Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

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Documenti umani

244529
Federico De Roberto 2 occorrenze
  • 1889
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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Senza essere molto intimo con lui, lo conoscevo abbastanza. Al tempo della sua disgrazia, ero andato a lasciargli una carta - formalità che ha il grande vantaggio, come tutte le formalità, di dispensarvi da ogni altra cura; però, vedendolo al Circolo, notando la sua tristezza, la curiosa espressione dei suoi occhi nei quali si leggeva la ricerca della distrazione in lotta col bisogno di concentrarsi nel proprio dolore, credetti conveniente di avvicinarlo. Quando gli fui accanto, mi pentii della mia iniziativa. Il conte di Bauern, presente col corpo in quella sala di bigliardo rischiarata dalle sei lampade dai grandi riflettori, ne era lontano con lo spirito - infinitamente lontano. Dove vagava esso? che cosa cercava? quale visione seguiva? Non lo so; so questo: che ebbi appena l'agio di stringergli la mano, di balbettare non ricordo più quali frasi di convenienza, e passai in una sala vicina. "Quando il diavolo ci mette la coda.... - Un'altra carrozza!... Il medico del Luzzi.... Silenzio! - ingiunse l'avvocato, che l'interesse aveva già preso. - Quando il diavolo ci mette la coda? - Nulla può impedire il precipitare delle catastrofi. Giusto quella sera, un'indisposizione della Nevosky aveva fatto sospendere lo spettacolo, e un tempo orribile aveva reso problematico per molta gente l'impiego della serata. "A poco a poco, una comitiva rumorosa si formò nel Circolo, alla testa della quale era Rodolfo Vialli, un capo scarico, un essere leggiero più della cenere di questa sigaretta. Si chiacchierò, dapprincipio; si commentò la malattia della cantante, si mise non so che scommessa, e a un tratto il Vialli, pigliandosi sotto il braccio l'Ansaldi, un dilettante di musica suo competitore, lo trascinò al bigliardo. La curiosità mi spinse di nuovo da quella parte; il giuoco cominciò, fra il sopravvenire continuo di nuova gente.... All'orologio del caffè scoccò la mezz'ora. - Debbono già essere in guardia - disse qualcuno. - State a sentire! - ingiunse di nuovo l'avvocato. - Se voi volete - riprese il narratore che io vi ridica in qual modo da una questione d'arte il discorso sdrucciolasse a poco a poco nella maldicenza, io non potrei contentare la vostra curiosità. Sapete come avviene: una parola tira l'altra: si sa donde si parte, non si sa dove si va a parare. Si parlava di uno scandalo scoppiato in una famiglia dell'alta società, uno dei soliti drammi domestici: il marito che scopre la colpa, la moglie che deserta la casa coniugale per seguire l'amante. "Povero Geppino, - esclamava il Vialli, parlando di quest'ultimo - che tegola sul capo! Queste cose, da principio, sembrano il paradiso, come all'amante di Saffo pareva il paradiso salir le scale di casa portando l'amica sulle braccia. Arrivato in cima, stava per morire dalla stanchezza!..." Non so più chi osservò: "Quando si affronta una situazione, si ha il dovere di subirne le conseguenze." - "Non dico il contrario - rispose lentamente il Vialli, studiando se gli convenisse di tirare la sua palla sulla bianca o sulla rossa. - Non dico di no.... ma l'adempimento di un dovere non è sempre una cosa allegra.... - E, mancata la carambola: Il malanno al dovere!... La fortuna è di poter rompere a tempo!..." L'Ansaldi, anche lui, sbagliò il suo colpo. "Alla rivincita!... - disse il Vialli, ma irritato da un nuovo sbaglio: - Le liberazioni, - esclamò, - come quella della Bauern non capitano tutti i giorni!..." "Amici miei, io non so ripetervi quel che provassi in quell'istante. Che cosa voleva dire il Vialli? O avevo frainteso?... Automaticamente, appena egli ebbe pronunziato quel nome, gli occhi mi andarono alla portiera dove avevo visto il conte. Egli era ancora lì.... scorsi soltanto i suoi occhi, gli occhi lucenti come fossero di fosforo. Si erano quegli altri accorti come me della sua presenza? Perchè nessuno si alzò? perchè io stesso non mi alzai di scatto gridando al malaccorto: Taci, sciagurato: non vedi tu chi ti ascolta?... Vi sono dei momenti nei quali una tragica fatalità sembra pesare su di noi; nei quali, con la nitida percezione di quel che ci avviene dintorno, noi abbiamo, come negl'incubi, l'assoluta impossibilità di far nulla per arrestare il corso delle cose.... Io vi dico tutto questo ora; in quel momento non vi fu il tempo di pensarne una minima parte. "Augusto Secchi - continuò il Vialli, sbattendo per terra la sua stecca - è stato ben fortunato di liberarsene.... "Oh, che scena; che terribile scena! S'intese, sul tavolato il rumore di un passo, che fece voltare tutta quella piccola folla, e il conte di Bauern, come un'apparizione fantastica, si avanzò verso il Vialli. Nessuno si mosse; io non avevo fiato da respirare. Quando il conte fu vicino al giuocatore, disse con voce d'una freddezza stridente - lasciate pure correre I'espressione - che mi risuona ancora all'orecchio: "Mentitore vigliacco!..." Come allo scatto di una molla, il Vialli alzò la stecca; allora il conte, in un lampo, glie la strappò di mano e mandando indietro l'uomo con un urto nel petto, ruppe sul ginocchio il forte bastone come fosse un fuscellino.... Cieco d'ira, il Vialli fece per slanciarsi su lui, ma era troppo: il terrore da cui eravamo stati ammaliati svanì; dieci, venti persone si slanciarono in mezzo, io fra questi; e, trovatomi vicino al conte, lo trascinai in un'altra stanza.... "Egli era stato ammirabile di coraggio e di sangue freddo; ancora non un tremito tradiva l'emozione che certo aveva dovuto essere formidabile. Tutti, concordemente, condannavano il Vialli. Calunniare una donna su cui nessuno aveva mai avuto nulla da dire, infamare la memoria di una morta senza nessuna possibile scusa, e ciò dinanzi a tanta gente, dinanzi al marito, era una leggerezza che rasentava la colpa. "So che ho torto - esclamava egli nell'altra stanza - ma non sono disposto a soffrire in pace gl'insulti." Il fatto è che, non potendo trovare padrini fra le persone presenti, fu costretto ad andarli a cercar fuori. Il conte, da parte sua, mi pregò con una correttezza impeccabile che in quel momento era ancor più notevole, di assisterlo in questa circostanza, indicandomi il barone Narconi come testimonio. "Accettino ogni patto; desidero solo che si faccia presto. Se è possibile, domani stesso." E andò via. Erano trascorsi pochi minuti, che tornò l'altro coi suoi secondi. Avrei voluto stabilire ogni cosa in poche parole; facevo i miei conti senza il signor Mendosa, il padrino del Vialli. Un avvocato in tribunale, un diplomatico incaricato di negoziare un trattato, non è più minuzioso, più meticoloso, più circospetto, più attaccato alle forme di quel che egli era. Io non avevo una gran pratica di queste cose; ma parevami che vi fosse poco da discutere. La qualità delle offese, il modo con cui erano state fatte, quale fosse la più grave, a chi toccasse la scelta delle condizioni, le condizioni stesse: tutto fu soggetto di lunghi dibattimenti. Prevedevo che, con quella specie di contradditore, avrei avuto molto da fare sul terreno. Come Dio volle, si stabilì che lo scontro, alla spada, a discrezione dei dottori, sarebbe avvenuto il domani alle otto del mattino: "Lasciai, la sera stessa, un biglietto dal portiere del conte, e il domani, alle sette, insieme col barone Narconi, passai da casa sua. Fummo introdotti in una sala di studio e il domestico passò ad annunziarci. Aspettammo, aspettammo: non veniva nessuno. Ci guardavamo l'un l'altro, non sapendo che cosa pensare. Ad un orologio vicino suonarono le sette e un quarto. E non veniva nessuno. È difficile farsi un'idea dell'imbarazzo in cui lo stranissimo caso ci metteva. Bisognava prendere una risoluzione: mi avvicinai ad un bottone di campanello elettrico e suonai. Lo stesso domestico riapparve. "Avete annunziata la nostra visita?" "Immediatamente." - "Il signor conte è levato?" "Signor sì." - Allora, ripassate a dirgli che non c'è tempo da perdere...." - Dopo qualche minuto, la porta si schiuse, ed il conte apparve. Si avanzò, lentamente, e con un tono di cerimonia, come dinanzi a degli sconosciuti, ci disse: "In che cosa posso servirli?..." Non mi perdo in commenti da darvi un'idea della nostra stupefazione, - più che stupefazione, cominciava ad essere sdegno. "Ma, scusi, iersera io le scrissi che lo scontro sarebbe avvenuto stamani alle 8!" - "Ah!" fece egli, e pareva cascasse dalle nuvole! Aveva ancora gli stessi abiti della sera, era evidente che tutta la notte non si era svestito. "Tutto è pronto - disse il barone - e sono già le sette e mezzo...." Il conte si passò una mano sulla fronte. "Dunque, bisogna andare?..." " Imaginatevi come rimanessi!.... In carrozza, nessuno disse una parola. Il conte guardava lo sfilare del paesaggio, e la sua destra passata nello sparato dell'abito aveva un piccolo tremito. Io cominciavo a sentire una viva inquietudine: quello che succedeva, mi faceva temere di peggio quando saremmo stati sul terreno, con l'aggravante che avremmo avuto da fare col terribile signor Mendosa. Il conte aveva paura di battersi: questa era la persuasione che, malgrado la scena drammatica a cui ci aveva fatto assistere la sera precedente, si faceva nel mio spirito. Il ridicolo della cosa ricadeva su di noi, ed io ero disposto a tutto, fuorchè a veder ridere il Mendosa alle mie spalle. "Si arrivò. Era una villa signorile, nella