro andò a raggiungere sul divano il suo amico, ch'era seduto vicino alla signora. - È che Pietro, qui presente, è innamorato cotto; e abbiemo fatto la ronda alla bella; - disse Angiolini ridendo. - Davvero!... non mi sorprende in lei, signorino, questa novità... E chi sarebbe questa sventurata?... - Parola d'onore, signora, che lo sventurato son io, almeno sta volta; - rispose Pietro. - Lei?!... È da ridere!... E di chi sarebbe innamorato, s'è lecito? - Molto lecito, al contrario! Giacchè non ho il bene di conoscerne neanche il nome... - Ed ella conosce lei, almeno? - No. La signora diede in uno scoppio di risa. - E l'ama, a quanta dice? - Come un pazzo! - Dove l' incontra? - Qualche volta al passeggio, o alla Marina... E poi so dove trovarla... - Dove? - A casa sua. - Dunque va in casa? - No; dal verone. - Ah! è amore da verone! - esclamò la giovane ridendo semprepiù come una folle; e dove abita questa meraviglia? - Al Rinazzo, vicino il Laberinto. - Nella casa ***? - Precisamente. - Una giovane alta, sottile, molto elegante... non tanto bella in verità? - Può essere... ciò è relativo... - E forestiera? - Forestiera. Credo sia piemontese. - La conosco. - Sul serio? - So il suo nome, almeno potrò insegnarglielo e non farle fare più la figura dell'amante della luna. - Com si chiama? - Si chiama Narcisa Valderi? - Narcisa!... - bel nome; si direbbe averlo ricevuto a vent'anni? E la conosce molto? - Cioè... non molto. Sono stata in sua casa due o tre volte. - Mi parli di lei... a lungo!... - Ella finge di scherzare, signorino, ma ha lo sguardo troppo acceso per dissimulare che quello che dice, lo sente davvero. - Sì, è vero!... Ma se le giuro che l'adoro, colei!... - L'ha veduta davvicino? - domandò in tuono quasi derisorio la giovane. - Sì. - È tutta toletta! ... - Io amo appunto in lei questa toletta, questo lusso, questo apparato brillante e vaporoso in cui la farfalla mi fa dimenticare il bruco. - Via, via.... vedo bene che scherza... - Dica dunque... - Ella si alza alle dieci o alle dieci e mezzo; prende un bagno di cui i profumi costano ciascun giorno otto o nove lire; e poi si mette allo specchio, ove impiega da un'ora e mezzo a duo ore per l'abbigliamento della mattina, da due a tre per quello della sera, e da tre a tre e mezzo, e spesso sino a quattro per la toletta da ballo o da teatro... È sorprendente... miracoloso, come una donna possa star tanto ad appuntarsi gli spilli!... - Ammirabile!... Avanti. - Dopo la toletta viene la colazione: ella ha l'affettazione di mangiare pochissimo, ma i suoi cibi costano un occhio del capo, in compenso; indi si mette al pianoforte, o al verone, sdraiata su di una poltroncina, e vi resta, spesso dormendo, sino all'ora di pranzo. Suo marito... - Un uomo di quasi 38 anni, alto e biondo? - Sì, il conte di Prato; lo conosce? - Me l'immagino. - Suo marito l'ama alla follia; passa i giorni al suo fianco, scherzando coi suoi capelli, e guardandola coll'occhialetto di faccia a faccia. - Ed ella?... - Ella gli sorride... e chiude gli occhi come se temesse di fargli perdere la testa seguitando a guardarlo com'ella fa. - In fede mia!... credo che n'abbia ben ragione!... - Questi dettagli li ho risaputi da una mia amica che abita dirimpetto alla casa della contessa... - En place pour la quadrille! fu gridato. Pietro si alzò e prese il cappello. - Se ne va, così presto! - Sì; devo andare a finire le tesi... - O a passare una mezz'ora sotto le finestre della bella?... - Sarebbe agire da stolido, almeno, dopo quanto ella mi ha detto. Ed il giovane sorrise del suo sorriso che si sforzava di rendere allegro mentre era amaro. Per andare a casa sua prese la strada che a lui parve la più corta, passando cioè dal Rinazzo. Nella casa della contessa non c'era lume. Pietro si fermò a guardare in silenzio quei veroni oscuri, poscia chinò la testa sul petto con un sospiro, mormorando: - Stassera al teatro si dà un dramma molto in voga... È al teatro certamente... ella... Indi, come vergognandosi di questo monologo, scrollò le spalle con dispetto ed affrettò il passo. - Andiamo a teatro stassera? - disse a Raimondo l'indomani appena furono assieme. - Andiamoci, se così ti piace. E le tesi? - Dormiranno anche stassera. Avrò sempre il tempo di finirle. Alla piazza della Cattedrale incontrarono un amico che si fermò a discorrere con loro. - Andrete a teatro stassera? - domandò egli. - Perchè questa domanda? - Perchè si darà una bellissima commedia nuova e ci verrà tutto Catania. - Ci sarò allora... poichè in tal caso verrà anche la mia bella; - disse Pietro scherzando. - Ah!... Ah!... la tua bella di numero... Non so più a qual numero sii... buona