Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Elementi di genetica

418581
Giuseppe Montalenti 50 occorrenze
  • 1939
  • L. Cappelli Editore
  • Bologna
  • biologia
  • UNIPIEMONTE
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Abbiamo chiamato, finora col nome di fattori queste unità ereditarie: ora che ne abbiamo riconosciuto la loro natura come di particelle indipendenti, possiamo introdurre il nome con cui sono state battezzate dal Johannsen, e che è generalmente adottato: geni» Una distinzione proposta da alcuni autori americani tra i termini «fattore» e «gene» sarà più comprensibile in seguito. Essa consiglia di usare il primo termine per quelle unità ereditarie di cui non si conosce ancora la localizzazione cromosomica, il secondo invece per quelle di cui la localizzazione nei cromosomi è nota. L’ Enriques ha proposto di adottare, a traduzione di «gen» e «gene» dei tedeschi e degli americani, «genidio» per evitare la confusione fra il plurale di «gene» e quello di «genio». Poiché il plurale di «genio» si pronunzia «genii» e può scriversi «genii» o «geni» ritengo che la confusione sia evitata e mi pare più semplice e comoda la forma originale «gene». Non vedo poi la ragione per cui alcuni autori italiani preferiscono il femminile («la gene, le gene») al maschile: evitano la confusione di geni e geni ma non distinguono; se non per l’articolo, il singolare dal plurale dello stesso nome. .

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Quei fattori, o geni, corrispondenti ai caratteri, che abbiamo indicato con A, B, C, ecc., per potersi così separare e ricombinare, devono essere veramente altrettante particelle, o almeno unità indipendenti: quindi il patrimonio ereditario è composto di tante unità ereditarie, ha struttura discontinua. Opportunamente fa osservare il Guyénot (1931) che «la nozione di unità ereditaria non è un’ipotesi a priori ma appare come la conseguenza logica e ineluttabile dei fatti sperimentali. Deriva direttamente dalla constatazione indiscutibile che le diverse coppie di caratteri subiscono una segregazione indipendente. E, come il chimico è condotto, dai risultati dell’analisi e della sintesi, alla concezione degli atomi, così il biologo, attraverso a questa analisi, non può sfuggire alla conclusione che la materia vivente ereditaria è anch’essa formata di elementi, le unità ereditarie».

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Abbiamo visto dunque, che la massima parte delle eccezioni alle leggi di Mendel si può interpretare in modo perfettamente adeguato con l’ipotesi della polimeria, o con la presenza di fattori letali, o è chiarita dallo studio accurato delle particolarità della fecondazione. Altri casi, come l’atavismo e la telegrafia, non sono scientificamente accertati. Gli ibridi d’innesto o chimere poi non sono ibridi nel senso genetico della parola. È molto probabile che altre eventuali eccezioni al mendelismo siano pur esse soltanto apparenti, e sembra perciò pienamente giustificato concludere che le leggi di Mendel hanno un valore universale.

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Abbiamo detto già che nella grande maggioranza degli animali e in molte piante la riproduzione avviene per lo più per via sessuale. Talvolta può avvenire anche per via agamica, ma, generalmente, anche in tali casi, interviene spesso nel ciclo la riproduzione sessuale. In questa, come sappiamo, vi sono particolari cellule destinate a perpetuare la specie: i gameti, che, fecondandosi, danno origine allo zigote. I gameti costituiscono dunque il tenue substrato materiale che lega ogni generazione alla successiva. Il figlio è rappresentato, all’inizio, dai due gameti, e, avvenuta la fecondazione, da un’unica cellula, di struttura relativamente semplice ed omogenea, provvista di citoplasma, e di un nucleo derivante dalla fusione dei due nuclei dei gameti. In quest’unica cellula originaria è dunque contenuto, in potenza, tutto l’organismo che se ne svilupperà, con i fattori dei suoi differenziamenti molteplici, delle sue caratteristiche finali, le quali potranno solo essere modificate, entro limiti ben determinati, dagli agenti esterni. Inoltre

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E tutto questo patrimonio ereditario proviene da due sole cellule, i gameti, ciascuna delle quali, per quanto abbiamo visto, contribuisce in egual misura alla sua formazione. Il gamete maschile contiene dunque tutti i geni che il padre trasmette al figlio, e quello femminile tutti i geni che gli trasmette la madre. È quindi nei gameti che dobbiamo cercare la localizzazione dei geni e conviene perciò fermare l’attenzione sulla loro struttura e sul loro modo di formazione. È necessario però richiamare prima alla memoria le nozioni fondamentali sul modo di riproduzione delle cellule.

