Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Da Bramante a Canova

251008
Argan, Giulio 4 occorrenze

Non tanto interessa stabilire che cosa l’artista abbia ideato e non potuto realizzare (su questo punto siamo abbastanza documentati); ma come, nel naufragio, abbia salvato il salvabile, recuperato valori compromessi, messo a profitto le circostanze avverse ed, infine, È fatto il restauro del restauro: tenendo presente che non tanto l’invenzione brillante quanto proprio il tormentoso svilupparsi dell’idea attraverso i dati di fatto, propizi o contrari, è il carattere veramente nuovo della progettazione borrominiana, sempre intimamente legata al farsi, alla vicenda esistenziale dell’opera.

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La facciata, secondo il primo progetto documentato da una medaglia coniata per la fondazione, era convessa, ad un solo ordine, abbastanza bassa da lasciare in grande evidenza, come elemento essenziale, la cupola. Era dunque ancora, come la facciata cortonesca di S. Luca, un organismo plastico. Come in S. Luca, infatti, due contrafforti laterali emergono per richiamare, all’esterno, lo schema cruciforme inscritto nell’ellissi; e anche qui il raccordo con il corpo convesso è affidato a un’intensificata degradazione prospettica, a un rapido e penetrante gioco di scorci interni, a una convergenza di piani la cui intersezione, o generatrice ideale, è all’interno, nel vano della chiesa. Il frontone è spezzato per sottolineare la coassialità della facciata e della cupola, e anche quest’ultima è ideata come un forte organismo plastico, con costoloni ribaditi, incatenato al corpo dell’edificio da una raggiera di grandi volute.

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Né daremo mai abbastanza ragione alla Griseri che, così acutamente, ha inteso come la concezione guariniana dell’architettura continua nello spazio continuo porti necessariamente alla più profonda delle «metamorfosi del Barocco»: quella della forma in segno.

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L’accostamento di un giovane e di un vecchio, abbastanza frequente nel Seicento e nel Settecento, adombra generalmente il contrasto di ideale e pratica: e la scultura veneta del tempo era tutta «di pratica», tanto povera di «ideale» quanto fornita di espedienti e di virtuosismi tecnici per adattarsi alle più diverse applicazioni ornamentali. La vecchia generazione dei «pratici» aveva ridotto l’arte all’artificio; ma il giovane (che forse raffigura, idealizzato, lo stesso Canova) calpesta le false ali ingegnosamente conteste, tiene in mano come per gioco una penna ed un pezzo di fune e, mentre sorride de]l’inutile armeggiare del vecchio, è tutto assorto nella visione, che già sembra abbacinarlo, della gran luce del sole, in cui volerà tra poco. Di sotto l’ala che è a terra spuntano foglie e fiori: l’artificio tecnico sovrasta la natura, ma l’ideale sovrasta l’artificio. Quando il Canova lavorava al gruppo, il suo protettore Giovanni Falier già progettava di mandarlo a studiare a Roma; ed il giovane era riluttante, diceva che «la natura si trova ovunque». Ma non era un segno di attaccamento ai suoi maestri veneziani, il cui pittoricismo rococò non era nient’affatto naturalistico: la natura che «si trova ovunque» era semplicemente il dato dell’esperienza empirica, l’inevitabile traguardo cli partenza per la salita verso lo «ideale», che era al di là di ogni esempio storico, anche dell’antico.

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Il divenire della critica

252285
Dorfles, Gillo 8 occorrenze

Anche con questo gruppo Fontana ebbe per qualche tempo legami abbastanza intensi prendendo parte spesso all’attività del gruppo in alcune mostre in Italia e all’estero. Tuttavia la tendenza difesa dal Mac era piuttosto protesa verso una sorta di astrattismo geometrizzante, mentre quella allora seguita da Fontana precorreva l’avvento imminente dell’informale e, come vedremo, delle successive tendenze oggettuali. Dopo il periodo culminante nell’ambiente spaziale nero occorre prendere in considerazione le opere iniziate attorno al 1948-49 e che dovevano costituire la «trovata» più nota e popolare dell’artista: ossia quelle rappresentate dai «quadri con buchi», iniziati appunto in quell’anno e seguiti, attorno al 1958, dai «quadri con tagli». Prima di considerare da presso queste due serie di lavori vorrei peraltro soffermarmi a considerare l’importanza che ebbe per l’artista e anche per molti dei suoi seguaci un’altra fase della sua produzione costituita da una serie di tele appena velate da una leggera inchiostratura, spesso monocroma, e dove soltanto le sovrapposizioni di due o più spessori di tela creavano quel sottile slivellamento atto a segnare la presenza d’una diversa dimensionalità spaziale. Fu questo, io ritengo, il periodo nel quale l’opera dell’artista lombardo s’accostò di più a quella di Rothko: in questa rinuncia di Fontana (come di Rothko) al denso colore impastato, alle compiacenze, allora dominanti, del dripping, alle matasse di pigmenti materici, è da riportare un successiva direzione presa da molta pittura internazionale postinformale.

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Se di «arte oggettuale» si poteva in parte discorrere anche a proposito degli antichi ready-made di Duchamp o di molte delle opere create dagli artisti pop mediante oggetti inventati o inglobati, tuttavia quello di considerare la propria produzione artistica come un oggetto a sé stante, che non presenti riferimento alcuno con quelli già esistenti altrove, o che non ne sia né la replica, né l’imitazione, né la «presa in giro», mi sembra un dato di fatto abbastanza singolare di questo preciso momento creativo. Si passa, inoltre, dall’oggettualità tipica delle grandi strutture primarie americane (di un Morris, di un Judd, di uno Smith) o a quelle inglesi (di un King, di un Caro, di un Tucker), a quelle di strutture minime, realizzate in serie come alcuni dei numerosi «multipli» che abbiamo potuto osservare di recente anche in Italia. Proprio nel presentare questi multipli scrivevo: «oggi, in un momento che vede declinare l’interesse per il quadro da cavalletto e per la "statua”, l’oggetto "inutile” ma esteticamente stimolante acquista un inatteso vigore». Infatti, molti di questi oggetti (come quelli ideati da Scheggi, Castellani, Alviani, Carmi, Bill, Soto, Del Pezzo, Vasarely, per non citare che i più interessanti), pur nel loro piccolo formato, erano in grado di offrire delle caratteristiche stilistiche e tecniche pari a quelle di opere assai più importanti per mole e impegno. Quello che vale per questi oggetti di serie è la loro precisa ricerca d’una esecuzione perfetta, senza sbavature, senza o con ridotta prestazione artigianale e dove l’aspetto oggettuale sia evidente al punto da riescire a creare un trait d’union con il vero e proprio oggetto dì serie prodotto industrialmente. Un esempio di connubio dei due aspetti si ha, ad esempio nella produzione appena iniziata di alcuni oggetti in piccola serie su disegno di artisti ben noti. Interessanti tra questi oggetti una porta di Fontana e una di Castellani nonché un tavolino di Franco Angeli, tutte in materie plastiche che costituiscono un punto di passaggio tra l’opera unica quale era sin qui concepita e l’oggetto di serie creato attraverso l’intervento dell’industria.

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Il bilancio, in definitiva, che si può ricavare dalle manifestazioni artistiche della passata stagione - a prescindere dal valore politico o sociologico dei movimenti contestari che hanno in parte collimato con quelli, ben più importanti, del mondo studentesco - è abbastanza lineare. Attualmente la situazione delle arti plastiche appare nettamente dominata da alcuni aspetti che sono del resto intimamente legati al tipo di «società dei consumi» qual è quella in cui ci troviamo a vivere: tra questi aspetti vi è, da un lato, la tendenza seguita soprattutto negli Usa ad una creazione di opere di notevole mole e di notevole respiro, idonee (e ideate già in partenza) per il museo o per la grande collezione privata; ed a questo indirizzo vengono adeguandosi molti degli artisti oggi più affermati e di cui in parte ho già fatto i nomi (come Morris, Smith, Stella, Judd, Caro, Turnbull, King, Lenk).