cui corte, al riparo da ogni sguardo curioso, il combattimento doveva seguire. Il combattimento! Ma il conte di Bauern pareva avesse tutte le voglie, fuorchè quella di battersi. Guardava per aria, si pigliava la fronte tra le mani, strappava delle foglie dalle piante - e tremava! È vero che la mattinata era rigida. Malgrado la perdita di tempo, eravamo arrivati i primi. S'intese una carrozza fermarsi: era il nostro dottore. Alcuni istanti dopo, arrivarono tutti gli altri. Salutati quei signori, mi voltai a cercare del conte. Il conte era scomparso! Aveva oltrepassata tutta la corte ed era andato ad appoggiarsi ad un angolo dell'inferriata del giardino. Mi avvicinai a lui e lo ricondussi sul terreno, dicendogli con una concitazione che mi pareva troppo giustificata: "Spero che il signor conte non perderà la sua presenza di spirito!" Quegli altri si avanzavano anch'essi. Allora, come il conte di Bauern scorse il Vialli, scoppiò in una risata.... - Il duello è finito! - esclamò ad un tratto il Monterani. - Ecco Villardi che chiama la carrozza.... L'interruttore si alzò, per andare a chieder notizie, fra le proteste degli altri ai quali l'interesse del racconto aveva fatto dimenticare la curiosità che li aveva là radunati. - Dicevi dunque?... - Che il conte scoppiò ad un tratto, alla vista del Vialli, in una risata. Dire l'impressione che quello scroscio di risa fece lì in mezzo, non è possibile; lo scoppio improvviso di un tuono a ciel sereno non avrebbe prodotto l'eguale. Ma la luce come di un lampo si fece ad un tratto nel mio spirito: mi slanciai verso il conte.... Il nostro dottore mi aveva prevenuto. Fermandomi con un gesto della mano, e mostrando quella scomposta figura, le cui palpebre tratto tratto battevano, dalla cui bocca uscivano mezze parole, egli disse vivacemente "Questo duello è impossibile; il signore non gode delle sue facoltà mentali...." E di subito, quasi a conferma di quella sentenza, il conte si strappò violentemente il vestito, frugandosi con una mano nel petto. Era impazzito.... - Oh! dalla paura?... - interruppe l'avvocato. - No, - rispose Baldassare Gargano. - E allora? - Voi volete sapere perchè il conte di Bauern era impazzito?... Perchè l'asserzione del Vialli nella sala dei bigliardi era vera; perchè Augusto Secchi era stato proprio l'amante della contessa.... - Che!... - esclamarono tutti. - Pare incredibile, non è vero? Eppure era stato così!... Rientrando in casa, quella sera, con le terribili parole ancora risuonanti all'orecchio, che cosa aveva provato il conte di Bauern? Quale sospetto rodente gli era entrato nel cervello? Per quali gradi insensibili o per quale rapido passaggio, l'indignazione prodotta dall'infame calunnia aveva dato luogo al dubbio tormentatore? Quali prove, quali indizii, quali ricordi sorsero nella sua mente e presero corpo? Nessuno potrebbe ridirlo. Non si possono accertare che i fatti; ed il fatto accertato è questo: che, dopo la morte della moglie, il conte passò, quella sera per la prima volta, nella stanza un tempo occupata dalla defunta, e lasciata religiosamente nello stato in cui si trovava quando era abitata. Nessuno seguì il conte in quella stanza; ma, al nostro arrivo, il domestico aveva trovato lì il suo padrone. In quella stanza, nascosta dentro un piccolo armadio la cui chiave stava ordinariamente nel nécessaire da lavoro della contessa, il conte trovò la corrispondenza di Augusto con la propria moglie.... Centinaia di lettere, le prove palpabili - le più eloquenti, le più irrefutabili! - di ciò che aveva asserito il Vialli! Quella relazione, troncata dalla morte, durava da più di due anni; e nessuno - o ben pochi - l'avevano sospettata, e il conte aveva votato tutto sè stesso alla memoria della moglie idolatrata!... Che cosa accadde dentro di lui alla improvvisa rivelazione? Dovette essere un crollo spaventevole, una rovina terribile. Un ciclone che si abbatte sopra la vostra casa, su tutto il vostro paese; un disastro che vi porta via tutta la vostra fortuna e non vi lascia altro che gli occhi per piangere; la morte d'una persona cara che isterilisce la sorgente delle lacrime, danno appena un'idea della miseria in cui il conto fu repentinamente piombato. L'amor suo per la contessa era tutta la sua vita; scomparsa la creatura reale, restava almeno nel suo cuore l'immateriale figura, la pura idea; ed in quella religione d'oltre tomba l'uomo trovava ancora una ragione - l'unica ragione di vivere. Ora avveniva questa cosa orribile: la profanazione d'un ricordo, la morte d'una fede!... Ad un tratto, quella imagine ideale portata gelosamente nell'anima, adorata, divinizzata, invocata a tutti gl'istanti come il supremo dei beni in tanta amarezza ed in tanta solitudine, ad un tratto si dissolveva in putredine.... Che cosa posso io dirvi ancora? Come poter seguire in tutte le sue fasi il processo svoltosi nel secreto della coscienza di quell'uomo? Io ve ne ho detto il risultato, lo smarrimento della ragione, preparato da lunghe ore di un'agonia spirituale, affrettato dalla vista di colui che per il primo gli aveva rivelata l'amara verità.... - Il marchese ha una spalla fracassata, - venne in quel momento a riferire il Monterani. - Ecco il giudizio di Dio! - esclamò l'avvocato Corsi. - Non conosco cosa più buffa, - riprese Baldassare Gargano. - Ed il comico di quella tragica scena, sapete voi qual era? Che il Mendosa, alla dichiarazione del dottore, esclamò guardando in giro: "È un caso imprevisto!..." Io non dimenticherò mai l'aria di meraviglia, di sbalordimento, di curiosità, di indignazione, di incredulità, che alla folle risata ed alle parole del medico gli si era dipinta sul viso: "È un caso imprevisto!..." "Una fede perduta, una ragione smarrita, un'esistenza spezzata, il terribile dramma scoppiato in una coscienza, si riducevano per quel signore ad un caso imprevisto nella giurisprudenza cavalleresca. Evidentemente, il codice aveva una lacuna. Perchè non si dice in un articolo che cosa bisogna fare se uno dei due avversari perde la ragione sul terreno? E quali conseguenze diverse derivano, secondo che l'impazzito è l'offeso o l'offensore? Come va fatto il verbale? E come accertare la pazzia?..." Vi era un grande umorismo nella serietà con cui Baldassare Gargano diceva quelle cose. - Avete ragione! - esclamò l'avvocato. - La verità, - aggiunse poi, a modo di conclusione, - è che siamo dei matti un po' tutti.

Quel marito che l'aveva oltraggiata ed abbandonata, tornava ora da lei, pentito, ma non abbastanza da riparare alla luce del giorno i propri torti! Veniva a trovarla, di quando in quando; non si faceva veder da nessuno in città, restava nascosto il giorno, passava le notti da lei.... Ah! ah! non avevo io l'anima sua! "Che importa il resto?" ella mi domandava "il resto non esiste!" rispondeva quest'uomo accomodante! E appena io andavo via, quell'altro veniva ad esercitare i suoi diritti; faceva, secondo ogni probabilità, le grasse risate alle mie spalle! E colei, da economa esperta, dava l'anima a me, il resto all'altro! Io le schiudevo le gioie del cuore, l'altro... Oh! in nome di Dio, io vorrei scendere in istrada e fermare i passanti, il primo galantuomo che passa; io vorrei domandare: Di qual nome è degna costei? Che perfidia deve annidarsi nel suo petto, di quali transazioni è capace, se avendo dei pretesi doveri da custodire, allettava me di lusinghe; se giurandomi di non amare che me, non sapeva rinunziare a quell'altro; se si ridava a chi l'aveva offesa, se vilipendeva il sentimento sacro di cui le avevo fatto l'omaggio?... Come aveva mentito, sapientemente, dal primo all'ultimo giorno! Come aveva dovuto prendersi beffe di me!... In nome di Dio, perchè non mi aveva detto, se non era libera: "Andatevene, io non sono per voi?" Perchè quando volli io andarmene, mi trattenne? Perchè non mi disse da principio, subito, la verità; e mi derise invece con quella fatalità assurda, inverosimile, da lei stessa creata? Come mi accecai così; come caddi in tanto ridicolo? Guardi, io piango di rabbia! Che cosa aspettava, dunque; che cosa sperava? Che una vampa di desiderio mi avesse un giorno fatto perdere la ragione e che io avessi preso i resti di quell'altro? Che mi fossi accomodato di questa divisione amichevole?... Guardi, piango di umiliazione.... "Andiamo, via; ho torto di prendermela così calda. "Perfida come l'onda" il giudizio è antico; ma sono soltanto gli ammaestramenti della propria esperienza quelli che ci s'inchiodano nella mente. Ella mi perdoni queste lunghe ed inutili geremiadi; ma gli ammalati non provano una soddisfazione lor propria nel parlare del loro male? "Io non so ancora quel che farò; il presente è incerto e l'avvenire più tenebroso che mai. Si ricordi di me." Come il Darsi ebbe decifrato la firma: Alessandro Morea, la signora Auriti domandò: - Ebbene, che cosa ne dice? - Ecco un uomo - esclamò vivacemente il Darsi, credendo di aver trovato un argomento in suo favore - a cui la passione strappa accenti di una grande eloquenza! Lei non mi sosterrà, credo, che quest'uomo non sia sincero, che egli faccia delle frasi, se ha abbandonato il suo paese, se ha distrutta la sua vita.... - Non è vero che egli ha ragione? Non pare anche a lei che sarebbe difficile giustificare la parte avversa, e più difficile ancora ritorcere le accuse contro di lui?... Stia dunque a sentire. E questa volta, presa un'altra lettera dalla stessa cassetta dell'armadio, la signora Auriti cominciò a leggere ella stessa: "Amica mia, "Partito? per sempre?... Egli è partito, dopo avermi giurato di attendere dei