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Questo meccanismo, la cui necessità era stata intuita, da un punto di vista puramente teorico, dal Weismann (1887), fu poi scoperto e illustrato per opera di varî citologi, e consiste nella intercalazione — fra le cariocinesi tipiche, o equazionali, che abbiamo sopra illustrate — di una divisione di tipo speciale, chiamata riduzionale, o meiotica o semplicemente meiosi. Essa ha come conseguenza la formazione di due nuclei figli, ciascuno dei quali possiede la metà del numero di cromosomi caratteristico della specie. Si è convenuto di chiamare numero aploide e di indicare con n questo numero, uguale a metà del numero tipico, e diploide o 2 n il numero normale.

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I nuclei dello spermio e dell’uovo (chiamati rispettivamente, a questo stadio, pronucleo maschile e femminile) si avvicinano poi e si fondono (cariogamia) come abbiamo detto. Si risolvono in cromosomi, mentre si forma la figura acromatica, e sul fuso della prima divisione dello zigote si trovano così 2n cromosomi, di cui n provengono dal padre e n dalla madre. L’uovo inizia la segmentazione dividendosi in 2, poi in 4, 8, 16, ecc. cellule, che hanno tutte nuclei diploidi, e così comincia la costruzione di un nuovo individuo.

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Come abbiamo già avvertito, non sempre nella riproduzione sessuata, avviene la fecondazione: spesso le uova possono svilupparsi senza esser fecondate, o, come si suol dire, partenogeneticamente. Non di rado negli animali si alternano generazioni anfigoniche, in cui vi è cioè il concorso di ambo i sessi all’atto generativo, e generazioni partenogenetiche. Le condizioni in cui si verifica la partenogenesi e le modalità del processo sono quanto mai varie e complicate: rimandiamo chi volesse esserne informato alla recente monografia del Vandel. Qui interessa essenzialmente conoscere il modo di comportarsi del nucleo e dei cromosomi in questi casi.

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Questi casi corrispondono cioè a quella che abbiamo chiamata, negli animali, p. aploide. Pochi ne sono sicuramente conosciuti nelle piante superiori, fra cui alcuni, bene studiati, in Datura stramonium e in Nicotiana. In questi ultimi anni, però, si è riusciti, con mezzi sperimentali diversi, ad ottenere la partenogenesi in molte Fanerogame Angiosperme, come è riassuntivamente esposto nella recente rassegna sintetica di A. Chiarugi. « Tutti quei casi in cui le oosfere, che si sviluppano senza fecondazione, posseggono un numero non ridotto, o diploide, di cromosomi e nelle quali perciò, in linea generale, è esclusa a priori la fecondabilità, vengono più propriamente chiamati dai botanici col nome di apogamia » (Chiarugi). Di questi casi ne sono

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Non ci sarà tuttavia possibile approfondire debitamente tali questioni, e molte altre che sorgono dalla considerazione di quanto abbiamo detto, se prima non avremo esposto altri fatti di molta importanza per la teoria cromosomica.

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Il gene «vermilion» si comporta proprio come il gene «occhi bianchi», secondo i principî dell’eredità associata al sesso: perciò descriveremo gli esperimenti del Bridges come se avesse operato con la razza ad occhi bianchi, per semplicità di raffronto con quanto abbiamo esposto (Fig. 46).

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La massima parte dei fatti e delle teorie che abbiamo esposto e di quelli che esporremo in seguito sono stati scoperti ed elaborati da Th. H. Morgan e dalla sua scuola in esperimenti eseguiti sulla Drosophila melanogaster Meig. Questo è oggi l’animale più completamente analizzato dal punto di vista genetico e citologico insieme, e soprattutto le ricerche condotte su di esso nell’ultimo trentennio dal già citato autore, dai suoi collaboratori (Bridges, Sturtevant, Muller, Dobzhansky, ecc.) e da molti altri studiosi in varî laboratori americani ed europei (Guyénot, Goldschmidt, Timoféeff-Ressovsky, Stern, ecc.), hanno dato solide basi al grande edilizio della genetica moderna. Al Morgan fu attribuito nel 1933 il premio Nobel per la medicina.

