Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbasso

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Senso

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Boito, Camillo 1 occorrenze

Garbe abbasso, un poco a dritta, e più in là, già ben alto sulla montagna, il campanile di Provaglio. Quasi a piombo, benché dall'altra parte della strettissima valle, che si strozza in quel punto, lasciando appena appena luogo al fiume ed alla strada postale, si vede dall'alto in basso la chiesetta di San Gottardo, di cui la torre scorcia tanto che diventa nana, e gli archi del piccolo portico sembrano schiacciati. La prima volta poco mancò che non mi venisse il capogiro. Volevo andare più alto, lì dove la rupe nuda, quasi verticale, concede appena il posto per mettere il piede tra le sue strette fessure. Guardai indietro. Il monte, che mi stava alle spalle, tutto ombroso, spiccava sull'aria celestina. Saranno state le cinque di sera, due settimane dopo il mio arrivo a Garbe. Il sole cominciava a scendere dietro il giogo della montagna; un vento fresco soffiava dalla gola della vallata, e bisognava tenere il cappello perché non piombasse nel precipizio, quando uno sbuffo impetuoso, mentre coglievo con le due mani non so che strane foglie, lo fece arrotolare un tratto, poi andare a balzelloni dall'una all'altra sporgenza delle acutissime roccie. Gli dissi addio, e continuavo a capo nudo le mie osservazioni estetiche sulle piante, allorché, passati appena dieci minuti, mi comparve innanzi all'improvviso una montanara, la quale, un poco imbarazzata e con rustico garbo, mi porse il disgraziato cappello. La ringraziai di cuore, e la guardai in viso. Poteva avere dai sedici ai diciassette anni: abbronzita, ma sotto la tinta del sole s'indovinava l'incarnato fresco; nella bocca piccola splendevano i denti, ammirabili di regolarità e di bianchezza; negli occhi v'era un certo che di selvatico e di curioso, una timidità un poco impertinente. - Bella giovane, siete di Garbe? - Signor no. Sono di Idro. - E vi fermate qua? - Parto domani con mio padre, che è lì tra i cespugli insieme con le nostre capre. Lo vede? Guardi bene, lì in fondo - e m'indicava il luogo, ma io distinguevo appena di lontano un uomo che aveva la barba bianca. - E ad Idro dove state? - Fuori del paese circa due miglia, sulla via che conduce al monte Pinello. - E che nome avete, bella fanciulla? - Teresa, a' suoi comandi, signore. Si continuò a discorrere. Io la tempestavo di interrogazioni, guardandola negli occhi, i quali ora vagavano di qua e di là impacciati dal mio sguardo, ora mi si ficcavano in volto, anzi addirittura nel cuore. Ad uno sposo non aveva pensato mai: non sapeva, e lo giurava ridendo e spalancando gli occhi sinceri, che cosa fosse amore. Ella non aveva nessuno al mondo, salvo il padre, che l'adorava, s'intende, e non l'aveva mai lasciata un giorno dacché era nata; ma il buon vecchio doveva andare appunto allora per quindici dì a Gardegno a far valere i proprii diritti sulla successione di un fratello, morto con molto ben di Dio e senza figliuoli. Il vecchio, già caporale sotto l'Austria, leggeva e scriveva come un notaio, era uomo di conto e per giunta più agile, più vigoroso, più coraggioso di un giovanotto di vent'anni. La fanciulla, nell'assenza del padre, rimaneva ad Idro, affidata ad una santola di settant'anni. Dottore, ve lo immaginate, andai per quindici giorni ad abitare il pulito e solitario alberguccio di Idro. Tutte le mattine e tutte le sere salivo lungo la stradicciuola erta, torta, sparsa di sassi acuti, che conduce a monte Pinello, e mi fermavo alla casa della montanara gentile. Due giorni disse di no; poi non ci fu angolo erboso di quella scoscesa china su cui non ci si adagiasse a discorrere, di giorno cercando l'ombra più cupa sulle sponde di un torrentello, entro una grotta naturale, negli ampi interstizii dei massi enormi precipitati Dio sa quando dalle creste del monte; di sera, durante le prime ore della notte, cercando una zolla morbida sotto il cielo stellato. La Teresa, certo, non somigliava alle ragazze di città: la sua pelle era ruvida, la sua passione quasi ferina. Nei primi giorni amava tre cose: il suo padre, le sue capre e me; dopo una settimana non parlava più del padre, non badava più alle capre, mi aspettava sull'uscio del casolare a cominciare dall'alba, spesso mi veniva incontro sino ad Idro, mi trascinava, mi violentava, mi buttava in terra come se volesse sbranarmi. Certe volte dal suo corpo esalava un odore acre e inebbriante di erbe selvatiche, certe volte un puzzo di capra nauseabondo, e non di rado un fetore di strame, che ammorbava. Insomma invocavo tra me il ritorno del vecchio. Il giorno innanzi al suo arrivo cercai di preparare Teresa alla mia partenza: le dissi che dovevo andare a Brescia e a Milano, ma mi affrettai a soggiungere che sarei tornato presto, dopo due settimane al più, forse dopo una. Ella non piangeva: tremava tutta, ed era diventata del colore del piombo. Ripeteva con voce strozzata: - Lo so che non torni più, lo so che non torni -. Io promettevo, giuravo, ma ella mi continuava a guardare con gli occhi senza lagrime, e, fatta veggente dalla passione, insisteva: - Non torni più; lo sento qui nel cuore che non torni più -. Non potei cavarle altre parole. Invece di andare a Brescia o a Milano, tornai a Garbe. Avevo l'anima rósa dal rimorso: tante volte mi sentivo spinto dalla coscienza a correre ad Idro, alla capanna di Teresa; poi gli abbracciamenti suoi, furiosi e disperati, mi facevano paura, e non di meno io non potevo pensare ad altro che a lei. Non sapevo se l'amassi, benché l'immagine sua mi stesse scolpita sempre davanti. Finalmente, dopo una trentina di giorni, la coscienza vinse, forse anche la curiosità. Andai ad Idro, e, traversando i magri prati, arrampicandomi sulle roccie, risalendo il letto di un torrente asciutto, mi trovai di contro al casolare dall'altra parte della stradicciuola; gli alberi ed i cespugli mi nascondevano. La fanciulla stava sull'uscio, immobile, esposta senza riparo ai raggi del sole. Nel primo istante non la riconobbi: la carnagione era diventata d'un rosso cupo, i capelli le cadevano sulla fronte e sulle spalle a ciocche sconvolte, il viso appariva stranamente smagrito e allungato, il labbro inferiore pendeva in giù, gli occhi spenti fissavano innanzi senza vedere: non so perché, credetti di essere in faccia a un cadavere bruciato. In quell'istante una voce d'uomo chiamò dall'interno del casolare così sinistra e soffocata che pareva uscisse da un sepolcro: - Teresa, Teresa -. La fanciulla non diede segno di avere udito, e la voce continuava tetra e straziante: - Teresa, Teresa. Scappai; corsi a Brescia, ma il rumore della città mi riescì insopportabile: tornai a Garbe, dove, a forza di ripetere a me stesso, che il tempo rimedia a tutti i mali, anche agli strazii della passione e dell'abbandono, trovai qualche momento di pace. Non ostante, dormivo poco, tormentato com'ero da sogni orribili e da inquietudini febbrili; mangiavo pochissimo; camminavo molto, sperando nella stanchezza. * * * Vi dicevo dunque, dottore, che il dì 24 dello scorso ottobre passavo sul far della sera dal Ponte dei Re accanto a Garbe. Un uomo, appoggiando i gomiti sul parapetto e il mento sulle palme, guardava molto attentamente l'acqua del fiume. Uscivano tra le sue dita delle ciocche di barba bianchissima; la faccia, mezzo nascosta dal cappello tirato sulla fronte, non si vedeva bene. Non era vestito propriamente né da contadino, né da operaio: portava una casacca e de' larghi calzoni d'un colore chiaro grigiastro. Passai accanto al vecchio; non si mosse; continuò a fissare l'acqua vicino alla pila del ponte, dove, stringendosi per attraversare le due arcate, gorgoglia impetuosamente. Guardai abbasso anch'io, credendo che vi fosse qualcosa di curioso a vedere; non avvertii niente di strano, ma quel gioco di onde, a cui non avevo mai badato, mi piacque. È una lotta formidabile tra l'acqua che corre e i sassi colossali che tentano di sbarrarle la via. E le onde, incalzate da quelle che sono dietro, e queste cacciate innanzi dalle altre più lontane, a cominciare dai rigagnoli nascenti nelle nubi, quanta fatica, quanta astuzia devono adoperare, e come s'affannano a spuntarla di proseguire il loro cammino! Lo spettacolo del contrasto fatale tra il moto e l'immobilità, eterno e d'ogni attimo, mette nell'anima un timido scoramento, e nello stesso tempo fa sorridere di un così cieco impeto nell'operare e di una così orba caparbietà nel resistere. C'è dei momenti, in cui le forze opposte della natura somigliano a fanciulli mal educati, l'uno dei quali gridi voglio, e l'altro, pestando i piedi, ripeta non voglio E su quei massi, i quali spuntano fuori dal letto, che non è un letto di pace, vegetano, seminati dal vento in un pugno di terra deposta colà dallo stesso vento a un granello alla volta, de' virgulti di salici, degli arboscelli di pioppo, i quali canzonano, deboli e flessuosi, la furia che li circonda. La natura, come la vita, è una catena di vani sogghigni. Se il masso non solleva molto la testa, l'acqua gli corre su, e scende poi in cascate gaie, cercando il piano più basso: è un cristallo terso, curvo, regolare, una campana lucida, un ombrello trasparente, con qualche filetto opaco di vetro di Murano; e si frange poi a' piedi in ispruzzi d'infinite perlette bianche, di quelle che le Muranelle infilano le sere d'estate, sedute sul gradino della porta di casa, ciarlando di Tita e di Nane. L'onda è avveduta: sceglie per solito il cammino migliore. Ma qualche volta si trova chiusa tra i sassi, e allora, non potendo aspettare, scatta in uno sprazzo e via; tal'altra si caccia distrattamente in un laberinto, e gira e rigira e, se vuole uscirne, le conviene tornare indietro; finalmente accade che ella si smarrisca in uno spazio dove il caso ha messo un insormontabile sostegno di pietre, e allora si ferma impaurita, perde la bussola, s'accascia e da turbine diventa specchio. E sotto all'acqua, che riflette in iride la tinta del cielo o che si trasforma in ispuma d'argento, v'ha il vario e brioso colore dei sassi, giallo, rosso, bianco, verde di muschi e di licheni. La gran battaglia si concentrava alla pila del ponte. Le onde combattevano le onde, che cozzavano insieme, si spezzavano, si frantumavano, s'accavalcavano, s'ammonticchiavano, diventavano matte di furor bellicoso, mandavano bava in vece di sangue, e gocciole e stille sino al parapetto del ponte, con un romore, con un frastuono da far tremare un eroe. Il vecchio guardava sempre impassibile. Andai per la mia strada, senza curarmi di lui, passo passo fino a Nozza. Il cielo nuvoloso, minaccioso, principiava a oscurarsi, e soffiava un vento assai fresco dalle alte montagne. Rinunciai a proseguire la passeggiata, e tornai indietro. Al Ponte dei Re c'era sempre il vecchio, nello stesso posto, nella stessa attitudine di prima. Guardava sempre a' piedi della pila. La cosa mi parve bizzarra; mi avvicinai al vecchio e gli dissi: - Buon uomo, scusate -. Non si mosse. Continuai: - Scusate se vi disturbo; ma il cielo è negro, minaccia il temporale e non è lontana la notte. Se abitate discosto, dovreste incamminarvi. Il vecchio si rizzò lento lento, mi guardò in viso come trasognato, e, senza aprir bocca, tornò ad appoggiarsi al parapetto e a contemplare il fiume. Io insistetti: - Avete bisogno di nulla? - No -, rispose senza voltarsi. Gli diedi la buona notte e m'avviai verso Garbe. Fatti cento passi mi voltai. Non so se fosse curiosità o compassione: nella faccia di quel vecchio bianco credevo di avere letto un dolore profondo, una sinistra melanconia. Pallido, con gli occhi infossati, con le labbra nericcie, mi aveva fatto pietà e terrore. Mi trovai al suo fianco, portato da una forza quasi involontaria, e gli dissi interrottamente, aspettando una risposta che non veniva: - Scusate di nuovo. Ditemi se posso giovarvi in qualcosa. Vi sentite poco bene? Vi offro una stanza a Garbe per questa notte. Mi sembrate forestiero. È accaduto anche a me fuor di paese di trovarmi senza danaro: ne avete forse bisogno? Dopo queste ultime parole il vecchio si voltò gravemente, tentando di muovere le labbra a un sorriso. - Grazie, non mi occorre nulla -, rispose. Poi, messa la mano nella tasca dei calzoni, ne cavò il pugno serrato e, alzatolo sopra il parapetto, l'aperse. Il vento fece volar via nel fiume, sparpagliati qua e là, forse una ventina di piccoli biglietti. Mentre io, irritato, stavo per rimproverarlo, balbettò con voce strozzata: - Ho sete. - Scendete a bere nel fiume -, esclamai duramente. Il vecchio s'incamminò alla rampa scoscesa, che va giù a lato di una testata del ponte; ma, giunto lì, vacillò sulle gambe mal ferme. Corsi ad aiutarlo e, sostenendolo per l'ascella, lo condussi al fiume. Riempii io stesso il suo cappello di acqua. Bevette a brevi sorsi. - Non vi rimettete subito il cappello bagnato in testa, che non vi faccia male. Abitate lontano? - No. - Ma non siete di questo paese? - No. - E dove state di casa? Vi accompagnerò. - Non importa. Sto vicino. - V'accompagnerò ad ogni modo. Il vecchio mi guardò dritto negli occhi, e con accento risoluto disse: - Non voglio. Poi, meno seccamente, aggiunse quasi con ripugnanza: - Aspetto qualcuno. - Un figlio forse? - Non ho figli. - Un parente? - Non ho parenti. - Un amico? - Non ho amici. - Chi dunque? Pensò un poco e rispose: - Il destino. S'appoggiò di nuovo al parapetto del ponte e tornò a guardare l'acqua di sotto. - Perdonate alla mia insistenza. Di che paese siete? - Di un paese dove si muor di dolore. - E andate? - In un paese che non conosco. Queste risposte misteriose fecero nascere nel mio cervello uno sciocco sospetto. Esclamai con espansione: - Se dovete rimanere nascosto, se la giustizia vi cerca, giuro che non vi tradirò. Il vecchio s'alzò dritto in piedi, e rispose alteramente: - Non ho nulla da nascondere agli uomini -. Poi, mormorando tra sé: - La mia coscienza è pura. - Gli uomini vi hanno ingannato forse, vi hanno fatto del male? Avete trovato al mondo molti nemici? - De' nemici? Ne ho avuto uno solo. Quest'ultima frase venne pronunciata dal vecchio con voce così cupa, il suo occhio era così bieco, ch'io mi sentii gelare. Gli dissi: - Vi lascio dunque, e Dio vi benedica. - Dio, Dio! - sentii ripetere parecchie volte; e la voce sepolcrale del vecchio si perdeva nel muggito del Chiese. * * * Non intendevo di abbandonare il pover'uomo. In quattro salti fui a Garbe con l'intenzione di parlare al sindaco, medico valente e cuor d'oro, e di condurre meco due contadini, i quali facessero la guardia, foss'anche per tutta la notte, al vecchio strano. Trovai il sindaco sotto il portone della sua casa, una casa antica, murata da un suo antenato, gentiluomo francese, fuggito dalla strage di San Bartolomeo. Il sindaco discorreva con il segretario comunale e con l'oste di Sabbio, due tipi curiosi. Questi con la faccia tonda, grasso, grosso, il pizzo lungo e folto sotto a due gran baffi neri, le sopracciglia spaventose, la voce tonante, un cappello in testa di larghe tese, a cui non manca altro che la piuma per potersi dire spagnuolo; famigliare con tutti, spavaldo, buon diavolo, mette la mano in atto di protezione sulla spalla dell'avvocato, del farmacista, del signor cavaliere, e apre volentieri la larga bocca al riso sguaiato, mentre dice una barzelletta sporca; una specie d'idalgo, che versa maestosamente il vino dal boccale nel bicchiere de' suoi avventori, che tiene il pugno al fianco, maravigliato di non trovarvi la spada, e s'è mangiato in qualche mese per darsi il gusto di parere un negoziante in grosso il poco suo patrimonio, e spera di portare le ossa in una grande città degna di lui, lontano dalle piccolezze montanare, dove si sente proprio fuori di posto. L'altro, il segretario comunale, sottile e lungo come il campanile di Garbe: veste da contadino, con la giacchetta e i calzoni di quella certa stoffa lustra color cannella sudicio, ma tiene la giacchetta buttata sulle spalle, mostrando la camicia, che non pare sempre di bucato, e le braccia, e il petto nudi, assai più scuri dell'abito; ha letto Dante, scrive da letterato fino, sa a mente tutte le innumerevoli ordinanze, tutte le infinite circolari prefettizie indirizzate al Comune, che è cosa miracolosa; cita versi e proverbii latini; non ha casa; l'inverno dorme sulla tavola nuda del Consiglio comunale, con una busta dell'archivio per origliere e per coperta il tappeto verde: l'estate dorme sotto il piccolo portico di quella chiesa di San Gottardo, della quale ho parlato indietro, poggiando il capo allo scalino di granito, lungo disteso sulle lastre sconnesse del pavimento, godendosi il vento fresco, che soffia senza interruzione dalla stretta gola dei monti; vive di pane e di cipolle, di polenta e cacio pecorino, ma si compensa con qualche bicchieretto di acquavite, e, quando ne ha bevuto un tantino più del bisogno, vuole abbracciare tutti, l'ostessa, il reverendo parroco, il sindaco, persino i carabinieri in pattuglia. Questi signori, e tre contadini, che ero andato a scovare nella bettola vicina, s'avviarono meco al ponte. Si passò dalla chiesa di San Gottardo, palazzo d'estate del segretario; ma, quando fui lì, non mi potei trattenere: lasciai che il vecchio sindaco procedesse con il suo passo, che egli, poveretto, cercava di affrettare, ma che mi sembrava ancora troppo lento, e corsi innanzi. Andai su e giù per il ponte, precipitai abbasso dalla rampa del fiume, guardai di qua e di là in quel buio della brutta notte che era già principiata: non si vedeva un'anima. Gli altri mi raggiunsero ansanti. In un batter d'occhio diedi le mie istruzioni. Il sindaco doveva fermarsi sul ponte; l'idalgo doveva perlustrare un mezzo chilometro della strada di Nozza; il segretario doveva rimontare il corso del Chiese lungo un viottolo a sinistra; i tre contadini dovevano salire i meno erti sentieri delle montagne. Quanto alle vie più scoscese non era neanche da pensare che il misero vecchio avesse potuto tentarle. Quartiere generale: il ponte. Io m'ero serbato le capanne dei carbonai, di là dal Chiese. In quindici minuti salii alla prima casupola. Tutti dormivano; picchiai forte; nessuno rispose; tornai a picchiare con tanta violenza che i colpi rimbombarono nella valle, e udii finalmente delle voci e delle imprecazioni. Dopo un poco di tempo s'aperse il finestrello e vidi una testa nera, nella quale brillavano due occhi da gatto. - Sapete niente di un vecchio con la barba bianca, lunga, mezzo malato, vestito di panno chiaro, un forestiere che vagava stasera presso il Ponte dei Re? - Andate all'inferno. - Domandatene, di grazia, ai vostri compagni. - Andate all'inferno voi e il vecchio - e chiuse la finestra. Dopo un quarto d'ora avevo già rifatto il cammino, ed ero salito da un'altra parte ad un'altra capanna. Il mio bastone nell'urtare sul legno del piccolo uscio destò quattro o cinque echi sulle cime dei monti. - Chi è là? - Un amico. - Il nome? - Un amico. - Non apro. - Venite alla finestra. - Non mi muovo. - Avete visto un vecchio? - Non ho visto nessuno. - Un vecchio vestito di chiaro, con la barba lunga e bianca, infermo. - Non ho visto nessuno. - Passeggiava stasera sul Ponte dei Re e nelle strade vicine. - Non ho visto nessuno, vi dico - e tornò a russare. Tre quarti d'ora dopo eravamo tutti sul ponte. Non s'era trovato niente, non s'era saputo niente. Neppure i due carabinieri di Vestone, che l'idalgo aveva incontrati sulla via e aveva condotti seco, ci poterono aiutare in nulla. Il sindaco giudicò allora, che noi dovevamo andare a dormire. Era, infatti, la sola cosa ragionevole che ci restasse da fare. Vi ho detto, caro dottore, come il mio sindaco sia una perla d'uomo. Ha un modo suo proprio di curare la difterite, in grazia del quale salva realmente tutti i bambini del Comune. Parla de' suoi rimedi con entusiasmo giovanile: non fallano; ad una infiammazione ci vuole il salasso, anzi ogni malanno guasta il sangue, ed il sangue corrotto va tolto via, perché se ne formi del sano. Ora vive senza troppe angustie, badando a' suoi pochi campi; ma fu trent'anni medico condotto, e quando ricorda le fatiche lunghe e mal compensate, il sollione, la neve, il gelo, i turbini sulle montagne, lo fa con tanta dolcezza, che pare quasi un rimpianto. Discorre de' suoi malati volentieri, con modestia affettuosa, e, se può dire di averli strappati alla morte, due lagrime di compiacenza gli scendono sulle gote. Ha la barba grigia, i capelli appena brizzolati, i denti candidissimi, gli occhi celestini, la fronte da uomo intelligente e virtuoso. Piglia tabacco e lo offre. Dichiara ogni anno che non vuole più essere sindaco; poi ci ricasca. Non sa dire di no: tutti, anche i cattivi, lo rispettano e gli vogliono bene. Non l'ho mai sentito pronunciare su nessuno, fosse il più grande scellerato, una parola severa, aspra o pungente: non trova in quella sua anima mite un accento sgarbato nemmeno per l'omeopatia, ch'è tutto dire. Narra molto naturalmente i casi semplici della sua vita, quando, studente all'Università di Padova e ricco di una sola svanzica al giorno, si faceva dare all'osteria il riso stantìo per pagarlo un soldo meno, e ossi di manzo scarnati, e culi di salame: non beveva mai vino. Un dì, avendo visto nella Piazza dei Signori un giuocatore di bussolotti, gli si fece amico, andò a desinare con lui più volte, finché imparò il segreto della magia, pensando che se la medicina falliva, quest'altra arte lo avrebbe potuto soccorrere. Racconta una interminabile filza di storielle, parte da stare allegri, parte da spaventare. * * * Bisogna ch'io entri finalmente nel cuore del mio racconto. Vi siete accorto che mi ripugna; infatti nello scorrere gli sgorbii buttati sulla carta conosco di avere fatto come colui, al quale duole un dente e va per farselo strappare. Esce lesto, quasi correndo; ma, di mano in mano che si avvicina alla casa del dentista, rallenta i passi, finché, giunto alla porta, si ferma perplesso, chiedendo a sé medesimo: - Il dente ora mi duole o non mi duole? - E così torna indietro un buon tratto di via; e ogni inezia gli serve per tirare in lungo, un avviso sulla cantonata, un cane che abbaia. Poi si vergogna, e sale fino all'uscio, e quando, risoluto, ha già in mano il cordone del campanello, domanda a se stesso di nuovo: - Me lo devo far cavare sì o no? Insomma, coraggio. Quella sera, dopo avere dato a' tre contadini i soldi per bere qualche boccale, dopo avere salutato il sindaco, che rientrava in casa, il segretario, che andava ad augurare la felice notte all'acquavitaia, e l'idalgo, che, canterellando con la sua voce di basso, tornava a Sabbio, io non mi sentii nessuna voglia di dormire, e neanche di scrivere, di leggere o di discorrere. Avevo un gran peso alla testa, e provavo il bisogno di aspirare, di cacciar negli ultimi meati dei polmoni l'aria frizzante. C'era stata, sere addietro, nell'osteria una interminabile discussione intorno a questo punto; se, tra Vestone e Vobarno, le trote si peschino più facilmente sul far della sera, la mattina di buon'ora, la notte con la luna o la notte buia. Un pescatore giurava che nell'oscurità profonda ne acchiappava un subisso. Presa la canna e un lanternino andai a piantarmi dall'altra banda del Chiese, dove certi enormi massi formano una specie di diga. Mi pareva di quando in quando di sentire abboccar l'amo, e tiravo su; niente. Stufo, mi posi a sedere sopra una pietra e a guardare intorno. Non si vedeva un bel nulla. Nero il cielo, nera la terra: non una stella, non un lume. Garve, nascosta da un gruppo di alberi, a quell'ora dormiva. Sul dorso del monte, lì nel sito ove doveva essere Provaglio, apparve un luccichìo, forse una candela accesa al capezzale di un moribondo. Era un sepolcro di tenebre, ma un sepolcro pieno di frastuoni. Il Chiese, battendo contro i sassi, faceva una musica da assordare: c'erano dentro tutti i toni, tutti gli accordi, e il vento v'aggiungeva le estreme note acute. A un poco per volta si finiva ad assuefare gli occhi all'oscurità e a distinguere qualche cosa: i grossi rospi schifosi, per esempio, che sbalzavano di traverso accanto a me, la spuma bianca, anche il verde cupo dell'acqua. Avevo ripreso la canna per ritentare la sorte, quando vidi correre a precipizio con le onde e fermarsi alla diga una massa grande, biancastra. Non capivo che cosa fosse, e pure un brivido mi corse dalla testa ai piedi. Presi il lanternino, che avevo lasciato sul sentiero; ma, mentre mi avvicinavo col lume a quell'oggetto grigio, l'acqua, che gli aveva fatto intorno un gran lavorìo, lo sollevò e lo portò a venti passi lontano, dove diede di cozzo in una gran pietra che usciva dal fiume. L'attenzione intensa mi aguzzava la vista. Aiutato dal pallido chiarore della lanterna tentai di guadare il piccolo tratto, mettendo i piedi sulle teste dei sassi: non mi riuscì. Stetti immobile, con gli occhi fissi. Le onde percuotevano la massa informe, schizzando bava, come se fossero adirate, e le giravano intorno, formando un vortice rapidissimo: il Chiese s'ostinava rabbiosamente nel volere trascinar via la sua preda. La spuntò. L'oggetto strano fece il giro del sasso e ripigliò il suo cammino, rovesciato in gran furia dal fiume. Allora principiò una lotta terribile tra me, che volevo conoscere il mistero di quella cosa biancastra, e il fiume che me lo voleva nascondere. Conoscevo a passo a passo i viottoli della sponda: in un solo luogo la roccia, che si alza quasi verticale per un centinaio di metri, obbliga a salire e a discendere; il resto della via, fino a Sabbio, è piano. Ma quella salita e sopra tutto quella discesa non erano senza pericolo nelle viuzze strette, fiancheggiate da un burrone, la notte. Le piogge dei giorni precedenti avevano fatto franare in un punto la terra del viottolo, e bisognava sbalzare sul precipizio. Saltai senza pensarci, non sapendo dove avrei messo i piedi, e mi trovai dall'altra parte sano e salvo, ma col lumino spento. Continuai la strada da capre nel buio, intoppando negli sterpi, chiuso tra gli arbusti spinosi, scivolando giù dalla china sui ciottoli tondi, che rotolavano al piano. Finalmente giunsi di nuovo alla riva del fiume. Ma, dov'era andata la massa grigia? Era corsa innanzi senza intoppi, o gli ostacoli, di cui è pieno il Chiese, l'avevano trattenuta? Aspettai un pezzo senza batter le palpebre, con gli occhi inariditi che mi bruciavano. Alla fine passò nella corrente, in un attimo. Ripresi a correre anch'io su quel margine, dove nascono i salici sottili e le larghe foglie delle ninfee. Più su il prato è verde, smaltato di fiori, e ai pioppi si mischiano i pini, gli olmi, qualche piccola quercia. Lì m'ero posto a sedere tante volte sopra un tronco abbattuto, studiando le formiche, ammirando gl'insetti gialli d'oro, rossi di rubino, verdi di smeraldo, leggendo un bel libro o fantasticando alle cose gaie nella vacuità della vita. Poco lontano, dove il viottolo costeggia un campo di magre pannocchie, m'ero sdraiato una mattina a guardare per un'ora di seguito tre giovani donne, che raccoglievano le noci, le quali, scosse da un ragazzo sull'albero, cadevano nel fiume, e le tre donne, ridendo, mostravano le grosse gambe fin sopra il ginocchio, con le gonne legate ai fianchi. La macchia grigia era andata ad arenarsi sopra un banco di ghiaia, accanto alla riva. Mi tolsi le scarpe e le calze, mi arrotolai i calzoni alle cosce, e camminai tra le onde. Non mi reggevo in piedi. Il fiume mi tirava giù con una violenza invincibile. Sentii la piccolezza dell'uomo in faccia alla volontà delle cose insensate. In quell'istante il Chiese dovette chiamare in aiuto tutte le forze de' suoi abissi: coperse il banco di ghiaia con un'ondata impetuosa e, avvoltolando l'orrido oggetto biancastro, lo portò via inesorabilmente. Mi sentii vinto. Rientrando nella mia camera di Garbe ero inzuppato d'acqua e di sudore, sfinito; avevo gli occhi gonfi, la testa in fiamme; i polsi martellavano. Non potei chiudere occhio. Appena giorno mi alzai barcollando, e sulla sinistra del Chiese, lungo la via postale, andai a Sabbio. Ora le mie membra erano tutte ghiacciate, ora dovevo asciugarmi la fronte. A Sabbio, dove spesso andavo a far colazione, l'idalgo e la sua moglie ostessa m'accolsero con un mondo di cortesie, chiedendomi venti volte se stavo male. - Non è niente, - rispondevo, - l'aria fresca, la passeggiata e la colazione mi rimetteranno -. Non mangiai nulla. Guardavo come in sogno il largo portico adorno di ragnateli, le chioccie che venivano a beccheggiare i minuzzoli di polenta per portarli a' pulcini, la chiesa della Madonna, la quale, alta com'è sul colle e posta lì proprio accanto, pareva piantata sopra i tetti dell'osteria. Mentre io stavo immerso in queste visioni, entra uno dei figliuoli dell'ostessa, Pierino, bel ragazzotto di sette anni, saltando, e si mette a gridare: - Mamma, l'ho visto, sai? - Chi? - L'uomo che hanno trovato nel fiume stamattina. - È bello? - No, è tanto brutto. Domandalo alla Nina. La Nina era entrata insieme col fratello, ma s'era tosto rincantucciata in un angolo del portico, con le mani giunte, mormorando qualcosa sotto voce. Si sentiva a intervalli la parola Requiem , flebile, soffocata. - È giovine o vecchio? - ripigliò la madre. La Nina non rispose. Rispose Pierino: - È vecchio, ha la barba bianca, lunga lunga. Ha gli occhi stralunati. - Dov'è? Voglio vederlo - gridai scattando in piedi. L'ostessa mi sbirciò, e bisbigliando: - Dio, che gusti! - ordinò a Pierino di accompagnarmi. In quattro salti fui alla chiesa, quella del paese basso. In una stanza umida annessa alla sagrestia avevano esposto il corpo dell'annegato. La stanza era piena zeppa di contadini. Uno diceva: - Chi lo deve conoscere? Si vede bene da' panni che non è del paese. Un altro soggiungeva: - Io dico che è tedesco. - No, è di Milano. - Indosso non gli hanno trovato niente? - chiedeva un giovinotto. - Niente: né una carta, né un soldo. - Si sarà affogato per la miseria. - Io dico che è cascato nel fiume. - Io dico che ve l'hanno gettato. - L'occhio è da demonio. - Con quella bocca aperta sembra che ci voglia mangiare vivi. Una bambina si nascondeva, tremando, dietro al corpo del padre, e ripeteva: - Ho paura, ho paura; andiamo via. Il padre intanto esaminava da vicino l'abito dell'annegato, lo toccava e sentenziava: - Bel fustagno! Dev'essergli costato caro. M'ero cacciato innanzi tra la folla. Il vecchio del Ponte dei Re fissava gli occhi nel mio volto, sinistri, minacciosi. Sentivo in quello sguardo immobile un supremo rimprovero. Alle orecchie mi ronzava un soffio da tomba, che diceva: - Tu mi hai lasciato morire: sii maledetto. Tu potevi salvarmi, tu mi hai lasciato morire: sii maledetto. Tu avevi indovinato quel che io stavo per compiere, tu mi hai lasciato morire: sii maledetto. Il soffitto della stanza mi crollava sul capo; la folla mi stritolava. Credevo di essere nell'inferno, in mezzo ai diavoli, giudicato dalla voce cavernosa e dagli occhi implacabili di un cadavere grigio. Entrò un contadino, che avevo visto a Idro. Guardando l'annegato, esclamò: - Povero vecchio, le voleva tanto bene! Due giorni soli ha potuto vivere dopo morta la sua Teresa! * * * Mi posero a letto con una febbre da cavallo. Le impressioni di quella mattina, le fatiche della sera precedente, i rimorsi, produssero il loro effetto: avevo delle allucinazioni spaventose. Gli occhi infiammati mi dolevano assai. Il mio buon sindaco veniva a visitarmi due volte al giorno, e mi stava accanto delle lunghe ore, porgendomi egli stesso le medicine e raccontandomi piano, quando gli sembravo un po' quieto, qualche storiella, che non mi faceva sorridere. D'allora in poi la febbre s'è mitigata, ma, ad onta del chinino, non m'ha voluto lasciare. I medici dicono che è di quelle periodiche, le quali si pigliano facilmente con l'umidità e con gli strapazzi. Io la sopporto in pace; ma non posso tollerare in nessun modo questa maledetta macchia negli occhi. Appena uscito dai vaneggiamenti, me la son vista dinanzi, e continuo a vederla, come vi ho descritto, ostinata, abbominevole ... Ecco, anche in questo momento uno spettro scialbo e confuso mi balla di contro, ecco che insudicia il foglio bianco. Il sole è già tramontato, e la scrivania rimane in una penombra, che mi basta a gettare sulla carta in furia queste parole, ma che non mi lascerebbe rileggerle. Volevo finire prima di accendere il lume, e la macchia si giova della mezza oscurità per lacerarmi il cervello ... La macchia cresce, la macchia - cosa nuova! - prende una forma d'uomo Le spuntano le braccia, le spuntano le gambe, le nasce il capo. È il mio vecchio, il mio terribile vecchio! Parto stasera; vi consegnerò io stesso domani questo manoscritto. O guarisco o mi strappo gli occhi.