mesi, degli anni, un'eternità? Di attendere la confessione di tutta la mia vita, dello strazio dell'anima mia? Partito, lui, senza ascoltarmi, abbandonandomi vilmente dopo aver rubata la mia pace, la tranquillità del mio povero cuore che io custodivo gelosamente, come il supremo dei beni? "Ah, se potessi credere che non è vero, che sono vittima d'una dolorosa allucinazione! Vorrei poterlo credere per me, ed anche per lui, per non disistimare quell'uomo che avevo messo molto in alto, in cima ai miei pensieri!... Non è possibile è vero? La realtà è schiacciante! Non è possibile neppure il pianto: gli occhi sono aridi, lo sguardo è inebetito.... "Mio Dio, mio Dio! perchè ha egli fatto questo! Che cosa aveva da rimproverarmi? Dici tu, amica, quali sono i miei torti? Non fui forse sincera con lui fino all'eroismo? La confessione che gli avevo promesso non mi avrebbe fatta l'anima a brani? La triste storia non mi avrebbe bruciato le labbra?... Eppure, avevo deciso di farlo ad ogni costo, come una espiazione, come un primo sacrifizio a quest'uomo che mi aveva dischiuso degli arcani dolcissimi, che mi aveva richiamata alla vita del cuore, mentre mi reputavo morta per essa! "Quest'uomo che io stimavo tanto diverso dagli altri sulla fede delle sue nobili parole, dei giudizii che gli altri, tu stessa per la prima, ne davano, aveva destato in me una grande simpatia; ma se io non ero padrona del mio sentimento, ero padrona della mia ragione; e può egli dire di essere stato da me incoraggiato, sia pure con la più innocente civetteria di cui nessuna donna va esente, a tentar di mutare la natura dei nostri rapporti? Se egli mi avesse subito fatto comprendere quali speranze nutriva, io avrei potuto farmi forza, disilluderlo fin dal principio, non vederlo più; egli invece seppe abilmente aspettare fino a quando io caddi in una fitta rete, quando la mia simpatia era diventata amore, amore potente, del quale non potevo più fare a meno, come non si fa a meno dell'aria che si respira!... ciò malgrado, che cosa gli risposi io? Chiedilo a lui stesso; mi affido alla sua coscienza, se ne ha una; che cosa gli risposi? Gli diedi forse allora qualche speranza vaga, lontana? Io gli dissi che non doveva concepirne nessuna, che non potevo amarlo se non come un amico, come un fratello; che una fatalità pesava sulla mia vita! "Una fatalità, la più triste, la più terribile: essere legata, indissolubilmente, a chi non si ama e non si può amare; esser libera agli occhi di tutti e sentire tutto il peso del dovere nell'intimo della coscienza! Tu lo sai, tu che sei stata presente alle mie dolorose vicende dal momento che fui legata a quell'uomo fino ad oggi, tu lo sai quel che mi fece soffrire! Ebbene, per ragione di queste sofferenze medesime, potevo io cacciarlo da me quand'egli era tornato pentito, umile, supplice, quando a sua volta tradito, invocava il mio perdono, quando io stessa avevo apprezzate tutte le tristi conseguenze della mia falsa posizione, i sospetti che la malignità sempre desta andava gettando su di me? "Il mio cuore era libero, allora; io non conoscevo ancora lui; avevo creduto che tutto fosse finito per me; non ebbi la forza di respingere mio marito che veniva in nome del nostro passato, che prometteva di riparare pubblicamente, alla luce del giorno, tutti i suoi torti, di smentire per ciò stesso le voci malvagie di cui ero l'oggetto. Quand'anche l'avessi avuta, questa forza, come resistere a lungo? Non aveva egli il diritto dalla sua parte? Non era mio marito?... Fu allora che conobbi lui, e puoi tu imaginare un tormento più grande del mio, spinta com'ero a gettarmi ai piedi dell'uomo amato, e incatenata intanto a chi avevo giurata la fede? Non erano tanto più grandi i miei doveri verso costui, quanto più grande era la mia apparente libertà, quanto più ero sottratta alla sua sorveglianza?... E non lo ingannavo, intanto? non gli mentivo? non avevo dato l'anima mia a quell'altro? Avrebbe quell'altro forse voluto che io mi fossi divisa fra loro due?... "Io non so; la mia mente si turba, la mia ragione si smarrisce! Quando io gli dissi che un triste secreto mi pesava sul cuore, che un giorno lo avrebbe saputo (non volevo, non dovevo confessarmi a lui?) io gli chiesi se avrebbe avuta la forza di affrontare una posizione tristissima, di contentarsi di quel che solo gli potevo dare. Che cosa rispose? "Non sa che forza la sicurezza di essere amato può dare ad un uomo!" Egli m'ingannava; traeva profitto del mio accecamento, contava presto o tardi di vincere in un modo o in un altro! Un galantuomo avrebbe detto "Questa forza io non l'ho; mi si chiede l'impossibile!" "Ed ancora, non gli avevo io chiesto di aver fede in me? Non aspettavo l'occasione propizia da un istante all'altro di dire a mio marito: Mantenete la vostra promessa, riprendetemi con voi dinanzi a tutti, o rinunziate per sempre a me? Non ero io quasi sicura ch'egli avrebbe esitato, nuovamente sedotto com'era da quella donna che lo aveva ammaliato, non più bisognante di me; che egli mi avrebbe presto lasciata libera, questa volta davvero, e per sempre?... Giurava di aver fede in me, lui, e mentiva; e quand'era il tempo di provarla, questa fede, mi abbandonava vilmente; vilmente, lo ripeto ancora, non mi stancherei di ripeterlo!... Dunque, il martirio che io sopportavo, i rimorsi di ogni natura che mi laceravano il cuore in tutti i sensi, la posizione di una donna che è sull'orlo della colpa, i mille pericoli cui andavo incontro, tutto questo era dunque nulla? Per chi mi aveva presa egli dunque?... "Ah, io mi lamento a torto! È forse provvidenziale che sia finita così! Egli mi avrebbe forse abbandonata dopo avermi avuta, come una cosa inutile ormai!... Mi ha lasciata prima; anche questa è una specie di lealtà di cui bisogna tenergli conto! "Non è men vero per ciò, amica mia, che sono delle nature predilette dalla sventura. Ed io sono del numero. Amami tu, per tutti gli altri, lascia che io versi nel tuo seno la piena del dolore; vieni, vieni presto, vieni a soccorrermi." La signora Auriti ebbe un piccolo sorriso di trionfo dinanzi al Darsi che restava un poco interdetto. - Vede se io avevo ragione? Sente come suona diversa l'altra campana? Mi parli dell'intesa, della compenetrazione delle anime, adesso!... - Ebbene! - esclamò il Darsi, che non si voleva arrendere. - Ciò prova che vi sono nella vita delle situazioni complesse, che ammettono per ciò stesso diverse soluzioni, tutte fino ad un certo punto legittime. Ma se queste persone giudicavano così diversamente della loro condotta di fronte al sentimento che li dominava, ella converrà meco che, almeno in questo sentimento, essi si accordavano del tutto, gettati com'erano per esso in preda al più disperato dolore... - Oh, non lo creda! - interruppe la signora Auriti, con un nuovo sorriso. - Non lo creda completamente. Certo, la scossa dovette esser sensibile; ma io penso che la previsione, in ciascuno di essi, del dolore dell'altro, dovesse essere più forte che non la personale sensazione dolorosa. - Come può dirlo? - Sa che cosa fece la mia amica, il giorno stesso in cui apprese la rottura? Andò a pranzo in casa di lady Dalty, dalla quale aveva già ricevuto un invito, dopo aver fatto un'accurata toletta. Per confessione stessa di lei - badi, io non metto una parola di mio - fattasi allo specchio, la sua meraviglia fu grande nel rivedersi la stessa, anzi più bella; il sangue affluito alla testa aveva acceso il suo volto, fatto come di bragia, coi grandi occhi sfavillanti. Quei preparativi di festa, i profumi dell'Ixora e della veloutine, le infusero quasi un benessere; a poco a poco una strana reazione si operò in lei; ebbe l'agio di trovare che il suo abito mauve, guernito di trine écrues e di jais, le stava a pennello... - Oh! - Aspetti ad esclamare. Per le vie, ella scambiava graziosi saluti e sorrisi, si sentiva ammirata da tutta quella folla; le pareva quasi che con quell'ammirazione le si rendesse giustizia... Esclami, amico mio; esclami pure; in quel momento ella pensava certo - questa è l'induzione mia, non me l'ha detto lei - alla disperazione dell'uomo, allo sconforto mortale a cui doveva essere in preda; e trovava giusto che egli soffrisse per lei e che lei si distraesse così... Egoismo, e del più puro! L'uomo invece... - L'uomo?... - Telegrafava ad un amico, per avere del danaro; il soggiorno di Parigi, anche quando ci si va per raccogliere un'eredità (suo fratello maggiore era stato colpito da paralisi, egli non fece che affrettare le sue dimissioni) non è una misura di economia. Da Milano a Torino fece il viaggio coi Marnengo; la signora conserva un gradevole ricordo dell'amabilità del capitano. Intanto che egli sfoggiava la sua più squisita galanteria, pensava probabilmente all'ambascia della donna, al rimorso che doveva divorarla, come la più giusta delle punizioni. Se gli avessero detto che in quell'ora precisa ella era a pranzo da lady Dalty, si sarebbe pentito di aver avuta tanta fretta!... - È disperante! - disse il Darsi, che vedeva l'inutilità dei suoi tentativi e cercava di lanciare un gran colpo. - Ella dunque crede che tutto sia finzione? Se io le provassi... - Mio Dio, vuol dire che non ho saputo ancora spiegarmi. Io dico che tutto è relativo, che tutto può esser vero e falso al tempo stesso, secondo il punto di vista. Lei, per esempio, è qui, nel mio salotto, a sostenere il disinteresse, l'altruismo, il sacrifizio. Questo, non è vero? è un concetto... - Del quale io non domando che darle la prova! - Allora, consideri un poco: non potrebbe anche essere un calcolo?