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Ora, l’esame degli incroci fra razze differenti per numerosi caratteri localizzati in una stessa coppia di cromosomi, eseguiti in gran numero dal Morgan e dalla sua scuola, hanno dimostrato che non sempre v’è un sol punto di rottura del cromosoma, come prima abbiamo visto: spesso il cromosoma si rompe in due punti, cioè in tre pezzi, che poi si scambiano con quelli, sempre equivalenti, del cromosoma omologo (Fig. 53). Se, ad esempio, consideriamo una coppia di cromosomi «contrassegnata» dai geni A B C D E F G H I L M N, e rispettivamente abcdefghilmn (cioè a dire individui eterozigoti differenti per tutte le coppie Aa, Bb, ecc.) possiamo trovare nella F2, o nei reincroci, individui che posseggono, ad esempio, i caratteri ABCDEfghilmn, e rispettivamente, altrettanti con i caratteri abcdeFGHILMN, e altri analoghi che dimostrano che la rottura è avvenuta in un sol punto; ma anche individui con i caratteri distribuiti come nell’esempio seguente:

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La costanza della percentuale di scambio, come abbiamo già avvertito, non è assoluta: essa può essere alterata da alcuni fattori esterni, come la temperatura. Plough (1918,1921) trovò che la percentuale varia, col variare della temperatura da 9° a 32°, mostrando due massimi in corrispondenza di 13° e di 21° e un minimo in corrispondenza di 25°; i limiti della oscillazione sono 6 % e 18 %. Anche i raggi X possono alterare la percentuale di scambio (Plough, 1924). Vi sono anche certi geni che influiscono sulla percentuale di scambio.

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In tutti i casi di generazioni alternanti, a cui abbiamo brevemente accennato, il problema dell’eredità si complica ancora, poiché per lo più le forme agamiche e le sessuate sono notevolmente differenti — tanto che talvolta sembrano appartenere a specie diverse, e non di rado furono, dai primi naturalisti, indicate con nomi diversi. Si deve ammettere dunque che i caratteri di una forma siano contenuti, allo stato latente, nell’altra, e attendano il momento opportuno per esplicarsi. Un polipo contiene in sé non soltanto i caratteri del polipo che sono in lui manifesti, e che può ripetere per via agamica, in un altro polipo; ma anche quelli della medusa, la quale, a sua volta, porta con sé anche i caratteri del polipo, che nascerà dall’uovo che essa depone. In realtà questa

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Abbiamo visto, dunque, come si siano constatate delle eccezioni alla legge dell’indipendenza, e si siano scoperti dei gruppi di fattori associati: nella Drosophila melanogaster e in alcune altre specie (fra le meglio conosciute geneticamente) essi sono tanti quante le coppie di cromosomi. Tale associazione non è assoluta, ma può rompersi, con maggiore o minore probabilità (percentuale di scambio). Secondo la teoria del Morgan lo scambio genetico è dovuto ad uno scambio materiale di frammenti dei cromosomi che si avviticchiano alla sinapsi e la percentuale di scambio è, per ogni coppia di geni, relativamente stabile; l’ordine lineare dei geni assolutamente costante.

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Abbiamo visto in un precedente capitolo che i fenomeni del mendelismo sono perfettamente sovrapponibili al giuoco dei cromosomi; ma la dimostrazione che i cromosomi mendelizzano come i geni non poteva dirsi ancora raggiunta. Occorrerebbe perciò dimostrare citologicamente che, in ogni coppia, il cromosoma d’origine paterna e quello d’origine materna si separano alla meiosi, e vanno in gameti diversi. In generale i due cromosomi omologhi non sono distinguibili direttamente, perché eguali; ma in qualche caso fortunato s’è riusciti a riconoscere fin nei più minuti particolari il movimento dei cromosomi omologhi. Il Seiler, per esempio, incrociò due razze di una farfalla Phragmatobia fuliginosa, una delle quali aveva i cromosomi di una certa coppia frammentati, l’altra integri. La frammentazione si conserva in tutte le mitosi, di generazione in generazione. Nell’ibrido si potevano dunque riconoscere, per quella coppia, il cromosoma di provenienza paterna, integro, e quello di provenienza materna, spezzato.

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Abbiamo detto (pag. 136) che nei gonociti, diploidi, si osserva innanzi tutto la coniugazione dei cromosomi omologhi a formare i gemini, o bivalenti. Ora nel processo della sinapsi i citologi hanno distinto varî stadi I nomi dati a questi stadi dai diversi autori variano alquanto, per la sinonimia cfr. W. Ludwig (1938). : leptotene (i cromosomi lunghi e filamentosi si apprestano a coniugarsi); zigotene (i cromosomi omologhi si avvicinano, a cominciare probabilmente dal punto di inserzione della fibra del fuso); pachitene (i cromosomi coniugati si ispessiscono e si accorciano notevolmente; a questo stadio, o forse nel precedente ciascuno si divide in due cromatidi (pag. 136) in modo che si ha la formazione delle tetradi); diplotene (i coniuganti si allontanano un poco e rimangono uniti soltanto in alcuni punti, detti chiasmi); diacinesi (ulteriore accorciamento dei cromosomi e formazione delle figure a croce o anulari caratteristiche delle tetradi in meta-fase). Finita la sinapsi comincia la prima divisione di maturazione, ad ogni polo della quale vanno due dei quattro cromatidi di cui è composta ogni tetrade; tali strutture si chiamano diadi. Nella seconda divisione di maturazione i due cromatidi di ogni diade si separano (Fig. 61).