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Ma questo stesso fatto che parlerebbe in favore d’un approfondimento della critica, ha portato con sé un altro fenomeno abbastanza singolare: quello d’una dissociazione tra critica e valore, tra critica e gusto; in altre parole tra elemento assiologico e elemento critico. E, innanzitutto, una valutazione critica ha da essere necessariamente assiologica? La risposta sembrerebbe lapalissiana; eppure a ben guardare, se scorriamo i testi critici - anche tra i migliori - degli ultimi anni (e possiamo fare alcuni nomi: da quello di Honnef a quello di Catherine Millet, da quello di Celant a quello di Trini, di Lea Vergine, ecc...) ci accorgeremo che ben raramente in questi testi si tratta o si ragiona di «valori», ma quasi sempre di «significato», di «sintassi», di «funzione metaforica o metonimica», di «sintagmi» di prima o seconda articolazione e via dicendo.

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Certo: anche le descrizioni di cui Huysmans si compiaceva nel narrare il martirio di sainte-Lydvine (la santa fiamminga che, ricoperta di ulcere, fistole, piaghe, giaceva in un mare di sangue e di pus, sul suo pagliericcio immondo) non erano meno sconcertanti - e forse lo spirito che le informava era abbastanza simile a quello delle macabre orge dell’austriaco o di altri body artisti -, ma le salvava, almeno, la loro perfezione letteraria; mentre nel caso di alcuni di questi operatori, il resultato appare molto ambiguo. Che poi, ragioni di carattere psicologico e psicanalitico (come quelle molto abilmente tentate da Lea Vergine nel suo avvincente volume) possano in buona parte giustificare simili azioni, non basta ancora a renderle più accette o meritorie da un punto di vista estetico e sociale. È un discorso analogo a quello che fu fatto a suo tempo a proposito di certe macabre sequenze del film di Jacopetti Africa addio: ossia, se nell’opera d’arte è lecito andare contro la cosiddetta morale corrente; se antiquati schemi moralistici non possono più reggere di fronte ai nuovi modi di concepire la vita, il rapporto tra i sessi, l’arte stessa, ciò non toglie che non si possa - in nome di queste conquiste - tollerare o anzi incoraggiare delle esibizioni che alcune volte (non sempre, ovviamente) sono solo velleitarie, tristemente ingenue, astutamente maligne, quando non sono addirittura memori d’una mentalità nazifascista non ancora del tutto sopita.

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Non è il caso che io riassuma qui i termini della questione, che è finemente analizzata da Franz Boas, e di cui Lévi-Strauss ha dato una abbastanza attendibile giustificazione strutturalista. Sta di fatto che la presenza di motivi «stilistici» del tutto analoghi, in popolazioni tra loro distinte e distanti e comunque prive d’ogni possibilità di contatti e di influenzamenti reciproci, non può che parlare a favore d’una tesi «astorica», d’un principio formativo generalizzato e svincolato da ogni eventualità di successione cronologica.

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Sembra a questo punto di dover porre una distinzione abbastanza netta circa la contrapposizione di «sincronico» versus «diacronico», entro i rispettivi ambiti della ricerca filosofica e artistica. Da quando gli strutturalisti e i linguisti hanno rivendicato l’importanza d’un’impostazione sincronica nello studio delle concatenazioni linguistiche, si è sempre più marcatamente evidenziato il principio di privilegiare l’aspetto sincronico di alcuni fenomeni in campo antropologico, semiologico, e dunque anche estetico. Ma se questo approccio è stato indubbiamente fruttifero, perché ha spesso permesso di sfaldare un edificio pleonastico basato su dati storici che non facevano che costituire un ingombro per tali ricerche, è anche vero che molto spesso questa preferenza data all’approccio sincronico ha finito col costituire una remora a molte serie indagini che muovevano alla ricerca delle origini prime, delle cause remote, di taluni successivi sviluppi. Ecco perché ritengo che sia opportuna una distinzione netta tra il valore che un approccio sincronico presenta per lo studio dell’arte (e del linguaggio verbale) e per lo studio della filosofia. Mi sembra ovvio, infatti, che per la seconda sia del tutto impensabile di voler prescindere dall’aspetto diacronico, proprio perché il fattore storico è essenziale in questa disciplina, mentre lo è solo in alcuni casi per la prima.

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Tuttavia, un ritorno a un tipo d’arte che abbia abbandonato i valori di scambio per quelli esclusivamente d’uso - oggi quasi inimmaginabile -, mi sembra abbastanza ipotizzabile, comunque si mettano le cose dal punto di vista socio-politico. Ne abbiamo già oggi degli esempi anche se marginali e paradossali: la pittura-scultura infantile, quella dei dementi (entrambe spesso «spontanee» o esercitate con precisi intenti pedagogici e terapeutici) sono forme d’arte del tutto avulse da ogni «valore di scambio», cariche invece di un «valore d’uso». (Anche se, persino su questi onesti e candidi esempi d’un’arte fatta per catartizzare e curare, si son visti lanciarsi gli avvoltoi dell’affarismo consumistico: allestitori di mostre d’arte infantile e di arte demenziale, pronti a «valorizzare» tali opere assurde e perciò allettanti sul mercato artistico). E allora non stupisce che, accanto a tanti esempi di body art, di forme autodeformatrici e autolesionistiche, si siano riesumati degli esempi «storici» come quelli del viennese Messerschmid (1736-83)1 e che nella Documenta 73 di Kassel, accanto alla Selbstdarstellungen dei Ben, dei Nitsch, degli Acconci (essi stessi per buona parte rientranti nella categoria d’un’arte patologica anche se già in partenza mercificata) si siano allestite mostre come quelle degli schizofrenici Adolf Wölfli e H. A. Müller. Si tratta comunque di casi e di esempi marginali, che non tolgono nulla alle previsioni, in parte positive, che ho fatto per quanto riguarda la possibilità futura d’un’arte non soggetta all’esclusiva esca del consumismo, e capace invece di valere da complemento e da completamento al «tempo lavorativo», nonché da stimolo per una diversa utilizzazione di quello che - con espressione quanto mai incauta - è stato definito «tempo libero».

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La pittura moderna in Italia ed in Francia

252801
Villari, Pasquale 4 occorrenze
  • 1869
  • Stabilimento di Gius. Pellas
  • Firenze
  • critica d'arte
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L’Arlecchino, di forme atletiche e pure svelte abbastanza, ha ripreso il suo mantello, e tutto lieto s’apparecchia a fuggire, senza neppur volgere uno sguardo alla sua vittima. Due carrozze aspettano lontano fra la neve. Il contrasto è bello, la scena, come sempre, pittoresca; e questo misto di tragedia e commedia fa restare pensosi. Ma quale è il valore e la dignità della vita per questi personaggi?