Vietato ai minori

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Bonanni, Laudomia 1 occorrenze

(Mica abbasso il censore merda, è avvenuto altrove.) Magari provocatoria, lo ammette con se stesso, ripetendola soppesandola. Infine, rassicurato: uno scherzo. Aggiunge: indagheremo. Ci sono studenti, di famiglie perbene, come si esprime lui, perfino un nobile figlio di conte, il contino. Questo censore è un grande giovanotto biondo _ troppo biondo, chioma d'oro folta ondulata brillante _ alto, spalle larghe. Giovanotto (scapolo) quarantenne ma non li dimostra. Vigoroso, da imporsi anche, e se non altro, tìsicamente. Del resto ha il potere in mano, potere assoluto nell'ambito, e se ne rende conto con una tal quale compiacenza. Benché si dissimuli, per quanto glielo consente l'assuefazione professionale. Le roi sono io. Deve lasciarmi nel cortile coi ragazzi. Insisto. Sono autorizzata. Mi coglie una sensazione sgradevole. Intanto proprio ragazzi non sembrano, ingranditi dai corti calzoncini di tela militare (divisa interna estiva) esponendo gambe muscolose e pelose o secche e ancora più pelose. Rasati alla galeotta. In silenzio, con facce rispettosamente inespressive, mi circondano. È come sentirsi indifesi alle spalle e a un tratto la sensazione che qualcuno stia facendoti dietro le boccacce. Magari un gesto osceno. No, dopotutto ragazzi. Sei tu a non sapertici muovere, guardarli e parlargli con naturalezza. Coraggio, su. Faccio un mezzo giro. Gentilmente _ o forse timidamente _ sorrido a due teste vicine che si separano rapide. Con qualche passo accorto, come per caso, me li pongo di fronte, io schiena al muro. Contro il malcancellato (da qualcuno subito accorso con uno straccio) le roi è mort... no... la guerra è finita... Così stiamo per un poco, io a interrogare essi a rispondere monosillabi, freddini e compunti ma squadrando con quasi selvaggia curiosità. Ho chiesto che anche gli agenti si allontanassero. Stanno dal lato opposto a sorvegliare, dunque il gesto osceno no. Sicura di conoscere abbastanza i ragazzi da saper trattare con questi come con qualsiasi altro. E mi torna in mente la storia delle fotografie ascoltata poco prima nell'ufficio del censore. Fanno commercio di fotografie. Promosso dai più grandi e corrotti, dagli altri, perfino dai bambini (ma dove sono i bambini?) alimentato per guadagnarsene il favore, a volte solo per un avanzo di minestra, un pezzette di pane. Ma hanno fame? Sa com'è... le razioni... è un'età che non si saziano mai. Rivedo la foto della giovane turgida _ sorella _ sigaretta in bocca, gonna incollata, gamba fuori dello spacco, in atteggiamento così goffo da non risultare nemmeno provocante. Ai miei occhi beninteso. Requisita. A chissà quale prezzo ne era stata barattata un'altra, sempre sorella ma composta. Crocetta sul pube e dietro: ce la grasa che baia tuta, (Ortografia a parte, richiamava qualcosa di Celine.) Colpita. Sul momento. Presto capirò più in là del mio naso e di quello ben fatto del censore biondo. Ossigenato? Provo l'imbarazzo di essere donna, sono costretta a convenirne. Come tale forse mi guardano _ e per l'eccezionaiità dell'avvenimento: un'estranea, oltreché femmina _incerti se sia davvero concesso di parlare liberamente o non nasconda un tranello. Nessuno fiata. Mi tengo ritta al muro controllandomi con una certa tensione, tale è il potere di ambiguità dissimulazione diffidenza negli occhi di ragazzi reclusi. Finché Bilotte, il buffone della compagnia, quello che ha spalmato sul pane la pasta dentifricia (nel pacco delle "dame" di non so quale santo) mi si offre con un generoso: Ti rifaccio i tacchi. Lo riconosco, lui e anche altri, dal formato tessera nelle cartelle sfogliate col censore. Bilotte sa riparare le scarpe, sta imparando l'arte. Mica ciabattino, dice, calzolaio. Per adesso, nel seminterrato che ho visto durante la visita ai locali, con un vecchio "maestro d'arte" dal muso grinzo irascibile, fra scarpacce militari a bocche aperte, rappezza coi ritagli di questi residuati. Idem il laboratorio di sartoria, stesso maestro come gemello, sparsi sul tavolaccio pezzi del grigioverde avanzato alla guerra. Utilizzati perditempi. Lavoro senza compenso, non però obbligatorio. Apprendisti pochi. Ma Bilotte è ambizioso e forse, per quanto assurdo, sognatore. Ambisce a calzolaio di fino. Ha commesso qualcosa come una ventina di furti _ una ciliegia tira l'altra, anche ciliege infatti _ furterelli, cosette da poco, piccole fesserie le chiama lui. (Considerare su quale scala gli uomini hanno commesso le loro grandi fesserie in questa sciagurata guerra, e misurarvi le colpe di Bilotte: veniali.) Ora sembra fermo a non ricominciare. Sono ingenuamente disposta a crederci. Non gli creda, mi ha avvertito il censore, mangiano abbastanza, ritenendo che si sarebbero lamentati per il cibo. Invece no, ne per il cibo ne per altro, avranno paura. Dice Bilotte: Mi cascassero le mani. Se le guarda, ci sputacchia, le frega energicamente quasi per la soddisfazione d'intraprendere il qualcosa di nuovo che è una vita senza fesserie. Dopotutto bene o male qui si mangia. Sia pure senza ciliege. Qui è la sezione giudiziaria del carcere per minori, ossia riformatorio, alias casa di correzione, trasformata _ la dicitura _ in Centro di Rieducazione con annesso Istituto di Osservazione _ sulla carta _ ma si continua a dire sbrigativamente, cumulando, riformatorio o correzionale. Qui, sezione giudiziaria, scontano la condanna inflitta dai tribunali per reati non più passibili di perdono di condizionale o sono detenuti in attesa di giudizio. La mancanza di spazio costringe a unirvi i rieducandi, cioè i discoli, i disadattati, i vagabondi senza fissa dimora per abbandono o per elezione. Separare il grano dal loglio non si può. (E i bambini, dove sono i bambini?) Insomma non tutti autentici delinquenti, ancora secondo le espressioni del censore, la cui sola vista debba ispirare penosa repellenza. Oh sì certo, ragazzi. Certo certo, creature fresche senza fallo con qualcosa di vergine d'innocente e schietto. Dei disgraziati. Redimibili, sicuro. Me lo ha concesso con parole sue, retoriche. Accento sincero e falso, vorrebbe coprirsi, nascondermi la realtà senza riuscirci, spinto dall'idea di "apparire". Del resto la retorica è il linguaggio che s'impara a scuola, sovrapposto ai luoghi comuni che s'imparano in famiglia, e può esservi anche una sincerità di fondo venuta su deformata. Il linguaggio burocratico (i fascicoli) è la deformazione tout court. Abbiamo continuato mettendo sulla bilancia guerra e miseria e diosà che altro, perfino le loro stesse madri. Se fanno il mestiere li buttano fuori, quando non se ne servono... Sospensione. Perifrasi varie per significare il sesso. Aizzato dall'ambiente. O se non altro l'esplosione dell'età che di per sé può spingere a eccessi catastrofici anche in tempi normali e in ambienti normali. Nell'adolescente c'è sempre il delinquente potenziale: citazione dalle requisitorie di un PM che gode fama d'implacabilità. Tuttavia sembrava incerto se aprirsi con una donna _ o l'intrusa? _ sulla piaga della masturbazione. Le cose su cui si tace, anche in famiglia a scuola, come se fossero asessuati. Be' sì... ce n'è uno... qualcuno ... uno pare come se si volesse distruggere... pustolosi gialli... Lo ritiene ancora un vizio disgustoso e pericoloso o finge? Ho lasciato perdere l'omosessualità per non metterlo in condizione di negare. Contronatura. Detta e considerata impropriamente tale, giacché si riscontra negli animali e del resto è nella natura come le malattie. Delle quali pure si ha vergogna ma non si può certo eliminarle. E comunque repressa la natura trova il suo pertugio qualechesia. Bene, a ogni modo eccomi per cosi dire nella tana. A raffrontare l'immagine spesso terribile ricavata dai fascicoli, col ragazzo che mi trovo davanti. Il serafico biondino _ ogni domenica è lui a servire la messa _ per due volte "nella intemerata casa paterna in cui fin allora avevano spensieratamente giocato" (linguaggio delle note personali) usò violenza alla sorellina, "integra l'imene". Ma e quell'uomo (cronaca di quotidiano) che trovandosi accanto sul letto coniugale la figlia di pochi mesi, mentre la moglie era in cucina, l'ha stuprata? Improvvisamente mi trovo fin troppo propensa a capire, se non addirittura a giustificare, quello che ieri, due ore fa, prima di entrare qui, mi avrebbe per lo meno sconcertata se non proprio disgustata. Sgomento, sì. Riconosco Milli, taurino, faccia leale (bieca nel formato tessera inchiostroso) che ammazzò l'amico in un litigio. Tutti i ragazzi si picchiano, ma lui è forte e nell'ira perde il controllo. Ha il pugno proibito. Cadendo sotto quel suo pugno l'altro batte la testa a uno spigolo di pietra e ci rimane. Mi ha assicurato il censore che mai usa la propria forza coi compagni, non reagisce nemmeno alle più sfacciate provocazioni. E non è che qui manchino gli attaccabrighe. Ma il Milli diventa un masso inerte se si cerca d'indurlo alla lite. Quando un giorno dovrà rendersi conto, lui con questo acerbo senso di colpa in petto, d'un mondo in preda alla violenza, può darsi che finisca per sentirsi scagionato. Il mondo in cui l'altro compassionevole ragazzine nascosto al suo fianco, ha potuto ripetutamente giocare con una rivoltella tedesca "trovata in giro", divertirsi a puntare e minacciare per scherzo, uccidendo alla fine sua madre. Milli e questo orfano sono gli assassini dell'attuale gruppo di detenuti. Lo " studente " si considera l’avventuriere giustiziere, una specie di Zorro. Mi ride, cordiale, un po' spavaldo. Organizzò la banda, che si riuniva in certe cave fuori mano a banchettare con la refurtiva. Prelevata da dispense e cantine di ricchi o borsaneristi _ che è lo stesso, affermò in tribunale _lasciandovi il suo biglietto. Quei biglietti ornati da un teschio, con compiacimento ripetuto sui libri di scuola, e il fumo alle cave abbandonate, condussero a scoprire la banda. III B ginnasiale. Inoltre il mucchio delle bombe e armi varie "trovate in giro". Ragazzata definì l'avvocato quella che la pubblica accusa doveva fermamente sostenere autentica delinquenza. Associazione per delinquere. La stoffa di uno che voglia forzare la vita a mantenere le sue appassionanti promesse _ l'avventura, la punizione dell'avido adulto _ nello studente c'è ed è stoffa di qualità pregiata. Tutto dipende dall'uso che se ne fa, o si è indotti a farne. M'accorgo che manca nel gruppo il contino. Se n'era stato accanto al censore in abito borghese e il censore me l'aveva quasi presentato. Il suo buffo tendere la mano con l'atto mondanamente insufficiente di posare le labbra sulla mia. Si tiene appartato dagli altri. (Truffa e denunce del conte padre. Puttaniere, lo chiama il figlio. Va bene, tu mi tagli i viveri, io entro al cinema e mi trovo un frocio. Dal fascicolo processuale.) Grazie a Bilotte che ha rotto il ghiaccio (il dentifricio mai visto prima lo credeva sul serio roba da mangiare) posso ormai introdurmi nella sezione giudiziaria di un carcere minorile come in qualsiasi altro luogo dove si trovino riuniti, e sia pure costretti, dei ragazzi. Allora, non mettersi a scrutare in essi qualcosa d'ignoto temibile e repulsivo _ solo quel tanto di bene e di male esplosivamente mescolati nella natura umana _ piuttosto riconoscerli vittime. E ragazzi. Ricordarsi che sono ragazzi. Cioè esseri colmi d'un incoercibile slancio vitale e con quel tanto in sé d'intatto che è sempre, quasi sempre, nell'estrema giovinezza. Bisogna rifiutarsi comunque di ritenerli perduti, nutrire l'incrollabile fede che ognuno possa essere salvato. E sentirsi responsabili per ciascuno di essi. Avrò parlato con la mia parte di retorica, temo. Con entusiasmo e proponimenti da neofita. Lo leggo in faccia al censore mentre, io accalorandomi e lui annuendo docile, mi accompagna verso l'uscita. Attraverso una quantità di porte e il primo cancello interno, schiavardati via via da premurosi agenti. Agenti, un po' come angeli, di custodia. Oltre il cancello siamo ancora nell'ingresso che da sul cortile esterno, con la stanza di guardia a sinistra, a destra un altro uscio, chiuso. Ne proviene una sorta di pigolio, soffocato ma irreprimibile. I bambini, ecco dove sono i bambini. Sapevo che dovevano esserci: Istituto di Osservazione. Come si apre l'uscio c'investe un tanfo di polvere e pipì (alle camerate era di bugliolo). Ve ne sono, ristretti nella stanza angusta, con un solo custode, ventitré. Dai minori di quattordici anni a uno di sei. Si azzittiscono immobilizzati come topi alla vista del gatto. Con una strizzata al cuore riconosco il mio scolaro Augustino, paternità enne enne, prima elementare. Lui non mostra di riconoscermi. Guarda in terra. Lo chiamo, non risponde, fugge. Ma che ha fatto? Figlio unico di madre prostituta, è la risposta che vorrebbe essere spiritosa. Era venuta, quella madre, a scuola per giustificare l'assenza del bambino che entrava "in collegio". Mancano i locali e il personale è insufficiente, questo buco passa per l'Osservazione, c'è sopra la targa. Ma la verità è che, essendo il cortile l'unico posto per la ricreazione, li tengono tutti insieme, osservati corrigendi detenuti. Per riguardo alla visita... Prego di liberarli. Signor censore (e rex) non faccia complimenti con me, ormai sarò di casa. Prorompendo a mucchio s'attaccano alle sbarre del cancello come uccellini, non ancora abituati alla prigionia, ai ferri della gabbia. Nuovo schiavardamento fragoroso, le chiavi sono grosse, di ferro. E invasione del cortile claustrale. Assassini stupratori e rapinatori accolgono gli uccellini spennati coi quali giornalmente convivono, e non solo a ricreazione. Vedo il muscoloso Milli tirarsi su in braccio il mio Augustino rattrappito e piangente. "Sa, si spingono, sono tanti." Sono, per la precisione, al momento, centoventisette "ospiti", nello spazio per cinquanta frati del tempo antico di minuscole celle e sterminati corridoi, Potrebbero perfino ammutinarsi.