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Abbiamo passato in rassegna sommariamente i varî modi con cui gli organismi provvedono al compito essenziale ch’è loro assegnato, la moltiplicazione. Dalla semplice scissione, attraverso le sue modalità più complicate, come la gemmazione, la sporulazione, la riproduzione per propagoli — tutti modi di riproduzione asessuata, o agama, o vegetativa — alla riproduzione sessuata, che si compie pur essa in diversi modi, e, in particolare, con la fecondazione (riproduzione anfigonica) o senza (partenogenesi). Ci siamo limitati, per ora, a considerare questi fatti esteriormente, senza cercare di penetrare negli intimi processi che avvengono nelle cellule destinate al delicato compito di perpetuare la specie. Di questi ci occuperemo in seguito; possiamo ora iniziare, su queste basi, lo studio della eredità

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L’eredità matroclina Sarebbe più corretto dire metroclina (dal gr. μήτης, madre, e χίνειν, inclinare) ma il termine matroclina è ormai entrato nell’uso. è dovuta in realtà al falso ibridismo, a cui abbiamo accennato. In Hieracium si è potuto constatare che vi sono sempre alcuni ovuli che hanno il numero diploide di cromosomi, e che si sviluppano per apogamia. In altri casi, come in Vitis, Fragaria, Lilium, ecc. è verisimile che avvengano fenomeni analoghi. Negli animali può verificarsi, come si è detto, uno sviluppo partenogenetico, senza partecipazione del pronucleo maschile, e perciò senza apporto dei caratteri paterni.

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Talvolta compaiono negli ibridi tendenze all’ermafroditismo (es. nei pesci Limia caudofasciata X L. vittata), o alterazioni del rapporto dei sessi, di cui già abbiamo tenuto parola.

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Classico esempio è quello delle due specie nostrane di rospi (Born, 1884; Hertwig, 1918; Montalenti, 1933, 1938): come abbiamo detto l’incrocio Bufo viridis X B. vulgaris dà embrioni fortemente anomali, non vitali, mentre l’incrocio reciproco vulgaris X viridis dà girini perfettamente normali e vitali, che superano la metamorfosi (Fig. 76).

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È questo un caso simile a quelli di eredità per contagio, o pseudo-eredità di cui abbiamo parlato altrove (pag. 67 e 68).

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Abbiamo finora considerato le varie razze di animali e di piante per studiarne il comportamento dei caratteri nell’eredità, senza domandarci come tali razze si siano originate. Per gli animali domestici e le piante coltivate, si sa che esistono molte razze diverse, ben caratterizzate e costanti. Nella Drosofila e in altri animali non domesticati, non esistono in natura razze distinte — o ne esistono poche — mentre numerosissime ne sono comparse nel corso degli allevamenti fatti dai genetisti. È necessario quindi analizzare questo fenomeno: la formazione delle razze dalle specie selvatiche.

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Il Darwin come abbiamo già avvertito, s’era accorto che le minime variazioni trasgressive non sempre sono ereditarie e aveva distinto alcune variazioni repentine e saltuarie, già conosciute agli allevatori col nome di sports e ch’egli chiamò single variations, le quali sono invece trasmissibili ai discendenti, ma credette si trattasse di casi eccezionali e non ritenne ch’esse potessero rappresentare l’origine normale delle varie razze. Nelle sue opere successive, poi, non sempre distinse fra i due tipi di variazioni, e fu più propenso ad ammettere che le piccole variazioni trasgressive, trasmettendosi per via ereditaria, potessero sommarsi, e, per effetto della selezione, finissero col dar luogo a razze diverse dalla forma originaria.