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Egli non si gettò nello studio del vero e della natura umana con quella stessa franchezza, non ebbe la medesima fede che ivi poteva trovare la sorgente inesausta d’un nuovo ideale; onde qualche volta lo vediamo cadere in un sentimentalismo romantico, contentarsi d’una esecuzione gentile, elegante, ma non abbastanza energica ed originale. Egli resta un capo-scuola che fa risorgere l’arte italiana, inizia la pittura moderna, la scuola storica fra noi; ma i suoi seguaci cercano la cifra della sua arte, e cadono nello chic che è un po’ il difetto della pittura milanese. L’Induno si dette ai quadri di genere, e anch’esso cercò il vero. La sua varia e gentile fantasia, il suo facile pennello sembrano ispirarsi ancora più direttamente alle scene del Manzoni; ne vogliono riprodurre la ingenua, nobile e vera espressione, descrivendo affetti ogni giorno veduti e sentiti nella vita domestica. Ogni ricordanza dell’Accademia è perduta nell’Induno. Ma la pittura di genere, appunto perchè esprime facili pensieri ed affetti notissimi, ha bisogno di colpirli in tutte le loro più fuggevoli gradazioni, nelle più istantanee espressioni. Ed ha bisogno per ciò di far prova d’una forza d’esecuzione straordinaria, altrimenti perde uno de’ suoi pregi principali. Ora l’Induno ha, senza dubbio al mondo, una immaginazione varia e felice, una facilità, d’esecuzione grandissima, una grazia in tutto ciò che dipinge; ma egli si ripete troppo, e la sua maniera a lungo andare stanca, perchè diviene monotona. La sua pittura manca di energia e di rilievo; essa introdusse un nuovo ed importante elemento nell’arte italiana; ma fece sorgere imitatori che vi cercarono e trovarono una cifra convenzionale, la quale riprodussero senza il merito e l’originalità del loro maestro. Così l’arte milanese non aveva trovato uno di quei geni che bastano a sollevare lo spirito di una nazione; ma l’Hayez fu pure il nobile veterano della nostra pittura moderna, colui che primo le accennava ed apriva una nuova strada.

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Ma quello che è più, queste varie tendenze non erano ferme abbastanza per dar luogo a varie scuole. Nello stesso artista s’osservavano qualche volta varie maniere. È la conseguenza naturale d’un’arte nata quando l’Italia non s’era anche formata; ma è un grave danno ed una grave accusa, perchè ciò non permette ad alcuno dei nostri pittori d’esercitare un’azione generale sullo spirito del paese, e non dà alle sue opere un carattere nazionale. L’arte italiana lascia quindi una impressione indeterminata ed incerta. Ma v’è di più. A giudicarla dai suoi quadri, l’Italia si presenta non solo come un paese che è ancora in uno stato di formazione; ma ancora come un paese chiuso in se stesso, senza partecipare gran fatto alla vita e al moto intellettuale dell’Europa. Tutti quei grandi soggetti della storia moderna, che sembravano essere preferiti dai pittori stranieri: la Riforma, la Rivoluzione, le guerre civili di Francia non avevano occupato alcuno dei nostri artisti. Anzi i medesimi soggetti italiani che essi scelgono, sono per lo più soggetti municipali. Federigo II, Federigo Barbarossa, Gregorio VII, tutti quei personaggi nei quali s’è, per un momento, concentrata la storia d’Italia e d’Europa, non si vedevano in alcun quadro. Quella fina analisi psicologica, quelle espressioni fugaci che pure partono dal fondo del cuore e rivelano un carattere, tutto quell’arduo studio che la pittura moderna mostrava di aver fatto nei quadri dello Steevens, del Enauss e di tanti altri, non si vedeva nella nostra pittura di genere, occupata invece assai più della sola azione e dell’effetto artistico. Evidentemente la cerchia d’idee in cui l’arte italiana è vissuta, ha ancora bisogno d’essere allargata, perchè in essa si senta e si veda la forza intellettuale d’una grande nazione e d’una grande cultura.

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Si è pensato alle scuole d’applicazione per gl’ingegneri di ponti e strade, di vie ferrate, di officine industriali e di miniere; ma all’architetto, che deve essere prima artista e poi uomo di scienza, non s’è pensato abbastanza. Spesso è un capo muratore colui che dirige la costruzione d’un palazzo. Coloro che si danno alla professione, qualche volta pigliano la via universitaria e trascurano l’arte, qualche volta vanno all’Accademia di belle arti e trascurano la scienza di cui hanno uguale bisogno. La conseguenza di questo fatto è semplice. Spinti dalla corrente industriale e prosaica del secolo, noi siamo ridotti a tale, che le nostre case non sono più opere d’arte, anzi di rado l’arte v’entra per nulla. La pittura, la scultura, l’architettura una volta facevano come un’arte sola. Oggi, invece, lo scultore fa una statua che possa stare ugualmente, come un mobile di lusso, in un salone qualunque; il pittore si pone a far piccoli quadri, che possano, come le stampe, entrare in commercio; e l’architetto fa una casa che come un magazzino, si possa fornire di suppellettile, secondo il capriccio mutabile di coloro che vengono sui abitarla. I pubblici edifizi, pei quali abbiamo speso parecchi milioni, sorgono senza che lo scultore o il pittore sieno mai chiamati a dare un compimento di cui si crede che non abbiano più bisogno. Si dice che è risparmio di spesa; ma una linea barocca costa quanto una elegante, e quello che si spende nei nostri saloni, per supplire con un lusso sfoggiante alla mancanza d’arte, basterebbe certo a fare il contrario. Ristabilire l’unità e l’armonia delle arti, sarebbe il più efficace sussidio che si potrebbe dare ad esse. I basso-rilievi del Partenone non potrebbero stare ovunque. Gli affreschi del Vaticano perderebbero assai in un altro edifizio. Perfino i barocchi erano, sotto questo aspetto in condizioni assai migliori di noi. Dai loro palazzi d’un’architettura esagerata e sfoggiante, dalle ampie scale ornate di statue, dalle terrazze che davano sui giardini, dai saloni colle mura e le volte ornate di grandi freschi, sino alla più minuta suppellettile, agli abiti, alla tabacchiera, all’orologio del cicisbeo, essi serbavano il medesimo stile; e l'arte loro, scorretta ed esagerata, aveva pure un carattere che manca alla nostra, e degli artisti le cui opere saranno pur sempre ammirate. Non si può, noi lo sappiamo, vincere affatto o fermare l’andazzo dei tempi; ma un efficace rimedio sarebbe l’istituzione d’una grande scuola di architettura, e d’un tirocinio regolare, se non imposto almeno indicato ed aperto a tutti. È una parte indispensabile d’un buon sistema d’istruzione in ogni paese civile.

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La storia dell'arte

253403
Pinelli, Antonio 4 occorrenze

Ci sono dipinti, per fortuna abbastanza rari, il cui soggetto è per noi un vero e proprio enigma e rischia di rimanerlo forse indefinitamente, nonostante gli sforzi di interpretazione iconologica messi in atto dagli storici dell’arte. Basti pensare a dipinti celeberrimi come la Flagellazione di Piero della Francesca o la Tempesta di Giorgione che, nonostante l’accanimento interpretativo con cui sono stati stretti d’assedio da decine e decine di agguerritissimi studiosi, sembrano esser rimasti inaccessibili e conservare gelosamente il proprio segreto. Più spesso, invece, il soggetto è palese e a tutti ben noto. Ma a volte, sotto un’apparente superficie di ovvietà, si celano piccoli e grandi enigmi che è necessario decifrare. Eccone un esempio: la Natività, con la grotta, la mangiatoia, l’asino, il bue, i pastori in adorazione, l’arrivo dei tre re Magi. Chiunque sa riconoscere questo soggetto. Ma perché, ad esempio, in certe Natività, la grotta assume l’aspetto di un tempio in rovina, come ad esempio nell 'Adorazione dei Magi del pittore bolognese Amico Aspertini (fig. 4), dove la canonica capanna di legno si appoggia agli archi e alle colonne dirute di un antico tempio? E perché in certi casi, come ad esempio nella Natività del senese Francesco di Giorgio Martini (fig. 5), in luogo della capanna o dei ruderi del tempio, alle spalle della Sacra Famiglia compare un arco trionfale in rovina? Nulla è a caso. Nella Legenda aurea di Jacopo da Varazze, un testo medievale che raccoglie un’infinità di leggende relative alla vita di Cristo e dei Santi, si legge che al tempo della nascita di Gesù i Romani, vivendo da parecchi anni senza guerre, eressero un Tempio della Pace, e poiché l’oracolo di Apollo aveva predetto che quel Tempio sarebbe durato fino a quando una vergine non avesse partorito un figlio, avevano posto sull’edificio l’incauta iscrizione: «Templum Pacis Aeternum». Le rovine classiche di tante Natività alludono dunque a questa pia leggenda, che si conclude con il crollo del Tempio durante la notte di Natale. La misera capanna di legno che sorge sulle rovine di un antico tempio pagano allude dunque a questa leggenda, simboleggiando l’era cristiana che sorge sulle grandiose rovine della civiltà pagana, raccogliendone l’eredità, ma rinnovandola dal profondo.