lana! - Sul serio; sono innamorato come uno stolido. - E di chi? - Di una signora ch'è una maga... involta fra i merletti e i velluti... della quale so il nome da ieri soltanto. - La contessa di Prato? - La conosci? - Per bacco! Al ritratto che ne fai... non c'è altra qui che possa appropriarselo. - È veritiero però questo ritratto? - Perdio!... E tu l'ami costei?!... Non so quello che farei per una parola di quella donna... - Non ci sarebbe bisogno di far tante cose; basterebbe farti amico con suo marito... ed anche col suo amante; ed uno di questi due ti presenterebbe... il resto verrebbe da sè. - Amante! - esclamò Pietro impallidendo suo malgrado mentre cercava di sorridere: - ah! c'e dunque un amante? - Pel momento però.... bada!... A Napoli sembra che sieno stati più d'uno; ciò che diede luogo a molti scandali, che finirono con un duello in cui il marito ruppe, con una sciabolata, il braccio ad uno dei più indiscreti. - E ciò non è bastato? - Ella fa quello che vuole di quest'uomo che comanda col gesto del suo dito mignolo; e che ha il coraggio di andare a battersi in duello mentre non osa fare la minima rimostranza alla moglie. È la storia di molti mariti. - E quel giovane bruno, dalla barba nera, che l'accompagna spesso?... - È l'amante di cui ti parlavo. - Che peccato! - esclamò Pietro fatto pensieroso. - Fatti presentare: - insistè Antonino. - Io!... - esclamò, con un accento indefinibile di stupore, Pietro. - Sì; tu sarai il secondo dei suoi adoratori presenti, senza calcolare gli assenti... Perdio! perchè ti fai triste?... ne saresti innamorato sul serio?... - Sei tanto ingenuo da crederlo? - Fatti presentare allora. - Sarebbe inutile. - Chi lo sa! - La mia condizione mi proibisce di averla a prezzo d'una viltà, e non ho danari bastanti per mettermi nel numero di questi signori che le fanno la corte... Del resto sento che non son fatto sul loro stampo... poichè non saprei amarla in comune, com'essi fanno... - Dimenticala dunque. - Non ci ho mai pensato che come uno scherzo. - A rivederci stassera. - Addio. Alle nove e mezzo i due inseparabili amici erano alla porta del teatro, in mezzo alla folla dei giovanotti che fumando stavano ad osservare le signore che scendevano dalle carrozze. La recita era cominciata da cinque minuti. I giovanotti erano entrati a prender posto. Raimondo strepitava, tentando di strascinare l'amico, poichè protestava di non voler perdere la prima scena. L'ultima carrozza avea deposto l'ultima signora sul marciapiede, e Brusio non si muoveva ancora. Raimondo finalmente perdè la pazienza e lo lasciò solo per entrare in platea. Poco dopo le dieci si udì il rumore di una carrozza che si avvicinava; ed il solo orecchio di Pietro potè distinguere che il passo dei cavalli non avea l'uniforme regolarità di quello dei cavalli signorili. - Una carrozza da nolo... è la sua! - mormorò egli appoggiandosi alla porta. La carrozza si fermò infatti alla prima porta, ov'egli si trovava, ed un uomo, nel quale Pietro riconobbe il conte, saltò il primo a terra, per dare la mano alla signora che accompagnava. Brusio istintivamente fece un passo in avanti. La contessa appoggiò appena alla mano del signor di Prato la sua mano da ragazzina coperta dal guanto bianco; mise lentamente il piede, che sembrava appena accennato nel suo stivalettino di raso, sul predellino, e saltò sul marciapiede. Con un perfezione di grazia assai distinta, ella tirò con se il lungo strascico della sua veste di seta granadine, per impedire che rialzandosi nello scendere scoprisse più del basso della sua gamba sottile e ben modellata. Soltanto, non potendo, nel tempo istesso, raccorre il burnous che le copriva le spalle, questo, nel momento in cui curvava fuori dello sportello la sua testolina ornata di fiori, le scivolò per le spalle e per gli omeri nudi di un'abbagliante bianchezza. Quell'uomo che, solo e fermo sull'ingresso, dimostrava chiaramente di attendere qualcheduno, mentre tutti erano dentro il teatro, le recò forse sorpresa, poichè, passando dinanzi a lui, mentre raccoglieva le pieghe della sua veste perchè non lo sfiorassero, ella alzò un momento gli occhi su di lui. Indi, come infastidita da quello sguardo scintillante che s'incrociava col suo e che sembrava assorbirne tutto il fluido, ella si volse un istante verso il conte, che dava alcuni ordini al cocchiere, prima di salire le scale del corridoio. Vi fu un momento, quando un lembo del leggerissimo tessuto di quella veste strisciò sui suoi abiti, che le gambe di Pietro tremarono. Pochi minuti dopo egli si diresse lentamente verso la platea. Entrando, il riflesso dei cristalli di un occhialetto fisso sulla porta colpì