La ballerina (in due volumi) Volume Secondo

247483
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
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Vacillando, si arretrò verso il fondo, appoggiandosi a una di quelle colonne tinte di legno e cartone; era confusa fra le comparse, vestite da sacerdoti di L'ha, in abiti talari di dubbia bianchezza, con certe lunghe barbe bianche, abbastanza ingiallite. Non vedendola ballare, addossata alla colonna, con una mano che si reggeva la fronte, una di quelle comparse le chiese: - Che avete? Vi sentite male, signorina? Ella guardò in faccia quell' uomo, senza rispondergli. Non lo aveva compreso, come non comprendeva più dove si trovasse, con quei gridi dei cantanti, con quel rumorio sordo dell'orchestra, con quella sala zeppa di spettatori estatici e che ella vedeva avvolti in una nebbia, con quegli uomini fermi, travestiti bizzarramente, fra cui ella era, con quelle donne vestite similmente a lei e che continuavano a ballare, voltandosi, ogni tanto, a darle un'occhiata indagatrice e, in fondo, indifferente. Le parve che qualche cosa la tenesse inchiodata, lì, contro quella colonna, qualche ritorta di ferro che ella non potesse giungere a spezzare: si sentì avvinghiata coi piedi calzati di seta a quel palcoscenico di legno, con la persona stretta a quel legno e a quella carta-pesta che fingeva il granito del tempio egiziano: e le pareva di fare sforzi enormi per di vincolarsi, per infrangere quelle catene, per fuggir via, senza riuscirvi, spasimando di dolore muto. Poi, la silenziosa angoscia divenne più intensa, più profonda: la sua volontà si tese come se ella volesse fare in due una sbarra di ferro, e si sentì libera, ad un tratto. Uscì da quel palcoscenico, mentre le ultime battute della musica risonavano, mentre le ballerine davano gli ultimi passetti danzanti intorno alle colonne, mentre il canto degli amanti moribondi languiva nel sotterraneo e Amneris, inginocchiata sotto le gramaglie, levava le braccia disperate al cielo. Carmela Minino fuggì verso il camerone, dove si dovevano spogliare e rivestire lei e le sue compagne, furiosamente cominciò a strapparsi dai capelli l'ibis di metallo che fingeva oro, a sciugersi il corsaletto di seta a fili d'oro, con le mani tremanti che strappavano tutto, che rompevano tutto. In tumulto le ballerine rientravano, parlando di quel suicidio, gridando, dandosi sulla voce, contraddicendosi, ripetendo quello che già circolava in tutto il teatro, in tutto il palcoscenico, disputando, quasi venendo alle mani. - Si è ucciso alle otto! - Nossignora, alle dieci... - Si è ucciso a casa sua... - Ma che casa e casa! Non era rientrato a casa da ventiquattr'ore... - Lo credevano partito. - Aveva detto che andava a Roma. - Si è ucciso in un albergo. - Al Grand Hôtel, al Grand Hôtel! - Niente affatto, all'Hôtel Royal. - Che state dicendo? Quanto siete bestie! Si è ucciso all'albergo Suisse, a via Molo. - Un signore come lui, in quell'albergaccio! - Se vi dico che è al Royal! - Al Suisse, al Suisse! Non aveva che cinque lire, pare, addosso. - Ma non si è mica ucciso per debiti, Ferdinando Terzi. - Per amori, per amore! - Che peccato! un così bel giovane! - Bellissimo giovane, mi piaceva molto. Ci avrei fatto all'amore volentieri. - Ora è morto, è morto. - Non mi piaceva, a me: era troppo superbo. - Ed Emilia Tromba, che dirà Emilia Tromba - Che glie ne importa? Quella ha già un altro. Quella non ha mai amato nessuno, nel mondo. - Salvo quel cocchiere, con cui fece la prima sciocchezza. - Un cocchiere? Un cocchiere? Ed era arrivata a Ferdinando Terzi? - Sì: e glie ne ha mangiati denari! Anche lei sarà stata causa della sua morte. - Si è ucciso per quella signora, lo sapete... - Chi, signora? Chi, signora? - La contessa di Miradois... - La contessa di Miradois, sì, sì... Carmela Minino, senza neppure voltarsi contro la porta, come faceva, ogni volta, per pudore, quando si tirava via la maglia di seta e restava ignuda, un momento, ora si era spogliata, e si rivestiva, gittando via tutto da sè, afferrando alla rinfusa i suoi abiti di città, adattandoseli addosso alla meglio, con le mani così tremanti che non potevano annodare i nastri, agganciare i ganci, passare i bottoni negli occhielli. Ella ascoltava tutto, a occhi bassi, a bocca stretta, con una espressione feroce di collera nel viso. E vedendola vestirsi da città, ella che, come loro, doveva ballare fra mezz'ora nella Coppelia, due o tre di esse si meravigliarono. - Che fai? Ti sei scordata che devi ballare nella Coppelia? - le chiese sogghignando Filomena Scoppa. Carmela Minino la guardò, senza rispondere, e s' infilò la giacchetta. - Te ne vai? Te ne vai? - disse Rosina Musto. - Non ti senti bene? Carmela Minino si metteva il cappello, pungendosi con gli spilloni che lo dovevan tener fermo sulla testa. Non rispose neppure a Rosina Musto, prese il suo paio di guanti, la sua borsetta, si guardò attorno, con occhio bieco e senza salutare, senza rispondere una sola parola, uscì dal camerone. - Ma che ha? Che è successo? - Chi sa? - Sembra una pazza, da qualche tempo. Carmela Minino si urtò con varie persone, mentre con passo rapido e deciso attraversava il corridoio umido e lubrico, che conduce alla porticina del teatro: ma non vide e non sentì. nulla. Solo innanzi alla porticina vi erano due o tre gentiluomini che, malgrado il freddo, stavano lì, chiacchierando, coi baveri delle pelliccie alzati. Qualche lembo di frase le giunse: - Morto da tre ore... - La famiglia non è stata avvertita... - Non vi può essere funzione religiosa... Carmela Minino fu colpita in volto dal soffio rigidissimo della tramontana, ma non lo senti. Si era strofinata ruvidamente il volto con l'asciugamano, per togliersi il rossetto e il bianchetto, volendo riprendere il suo viso di ogni giorno: e le guance le bruciavano. Uscita sotto il porticato di San Carlo, guardò a destra e a sinistra, se vedeva una carrozza. E in quel punto le si presentò avanti Don Gabriele Scognamiglio, tutto chiuso nella sua ricca pelliccia di lontra, con la sua, bella barba bianca profumata, col suo bastone d'ebano col pomo di argento cesellato, la sua faccia di vecchio gaudente, egoista e sorridente. Ella ebbe un movimento palese di ribrezzo, arretrandosi. - Dove vai, bella mia? - le chiese il vecchio, non accorgendosi di nulla. Ella aveva fatto cenno a una vettura da nolo, aperta, che si accostava: e si accingeva a salire. - Ma si può sapere dove vai, così? - domandò imperiosamente, col tono del padrone, Don Gabriele. Ella, già salita in carrozza, a denti stretti, a voce bassa, gli rispose: - Dove mi pare. - Ah! - esclamò ironicamente Don Gabriele. - Di già, E quando ci vediamo? - Mai più - ella disse, con voce sorda, piena di sdegno invincibile, mentre la carrozza voltava, avviandosi verso la strada di Chiaia. Don Gabriele crollò le spalle e rientrò in teatro. Quando giunse al Grand Hôtel, quasi alla fine di via Caracciolo, la carrozza da nolo che conduceva Carmela Minino, erano le dodici meno un quarto. Ci aveva messo meno di dieci minuti, da San Carlo, mentre la via lunga; ma il cocchiere, intirizzito dal, vento gelato di tramontana, aveva bastonato a morte il suo cavallo, giacchè la signora, da dentro, gli diceva di far presto, di correre, di correre, perchè gli avrebbe dato quel che voleva. Ella non sembrava aver freddo, la signora, poichè non aveva neppure rialzato il bavero della sua giacchetta e guardava continuamente di qua e di là, la Villa Nazionale tutta bruna nella notte nera, e il mare nero che batteva sinistramente contro la banchina. La carrozzella girò attorno al giardinetto, che è davanti al grande portone del Grand Hôtel e Carmela Minino discese precipitosamente. Il portone del magnifico albergo era ancora aperto, poichè si aspettavano dei forestieri che dovevano arrivare col treno di mezzanotte da Roma e altri che erano in teatro; il maestoso guardaportone andava e veniva, col berretto gallonato d'oro sugli occhi; Carmela andò a lui, direttamente. - Scusate - disse, guardandolo negli occhi - è qui che si è ucciso un gentiluomo - Che dite? Che volete dire, signora? - borbottò il portiere, stupito dalla domanda. - Vorrei sapere se è qui che si è ucciso il conte Ferdinando Terzi di Torregrande - ripetette ella, chiaramente. Colui la guardò un minuto, come avesse da far con una matta; poi soggiunse, gentilmente: - Nossiguora. Qui non si è ucciso nessuno. Ella restò, indecisa, guardandolo ancora fissamente, come se volesse strappargli una parola più sicura. - Ditemi la verità... - mormorò con voce tremula. - Ditemelo, vorrei saperlo... Se è qui, ditemelo... Era così smarrita, adesso, che il portinaio comprese qualche cosa e le disse, con una certa dolcezza: - Persuadetevi, signora, che questo gentiluomo non si è ucciso qui. - Allora, scusate. Buona notte, grazie, buona notte. Il portiere la vide allontanarsi con passo risoluto, nell'ombra, risalire in carrozza, dopo aver detto due parole al cocchiere. E la carrozzella riprese a correre, sgangheratamente, per via Caracciolo, perfettamente deserta, fra il tetro mare che rotolava le sue onde, rotte al soffio della tramontana, o gli alberi bruni e brulli della Villa Nazionale. - Corri, corri, per amor di Dio - pregava la donna di dentro, al cocchiere. Costui si era convinto, oramai, che si trattava di una cosa grave, di una disgrazia, forse, e, ogni tanto, dava un'occhiata di curiosità e di compassione alla donna, che fremeva d'impazienza, in quella notte freddissima d'inverno, e che girava di albergo in albergo, in cerca di qualcuno. Fermarono in via Chiatamone, innanzi all'Hôtel Royal, di cui allora allora si andavano chiudendo le porte: non vi era neppure più il portiere, vi era il facchino che veglia la notte, dormendo sovra uno stramazzo nel peristilio dell'albergo. Carmela Minino fece a lui, per la seconda volta, la singolare tragica domanda. Quel facchino era un napoletano. La guardò con un sorriso ironico, e le disse: - Figliuola mia, vi hanno burlata. - No, questo signore si è ucciso veramente - ella disse, guardandosi intorno, con un viso così pallido, con certi occhi scrutatori, che il facchino