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Un’altra particolarità da rilevare in quest’opera è la presenza della firma OPUS PETRI DE BURGO S[an]c[t]i SEPULCRI che si trova nella base del trono di Pilato: è abbastanza singolare, infatti, che Piero della Francesca abbia sentito il bisogno di firmare e datare, e per di più in lettere capitali maiuscole ad imitazione delle epigrafi latine, questa tavoletta che è tutto sommato molto piccola e potrebbe sembrare, a prima vista, lo scomparto di una predella. Uno degli enigmi più intriganti di questo quadro è, infatti, proprio quello concernente la sua destinazione e funzione originaria. Attualmente esso è custodito tra le raccolte della Galleria Nazionale in Palazzo Ducale, ma da un manoscritto settecentesco apprendiamo che in quell’epoca era conservato nella sagrestia del Duomo urbinate. Ma era la sua collocazione originaria? Difficile, comunque, che possa essersi trattato di uno scomparto di predella: non abbiamo infatti notizie di una predella di Piero che possa aver implicato un simile soggetto. Inoltre, proprie la presenza della firma induce a far scartare l’ipotesi che sia stato uno scomparto di predella. Possibile, infatti, che sia sopravvissuto solo uno scomparto e per di più proprio quello su cui il pittore aveva scelto di apporre la propria firma? Tanto più che, di norma, i pittori apponevano la propria firma sulla pala d’altare e non sulla predella.

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Entrambe sono marginali rispetto alle corrispondenti scene figurate, di cui costituiscono la ricca intelaiatura ornamentale, ma mentre la cornice ghibertiana è ben visibile e può essere apprezzata in dettaglio da chi osserva le porte, le fasce ornamentali orvietane sono ad oltre dieci metri d’altezza rispetto al visitatore della Cappella che, pur ricavandone una percezione d’insieme abbastanza precisa, non è in grado di distinguere ogni singola testa dipinta negli esagoni e di apprezzarne la posa, la qualità e i dettagli. In altre parole, le testine non furono dipinte per essere osservate ed apprezzate una per una e nei dettagli, ma hanno un carattere squisitamente accessorio ed ornamentale, avendo come solo scopo di contribuire a rendere più ricco ed ornato l’effetto d’insieme.

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In questo dipinto il tema è declinato in modo abbastanza diverso da come lo era nel sarcofago antico, ma emerge con particolare evidenza un elemento comune alle due scene: il braccio inerte del cadavere, che segna un apice drammatico della composizione caravaggesca, tanto da apparire come il suo principale fulcro spaziale ed emotivo. Il grande storico dell’arte e della cultura Aby Warburg coniò per questo tipo di immagini, che troviamo più volte ripetute in diverse epoche e contesti, la definizione di pathosformeln (singolare: pathosformel), formule espressive. Nel 1793 Jacques-Louis David estrapolerà proprio questo particolare del braccio inerte, così carico di storia e di suggestioni emotive, per adattarlo ad un dipinto in cui non è rappresentato né il cadavere di Meleagro né quello di Fig. 31. Morte e trasporto funerario di Meleagro, 150-160 d.C. ca, Istanbul, Museo Archeologico. Fig. 32. Luca Signorelli, Trasporto del corpo di Cristo, 1500 ca., Orvieto, Duomo, Cappellina dei Corpi Santi. Fig. 33. Raffaello Sanzio, Trasporto del corpo di Cristo, 1507, Roma, Galleria Borghese. Fig. 34. Michelangelo da Caravaggio, Deposizione di Cristo, 1602-04, Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana. Cristo, ma quello del rivoluzionario Jean-Paul Marat, ucciso a tradimento da Charlotte Corday (fig. 35). Ma ritroviamo questa pathosformel anche in un’opera recentissima del grande videoartista Bill Viola, che non è nuovo al dialogo con opere d’arte del passato, e che nel caso di questa scena (fig. 36), tratta dal suo video Emergence del 2002, ha rievocato il tema del «braccio di Meleagro» all’interno di un’emozionante rivisitazione di una quattrocentesca Pietà ad affresco di Masolino da Panicale (fig. 37).

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Le arti belle in Toscana da mezzo secolo XVIII ai dì nostri

254944
Saltini, Guglielmo Enrico 1 occorrenze
  • 1862
  • Le Monnier
  • Firenze
  • critica d'arte
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Vero è che le opere sue e dei suoi contemporanei, in mezzo a molti pregi, risentono di una certa tal quale asprezza metallica, nè celano abbastanza la immensa fatica dell’artefice; pure lavorò moltissimo, e sempre con amore. Una delle cose sue principali è la stampa della cappella di San Filippo Neri, e meritano lode quelle ricavale da alcuni quadri della galleria Cerini, e da qualche dipinto di Raffaello. Fu maestro d’intaglio in rame nella nostra Accademia. — FERDINANDO GREGORI pure di Firenze (n. 1740, m. sul finire del secolo) figliuolo e allievo di Carlo, disegnò anch’esso e incise assai bene a bulino. Stette prima molto tempo in Parigi, e poi tornato in patria successe al padre nell’insegnamento; ma poco fece nè cose di gran conto. Appartengono pure a questo periodo i fiorentini — ANTONIO GREGORI fratello di Ferdinando, che ebbe una certa dolcezza nel taglio. — CARLO FAUCCI, discepolo anch’esso del vecchio Gregori, che incise qualche buona stampa, come la favola d’Ercole sopra un disegno del Traballesi, cavato dal quadro del Domenichino in Forlì; — SANTI Pacini che adoperava il pennello e il bulino, senza però levarsi dalla mediocrità; e — GIUSEPPE CIPRIANI pittore che anche incideva all’acqua forte vedute e disegni per libri, sebbene, come notammo a suo luogo, debba esso la fama piuttosto alle matite. — Ma chi portò nell’arte toscana qualche miglioramento è GIOVAN BATTISTA Cecchi fiorentino (n. 1748, m. dopo il 1800). Non potendo attendere, perchè storpiato della mano destra, al mestiero del falegname a cui l’avean posto i poverissimi genitori, si mise al disegno per il quale mostrava non comune vocazione. Poi desiderando applicare all’intaglio in rame si allogò presso Ferdinando Gregori, di cui fu non ultima lode avere allevato all’arte questo giovane volonteroso. Fece il Cecchi molte incisioni; ma tra le principali si ricordano solamente una Santa Vergine da Annibaie Garacci; un’altra da Francesco Vanni detta dal volgo la Madonna della Poppa, quadro posseduto una volta dalla famiglia Orlandini di Siena; e il Martirio di San Lorenzo di Pietro da Cortona. Si devono pure a lui molti dei ritratti della serie degli uomini illustri nelle arti belle, data in luce a’suoi tempi in Firenze. Mercanteggiò anche di stampe, ma senza ritrarsi dall’esercizio della sua professione, di cui fu operosissimo cultore.