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Abbiamo già visto come possono formarsi in Drosofila degli individui con tre X (triplo X) in conseguenza della mancata separazione dei due X alla meiosi e come tali individui, in genere non siano vitali. Probabilmente si possono originare per un meccanismo analogo, anche dei triplo-Il e triplo-III, parimenti non vitali. Invece individui provvisti di tre piccoli cromosomi del gruppo IV (triplo-IV) possono vivere, e sono stati studiati dal Bridges; esteriormente differiscono pochissimo dai normali, e si riconoscono soltanto con difficoltà. Il comportamento dei geni situati nel cromosoma IV, e in particolare del gene eyeless nei varî incroci, corrisponde perfettamente alle previsioni teoriche, come è stato riferito (pag. 203). Non si trovano, tuttavia, individui

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Ma ciò non ci porta ancora nel nucleo del problema; evidentemente, volendo usare un linguaggio consacrato dall’uso, le varie azioni fisiche e chimiche cui abbiamo accennato, e quelle, anche più oscure, di natura fisiologica che intervengono nell’inversione del sesso da castrazione devono agire sui fattori M o F, in modo da alterarne il primitivo equilibrio. Questo simbolismo, puramente formale, non aggiunge neppur esso nulla di nuovo alle nostre conoscenze. Probabilmente le teorie fisiologiche sulla sessualità potrebbero essere vantaggiosamente applicate a questi casi, purché la sperimentazione fosse condotta

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Secondo la concezione del Bridges, nella Drosophila il sesso è determinato da numerosi geni situati nei varî cromosomi, e la realizzazione del sesso dipende dal bilancio fra i geni maschili e quelli femminili, a cui abbiamo accennato. L’importanza del cromosoma X come determinante del sesso nelle specie che seguono il modello X-Y sarebbe dovuta al fatto che in tale cromosoma predominano i geni di femminilità. Questa ipotesi è stata brillantemente confermata da Dobzhansky e Schultz (1934) che, producendo duplicazioni o deficienze nel cromosoma X con i raggi, hanno potuto saggiare l’importanza di ogni sua parte nella determinazione del sesso, e hanno concluso che la regione inerte di X non porta geni del sesso, mentre la restante parte è quasi esclusivamente provvista di geni per la femminilità.

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Abbiamo accennato alle uova dei Fillosserini e dei Chermesini, in cui si distinguono, per la dimensione o il colore, due categorie: uova maschili e uova femminili, già differenziate non solo prima della fecondazione, ma anche prima della maturazione. Un caso che si collega a questi è la «monogenia» illustrata da A. Vandel (1938) in un Isopode terrestre, Trichoniscus. Vi sono in questa specie certe femmine che, fecondate da qualunque maschio, danno discendenza tutta d’un sesso: tutte femmine, o tutti maschi. In questi casi sembra che il citoplasma

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Abbiamo considerato come fatto essenziale della sessualità la presenza di cellule germinali dell’uno o dell’altro sesso; ma, come abbiamo detto, anche il corpo, o soma, manifesta una sessualità. Le cellule che sono a diretto contatto con le cellule germinali costituiscono, insieme con esse, quelle che impropriamente si chiamano ghiandole genitali, o meglio gonadi, e sono diverse (testicoli o ovari) nei due sessi. Vi sono poi differenze negli organi genitali sussidiari (vie genitali, ghiandole sussidiarie, organi copulatori, ecc.), e differenze di altri organi, o sistemi, o caratteri, come scheletro, cute e organi cutanei, voce, crasi sanguigna, caratteri psichici, ecc. Alcune di tali differenze si manifestano fin dall’età giovanile, altre compaiono, o si accentuano, quando le gonadi divengono capaci di funzionare, cioè con la maturità sessuale. È appena necessario richiamare alla memoria alcuni dei casi più tipici di dimorfismo sessuale: nella specie umana struttura scheletrica, sviluppo del sistema pilifero, timbro della voce, sviluppo delle ghiandole mammarie, varî caratteri psichici, ecc. sono profondamente diversi nei due sessi. Nei maschi di molti animali sono particolarmente sviluppati organi che servono come armi di difesa e di offesa (es. corna dei cervi, sproni di molti gallinacei). Talvolta sono ornamenti particolari che caratterizzano un sesso, come la cresta, i bargigli e il piumaggio del gallo, le smaglianti

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Inoltre l’embriologo si rivolge per lo più proprio a quei caratteri «generali» o fondamentali di cui abbiamo discorso (pag. 244) come, sviluppo del sistema nervoso, o degli arti, o dell’occhio, o del cuore; il genetista invece ha a che fare soprattutto con i caratteri speciali: colore della pelle o dell’occhio, piccoli particolari della struttura degli arti, o della coda, ecc. insomma con caratteristiche individuali.