smise subito di scherzare. - Ma qui no, qui no, per grazia di Dio. - Ne siete certo, buon uomo? Ne siete certo? - Come è certa la morte, figliuola mia. - E buona notte, buona notte, andrò altrove. Quando fu sul marciapiede della via del Chiatamone, Carmela Minino fu presa da uno scoraggiamento immenso. Nell'ombra il cocchiere aspettava, guardandola. - Qui neanche vi è... - mormorò lei, come se parlasse a se stessa, con una espressione infantile di dolore. - Ma chi andate cercando, signorina? Chi andate cercando? - domandò il cocchiere, felice di poter appagare la sua curiosità. - Uno... - balbettò lei. - Uno.... che si è ucciso... - Madonna del Carmine! E vi era qualche cosa questo signore? Ella guardò il cocchiere senza rispondere. Costui dovette capire che quell'ucciso le era qualche cosa. - E non sapete dove? - Mi hanno detto due o tre alberghi; ma non vi è, non vi è, non l'ho trovato. - Qualche altro ve ne hanno nominato? - Sì, sì, l'albergo Suisse. Dove sta? Al Molo, mi hanno detto! - Chi lo sa, signorina mia! Questo è un albergo che non conosco. Andiamo al Molo. Chi ha lingua, va in Sardegna. Ella ripassò dinanzi a San Carlo, mentre la gente cominciava ad uscire dal teatro, poichò il piccolo ballo Coppelia era finito; ma Carmela non si voltò neppure. La mezzanotte era suonata, adesso ella pensava che a questo albergo Suisse avrebbero, forse, già chiuso il portone. Traversarono piazza San Carlo, piazza Municipio tutta la via Molo, mentre lei e il cocchiere guardavano su tutti i balconi, a cercare l'insegna di questo albergo. Finalmente, all'angolo fra via Porto e via Molo, in un avvallamento dove già cominciavano i lavori dello sventramento di Napoli, sopra un balcone videro una scritta su cui batteva a tratti la luce di un lampione, che il vento notturno, sempre più freddo, agitava: Pension Suisse. - Eccoci - diss'ella, con voce profonda, guardando quel balcone, di cui i cristalli erano chiusi, velati dalle tendine di merletto, ma, interiormente illuminati. Il portone della Pension Suisse aveva un battente chiuso e l'altro socchiuso; Carmela Minino si ficcò per quella mezza apertura, e si trovò in un androne oscuro e umido, illuminato appena da una lampada a petrolio, fumosa, dalla luce rossiccia; un uomo mal vestito, che portava in capo un berretto sdrucito e unto, con le mani in tasca, passeggiava, fischiettando l'aria della Ciccuzza. Carmela gli si avvicinò; e quell'individuo dal viso scialbo, dallo sguardo sfuggente ed equivoco, la squadrò. sospettosamente. - È qui...- diss'ella, ripetendo per la terza volta la funebre domanda. - È qui che si è ucciso il conte Ferdinando Terzi di Torregrande? - Sì, per nostra disgrazia - borbottò l'altro. - Ah! - diss'ella, diventando anche più bianca. Di botto, uscì dal portone socchiuso, aprì la sua borsetta per pagare il cocchiere. Costui la rimirava con occhi compassionevoli. - L'avete trovato, eh? - le chiese con tono di rimpianto. - Sì, l'ho trovato - rispose Carmela, brevemente, con quel suo tono profondo o sordo, aggiungendo una lira di mancia al prezzo. - Debbo aspettarvi, signorina? - replicò il cocchiere, commosso da quell'avventura e da quella lira. - No, non mi aspettare. Rientrò nel portone. Il losco portinaio le sbarrò la via. - Dove andate? - A vedere il morto. - Siete persona di famiglia? - soggiunse l'altro, guardandola di nuovo. - ... No. - E allora, perciò salire? - Sono la sua cameriera - ella soggiunse, facendo scivolare due lire nella mano di quel portinaio. Per fortuna, teneva nella borsetta la quindicina, presa quel giorno stesso. A tentoni, ansando, ella salì per una scaletta in capo alla quale brillava un lumicino. E dal posto, dal portone, dalla scala, da quell'anticamera nuda, attraversata solo da una lurida striscia di cocco, dove un lercio cameriere sonnecchiava, presso la tavola, si vedeva non solo l'alberguccio di terz'ordine ma la locanda mal famata, le cui orribili stanze si affittano a giornate ed a mezze giornate, per due ore e per un'ora, da persone che arrivavano senza bagaglio, che pagano in fretta e anticipatamente, sempre in coppia, coll'uomo che arriva cinque minuti prima, la donna subito dopo, con cautela a occhi bassi. Due o tre porte davano su quell'anticamera: due erano chiuse, la terza a dritta, dirimpetto alla scaletta, dove andava a finire la striscia di cocco, era socchiusa; un filo di luce ne usciva. - Voglio vedere il morto! - disse subito, accennando cogli occhi a quella porta, Carmela Minino. Il cameriere si stropicciò gli occhi e le chiese anche lui: - Siete parente? - Sono una sua beneficata - replicò ella, reprimendo un singhiozzo che le schiantava il petto. - Parenti non ve ne sono venuti. Qualche amico... ma se ne è andato subito. Si aspetta il pretore. Entrate. Entrò Carmela Minino, sola. La stanza era quella più grande della trista locanda: aveva un balcone su via Molo e uno su via Porto, occupando l'angolo del casamento. Delle tendine, un tempo bianche, adesso giallicce di polvere e di fumo, coprivano i vetri, per nascondere la stanza ai vicini e ai viandanti; altre cortine, egualmente affumicate e sporche, erano state disciolte dai loro grossi cordoni di cotone bianco. Un tappeto di cui non si vedeva più il disegno, ridotto a un'esile trama, copriva il pavimento; una toilette d'antico modello, dallo specchio verdastro, un cassettone dal piano di marmo bianco, un secrétaire e quattro ..sedie di Vienna , completavano il mobilio di quella povera, sporca e pretenziosa stanza dove tante persone erano passate in un'ora di amore perseguitato, di capriccio volgare, di follia. Il letto grande maritale occupava tutto il fondo della stanza, sotto un baldacchino di sargia verde, da cui non pendevano cortine. Sul letto, ove si era ucciso, donde non era stato rimosso aspettando il pretore, giaceva il conte Ferdinando Terzi di Torregrande. Il letto non era stato disfatto: tutto ricoperto di sargia verde a macchie. giallastre, dimostrava che sulle materasse non vi erano lenzuola. I cuscini avevano, però, la loro foderetta, guarnita da un merletto all'uncinetto fatto in casa. La sargia verde aveva anche delle macchie fresche di sangue: delle macchie di sangue insozzavano il tappeto nella viottola del letto, dalla parte ove il conte si era ucciso; tutto lo sparato della camicia da frac era. macchiato, sul petto, di sangue. Ferdinando si era ucciso in marsina, e in cravatta bianca. Aveva, anche una gardenia candidissima all'occhiello. La sua pelliccia era deposta sopra una sedia, poco distante. La mano destra con cui si era tirato il securo colpo al cuore era ricaduta lungo la persona e si allungava sul letto, tenendo fra le dita, mollemente, una piccola rivoltella a Calcio di argento brunito, lavorato finemente di cesello; la mano sinistra, in un moto di spasimo, si era raggricciata sul petto verso il cuore: e le dita, il dorso della mano rosseggiavano di sangue. Del resto il corpo non offriva altre espressioni di dolore: era posato decentemente sul letto, supino, come chi aspetta il sonno, fantasticando. La testa si appoggiava sui due cuscini bianchi, senza linea di contorcimento: anzi, con una quiete composta che doveva essere anteriore alla morte. I bei capelli biondo-castani, divisi in mezzo, pettinati alla russa, non si erano disordinati: la bella bocca sottile e rossa appariva sotto l'arco de' bei baffi biondi sotto la linea purissima e tagliente del profilo aquilino: solo il mento si rialzava, come in vita, dalla linea dura di volontà. Le palpebre erano abbassate sui begli occhi azzurri, il cui sguardo dai riflessi metallici, dalla espressione ora indifferente, ora superba, ora addirittura sprezzante, si era estinto. E malgrado l'aspetto infame di quella Pension Suisse, malgrado l'ignobilità nauseante di quella camera, malgrado tutto quel sangue sparso sul petto, sulle mani, sul letto, sul tappeto, malgrado quella morte così orrenda, quel morto conservava la sua nobile bellezza venutagli da Dio, dalla razza, dalla educazione, dai gusti, e che nè i vizi della vita, nè la laidezza di quella fine gli potevano togliere. Chi sa perchè Ferdinando Terzi aveva voluto morire in quella locandaccia, in quella cameraccia puzzolente? Forse, per un supremo insulto a sè stesso e agli uomini? Ma non era giunto a cancellare i tratti che la bellezza, aveva messo sul suo viso e sulla sua persona. Anzi, la morte vi aveva messo qualche cosa di più semplice, oramai, qualche cosa come il ritorno alla verità originale, una purezza nuova, una nuova giovanilità al bellissimo che si era colà ucciso. Ai piedi del letto, con le mani incrociate sulla spalliera di ferro vuoto, Carmela Minino non si saziava di guardare questo morto. Lo aveva cercato, di notte, per tutta Napoli, andando a bussare alle porte dei più ricchi e più eleganti alberghi, come una pazza, e lo aveva finalmente trovato, in quella stamberga, solo, non pianto da nessuno, non vegliato da nessuno, salvo quel sonnacchioso cameriere; ed ella lo poteva adesso guardare a. suo bell'agio, con gli occhi secchi e lucidi, dove non appariva una lagrima comprimendosi il petto con le mani, quasi a calmarne l'ansia. Lo aveva raggiunto. Non vi erano, costì, ne la madre di Ferdinando Terzi che viveva in Puglia nelle sue terre, dal giorno in cui era rimasta vedova non vi era la sua sorella maritata, la marchesa di Vallicella, a cui nessuno aveva osato dirlo ancora: non vi era la bruna e fine marchesa di Miradois, la spagnuola dagli occhi brucianti, dal marito così tremendamente geloso. Vi era solo lei: ed ella contemplava Ferdinando Terzi come non aveva mai avuto il coraggio di farlo in vita, lo contemplava, divorandone cogli occhi il volto reso più fine, più eletto, più spirituale, dalla morte. I begli occhi erano chiusi, per sempre: ella ne sapeva lo sguardo, tanto da vederli aperti e fissi in un punto lontano e la figura le si completava innanzi come quando era viva, ma più bella e più nobile. La porta si schiuse e lasciò passare cinque o sei persone: prima che la vedessero, Carmela Minino si arretrò nel varco del balcone, fra le cortine prosciolte, forse prosciolte dalla mano stessa del morto, per garantirsi dalla curiosità dei