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L'arte contemporanea tra mercato e nuovi linguaggi

257088
Vettese, Angela 1 occorrenze

L'aspetto metaforico rispetto al nostro attraversamento della vita come campo di sensazioni era abbastanza chiaro. Il bisogno di partecipazione emotiva e di sentirsi parte di un tutto universale è oggi più che mai vivo, forse per contrastare un progresso tecnologico e scientifico necessario ma difficile da assimilare.

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Personaggi e vicende dell'arte moderna

260620
Venturoli, Marcello 4 occorrenze
  • 1965
  • Nistri-Lischi
  • Pisa
  • critica d'arte
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Ma non vogliamo qui dilungarci molto in una spiegazione abbastanza ovvia. Aggiungiamo soltanto un avvertimento. Non si crei fra epoca ed epoca picassiana nessun diaframma, si veda ogni opera liberamente, con la stessa libertà con la quale il pittore l’ha realizzata.

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Per farsi una idea abbastanza chiara del tipo, si guardi l’autoritratto del pittore esposto nella Mostra: una immensa chioma incornicia la fronte dell’uomo come un colbacco. Gli occhi grandi, cerchiati e fissi, guardano il mondo con curioso dolore; il naso aquilino, una piega scavata lungo le guance, i baffi e la barba corti ricoprono come un muschio nero una faccia di bronzo. Si direbbe che un viso così dipinto debba venir fuori da un’armatura, tanto è teso e squadrato dentro il suo spazio: invece un camiciotto bianco dal collo largo sul quale è appuntata una cravatta immensa che pare una farfalla senza capo, una gabbana a triangolo, rivestono il personaggio in un modo impreveduto e grottesco: ecco, il Viani dell’autoritratto sembra un clown in riposo, un buffone che, dimenticata la sua parte, guardi i suoi simili con la serietà dell’uomo.

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Non è stato altresì tentato il raggruppamento vicino alla «scuola romana di via Cavour», come la chiamò Roberto Longhi (Scipione, Mafai e Raphael) delle forze romane del così chiamato tonalismo (Capogrossi, Melli, Cavalli e qualche minore ma non meno fisionomico, del tipo di Rolando Monti, per esempio): movimento questo del tonalismo che deve essere ancora studiato non tanto allo scopo, abbastanza scontato in partenza, di liquidarne i «valori», quanto perché si presta alla individuazione in forma piuttosto massiva dei modi novecenteschi quasi passati di contrabbando oltre la dogana dell’antinovecento: dalla mai sufficientemente scontata grevezza naturalistica, invano campita in fondi monocromi, timidamente ed esteriormente ritmata in una grafia tra primitiva e parnassiana, goffamente scaldata di toni accesi, (i coloriti mattone, i corpi degli atleti color lavagna, o cotognato) alla rettorica divenuta più domestica e insieme più giuocata, degli eroi della stirpe, delle ninfe, delle messi, in una sorta di figurette, o nude o paludate, a passeggiare sotto portici piacentiniani, sopra pavimenti di pietra, di un grigio lustro come quello delle allora nuove di zecca gallerie di Milano. Arlecchini e matrone, romani nelle pose, gracili nello strato, non più pretesti per l’affresco, non ancora, e mai, dipinti di scene vere; ché nella apparente somiglianza di argomenti e di soggetti con quelli della scuola romana già famosi (dalle sirene alle donnine, dalle maschere, ai «personaggi») i quadri dei tonalisti si distinguevano per la loro astrattezza, per una sorta di scommessa manuale con la immaginazione.

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A fianco dei futuristi italiani gli organizzatori della mostra — presentata da Guido Ballo — hanno posto le opere dei cubisti e degli orfisti: dal «Duo per flauto» di Braque, a cinque opere del Delaunay, dalla tavolozza accesa che piacque tanto a Kandinskij; e poi Feininger, Gleizes, Gris, Leger (quest’ultimo, già nel 1910, se la data del quadro non mente, coi modi del cubismo sintetico, tanto che sembrerebbe essere questo tutto una cosa con la personalità di Leger), Antoine Pevsner (con una «testa di donna italiana» del 1915 di un lirismo pari alla intensità, in quel rosa arancio e rosso papavero, incisi in piani significanti); e poi il bronzo del 1909 di Picasso che apre un fiume di discussioni sulla priorità o meno della scultura di Boccioni nei confronti dei modi cubisti ortodossi; Iacques Villon ci mostra ancora una volta come il suo metodo di scomporre e ricomporre la realtà sensibile in un ordine astratto cominciò nel 1913, con un quadro «Soldati in marcia» che non era poi tanto lontano dalle fatiche e dalle incertezze dei futuristi, anzi abbastanza vicino a quel loro dinamismo fisico, tra la simbologia della Secessione e il cinematografo.

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Saggi di critica d'arte

261824
Cantalamessa, Giulio 6 occorrenze
  • 1890
  • Zanichelli
  • Bologna
  • critica d'arte
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A questo punto non posso far a meno di riferirvi, o Signori, un aneddoto che a me pare abbastanza curioso. Qualcuno di voi ricorda certamente il cav. Gaetano Giordani, ispettore di questa pinacoteca, quel vecchietto così compito e cerimonioso, che non avea ridotto la difesa dell’arte antica, da lui idoleggiata, ad un bisogno di aggredire con arroganza i moderni, anzi apprezzava gl’ingegni di adesso, animava i giovani volonterosi, e, ad ogni indizio di appetito storico nel suo interlocutore, scodellava volentieri la sua erudizione, che non era poca, e avea potuto fornir nutrimento a molti studiosi, non escluso l’illustre Milanesi, che se n’è valso in vari passi dei suoi commenti al Vasari. Ma che non può il rispetto cieco agli scrittori antichi? Ciascun di noi trovando in un quadro del Francia una data diversa da quella che il Vasari gli assegna, giudicherebbe che il Vasari ha sbagliato. Ma il Giordani non volle che il Vasari avesse torto, e obbligò il Francia ad ima postuma testimonianza falsa, facendo cancellare i quattro I che seguivano il 90. Le ossa di Giorgio di Arezzo avranno esultato nella tomba fiorentina; ma la gioia a fondamento di falso non è durevole neppure pei morti. Ora i quattro I sono ricomparsi, grattata la tinta che li aveva occultati, ma è sempre discernibile la traccia della tentata cancellatura, e ciò è bene che sia, perchè sono molto istruttivi i documenti delle aberrazioni in cui è incorsa la critica, quando unico impulso ari suoi 'passi non sia stata la spassionata ricerca della verità.

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È da credere che uno dei suoi più grandi dispiaceri sia stata la caduta della famiglia Bentivoglio, dalla quale era stato beneficato; ma era oramai il tempo in cui la desuetudine dalla vita politica e dalla libertà, il potere senza contrasto seguitare a far l'artista sotto qualunque dominio rendeano questi uomini abbastanza indifferenti al cambiar di padrone. O fosse tema dell’ira di Giulio, o desiderio di non perdere l'ufficio della zecca, o facile rassegnazione ad avvenimenti ch’ei non poteva mutare, potè persino imprimere sulla medaglia, ordinata a commemorare quel trapasso di signoria, le parole: “Bononia per Julium a tyranno liberata Certo, la distruzione dei suoi affreschi lo afflisse di più; ma nelle poche notti insonni che il travaglio di questo pensiero gli procurò, egli avrà trovato conforto in fondo alla sua anima sì pacifica, considerando che nei suoi cinquantasette anni, grazie a Dio, egli era sano e fecondo, e avrebbe fatto altre opere non meno degne di quelle che la brutalità dei vittoriosi avea disperse in polvere sotto un cumulo immane di rovine.