i suoi sguardi. Alzò gli occhi su quel palchetto della prima fila da dove partiva quel raggio, e vide la contessa che abbassava lentamente l'occhialetto, appoggiandolo, col braccio disteso, sul velluto del parapetto, mentre lo fissava ancora ad occhio nudo, quasi con curiosità: aveva voluto conoscere certamente, per una bizzarìa da donna elegante, quest'uomo che aspettava sull'ingresso, tre quarti d'ora dopo alzata la tela. Pietro cercò il suo posto e sedette quasi dirimpetto alla loggia della contessa. La commedia fu applauditissima; ma Pietro non applaudì giammai, poichè soltanto alcuni squarci attrassero la sua attenzione; e in quegli squarci, quando il suo cuore provava potentemente quello che aveva sentite l'autore, egli rivolgevasi, senza accorgersene anche, verso il palchetto di Narcisa, e cercava negli occhi di lei l'eco di quello che egli provava nel suo cuore. La contessa voltava le spalle alla scena; e solo di tratto in tratto, in quei momenti che avevano il potere di strappare Pietro alle sue frequenti preoccupazioni, ella volgeva i suoi limpidi occhi verso gli attori. Del resto ella discorreva qualche volta con i numerosi visitatori che occupavano successivamente le seggiole del suo palchetto; e pochissime volte si servì dell'occhialetto per esaminare le tolette delle signore. Giammai però l'abbassò verso la platea. Nel suo sguardo, nel suo gesto, nella sua attitudine, fin nel modo in cui parlava e sorrideva qualche volta con quei signori che le tenevano compagnia, n'era un'indefinibile espressione di stanchezza e di noia, che si traduceva in sfumature molli, in pose voluttuosamente accidiose. L'occhialetto di Pietro stava quasi sempre fissato su quella loggia. Due o tre volte, ella, come sorpresa di quella molesta assiduità, volse gli occhi verso quel binocolo che aveva l'indiscretezza di guardarla sì a lungo dalla platea. Una volta infine alzò lentamente il suo, e bruscamente, senza quelle transazioni che sono assai comuni in teatro per mascherare il vero scopo, ella lo fissò di contro a quello del giovane che si abbassò subito. Ella rimase alcuni secondi in quella positura; indi lasciò quasi cadere sul parapetto il binocolo, e fece un leggiero movimento di spalle d'impazienza. Prima di terminare la recita Brusio lasciò il suo posto e si recò sul corridoio. ll suo occhio era acceso e brillante; le sue gote, abitualmente pallide, si coloravano di un rossigno febbrile. Pochi minuti dopo, prima ancora che il sipario fosse abbassato, udì aprire la porta di un palchetto sul corridoio, e dei passi che si avvicinavano, mischiandosi al fruscio d'una veste. La contessa gli passò dinanzi, questa volta allegra e ridente, al braccio di uno di coloro ch'erano stati nel suo palchetto. Pietro in quel momento avrebbe dato dieci anni della sua vita per uno sguardo di quella donna. Le sue vesti lo toccarono senza che ella mostrasse di avvedersi di lui. Solo il conte si volse a fissarlo con occhio assai cupo e sospettoso. Il giovane scese le scale quasi insieme a lei; la vide montare in carrozza col conte, dopo aver dato la mano agli altri, e partire. Egli rimase immobile sul limitare. - Non vai a casa? - gli disse alle spalle la voce di Raimondo. - Sì... ti aspettavo per dirti addio... - A domani, non è vero? - Non lo so... Avrò forse da studiare tutto il giorno... E s'incamminò lentamente per la Marina. A due ore del mattino Raimondo si disponeva tranquillamente ad andare a letto, quando fu bussato con furia alla sua porta. - Chi può essere a quest'ora? - disse fra di se il giovane sorpreso andando ad aprire. - Son io, Raimondo... son io! Apritemi, di grazia! - udì la voce della signora Brusio, quasi delirante dietro la porta. - Che c'è, signora?... Dio mio!... ella mi spaventa! - esclamò il giovane introducendo la madre del suo amico nella sua camera. - Pietro!... Dov'è Pietro? Dov'è mio figlio, signor Angiolini? - disse la povera madre colle lagrime agli occhi. - Pietro non è in casa? - domandò. Raimondo vieppiù sorpreso. - Son due ore del mattino e mio figlio non si è ancora ritirato... Ho mandato il domestico a cercarlo al teatro, e ritornò dicendo che il teatro era chiuso da un pezzo, ma che sulla porta era avvenuta una rissa fra alcuni giovanotti; che vi erano stati dei feriti e degli arrestati... Mio Dio!... gli sarà accaduta qualche disgrazia... Dove lo lasciaste voi?... - Ci separammo all'ingresso del teatro, e mi disse che andava subito a casa... Ma io non so nulla di risse... - Dio!... Dio mio!... - singhiozzò la madre torcendosi le braccia, - come farò, Dio mio, come farò!... Son sola, sig. Angiolini, son sola!... Mio figlio!... chi sa cosa n'è di mio