EH!La vita...(Novelle)

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Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1913
  • Tipografia agraria
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Pagina 180

Pagina 49

Il Marchese di Roccaverdina

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Capuana, Luigi 2 occorrenze

PROFUMO

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

ARABELLA

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De Marchi, Emilio 3 occorrenze

ordinò Arabella al cocchiere che aspettava abbasso. Ferruccio andò a sedersi sulla seggioletta della zia Nunziadina, davanti al telaio sul quale era steso un gran pizzo. E rimase in contemplazione dei ricami tutto il tempo, meravigliandosi di non sentir nulla, come se non si trattasse più di lui. Le due donne scesero davanti la Questura e chiesero a una guardia di poter parlare al delegato Galimberti. Fu loro indicato un lungo corridoio, mezzo cieco, che metteva ai piedi di una scaletta umida e sporca. Salirono a un portico superiore, dov'erano molti usci con delle scritte sopra, che Arabella non ebbe gli occhi per decifrare. Sentiva e vedeva, come in sogno, quasi per una visione interna. Sulla soglia d'una di quelle porticine molta gente mal vestita, dalle faccie slavate, tra cui molte donne piangenti, si addossava per spiare quel che si faceva di dentro, mentre altre guardie passeggiavano lentamente in su, in giù, per il lungo del portico. Un usciere, a cui la Colomba si rivolse timidamente a chiedere di nuovo del signor Galimberti, rispose con voce seccata: "Dabbasso" e scomparve, sbattendo furiosamente un usciolino. Si rassegnarono a tornar giù. Allo svolto del pianerottolo furono quasi brutalmente urtate e respinte da un corteo di guardie, che tenevano in mezzo un ragazzaccio a sbrendoli, colle mani legate, una figura smilza e imbozzacchita dai vizi e dalle prigioni, che all'incontrare una signora sulla soglia di casa sua, tese il collo, sgranò gli occhi, e urlò con voce rauca e sguaiata: "Viva l'Italia, bella bionda!" La Colomba, vedendo la signora diventar smorta e tremare, le fece scudo col corpo, ma tremava anche lei come un coniglio. Rimasero due respiri in silenzio, incapaci di muoversi, sostenendosi a vicenda cogli occhi, sforzandosi di sottrarsi al pensiero che la vista del ragazzotto arrestato veniva naturalmente a suggerire. "Se Dio tien conto di quel che lei fa..." balbettò la Colomba. Arabella fe' segno di tacere, stringendole forte la mano, e scesero insieme gli ultimi scalini quasi correndo. Un vecchio portiere, che veniva su portando con fatica un secchiolino d'acqua, indicò loro l'ufficio del delegato Galimberti, a man sinistra, sotto il portico, e stette sulle gambe arrembate a contemplare la bella figurina. Ne càpitano molte in Questura, di brutte e di bionde. Il Galimberti, riconosciuta la Colomba, capì di che si trattava e le fece passare in uno stanzino contiguo alla sala d'ufficio, dove c'era un gran puzzo di sigaro, sbarazzò due sedie dalle carte, le invitò a sedere chiudendo per precauzione la porta. La Colomba colla foga della passione cominciò a dire che la signora era pronta a dare delle testimonianze per Ferruccio. "La signora è forse una parente?" "È la padrona di Ferruccio" rispose la vecchia, che lì per lì non seppe trovare una parola migliore. "Ho capito" disse il delegato, fissando uno sguardo paterno su Arabella, mentre andava a pescare in una scatoletta di cartone una pastiglietta di poligala. "È la nuora di quel povero signor Tognino? povero uomo, morto giovine anche lui. Ma...! nido fatto gazza morta..." "E questo nostro figliuolo?" chiese la Colomba. "Le testimonianze non fanno male, e non fanno male nemmeno le raccomandazioni delle buone signore. Ma, ma, ho di nuovo esaminato il caso, la mia donna, e non so come potremo cavarcela. È una disgrazia, capisco, il ragazzo non è cattivo, è tutt'altro che un socialista e un anarchico: ma i tempi son cattivi sotto questo rispetto, e gli ordini superiori son chiari. C'è stata ribellione alla pubblica forza... L'avrà fatto per imprudenza, per buon cuore, ma la legge è legge, cara la mia donna, e non guarda in faccia a nessuno. La ribellione è diventata quasi un tratto di spirito per questi giovinotti della giornata, che credono, chi sa?, di cambiare il mondo come si cambia un paio di scarpe vecchie. E naturalmente l'autorità stringe i freni e manda delle istruzioni categoriche, precise, che non scherzano. Si sa che chi va di mezzo siam sempre noi poveri agenti. Se si fa troppo, gridano che si fa troppo; se si fa poco gridano che non si fa nulla. I giornali ci mordono ai polpacci, la Prefettura ci picchia sulla testa, il Ministro ci trasloca, ci destituisce, talché si può dire che i nostri migliori amici sono ancora i birbanti... Questo per darvi un'idea che anche noi abbiamo le mani incatenate. Nel caso nostro poi c'è un aggravante serio, serio, serio…" Il delegato socchiuse gli occhi e tentennò un poco la testa. "Oltre alla ribellione c'è la deposizione di una guardia, che è stata sbattuta in terra e ha dovuto rimanere dieci giorni fuori di servizio per una slogatura alla mano. Caso grave! Una mano per una guardia di questura è come l'archetto per un suonatore di violino. C'è stato del danno..." "La signora è pronta a dare un indennizzo." "Anche il denaro è un bel rimedio che guarisce molte slogature. Protezioni, alte testimonianze, denaro, potranno esser tant'olio per far correre le ruote e per non lasciarle stridere; ma voi, la mia Colomba, domandate troppo. Mi par già di essere compromesso per quel che ho fatto, avvisandovi del pericolo e offrendo al ragazzo i modi di accomodare i suoi cenci in famiglia. Mi rincresce anche per questa buona signora, alla quale non vorrei proprio dir di no; ma c'è una deposizione, Dio benedetto! c'è la legge." Arabella, che stava ad ascoltare colla faccia impassibile, mosse due o tre volte le palpebre per asciugare un leggero velo di lagrime. Il delegato se ne accorse, e fece qualche passo nella stanza. Non poteva veder piangere le donne. Era il suo debole. Dopo uno sforzo riprese a dire: "Ho già parlato col ragazzo e gli ho fatto capire che gli conviene fidarsi di me. Mi sta a cuore anche a me, povero figliuolo, perché ho conosciuta la sua mamma e con queste donne siamo amici vecchi. Ci sono delle circostanze attenuanti, che non gli fanno disonore... Quindi gli conviene mettersi nelle mie mani". "O povero martire!" scoppiò a dire lagrimando la Colomba. "Non esagerate il male, benedette! Anzi fategli coraggio e persuadetelo a seguire il mio consiglio. Credete forse che lo si abbia a caricare di catene e a far marcire in un tetro carcere come si diceva una volta? Saranno due o tre mesi, al più, di ritiro, una specie di esercizi spirituali, che a un giovane un po' vivo non faranno male." "O signore..." balbettò la Colomba. "Quel ragazzo mi muore." Arabella aggrottò la fronte in un pensiero doloroso. "Benedetta gente!" riprese dopo un istante il povero Galimberti, che non aveva il cuore di sasso. "Tutto quello che io posso fare è di tirar in lungo la pratica, per lasciargli il tempo, va bene?, di preparare terreno. Così nessuno si accorge nemmeno ch'egli sia scomparso. Dà ad intendere d'aver trovato un posto, che so io? a Bergamo, a Como, a Melegnano... va bene? e tra quindici, venti giorni, una mattina, dietro un mio biglietto, viene da me, quieto quieto, noi lo esaminiamo in camera caritatis , lo trattiamo con indulgenza. Se poi si comporta bene, io lo farò accettare negli uffici d'amministrazione, dove, tranne il catenaccio, è come esser qui. Vedete dunque che in realtà si riduce a una commedia, mentre se invece vuol suscitare rumori, scandali, o pretende che la legge si abbia a cangiare pe' suoi begli occhi, allora si taglia la strada sotto i piedi, lega le mani a noi, ci compromette e da un maluccio fa nascere un malaccio." "Posso quasi assicurare che il giovane non sopporterà il suo disonore" prese a dire Arabella con accento che aveva in sé qualche cosa di tagliente e di sprezzante. "A ogni modo non possiamo sopportarlo noi, non è vero, Colomba?" Il Galimberti aprì le due braccia come se volesse dire: "Non c'è rimedio..." e voltò la faccia verso il muro per non saper che cosa rispondere. "Il signor delegato che dice di voler bene a queste povere donne vorrà, come ha promesso, tirar le cose in lungo." "È tutto quello che posso fare, cara la mia signora: e lo farò volentieri, perché non solo voglio bene a queste povere donne, ma il figliuolo mi ricorda la sua povera mamma. La Colomba sa che... che... che..." E con una scossa del capo si sforzò d'inghiottire un grosso stranguglione di reminiscenze. Arabella si alzò, e trasse in un angolo vicino alla finestra il delegato, mentre la Colomba pareva diventata sulla sedia un sacco di stracci. Prese famigliarmente le mani del pacifico tiranno e gli mosse una serie di questioni, alle quali egli rispose benevolmente, fissando con crescente meraviglia gli occhi negli occhi di questa cara donnina, che gli parlava con tanto calore e con tanta seduzione. Il mestiere non gli aveva ancora fasciato il cuore d'una corazza di bronzo; e posto in mezzo tra una povera vecchia che gli risuscitava il passato, e una simpatica bellezza che lo pregava cogli occhi bagnati, si lasciò trascinare a promettere, non solo che avrebbe cercato di mandar la pratica in lungo, ma che avrebbe anche rilasciato un foglio di via per Ferruccio, una patente netta... Al resto avrebbero pensato le donne. "Le donne, le donne, le donne…" seguitò un gran pezzo a ripetere il povero uomo, quando rimase solo, rotto e sfasciato anche lui sotto l'emozione e sotto il peso della responsabilità che gli addossavano. Quantunque vedesse di non far nulla di male a tirar la pratica in lungo, quantunque una dichiarazione di buona condotta la potesse sempre rilasciare a un giovane non ancora giudicato, tuttavia nella sua coscienza di onesto impiegato sentiva di servir male la sua padrona, questa volta. Il giovinotto avrebbe preso il volo... Oh le donne; vive e morte, son sempre le più forti...

Il cappello del prete

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Demetrio Pianelli

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De Marchi, Emilio 2 occorrenze

VECCHIE STORIE

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

strillò il signor ragioniere Malignoni di Monza, rosso come un gallo, correndo abbasso, presso quasi a perdere la tramontana del tutto: tanto straordinario gli pareva là dentro il nome di galantuomo! In quella entrò una carovana di ladies e di lords, colle sciarpe bianche nei capelli, cogli scarponi ferrati, cogli alpenstok e riempirono tutto l'atrio. - Faccia el favorito piacere di non gridare. Quando non si sa viaggiare si sta a casa. Questa osservazione piena di una saggezza antica fu raddolcita da un "aspetti, abbia pazienza" più amichevole, quasi fraterno, col quale il buon signore dava a vedere una prudenza non meno saggia e non meno antica. Ma la notizia che un "monsieur" non trovava più la moglie, messa in moto dai due burloni, aveva già fatto il giro di mezzo albergo, dalla cucina alla sala di lettura. Dietro i vetri si vedevano dei visini pallidi e gentili, con un sorriso anglo-sassone sulle labbra, fra la pietà e la canzonatura: da un andito dietro la scala spuntò per un istante anche la tunica bianca di "monsieur le chef", un cuoco che guadagnava otto mila lire all'anno, quante sono, o quasi, le notti necessarie per fare un libro che nessuno legge. Uscì fuori finalmente anche il biondino, che condusse lo sposo per una seconda scala identica alla prima, ma collocata al di là d'un grazioso jardin d'hiver ; qui stava l'imbroglio che il signor Malignoni non aveva potuto districare. L'aneddoto del " countryman che in un Hôtel d'Italy aveva perduta la sposa, fu stampato in molti magazzini letterari con qualche variante, come si fa coi grandi poemi epici.

Malombra

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Fogazzaro, Antonio 5 occorrenze

Abbasso, il lago dormiva. Nel Palazzo si vedevano ancora illuminate le finestre della biblioteca e altre due nella stessa ala, sull'angolo del secondo piano; una verso ponente, l'altra verso mezzogiorno. Prima di toccar le casupole, il sentiero svoltava fra i due muricciuoli bassi, in un avamposto di granoturco e di gelsi . "Dove andiamo?" domandò Silla affacciandosi all'entrata scura del villaggio. "Solo un poco avanti" rispose Steinegge, incoraggiandolo. "Le sarei grato se ci fermassimo qui." Steinegge sospirò. "Come volete. Fuori del ciottolato, allora." Ritornarono un passo indietro dai muricciuoli e sedettero sull'erba, dalla parte del ponte. "Io faccio come volete, signor" disse il segretario "ma questo è molto male per Voi di non bere. Gli amici delle ore tristi sono pochi e il vino è il più fedele. Non bisogna trascurarlo. Mostrategli di vederlo volentieri, Vi accarezza il cuore: trattatelo male e, se un giorno ne avrete bisogno, Vi morderà." Silla non rispose. Era dolce a contemplare, nello stato d'animo suo, la notte senza luna e senza stelle. Dal vallone spirava una tramontana fresca, pregna d'odor di bosco. Erano lì da pochi minuti quando udirono a destra fra le casupole un suono cupo di molti passi, che si allargò subito all'aperto e si fermò. "Ooh, Angiolina!" chiamò qualcuno. Silenzio. "Ooh, Angiolina!" Una finestra si aperse e una voce femminile rispose: "Che volete?" "Niente, vogliamo. Siamo qui al caffè della valle a prendere come i signori, e vogliamo far quattro chiacchiere." "Maledetti ubbriaconi, è questa l'ora di far chiacchiere? Dovevate stare all'osteria a far chiacchiere." "Ci è troppo caldo" saltò su un altro. "Si sta meglio qui a cavallo de' muri. Non sentite che bel freschino? Come volete fare a dormire? L'è pazzia stare a letto con questo caldo. Non è andato a letto neppure il vecchio del Palazzo stasera. Non vedete che ha ancora acceso il lume?" "Non si vede da qui. Sarà il lume della signora donna Marina." "Oh adesso! Mai più. C'è bene anche quello, ma le due finestre chiare, abbasso, sono quelle dei libri. Ho mica da saperlo? Sono stato giù l'altro giorno a metterci due lastre." "Ci hanno ad essere de' forestieri" disse un terzo. "Sì, c'è un giovinotto di Milano. L'ha detto il cuoco stasera alla Cecchina. Ci deve essere per aria di combinar qualche cosa con la signora donna Marina." "Stia allegro chi la toglie, quella lì, che toglie un bel balocco, sì!" disse la donna. "Ha detto così la signora Giovanna alla Marta del signor curato, che hanno attaccato lite anche oggi e che lui, il vecchio, le ha sbattuto giù il libro dalla finestra, e lei allora ha fatto il demonio. La signora Giovanna tiene dal suo padrone, ma già sono matti tutti e due. Solo per il nome non la vorrei quella lì, se fossi un uomo. Ha un gran nome da strega, sapete. Malombra!" "Oh sì, sì, come ha ragione quella donna, da strega!" disse piano Steinegge. "Questo è divertente." "E mica Malombra, è Crusnelli." "Malombra!" "Crusnelli!" "Malombra!" Si riscaldavano, gridavan tutti insieme. "Andiamo via" disse Silla. Si alzarono e ridiscesero verso casa. Quando giunsero in fondo al seno del Palazzo, dove faceva tanto buio che Steinegge si pentì di non aver preso seco la lanterna, saltò su nel silenzio il suono chiaro e dolce d'un piano. Rischiarò la notte. Non si vedeva nulla ma si sentivano le pareti del monte intorno alle note limpide, si sentiva, sotto, l'acqua sonora. In quel deserto l'effetto dello strumento era inesprimibile, pieno di mistero e di immaginazioni mondane. Era forse un vecchio strumento stanco, e in città, di giorno, si sarebbe disprezza ta la sua voce un poco fessa e lamentevole; pure quanto pensiero esprimeva lì nella solitudine buia! Pareva una voce affaticata, assottigliata dall'anima troppo ardente. La melodia, tutta slanci e languori appassionati, era portata da un accompagnamento leggero, carezzevole, con una punta di scherzo. "Donna Marina" disse Steinegge. "Ah" sussurrò Silla "che musica è?" "Ma!" rispose Steinegge "pare Don Giovanni, Voi sapete: Vieni alla finestra. Suona quasi sempre a quest'ora." In biblioteca non c'era più lume. "Il signor conte arrabbia adesso" disse Steinegge. "Perché?" "Perché non ama la musica e quella lo fa apposta." Silla zittì con le labbra. "Come suona!" diss'egli. "Suona come un maligno diavolo che abbia il vino affettuoso" pronunciò Steinegge. "Vi consiglio di non credere alla sua musica, signor."

C'era abbasso anche il signor conte, pe rché quello è proprio el massariol, lo si trova dappertutto, pare che vi comparisca di sotto terra." "Tacete, pettegola" interruppe la contessa Fosca. "Ho tanto di testa. Cosa volete che me ne faccia di tanti pettegolezzi? Fate presto. Specchio. Brava, gioia. La Madonna porta ella quell'affare sul naso? Questo si acquista con darvi libertà, che non fate più attenzione a niente. Presto. Sua Eccellenza è alzato?" "Credo di sì. Ho visto Momolo portargli gli abiti." "Bene, andate a dirgli di venire da me. Presto!" "Subito, Eccellenza." "Per diana, tu puzzi ancora di baccalà, ciò" soggiunse Catte fra i denti, chiudendo l'uscio dietro di sé. Non era colpa della contessa Fosca se suo padre, dopo essere stato sbrodegher, aveva venduto ai veneziani e alla terraferma uno sterminio di baccalà. Quando il conte Alvise VI Salvador si degnò di sposarla, i suoi concittadini le inflissero il nomignolo di contessa Baccalà. Ella sapea tuttavia liberarsene presto per la sua bonarietà disinvolta, per la franchezza con la quale parlava della propria origine, per la sua schietta e allegra ignoranza. Con l'andar del tempo si fece voler bene persino dalle gran da me più schizzinose; il tanfo dei negozi paterni andò perdendosi; ci voleano le nari maligne di Catte per coglierlo ancora. In vent'anni di matrimonio il fu conte Alvise VI, buttando via quattrini a destra e a manca con l'aiuto dell'allegra signora, aveva cominciato a rivedere qua e là il fondo della cornucopia, su per giù come prima del suo matrimonio. Alla sua morte la contessa Fosca si trovò in possesso di latifondi sterminati, di debiti colossali, e di un ragazzetto mingherlino, ammirato in casa e fuori di casa, come un grande ingegno. La contessa volle sapere a puntino in quali acque navigasse; si spaventò, si raccomandò al la Madonna dei Miracoli, ad avvocati, a santi, a uomini d'affari; ebbe la fortuna di trovare una valente e proba persona, l'avvocato Mirovich, che accettò di mettersi a pope e promise condur la barca a salvamento. Si introdussero grandi economie nella famiglia, si mise Nepo in collegio, si vendettero due tenute in Friuli; e certe anticaglie polverose, degne agli occhi della contessa d'esser buttate in rio, uscirono dal granaio del Palazzo per finire al Museo Britannico. Mentre le guaste fortune di casa Salvador si andavano racconciando, Sua Eccellenza Nepo assodava la sua riputazione in collegio. Aveva memoria prodigiosa, parola assai facile; non era sfornito d'ingegno, se ne attribuiva con l'aiuto dei maestri e di compagni adulatori, moltissimo. Escito di collegio, studiò leggi a Padova. Nell'Università il suo nome non si levò sugli altri. Con il grosso degli studenti, scapestrati aperti, democratici intus et in cute, egli, delicato e molle, non poteva accordarsi. Non ebbe adulatori; fu addetto a una chiesuola timida di eleganti, motteggiata, satireggiata dagli altri. Trovava modo di sdrucciolare spesso a Venezia e d'indugiarvisi. Si occupava di economia politica e sapeva fare l'elegante, comparir signore, applicando segretamente la legge del minimo mezzo. I suoi primi passi nella società furono fortunatissimi. Egli era una speranza bianca e rosea di mamme e di figliuole, una speranza di quei patrioti che desideravano alta la illustre nobiltà veneziana. Quando si annoveravano nei crocchi i giovani più valenti di Venezia, qualcuno cominciava a dire "c'è Salvador". Gli bastava per questo, a lui patrizio, conoscere il tedesco, l'inglese, essere abbonato all'Économiste e al Journal des Économistes, andare a qualche seduta dell'Istituto, spiegare da Florian cosa a vessero fatto di tanto noioso i pionieri di Rochdale per seccare l'universo. In pari tempo svolazzava intorno alle gran dame e alle belle dame senza bruciarsi le ali e nemmanco il cordoncino dell'occhialetto; scherzava impunemente con loro, le consigliava nelle più gravi minuzie, acquistandone a poco a poco certa stima sui generis, per cui esse non potevano parlar di Nepo Salvador senza farne gran lodi e sorridere. Il suo nome illustre e la buona opinione che molti avevano di lui, piuttosto per desiderio e per fede che per conoscenza dell'uomo, prevalsero un pezzo su questi equivoci sorrisi e sui giudizi che poche persone, a quattr'occhi, facevano di lui. Finalmente i sussurri si propagarono, diventarono mormorii, bisbigli, voci; il credito di Nepo si sdrucì rapidamente da ogni parte; il suo perpetuo occhialetto, le fogge esagerate degli abiti, il portamento effeminato, la vanità ridicola, gli stomeghezzi, le taccagnerie male nascoste, furono liberamente derise; i suoi amici si confidarono il gran dubbio che sapesse pochino pochino, e quando uno diceva "talento, però" un altro rispondeva "ehu, memoria". Nepo Salvador diventò il conte Piavola. Nel 1860 due o tre valentuomini, amici di casa Salvador e teneri, per l'onor di Venezia, del nome patrizio, accordatisi fra loro, si misero attorno a Nepo onde persuaderlo a emigrare. Bisognava prepararsi all'avvenire, come facevano tanti altri delle migliori famiglie, con la esperienza della libertà, con l'amicizia dei pezzi grossi di Torino. Nepo era ambizioso, cominciava a sentire un freddo intorno a sé; abbracciò subito l'idea. La contessa Fosca odiava religiosamente col suo grosso patriottismo, i tedes chi, ma non poteva comprendere che diavolo fosse questa libertà cui bisognava prepararsi tanto tempo prima, né quale onore fruttasse l'essere deputato, cioè, com'ella concluse dopo infinite spiegazioni, l'essere mandato in tanta malora dal calegher, dal forner, dal frao, ecc. A una amica che le domandò se partiva lei pure, rispose stizzita: "Io? Cosa volete che vada a fare? Il deputato?". Non partì, ma faceva di tratto in tratto delle visite a suo figlio. S'incontravano a Milano per abbreviare il viaggio e perché Nepo amava far conoscere sua madre a' suoi amici. Colà videro spesso i Crusnelli di Malombra, loro cugini per parte della madre di Marina. Fra i d'Ormengo e i Salvador v'era stata alleanza fin dal 1613, quando Emanuele d'Ormengo, inviato di Carlo Emanuele I a Venezia, s'invaghì di Marina Salvador e la sposò. Nel 1797 Ermagora Salvador, esule da Venezia, trovò a Ginevra i d'Ormengo, fuggiaschi dal Piemonte, e, un anno dopo, condusse in moglie Alessandrina Felicita, zia del conte Cesare e madre, in seg uito, di Alvise VI. Il lusso tutto moderno del marchese Filippo abbagliò Fosca, benché nel suo palazzo di Venezia vi fossero da secoli ricchezze dieci volte maggiori. Ella pensò subito ad un matrimonio e ne parlò a Nepo, il quale arricciò il naso e rispose in tono cattedratico che un giovanotto non può legarsi senza una gran passione, e che quando si ha l'amicizia delle più belle e colte signorine di Venezia e di Torino non è facile innamorarsi a prima vista di altre persone; che, al postutto, lo sfarzo dei Malombra gli piaceva e non gli piaceva. Un oracolo! pensò sua madre, quando improvvisamente casa di Malombra si sfasciò. Ella si compiacque assai che Marina fosse stata raccolta dallo zio Cesare. Lo aveva conosciuto a Venezia un trent'anni addietro; lo sapeva ricchissimo e senz'altri eredi che questa nipote. Non osò tuttavia riparlare a Nepo di matrimonio, dopo la teoria dei giovinotti dalle belle amiche. Fu Nepo che un paio d'anni dopo la catastrofe, trovandosi con lei a Milano, escì a parlarle della pove ra Marina, delle sue disgrazie, dei suoi begli occhi; le disse che certe idee respinte una volta, al tempo della prosperità di Marina, adesso gli si riaffacciavano, gli entravano meglio di prima nel cuore intenerito. "Taso, ma no la bevo, vissere" disse tra sé la contessa Fosca. Nepo osservò pure che correva loro obbligo, essendo in Lombardia, di visitare il conte Cesare, parente dei più stretti che avessero. La contessa, prima di avventurarsi in paese sconosciuto, volle informazioni e consigli da donna Cos tanza R..., una vecchia dama milanese di sua conoscenza. Le informazioni sul cugino furono scarse: strano, misantropo, ricchissimo, senza eredi più prossimi di Marina. Di costei donna Costanza seppe solamente dire che la credeva un follettino, ma buona e pia. La vedeva sempre, quand'era a Milano, all'ultima messa di San Giovanni. "Casa Malombra, già, non se ne parla, principii buonissimi. Anche il povero Filippo, testa un po' fêlée, ma buonissimo, neh! Proprio buono, ecco, povero Filippo! E poi, cara, gran seigneur!" Donna Costanza concluse che bisognava scrivere prima, e poi, secondo la risposta, regolarsi. La contessa Fosca scrisse un capolavoro diplomatico. V'erano intarsiati non pochi errorucci di ortografia e di grammatica; ma nessuno si sarebbe atteso dalla contessa uno scritto così artificioso. V'era espresso il desiderio di rivedere il conte dopo tanti anni, di stringere con l'amicizia i legami del sangue. Non era egli, dopo tante disgrazie, il più prossimo dei parenti superstiti del povero Alvise? Tali erano pure i sentimenti di Nepo. Ella avrebbe voluto intrattenersi con lui dell'avvenire di questo su o figlio; e qui grandi elogi al medesimo. Lo vedeva disposto ad accasarsi. Ove cadrebbe la sua scelta? Certo sopra una famiglia degna, una fanciulla virtuosa; ma ella, come madre, doveva pur pensare a quello che i benedetti giovani non curano mai. Qui veniva un quadro né troppo scuro né troppo chiaro delle finanze Salvador. Insomma ell'aveva bisogno di amici autorevoli e prudenti. Verrebbe volentieri al Palazzo con Nepo, se però il tempo, se la salute, se questo se quello permettesse. Desiderava pure tanto abbracciare la cara Marina di cui si ricordava sempre con tenerezza. Aggiungeva uno speciale bigliettino affettuoso, sulle generali, per essa. Il conte Cesare rispose brevemente che si compiaceva delle buone qualità di Nepo, e approvava, riguardo al matrimonio, le idee della cugina; che avrebbe gradito assai la visita e sperava riuscirebbe gradita anche a sua nipote. Questa mandò due righe di fredda cortesia irreprensibile, che diedero un po' da pensare alla contessa Fosca, perché gittavano un'ombra sulla lettera dello zio, la quale poteva interpretarsi per un assenso anticipato con la solita clausola "se piace". Ma donna Costanza le fece riflette re che, nel caso di Marina, un gran riserbo era della più stretta convenienza. Così Sua Eccellenza s'imbarcò e fluttuava in alto mare, quando dopo le chiacchiere e le inattese rivelazioni di Catte, comparve Nepo. Sua madre lo accolse con una faccia sepolcrale, lo fece sedere e dopo un solenne "Fio, qui nasce questo" gli spifferò d'un fiato tutta la storia di Catte, tenendo indietro il più grosso, smorzando e rallentando la voce sempre più. Finì col metter fuori la supposta paternità del conte e ripeté in forma di epilogo, con voce sommessa ma solenne: "Un fio!" Nepo rimase imperterrito. Disse ch'era ormai interamente sicuro di piacere a Marina, poiché ella si trovava male in casa dello zio. Quanto al figlio, non valeva la pena di occuparsene. La contessa non voleva credere a' propri occhi e se lo fece ripetere due volte. "Eh, so quello che dico!" esclamò Nepo impazientito. "Se sposerò mia cugina non sarà per i denari. Sciocchezze, cara mamma, queste." Fosca andò sulle furie, sempre sottovoce. Nepo si stringeva nelle spalle e taceva; ma quando sua madre dichiarò ch e sarebbe partita la sera stessa, egli, giuocando furiosamente, prima delle sopracciglia e del naso, poi del capo, scosse via l'occhialino, assalì la contessa a rimproveri, a sarcasmi e affermò che non sarebbe partito quand'anche si fossero dati la posta al Palazzo tutti i Silla dell'universo. "Che Silla?" interruppe Sua Eccellenza. "Chi è questo Silla? È quell'amico?" Nepo si morse le labbra. "Ma rispondi! È questo il fio?" "Non c'è figli." "To', to', to'" disse Fosca appuntando l'indice a Nepo che le voltava le spalle, tutto ingrugnato. "Tu lo sapevi, tu? Come diavolo hai fatto? Tu lo sapevi, eh? Come lo hai saputo?" Nepo fece un atto d'impazienza e uscì brontolando dalla camera. Sua Eccellenza gli guardò dietro, alzò le sopracciglia, porse il labbro inferiore e sussurrò: "Xelo!"