vicini di via Porto e dai viandanti di via Molo. Coloro che erano entrati erano il pretore col suo cancelliere, il padrone e il cameriere dell'alberguccio, il duca di Sanframondi e il conte Althan. Dal suo nascondiglio, ove ella ratteneva il respiro, Carmela Minino vide ed intese tutto quel lugubre formulario che accompagna la constatazione di un decesso per suicidio. Il pretore, molto annoiato d'essere dovuto uscire a quell'ora, con quel freddo cane, venendo a piedi dal vicino giardinetto ove abitava, un grosso uomo, già obeso a trent'anni, si era gittato, soffiando e sbuffando, nella sola poltrona, tutta sgangherata, che vi era e di cui le molle stridevano ad ogni movimento di quel corpo pesante. Il cancelliere, un piccino, magrolino, con gli occhi rossi dal sonno interrotto e dal vento gelido che soffiava, col bavero del soprabitino gramo sollevato alle orecchie, si era allogato presso la toilette, per scrivere il verbale. E vi fu scritto questo: «I due gentiluomini, duca Leopoldo Caracciolo Rosso di Sanframondi e conte Francesco Federici di Althan, amici personali dell'estinto, dichiarano che il suicida è propriamente il conte Ferdinando Terzi di Torregrande, figliuolo primogenito del fu conte Giovanni e di donna Maria Angela de La Puiserage. Riconoscono anche i suoi vestiti, i suoi gioielli, la sua pelliccia e la rivoltella con cui si è ucciso». «Il conduttore dell' albergo Pension Suisse dichiara che si è presentato, alle sette di sera, il prenominato conte Ferdinando Terzi di Torregrande e gli ha chiesto una stanza per passarvi la notte. Visto l'aspetto di gentiluomo, Raffaele Scarano, conduttore di detto albergo, non gli ha chiesto donde venisse, il suo nome e perchè non avesse bagaglio. Egli non ha saputo il suo nome che più tardi, dopo il suicidio. Il conte Ferdinando Terzi ha pagato il prezzo della Camera - la migliore della Pension Suisse - in lire quattro e cinquanta, non ha preso il resto di cinquanta centesimi delle cinque lire, e ha detto che sarebbe tornato più tardi. Il prelodato gentiluomo, almeno dal tempo in cui lo Scarano è conduttore della Pension Suisse, non è mai venuto in quell'albergo». «Il cameriere della Pension Suisse, Domenico Quagliolo, dichiara di aver visto, alla sfuggita, il conte Ferdinando Terzi di Torregrande, quando ha contrattato la camera col suo padrone Scarano, ma di non averlo guardato bene, avendo l'abitudine di osservare il meno possibile i passeggieri, per non dar loro fastidio. Più tardi, verso le nove, il conte è ritornato, solo. Il padrone Scarano era dall'altra parte dell'albergo e il conte si è diretto al cameriere perchè gl'indicasse la camera sua. Entrando in essa, si era fermato un poco sulla soglia. Il cameriere gli aveva 'subito fatto osservare che il letto non aveva le lenzuola, perchè non lo si aspettava così presto, ma che del resto, si accomodava in un momento. Il conte gli aveva soggiunto che era inutile, per allora poichè, forse, egli sarebbe uscito di bel nuovo; era molto tranquillo e aveva anche acceso una sigaretta. Poi, aveva licenziato il cameriere, dicendogli che lo avrebbe richiamato. La porta era, stata chiusa con la sola maniglia, non con la chiave. Il cameriere aveva udito il conte che andava e veniva, due o tre volte, nella camera, ma con passo tranquillo: poteva esser passata, così, mezz'ora, quando il Quagliuolo aveva sentito il colpo di rivoltella e si era precipitato nella stanza. Il conte Ferdinando Terzi boccheggiava, sul letto dove si era disteso; non aveva detto una sola parola, aveva soltanto aperto e chiuso gli occhi, due o tre volte, si era guardato intorno, come se cercasse qualche cosa. Il Quagliulo insisteva su questo particolare. Il suicida era morto immediatamente, nelle braccia del Quagliuolo, che aveva una manica della sua marsina, sporca di sangue. Erano corsi il padrone Scarano, due commessi viaggiatori che alloggiavano in casa, il portinaio: dalla farmacia del Cervo, in via Porto, era corso, chiamato, il dottor Gaetano Marotta, che aveva constatato la morte e disteso il verbale mortuario. Sul tavolino da notte era stata trovata una carta da visita col nome del conte Ferdinando Terzi di Torregrande e con le parole, scritte a lapis: mi uccido, perchè così mi piace, con la firma. L'avviso della morte era subito stato dato a San Carlo, al palco del Nazionale, ove si supponeva che qualche amico o qualche parente del suicida vi fosse». Questa scrittura del verbale duro più di un'ora: il pretore, dopo raccolte le dichiarazioni, le aveva dettato parola per parola al cancelliere. I due gentiluomini assistevano, in piedi, muti, evidentemente turbati e commossi per quella morte, ma anche seccati di esservi frammischiati: interrogati dal pretore, così, fuggevolmente, su le cause che avevano potuto determinare questo suicidio, si erano schermiti dal rispondere, con un cenno evasivo. Egli, colpito da un certo rispetto, non insistette. Del resto il suicidio era chiaro; la constatazione di morte del dottor Marotta era precisa e legale; il pretore sapeva bene che Raffaele Scarano, conduttore della Pension Suisse, e Domenico Quagliuolo, cameriere, avevano troppo paura della giustizia, per ragioni loro particolari, per non aver detto la verità in questo fatto, di cui erano innocenti. Egli si sbrigò. Cascava dal sonno, moriva di freddo: il suo povero cancelliere batteva i denti: i due gentiluomini avevano l'aria impaziente: il padrone dello albergo e il cameriere erano inquieti, afflitti da quel caso che gittava una luce anche più sinistra, malgrado la réclame, sul brutto lino che era la Pension Suisse. Solo il morto, su quel letto sporco del suo sangue, nulla sentiva più di tutte queste impressioni e sensazioni umane che egli suscitava, entrato oramai nella grande pace, cui, aveva anelato, per una ignota e profonda ragione: solo, dietro le cortine abbandonate e ondeggianti, un essere fremeva, in silenzio, d'impaziente disperazione. Uscirono via, prima, il pretore e il cancelliere, chiusa la funebre bisogna del verbale, riaccompagnati dal conduttore dell'albergo e dal cameriere: essi rientrarono poco stante, dopo essersi raccomandati, chi sa mai, al signor pretore. Il duca di Sanframondi e Francesco Althan si consultavano, a bassa voce, fra loro, sogguardando di tanto in tanto il morto: il più prudente era di lasciarlo colà, sino alla mattina, per non fare un tumulto a casa Terzi, alle due della notte: alla mattina, Sanframondi si sarebbe incaricato di questo funebre trasporto, mentre Althan avrebbe avvertito la marchesa di Vallicella. Ad assistenza di preti, non si poteva pensare, a quell'ora, in quel posto: si sarebbe veduto l'indomani. Parlavano piano, con parole monche, alludendo ognuno, con frasi velate, ad una causa possente e ineluttabile che aveva determinato il suicidio: non vi era altro da fare, per il povero amico loro, che uccidersi. E se ne andarono anch'essi, dando cinquanta lire nelle mani di Raffaele Scarano per quanto occorresse, a prima mattina, e cinque lire di mancia al cameriere, perchè vegliasse il morto. Dopo un'altra occhiata al suicida, essi andarono via, in punta di piedi. Il padrone affidò il cadavere al cameriere e se ne uscì, borbottando contro il suo avverso destino, malgrado le cinquanta lire. Quale coppia mai avrebbe presa quella stanza, dove un uomo si era ucciso? I giornali avrebbero parlato, egli era rovinato. Con un gran sospiro di sollievo, Carmela Minino uscì dal suo nascondiglio. Il cameriere, che si era dimenticato di lei, la guardò con sorpresa. - Andate a dormire, lo veglio io - ella gl'impose, indicandogli la porta. - Ma... ma... - Eccovi cinque lire. Restate nella camera accanto, ma non entrate. - Voi, certo, non potevate essere una sua innamorata... - disse lui, dopo averla squadrata, paragonandola, lei, così brutta, così poveramente vestita, con quel morto così elegante e così bello. - No, io non poteva essere la sua innamorata - disse lei, con voce strana. - Andatevene, dunque. Egli se ne andò, a malincuore. Ella chiuse la porta, con la maniglia. Finalmente, finalmente, ella restava sola, con quel morto. Nessuno sarebbe venuto, sino alla mattina: quel morto era suo. Di dietro le cortine, ella aveva tutto udito, mentre moriva d'impazienza: nè Sanframondi, nè Althan, nè nessuno di quel ceto sarebbe venuto, sino all'indomani, mentre l'opera del medico e del pretore era compiuta, mentre il padrone dell'albergo e il cameriere si erano allontanati. Quel morto era suo, per una notte intiera, in una camera ignota, solinga. Ella lo guardò con una tenerezza e una pietà intensa: si mosse pianamente, per la stanza: trovò, sul piano di velluto del falso caminetto, due steariche: le accese e le trasportò verso il morto, sul tavolino da notte, che era dal lato del cadavere. Per far questo, si era avvicinata molto a lui: lo guardò dappresso, come affascinata da quello spettacolo di funebre beltà, giacente nel suo sangue. Si cercò macchinalmente nella tasca: vi trovò il suo rosario e cavandolo fuori, ne baciò la medaglina della Vergine che vi era sospesa e il piccolo crocifisso di metallo. Cautamente, con una gentile delicatezza, intorno alla mano che si raggricciava sul cuore. morto di Ferdinando Terzi, ella avvolse il suo rosario, lasciando cadere la medaglina della Madonna e il crocifisso sul petto insanguinato. Per fare questo, ella non solo aveva dovuto avvicinarsi molto al cadavere, ma piegarsi sovra esso, toccarne la mano gelida: due volte si era gettata indietro, come se le mancassero le forze. Ma quel volto l'affascinava: si guardò attorno. Era sola. Alta era la notte: alto il silenzio. E, lentamente, ella si curvò su quel morto, appoggiò lievissimamente, in un bacio tenue, le sue labbra su quella superba fronte, altiera anche nella morte. Quel tocco freddo sciolse l'orribile nodo che serrava la gola e il petto di Carmela: ella piombò a terra ginocchioni, presso il letto, sulla macchia di sangue che deturpava il tappeto, piangendo, singhiozzando, parlando al morto. - Oh amore mio, oh amore mio unico, amore mio bello, voi siete morto, voi siete morto e io vivo! Oh bellezza mia, oh cuore mio, solo morto io vi poteva baciare! Chi me lo avesse detto, chi, chi, che vi doveva vedere morto! Oh amore mio, perchè campo io, io, perchè ci campo su questa terra, dove voi siete morto! Così cominciava, nella notte d'inverno, la veglia funebre di Ferdinando Terzi conte di Torregrande, nella lurida stanza della Pension Suisse, fra il sangue del suicidio, assistito dal pianto, dai singulti, dalle interrotte parole di amore e di dolore di Carmela Minino, ballerina di terza riga, al teatro San Carlo. FINE DEL SECONDO ED ULTIMO VOLUME