figlio!... Aiutatemi; corriamo all'ufficio di Questura a prendere informazioni... - Non si disperi, signora; spero ricondurle Pietro al più presto, senza alcun accidente. Abbia la bontà di aspettarmi qui. Raimondo, indossato in fretta un abito, prese il cappello ed uscì. Dando campo ad un sospetto che gli era balenato in mente mentre la signora Brusio si disperava per l'inusitata e straordinaria tardanza dl figlio suo, e per la notizia che il domestico le avea rapportato, egli si diresse per la strada Stericorea ed indi per quella Etnea, verso la casa ove abitava la contessa di Prato. Giungendo sotto i veroni, sul marciapiede di faccia, gli sembrò di vedere qualche cosa di nero immobile sul lastrico. Si avvicinò esitante e lo chiamò per nome a voce bassa. - Che vuoi? rispose una voce rauca e ancora tremante, come se inghiottisse delle lagrime, che Raimondo avrebbe stentato a riconoscere, nel suo accento duro e quasi cupo, se gli fosse stata meno famigliare. Si appressò ancora, e vide il suo amico seduto sullo scaglione del marciapiede, coi gomiti sui ginocchi e il mento fra le mani. - Tu qui!... a quest'ora! - esclamò Raimondo. - Che vuoi, ti dico?! - replicò con maggiore asprezza Pietro. Non son forse più padrone di fare quello che mi piace?!... Raimondo capì che quello non era il momento di parlare al suo amico: e sospirando tristamente, poichè allora soltanto scoperse lo spaventoso abisso del precipizio su cui egli si cullava, sedette silenzioso al suo fianco. Pietro rimase muto, come non avvedendosene, cogli occhi, di una sorprendente lucidità, fissi sul lume che brillava dietro le tende di seta del verone. Qualche volta, a lunghi intervalli, egli trasaliva, ed una gocciola, come di sudore, che partiva dall'orbita, luccicava un momento solcando le sue guance. Ad un tratto egli afferrò con violenza il braccio di Raimondo. - Guarda!... guarda anche tu! - disse egli con la voce stridente ed interrotta del delirante o del pazzo. E si alzò, come se avesse voluto elevarsi sino al verone per meglio osservare. - Io non vedo niente, mormorò Raimondo che si fregava gli occhi inutilmente. Pietro, senza rispondergli, gli porse la busta del suo occhialetto che trasse dalla saccoccia del soprabito. - Guarda, ti dico!... c'è da diventar pazzo! Coll'aiuto dell'occhialetto Raimondo vide la contessa, presso le tende del verone, di cui le invetriate erano aperte, sdraiata nella sua favorita posizione languida e voluttuosa, su di una poltrona, ancora colla veste del teatro, coi capelli ancora intrecciati di fiori; ed un uomo, il conte, ritto dietro la spalliera della poltrona, che si chinava verso di lei, e le divideva coi baci i ricci da sulla fronte. Ella gli sorrideva del suo riso da sirena; e di quando in quando, allorchè il conte rimaneva come stordito nel fascino di quelle seduzioni mirabili di voluttà, ella gli prendeva le mani colle sue manine affilate e bianchissime, e se ne lisciava la fronte, e le nascondeva fra il setoso volume dei suoi capelli, e se le posava sugli occhi e sulle labbra, ma lentamente, con quel suo abbandono ch'era irresistibile, come se avesse voluto dare il tempo a tutte le emanazioni inebbrianti che scaturivano dai suoi pori di penetrare in lui sino al midollo delle ossa. Raimondo, quasi spaventato, pel suo amico, da quella vista, fu scosso dai singhiozzi di lui che prorompevano soffocati come singulti; e, riponendo tristamente nell'astuccio l'occhialetto, disse con tuono di chi prende una risoluzione: - Via, Pietro, è tempo di partire! Tua madre ti attende a casa mia! - Mia madre!... - esclamò il giovane con un sussulto che dimostrava come quella corda vibrasse ancora potentemente nel suo cuore; mentre tutte le altre erano allentate e sconvolte. - Sì, tua madre, spaventata dalla tua estraordinaria tardanza, che ti cerca da me come una pazza. - È tanto tardi dunque? - domandò egli come parlando io sogno. - Son le tre fra poco. - Non credevo fosse sì tardi... Hai ragione, andiamo via... bisogna essere uomini! Poscia si fermò in mezzo alla strada, quasi non avesse avuto la forza di staccarsi da quel punto. - Ben dicesti: bisogna essere uomini e non fanciulli! - replicò Raimondo, dando al suo accento la possibile espressione e strascinandolo in qualche modo per forza, mentre Pietro si lasciava condurre a capo chino come un ragazzo.