Sento allora tante voci sinistre, sempre più forti, sempre più forti, chiamarmi giù abbasso, in qualche fango ch e spenga il pensiero. Scusi, signorina Edith, Le dà noia che io parli tanto di me?" "Oh no" diss'ella piano. "Non avrei creduto quello che dice." "Lo so; il mio cuore è ben chiuso di solito. Questa sera parlo perché mi pare di essere in sogno." "Ella sogna" disse Edith "di parlare ad una persona morta da lungo tempo, cui si può confidarsi." "No, faccio un sogno da notte di primavera, come ne potranno fare questi vecchi platani pieni di speranze, quando si alzerà la luna e la gente andrà via. Sogno di mettere anch'io una volta foglie e fiori, di parlar sottovoce, dopo tanto silenzio, con la primavera blanda, di raccontarle tutte le tristezze dell'autunno e dell'inverno, come se fossero passati de' secoli. Dunque senta. Io non la stimavo. Premetto questo: nelle mie ore di sconforto ho sempre avuto lo stolido istinto di qualche fatalità oscura ch e mi domini. Ora Suo padre non ha potuto raccontarle tutto perché non sa tutto. Io mi confido alla primavera blanda. Qualche tempo fa ho publicato un libro anonimo, intitolato Un sogno." "Si potrà leggere?" chiese Edith. "Lo leggerà. Poco tempo prima ch'io partissi pel Palazzo, capitò, alla tipografia ond'era uscito il libro, una lettera diretta all'autore di Un sogno e sottoscritta Cecilia. Era una lettera sfavillante di spirito sarcastico, intarsiata di motti francesi, profumata, in cui si parlava molto di fatalità e di destino. Il tono di questa signora Cecilia non mi era pienamente simpatico, ma pure la lettera aveva un certo fascino d'ingegno e di stranezza: e poi sorrida pura, blandiva il mio amor proprio che ha ben d i rado assaporato la lode pubblica, e trovava una dolcezza molto più delicata nelle parole direttemi segretamente da una lettrice sconosciuta. Vede se Le confido anche le mie miserie. Insomma risposi. La replica di Cecilia mi capitò la vigilia della mia partenza per il Palazzo. Era piena di frizzi e di domande curiose, impertinenti. Decisi di rompere: le scrissi un'ultima lettera che cominciai a Palazzo e spedii qui nei due giorni in cui venni a prender i miei libri. Lei sa da Suo padre per qual cagione e i n qual modo partii dal Palazzo. Quel giorno stesso avevo scoperto per caso, indovini!... che Cecilia era donna Marina. Nella notte parto, trovo lei nella sua lancia. Avemmo un colloquio violento. Sopravvenne un temporale: dovetti ricondurla a casa. Non Le dirò come né perché, ma fui tentato fieramente di non partire più. Mi strappai da lei gittandole il suo finto nome, Cecilia. Fuggii pieno di sgomento, pieno della stolta idea che mi perseguita, d'esser giuoco di una potenza nemica che mi mostra ogni tanto la felicità vicina, me la offre, me la porta via quando sto per afferrarla. Ci volle tutto il mio orgoglio... Lei mi crede modesto, signorina Edith?... No, non lo sono, tranne qualche volta, nelle ore di scoramento; allora mi sento abbietto addirittura. Ci volle dunque tutto il mio orgoglio spiritualista per giungere a calcarmi ai piedi queste paure vigliacche; ci volle, per liberarmi da sentimenti non degni, un lavorar feroce, sia tuffandomi ne' libri antichi come in acque fredde, sia scrivendo di cose ide ali in cui il mio pensiero si esalta e si riposa. E così ho vinto. Solo questa sera potei comprendere quanto pienamente ho vinto. E Lei..." "Oh" disse allora Edith fermandosi "dove siamo?" Erano soli sul viale. Avevano oltrepassato senza avvedersene il punto dove le carrozze e la gente giravano indietro. Edith arrossì della sua distrazione e si voltò in fretta, lasciando il braccio di Silla. Poi temé forse di averlo offeso con quell'atto brusco. "Non potevo sapere queste cose" diss'ella. "Non ho compreso tutto quello che ha raccontato, ma lo credo. Se sapesse quale concetto ha di Lei mio padre! Non sono italiana" soggiunse con forza "non so se è vero ch'Ella non ha riputazione; ma non è certo vero" continuò abbassando la voce "che Ella non ha amicizie." Fosse per la tenera poesia d'aprile o per la emozione delle confidenze recenti, Silla era così disposto che le semplici parole di lei gli abbuiarono la vista. Le riprese il braccio. "Ah" disse "è vero, è vero ch'Ella mi crede anche se non mi comprende interamente, è vero che ha fede in me? Ebbene, la riputazione, la fama più splendida, io la darei cento, mille volte se l'avessi, non per un'amicizia, non basta..." Il braccio di Edith tremò nel suo. Egli proseguì con voce incerta, diversa dalla sua solita, camminando come se le gambe non sapesser tenere la via diritta né la misura del passo: "Per un'anima. Per un'anima che accettasse, che volesse da me, per sé sola, le creazioni del mio ingegno e del mio cuore; per un'anima chiusa a tutti fuor che a me, com'io sarei chiuso in lei. Dovrebbe essere appassionata e pura come il puro cielo. Noi ameremmo insieme, uno attraverso l'altro, Dio e il creato con un amore di potenza sovrumana. Pare a me che saremmo forti nella nostra unione, come tutta questa gente non sospetta neppure che si possa esserlo, più forti del tempo, della sventura e della morte; pare a me che intenderemmo l'essere delle cose, il loro spirito; che ci attraverserebbero la mente visioni del nostro avvenire, splendori incredibili di visioni. La troverò quest'anima?" "Sarebbe un'anima egoista" disse Edith, "se volesse tutte per sé sola le opere del Suo ingegno e del Suo cuore. La gloria, lo sento, deve avere in sé qualche cosa di vuoto, persino, di triste forse, per uno spirito come il Suo; ma aver la potenza di far amare, di far piangere, di muovere le anime al bene e non usarla! Avere della luce nel pensiero e nasconderla, non inviarla dritta a traverso questa gran confusione torbida del mondo!" "Questo non è per me, signorina Edith. Il poco che ho scritto è affondato in silenzio, partecipando della mia sfortuna. Forse qualcuno, un giorno, frugando, per farsi del merito, tra le cose dimenticate..." Ecco Steinegge, rosso, trafelato. "Finalmente!" diss'egli. "Io credeva che eravate saliti sopra qualche albero. Io ho corso su e giù come un bracco." "Perdonami, caro papà" disse Edith soavemente, staccandosi da Silla e prendendo il braccio di suo padre, benché questi, sempre cerimonioso, protestasse. "Siamo esciti per un breve tratto dalla gente." Ella gli parlò carezzevole, in tedesco, stringendosi a lui quasi volesse compensarlo, provasse un rimorso. Il povero Steinegge, imparadisato, si scusava di non averli raggiunti prima, come se la colpa fosse sua. Silla non parlava. Passeggiarono così un pezzo. La gente e le carrozze si venivano ormai diradando. I viali, i giardini, le case lontane s'intorbidavano di mistero. Le donne, camminando languidamente, guardavano i passeggeri con occhi fatti audaci dall'ombra. Si udiva parlare sotto i viali, da lontano; di là dai giardini, lungo le case tenebrose, i fanali, occhi ardenti della grande città pronta al piacere, si aprivano uno dopo l'altro. Sopra le case il cielo sereno, senza stelle, aveva ancora un tepido chiaror di perla che s i stendeva blando sul margine scoperto del bastione e sulla spianata bianca del caffè dei giardini, a cui Steinegge si avviava con propositi di munificenza. In faccia al cavalcavia era fermo un elegante calesse vuoto. Uno staffiere teneva aperto lo sportello, volgendo il capo a due signore che venivano dal caffè. Silla salutò. Una di quelle, nel passargli vicino, gli disse con una vocina piena di grazie: "Si ricordi. Dopo il Re." "Io mi congratulo molto, caro amico" disse Steinegge. "Oh, di che?" rispose Silla sdegnosamente. "È la signora De Bella. Un'antipatica bambola di Parigi. Non ci vado mai. Se sapeste come l'ho conosciuta! Lo scorso autunno un certo G... che studia filologia a Berlino, mi manda dei versi di un nostro antico poeta, Bonvesin de Riva, stampati colà. Contemporaneamente manda degli altri libri fors'anche delle fotografie, a questa signora che allora era a Varese. Per un equivoco della Posta, anche il mio libriccino fu portato a casa sua, qui a Milano. Ella fa una cor sa da Varese proprio quel giorno e m'incontra in via San Giuseppe con mia zia Pernetti che accompagnavo. Mia zia si ferma, e dopo molte chiacchiere ha la bontà di presentarmi. Questa signora fa un atto di sorpresa. "Ma io" dice "ho della roba Sua!" Io non capisco e non rispondo. "Lei" soggiunge "è ben l'autore di Un sogno?". Rimasi sbalordito. Allora ella mi parla, ridendo, del libriccino, e mi dice candidamente che G... ci aveva posto dentro un biglietto dove si leggeva: "Mandami una copia del tuo Sogno". Mi fece mille premure perché andassi a trovarla, e vi andai difatti un paio di volte in dicembre. Poi non ci tornai più. Oggi mi ha scritto che desiderava parlarmi e che ci vada domani sera dopo il teatro." Silla raccontò tutto questo con calore, come se volesse giustificarsi di quella relazione. Sedettero fuori del caffè. I fanali non v'erano ancora accesi e i tavoli quasi deserti. Uscivano invece dall'interno con la gran luce del gas, le voci vibrate dei garzoni, l'acciottolìo delle tazze e delle sottocoppe, il tintinnìo dei cucchiaini e delle monete buttate sui vassoi. Steinegge cominciò a parlare di quel tal C..., che aveva conosciuto in Oriente. S'erano trovati a Bukarest nel 1857 e, l'anno dopo, a Costantinopoli; quindi nel 1860 a Torino. Steinegge parlava assai volentieri del suo soggiorno ne i dominii del "sublime portinaio". Da C... passò a Stambul e al Bosforo. Tocca il cuore udir parlare nelle ombre del crepuscolo di paesi lontani, di costumi bizzarri, di strane lingue sconosciute. Silla guardava spesso Edith, ascoltava il narratore come chi ascolta una dolce musica leggendo e pensando, che le sue lettere e i pensieri si colorano di poesia, e neppure una nota gli resta nella memoria. Era la elegante forma bruna di Edith ch'egli vestiva di poesia, udendo parlare di cipressi, di fontane moresc he, di palazzi bianchi, di mare brillante. Ogni linea della bella persona gli appariva improntata di grazie nuove, gli pareva segno di un'idea attraente, impenetrabile. Non vedeva l'occhio, lo immaginava; ne sentiva sul cuore lo sguardo con la sua dolcezza. Immaginava pure i pensieri di lei; no, non i pensieri, ma piuttosto vagamente, la dignità e la tranquillità loro, la purezza altera. E sentiva in se stesso una luce serena, un calore così lontano, gli pareva, dall'indifferenza come dalla passione, un sor gere di non so quale indefinibile fede. Provava la sensazione di salire, alla lettera; e un singolare esaltamento della potenza visiva per cui le grandi ombre degli alberi del bastione, i profili taglienti delle macchie brune intorno a lui, gli oggetti vicini, tutto gli riesciva straordinariamente netto e vivo; nuovo, perciò, interessante come al tempo della sua fanciullezza. Steinegge intanto parlava. Descrisse un episodio comico della sua traversata da Costantinopoli a Messina. A quel punto il gas del fanale vicino, tocco dal lume dell'accenditore, divampò sonoro, arse in viso a Edith. Ella era pallidissima, grave, e non guardava suo padre. Si scosse allora e si pose ad ascoltarlo con attenzione troppo subitanea ed intensa per essere sincera. Silla se ne avvide, n'ebbe un lampo di piacere nel petto. Quando più tardi riaccompagnò a casa il padre e la figlia, pochissime parole furono scambiate fra loro. Nel separarsi, Silla stese la mano a Edith, che esitò ad accordargli la sua e la ritrasse tosto. Egli udì appena i saluti chiassosi di Steinegge: se n'andò via dolente e insieme avido di esser solo. Si allontanò a capo chino e a lenti passi, immaginando fortemente il viso pallido e gli occhi di lei quando il divampare del gas la sorprese; ripensando ad una ad una le parole scambiate, le proprie confidenze , la protesta d'amicizia, così singolare sulle caute labbra di Edith, la sua evidente trepidazione, nello staccarsi dal padre, dimenticato poi mentr'egli, Silla, le dava il braccio e le parlava. Non ne traeva nessuna espressa conclusione; si guardava il braccio là dove s'era posata la mano di Edith, odorava queste memorie come un profumo. E pareva che a poco a poco se ne inebriasse. Dalla via poco frequentata dove abitavano gli Steinegge, moveva inconscio verso il cuore della città. La gente cominciava a sp esseggiare, crescevano gli splendori dei negozi, lo strepito delle carrozze. Alzò la testa e affrettò il passo. Gli saliva dentro una foga d'orgoglio non del tutto insolita in lui che in tali condizioni di spirito cercava, godeva la folla per la voluttà acuta di sentirsele ignoto e di disprezzarla, di dominarla col pensiero. Trovatosi a un tratto sul corso Vittorio, si gettò nel fiume della gente. Egli aveva detto a Edith: "Un'anima! Un'anima sola che accetti le creazioni del mio ingegno!". Ma questo era il grido delle sue tristezze scorate, quando si sentiva debole a fronte del mondo indifferente e di un sinistro demonio confitto nel suo fianco. Grido dell'ora nera, vôta di fede e di speranza. Non sarebbe stato sincero quando l'ingegno gli ardeva di vigore audace e il demonio sinistro taceva; che allora l'uomo, ebbro di felicità fiera, disprezzava le dimenticanze del pubblico, le ingiustizie amare d ella critica, la insolenza dei fortunati, il maligno volto della stessa beffarda fortuna; scriveva, non per ambizione, né per diletto, né pel sublime amore dell'Arte ch'è la musa dei grandi ingegni, ma per la coscienza di un dovere ideale verso Dio, per obbedire alla vasta mano prepotente che gli si piantava tra le spalle, lo curvava, lo schiacciava sul suo tavolo di lavoro, spremendogli dal cuore il sangue vitale che ora ingiallisce ne' suoi libri dimenticati. Tra queste rade ore splendide gli correvano lu nghi intervalli bui. La vasta mano si alzava dalle sue spalle, ogni luce di pensiero si spegneva in una tenebra pesante d'inerzia; tutte le passate delusioni lo rimordevano al cuore, tutte le vecchie ferite sanguinavano; egli numerava con acre piacere doloroso le fallite speranze della prima giovinezza, le contrarietà strane, incredibili che aveva provate, sempre e dovunque, sul suo cammino, le funeste contraddizioni insite nella sua stessa natura; poco a poco non lavorava, non pregava più, non sentiva più Dio. Allora il suo paziente nemico mortale, il demonio confitto nel suo fianco, sorgeva e gli strideva nel sangue. Era il demonio della voluttà tetra. L'adolescenza e la prima giovinezza di Silla erano state pure. La santa protezione di sua madre, le tendenze artistiche e la squisita nobiltà del suo spirito, la fatica degli studi, l'ambizione letteraria, lo avevano preservato dalle corruzioni grossolane che avvelenano quell'età. Aveva allora il sangue tranquillo, la mente illuminata di bellezze femminili ideali, sovrumane per l'intelligenza ancor più che per la perfezione delle forme. Di tempo in tempo si credeva innamo rato. I suoi amori cercavano sempre lo sconosciuto e l'impossibile. Uno sguardo, un sorriso, una voce di qualche dama di cui non sapeva il nome, gli si figgevano in cuore per mesi. Allora il solo pensiero degli amori vili gli metteva orrore; tutto il fuoco della sua giovinezza bruciava nel cuore e nel cervello. Dopo le prime disillusioni letterarie, nell'abbattimento che ne seguì, quel fuoco divorante gli scese intero ai sensi. Egli vi ripugnò lungamente e quindi si gittò abbasso. Non cercò facili amori, gl i era impossibile piegar l'anima alla ipocrisia di parole menzognere: volle il tetro piacere muto che si offre nelle ombre cittadine. Ne uscì tosto stupefatto, palpitante, in ira a se stesso; ritrovò il calore perduto dell'ingegno e dell'affetto, ritrovò i suoi amori ideali, riprese la penna, afferrò il concetto del dovere verso Dio come una fune di salvamento. Ricadde quindi e si rialzò più volte, lottando sempre, soffrendo nella sconfitta incredibili prostrazioni di spirito, col presentimento angoscioso d i un'ultima caduta irrimediabile, di un abisso che lo avrebbe finalmente inghiottito per sempre. Perché in lui l'antagonismo dello spirito e dei sensi era così violento che il prevalere di una parte opprimeva l'altra. Non aveva mai conosciuto il giusto equilibrio dell'amore umano né potuto trovar durevole corrispondenza di quell'affetto sublime e puro ch'egli invocava con angoscia quando Iddio si ritraeva da lui. Gli era toccata due volte la rara e inestimabile ventura di essere amato come voleva egli, col fuoco dell'anima. Uno di questi amori fu troncato subito da necessità fatali e ineluttabili; l'altro scomparve misteriosamente, lasciando Silla pieno di terrore, come se avesse veduta l'ombra e udito il sarcasmo del destino. La passione di sensi e di fantasia ispiratagli da Marina lo attraversò quale una vampa di polvere. Tornato a Milano spense a forza il bruciante ricordo di lei in ostinati studi di greco e di filosofia religiosa alternati con un lavoro fantastico e uno studio morale. Non fu mai colto in quell'inverno dal cupo silenzio interiore che soleva precedere in lui le tempeste furiose dei sensi. Una così lunga tranquillità gli ritemprò lo spirito, gli rese quasi la freschezza dell'adolescenza; e ora, con lo sguardo e la dolce voce di Edith nel petto, egli si sentiva casto e potente, guardava in faccia all'avvenire aperto, vôto di fantasmi paurosi. Andava fra la gente colla voluttà del nuotatore gagliardo che fende da padrone la spuma e il fragore delle onde. Sentiva la stolta fede che sarebbe giunto un giorno a signoreggiar con l'ingegno quella folla così avida negli occhi di bellezza fisica, di piacere, ferma e densa intorno al fulgore dei gioielli, ferma e densa intorno alla ridente luce di certe altre vetrine, paradisi della gola; palpitante nel sinistro fascino dell'oro, abbrutita nelle cupidigie del ventre. Qual sogno opporsi a lei, sfidarne la viltà e la superbia, frustrarla in viso come una fiera, gittarla indietro sgomenta e doma, con la potenza di una divina ispirazione interiore e della paro la, amando ed essendo amato senza fine da una donna come Edith, sicuro, in questa fiamma, dal fango ignobile! Passava, così fantasticando, lungo il Duomo. La tacita mole enorme, assediata dai fanali a gas, pigmee scolte del secolo nemico, ne portava sul fianco il picciol lume che moriva a breve altezza nell'ombra; e l'ombra sfumava più in su in un fioco albor puro, dove salivano guglie, pinnacoli, trine marmoree color di neve lontana, prima dell'aurora. Quella visione di marmi e di luna, inutili, adorabili magnificenze dell'ideale, ruppe a Silla le fantasie, forse non vôte di ambizione e di rancori contro gli uomin i, gli refrigerò il cuore, vi mise un gran desiderio di silenzio. Egli si avviò verso casa sua. Abitava lontano, presso Sant'Ambrogio. Quando entrò nella chiara piazza deserta gli si affacciò, alta sopra le case di via S. Vittore, la luna. Silla trasalì e si levò il cappello involontariamente. Aveva ella presieduto alla sua nascita la fredda e solenne signora che veniva a guardarlo tristamente in faccia nei momenti gravi della vita, adesso come un'altra sera, quand'ella usciva tra i nuvoloni sull'Alpe di Fi ori e gittava nelle acque nere del lago una spezzata lama d'argento? Silla rise di se stesso e si disse che era un saluto di congedo alla vecchia amante. Egli vegliò a lungo nella sua cameretta al quarto piano, che guardava in un cortile quadrato, stretto e profondo. Tenne la finestra aperta. Fuori della finestra sul ballatoio c'eran de' vasi fioriti di violacciocche, che mandavano odore nella stanza. Dal suo tavolo Silla vedeva sopra la opposta muraglia bianca, tra gli abbaini e i fumaioli del tetto, una lista di cielo e qualche stella pallida nella luce lunare. Egli trasse il manoscritto di un racconto incominciato durante l'inverno con questo titolo Nemes i, ne rilesse alcune pagine e non gli piacquero. Depose il manoscritto, pensò a Edith. "Buona sera" disse una voce dalla finestra. Era uno studente dell'Istituto Superiore che alloggiava in fondo al ballatoio. Silla lo salutò. "Vengo di là, sa" soggiunse l'altro che si compiaceva di raccontargli i suoi amori. "Mi ha congedato subito e non vuole che ci torni prima di posdomani, perché dice di essere andata oggi a confessarsi. Ma che fatica ha fatto! Che fatica!" Il giovane pareva ubbriaco di questo pensiero. Parlava ridendo, ansando. "Sa, sono sentimentale per forza questa sera. Farò un po' di musica. Farò uscire dalla finestra quella bionda, quella ch'è venuta l'altro ieri. Come? non la conosce? Al terzo piano, prima finestra a dritta. Dove c'è lume. Una francese. Buona sera." Se ne andò cantando a mezza voce sopra un motivo dei Lombardi certa strofetta composta per il prof. B... Per ridurre all'orizzonte La pendenza del terreno Si moltiplica il coseno Per la stessa inclinazion. Entrato nella sua camera, lasciò l'uscio spalancato e tempestò sul piano un walzer diabolico, da far ballare i morti. Silla, infastidito dal dialogo e dalla musica, si alzò per chiudere la finestra. Ma era così soave l'odore dei fiori, gli piaceva tanto quella muraglia tutta bianca di luna, quel cielo puro! Guardò abbasso. La signorina francese era uscita sul ballatoio del terzo piano e si appoggiava alla ringhiera, fumando. Due cameriere ballavano da un'altra parte e rispondevano a interlocutori invisibili ; un capitano in pensione stava alla finestra, in berretto da notte, con la sua giovine governante. Silla chiuse la finestra. La santa notte di primavera gli pareva ammorbata e guasta. Chiuse vetri e imposte con impeto, tornò al suo tavolo, e dopo aver pensato a lungo con il capo tra le mani, afferrò un foglio di carta, scrisse precipitosamente: "È amore? Quale amore? Sono ancora tranquillo abbastanza, voglio riflettere, studiarmi finché mi è possibile. Io sento, pensando a lei, di desiderare qualche cosa di ignoto a me stesso, d'inconcepibile dal pensiero umano. Il mio desiderio è tanto puro che lo scrivere - è puro - mi costa uno sforzo, mi ripugna. Ma tuttavia vi è veramente una commozione fisica in me, specialmente nel petto. Vi è un reale movimento nel sangue o nei nervi, che corrisponde alla esaltazione del mio spirito. Sono incapace, in ques to punto, di ragionamento freddo, ma sento invincibilmente che se quello che io provo è amore, esso non è solamente spirituale. Lo penso, lo credo, sono barlumi di una vita futura più nobile che si destano in me, presentimenti d'uno squisito amore fisico, non concepibile in questa tenebra. Solo questo io so, che dev'essere immensamente più degno dello spirito, benché forse capace ancora di altre sublimi trasformazioni. Tento immaginare la unione intera, il mio sguardo nel suo, il cuore nel cuore, un fuoco d i pensieri commisti, un palpito che ad ogni momento ci divida e ci unisca. Sento altresì che queste idee esaltano la mia intelligenza e abbattono il corpo, ne troncano i desideri più vili. "Signore degli spiriti, tu me li doni questi divini fantasmi, ombre del futuro, questi ardori che mi levano dal fango verso te. Non abbandonarmi, fa ch'io sia amato. Tu lo sai, non è solo dolcezza che io cerco nell'amore; è lo sdegno d'ogni viltà, è la forza di combattere per il bene e per il vero malgrado l'indifferenza degli uomini, l'occulto nemico esterno, i tuoi silenzi paurosi. Padre, rispondi al grido dell'anima mia, fa ch'io sia amato! Vedi, tra queste sublimi speranze mi assalta l'angoscia che siano una derisione ancora e mi stringo ad esse e sospiro." "Ah no!" Gettò la penna, spiegazzò fra le dita lo scritto e lo arse alla candela. Prese poscia un libriccino di note. Rilesse queste parole tracciatevi anni prima: "È finito. Creare ancora, creare fantasmi di quanto ho desiderato invano, lasciare un ricordo, un'eco dell'anima mia profonda e partire attraverso gli abissi per qualche stella lontana da cui questa terra dura non si veda nemmeno! Dio, gli uomini, la giovinezza, la fede, l'amore, tutto mi abbandona." Vi scrisse sotto: "29 aprile 1865." "Spero."