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Il quale è anche sempre dipendente dalle condizioni esterne, come già abbiamo detto (pag. 59). Anche per lo sviluppo embrionale valgono gli stessi principî, e anche qui agenti fisici e chimici varî (temperatura, irradiazione, concentrazione e qualità dei sali, ecc.) possono produrre effetti notevolissimi sul decorso dello sviluppo. Talvolta anche sono fattori funzionali che interferiscono con le potenze ereditarie. Un caso molto dimostrativo è quello illustrato dal Remotti (1935): la distribuzione dei capillari che si trovano sull’allantoide dell’embrione di pollo, e che hanno ufficio respiratorio, può variare in dipendenza dalle condizioni in cui può svolgersi la loro funzione. All’aumento della pressione parziale dell’ossigeno ambiente si accompagna una rarefazione dei capillari; se si vernicia tutto il guscio con una lacca impermeabile all’ossigeno, e si aprono poi piccole finestre nella vernice, sotto queste aree, dove si localizza la funzione respiratoria, si osserva una caratteristica disposizione a spirale dei capillari, che così meglio possono sfruttare le poche aree permeabili all’ossigeno.

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Oasi analoghi abbiamo già descritto (cfr. pag. 108).

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Gli ormoni secreti dalle gonadi poi, come già abbiamo visto, determinano il tipo strutturale di pigmentazione e di disegno delle penne. V’è qui una relazione ben netta fra costituzione genetica e costituzione ormonica, che si può esprimere presso a poco così: la costituzione genetica determina una «norma di reazione» specifica agli ormoni all’uno e all’altro sesso, i quali agiscono quasi come fattori ambientali (ambiente interno). Per esempio nei polli, la costituzione genetica stabilisce che i tessuti formatori delle penne formino penne lunghe e sfrangiate, dotate di un certo disegno e di un certo colore, in assenza di ormoni femminili; che formino penne tozze e intere di un cert’altro colore e disegno in presenza di ormoni femminili. Montalenti ha analizzato il giuoco di questi due fattori — genetico e ormonico — nella formazione del disegno striato dei polli di razza Barred Plymouth Rock, e ha potuto determinare che l’ampiezza della striatura e la proporzione del nero sono determinate direttamente dalla costituzione genetica, mentre la forma delle penne è controllata dagli ormoni.

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Abbiamo cercato di dare in questo capitolo qualche esempio delle vie di ricerca che sono state scelte per cercare di svelare le proprietà dei geni, di ridurle in termini fisiologici noti. Da un lato v’è lo sforzo di riconoscere e definire i singoli anelli di quella catena di reazioni fisiologiche che, nel corso dello sviluppo, conducono dal gene (potenza) al carattere (atto); e in molti casi si è visto come i processi dell’attuazione di varî caratteri siano fisiologicamente analizzabili. D’altra parte si è cercato d’indagare la fisiologia del gene o del genotipo, cioè quel complesso di cause che possono avere influenza sul modo di estrinsecazione dei caratteri. Oltre all’ambiente esterno, la cui azione è ben nota, si è visto che

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Abbiamo già accennato a questo problema (pag. 220), che non è possibile discutere esaurientemente in questa sede e sul quale esistono numerosi studi (cfr. F. Raffaele, 1907, 1908, 1932; Ghigi, 1931, 1936; Montalenti, 1936; Cuénot, 1932, 1936; Dobzhansky, 1937). Basterà accennare ad alcuni concetti fondamentali. La distinzione delle specie è stata fatta dai sistematici prevalentemente in base a caratteri morfologici e con criterî per lo più soggettivi, intuitivi più che razionali, e non è privo di significato il fatto che si sia cercato invano un criterio obbiettivo e assoluto, una ricetta infallibile, atta a permetterci, nei casi singoli, di circoscrivere una specie. Non è soltanto un paradosso la definizione scherzosamente proposta da un sistematico: «una specie è ciò che un sistematico competente considera come una specie».

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L’eredità dei caratteri acquisiti, come abbiamo visto, non è stata finora dimostrata. Il lamarckismo, per quanto seducente e verisimile potesse apparire a prima vista, si è rivelato insostenibile, e, seppure non si possa escludere, anzi sia dimostrata, una azione diretta dell’ambiente sul germe (mutazioni da raggi, da temperatura, ecc.) questa non avviene nel senso voluto dalla teoria lamarckiana. Le «somazioni» non sono trasmissibili ereditariamente, e, benché alcuni naturalisti conservino qualche speranza di potere un giorno dimostrare il contrario, dobbiamo attenerci ai dati attuali degli esperimenti, che sono negativi.