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Era, come abbiamo accennato, una stanza assai grande, illuminata da lampade ad olio, con alcune panche disposte in giro alle pareti, su di una delle quali sedevano un contrabasso, un violino ed un flauto che facevano saltare col movimento della polka una ventina di ballerini e ballerine. La vista del giovane in cappello a cilindro fece impressione certamente, poichè le danze furono sospese, e tutti si volsero a guardare con curiosità il nuovo venuto; poco dopo incominciò a farsi udire un mormorio di cattivo augurio contro quell'importuno che veniva a disturbare il loro passatempo. - Egli viene a ridere di noi... il signorino! - esclamò una delle donne, che si appoggiava alla spalla di un uomo atletico, vestito di velluto e di volto assai caratteristico. - Noi non andiamo a mischiarci alle sue smorfiose... quando esse si divertono!... - gridò un'altra. - Non vogliamo seccatori qui! non vogliamo spie! - urlò una terza voce, - Ora vado a prendere per le spalle questo piccino e te lo metto fuori, - disse l'uomo erculeo alla sua donna. E si avanzò, col cipiglio arrogante, verso di Brusio, il quale ancora esitava ad innoltrarsi. - Che vuoi tu? - gli disse colla voce dura dell'imperio che esercitava sui suoi compagni quando gli fu faccia a faccia, covrendolo quasi col suo largo petto e la sua alta statura. - Non ho da dirlo a te, nè a nessuno qui! - rispose il giovane irritato, quantunque avvinazzato, da quella brutale famigliarità, guardandolo fisso negli occhi. - Per Cristo! non hai da dirlo a me? - rispose sghignazzando il colosso. - Ma sai che qui sei in casa mia, e che se ti prendo fra l'indice ed il pollice ti stritolo?!... - S'è casa tua ci resto! - disse Pietro coll'ostinazione dell'ubbriachezza o del puntiglio giovanile; - in quanto a stritolarmi provati! E incrocicchiò le braccia sul petto, stendendo un passo in avanti e postandosi solidamente sulle sue gambe snelle ma nervose, come se aspettasse l'assalto. L'altro fece ancora un passo, minacciandolo dello sguardo più che del gesto, con la bravata audace e cinica che dà la coscienza della superiorità fisica in tali uomini; e mormorò, con voce che cominciava ad esser rauca d'ira, accostandosi sin quasi a toccarlo, col petto: - Vattene! - No! - rispose Pietro bruscamente. Il gigante stese le braccia per afferrarlo; le braccia muscolose del giovane lo ributtarono due o tre passi all'indietro con un vigore che il bravaccio non avrebbe mai supposto in quel corpo magro e svelto; allora mise un urlo di rabbia: l'urlo della iena che ha sentito pungersi mentre scherzava; e afferrata una sedia la slogò di un sol colpo sul pavimento, tornando quindi verso di Brusio con la sbarra pesante e ruvida fra le mani, che brandiva sulla sua testa come una clava. Pietro, dal canto suo, fu lesto ad impadronirsi del bastone di uno dei suonatori, che si erano salvati dietro le panche, e a pararsi il colpo con quello. Allora cominciò un combattimento accanito e feroce fra l'uomo atleta, che mugghiava come un toro ferito per la rabbia che non poteva sfogare, rabbia accresciuta dalla inopinata resistenza che incontrava e che gli toglieva il prestigio d'invincibilità nell'opinione dei suoi compagni, ed il giovane alto, sottile, pallidissimo, colle grosse labbra chiuse e sdegnose, l'occhio scintillante, la fronte alquanto calva, altiera ed impassibile, su cui si appiccicavano i capelli arruffati e si schiacciava il suo cappello a cilindro. Per fortuna Pietro aveva studiato la scherma del bastone con maggiore attenzione di quanta ne avesse messa ad ascoltare le lezioni del canonico Russo; fu perciò col massimo piacere degli spettatori, comprese le femmine, che questi assistettero a quel duello singolare fra i due avversarii degni di starsi a fronte l'un l'altro; essi battevano le mani ai bei colpi, e incoraggiavano con acclamazioni i combattenti. Brusio non era più uno straniero per loro, un signorino, ora che maneggiava sì bene il bastone. L'uomo vestito di velluto avea il braccio e le reni solidi come bronzo, e molta abilità in questa maniera di scherma, ciò che gli faceva menar colpi che calavano giù rombando terribilmente; il giovane però, se non aveva la forza muscolare del suo avversario, lo vinceva nell'elasticità e sveltezza dei movimenti e nel sangue freddo inalterabile, che in lui era uno strano effetto della collera, con cui aggiustava i suoi colpi e parava quelli che gli venivano. Tutt'a un tratto una legnata violenta di Brusio spezzò la sbarra colla quale il bravaccio parava il colpo alla testa, e si vide quest'ultimo stramazzare a terra colle braccia stese: aveva il cranio spaccato. Successe uno straordinario tafferuglio: alcuni gridavano evviva, altri imprecavano e minacciavano Pietro più seriamente al certo di quanto fosse stato minacciato sino allora, poichè nella mezza luce si vedevano luccicare lame di coltelli affilati. - Silenzio, canaglia! - si udì gridare una voce la quale avea tutte