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Una peccatrice

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Giovanni Verga 1 occorrenze
  • 1866
  • Augusto Federico Negro
  • Torino
  • Verismo
  • UNICT
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«Quella domanda fu il mio colpo di grazia: quando egli mi amava come un pazzo mi avrebbe pregata di non uscire; in appresso non mi avrebbe fatto quella domanda poichè non si sarebbe potuto supporre che l'uno di noi potesse uscir solo... negli ultimi giorni mi amava ancora abbastanza per non propormi una passeggiata come un compenso, come per ringraziarmi del sacrifizio che gli facevo, ciò che equivaleva a dichiararmela una compiacenza, come avea fatto in quel momento. «Mi voltai a cogliere un fiore da un vaso di porcellana per recare il fazzoletto alla bocca... Mi sentivo soffocare... Ebbi appena la forza di mormorargli: « - No... no... grazie... Non uscirò tutta la giornata... «Io stessa non udii il suono di quelle parole... Forse neanche egli le avrà udite... Uscii barcollando, operando uno sforzo supremo per dominare il mio dolore immenso, aggrappandomi alle tende che incontravo per non cadere... Nel mio salotto caddi su di una duchesse, annichilata. «Pietro passò al mio fianco tutto il giorno. Mi faceva una pena orribile a vedere gli sforzi che faceva per contenere la sua commozione, per combattere la lotta che ferveva in lui, per mantenersi saldo nella risoluzione che parea essersi fissata, e che quei momenti avevano fatto ondeggiare in lui... Egli fu amoroso con me, come si può esserlo sino ai limiti della commozione, senza il trasporto però della passione, di quell'amore caldo, cieco, irresistibile, quale egli me l'avea fatto provare, quale ormai m'era necessario per vivere, quale avrebbemi fatto dimenticare, almeno, per un'ora, in un bacio, tutta l'estensione dell'immensa sventura che mi percuoteva. «Egli non ebbe una parola, non una sola parola che alludesse alla nostra separazione; ma neanche un'altra che la facesse mettere in dubbio. «Un momento mi parve cattivo e spietato quell'uomo che non mi amava più. «Poi gli baciai le mani, delirante, piangendo a calde lagrime; gli avvinchiai le braccia al collo e lo soffocai quasi fra le mie lagrime e i miei baci, come se avessi voluto farmi perdonare la triste impressione di quel momento. «Giammai! giammai io ho amato Pietro di quest'amore immenso, frenetico, divorante di cui l'ho amato in quel punto... «L'indomani partimmo per Aci-Castello. «No! se anche scrivessi questi versi col sangue che tale tortura ha stillato dal mio cuore, io non potrei arrivare a descrivere tutto lo strazio ineffabile di quest'agonia immensa che è durata 15 giorni; in cui ho dovuto divorare lo mie lagrime; soffocare gli urli disperati del mio cuore, perchè m'impedivano di vedere, di sentire come ogni ora di più il cuore di lui s'allontani dal mio; come quelle sensazioni impercettibili, che formavano l'amore sovrumano di cui quest'uomo mi adorava, vadano morendo in lui... lo non potrò esprimere quello che ho provato di orribile in tutta l'intensità del dolore, quando, con la terribile lucidità che mi dà la mia angoscia, ho letto chiaramente in quel cuore... troppo chiaramente, per mia sventura!... la sorpresa, la tristezza di lui, direi anche, il rimorso delle perdute illusioni del suo amore di un tempo che cerca invano... lo l'ho veduto quell'uomo, quel cuore, chiudere gli occhi, immergersi nel vortice delle più tempestose carezze, soffocarmi coi più febbrili trasporti... frenetico... furibondo quasi, cercando quelle illusioni che avea adorato in me... e nulla!!... nulla!!... e staccarsene pallido, annichilato... quasi piangendo come un fanciullo, guardandosi attorno come smemorato, come cercando ancora quelle sensazioni che non sa più trovare in me... e che io!!!... disgraziata!!... io non posso più dargli!!... «Oh, signore! nessuno!... no! nessuno potrà mai arrivare a comprendere la sublime agonia di quell'istante! «Dio!... Dio mio!... se impazzissi! «No! Dio non è giusto! No! Dio non ha pietà di questo dolore sovrumano! «Pietro è triste, malinconico ogni giorno di più, la pietà istessa che risento di me, di quest'amore di cui l'amo, ch'egli comprende, e del quale non può contraccambiarmi, malgrado tutti i suoi sforzi generosi, questa pietà lo distacca da me, lo fa fuggire, come se temesse di trovare un rimorso nei miei occhi, che, Dio sa con qual coraggio gli nascondono quello che si passa in me. Egli è sdegnato contro se stesso e dolente della simulazione che deve imporsi per compassione di me, delle menzogne che deve giurarmi col volto cosperso del rossore della vergogna. La notte lo sento passeggiare spesso sino all'alba, ora in cui parte per la caccia, e non ritorna che a sera, stanco, spossato, come se avesse voluto nella stanchezza dei sensi addormentare il rimorso del suo amore perduto, e trovarvi una pace che la tempesta delle sue passioni non gli accorda giammai. Eppure, dopo queste corse che hanno gonfiato i suoi piedi, che hanno logorato le suo forze sino alla prostrazione, egli non trova sonno nel letto... egli si stanca ancora a passeggiare per la sua camera... «Qualche volta ho trovato l'indomani il suo fazzoletto e i suoi guanciali umidi: al sapore acre ho conosciuto che erano lagrime... «Lui! questo carattere orgoglioso e forte, quest'uomo di ferro... ha pianto!... ha pianto di dolore, di rimorso, di rabbia, per quest'amore che gli sfugge, che vorrebbe imporsi. «No!.. tale martirio non può durare per entrambi... Io sarò forte!... sì, quest'amore istesso me ne darà la forza. «Morire, mio Dio! morire nelle sue braccia almeno... addormentata dalle sue carezze!... «Abbiamo passato 13 giorni su questa spiaggia che mi sembra deliziosa, malgrado le ore crudeli che vi ho provate. Si dice che il dolore rende fosche le tinte più brillanti del luogo ove si prova... Anch'io ho sentito ciò altravolta; ma quì, in questi ultimi giorni, questi luoghi io li ho amati nei loro minimi particolari; forse perchè mi è caro anche il dolore di quest'agonia che posso provare vicino a lui. «Nel momento in cui scrivo per parlare di lui, per illudermi con lui... sola, di notte, nella mia camera da letto... vedo, attraverso le tende della mia finestra aperta, sbattute dal vento tempestoso di questi ultimi giorni d'autunno che spoglia gli alberi delle foglie, la massa antica, imponente, severamente e grandemente poetica del vecchio e rovinoso castello che pende da una balza suI mare; coi suoi muri massicci e screpolati, sui quali stridono i gufi in mezzo alle ginestre che vi germogliano, che disegnano Ia loro massa bruna su questo cielo trasparente ove risplende la più bella luna del mondo; con questo mare immenso, lucido, che da questa lontananza sembra calmo e lievemente increspato e che muggisce colla sua voce potente fra i precipizii dell'abisso che circonda le fondamenta del castello. «L'altro giorno volli vedere questo castello a metà distrutto, su cui sembra talvolta vedere ancora passeggiare le scolte luccicanti di ferro fra i merli dei torrioni; che mi fa vivere in mezzo agli uomini di una volta che l'hanno abitato coi vivi ricordi che tramanda e che sembrano infondersi incancellabilmente alla sua vista. Pietro volle dissuadermene, dicendo che la strada per giungervi era molto pericolosa per una donna. « - Non sarai tu con me? - gli dissi, come se mi fosse stato impossibile un accidente vicino a lui, o come se quest'infortunio avessi dovuto amarlo, dividendolo con lui. «Egli... costui, cui l'amore avea dato squisite percezioni, cui avea fatto oprare un miracolo di genio e di sentimento nel suo dramma, capì appena tutto il senso di quelle parole. «Mi diede il braccio, come per nascondermi il suo imbarazzo, e mi accompagnò alla salita che precede l'ingresso della rocca. «I muri della torre principale che guardano il paesetto, sembrano di un'altezza smisurata, guardati dal basso, in quel punto, elevati come sono su di un immenso scoglio che dalla parte del mezzogiorno sospende le sue torri sul mare. Due tavoloni di querce sono gettati su di un arco in rovina per traversare l'abisso orribile che si stende al di sotto, in fondo al quale mormora il mare di un sordo rumore, e che fa venire le vertigini al solo guardarlo. «Pietro passò innanzi e mi porse la mano raccomandandomi di non guardare il precipizio per non avere la vertigine; all'incontro io provavo un'affascinante sensazione nel mirare quella gola oscura, a quasi duecento piedi sotto di noi, ove, fra le acute punte degli scogli, biancheggiava la spuma minuta delle onde rotte e imprigionate nella caverna, su cui l'assito che ci sosteneva si piegava sotto il peso dei nostri corpi scricchiolando. «Se cadessimo,qui, abbracciati! - esclamai io quasi involontariamente, stringendo la mano di Pietro che mi guidava. «Mi pareva più dolce quella morte; e preferibile alle torture che provavo, e che supponevo anche in lui. « - Quale pazzia! - mormorò egli stringendo il mio braccio, come per prevenire l'effetto di un capogiro, e accelerando il passo, che avea reso ardito e sicuro, quasi per garantire la mia vita ch'eragli sospesa. «Egli non ha detto: Che cara pazzia!... Ha detto semplicemente: Quale pazzia!... «Ho veduto dalla sommità di quelle torri questo mare azzurro che si confonde con il ceruleo dell'orizzonte, che si stende nella sua grande immobilità in lontananza e freme e spumeggia ai miei piedi; ho veduto quelle barche che sembravano giocatoli da quell'altezza, quel litorale sparso di ville e di paesetti, e Catania... Catania ove Pietro mi aveva tanto amato... «Vi fissai un lungo sguardo, non avvertendo le lagrime che