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Non parlo di Giacomo Boateri che lavorò pochissimo e di cui resta, unico saggio autentico, una sacra famiglia nella galleria Pitti, troppo rossa d’intonazione, ma per disegno, per garbo di atti e di volti abbastanza buona. Nulla palesa in questo artista il proposito di dipartirsi dalle massime del Francia. Forse è sua anche una Madonna col putto che nelle galleria vaticana è attribuita allo stesso Francesco Francia. Non parlo di Timoteo Viti, il più gentile e intelligente tra gli allievi del Francia, perchè abbandonò Bologna fin dal 1495, e vivendo lontano modificò la maniera sugli esempi del Perugino e di Raffaello. La graziosissima Maddalena, che di lui possiede questa pinacoteca, non fu fatta per Bologna, ma ottenuta, correndo il nostro secolo, da’ possessori d’Urbino mediante un cambio con altra opera d’arte. Poca attenzione merita Cesare Tamarozzi, disegnatore debolissimo, fiacco e meschino nelle modellazioni, e che spesso annega gl’insegnamenti del Francia o del Costa (non discuto s’ei provenga dall'uno o dall’altro) in un’insana condiscendenza alle predilezioni di Amico Aspertini. Non è importante rilevare se Giovan Maria Chiodarolo derivi dal Costa, come per indizi desunti dalle opere crede il mio amico Corrado Ricci, o dal Francia, come scrissero il Baldi, il Bumaldo, il Masini e, dopo questi, il Malvasia, la cui affermazione, essendo fondata sopra le vacchette del Francia ch’ei consultava e di cui fa menzione anche a questo proposito, non può essere respinta. I due maestri operarono a Bologna contemporaneamente, vissero, a quanto sembra, da buoni amici, ed ebbero molti caratteri comuni nell’arte; sicchè è naturale che i giovani desumessero dall’uno e dall’altro, e secondo la personale disposizione seguissero più questo che quello, non tenendosi troppo vincolati al maestro che li aveva istruiti. Checchè sia di ciò, del Chiodarolo qui convien dire qualche parola, poichè fa parte del gruppo di pittori che segue immediatamente al Francia, senza far causa comune coi raffaellisti.

Pagina 64

Ma la dilettazione estetica che l’affresco vi cagiona, non riesce mai ad eliminarvi del tutto il fastidio di un gettar di pieghe abbastanza vizioso e pesante. È singolare che questo difetto scompaia affatto nell’altro affresco, dirimpetto al primo, rappresentante S. Occitia clic disputa davanti all'imperatore. Ivi i panni non usurpano più della conveniente misura, e le pieghe hanno l’euritmia evidentemente derivata dal Francia. Ma è mancata in questo affresco l’originale e nitida ispirazione ond’è sì bello il primo. Ordine, chiarezza, equilibrio nel distribuir le figure: insomma obbedienza coscienziosa alle regole scolastiche; e non c’è altro da dire. Lodevole molto però è la figura della santa, gentile c modesta quanto nobile, con un senso, finissimamente rilevato, di ritrosia nell’atto esteriore, mentre è palese in quel gracile aspetto la fermezza della convinzione che 1’ha resa eloquente. In conclusione, il Chiodarolo appare a noi buon frescante, benchè queste pitture fossero fatte da lui quand’era giovanissimo. Più tardi, secondo le parole del Malvasia, egli fu assai più abile, dipingendo pel cardinale Ivrea nella palazzina della Viola, ove forse sotto gl’intonachi resta qualcosa delle opere sue e degli altri che vi operarono a gara. Mi auguro che si facciano dei tentativi per recuperare alla storia della pittura bolognese uno de’ più importanti documenti.

Pagina 66

Press’a poco nello stesso tempo era deriso a Firenze Pietro Perugino, tanto acclamato pochi anni innanzi, Pietro Perugino, che non ha col Francia solamente la comunanza di tal sorte, ma notevoli analogie d’ingegno e di stile, fin qui non abbastanza descritte dalla critica.

Pagina 9

Qui par veramente che il Bagnacavallo, più che abbarbagliato dalle esteriorità raffaellesche, sia stato agitato e incalorito dallo spirito di lui; la qual cosa poi in altri termini vuol dire che, levato il pensiero ad un’alta e indefinita intonazione artistica, egli ha potuto rendere un abbastanza largo margine alla sua libertà individuale. Questi santi sono notevoli pel carattere semplice, austero e maestoso degl'insiemi, per la convenienza dei tipi, pel getto decoroso dei panni. Sono esseri che veramente vivono al disopra di noi; si sente di aver con essi un rapporto da inferiori a superiori; appaiono come nobile trasfigurazione dell’aspetto umano. E questo suggello di superiorità è mirabilmente secondato dal disegno largo quanto puro, dal colore sapientemente discreto, dalla ricchezza stessa dei tappeti e degli arazzi sui quali l’artista ha fatto posar le figure. Un po’róse dal tempo e non immuni dalla tabe dei ritocchi, esse tuttavia sono assai lontane dal mostrarsi a noi in quell’eccellenza che fruttò all’artista, nel suo tempo giustissima ammirazione.

Pagina 91

Scritti giovanili 1912-1922

263845
Longhi, Roberto 6 occorrenze

Ora noi non potremmo abbastanza ringraziare il Dami per la deferenza che ha mostrato verso una nostra idea, tentando persino di addobbarla e di ampliarla; ma francamente dobbiamo confessare che le aggiunte ch'egli ha proposto per dare la ragione per cui avvenga che talora una certa regione significhi una certa arte, sono semplicemente pietose. L'identità del soggetto per secoli, può determinare una caratteristica locale? E come potrebbe se il soggetto non può predeterminare l'espressione figurativa, cioè l'arte vera e propria, tant'è che persino le storie più senesi, quella di San Bernardino, sono state trattate in modi infinitamente diversi? Come può una cosa che non è d'arte determinare una cosa dell'arte? E perciò neppure la facile trasmissione della tecnica può significare nulla, giacché noi non conosciamo e non ci occupiamo di tecnica, e non possiamo aderire all'opinione candidamente avanzata dal Dami in un altro scritto che «lo stile... nelle arti figurative coincida in tanta parte con la tecnica» («Intorno a Michelangelo», in «Marzocco», 22 febbraio 1911).

Pagina 303

Il Cavalcaselle vide abbastanza giustamente l'orbita puramente veneziana di Romanino, ma quanto al Moretto fu guasto dalla credenza in certe tradizioni che davano a Moretto giovine opere che non si possono ritenere in nessun caso della sua mano 3. Il Morelli fu alquanto sviato dall'obbiettività, dalla sua compiacenza nel contraddire per partito preso il Cavalcaselle; ciò l'avrebbe ricondotto automaticamente sulla via giusta almeno per il Moretto, e ad ogni modo la sua sperienza di conoscitore gli fece correggere al proposito molte cose, o almeno parecchie attribuzioni; ma il suo contrasto con il Cavalcaselle e il Bode lo rinserrò in una meschineria provinciale, per cui s'ostinava a cercare le origini locali di Romanino e a combattere la teoria del «palmismo» di quell'artista. Sarebbe stato utile domandare al Morelli che se è vero che tra il 1510 e il 1515 Romanino trovò la caratteristica armonia cromatica della scuola bresciana 4, resta da rispondere in che cosa mai questa armonia cromatica differisca da quella dei veneti contemporanei che si equilibrano sul terzetto Giorgione-Palma-Tiziano Giovine; e d'altronde il Morelli stesso riconosce chiaramente altrove il carattere veneziano di Romanino 5. Più spiacevole si è ch'egli riduca a una pura questione di puntiglio la questione di Moretto; CavalcaseIle, egli dice, sbaglia nel credere che Moretto nel suo primo periodo abbia imitato Palma o Tiziano; e noi ci consoleremmo se non fosse che Morelli fa rientrare per la finestra quello che ha cacciato dalla porta: Moretto dal 1521 non ha fatto che sviluppare e se si vuole raffinare l'armonia cromatica trovata da Romanino nelle pale di Padova e di San Francesco a Brescia 6. Ma in questo caso poiché Romanino non è che un veneto noi siamo ancora al punto del Lanzi; i bresciani si nascondono ancora nello «stuolo dei Tizianeschi».