le gradazioni fra quella dell'uomo o quella della donna; - questo giovanotto lo proteggo io! è dei nostri!... Ha cuore e pugno... Egli vuol essere dei nostri, giacchè è venuto; non è vero? - No! no! Sì! sì! - urlarono alcune voci avvinazzate: - Non vogliamo cappelli! non vogliamo signorini!... Viva il signorino! egli ha il pugno di ferro! egli ha vinto Nicola! Nulla avrebbe potuto sedare quello schiamazzo, e Pietro avrebbe corso fors'anche il più grave pericolo, minacciato dalla vendetta degli amici del caduto, quantunque difeso anche dal piccol numero dei suoi ammiratori; un altro combattimento, in più grandi proporzioni, era almeno imminente, se non fosse entrato in quel punto il padrone dello stabilimento; il quale, impassibile sin'allora a quanto era avvenuto, dietro il suoi banco della prima camera, accorreva dimostrando nel gesto e nella fisonomia l'importanza della notizia che recava: - I carabinieri! - diss'egli - I carabinieri! - fu gridato da ogni parte. E tosto amici e nemici si fusero in un lodevole accordo a nascondere in un stanzino il mal capitato Nicola, cui, quantunque fosse rinvenuto e mandasse lamentevoli gemiti, nessuno avea badato a lavare il pavimento lordo di sangue, e a tirare i suonatori da sotto le panche. - La Fasola! la Fasola! - fu gridato da tutti. Venti braccia soffocarono Pietro in un energico amplesso; e venti voci, anche di quelle che avevano minacciata la sua vita un momento innanzi, gli susurrarono: - Siamo amici, non è vero? Sei dei nostri!... Vuoi essere dei nostri? - Sì, son dei vostri!... amici! tutti amici - rispose Pietro, urlando tanto forte da cercare di soffocare le stesse parole che proferiva; stendendo le mani alle venti mani nere e callose che gli venivano stese, onde stordire tutto quello che sentiva d'ignobile, di ributtante, di vile in quell'accozzaglia alla quale veniva a domandare le sue distrazioni; ballando anche lui quella ridda infernale sul sangue versato da poco e ancora tiepido... Egli, a misura che le acri esalazioni di quei cenci e di quei corpi, e l'esaltazione avvinazzata di quel tripudio cominciarono ad offuscargli il cervello, come il Marsala non aveva potuto fare; egli, che aveva avuto ribrezzo a toccare la mano di quella femmina, spudorata corifea della festa, ch'era stata la donna di Nicola, cominciò a saltare più furiosamente degli altri, a stringersi più ebbro quell'abbietta creatura fra le braccia... Due ore dopo mezzanotte egli usciva stordito, briaco da quell'orgia; ancora sbalordito dal baccano che avea fatto il suo cuore; mormorando come per illudersi anche in quel momento: - Oh! la vita!... Questa è la vita!... Donne e vino!... Viva l'allegria! Da quel giorno, o piuttosto da quella notte, Pietro Brusio cominciò una vita indegna ed abietta, di cui egli cercava occupare tutti gli istanti con gli eccessi più sfrenati, per non darsi il tempo neanche di vedere dov'era caduto. Egli faceva sforzi sovrumani per annegare nel frastuono, nell'ubbriachezza quanto sentiva ancora di elevato e di nobile nel suo cuore, che gli rimproverava come un rimorso la vita che menava, e gli faceva pensare spesso, malgrado la sua disperata volontà, malgrado gli eccessi a cui ricorreva a quella donna fatale di cui malediva la memoria. Spesso fra le orgie più impure, nell'ubbriachezza più profonda, egli rimaneva in disparte, muto, pallido, coll'occhio fisso e pensieroso. Spesso, al contrario, stringendosi una di quelle femmine da trivio fra le braccia egli mormorava un nome cogli occhi umidi di lagrime: ciò che rendeva dapprincipio attoniti, e faceva ridere dappoi i suoi compagni di stravizzo. Egli logorava la giovinezza del suo cuore e del suo corpo in questa vita febbrile, divorante, che s'era imposta; fuggiva lo sguardo della madre e delle sorelle come se avesse temuto di contaminarle col suo, come se avesse temuto che la muta eloquenza dell'occhio umido della madre non gli facesse sentire tutta l'infamia dell'abiettezza in cui affogava le sue memorie e il suo amore, che provava ancora rigoglioso e potente. Fuggiva gli amici di una volta, che forse avrebbero potuto rimproverarlo col loro freddo contegno; Raimondo, cui non si sentiva bastante coraggio di avvicinare. Siamo al Giovedì Grasso. Brusio ha passato più di quattro mesi di questa vita; è divenuto il corifeo di questa canaglia composta di femmine da trivio e di uomini perduti; e in quella sera, tutti mascherati in modo poveramente e orribilmente grottesco, vanno al Teatro a farvi pompa del cinismo del vizio, della brutalità della violenza, della petulanza della miseria colpevole; occupano la galleria, ove mangiano, bevono, contendono ed urlano anche nel tempo