bagnavano le mie guance. « - Che guardi? - mi domandò egli, come se mi avesse domandato: Perchè piangi? « - Catania! - risposi colla voce ancora tremante. «Egli sentì forse tutto quanto vi era di passione e di rimembranze in quella parola; e lo provò anch'egli fors'anche in quel momento, poichè soggiunse, come cedendo ad una generosa risoluzione: « - Vuoi che ritorniamo a Catania? «Non risposi e restai cogli occhi umidi e fissi sul golfo in fondo al quale biancheggiavano le cupole che indicavano la città, appoggiandomi al braccio di lui. Sentivo quanto vi era di nobile sacrifizio in quella proposta; ciò ch'escludeva l'amore, ch'era quello che mi bisognava. « - Dov'è Siracusa? - domandai poscia, come non accorgendomene, cedendo ad un intimo impulso. «Pietro mi additò un punto tra mezzogiorno e ponente, dietro il Capo Passaro che si vedeva distintamente, ove dovea essere il suo paese natale. « - Perchè non mi conduci a Siracusa piuttosto? - gli dissi gettandogli le braccia al collo, singhiozzando e fissando nei suoi i miei occhi brillanti di lagrime. Egli abbassò gli occhi, baciandomi le mani, e rispose, dopo avere esitato un istante: « - Se lo vuoi... « - No! Io non lo voglio... Ciò che io voglio è il tuo amore! il tuo amore sfrenato, ardente, quale lo sentivi per me, quale cerchi ancora come smanioso e non sai più trovare, quale io spero qualche volta illudendomi, e tento tutte le occasioni per travedere in te... e non m'accorgo, pazza, disgraziata ch'io sono, che tu non lo trovi... che tu hai la generosità, la nobiltà di fingerlo meco; ciò di cui senti rimorso;... e che tutto... tutto!... perfino le tue carezze, perfino i tuoi sacrifizii mi dimostrano che tu non senti più per me... « - Partiamo! - soggiunsi poco dopo strascinandolo pel braccio, soffocando l'emozione che sentivo prorompere nell'eccitazione della corsa, poichè mi sentivo morire. «L'ultimo raggio di sole rischiarava ancora i merli della più alta torre, e nell'abisso che dovevamo traversare era buio profondo; e gli echi ne erano mugghianti; e gli sprazzi di spuma biancheggiavano come giganteschi fantasmi. «Un momento mi sembrò che l'immenso fascino di quello spaventevole abisso attraesse l'abisso doloroso del mio cuore; che quei bianchi fantasmi mi stendessero le braccia come a prepararmi un letto eterno che dovesse accogliermi assieme all'uomo che adoravo tanto più freneticamente quanto più lo vedevo allontanarsi da me... Un momento il mio piede si stese sul precipizio e la mia mano strinse più forte la sua per allacciarlo in un modo che nulla sarebbe valso a rapirmelo mai più... « - No! no! gridò il mio cuore gemente: no!... ch'egli viva! ch'egli sia felice!... io non potrò mai essergli grata abbastanza dei giorni che mi ha dato, dei sacrifizi che ha avuto la bontà d'imporsi per me!... Ch'egli sia felice... anche con un'altra!... « Un'altra!... Ecco quell'idea terribile, sanguinosa, che mi ha attraversato il cuore come un ferro infuocato, e alla quale non avrei forse saputo resistere se ci avessi prima pensato... «Mi avvidi, quasi con gioia, come se fossi stata salvata da un immenso pericolo, che camminavamo sul selciato della strada. «Una o due volte, in quella notte agitata e febbrile passata al davanzale della mia finestra, ho avuto dei momenti di speranza, d'illusione, speranza tale che mi faceva mettere dei gridi di gioia, che mi faceva comprimere le tempia fra le mani, quasi le arterie che battevano di felicità, minacciassero di sconvolgermi la ragione... Egli mi avea proposto di accompagnarmi a Catania!... egli aveva avuto forse un istante d'amore per me!... dell'amore di una volta!... «Oh! Dio! Dio!... morire almeno in tal momento!... «Ieri volli uscire con lui; volli fare una passeggiata in barca. Egli prese i remi, ed entrambi, soli, ci cullammo nella piccola barchetta da pescatori su quelle onde azzurre come il cielo. «Quand'egli è solo, pensieroso, vicino a me... provo un momento di dubbio, d'incertezza... Mi pare di sperare, mi pare di averlo mio! tutto mio!... e che nulla abbia potenza di strapparlo all'amplesso frenetico delle mie braccia. «Appena fummo al largo egli lasciò i remi e venne a prendere la mia mano. «Lo guardai come non l'avevo mai guardato: sentivo che non potevo amarlo di più di quanto io l'amavo in quel momento; mi pareva impossibile ch'egli dovesse lasciarmi il dopodomani. «Egli baciava le mie mani, e sostava per guardarle in silenzio, come se avesse temuto di alzare gli occhi nei miei, e per tornare a baciarle... Le sentii umide delle sue lagrime. « - Pietro! - esclamai palpitante di una sublime emozione, mentre tutti i pori del mio cuore si dilatavano ad assorbire le inebbrianti emanazioni di una lusinghiera speranza; - ieri ti pregai di condurmi a Siracusa!... con te... «Egli non potè più frenare il pianto, e scosse la testa tristamente. « - Impossibile! - mormorò con un soffio appena intelligibile. « - Impossibile?... - ripetei radunando tutte le forze di cui mi sentivo capace; - e perchè, Pietro?!... « - Oh! grazia! grazia, Narcisa! - singhiozzò egli stringendomi fra le sue braccia, nascondendo la sua testa nel mio petto: - grazia!... io sono molto vile!!... «Era orribile a vedersi l'angoscia disperata di quel volto energico, l'annichilamento completo di quel carattere di bronzo. « - Sì, io son vile! io son colpevole! io sono infame!... - seguitò con voce delirante: - oh! grazia, Narcisa!... «L'amavo tanto che non sentii tutto lo spasimo sublime che quelle parole mi facevano provare: ebbi soltanto pietà di lui. «Lo abbracciai; piangendo anch'io; tremando convulsivamente del suo tremito; mischiando le mie labbra alle sue. « - Dillo! Pietro... dillo! - gridai con disperato sforzo di volontà, - tu non mi ami più!... tu non mi ami più come prima! «Egli rimase abbattuto, in silenzio, sulla panchetta della barca. «Quel silenzio durò cinque minuti. «Quando risollevò il volto fui atterrita dallo spaventevole pallore che copriva i suoi lineamenti solcati profondamente. « - Ascoltami, Narcisa! - cominciò egli con voce solenne, quasi calma: - io ho un sacro dovere di gratitudine verso di te... dovere che mi fanno care le reminiscenze che non potrò dimenticare giammai, e che formano ora il mio inferno... Eppure, te lo giurò sul mio onore, io non mi trovo colpevole... no!... che soltanto queste reminiscenze mi restino ora vicino a te... Tu hai il diritto di disporre di me, in tutto... Io sacrificherò al dovere quello che avrei sacrificato all'amore, e farò quanto è possibile all'uomo per renderti la tua felicità. Ho tanto provato di sì immenso nella voluttà del godimento, nel delirio dell'esser felice che forse all'uomo non è concesso di godere... e Dio mi punisce col soffiare su tutte quelle sensazioni che formavano il mio amore... che cerco invano da due mesi... e spegnerle per me. Nel tremito ardente dei tuoi labbri sul tiepore della tua pelle rosata, nelle nervose e convulse pressioni delle tue braccia, nel delirio fervente delle tue carezze; ho cercato invano un atomo, un atomo solo, di quello che provavo d'arcano, d'indefinibile, di più che terreno, quando, seduto sul lastrico della. strada, ti vedevo al verone, ciò che formava il delirio dei miei sogni; che nei primi trasporti del possederti, quando mi pareva di divenir folle per la felicità dell'amor tuo, io provai sino a quel parossismo del godimento che ci annienta, direi, nel godimento istesso, e che ci lascia sbalorditi della sua estensione. lo ho cercato invano questo profumo, questo vapore che ti circondava d'incenso come gli angeli, e in cui non osavo immergermi per timore di perdervi la ragione o di perdervi l'illusione... È duro, è crudele quello che dico... ma tu hai mente per apprezzarlo e cuore per perdonarmelo... come mi hai perdonato tutto quello che ti ho fatto soffrire da due mesi, che mi son rimproverato, e di cui il rimorso mi lacera... Quello che io piango, Narcisa, è l'amore che ho provato e che non posso più trovare... che cerco assetato per inebbriarmene, poichè la sete che ne ho è ardente, divoratrice, e che mi fugge sempre dinanzi come un fuoco fatuo... Io avrei paura, rimanendoti più a lungo vicino, che la stanchezza dell'animo non vincesse anche il desiderio ineffabile che ho di quest'amore... e che tutto questo tesoro di diletti che trovasi in te, di cui m'abbeverai forse sino all'ebbrietà, non vada perduto dell'intutto per me! Oh! io ho paura di ciò, Narcisa!... poichè la speranza di riamarti un giorno come ti ho amato, m'impedisce che mi bruci le cervella, non avendo più nulla a godere sulla terra. Bisogna che io mi allontani da te per qualche tempo, ch'io torni a dubitare della felicità che ho goduto... ch'io dubiti della speranza fin anche di questa felicità, per esser pazzo di te come ero quando passavo le notti innanzi la tua casa senza sperare un'occhiata da te... bisogna che io ti vegga ancora lontana da me, in mezzo allo pompe del tuo lusso, all'incanto delle tue seduzioni, per cercarti ansioso, cieco, folle, come allora; e stendere le braccia, delirante, invocando un altro sorso di questa coppa fatata... a cui fui tanto stolto da bere troppo... «Egli non potè più proseguire, soffocato dalla violenza della sua commozione; tenendosi il petto colle mani increspate da una violenta contrazione; inginocchiato ai miei piedi; coll'occhio luccicante di una fosca luce sul pallore quasi tetro del suo volto; coi capelli irti sulla fronte madida di freddo sudore. «Quest'addio che quel cuore mi dava era grande, era sublime, come l'amore di cui m'aveva amato. «Lo sollevai fra le mie braccia; lo baciai in fronte, sentendomi ancor io fredda di sudore ghiacciato, provando una forte risoluzione che quelle parole infondevanmi, la quale correva al cuore, quasi con gli smarrimenti di una vertigine, insieme al sangue che da tutte le vene vi affluiva. « - Addio dunque! - gli dissi con una calma nella voce della quale io stessa ero atterrita: - Addio, Pietro!... «Egli cercò i miei labbri coi suoi freddi, tremanti d'angoscia e di voluttà. « - Addio!... gli mormorarono ancora i miei labbri palpitanti nei suoi. - E svenni fra le sue braccia.

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