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Sulle mutazioni fattoriali possediamo ora alcuni dati ricavati da faticosi e difficili esperimenti, relativi ad alcune poche specie, a cui abbiamo accennato a suo tempo (cfr. cap. XVII). Anche più scarse sono le ricerche sulla variabilità delle specie in natura e sulla base genetica delle differenze razziali e specifiche. Nella impossibilità di riferire esempî, che si troveranno nelle opere già citate, ci limitiamo a ritenere le conclusioni principali che per ora si possono trarre da questi studi: 1) le differenze fra razze (geografiche, di carattere continuo o discontinuo, o non legate a particolari distribuzioni geografiche) sono talvolta riconducibili a differenze d’un sol gene, più spesso a differenze di parecchi geni; 2) molto spesso non è la presenza di un gene in una razza e la sua assenza nell’altra che determina la diversità, bensì la differente frequenza dei varî geni nelle singole razze; 3) le differenze fra specie affini sono sempre dovute a numerosi geni, ma non sono finora state analizzate con esattezza in alcun caso.

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Sono frequenti i casi ottenuti sotto il controllo sperimentale, e molti fatti — alcuni dei quali abbiamo già ricordato — osservati in natura sembrano indicare che tale processo abbia avuto larga applicazione nella storia filetica di molte piante.

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Abbiamo già fatto osservare come l’indagine genetica nella specie umana sia irta di particolari difficoltà. Innanzi tutto l’impossibilità di sperimentare rende necessario di accontentarsi dei dati che è possibile raccogliere sulla progenie nata da matrimoni, che si sono effettuati, dal punto di vista del genetista, casualmente. Anzi alcuni matrimoni che sarebbero più utili per lo studio genetico, sono necessariamente molto rari, e devono essere evitati per ragioni eugeniche. Pertanto occorre risalire alla costituzione genetica dei genitori dalla considerazione del fenotipo dei figli, e questo procedimento non va esente da errori. In secondo luogo la scarsa prolificità della specie umana non offre discendenza tanto abbondante da poter ottenere da una sola coppia dati statistici sufficienti: soltanto radunando i dati relativi a molte famiglie si ottengono numeri abbastanza elevati; ma spesso si introducono così altre variabili, che complicano il problema. Inoltre la lentezza relativa dello sviluppo fa sì che uno studioso possa seguire appena una o due generazioni, e debba accontentarsi, per le precedenti, dei dati tramandati dalla tradizione, o raccolti da altri, che sono spesso scarsi, manchevoli, errati, raramente un po’ più precisi quando si tratta di famiglie illustri o nobili. Si aggiunga infine che la legittimità delle nascite dà talvolta luogo a dubbî, i quali rendono anche più complicata la situazione, e ci si convincerà che l’indagine genetica dell’uomo deve essere

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Qui ci preme di far risaltare soprattutto che i principî che si sono scoperti studiando gli animali e le piante valgono anche per l’uomo, come è dimostrato chiaramente dagli esempî che abbiamo riferito a luogo opportuno (pag. 87, 161, ecc.) da cui risulta che molti caratteri seguono le leggi mendeliane, taluni sono legati al sesso, ecc. E perciò lo studio dell’eredità nell’uomo consiste soprattutto in un controllo della estensibilità alla specie umana dei fatti osservati negli animali: è impossibile sperimentare sull’uomo come sulla drosofila o sulla cavia, ma è ben possibile — quando si sia provvisti dei mezzi statistici necessari e guidati da criterî di analogia severamente controllati da una critica adeguata — estendere all’uomo le conclusioni a cui s’è pervenuti sugli animali.

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Alcuni coltivatori, come già abbiamo detto, erano giunti anche a intravedere alcuni principî, come l’esistenza di «piccole specie» o di «linee pure», che in seguito, con esperimenti più rigorosi, furono esattamente definiti in termini scientifici (cfr. pag. 48). Verso la fine del secolo scorso, quando i problemi dell’eredità si posero in primo piano nel quadro delle scienze biologiche, ebbe inizio la collaborazione dei genetisti con i tecnici, che andò facendosi sempre più stretta allorché la genetica si affermò come disciplina avente metodi e

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Una obbiezione che spesso si sente ripetere è che in molti casi la selezione praticata senza guida di metodi scientifici rigorosi ha raggiunto, come abbiamo detto, risultati notevoli. Nessuno meglio dei genetisti è in grado di conoscere e ammirare tali risultati; ma non per questo si deve continuare con tale sistema laborioso, dispendioso e incerto. La conoscenza dei principî fondamentali della genetica, infatti può evitare molto lavoro e molto dispendio: sappiamo ora, per esempio, che la selezione praticata su di un genotipo omogeneo, su di una linea pura, non ha più effetto, e non ripeteremmo perciò più in altri casi tutti gli sforzi dei Vilmorin per migliorare quello che non è suscettibile di ulteriore progresso. Sappiamo invece che in molti casi è necessaria