della rappresentazione, malgrado la presenza delle numerose Guardie di Pubblica Sicurezza e dei Reali Carabinieri. Dopo la recita aspettano I'apertura del ballo mascherato per lanciarsi, coi loro costumi sudicii, in mezzo alla platea, per mischiarsi a quella società elegante che non sentonsi in diritto d'avvicinare coi loro cenci, e per farlo ne cercano il coraggio nella ebbrezza, nell'esaltazione e negli eccessi. Brusio, in prima fila fra di essi, sul proscenio, indossando un travestimento tutto suo, composto di cappuccio, casacca e pantaloni di pelle di montone, (vestito che egli avea denominato da orso), si occupava metodicamente a dar fiato ad un enorme corno ad ogni scena nuova; e le rimostranze delle guardie di Questura erano soffocate dagli urli, dai suoni di trombe e di campane e dai fischi della mascherata numerosa che gIi faceva codazzo. Poco prima di mezzanotte fu aperto il ballo. Quella folla ululante irruppe come un torrente limaccioso nella sala. I palchetti erano gremiti di elegantissime dame e di signori mascherati con lusso. Poco dopo si aprì l'uscio di un palchetto di seconda fila ed entrò la contessa di Prato, mascherata da baccante, accompagnata dal marito e da un bel giovanotto biondo, sottotenente negli usseri di Piacenza, che le tolse dalle spalle la mantelletta Fatma di peluscio. Giammai la sirena aveva brillato di tutta la pompa affascinante delle sue seduzioni irresistibili, come quando si avanzò sul parapetto della loggia colle braccia, le spalle ed il petto nudi nel suo abito diafano di velo, col suo sorriso sui labbri, il suo sguardo negli occhi, con quel piccolo grappolo d'uva e quell'unica foglia verde a metà nascosti fra i riflessi cenerognoli de' suoi capelli neri, che vi si inannellavano attorno sulla fronte e le cadevano mollemente sul collo. Pietro non alzò nemmeno gli occhi verso i palchetti. Non osava di farlo, di dissipare forse collo spettacolo di quella profusione di eleganze e di bellezze che ornavano le loggie, il denso vapore avvinazzato e fangoso in cui si avvolgeva; non osava d'incontrare un viso ch'egli non voleva vedere per non avere a dubitare un'altra volta della sua ragione. L'orchestra suonava un valtzer; la folla avea incominciato a ballarlo gesticolando e gridando. Tutt'a un tratto fu veduta una figura umana, imbacuccata in pelli nere che la facevano mostruosa, montare di un salto sul palcoscenico, e gridare colla sua voce più forte, stendendo il braccio con un gesto imperioso verso l'orchestra: - Abbasso il valtzer! Non vogliamo valtzer! Non vogliamo balli aristocratici!... Vogliamo la Fasola!... Quella voce che comandava, quel gesto che imponeva fecero fermare i ballerini che danzavano e i professori che suonavano; e cominciò un immenso frastuono. Dai palchi partirono alcuni fischi acutissimi, tratti certamente con l'aiuto delle chiavi. Allora quell'uomo, quel mostro, alzò la testa orribile a vedersi col suo pallore cadaverico sui suoi lineamenti dimagriti, collo scintillare dei suoi occhi infuocati fra i peli che gli cadevano dal cappuccio sulla fronte; e quello sguardo che fissò su quei cavalieri giovani, ricchi, eleganti; su quelle mani in guanti bianchi che si sporgevano fuori dei palchi ad imporgli silenzio; su quelle signore belle, profumate, splendenti di gemme; su quella folla dorata che faceva il più vivo contrasto con quella brutta, cinica, briaca, cenciosa, che l'accompagnava, quello sguardo fu d'odio immenso, indicibile, e anche di feroce vendetta. - Abbasso gli aristocratici! - gridò egli, Pietro, il giovane aristocratico per istinto; - abbasso i guanti bianchi! Vogliamo la Fasola! Suonate la Fasola! A quelle parole successe un immenso schiamazzo di urli che applaudirono alle sue parole e chiamavano la Fasola, questa danza popolare. I carabinieri, quantunque avessero spiegato la massima energia nel cercare di calmare l'effervescenza erano in troppo piccol numero per imporre a quella folla resa audace dalla sua istessa insolenza; finalmente si fece venire il picchetto di Guardia Nazionale ch'era alla porta. In questa una fischiata solenne e generale, partita dai palchi, sembrò sfidare la collera di quella gentaglia irritata: le mani inguantate di bianco non volevano lasciarsi sopraffare dalle mani nere e callose. Nella platea scoppiò un grido generale di rabbia. Alcune signore svennero allo spettacolo di quella folla urlante che levava braccia nere e facce infuocate e furibonde, come ad imprecare, verso i palchetti, e in mezzo alla quale scintillavano alcuni ferri aguzzi. I carabinieri misero le mani sui rewolvers, e la Guardia Nazionale entrò nella sala colle baionette in canna. Rinunziamo a