In nome di Dio che siamo abbasso." Attraversarono il cortile, precedute dal lanternino del Rico. I raggi lunghi e sottili si trascinavano barcollando per la ghiaia candida, saltavano, si allargavano sulle grandi foglie vellutate degli arum, scintillarono un momento sulle perle e i brillanti del getto d'acqua, il quale raccontava e raccontava la sua vecchia storia monotona e malinconica. Presso alla porta del Palazzo la contessa si fermò, trasse Edith a sé e le disse sottovoce: "Oh, insomma, Ve lo dico io. Io ho già in testa che siate una furbaccia e che sappiate tutto. Marina sposa mio fio." In quella una voce flebile chiamò dall'alto: "Eccellenza!" "Chi è! Cosa è nato?" disse la contessa guardandosi alle spalle. "Son Momolo, Eccellenza." "Dove diavolo vi siete ficcato!" "Son qua, Eccellenza." "È su lì" disse il Rico ridendo come un matto del suo riso argentino, malizioso. Corse sotto la muraglia che sostiene il vigneto e alzò la lanterna quanto poté. "Eccolo su!" diss'egli. Si videro le gambe nere di Momolo. "Come hai fatto, bestia, per andar lì?" "Niente, Eccellenza, ho perso la strada... Mi pareva anche a me adesso che non dovesse andar bene. Se ha la bontà, Eccellenza, di mandarmi, dopo, il putto col lume, mi trovo subito, non la dubiti, Eccellenza." Il putto dal lume rideva a crepapelle. "Il conte Nepo lo hai visto?" "No, Eccellenza." "Bene, adesso verrà qua questo birichino a farti lume e dopo andrete insieme incontro al conte Nepo, e gli direte che la marchesina è arrivata." "Servirla, Eccellenza." Il Rico risalì la scalinata col lanternino e la contessa entrò in casa senza badare se Edith ve l'avesse preceduta o no. Edith era immobile al posto e nell'atto in cui l'avevano colta le parole della contessa Fosca. N'era rimasta sbalordita. Ripensando gli strani discorsi, lo strano contegno della sua compagna di passeggio, comprendeva questo solo: che i Salvador facevano compassione e che Marina faceva paura. Finalmente alla voce di Nepo che tempestava per la scalinata con Momolo e il Rico, si scosse, entrò in casa pensando un altro pensiero, il pensiero del Ferrieri. Il Ferrieri non era poi stato tanto temerario quanto Mari na avrebbe potuto credere. Lo aveva tocco la bellezza quieta e intelligente di Edith, il suo contegno così diverso da quello delle ragazze troppo timide o troppo ardite ch'egli conosceva. Sognava aver trovato una donna simile all'alta idea che portava in mente al di sopra degli opifici, delle macchine, delle ferrovie, de' suoi scolari, de' suoi maestri, della sua fredda scienza. Stimava che quell'incontro, a quarantadue anni, fosse l'ultima offerta della fortuna, e tutta la sua giovinezza inaridita rinverdi va. Aveva presso a che deliberato di parlare a Steinegge prima che a Edith. Nel buio dell'Orrido, stando presso a lei, smarrì il suo sangue freddo, le prese le mani con forza, le parlò e non poté, pel gran fragore, essere inteso. Comprese, prima dalla violenta ripulsa, poi dal volto di lei, quanto l'avesse offesa; comprese troppo tardi come in quel luogo una violenta dichiarazione d'amore potesse venir male interpretata. Infatti Edith l'aveva interpretata male e ora andava pensando perché mai suo padre foss e uscito, cosa insolita, col Ferrieri. Intanto sopraggiunse Nepo infuriato per non aver saputo combinar Marina, e gridando "non è possibile, non è possibile" oltrepassò Edith, senza salutarla, nel vestibolo, mentre il Rico, fermo sulla porta con il suo lanternino, se la rideva di cuore e Momolo brontolava: "Ohe, bardassa, rispettiamo Sua Eccellenza, digo." Nepo si abbatté sulle scale in Fanny che scendeva in fretta a cercare di Edith per il pranzo. "Dov'è la signora marchesa?" diss'egli senza fermarsi. "Dov'è?" rispose Fanny, saltando giù per una diecina di scalini. "Nella sua camera" gridò dal fondo della scala, mentre lui n'era già al primo pianerottolo, dove sua madre lo attendeva impaziente. "Dov'è?" diss'egli sottovoce. "Cosa ti ha detto? Sa che hai parlato al conte Cesare?" A tante domande la contessa rispose con altrettante: "E tu cos'hai fatto che non venivi più? Dove ti sei perso? Hai trovato Momolo? Va là, diglielo tu che ho parlato al vecchio. Fa presto. L'hanno chiamata a pranzo. In salotto la non c'è ancora. Sarà in camera sua. Aspettala in loggia. Va là!" Quale ignoto spirito d'inquietudine si era infiltrato per le pietre del palazzo? Tutti vi erano nervosi come Nepo e la contessa Fosca. Il signor Paolo rumoreggiava in cucina, indispettito di dover servire un secondo pranzo. Catte aveva toccato una ramanzina dalla contessa per certo bottone, e girava di qua, di là, cercando non so che cosa, borbottando fra i denti di non aver mai visto la padrona così cagna come quella sera. Un domestico correva su e giù dalla cucina al salotto con piatti, bottiglie e bicchi eri, sbattendo gli usci co' piedi, alla disperata. Ferrieri e Steinegge rientravano dalla passeggiata agitatissimi l'uno e l'altro. Il conte Cesare, il Finotti e il Vezza discutevano in sala il primo annuncio della Convenzione di settembre. Il Vezza le saettava freddi sarcasmi da spettatore indifferente, spruzzati d'aceto clericale; il Finotti, futuro membro della Permanente, la combatteva con furore; e il conte Cesare la giudicava, con le sue idee da patrizio romano antico, un colpevole mezzo termine, un d ire al nemico "non ho paura solo delle tue armi, ma anche della tua ombra" e si riscaldava contro il re, il Ministero, il Parlamento, le classi dirigenti che governando a quel modo, fornivano un pretesto al ribollire del democraticume balordo e borioso. Il conte Cesare parlava più acre del solito, temeva che il Finotti ed il Vezza lo pigliassero per un alleato e non risparmiava nelle sue invettive gli amici politici dell'uno né dell'altro. Marina, malgrado l'avessero avvertita di scendere a tavola, sedeva ancora, nella sua camera da letto, al tavolino ovale che le serviva qualche volta da scrittoio e a cui ora appoggiava i gomiti, reggendosi le tempie con le palme. La candela che ardeva davanti a lei le metteva de' bagliori aurei nei capelli e rivelava fila azzurrognole di vene all'angolo della sua fronte bianca, mezzo coperto dal mignolo roseo; gittava sugli arredi lucidi dispersi nella stanza oscura dei fiochi riflessi, come occhi di spirit i che guardassero la donna pensosa. Sul velluto azzurro d'uno scannello aperto fra i suoi gomiti c'era un foglietto cenerognolo con un grande viluppo di rabeschi d'oro, un'orgia di quattro lettere attorcigliate insieme; sotto a queste, un drappello di zampine di mosca, in battaglia: più giù, al posto del capitano, un nome solo: Giulia. Le zampine di mosca dicevano così: Sai che trasporto anch'io la mia capitale da via Bigli a Borgonuovo? Così ha voluto l'imperatore. Son corsa ieri a dire addio alla mia buona vecchia via erbosa. Che orrore i trasporti di capitale! Ho lasciato Sua Maestà nella polvere con gl'imballatori e i tappezzieri e son tornata qui per mandarti subito un petit pâté chaud. È un gruppettino di casi di romanzo, molto bene impasticciati, e ha in mezzo il signor Corrado Silla, autore di Un sogno, domiciliato in Milano, via S. Vittore. Ti racconterò il gruppettino di casi che me l'han fatto scoprire, ma un'altra volta; quando potrò dirti qualche cosa di più. Adieu, ma belle au bois dormant. Domani viaggio per affari: vado a ballare a Bellagio. Poveri myosotis! Chi se ne ricorda? Stavolta sarò in bianco. Avrò dei coralli e avrò anche delle magnifiche alghe del Baltico che mi manda G... da Berlino con un sonetto. Quello non l'avrò. Giulia Si batte alla porta e la voce di Fanny disse: "La non viene? La non si sente bene?" "Vengo" rispose Marina. Balzò in piedi e con un impeto d'orgogliosa gioia stese all'indietro le braccia aperte, alzò il viso trionfante, guardò in alto, davanti a sé. Si slanciò fuori, scivolò giù dalle scale e in loggia trovò Nepo, inquieto. "Finalmente, angelo mio!" diss'egli. "La mamma ha parlato allo zio. È contentissimo. E Voi?" Le cinse con un braccio la vita, aspettando. "Felice!" diss'ella e gli sgusciò di mano con una delle sue risate argentine che suonò via per la loggia e al di là dell'altra porta nella sala di conversazione, dove tutti, tranne il conte Cesare, si alzarono in piedi ed ella passò correndo leggera come una fata, con un cenno del capo e un sorriso. "Atalanta, Atalanta" disse il commendator Vezza, guardandole dietro. Nepo entrò a precipizio, tutto rosso, con gli occhi che gli schizzavano dalla testa, incespicò sulla soglia e venne ad abbracciarsi al Vezza per non cadere. "Scusi, caro commendatore" diss'egli con un impertinente tono corbellatore "speravo abbracciare qualche cosa di meglio." "Maledetta bestia!" pensò il commendatore. "Si figuri!" diss'egli, asciutto, asciutto. "Non è vero, zio?" rispose l'altro pigiando sulla parola zio. "Lei se lo può bene immaginare, zio, chi speravo, a buon diritto, abbracciare. Onorevoli signori, loro sono liberi di trarre dalle mie parole, da tutte le mie parole, le induzioni... più legittime, le induzioni... più ragionevoli!" Egli strascicava e ripeteva i sostantivi, meditando l'epiteto, vibrando poi con un ampio gesto oratorio. "...Le induzioni... più naturali! Io credo di non poter meglio... sviscerare! dirò, questo vocabolo." E passò, tronfio, nel salotto. Il conte non si poté tenere: "Burattin" diss'egli fra i denti, in piemontese. "Eueueuh!" sbuffò il Vezza, sfogandosi. "Lo hai sviscerato." "Ma!..." disse il Finotti accennando il salotto alle sue spalle col pollice della mano destra e facendo una smorfia eloquente. Il conte tacque. "Dobbiamo...?" riprese l'altro stendendogli la mano. "Uuuh" esclamò il conte. Era una smentita o un rifiuto sdegnoso di felicitazioni? Nessuno lo domandò. Non si udirono che le voci del salotto. Nel salotto la contessa Fosca e Nepo assistevano al pranzo di Marina e di Edith, la quale comprendeva essere di troppo e non vedeva l'ora che il pranzo fosse finito per raggiungere suo padre. Questi passava e ripassava in sala, davanti alla porta aperta del salotto, gittando a Edith delle occhiate strane. "Dio, che delizia, questo paese, cugina!" disse Nepo, ispirato. "Quell'Orrido, che luogo indimenticabile!" Egli guardava Marina con i suoi grandi occhi miopi, a fior di testa, appoggiando i gomiti sulla tavola. "Il cuore mi palpita quando vi penso. Questa notte non scenderà sonno sulle mie pupille. Ah! È inutile, mamma, tu non puoi comprendere con la tua anima il segreto incanto di quella grotta. Ah!" Si alzò in piedi e dimenò le braccia come un forsennato estatico; dopo di che abbracciò sua madre che si mise a gridare: "Matto, matto, lasciami stare coi tuoi spiritessi." "Senti questa, senti questa, mamma" diss'egli, rizzandosi, mentre la contessa ripeteva a Marina "è in boresso, è in boresso." Marina chiamò il Finotti, che guardava curiosamente dalla sala. "Lascialo stare, colui", disse la contessa. "Finotti!" ripeté Marina. Quegli entrò, tutto ringalluzzito. "Sentite questa, sentite questa" gridava l'infatuato Nepo. "Qua, Finotti." Marina lo fece sedere fra Edith e sé. "Sentite questa. Ero tanto esaltato dalle bellezze dell'Orrido che, quando siamo giunti con mia cugina sotto il gran pietrone nero dell'ultima grotta, io, comunque profano alle discipline di quella nobile arte ch'è la ginnastica, saltai!..." "Oh!" interruppe Marina. "Non è vero, come saltai?" riprese l'altro guardandola e aspettando con le braccia in aria. "Quite a new way of leaping" gli rispose Marina. "Per carità, Marina, non starmi a parlar francese, viscere, che a Venezia, con questo maledetto francese non si può vivere. Cosa hai detto?" "Le tue solite sciocchezze, mamma! Marina ha parlato inglese e non francese." "Scusi" uscì a dire il Finotti per riconciliarsi la signora contessa Fosca ch'era diventata rossa rossa, e si versava un conforto di Barolo. "Scusi conte; che inglese! che francese! Quando si ha la fortuna di nascere col miele profumato in bocca di quel caro dialetto fatto per le Grazie a scuola di Venere, perché guastarsi il palato col francese e coll'inglese? La contessa ha ragione." "Andate là che vi credevo peggiore. Sì davvero vi credevo peggiore. Così mi piace; difendere anche me, povera Giopa. Sarà quel che volete la nostra lingua, ma almeno non è piena di ossi e di spine come le altre. Non dicono che i nostri vecchi, benedetta l'anima sua, parlavano veneziano anche al Papa? Io non sono nata nobile, ma sono veneziana vecchia, sa. Mio bisnonno è morto pescando cape da deo, e mio nonno ha servito sotto Sua Eccellenza Anzolo Emo. Parlerò turco, ma francese no e inglese manco. Il pover o Alvise la pensava come me. Sbattezzatemi se ha mai detto due parole altro che in veneziano. Ma adesso non tocca più far così. Adesso tocca vergognarsi di esser veneziani. Andate dalla... e dalla... e dalla... sentirete che musica. No no no. Con il forestiere, non dico, pazienza; ma tra noi altre? Sci, sci, sci, sciù, sciù, sciù? Povere squinzie!" Qui la contessa Fosca volle prender fiato col Barolo; ma, appena accostato il calice alle labbra, lo posò sputando e schiamazzando, tra le risate di Nepo che aveva trovato modo, durante la sua filippica, di versarle nel vino mezza saliera. "La ho chiamata come uomo di spirito fra questa gente di spirito" disse piano Marina al Finotti. "Ah, marchesina" rispose questi sospirando "a che serve lo spirito? Vorrei essere un imbecille di venticinque anni." Intanto la contessa e Nepo facevano un tal baccano che il conte Cesare, il Vezza e Steinegge entrarono anch'essi nel salotto. Il Ferrieri si affacciò un momento all'uscio, ma non entrò; colse anzi il destro di allontanarsi inosservato e non comparve più per tutta la sera. Marina, visto entrar lo zio, si alzò da tavola e si avviò alla sala a braccio di Nepo. "Carino coi Vostri salti" gli diss'ella ridendo. Mentr'egli rispondeva solennemente, ore rotundo, la coppia passò davanti al conte Cesare e Marina fissò lo zio con due occhi scintillanti di gaiezza. La contessa Fosca, ancora indispettita del brutto tiro giuocatole da suo figlio, passò senza guardarlo, facendosi vento. Il conte trasse l'orologio. Erano le nove e mezzo, un'ora affatto straordinaria per lui. "Questi signori avranno bisogno di riposo" diss'egli volgendosi agli Steinegge e ai commendatori. Poi, senz'attendere la risposta, ordinò di approntare le candele, ed entrò in sala, dove ripeté l'antifona. "Io penso" diss'egli ai Salvador "che dopo tante fatiche e tante emozioni avrete bisogno di riposo." "Ma carissimo zio..." cominciò Nepo avanzandosi verso di lui con le braccia aperte, a passi brevi e frettolosi. L'altro non lo lasciò proseguire. "Oh, sicuramente, che diavolo!" diss'egli. "Adesso si approntano le candele." Nepo fece un voltafaccia e tornò verso Marina, ritirando il capo tra le spalle e alzando le sopracciglia. La contessa Fosca s'interpose. "Ma via, Cesare" diss'ella piano al conte "che originale che siete! Stasera che i miei putti avrebbero tanto gusto di parlarvi, di dirvi..." "Sì, sì, sì, sì" s'affrettò a rispondere il conte "intendo molto bene quello, intendo molto bene quello. Ecco le vostre candele." Non c'era da replicare. "E voi" disse il conte quando si trovò solo con Marina "non andate, voi?" "Non ha niente da dirmi? Non è contento che io abbia seguito i Suoi consigli?" "I miei consigli? Come, i miei consigli?" "Ma certo." Si parlavano a dieci passi, guardandosi a sbieco. "Spiegatevi" disse il conte; e posata in furia la candela che aveva presa, le si voltò a fronte. Presso Marina, sopra un tavolino di marmo addossato alla parete, v'era un vaso di cristallo, con frondi d'olea e fiori sciolti. Ella piegò il viso dicendo: "Non se ne ricorda?" e odorò i dolci profumi moribondi. "Io?" rispose il conte recandosi la mano al petto. "Io vi ho consigliata?" Marina rialzò il capo dai fiori. "Lei, Lei" diss'ella. "Poche ore prima che i Salvador arrivassero qui. Fu in biblioteca. Lei mi disse che noi due non eravamo fatti per vivere insieme, che Suo cugino aveva una posizione splendida e pensava a prender moglie, che vi pensassi." "Bene, bene, può essere che io abbia detto quello" replicò il conte imbarazzato, frugandosi con la mano i capelli. "Ma io allora non conoscevo appunto mio cugino e voi non avete creduto consultarmi prima di accogliere la sua domanda." "Adesso lo conosco. Lo trovo un perfetto gentiluomo pieno d'intelligenza, molto distinto, molto brioso, simpaticissimo, come lo trova Lei, insomma." "Come lo trovo io?" "Ma, sì! Non ha dichiarato stasera alla contessa che Lei è contentissimo del matrimonio?" "Sicuramente. Poi che voi non avete stimato di dover prendere la mia opinione e avete deciso da sola, io ne sono contentissimo. Ma mi preme affermare..." Il conte si fermò per l'entrata di Catte. "Oh, per amor di Dio" esclamò costei tutta sorpresa e quasi ritraendosi. "Mi scusino tanto. Credevo che non ci fosse più nessuno. Ero venuta a prendere il ventaglio di Sua Eccellenza." "Qui non c'è ventagli" disse il conte, brusco, vibrandole un'occhiata che la sgomentò. "Eh, nossignore, nossignore" mormorò la povera innocente Catte, e ritirò per la porta la sua magra persona, il suo lungo naso. "Mi preme affermare" ripigliò il conte dopo un istante di silenzio "che io non vi ho consigliata." Marina sorrise. "Ma io La ringrazio" diss'ella "del Suo consiglio, io sono felicissima." Il conte avrebbe voluto adirarsi e stavolta non poteva. Vero che Marina aveva deciso senza consigliarsi prima con lui; ma restavano sempre sulla coscienza sua le parole dette in biblioteca e ora ricordate da lei. Non era uomo da cavillare con la propria coscienza per acchetarla. Soltanto adesso quelle parole gli tornavano a mente; ne esagerava la gravità e si doleva di averle proferite. "E siete contenta?" "Rispondere di no, adesso, sarebbe un po' tardi, ma io sono felicissima, l'ho già detto." "Udite, Marina." Da gran tempo il conte non aveva parlato a sua nipote con la grave dolcezza che pose in queste due parole. La figlia della sua cara sorella morta avea preso una risoluzione che l'allontanava per sempre da lui. Non credeva che sarebbe stata felice, e ora temeva essere in colpa egli stesso di queste nozze male promettenti. Temeva essersi lasciato trarre a imprudenti parole dal risentimento delle gravi offese recategli da sua nipote, dal desiderio di non vederla più, di non udirne la voce irritante. Tale desid erio, fitto e saldo nell'animo suo fino a quel punto, ora, in sul compiersi, veniva meno. Perché Marina non si moveva, fece egli stesso alcuni passi verso di lei e le disse: "Per il Vostro decoro in questa circostanza penso io." "Per il mio decoro?" "Sicuramente. Voi entrate in una famiglia molto ricca. Dovete entrarvi a fronte alta." La mano destra del conte gli era uscita di tasca per metà, nell'aspettazione istintiva di un'altra mano che venisse in cerca di lei. Ma l'aspettativa riuscì vana e quella mano ridiscese lentamente. Zio e nipote rimasero un momento immobili a fronte. Poi egli prese una candela e andò a caricar l'orologio a pendolo sul piano del caminetto. Intanto Marina prese l'altra candela e uscì silenziosamente, senza che il conte, intento a girar la chiave, mostrasse avvedersene. Ella non chiuse neppure l'uscio dietro a sé; tuttavia, appena fu uscita, il conte s'interruppe, voltò la testa e stette un poco a guardar la porta semiaperta. Indi terminò di caricar l'orologio e uscì egli pure, a capo chino, meditabondo, per andarsene a letto. La vecchia casa dormiva inquieta. Più d'una gelosia chiusa appariva rigata di lume; da più d'un uscio sfuggivano bisbigli, s'incontravano nei corridoi vuoti, sulle scale deserte; come quando ciascuno di noi si dispone nel silenzio e nella solitudine al riposo notturno, che i nostri segreti escono dalle loro celle recondite, si spandono bisbigliando per tutta l'anima. Steinegge era nella stanza di sua figlia. Le aveva dato una grande notizia; la domanda formale della mano di lei, fattagli poche ore prima dall'ingegnere Ferrieri. Il povero Steinegge aveva la febbre addosso. Sentiva confusamente che, avuto riguardo al valore e alla condizione sociale del Ferrieri, la era una grande fortuna; sentiva che l'ingegnere doveva essere un onest'uomo: di questo lo persuadeva il colloquio, avuto con lui. Il Ferrieri gli aveva lealmente aperto il suo cuore, gli aveva narrato l'episod io dell'Orrido, esprimendo la speranza che Edith avrebbe accettate le sue scuse, parlando di lei col toccante rispetto di un fanciullo di sedici anni. Poi gli aveva lungamente ragionato di sé, della sua famiglia, nulla celandogli né del bene né del male; gli aveva tratteggiata la vita seria e tranquilla, ma signorile, che offriva a Edith. Steinegge sentiva che avrebbe perduto per lo meno gran parte di sua figlia; n'era accorato e si sdegnava in pari tempo seco stesso di questo egoismo invincibile. S'era fat to quindi uno scrupolo di magnificare a Edith l'uomo e le sue parole. Ma egli era troppo commosso per potersi spiegare a dovere. Le aveva impasticciato il discorso del Ferrieri, mettendone a fascio il capo e la coda, lardellandolo di esclamazioni: "Un uomo nobile! Un uomo grande!" confondendosi, ripigliandosi ad ogni momento. Quand'ebbe finito, Edith venne a posargli le mani sulle spalle. "Che mi consigli, papà?" diss'ella. Il povero Steinegge non fu in grado di rispondere a parole, ma fece un gesto energico, un'affermazione disperata con il capo e con le braccia. Finalmente, a furia di volontà, poté articolare queste due parole: "Grande fortuna." Edith gli posò il capo sopra una spalla e parlò; le cose che aveva in cuore non osava metterle fuori mostrando il viso. "Sa? C'è qualcuno che mi dice: "Non ha più il suo paese, non ha più vecchi amici, non ha più la sua giovinezza; ma io sono tranquilla perché tu sei al posto mio, presso di lui, e gli darai tutto il cuore, tutta la tua vita"" "Oh, no, no, no, no!" interruppe Steinegge. "Mi dice così, papà. E poi aggiunge: "Non ti dividerai ora da tuo padre, se..."", Qui Edith, abbassò la voce: ""...se speri che siamo tutti uniti un giorno, meglio, oh, molto meglio che negli anni tristi in cui il papà ha tanto faticato, tanto sofferto per me, per te stessa"" Steinegge chiuse le braccia intorno a sua figlia, ripetendo: "No, no, no!" "Ma... e poi, papà" disse Edith rialzando il viso sereno. "c'è anche un'altra piccola cosa. Questo signore non mi piace." "Oh, impossibile! Pensa, bambina mia, che forse si potrebbe restare insieme lo stesso." "No, no! Sai bene, dovrei essere prima una moglie e poi tua figlia. Figurati! E i nostri progetti? La nostra casettina, le nostre passeggiate? E poi, davvero, io posso perdonare se vuoi, al signor Ferrieri: ma egli non mi piace. Gli dirai così: la mia signora figlia non può accettare che le sue scuse. Non è vero che gli dirai così, papà?" "No, non è possibile, non farai questo. Io sono vecchio; e se..." Edith gli pose una mano sulla bocca. "Papà" diss'ella "perché addolorarmi? È inutile." Steinegge non sapeva se mostrarsi allegro o dolente. Gesticolava, faceva mille smorfie, buttava esclamazioni teutoniche, come tappi di champagne che partissero uno dopo l'altro. Prima di lasciar la camera tornò a supplicare Edith di pensarci, di riflettere, d'indugiare. Uscito finalmente, bussò pochi minuti dopo all'uscio per dirle ch'ell'era ancora in tempo di mutare la sua risposta, e che avrebbe potuto consultare il conte Cesare. Ma Edith gli troncò le parole in bocca. "Almeno" diss'egli obbedendo alle sue abitudini cerimoniose "almeno lo ringrazierò a nome tuo il signor Ferrieri, gli dirò: "mia figlia Le è riconoscente..."." "Non mi pare necessario, papà. Digli che accetto le sue scuse." "Ah, bene." E Steinegge rientrò nella sua camera proprio nel momento in cui la contessa Fosca, assaporando voluttuosamente con la sua vecchia pelle la morbida frescura delle lenzuola di casa Salvador, congedava Catte così: "No la me piase gnente, no la me piase gnente, no la me piase gnente. Stùa." Tacevano i bisbigli nei corridoi, le persiane rigate di luce si oscuravano di botto, una dopo l'altra; ma la vecchia casa non dormiva ancora quieta. Nell'ala di ponente le finestre della camera d'angolo verso il lago erano aperte e tuttavia lucenti come occhi giallastri d'un gufo mostruoso. Marina vegliava. Era uscita dalla presenza del conte con il cruccio d'un pensiero molesto, con l'ombra sul cuore delle ultime parole pronunciate da lui. Il cruccio si sprofondava, l'ombra si allargava sempre più, a misura che quelle parole velate pigliavano nella sua mente il loro significato certo, suonavano e risuonavano nella sua memoria, chiare, irrevocabili; come quando una stilla d'inchiostro cade quasi inavvertita sulla carta umida, che si allarga presto per ogni verso e si profonda. Mentr'ella attraversava lentament e la loggia col lume in mano, il pavimento che la reggeva, il tetto sopra il suo capo, le colonne, gli archi eran pieni di una voce sola, ed era la voce stessa di quel molesto pensiero fermo in fondo alla sua coscienza: beneficio. Beneficio dell'uomo che odiava e doveva odiare. No, non avrebbe riconosciuto questo debito mai. Non sarebbe mai giunta, questa bugiarda voce, a toccare i suoi odii, i suoi amori. Mai. Passò nel corridoio, e le parole dello zio le rimorsero il cuore tormentosamente; davanti, sull'a ltra scala, le appariva la smilza figura di lui, la gran testa severa illuminata di dolcezza. Solo quando entrò nella propria camera, fra le pareti pregne de' suoi pensieri più occulti, della essenza di lei stessa, custodi di tante cose sue e delle segrete voci de' suoi libri prediletti, delle sue lettere, solo allora si sentì forte, e la sorda irritazione del suo cuore trovò un concetto, una via. Un pugno d'oro nel viso; ecco le parole del conte; ecco il beneficio. Gratitudine per questo? Le pareva di levarsi da terra in un impeto d'alterezza, di scuotere da sé il denaro immondo, di scuoterlo addosso a Nepo Salvador. Li disprezzava egualmente l'uno e l'altro; li odiava; più dell'uomo, il denaro. Non ne aveva mai sentito come ora il tocco ributtante; era vissuta lungo tempo nel suo splendore senza vederlo, senza voler pensare che la luce intorno a sé fosse luce di una rapida corrente d'oro, versata d a mille mani sucide e volgari, portata via da mille altre; e non luce della sua nobiltà, della sua bellezza, del suo genio elegante. V'era bene stata un'eclissi momentanea dopo la morte di suo padre ma più sul volto delle persone che su quello delle cose intorno a lei. Sapeva che nel mondo il denaro è un dio; è voluttuoso sprezzare un dio. Era voluttuoso per lei irritare con le sue freddezze di gran dama la borghesia opulenta, bene aristocratizzata nelle donne, male negli uomini. Pretendeva che a questa gen te si vedesse negli occhi e sulla fronte il bagliore dell'oro, che la loro voce avesse un suono metallico, che lo strascico d'ogni signora borghese ripetesse una fila di cifre. Schizzar su lei un getto d'oro non era beneficarla: altra gente si benefica così. Era piuttosto ferirla perché il denaro del conte Cesare doveva essere avvelenato d'inimicizia. Peggio ancora; intendeva egli forse saldare a quel modo la partita di tante prepotenze, di tante offese oblique e dirette? Certo lo intendeva. Come mai non l'aveva ella pensato prima? Suonò il campanello, per Fanny. Fanny faceva dei risolini in quella sera, apriva ogni tanto la bocca come se volesse parlare e non osasse, attendesse un invito. "Spero" diss'ella finalmente sciogliendo una treccia della sua padrona "che se Lei avesse ad andar via di qua, non mi abbandonerebbe mica, non è vero?" "Fa presto" rispose Marina. "Faccio presto, faccio presto. Come la mi piace mai quella signora contessa! Come la mi è cara!" E pigliò a sciogliere un'altra treccia. "È vero che a Venezia non ci sono carrozze? Sarà però sempre meglio di qua, dico io. Non è vero?" Marina non rispondeva. "Com'era contenta la signora contessa stasera! Mi ha fatto quasi un bacio. Povera donna! Mi vuol proprio bene. Mi ha detto che sono un tesoro. Povera signora! A me non sta bene di ripeterlo, ma mi ha proprio detto così. Lo dice anche la signora Catte, povera signora Catte, che di cameriere come me ce ne son poche dalle sue parti. È brava anche lei però. Bisogna vedere come cuce bene. Cuce quasi tanto bene come me. La mi ha detto adesso..." "Fa presto." "Faccio presto, faccio presto. La mi ha detto adesso che il signor conte ha voluto mangiarla, perché..." "Hai finito?" "Sì, signora" "Bene, vattene" "Non vuole che La spogli?" "No, non voglio niente. Vattene." Fanny esitò un poco.. "È in collera con me?" "Sì" disse Marina per sbrigarsene "sì, sono in collera. Vattene." E si alzò scuotendo il fiume dei capelli biondo bruni che le cascava alle spalle sull'accappatoio. "Perché è in collera?" disse Fanny. "Per niente, per niente, vattene." "Che La senta" ripigliò Fanny rossa rossa "se fosse per certi bugiardoni qui di casa che Le avessero contate delle storie, non stia a crederci, perché dei signori giovani e belli ne ho conosciuti tanti e nessuno mi ha mai toccato un dito..." "Basta, basta, basta!" la interruppe Marina "non so che cosa tu voglia dire, non voglio saperlo. Non sono in collera. Ho sonno. Va, va." Fanny se ne andò. "Oh, carino" mormorò Marina, poi che rimase sola, "Benissimo, questo." Ella rilesse il biglietto della signora De Bella. Non ritrovò le impressioni di prima. Tutt'altro. Giulia aveva scoperto la traccia di Corrado Silla, aveva scritto subito, la lettera era giunta poco dopo che lei, Marina, aveva promesso a Nepo di sposarlo. E che perciò? Era un caso straordinario da vederci quello che ci aveva visto lei sulle prime, un passo del destino? Ella sapeva ora che Silla era a Milano, conosceva la sua abitazione. Gran cosa! Lo avrebbe saputo egualmente pochi giorni dopo, da Edith. Ma c'era solo un'ombra di lontano indizio che Silla dovesse tornare presto o tardi al Palazzo? Non v'era. Dunque? A che poteva riuscire questo aspettare inerte un dubbio destino? Su tale domanda il suo pensiero si fermò e poi si annientò ad un tratto, lasciandole la impressione di un gran vuoto e tutti i sensi tesi nell'aspettazione istintiva di qualche segno, di qualche voce delle cose in risposta. Udì il colpo sordo di un uscio chiuso da lontano; poi più nulla. Neppure un atomo si moveva nel silenzio grave della notte. Le scure pareti, le suppellettili sparse nella penombra della stanza, chiuse nella loro immobilità pesante, non parlavano più a Marina. I fiochi bagliori accesi com e occhi di spiriti nelle arcane profondità del lago lucido, la guardavano senza espressione alcuna. Subitamente le si ridestò il pensiero e insieme le cadde il cuore. Ella si vide salire in un carrozzone da viaggio con Nepo Salvador, sentì una frustata che sperdeva tutte le sue illusioni stupide, sentì la scossa della partenza, le ingorde braccia di Nepo; a questo punto si rialzò nello sdegno, confortata; non era possibile, nelle braccia di Nepo non sarebbe caduta mai, sposa o no. Ma questa idea ne trasse un'altra con sé. Ella aveva chiuso la lettera nello scannello ed era venuta a deporre l'accappatoio sulla sua bassa poltroncina di toeletta, di fronte allo specchio. Vi cadde a sedere, si guardò per istinto nello specchio illuminato da due candele che gli ardevano a lato sui loro bracci dorati. Si contemplò in quella tersa trasparenza sotto l'alto lume delle candele che le batteva sui capelli, sulle spalle, sul seno, e pareva rivelare una voluttuosa ondina sospesa in acque pure e profonde. Sotto i capelli lucenti il viso ve lato di ombra trasparente pendeva avanti, sorretto al mento da una squisita mano chiusa, più bianca del braccio rotondo che si disegnava appena sul candore dorato del seno, sulla spuma sottile di trine che cingeva le carni ignude. Le spalle non somigliavano punto a quelle opulente della gentildonna del Palma. Non vi appariva però alcun segno di magrezza, e avevano nella loro grazia delicata, nel contorno alcun poco cadente, una espressione di alterezza e d'intelligenza, quali splendevano nei grandi occhi az zurri chiari, nel viso leggermente chinato al seno. E mai, mai, labbro di amante vi si era posato! Allora Marina, palpitando, lo immaginò. Immaginò che qualcuno, il cui viso ell'aveva veduto l'ultima volta al chiarore dei lampi, venisse da lontano, per la notte oscura e calda, ebbro di speranza e delle voci amorose della terra; che avanzasse sempre, sempre, senza posa; che varcasse, più muto d'un'ombra, le porte obbedienti del Palazzo, ascendesse brancolando le scale, spingesse l'uscio... Ella si levò in piedi soffocata da un'oppressione senza nome, emise un lungo respiro, cercando sollievo; ma l'aria tepida, profumata, era fuoco. Ah lo amava, lo amava, lo invocava, lo stringeva nelle sue braccia! Spense in furia i lumi dello specchio, ricadde di fianco sulla poltrona e, abbracciatane la spalliera, vi fisse il viso, la morse. Giacque lì un lungo quarto d'ora, tutta immobile fuor che le spalle sollevate da un palpitar forte e frequente. Si rialzò, alfine, cupa; e pensò. Perché non aver trattenuto Silla dopo udito il nome terribile? Perché, s'ella aveva perduto in sulle prime e moto e senso e volontà, non s'era slanciata poi quella notte stessa dietro a lui, a caso ma con l'istinto della passione, dietro a lui ch'ella aveva amato, come dubitarne? al primo vederlo, malgrado se stessa, con dispetto e rabbia, dietro a lui che l'aveva stretta nelle braccia chiamandola Cecilia? Non si compiva così la predizione del manoscritto ch'ella sarebbe amata con questo nome? Perché non fu ggire, non cercare di lui subito? Perché questa commedia con Nepo Salvador? C'era bene il perché, e Marina non poteva dimenticarlo a lungo. Quelle ultime parole del manoscritto! "Lasciar fare a Dio. Sieno figli, sieno nipoti, sieno parenti, la vendetta sarà buona su tutti. Qui, aspettarla qui." E i fatti non accennavano già confusamente da lontano com'ella potrebbe raggiungere insieme la vendetta e l'amore? Le tornò la fede. Si alzò, prese la candela, venne sulla soglia dell'altra stanza e porse il capo a guardare lo stipo del secreto, alzando il lume con la sinistra. Era là, appena visibile nell'ombra della parete, nero a tarsie bianche, come un sarcofago dove fossero incisi caratteri arcani. Marina lo contemplò, dorata i capelli e le spalle ignude dal vivo chiaror tremulo che si spandeva intorno a lei per breve spazio di pareti e di pavimento. Ai suoi piedi oscillava l'ombra rotonda del candeliere. Fu assali ta, pietrificata da una delle sue reminiscenze misteriose. Le pareva esser venuta su quella soglia un'altra volta, anni ed anni addietro di notte, discinta, con i capelli sciolti, aver visto ai suoi piedi l'ombra oscillante del candeliere, il lume intorno a sé per breve spazio di pareti e di pavimento, e, là davanti, lo stipo nero, i caratteri arcani.