Pagina 327

Un esatto senso di «relatività» e di «graduazione» si sprigiona dalla secchezza di questi additamenti; un senso che non trova abbastanza echeggiamenti nel testo. Il Berenson vuol forse mantenersi troppo fedele alla un poco corriva condanna del «provincialismo», vergata dieci anni prima nel capo- verso XIX dei suoi «Venetian Painters», che tocca di «Venetian Art and the Provinces» 9. ***

Pagina 329

Solo nei due cavalli Romanino non seppe abbastanza superare certe voluttà di scienza intorno all'oggetto specifico che gli toccava rappresentare. Aveva troppo fisso in mente qualche schema di nobile destriero, e una piccola presunzione nel voler segnare il passo, e l'ambio, nel voler dar vita notomica ai due animali, gli fece sdimenticare la ricerca di qual fosse per il cavallo il più semplice stemma cromatico, che tanti grandi prospettici da Paolo Uccello a Ercole da Ferrara avevano pure escogitato. L'avesse ricercato, che più varrebbe la scelta, a buon conto non disprezzabile, del sauro sfacciato, non senza un sentore di roano che si allea ai larghi finimenti amarantini; e dell'altro grigio, pomellato con tanta delizia e perizia visiva.

Pagina 333

Chi infatti ricordando le prime forme dell'attività di storico del professor Sirèn, forme tutte morelliane, e pur avendone seguito i primi tentativi di evoluzione verso una critica più attuale sebbene applicata ad argomenti non abbastanza «realizzabili criticamente» (cfr. «Burl. Magaz.», 1912: « A late Gothic Poet of Line»), legge queste pagine su Leonardo resta quasi sbalordito dell'abilità con cui l'autore con l'umiltà di un giovine di belle speranze si è voluto rieducare alle tendenze critiche più in voga. Spira da queste pagine l'aria leggermente snobistica che è carattere precipuo del criticismo alla moda nella cerchia che fa capo al «Burlington Magazine», anche ove non si voglia risalire alla alleanza stretta dell'autore con il traduttore William Rankin, un critico americano molto al corrente, come dimostra la breve «Storia della Pittura italiana» scritta da lui e da un collegio di «misses», e ottima per le biblioteche d'Hôtels internazionali, dove «Mornings in Florence» e «Stones of Venice» sono ormai giù di moda.

Pagina 347

Il corpo non ha alcun valore specifico in quanto umano, ma in quanto solido ed ha da fare abbastanza per sbocciare alla luce una calvizie sferica, un omero globoso, una coscia cilindrica, un dorso appianato, e per fare ad essi luogo, fraternamente, presso i riquadri lisci e piazzosi dei tavoli quadri e spessi, delle mura levigate e taglienti, delle colonne e dei tronchi nati ritondi.

Pagina 36

Scultura e pittura d'oggi. Ricerche

265895
Boito, Camillo 8 occorrenze
  • 1877
  • Fratelli Bocca
  • Roma-Torino- Firenze
  • critica d'arte
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E poi non bagna sempre le sue architetture nell’atmosfera veneziana; non dà abbastanza solidità ed ampiezza a’ suoi terreni, nè sfondo a’ suoi sfondi: insomma non è raro che in quelle tele si cammini con fatica e si respiri a stento. Il Querena si compiace anche nel ricreare con la fantasia le vedute dei secoli scorsi, restaurando i monumenti, e ravvivandoli con macchiette, che rappresentano fasti veneziani.

Pagina 116

Le opere del Grita escono dalle sue viscere; chi non le rispetta non le ha guardate abbastanza o le ha guardate con animo di trovarle brutte: la quale cosa accade tuttodì, senza che il guardatore si possa dire perciò di mala fede o di poco ingegno, poichè la leggerezza anche degli uomini più sodi — la nostra di critici segnatamente — è maravigliosissima. L’artefice che non bada a’ quattrini, che non cerca le lodi del pubblico e delle gazzette, che non fa un compromesso tra l’arte propria ed il gusto della età in cui vive, che alza la sua professione a ministero di idee, ha diritto non all'ammirazione, se non è ammirabile, ma alla stima della gente, massime in questi anni, nei quali gli artisti non abbominano i soldi, gli elogi e gli onori.

Pagina 180

Così vissi mezzo anno senza pace, con il travaglio di vedere troppo e con il rimorso di non vedere abbastanza, invocando un’ora tranquilla, bramando un paese dove i secoli trascorsi non avessero lasciato nessuna traccia del loro passaggio, un prato irrigatorio, una risaia, quattro gelsi, un rigagnolo.

Pagina 214

A chi vi dicesse di buttar giù i ruderi delle Terme di Caracalla, rispondereste legandolo per matto furioso; lasciate dunque in piedi un Governo, che è oggetto da gliptoteca, che è moneta da gabinetto numismatico, ma che giova al carattere della città, mostrando sparuto, è vero, e pure abbastanza evidente il riverbero di una sua bella epoca già molto lontana. Siete pittore prospettico: badate almeno alle macchiette. La prima volta che io entrai nella chiesa di San Giovanni in Laterano, mentre stavo guardando alla prosopopea di quei pilastri e di quelle arcate del Borromini, un cardinale con la testa alta, il portamento altero, l’occhio scintillante, usciva dalla sagrestia, seguito in atto di riverenza servile da uno stuolo di canonici e abati e chierici e servidorame in livrea gallonata. La chiesa, che nel totale mi era parsa goffa ed insulsa, diventò di botto, per merito di quelle figure, cosa tutta diversa. Il rosso, il pavonazzo, il nero, il bianco fecero brillare le tinte uggiose dell’architettura, fecero vivere le linee delle colonne e delle trabeazioni. Niuno meglio di voi può sapere come un colpo di colore trasmuti una scena, come un tono rinnovi un quadro. Voi mi volete interrompere per dire, l’indovino, che senza il Governo dei Papi i preti potrebbero starci a ogni modo. È vero; ma ciò che mi piaceva nel cardinale di San Giovanni in Laterano, ciò che lo accordava sì bene ai dodici apostoli colossali del Le Gros e del Rucconi, non era tanto la sua porpora, quanto quella sicurezza sdegnosamente cattolica, quell’incesso da principe orgogliosamente modesto, che non possono rivelarsi senza la coscienza e l’esercizio del proprio potere.

Pagina 217

Disgraziatamente, benché la cosa sia stata fatta abbastanza bene presso Parigi e in parecchi altri siti, l’unico luogo dove non la si possa con serietà tentare è per l’appunto Roma. L’imitazione assumerebbe qualcosa del puerile. Avere accanto l’esemplare e la copia farebbe ridere, ad onta della opportunità e della bellezza; senza dire che le case romane, eccetto quelle altissime della Suburra e di altri quartieri popolari, avevano il solo piano terreno e, al più, di sopra in alcune parti dell’edificio un basso piano di camerine. Perciò la riproduzione, che non sarebbe difficile per le abitazioni di campagna, riescirebbe quasi impossibile per quelle di città, dove le aree vogliono essere, anche nei villini, tenute in gran pregio, guadagnando in altezza col numero dei piani quel che si è sforzati a risparmiare nella superficie.