descrivere lo stato d'esasperazione di Brusio a quella sfida imprudente che l'aveva percosso come uno schiaffo; egli saltò in mezzo alla folla gridando: - Ora faccio scendere tutta questa canaglia coi guanti a ballare la Fasola con noi! Vado a prenderveli per le orecchie! E si fece largo in mezzo alla calca. Nessuno, nè carabinieri, nè Guardie Nazionali badarono a quell'uomo che usciva, a quella jena assetata di vendetta, che spingeva in avanti il collo anelante come un animale sitibondo. In due salti egli fu sulla scala del second'ordine, e si avanzò pel corridoio. Tutt'a un tratto egli si fermò, come percosso dal fulmine, coll'occhio smarrito, col volto pallido e convulso: si era trovato faccia a faccia a Narcisa, che partiva dal Teatro, spaventata di quel frastuono. La contessa aveva messo un grido nel vedere quell'uomo che correva come un pazzo contro di lei, facendo scintillare nel suo pugno la lama larghissima di un coltello a manico; quella figura informe ed orrenda sotto le pelli che la coprivano, della quale gli occhi soltanto luccicavano come due carbonchi sul volto che sembrava una maschera di cera gialla. Ella si era stretta contro la parete, aggrappandosi al braccio del conte, come per farsene schermo. Pietro aveva avuto uno sguardo, un solo, per lei; il coltello gli era caduto di mano; poi era fuggito, correndo a salti, urlando disperatamente, come l'animale che voleva figurare. - Oh! questa donna! questa donna!... questo demonio! - gridava egli, correndo all'impazzata pel Molo. Si fermò sull'ultimo limite di questo, quando non vide più dinanzi a sè che il mare bruno ed immenso, su cui scintillavano le stelle. Fissò uno sguardo ebete, smarrito su quella superficie che si stendeva e perdita di vista, luccicante di riflessi fosforici; su quelle stelle che splendevano sulla sua testa... Due o tre volte avanzò il passo verso quell'abisso che poteva inghiottire la sua vita coi suoi vortici spumeggianti; e ciascuna volta egli sentì una forza che l'afferrava e lo tratteneva.... Finalmente cadde accosciato sul suolo umido e spazzato qualche volta dalle onde, prorompendo in lagrime amare, ardenti, ma non più disperate. Egli pianse a lungo: quel pianto che non aveva potuto versare da circa cinque mesi, forse lo salvò. - Questa donna ha ragione, - mormorò quando fu calmo, come avea detto allorquando gli era parso che il suo cuore si fosse spezzato: - quali diritti ho io al suo amore, alla sua attenzione, fin'anche?..... lo, Piero Brusio!... Ma io voglio averli questi diritti che io m'ha dato, che in un istante di scoraggiamento io ho sconosciuto, ho ripudiato, ma che sento in me... Questa donna anderà superba un giorno dell'amore di Pietro Brusio!! E rialzando la testa, quasi lieto ed altiero di quel nuovo indirizzo che dava alla sua vita, di quell'espiazione che s'imponeva del passato, della speranza che gli brillava negli occhi ridenti, guardò il cielo quasi calmo, quasi giocondo ora. Si alzò, e con passo fermo s'incamminò verso la sua casa. Egli andò ad abbracciare la madre nel letto, come per darle la lieta notizia, mescolando le sue lagrime a quelle di gioia di lei, che ritrovava il figlio suo; e dandole la sola spiegazione della metamorfosi che uno sguardo ed un pensiero avevano potuto operare in lui con queste sole parole: - Perdonami, madre mia!... perdonami! Due mesi intieri ebbe la forza di non cercare Narcisa, di non vederla. Usciva di rado, la sera; e sempre in compagnia di sua madre e delle sue sorelle. L'aveva dimenticata? No! Egli aveva tal forza perchè viveva per lei, con lei, in lei; perchè tutta la sua vita era ormai Narcisa. Egli lavorava con un entusiasmo quasi accanito; con una lena che soltanto poteva dargli l'esaltazione in cui si trovava; e fece passare tutto il suo cuore nell'opera sua. Due mesi dopo aveva finito un dramma che rileggeva cogli occhi brillanti di sorriso; del quale era contento; che amava quasi di una parte dell'amore di cui amava Narcisa; che amava come un'emanazione di lei. Quanto egli tu soddisfatto dell'opera sua, di sè stesso; quand'egli si sentì più vicino a Narcisa, allora la cercò. La sua casa era deserta e le imposte dei veroni chiuse. La cercò inutilmente otto giorni poi passeggi e al Teatro: ne domandò agli amici: nessuno l'avea più veduta. Risoluto di trovarla ad ogni costo andò a far visita in casa A*** e colla signora condusse il discorso sino alla contessa. - A proposito, che n'è di lei? domandò. - Credevo che lo sapeste, voi suo amante: è partita. - Partita! - Sì, da venti giorni. - E per dove? - Per Napoli. - Anderò, a Napoli! disse a sè stesso. Brusio.

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