La scuola di ballo

677690
Loria, Arturo 1 occorrenze

L'ANNO 3000

677901
Mantegazza, Paolo 1 occorrenze

Abbasso il psicoscopio ... Paolo rimase imperterrito, e il Presidente suonò più volte il campanello, invocando silenzio e pace. Intanto la sala si era vuotata più che mezza, e il segretario potè ripigliare la sua relazione: L'Accademia ha creduto a voti unanimi di conferire il primo premio al signor Fortunati, perchè se le due altre scoperte ci allargano le frontiere del conoscibile, il psicoscopio ci promette un'era nuova di moralità e di sincerità fra gli uomini. Quando noi tutti sapremo, che chiunque può leggere nel nostro cervello, faremo sì che pensieri e opere non si contraddicano, e noi saremo buoni nel pensiero, come cerchiamo di esserlo nelle opere. È a sperare che col psicoscopio la menzogna sarà bandita dal mondo o almeno sarà un fenomeno rarissimo, che si andrà perdendo del tutto; come tutte le funzioni e gli organi, che non hanno più uno scopo necessario o utile. E lasciamo da parte tutti i vantaggi, che potrà arrecarci il nuovo strumento nella diagnosi delle malattie mentali, nell'educazione, nella psicologia. La scienza del pensiero entrerà ben presto in un nuovo mondo, e di certo è assai più utile all'uomo il conoscere se stesso, che il centro della terra o gli abitanti degli altri pianeti. Dacchè l'uomo è comparso sulla terra, egli ha fatto immensi progressi nelle scienze, nelle arti, nelle lettere; in tutto ciò che riguarda la vita del pensiero; ma nella moralità il progresso è ancora molto addietro, e non è punto in armonia con quello della mente. Il psicoscopio ci promette di realizzare questo sogno di tutti i secoli, quello cioè che il progresso morale sia parallelo a quello intellettuale, e siccome tutti crediamo, che il primo per la felicità degli uomini sia molto più importante dell'altro, ecco perchè l'Accademia ha creduto di dover assegnare il primo premio al signor Paolo Fortunati, che ha inventato il psicoscopio. Tutti quelli che erano rimasti nella sala, perchè non avevano paura che il terribile strumento ottico leggesse attraverso il loro cranio alcuni pensieri malvagi, si alzarono in piedi, applaudendo fragorosamente il fortunato vincitore del premio cosmico, e che anche nel suo nome portava quasi il vaticinio della sua gloria ... L'unica persona che non si alzò, era la più felice e la più commossa. Era Maria, che si nascondeva il volto nel fazzoletto per celare le lagrime di una gioia infinita, che la innondava tutta quanta dal capo ai piedi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Paolo intanto era sceso dal banco della presidenza, era ritornato al suo posto, e là le lagrime di due felici si univano insieme, confondendosi nell'estasi di un'ebbrezza sola. Tutti i presenti guardavano commossi quel gruppo dei due felici, persuasi che l'abbraccio di quella donna in quel momento, in quel luogo, era il premio più alto e primo della scoperta immortale di Paolo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . *** Pochi giorni dopo Paolo e Maria, dopo aver avuto l'alto consenso del Tribunale sanitario di Andropoli, per unirsi nel matrimonio fecondo; ne ricevevano nel Tempio della Speranza il sacramento solenne, e da amanti, che lo erano già da varii anni, diventavano marito e moglie; avendo acquistato per consenso della scienza il più alto dei diritti, una volta concesso a tutti nei tempi barbari; quello cioè di trasmettere la vita alle generazioni future. 1 Il Panglosso è un teatro riserbato agli uomini molto colti e dove si danno rappresentazioni nelle lingue morte, dal greco all'italiano, dal latino e dal sanscrito all'inglese, al turco, al chinese. 2 Il Teatro dei buffoni di Andropoli ha lo scopo di far ridere ad ogni costo, onde rallegrare gli ipocondriaci, gli annoiati e tutti i depressi. 3 Il Teatro del pianto non dà che rappresentazioni melanconiche, ma non mai strazianti, per mettere una nota triste e pur desiderata nella vita dei troppo felici.

Teresa

678574
Neera 2 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Pagina 165

Pagina 284

Oro Incenso e Mirra

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Oriani, Alfredo 1 occorrenze

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Al tempo dei tempi. Fiabe e leggende delle Città  di Sicilia

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Pagina 119

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679346
Praga, Emilio 1 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
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In quella Mansueta venne a prendermi; mi vestì in furia e mi condusse abbasso: la buona zia mi parve più amorosa del solito: era inquieta - ed anch'io lo ero. Il colloquio durò quasi due ore: finalmente il signor Angelo discese, quel suo viso sinistro che ci faceva scappare noi bambini, era sconvolto dal furore. Io mi trovavo sulla soglia e non fui in tempo a cansarlo: egli mi diè un gran calcio che mi mandò ruzzoloni sui ciottoli della strada. Fu quello il suo primo atto di autorità a mio riguardo. - Voi sapete che non è stato l'ultimo di tal genere ... Povero ragazzo, mi faceva compassione. Era tanto avvilito che non poteva neppure nutrire rancore contro il proprio aguzzino. Egli continuò: - Qualche giorno dopo, la zia cominciò a parlarmi di andare col signor De Boni. Aggiunse per ispiegazione che egli era parente del padre mio e che egli voleva così e ch'io dovevo obbedire. Figuratevi il mio spavento; gridai, piansi, - la zia cercò di tranquillarmi dicendo che il signor De Boni, se ero saggio, mi avrebbe trattato bene, che mi avrebbe portato amore ... ma finiva sempre col piangere desolatamente; non credeva nemmanco lei a quelle sue parole. Un giorno fui condotto dal cavallante nel seminario di Novara. Quando, sopraggiunto l'autunno tornai a Sulzena, entrai per la prima volta in casa del signor Angelo; egli mi trattò sempre come un cane malvisto. Le mie vacanze sono una tal tortura che io anelo sempre al collegio come ad una liberazione. Dopo una pausa conchiuse: - Ecco tutto quel che conosco della mia storia: nessuno mi ha mai detto qual sia il diritto che vanta sulla mia persona il sindaco - e che egli esercita con tanta malavoglia come fosse il più odioso dei doveri. - Ma voi, - dissi io, senza riflettere, spinto dalla curiosità, ma voi che ne pensate? La domanda era indiscreta e me ne accorsi subito e studiavo il modo di ritirarla ... ... Ma, con mio stupore, il giovinetto non se ne adontò punto; - mi guardò con amichevole timidezza come volesse farmi una confidenza e rispose misteriosamente: - Ho paura che la mia parentela con colui ..... sia assai più stretta di quel che volesse farmi credere la zia. Questo sospetto è il mio tormento, la mia disperazione. Nei suoi frequenti accessi di collera il Sindaco mi da i nomi più oltraggiosi mi chiama ... mi chiama ... voi capite; - urla che sono la vergogna della sua casa, - ed io domando bestemmiando perchè Dio congiunga coloro che non possono volersi bene ..... Un lampo di odio sfolgorò nelle sue pupille e tosto si spense nella triste rassegnazione di prima, le sue parole terminarono in un angoscioso singhiozzo. Come il fiotto del torrente mi parve lugubre in quel punto! - Usciamo fuori, dissi io, e quando fummo all'aperto, e che l'aspetto sereno del cielo, la vista dei monti rivestiti dal raggio di un roseo tramonto ebbe dissipata un po' la mia commozione, presi il mio compagno a braccetto e, sforzandomi di dare una gaia intonazione alla mia voce, gli dissi: - Ringrazio il caso che mi ha condotto a pescare un amico in fondo alla cascata. - Forse non è il caso ... soggiunse l'abatino. - Può darsi non sia il caso. - È la prima volta che mi accade di parlare di queste cose con alcuno e mi ha fatto bene. Questa dichiarazione non mi meravigliò punto. Egli non era il primo a farmela e non fu l'ultimo: ebbi molte volte a ricevere confidenze da gente che mi vedevano per la prima volta. Io sono stato così il depositario di molti dolori. È una triste prerogativa: ho dovuto persuadermi per esperienza mia e per l'esempio di quelli che la dividono con me che non è segno di fortuna: è una attrattiva che una sciagura esercita su altre sciagure. In tutti i casi consimili non è mai stato mio vezzo di far del sentimentalismo: ho veduto che i dolori sono come i ragazzi viziati: più li accarezzi e più si fanno impertinenti. Io preferisco strapazzarli: è una cura quasi sempre efficacissima. Però rivolto all'abatino dissi: - Badate però ch'io voglio sgridarvi; alla nostra età la rassegnazione è, scusate la parola, dappocaggine, La vostra condizione vi par un mantello troppo pesante? ebbene gettatelo dietro le spalle. Il mondo ha tante strade, sceglietene una, e tirate innanzi senza voltarvi indietro. Mi guardò stupito: nessun pensiero di ribellione aveva mai attraversato quel suo animo umile e mansueto. Si strinse a me rabbrividendo. Superbo di farla da Mentore o meglio da Mefistofele, io ripresi: - Il signor Angelo vi tratta come un cane; mostrategli che siete un uomo col respingere i suoi oltraggiosi beneficii; lasciate la sua casa, buttate il suo pane e fate da voi. - scommetto ch'egli non vi correrà dietro a farvelo accettare per forza. - Guardate, dissi poi, accennando al libro di Rousseau che faceva sempre capolino dalla sua tasca, voi avete lì un bell'esempio. Non vi fermate alle sue melanconie, ai suoi piagnistei: guardate al sodo della sua vita: tutte le volte che Gian Giacomo ha voluto cercare il successo, il successo gli è venuto incontro: colpa sua se sovente egli l'ha rinnegato per rinchiudersi daccapo nella chiocciola della sua pigrizia. Eravamo così arrivati a Sulzena. Fin là l'abatino aveva camminato al mio fianco dritto e spedito. Ma all'ultimo svolto del sentiero, quando apparvero le case del villaggio e più eminente da una parte del paese, solitaria, più vasta ma non più appariscente dall'altre, quella del signor De Boni - non potè contenersi. Tolse il suo braccio di sotto al mio e fe' capire colla sua inquietudine che non voleva essere visto in mia compagnia. Non insistei e lasciai che prendesse un viottolo di traverso che girava dietro alle case. - Ci rivedremo, caro ... come ti chiami? gli domandai. - Il sindaco mi fa chiamare Ignazio, per un suo fine di ironia, ma il mio nome è Aminta. - Curioso nome! ... vuoi ch'io venga a prenderti qualche volta? - No, fu lesto a rispondere, verrò io. E così ci separammo amici, di quella vecchia e durevole amicizia che a dieciott'anni si fa in un'ora.