Pagina 227

Chi dicesse, invece di non ignobile, nobile o generoso o gentile o forte o piacente, direbbe troppo e non direbbe abbastanza. Tutti i sentimenti, anzi tutte le infinite gradazioni dei sentimenti si possono suscitare con l’arte. C’è una sola cosa, che fa diventare miserabili anche i pregii materiali della forma: la bassezza. Tolta questa, ogni impressione, ogni affetto rientra nel dominio dell’arte: il cuore può sentirsi dilaniare, straziare, inorridire, stringere, soffocare, raggrinzare, raggricchiare; si può andare fino al disgusto, quasi fino allo schifo e allo stomaco. Il Machiavelli dice che Dante non ha fuggito il porco: avrebbe potuto dire il medesimo di tanti pittori, che sono veri artisti. La stessa voluttà non ignobile ha dei diritti nell’arte, dei grandissimi e legittimi diritti: esempio i Greci, i Cinquecentisti veneziani, Rubens e via via. Sappiamo bene che la critica nega sovente questi diritti; ma la critica deve serbare la dignità della sua toga e de’ suoi occhiali. Fa come la famosa figura del Camposanto di Pisa: si copre il volto con la mano, e guarda tra le dita.

Pagina 6

Il bozzetto parve troppo drammatico e poco statuario; questa apoteosi del 17 di marzo sembrò più un monumento alla Rivoluzione che un monumento al Manin; e ci rammentiamo di avere udito un bel vecchio biasimare la seggiola del Vela, raccontando con compunzione come il Manin fu portato dalle Carceri sino in Piazza San Marco sopra un nudo asse di legno trovato a caso presso il Ponte di Canonica, come poi al Caffè Florian si sostituì all’asse un tavolino, che ancora oggi è conservato per reliquia, e come su questo tavolino, senza che il futuro proclamatore della Repubblica perdesse mai la sua dignità e la sua compostezza, venisse questi portato dal popolo plaudente fino alla sua casa di San Paternian, che è un giretto abbastanza lungo.

Pagina 80

Il povero pittore non sa da che parte pigliarle, il pennello non è abbastanza sottile per la dilicata modellatura, la tavolozza non è abbastanza ricca di gradazioni per il soave incarnato. Meglio il naso da pappagallo o gli occhi da civetta. La stessa fotografia riproduce con più evidenza artistica i volti un poco bizzarri, che non i lineamenti misurati e raccolti. Il sole stesso non ama la perfezione. Così è dei ritratti corporei come dei morali e degl'intellettuali: si ammira la perfezione, ma — bestie che siamo! — ci si sente più attratti alla grandezza imperfetta. L’errore, l'esagerazione rende umana la sublimità dell’ingegno. Il genio dell'uomo grande, che lodiamo, ha un pizzico del piccolo genio di noi, che lo lodiamo. Possiamo stringere la mano all’imperfetto o all’eccessivo: siamo della stessa natura. Poi Leonardo, die sapeva di tutto, ch’era sommo in tutto, non aveva l’indole dell’animo pittoresca: non ebbe amori, non passioni fervide: come uomo era sbiadito. Parlando di lui tornano sempre alle labbra le parole bellezza e perfezione. Era di bella persona — dice un manoscritto della prima metà del 1500, pubblicato ch’è poco dal Milanesi — di bella persona, proportionata, grattata et bello aspetto. Portava un pitocco rosato corto sino al ginocchio, che allora s'usavano i vestiri lunghi: haveva sino al mezzo il petto una bella capellaia e inanellata e ben composta. Queste sono forse alcune delle cagioni, per le quali, dopo tanti studii parziali e tante dotte fatiche, non abbiamo ancora su Leonardo un volume compiuto e limpido; queste sono forse le cause, per le quali il Magni ha piantato sul monumento una figura scipita.

Pagina 94

L'arte è contemporanea. Ovvero l'arte di vedere l'arte

266888
Sgarbi, Vittorio 1 occorrenze
  • 2012
  • Grandi Passaggi Bompiani
  • Milano
  • critica d'arte
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Ed era già abbastanza agghiacciante vedere che quest’uomo minuto, seduto in poltrona, che rappresentava un mondo, per lei non significava niente. Un’altra volta, ero con una diciannovenne e le dico: “Ti vorrei far vedere questa cosa di Mao Tse-tung.” “Chi?”, ha detto lei. Non sapeva chi era Mao Tse-tung. Che era scomparso pur essendo apparso nei quadri di Andy Warhol, quindi un mito, come Marilyn Monroe dalla sfera di attenzione tanto che una ragazza di diciannove anni ignorava già chi fosse.

Pagina 110

Ultime tendenze nell'arte d'oggi. Dall'informale al neo-oggettuale

267195
Dorfles, Gillo 3 occorrenze
  • 1999
  • Feltrinelli
  • Milano
  • critica d'arte
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Ma l’affinità tra le due correnti è solo apparente; e infatti il termine di "new dadà” usato abbastanza frequentemente agli inizi per designare il pop, venne ben presto a scadere. Come pure venne a scadere l'assimilazione di pop art con l'uso iniziale di questa espressione quale fu coniata per la prima volta da Leslie Fiedler per indicare derogatoriamente le espressioni della cultura di massa del “mid-cult” (già a partire dal 1955): fumetti, cartoons, e altri prodotti dei mass-media.

Pagina 104

Salvo a rifar tutto da capo allo scadere di pochissimi anni, non appena ci si sia accorti che quelle "verità” che credevamo abbastanza durature, son già scadute e superate. E questo vale naturalmente soprattutto per chi, come me, si accinga a discorrere dell’arte dei nostri giorni, e non di ieri o ier l’altro. Buona parte dei manuali e dei trattati che vanno per la maggiore non mancano, come ho già osservato, di rifarsi ai grandi movimenti della fine del secolo scorso e a quelli che iniziarono il nostro secolo; mentre la mia intenzione è di esaminare non storicamente, non programmaticamente, solo alcune tendenze, alcune personalità singole, alcuni movimenti che mi sembrano più caratteristici e pregnanti e attorno ai quali più frequenti e comuni sono gli equivoci, così da poter offrire al lettore una modesta "chiave” che gli permetta di aggiornarsi sugli ultimi sviluppi delle arti visuali, e di accettare o respingere certe forme artistiche — o pseudoartistiche — oggi divenute dominanti. Naturalmente per far ciò bisogna premettere per lo meno alcune precisazioni attorno alla "validità di codeste forme — e intendo riferirmi soprattutto all’informale, alle pitture segniche e gestuali, alle indagini strutturalistiche e materiche, alle risorte correnti concretiste e di “arte programmata,” e soprattutto all’ultima stagione concettuale e a certa figuralità della pop art.

Pagina 15

Erede, bensì, della grande tradizione di Klee e al tempo stesso saturo di impressioni e di umori parigini (e quindi abbastanza consanguineo di Bryen, Mathieu, Michaux che gli furono amici), Wols, tuttavia, ebbe il triste privilegio di raggiungere, solo negli ultimissimi anni della sua vita, quel successo che invece arrise precocemente a molti altri artisti della sua generazione; e questo fatto valse a conservare alla sua opera ultima — quella che qui c’interessa — la freschezza e l’autenticità dei capolavori genuini, non ancora sciupati dal favore dei mercanti e dei critici, non ancora divenuti ricetta facilmente vendibile e commerciabile.

Pagina 25