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È ovvio che nell’applicazione dei principî della genetica, specialmente agli animali domestici, si incontrano alcune di quelle difficoltà a cui abbiamo accennato parlando dell’uomo, e in particolare la scarsa prolificità di alcune specie, come i bovini e gli equini. E poiché inoltre evidenti ragioni economiche rendono impossibili allevamenti su scala così vasta come sarebbe necessario per i fini della genetica, per poter accertare se i caratteri mendelizzano, e sono determinati da uno o più geni, occorre valersi di statistiche raccolte in molti allevamenti diversi, opportunamente elaborate con i metodi che il genetista può consigliare. Valgono quindi a questo proposito considerazioni analoghe a quelle fatte per l’eredità umana, e pertanto sono prive di fondamento tutte le conclusioni tratte affrettatamente dalla considerazione di pochi esemplari.

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E la connessione con esse discipline rimane e deve rimanere intima e profonda, non soltanto per quella comunanza essenziale di problemi e di indirizzi, a cui abbiamo dianzi accennato, ma anche perché tanto i problemi, quanto i mezzi per risolverli possono esserle forniti solo dalla zoologia e dalla botanica, largamente intese. Tutte

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Il problema fondamentale della zoologia e della botanica, il problema della specie, delle differenze specifiche, nel senso che abbiamo or ora cercato di delineare, è pur sempre il problema primo ed essenziale della Genetica.

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Con l’analisi precedente abbiamo distinto alcuni di questi fattori di variabilità, ma è chiaro che l’ambiente risulta dalla coesistenza e dalla cooperazione di moltissimi fattori — di «costellazioni» di fattori — di cui alcuni hanno un’importanza di prim’ordine, altri del tutto secondaria o appena sensibile. Anche nel caso in cui si facciano sviluppare individui genotipicamente omogenei nelle «stesse» condizioni, non manca una variabilità più o meno notevole, e ciò dimostra la difficoltà di potere ottenere sperimentalmente una assoluta identità di condizioni per ciascun individuo: piccole diversità d’ambiente, che in pratica non si possono annullare, sono sufficienti per dar luogo ad una variabilità abbastanza notevole.

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Si desume da quanto abbiamo detto che la curva di variabilità di una linea pura, che rappresenta la frequenza delle modificazioni di un dato carattere, è il risultato di due azioni antagoniste: la costituzione genetica, che tende a limitarla, anzi ad annullarla, e le azioni ambientali, che tendono invece ad ampliarla. L’ambiente agisce quindi come una condizione allo sviluppo dei caratteri ereditarî, come un modificatore il quale però ha un’azione limitata, e i limiti sono imposti dalla natura stessa dei caratteri ereditarî. In altri termini, la natura dei fattori ereditarî stabilisce, per così dire, l’ampiezza del giuoco delle variazioni che l’ambiente può imporre ai caratteri ch’essi determinano.

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Da un lato abbiamo i risultati delle ricerche che sono state esposte nel precedente capitolo, e che sono impeccabili da un punto di vista metodologico, perché hanno escluso la possibilità che delle variazioni ereditarie preesistenti e latenti mascherino il risultato dello sperimento. Quando si opera, come primo fece il Johannsen, su individui che sono sicuramente provvisti di un identico patrimonio ereditario, non c’è pericolo che si possa scambiare per carattere acquisito quello che invece è preesistente nel plasma germinale. Le ricerche sulle linee pure sono quindi, sebbene limitate a poche specie, di gran peso.

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fra i due genitori o uguale a uno di essi, come abbiamo visto. Ma questa associazione tosto si disgrega allorché gli ibridi procreano altri individui. Quando l’ibrido forma i gameti, i fattori allelomorfi si dissociano, andando necessariamente in cellule diverse: così un monoibrido formerà due classi egualmente numerose di gameti puri, contenenti cioè uno solo dei due allelomorfi. Alla fecondazione, se l’incontro dei gameti è casuale e non v’è preferenza o selezione di sorta, la probabilità che s’incontrino due gameti portatori del carattere dominante è 1/4, la probabilità che s’incontrino due gameti col carattere recessivo è pure 1/4, e la probabilità che s’incontrino un gamete col dominante e uno col recessivo è 2/4. Proprio come, gettando contemporaneamente due monete, la probabilità di ottenere due «teste» o due «croci» è 1/4 e 1/4 rispettivamente, contro 2/4 di ottenere una «testa» e una «croce». E, come in questo caso, i numeri osservati si approssimano tanto più al rapporto teorico, quanto più numerose sono le osservazioni fatte.

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