Storie naturali

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Levi, Primo 1 occorrenze

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ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 4 occorrenze

Sibili acuti, stridii prolungati, scrosci formidabili, ora secchi e brevi, ora interminabili, uscivano da quelle masse, che l'uragano trasportava sulle sue possenti ali, e tutti quei fragori si perdevano in alto e abbasso, formando un cupo rimbombo. Talvolta, quando quei tuoni tacevano, s'udiva sotto le nubi un lontano muggito: era l'oceano che prendeva parte a quella terribile gara degli elementi scatenati. L'aerostato che si manteneva a 3600 metri, divorava lo spazio con fantastica rapidità, in balìa delle correnti aeree, quantunque sembrasse immobile o quasi. La corrente che prima lo spingeva verso l'est si era spezzata, forse a causa dell'incontro con un'altra che aveva diversa direzione, e deviava sovente, ora piegando verso il sud, ora riprendendo la direzione precedente. I due immensi fusi subivano di tratto delle scosse, e quando il vento cambiava, s'inclinavano verso prua, imprimendo alla navicella delle brusche oscillazioni. Nessuno osava dormire. La paura che l'aerostato s'abbassasse, per causa del condensamento dell'idrogeno o d'un strappo, e che entrasse fra quelli nubi tempestose e sature di elettricità, li teneva svegli. Infine Simone, malgrado quei tuoni, si assopì fra due casse. Ma il suo sonno era agitato: di quando in quando trabalzava, agitava pazzamente le braccia, apriva i grandi occhi e dalle sue labbra uscivano delle grida rauche che tradivano sempre un profondo terrore. Quel disgraziato, se non era pazzo, poco ci mancava: il suo cervello doveva aver riportato un perturbamento pericoloso, dopo l'incontro del polipo gigante. Alle due del mattino, l'aerostato si trovò quasi improvvisamente sopra l'oceano. Le masse di vapore colà cessavano e pareva che sfuggissero per il sud, forse spinte da un'altra corrente aerea. Per alcuni minuti si vide quell'immenso accatastamento di nubi ondeggiare fra cielo e mare, fra il balenare dei lampi, poi scomparve sul fosco orizzonte. I fragori cessarono rapidamente, si udì ancora come un lontano rullìo, poi i muggiti dell'oceano soffocarono la voce dell'elettricità. Giù, in fondo, si vedeva confusamente l'Atlantico, che i pallidi raggi dell'astro notturno illuminavano. Appariva come un immenso velo d'una tinta indefinibile, fra l'azzurro cupo e il marrone, sbattuto, agitato da poderosi colpi di vento. A intervalli si scorgevano degli spazi, delle linee biancastre che si muovevano rapidamente e che subito scomparivano. Doveva essere la spuma che incoronava enormi ondate. O'Donnell, che osservava tutto, additò all'ingegnere una nave che fuggiva verso il sud, con la velatura ridotta. La si vedeva salire faticosamente gli enormi cavalloni, sprofondare negli avvallamenti, rimontare, poi discendere e quasi scomparire fra la spuma. Per alcuni istanti si scorsero i suoi fanali di posizione, che brillavano come due punti luminosi, uno rosso e l'altro verde, poi più nulla. L'aerostato, spinto dal vento, che aveva ora un impulso di ottanta chilometri all'ora, s'allontanava, lasciando indietro tutto. Nessuna nave, nessun incrociatore, dotato delle più potenti macchine poteva gareggiare con esso. Alle tre l'irlandese, che si ostinava a rimanere sveglio quantunque ogni pericolo fosse ormai cessato, essendo il cielo purissimo, sgombro d'ogni nube, segnalò un vivo chiarore che appariva sull'oceano, verso il nord-est. "Un'isola forse?" chiese all'ingegnere, che aveva afferrato un cannocchiale. "Una terra qui? E impossibile, O'Donnell" rispose Kelly. "Le Azzorre non sono sulla nostra rotta?" "No: sono più al nord, e poi sono ancora assai lontane." "Possono essere le Canarie, Mister Kelly?" "Nemmeno, O'Donnell. Sono più lontane delle Azzorre." "Possono essere quelle del Capo Verde." "Malgrado la nostra rapida corsa, devono distare ancora di qualche migliaio e più di miglia; e poi credo che l'uragano ci abbia spinti verso il sud." "Ma qual cosa supponete che sia dunque?" "La distanza è troppa e l'oscurità fitta, per discernere qualche cosa; ma io temo che sia un incendio." "Un incendio!? Dove?" "Forse di una nave." "Per San Patrick! Una nave brucia in mezzo all'uragano! Una nave che brucia in mezzo all'uragano! Quale terribile situazione per l'equipaggio!" "Potrebbe pur essere qualche vulcano, O'Donnell." "Un vulcano in mezzo all'Atlantico! Che cosa dite, Mister Kelly?" "E perché no, amico mio?" "Se dite che siamo lontani da tutte le isole, dove volete che posi questo vulcano? Sulle onde forse?" "Sul fondo dell'oceano." "Ma, che io sappia, nessun vulcano fu segnalato in mezzo all'Atlantico." "Ebbene, che importa? Non può essere sorto da un momento all'altro, forse in questa notte? Credete voi che il fondo dell'Atlantico sia tranquillo? No, O'Donnell: s'agita sovente la sotto la spinta dei fuochi interni, subisce talora delle modificazioni, s'alza o s'abbassa, e nel 1811 formò perfino un'isola vulcanica nei pressi delle Azzorre, al largo di San Michele." "Un'isola!" "Sì, quella chiamata Sabrina, che si elevò sull'oceano per trecento metri, ma che poi fu demolita dai flutti. Un'altra pure ne emerse in quei paraggi dopo una abbondante eruzione di vapori, di fumo e di fuoco, durante un terremoto; ma subito scomparve." "Vi sono quindi delle isole vulcaniche in quest'oceano?" "Forse che le Azzorre, le Canarie, Ascensione, S. Elena e Tristan da Cunha non sono di origine vulcanica?" "Anche le Bermude?" "No, O'Donnell: quelle sono state formate dai coralli." "Se, come mi dite, il fondo dell'Atlantico subisce delle modificazioni e s'agita, si può prestare fede agli antichi scrittori circa la scomparsa dell'Atlantide." "E perché no?" "Ma credete che sia realmente esistito quel continente? E, prima di tutto, che cos'era quest'Atlantide di cui ho udito vagamente parlare?" "Un'isola immensa, grande, secondo gli antichi, come la Libia e l'Asia minore riunite, e che si estendeva al di qua delle Colonne d'Ercole, ossia dello Stretto di Gibilterra, e che altre isole minori congiungevano ad un continente. Tutti gli scrittori antichi ne fanno parola, e ciò fa supporre che sia realmente esistita o che esista tutt'ora." "Che esista? Dove mai, Mister Kelly?" "Ve lo dirò poi. Omero nella sua Odissea l'accenna; Esiodo nella sua Teogonia, Euripide nei suoi drammi, Solone nella grande epopea da lui ideata, Platone, Strabone e anche Plinio ne parlarono. Sembra che gli Atlantidi giungessero nel Mediterraneo, spinti dal desiderio di altre conquiste e che cercassero di sottoporre al loro dominio la Grecia; ma sarebbero stati respinti dai primitivi Ateniesi. Avrebbero però invaso parte del Mediterraneo, l'Egitto, l'Africa settentrionale e le coste della Tirrenia, ossia dell'attuale Italia e alcune parti dell'opposto continente. Si dice che in quella grande occasione regnasse una potente schiatta di re e che numerose tribù la occupassero. In una certa epoca, però, dopo violenti terremoti e diluvi, l'isola sarebbe stata inghiottita con tutti i suoi abitanti. Anche i cartaginesi fanno menzione di un'isola deliziosa: anzi avevano deciso di andare ad occuparla, nel caso che un disastro avesse distrutto la loro repubblica." "Ma in quale modo venne inghiottita?" "Si sono date diverse spiegazioni. Alcuni credono a causa di un tremendo terremoto; altri, fra i quali Bory de Saint-Vincent e Mantelle, due eminenti scienziati, credono che sia stata subissata dall'irrompere nell'oceano delle acque di un grande lago salato dell'Africa, forse quello del Sahara, che sembrerebbe il letto d'un antico mare." "Io però la penso diversamente, O'Donnell; e credo che l'Atlantide esista ancora. Sarà o sembrerà una enormità, ma io ritengo che gli antichi fossero, in fatto di cognizioni geografiche, ben più innanzi degli europei del 1400 e anche del 1500. Si dice che quell'isola si estendeva al di là delle Colonne d'Ercole e che numerose altre isole più piccole la univano ad un continente. Ebbene, gettate uno sguardo sulla carta del nostro globo. Che cosa vedete all'occidente dell'Europa?" "L'America" disse O'Donnell. che prestava grande attenzione alle parole dell'ingegnere. "E dopo, l'America? "Ma possibile!" "Aspettate: che cosa vedete?" "Le innumerevoli isole dell'Oceano Pacifico?" "E poi?" "Il grande continente asiatico-europeo!" esclamò O'Donnell. "Io dunque concludo che l'Atlantide degli antichi era l'attuale America, che le isole che la univano all'opposto continente sono quelle dell'Oceano Pacifico e che quell'opposto continente è quello asiatico-europeo, il solo che gli antichi greci potevano conoscere." "Dunque gli antichi conoscevano la rotondità del globo." "Sì, O'Donnell: io ne sono convinto e affermo che essi conoscevano la nostra Terra meglio che gli europei del 1400." "Ma quei terremoti e quei diluvi, quelle terre subissate?" "Quei terremoti, quel grande cataclisma può essere avvenuto, può avere inghiottito qualche isola, come può, invece, aver fatto sorgere le Azzorre e le Canarie, che sono, come ho già detto, d'origine vulcanica. Chissà? Forse gli antichi navigatori, spaventati da quel cataclisma, non ardirono più avventurarsi sull'Atlantico, e l'America rientrò nel buio e fu dimenticata fino all'epoca in cui Colombo e Caboto e via via gli altri grandi navigatori la fecero ancora conoscere alle popolazioni europee."

"Abbasso Mac-Canthy! Signor aeronauta, abbiate compassione di noi che moriamo di fame! Non abbandonateci in nome di Dio!" "Vi prometto di soccorrervi, ma lasciate andare le funi, o guasterete il mio pallone." "No, non ci sfuggirete, signore urlarono i naufraghi, con accento minaccioso." "Ve lo prometto, parola di yankee." "Siete un compatriota? ... Viva l'America!" L'alba si avvicinava rapidamente, facendo impallidire gli astri. Fra pochi minuti il sole doveva spuntare e versare i suoi ardenti raggi sull'oceano. La zattera, poiché era proprio quella che il mozzo aveva abbandonata sei giorni prima, era ormai visibile. Era un ammasso informe di legnami, di travi, di pennoni, di pezzi di fasciame, di tavole legate con cordami e catene, e sormontato da un troncone d'alberetto, da cui pendeva una vela stracciata. Undici uomini montavano quella zattera, undici miserabili, coi volti bestiali, le membra ischeletrite dai lunghi digiuni, con le barbe arruffate e coperti di stracci Alcuni impugnavano delle scuri e due tenevano dei fucili; pareva che minacciassero il pallone, decisi a rovinarlo con una scarica, piuttosto di lasciarlo andare. A prua di quello strano galleggiante, gli aeronauti scorsero, non senza un fremito d'orrore, gli avanzi di due scheletri umani gettati dietro a due barili sfondati. Non ci voleva molto a comprendere che quegli sciagurati, rosi dalla fame, si erano pasciuti delle carni di quelle due vittime. "Orrore!" esclamò O'Donnell. "Questa è una seconda edizione del naufragio della Medusa ... " "La fame non discute, O'Donnell" disse l'ingegnere. "Orsù, cerchiamo di soccorrerli nel limite delle nostre forze." "Ci lasceranno liberi poi?" "Taglieremo le funi." "E le nostre àncore?" "Piuttosto di farmi trascinare sulla zattera, preferisco sacrificarle." "Temo che quest'incontro ci porti sfortuna, Mister Kelly." L'ingegnere non rispose. Esaminò rapidamente la sua dispensa, scelse parecchie scatole di carne conservata, ammucchiò in una cassa qualche decina di chilogrammi di biscotti, vi unì dello zucchero e delle scatole di tonno. "Caliamo questi viveri" disse. "Mettendosi a razione, quegli uomini possono vivere qualche giorno e guadagnare le Canarie, che non sono lontane." "Ma non abbiamo funi per calare questa cassa" disse O'Donnell. "La faremo scorrere lungo una fune di un'ancora. Aiutatemi, amici." I naufraghi, comprendendo che il soccorso stava per giungere, avevano cessato le loro grida minacciose, ma non abbandonarono i due coni, che avevano tratti presso la zattera per impedire la fuga dell'aerostato. Coi visi in aria, gli occhi fissi, non perdevano di vista una mossa degli aeronauti. L'ingegnere e O'Donnell, legata la cassa attorno alla fune dell'ancora poppiera, la lasciarono andare gridando: "Attenti alle teste!" La cassa filò lungo la fune e piombò sopra il cono. I naufraghi vi si precipitarono sopra urtandosi e respingendosi per essere i primi a metter le mani su quei viveri, la tirarono a bordo e con pochi colpi di scure la sfondarono. Ad un tratto un urlo di furore scoppiò fra quei disgraziati. "E l'acqua! ... Noi vogliamo dell'acqua!" urlarono, tenendo le mani raggrinzite verso gli aeronauti. "Ne abbiamo appena per noi" disse l'ingegnere. "Dateci la vostra acqua, canaglie!" tuonò Mac-Canthy. "Ti schiaccio nel cranio una palla, brigante!" urlò O'Donnell. "La canaglia sarai tu!" "A me amici!" gridò il marinaio. "Tiriamoli giù!" "Sì, giù, giù, o dateci la vostra acqua!" urlarono i marinai furiosi. L'ingegnere raccolse il winchester e lo armò risolutamente, mentre O'Donnell impugnava una scure, pronto a tagliare le funi. "Il primo che tocca le àncore lo uccido come un cane!" tuonò Mister Kelly con tono minaccioso. I naufraghi, lungi dal calmarsi a quella minaccia, inferocirono maggiormente: si precipitarono sulle funi e diedero una tale strappata, da abbassare l'aerostato di parecchi metri. "Tagliate, O'Donnell!" gridò l'ingegnere. L'irlandese con due colpi di scure assestati sui bordi della navicella, sui quali poggiavano le due funi, liberò l'aerostato, il quale fece un balzo in aria. Vedendo fuggire e precipitare le funi, i naufraghi emisero urla feroci. I due uomini armati alzarono le armi e fecero fuoco. Una palla passò fischiando rasente il bordo poppiero della navicella e si perdette altrove; l'altra non fu udita. O'Donnell, furibondo, armò una carabina, e la puntò contro la zattera, ma l'ingegnere lo trattenne. "È inutile" disse. "Lasciateli: la fame e la sete non ragionano." "Sono canaglie, Mister Kelly, che non conoscono la riconoscenza. Avrei cacciato ben volentieri una palla nel corpo a quel brutale Mac-Canthy." "È lui che voleva mangiarmi" disse il mozzo. "Ma spero che sarà lui il mangiato, Walter" disse O'Donnell. Il Washington intanto s'innalzava rapidamente, alleggerito com'era di quei duecento e più metri di funi e di coni. I naufraghi nondimeno continuavano le loro minacce e tiravano coi loro fucili, quantunque l'aerostato fosse ormai fuori portata. La loro rabbia parve che non avesse più limiti, dopo che si erano accorti della presenza di Walter, e si udiva la rauca voce di Mac-Canthy che urlava: "Scendi, cane di un mozzo!" Vedendo il Washington dirigersi verso il sud, quegli uomini, che parevano diventati pazzi, si precipitarono sulla vela, che in un istante fu bracciata sul filo del vento, poi s'armarono di tavole e di pennoni, mettendosi ad arrancare con furore: però dovettero ben presto convincersi dell'inutilità dei loro sforzi. La distanza cresceva rapidamente, di secondo in secondo: le loro grida divennero fioche, poi non si udirono più; la zattera rimpicciolì a poco a poco e finalmente fu perduta di vista. "Che l'oceano v'inghiotta, canaglie!" esclamò O'Donnell che era ancora esasperato. "Bel modo di ricompensarci dei viveri che abbiamo loro gettato." "Le privazioni li hanno resi feroci, O'Donnell disse l'ingegnere. "Nel loro caso noi, forse, ci saremmo condotti egualmente." "Che il diavolo se li porti! Ecco delle àncore perdute, che forse rimpiangeremo." "Questo é vero, O'Donnell, poiché ormai noi non possiamo più fermarci. Siamo in balìa dei venti." "Perdita grave e ... " Si era arrestato col viso in aria, fiutando l'atmosfera. Ad un tratto impallidì ed emise una sorda imprecazione. "Mister Kelly" disse con voce alterata "sentite odore di gas." "Sì, sì" disse l'ingegnere. "Che una valvola si sia aperta o che ... ?" "Una valvola? ... È impossibile. O'Donnell. Qualcuno ha guastato i nostri palloni." "Una palla di quelle canaglie, forse?" Kelly, che non era meno agitato dell'irlandese, salì sull'asta che sosteneva la scialuppa, e ascoltò con profondo raccoglimento. In alto, udì dei leggeri scoppiettii. "Infami!" esclamò. "E io li ho soccorsi!" Ridiscese in preda ad una sorda collera: se la zattera si fosse trovata ancora sotto il pallone, non avrebbe forse più trattenuto O'Donnell, che voleva rispondere alle palle di quei miserabili con la grossa carabina. "Ebbene?" chiese l'irlandese con ansietà. "L'idrogeno fugge" rispose l'ingegnere. "Ci hanno traversato un pallone quei naufraghi?" "Sì e forse tutti e due." "Sono ferite gravi?" "Sì, O'Donnell, perché fra poco quei fori s'ingrandiranno, e noi cadremo sull'oceano." "Se provassimo a turarli? Non v'è qualche mezzo?" "Sì, cucirli, ma chi salirà fino ai fusi?" "Io, Mister Kelly." "No, Mister O'Donnell" disse il giovane Walter, "è affar mio." "Non avrai paura delle vertigini, ragazzo mio?" chiese l'ingegnere . "Sono un mozzo, Mister Kelly." "Ma ci troviamo ad una spaventevole altezza, Walter: a 3300 metri." "Non avrò paura" rispose il ragazzo con voce ferma. "Ma può scivolarti una mano o un piede e tu potresti piombare nell'oceano" disse O'Donnell. "Lascia che vada io." "Voi siete troppo pesante, O'Donnell" disse l'ingegnere "e potete squilibrare il fuso. Preferisco che salga Walter, che non pesa molto." "Grazie, Mister Kelly" rispose il ragazzo. L'ingegnere frugò in una delle casse ed estrasse del filo di seta, degli aghi e una scatoletta contenente una vernice assai densa e molto attaccaticcia, che mandava un acuto odore di resina. Consegnò quei diversi oggetti al mozzo, dicendogli: "Non perdete tempo, mio bravo ragazzo. Ogni minuto che passa è un metro cubo di gas che sfugge." Walter intascò gli oggetti, si levò le scarpe per non guastare la seta dei palloni e per essere più sicuro dei piedi, poi si aggrappò alle funi e s'arrampicò coraggiosamente sull'asta sostenente la scialuppa. "Hai paura?" gli chiesero O'Donnell e l'ingegnere. "Se ti coglie un principio di vertigine, scendi." "Il vuoto non mi spaventa" rispose il ragazzo con voce ferma. S'aggrappò alla rete e s'innalzò sopra quello spaventevole abisso aperto sotto i suoi piedi. Di maglia in maglia raggiunse il margine inferiore del fuso di tribordo e si issò sul suo fianco, cercando i buchi aperti dalla palla. Il fuso, sotto quel peso aggrappato al suo fianco, si spostò, inclinandosi verso l'esterno, ma essendo solidamente legato all'altro non si rovesciò. "Ci sei?" chiese l'ingegnere, che non scorgeva più il mozzo. "Sì, Mister Kelly" rispose Walter. "È un buco o uno strappo?" "E uno strappo lungo sei centimetri; e ne vedo uno più lungo sull'altro fuso." "Puoi turare le ferite?" "Lo spero, Mister Kelly." Il mozzo si mise subito all'opera. Le palle, invece di aver attraversato i fusi aprendo due fori, come dapprima l'ingegnere aveva sospettato, li aveva sfiorati di fianco, producendo però due strappi considerevoli, attraverso i quali il gas fuggiva con grande impeto, scoppiettando. Si potevano turare ma, prima che l'operazione fosse terminata, una parte considerevole di idrogeno doveva fuggire, compromettendo grandemente la stabilità del Washington il quale cominciava ad abbassarsi rapidamente, inclinandosi sul tribordo. Walter, legatesi un fazzoletto sulla bocca e sul naso per non venire asfissiato dal gas che irrompeva attraverso l'apertura, si mise rapidamente al lavoro, mentre l'ingegnere e O'Donnell preparavano i cilindri contenenti l'idrogeno compresso per iniettarlo nelle manichette dei fusi. Malgrado il mozzo cucisse rapidamente, il Washington si piegava sempre più e s'abbassava rapidamente, anzi precipitava. In cinque minuti era calato di 1500 metri e non si arrestava ancora. L'ingegnere che vedeva avvicinarsi l'oceano con grande rapidità, aprì il primo cilindro e lanciò nel fuso riparato i primi quaranta litri di idrogeno. Il Washington si raddrizzò e la sua discesa si arrestò, anzi si mise a salire, dapprima lentamente, poi con una certa rapidità, finché raggiunse i 3200 metri. Il mozzo aveva terminato la cucitura. La coprì con parecchie pennellate di vernice, si assicurò che non vi fossero altre aperture, poi ridiscese, passò altro fuso e ripeté l'operazione sulla seconda ferita, che era più grave dell'altra. Pareva fosse stata fatta con un proiettile tagliente. "Hai finito?" gli chiese l'ingegnere. "Sì, Mister Kelly." "Grazie, mio bravo ragazzo. Rinforziamo anche il secondo fuso." "Resisteranno le cuciture?" cinese O'Donnell. "Non ho la pretesa che non lascino sfuggire il gas" disse l'ingegnere, "ma infine la perdita sarà minore e, forse, potremo sostenerci in aria qualche giorno ancora. "E poi? ... il vento ci spinge sempre al sud, Mister Kelly e la costa è lontana." L'ingegnere non rispose, ma emise un profondo sospiro.

IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

I CORSARI DELLE BERMUDE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Signora bionda trovasi nell'ultima stanza della torre e non esservi abbasso che una sola sentinella. Mettere questa sera mio fratello Wolf, e noi passare tranquilli. - Ed io domani offrirò a te e a tuo fratello un'altra colazione. - E pacarla tu, patre. - Sempre pagare io! - rispose Testa di Pietra. Poi brontolò fra sé: - Che paura ha questo tedesco di metter fuori un dollaro! Figuriamoci se si trattasse di sterline! ... Tirò in fretta quattro o cinque colpi di pipa, poi riprese: - A che ora potrò entrare nel castello? - Soffiare ritirata a nove ore - rispose il soldato. - Tu entrare con me. - Soffiano vento le trombe - disse il mastro ridendo. - Dove ti troverò? - Sotto la torre. - A nove ore? - Ja, ja! - Vederla! Rivederla dopo tanto tempo! - esclamò Testa ai Pietra, fingendo di asciugarsi una lagrima coi dorso della mano. Stasera sarò l'uomo più felice di questo mondo, e questa felicità la dovrò a te, figliuolo. - Oh, patre? ... - Nostro che sei in cielo. Toccherò il cielo stasera anche senza il pater. Affondò una mano nella larga fusciacca di lana rossa, e levò due dollari che mise, con grande sussiego, dinanzi al soldato stupito. - Nel mio paese, - disse, fingendosi commosso - v'è l'abitudine di pagare il tabacco ai figli che sono in guerra. Prendi e insacca senza dir grazie. - Tu troppo pono, patre. - Non ci badare. Ti considero ormai mio figlio. Quando non avrai più da fumare, vieni liberamente da me. - Grazie, patre. - Ti ho detto di non ringraziarmi. Alle nove dinanzi alla torre del castello. - Io non mancare appuntamento. - Se per caso vedi la cameriera della miss bionda, dille che muoio sempre d'amore per lei. - Sì, patre. - Ora va pure a portare le candele di sego ai tuoi camerati. Hanno diritto anche loro di bere un po' di brodo buono. - Vado, patre. Il soldato bevve un ultimo bicchiere poi si alzò traballando sulle malferme gambe, sorrise al suo generoso padre adottivo e se ne andò, facendo risonare nelle mani i due dollari. - Crepa, canaglia - borbottò il bretone. - Mi sei costato più d'un luigi. Si alzò a sua volta e andò a sedersi alla tavola occupata dal Corsaro e da Piccolo Flocco. - Ho ben recitata la mia parte, comandante? - chiese. - Un galeotto come te non si trova in nessun luogo della Bretagna - rispose sir William, scoppiando in una risata. - Quelli di Batz sono più furbi di quelli di Pulignen - disse Piccolo Flocco. - Non l'avrei mai creduto; eppure è proprio così. - Ti pare? - chiese il bretone. - Sono costretto a confessarlo apertamente. - Allora sotto di me farai molta strada, monello. - Lo spero. - E come te la caverai ora con quella cameriera? - chiese sir William. - Lasciate fare a me, signore, - rispose il bretone. - Ho certe idee nella testa. che vi faranno stupire. Ci chiamano teste dure; ma quanto cervello abbiamo! - Ne sono ormai convinto - rispose sir William. - Ecco una frase che mi onora assai, comandante. - Dunque a questa sera. - Mio comandante, - disse Testa di Pietra - volete che facciamo una, passeggiata? - Ti occorre qualche altro soldato? - No, comandante; vado in cerca d'un cordaio. Spero di trovarne qualcuno. - Chi vuoi impiccare? - La torre del castello d'Oxford - rispose il bretone. - La torre? - interrogò il Corsaro. - Lasciate fare a me, comandante. La corda che andrò a comprare avrà una stretta relazione con me, voi, Piccolo Flocco, la cameriera e la bionda miss. - Sei un diavolo! - No, signore, siamo tutti figli dei nostri curati. - Come? - Cioè delle nostre chiese. Ah, i nostri curati, che guidano le nostre donne ed i nostri figli, sono brava gente! - Hai finito? - Non mi manca che di trovare un cordaio e più tardi il mio soldato. Ma penso che abbiamo tempo e si potrebbe andare a dormire. Sono due notti che non chiudiamo occhio. - Hai imitato un po' troppo il soldato. - Può darsi, mio comandante. D'altronde dovevo ben farlo parlare e svelargli i miei amori colla cameriera di Mary di Wentwort. - Bada di non annegarci tutti in un mare d'inchiostro. Mi fido poco dei tuoi pasticci! - disse il Corsaro. - Niente affatto, mio comandante, ve ne darò una prova questa sera col farvi scalare la torre dei castello. - Allora andiamo a riposarci un po'. Il cordaio andrai a cercarlo più tardi. Mastro Taverna li condusse in uno stanzone, malamente arredato, ma con due letti passabilmente soffici e puliti. I tre corsari vi si gettarono sopra senza spogliarsi: sir William solo, e i due marinai insieme, e non tardarono a russare. Quando si svegliarono, con loro stupore, cominciava ad annottare. - Tutti in coperta! - gridò Testa di Pietra, che era stato il primo a gettarsi giù dal letto. - A terra diventiamo vere marmotte. - Credo invece che dipenda dal vino scorpionato di quella canaglia di mastro Taverna! - disse Piccolo Flocco. - Troverò ancora un cordaio che abbia il negozio aperto? - Va' a chiedere a mastro Taverna se può procurarti quanto ti occorre - disse il Corsaro. - Agli albergatori non mancano mai le funi. - Bestia che sono! Non ci avevo pensato. Il bretone si era slanciato fuori dalla stanza, e dopo pochi minuti, mentre sir William stava lavandosi, rientrava gridando: - Eccola, eccola! Trentacinque metri ed un piede, solida come un gherlino e nuova del tutto. Come questa non l'avrei forse trovata nemmeno da un cordaio. - Quanto hai stimata l'altezza della torre? - Non più di trenta metri, mio comandante, - rispose il bretone. - Dei cinque che avanzano te ne servirai per fare nodi alla distanza di due piedi l'uno dall'altro. - L'avevo già pensato, mio comandante. - Va' a imbottirti, mentre noi andiamo a prendere un buon thè. Si fecero servire alla lesta temendo di giungere tardi all'appuntamento di quel bravo ed ingenuo soldato. Avevano appena vuotate le tazze quando comparve il bretone straordinariamente ingrassato e sbuffante come un toro inferocito. - Ehi, mastro, metti su pancia? - chiese scherzando Piccolo Flocco. - Si, una pancia piena di canapa. Trentacinque metri e un piede! Ho sudato a mettermela intorno, e sì, che ho stretto assai, tanto che mi par di scoppiare - disse Testa di Pietra. - Meno male che la tua casacca è larga quanto una coffa! - rispose il Corsaro. - Orsù, vuota la tazza e poi al largo. Fra poco le trombe suoneranno la ritirata. In tre colpi il bretone vuotò la sua tazza, poi il Corsaro gettò sulla tavola un'altra sterlina, dicendo a mastro Taverna: - Dobbiamo partire per un'arrischiata spedizione contro quei maledetti americani. Forse torneremo con una donna, la fidanzata d'un mio carissimo amico. Avresti un'altra stanza? - Vi offro quella di mia moglie, mio gentleman. - Sarà migliore di quella che hai offerta a noi? - Oh, sì, mio gentleman. Tutta la mobilia l'ho fatta venire dalla mia città natia, da Dublino. - Ah, sei irlandese tu? - Sì, signore. - Tanto meglio: ci aspetterai? - Dormirò su una sedia presso la porta per essere più pronto ad aprirvi. - Al largo! - disse il Corsaro. - E vento in poppa! - aggiunge Piccolo Flocco. Uscirono in fretta, senza badare ai profondi inchini dell'irlandese, e si misero in cammino a passi da granatiere. La notte era già calata, e nondimeno il bombardamento, invece di rallentare andava diventando più intenso, così da una parte come dall'altra. I quattro grossi mortai della corvetta dominavano le altre detonazioni, lanciando ogni due minuti sulle case della città le loro enormi bombe che provocavano incendi. - Si divertono i nostri compagni - disse Testa di Pietra che seguiva il Corsaro, sempre sbuffando - Purché non accoppino noi invece degli inglesi. Mi dispiacerebbe. Morire per mano di camerati è una cosa che assolutamente non mi va. - Taci, eterno brontolone! - gli disse Piccolo Flocco. - Non vedi che la gente ti osserva? - E sai perché? - Perché dimeni continuamente le labbra. - Niente affatto, mi guardano per invidia. - Di che cosa? - Ti par niente vedere un uomo così grasso, mentre in Boston da quaranta e più giorni soffrono la fame? - È proprio vero, mastro, - rispose Piccolo Flocco. E se ti domandassero come fai a mantenerti così grasso? - Risponderei a quegli affamati che sono un famoso cacciatore di gatti e che perciò in casa mia la carne abbonda per me, per mia moglie e i miei quindici figliuoli, tutti maschi. - Trovi risposta a tutto. - Sfido io! sono di Batz. Piccolo Flocco credette fosse meglio allungare il passo e raggiungere sir William sapendo già per esperienza, che non avrebbe mai avuto il sopravvento sul lupo di mare. Le trombe cominciavano a squillare, segnando la ritirata, quando i tre uomini giunsero dinanzi al castello d'Oxford. Il bretone, dopo un rapido sguardo, si staccò dai compagni dirigendosi verso la torre. Aveva scorto il suo soldato, che fumava un grosso sigaro, pagato certamente coi due dollari regalatigli. - Bravo figliuolo! - gli disse, battendogli familiarmente una spalla. - Voi tedeschi siete gente di parola. - Foi, patre, dubitare di me? - rispose il giovane. - Hai veduta la cameriera della bionda miss? - Non afer potuto, patre. Tutto giorno portare candele. - Allora i tuoi camerati devono aver bevuto oggi una broda magnifica. Tu invece preferisci i salsicciotti col vino scorpionato, non è vero? figliuolo? - Oh, ja, ja, - rispose il tedesco. - Io afere crande amore per salsicce al fumo. - Ed anche per formaggio canadese, a quanto pare. - Molto pono anche quello. Ah, se vi fosse pirra! ... Ad un tratto il soldato fece due passi indietro e guardò con stupore Testa di Pietra. - Patre, - disse poi - tu essere molto ingrassato. - È vero figliuolo. Ho divorato questa sera ventiquattro salsicciotti affumicati con krauti, ultimo barile di mastro Taverna, che poi ho annaffiato con quattro bottiglie di vino scorpionato. Ricordati figliuolo, che quando si devono affrontare certe occasioni difficili, è meglio sfidare il pericolo colla pancia piena. - Ventiquattro? - Salsicciotti! - Herry gott! Che appetito, patre! - Mangio come un leone, quando mi ci metto; anzi, come una tigre. - Dodici aferlì manciati volentieri anche io. - Domani, se vorrai, ne offrirò a te e a tuo fratello anche cento. Ho cinquanta dollari, e prima di ripartire voglio spenderli tutti. - Penissimo, patre. - E regalarne anche. - La ritirata essere finita. - Si può andare? - Tu, patre, fenire con me. Mio fratello Wolf a guardia della scala. - Gli hai pagato da fumare a quel bravo ragazzo? - Prendi questo dollaro e passalo a lui di sottomano. - Tu seminare troppo denaro, patre, - rispose il tedesco, allungando tuttavia lestamente la mano. - La marina getta via - rispose gravemente Testa di Pietra. - Quando ha le tasche vuote, le rovescia al di fuori, in attesa che tornino a riempirsi; e si riempiono, mio caro, molto più rapidamente di quelle dei soldati di terra. - Io afere sbagliato mestiere - disse il soldato con un sospiro. - Quando nascerai un'altra volta, ti arruolerai in marina. Un po' di pazienza, e questa faccenda l'accomoderai, perché non diventerai vecchio, mio povero figliuolo. - Cattivo augurio. - Non badarci. Anche noi gente di mare, tutti i giorni siamo sospesi sull'abisso, e quando un colpo di vento od una buona bordata caccia alla malora la nave, scendiamo tutti, vecchi e giovani, nei tenebrosi baratri del mare, dove deve fare molto freddo! ... Erano entrati nel castello insieme con molti soldati e marinai senza venire notati. Il soldato fece attraversare al bretone cinque o sei cameroni ingombri di lettucci, poi una porticina, e scesi cinque gradini, entrarono in una specie di salotto. - Il cabinetto del marchese d'Halifax - disse sottovoce. - Non si troverà mica lassù dalla bionda miss? - disse Testa di Pietra. - Oh. no! manciare ora con Howe. - Allora tutto va bene. Dov'è tuo fratello? - Aspettare un momento patre. Aprì un'altra porta, ed il bretone scorse subito, seduto sui primi gradini d'una interminabile scala, un altro tedesco, biondo e paffuto, che rassomigliava, come due gocce d'acqua, a Hulrik. - Mio fratello Wolf, - disse il soldato. - Dagli il dollaro. - No, ora; noi peferlo insieme. Wolf si era alzato, appoggiandosi al fucile. Era un po' più giovane del fratello, ed aveva una corporatura da toro. - Ecco l'amico - disse Hulrik. - Passa, fratello, - rispose Wolf. - Camerata sola? - Sì, sola. - Miss dormire? - Non ancora. - Tu aspettare. - Non muovermi - rispose Wolf. - Poi pacarti da pere due bottiglie di pirra. - Accettato. - Canaglia! - mormorò il bretone, salendo le scale della torre. - È il terzo dollaro che mi porta via e tutto per sé. Salita una scala, la quale seguiva un lato della torre, l'assiano si fermò dinanzi ad una porta rischiarata malamente da una candela di sego, la sola cosa ormai che si potesse trovare in Boston, e bussò discretamente. Un momento dopo la porta s'apriva, e sulla soglia compariva una donna fra i trentacinque e i quarant'anni, molto asciutta, con lunghi denti e i capelli nerastri. - Voi, Hulrik! - esclamò. - Che cosa desiderate a quest'ora? È il marchese che vi manda? - Dormire, miss? - Non ancora. - Qui essere vostro amico che folere parlarfì. - Un mio amico? - esclamò la cameriera di Mary di Wentwort. Testa di Pietra prese il coraggio a due mani e avanzò nella stanzetta elegantemente ammobiliata, e rischiarata da due fumose candele di sego. - Nelly, non mi conoscete più? - chiese fingendosi estremamente commosso. - Nelly! ... Non ho mai portato questo nome, signore, - rispose la cameriera, squadrando il marinaio. - Eh, via! Non vi burlate d'un disgraziato, che ha tanto sofferto e pianto per voi, mia buona Nelly. - Che cosa mi venite a raccontare, signore? - Storie vere che sir William Mac Lellan potrebbe confermarvi, - disse il bretone con un sorriso malizioso. La cameriera era diventata pallidissima. - Mac Lellan, avete detto? - esclamò indietreggiando. - Ah, ecco, la memoria vi torna! La cameriera additò all'assiano la porta, dicendo poi: - Ora mi ricordo, lasciateci soli, Hulrìk. Attese che i passi del tedesco si fossero allontanati, poi si avvicinò vivacemente al mastro, afferrandolo per le braccia e scuotendolo. - Ripetetemi quel nome! - disse. - Sir William Mac Lellan, capitano della Tuonante. Sono miss, il suo mastro, e sono qui per ordine suo - rispose il bretone. - Dov'è il baronetto? - Più vicino di quello che crediate, miss. - Qui in Boston? È impossibile! - Per il borgo di Batz! Se ci sono venuto, io, che non lo lascio mai, ci dev'essere anche lui. Dubitereste di me? - È qui? - Proprio qui no; ma poco lontano. Volete avvertire la vostra signora? - Sì, sì, subito. La cameriera scomparve e cinque secondi dopo rientrava, dicendo: - Venite, marinaio: Mary di Wentwort vi aspetta.

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 6 occorrenze

Un po' più abbasso e forse la macchina sarebbe stata fracassata. - In alto! In alto! - aveva gridato il capitano, slanciandosi verso il macchinista. Rokoff e Fedoro avevano staccato rapidamente due fucili che si trovavano sospesi alla balaustrata armandoli precipitosamente. In quell'istante un secondo sparo rimbombava all'estremità del bastione, dietro un terrapieno. Altri soldati, dei manciù, avevano smascherato un secondo pezzo e credendo in buona fede d'aver a che fare con qualche mostro, avevano fatto fuoco. Un momento dopo l'ala di babordo, troncata a metà, quasi nel centro dell'armatura, si ripiegava bruscamente, spostando il fuso. Il capitano aveva mandato un grido di furore. - Canaglie! Ci rovinano! Rokoff e Fedoro avevano risposto con due colpi di fucile, abbattendo uno degli artiglieri. Gli altri, vedendo cadere il loro compagno, si erano precipitati all'impazzata verso una casamatta, abbandonando il pezzo. Fortunatamente, anche i manciù che si trovavano all'opposta estremità del bastione, ne avevano seguito l'esempio, rifugiandosi entro il fortino. - Signore! - gridò Rokoff. - Cadiamo? - No, - rispose il capitano, che aveva ricuperato prontamente il suo sangue freddo. - I piani inclinati ci sostengono e pel momento non v'è alcun pericolo. È un'avaria che ripareremo. Il fuso infatti si manteneva all'altezza primitiva, però aveva rallentato la sua corsa e si era inclinato verso l'ala ferita. Le eliche orizzontali e quella di rimorchio funzionavano con velocità vertiginosa sostenendo l'apparecchio, ma le ali non agivano più, per non guastare interamente quella che era stata colpita dal proiettile. - Resisteremo? - chiese Rokoff che s'aspettava di vedere, da un momento all'altro, lo "Sparviero" precipitare nelle acque profonde e vorticose del fiume. - Sì, - rispose il capitano che cercava di dare alle eliche la maggior rapidità possibile. - Non approdiamo? - chiese Fedoro. - La riva destra è vicina. - Non ho alcun desiderio di farmi assassinare dai manciù! Se ci vedessero scendere qui verrebbero a scovarci. Bisogna che ci allontaniamo fino a trovare qualche isola o qualche sponda deserta. - E se cadiamo prima di giungervi? - chiese Rokoff, che non si sentiva affatto tranquillo. - Il vento che soffia dietro di noi ci porta e agisce a meraviglia sui piani inclinati. Guardate: non discendiamo nemmeno d'un centimetro. - Maledetti cinesi! ... - Ci hanno scambiato per demoni. - E l'ala? - L'accomoderemo - rispose il capitano. - Non si tratta che di fare una solida saldatura e una rilegatura all'asta, e io, in previsione di possibili accidenti, ho portato con me tutto il necessario per le riparazioni. Il mio macchinista s'incaricherà di guarire la nostra povera ala. Si vede ancora il fortino? - No, signore, è nascosto da una curva del fiume - rispose Fedoro. - E io scorgo dinanzi a due o tre miglia di distanza, un'isola che fa per noi. Sono deserte le rive? - Non vedo che boschi di pini e canneti. - Speriamo di calare inosservati. Lo "Sparviero", sempre sorretto dai suoi piani inclinati e rimorchiato dall'elica prodiera, s'avanzava lentamente sull'Hoang-ho, spinto anche dal vento che era, fortunatamente, favorevolissimo. Era però sempre un po' sbandato dal lato dell'ala spezzata, tuttavia pareva evitato il pericolo d'un capitombolo improvviso. L'isola ingrandiva a vista d'occhio. Era un bel pezzo di terra, di forma allungata, situato proprio in mezzo al fiume, in un punto dove questo aveva una larghezza di oltre due chilometri. Folti canneti circondavano l'isolotto e sulle rive crescevano numerose piante, per la maggior parte pini, querce e giuggioli. Numerosi uccelli acquatici, gru, oche, schiavi d'acqua, alcedi e marangoni svolazzavano in mezzo ai canneti, formando, colle loro grida rauche, un baccano assordante. - Bell'isolotto, - disse Rokoff che lo guardava attentamente. - E non vi è alcun abitante - disse Fedoro. - Ne prenderemo possesso senza contrasti e spiegheremo la bandiera dello "Sparviero", se ne ha una. - L'ha, ma non si espone, almeno per ora - disse il capitano che lo aveva udito. - Ehi, macchinista, rallenta e lasciamoci cadere dolcemente. I piani inclinati basteranno. L'isola, che aveva un circuito d'oltre un miglio, si prestava magnificamente alla discesa dello "Sparviero" poiché, mentre le rive erano coperte di folti alberi, l'interno invece era solamente ingombro di sterpi e di piccoli cespugli. Arrestato il movimento turbinoso delle tre eliche, l'aerotreno che aveva già raggiunto la punta estrema dell'isolotto, cominciò ad abbassarsi lentamente, sorretto dai piani inclinati, i quali agivano come due immensi aquiloni. Passò sopra i primi alberi sfiorandone le cime, poi calò dolcemente proprio in mezzo a quel brano di terra, coricandosi fra i cespugli. Le due ali, con un mezzo giro dell'albero motore, si erano distese orizzontalmente, in modo da rimanere perfettamente nascoste a qualunque navigante che scendesse o salisse il fiume. - Che cosa ne dite di questa discesa? - chiese il capitano con voce assai lieta. - Che non poteva riuscire migliore - rispose Rokoff. - Potete andare superbo della vostra macchina, signore. Eppure io avrei giurato che saremmo precipitati in mezzo al fiume. - Sì, se il mio "Sparviero" non fosse stato munito dei suoi piani inclinati - disse il capitano. - Andiamo a vedere l'avaria prodotta da quella maledetta palla. Sbarcarono balzando fra gli sterpi, sotto i quali si udivano pigolare numerosi uccelli e si vedevano fuggire bande di piccoli rosicchianti, ed esaminarono l'ala. Il proiettile aveva spezzato nettamente l'asta principale, a circa metà altezza, asportandone un pezzo lungo trenta centimetri e forando la seta, sicché le nervature superiori, non più sorrette, si erano ripiegate. Era una mutilazione grave, ma non irreparabile. - Quanto tempo ti è necessario? - chiese il capitano al macchinista. - Non meno di dodici ore - disse l'interrogato. - Rispondi della saldatura? - Sarete soddisfatto. Abbiamo una buona scorta d'aste d'alluminio e la fucina. - Ti possiamo essere utili? - Farò tutto da me. - Portami dei fucili da caccia. Poi volgendosi verso Rokoff e Fedoro, disse: - Signori, facciamo una battuta fra i canneti della nostra possessione. Un po' di carne fresca spero che l'accoglierete bene. I fagiani dorati e argentati non devono mancare fra questi cespugli. - Una passeggiata la faccio volentieri - rispose Rokoff. - E poi mi preme di sapere se i manciù del fortino sono rimasti sui loro bastioni. - Temete che vengano a disturbarci? Non credo che ci abbiano veduti calare su questo isolotto. - Non abbiamo percorso molte miglia, capitano. - Una mezza dozzina. - Siamo ancora troppo vicini. - Li consiglierei a non venire qui - disse il capitano. - Abbiamo una mitragliera che tira stupendamente. Signori, in caccia!

L'irbis stette qualche po' immobile, continuando a brontolare, poi con un balzo di fianco si avventò verso la balaustrata, aggrappandosi ai ferri e guardando abbasso. Per un momento i quattro aeronauti credettero che si slanciasse nel vuoto; la loro speranza però ebbe la durata di pochi secondi. La fiera, spaventata dall'abisso che le si apriva dinanzi, si era lasciata ricadere sul ponte. Tremava, come se avesse la febbre e gettava all'intorno sguardi smarriti, nei quali però balenava sempre un lampo di ferocia. Ricominciò a retrocedere verso la prora, guatando cupamente gli aeronauti che non osavano ancora muoversi e si rannicchiò dietro una cassa, manifestando la sua rabbia con frequenti brontolii e con un incessante agitare della coda. - La macchina è libera - disse Rokoff. - Approfittiamone. - Lasciate fare a me - rispose il capitano. - Voi non muovetevi. - Non vi assalirà? - Può darsi. - Allora signore vi domando il permesso di affrontare io il pericolo. Voi siete il capitano e dovete essere l'ultimo a esporre la vostra vita. - Ma anch'io reclamo l'onore di farmi divorare per salvare voi - disse Fedoro. - Né l'uno né l'altro - rispose il comandante. - D'altronde voi non sapete maneggiare la macchina. Vedendo poi che il russo ed il cosacco aprivano le labbra per replicare, aggiunse con voce quasi dura: - Basta, signori. Mi rincresce ricordarvi che il capitano sono io e che perciò voi mi dovete obbedienza assoluta. Poi con un sangue freddo ed un'audacia ammirabile, s'avanzò verso la macchina, dardeggiando sulla fiera uno sguardo che pareva di sfida. L'irbis non si era mosso; solamente le sue poderose unghie si erano infisse profondamente sulla cassa, sgretolando il legno. Il capitano fece agire la leva, poi retrocesse tranquillamente, senza staccare i suoi occhi dal feroce avversario. - Ecco fatto - disse con una voce perfettamente tranquilla. - Fra cinque minuti saremo a terra. Lo "Sparviero" cominciava infatti a discendere. Il movimento delle eliche era stato arrestato e le ali non battevano più che leggermente. - Dove cadremo? - chiese Rokoff. Il capitano si curvò sulla balaustrata. La collina era stata attraversata e l'aerotreno scendeva sul deserto che in quel luogo era coperto da un lieve strato di neve già indurita dal gelido vento del settentrione. - Tutto va bene - disse. - Tenetevi pronti ad afferrare le carabine, appena il leopardo ci lascerà. Lo "Sparviero", sorretto solamente dai piani inclinati, continuava ad abbassarsi dolcemente. L'irbis sempre più spaventato dalle ondulazioni che subiva il fuso, continuava a brontolare e a dare segni d'inquietudine. S'alzava sulle zampe posteriori fiutando rumorosamente l'aria e girava continuamente la testa in tutti i sensi. A un tratto avvenne un urto: lo "Sparviero" aveva toccato terra. - Attenzione! - gridò il capitano. Il leopardo con un salto immenso aveva varcata la balaustrata precipitandosi sulla neve. Stette un momento immobile, stupito forse di trovarsi a terra, poi spiccò tre o quattro salti dirigendosi verso un gruppetto di betulle nane. Il capitano, Rokoff e Fedoro si erano precipitati sulle carabine. - Fuoco! ... Tre spari rimbombarono formando quasi una sola detonazione. Il leopardo che si trovava a solo cento passi dal fuso, si rizzò di colpo mandando un urlo prolungato, girò due volte su se stesso, poi cadde in mezzo alla neve, agitando pazzamente le zampe. Quasi nel medesimo istante si udirono dei clamori selvaggi, poi degli spari. - Mille folgori! - esclamò Rokoff. - Che cosa succede ancora? - I mongoli! - gridò il capitano. - Su, alziamoci! - E il leopardo? - Lo lasceremo a quei banditi; ci manca il tempo di raccoglierlo. Presto: grandina e s'avanzano al galoppo. Un istante dopo lo "Sparviero" s'alzava maestosamente, salutato da una scarica di fucili.

Le vedremo più abbasso, nelle pianure dell'Assam e del Bengala. Poco convinto che quel ramo si fosse spezzato da sé, Rokoff s'alzò guardando fra il fogliame del nim, senza riuscire a scorgere alcunché di sospetto. - Non sta lassù la selvaggina - disse il capitano, che si era pure alzato. - Udite le foglie scrosciare? Qualcuno si avvicina. Un urlio assordante, un misto di ululati e di latrati echeggiò in quel momento a breve distanza, nel mezzo d'una massa di cespugli che dovevano coprire le rive del torrentello. - Chi sono questi concertisti scordati? - chiese Rokoff. - Non fate fuoco - disse il capitano, fermandogli il braccio e abbassandogli l'arma. - Non valgono una palla e poi non ci conviene spaventare la selvaggina. - Pare che l'abbiano con noi. - Ci hanno fiutati. - Che cosa sono? Sciacalli forse? - No, dei bighana, ossia dei lupi indiani un po' più piccoli di quelli siberiani e dei russi, tuttavia assai coraggiosi. - Che vengano a seccarci? - Non lo credo. Siamo in due e non oseranno farsi innanzi. Sarei però ben contento di fucilarli. Questi bricconi terranno lontana la selvaggina. - Facciamo una scarica. - No, signor Rokoff, aspettiamo e ... Un altro ramo era in quel momento caduto, colpendolo sulla testa. - Diavolo - esclamò. - Prima uno a voi, ora uno a me! - Vi dico, capitano, che lassù vi è qualcuno che si diverte a bombardarci. Guardate: anche questo ramo è verde ed è stato appena spezzato perché è ancora bagnato di linfa. - Chi può essersi rifugiato lassù? - Qualche tigre? - Non si arrampicano sugli alberi, signor Rokoff, e poi qui non ve ne sono, trovandoci noi ancora troppo alti. - E quei lupi che pare si avanzino minacciosi? Stiamo per venire presi fra due fuochi? - Signor Rokoff, che lassù si celino quegli zamponi che tanto vi piacciono? - Qualche orso? - I labiati e anche i panda si arrampicano al pari dei gatti. - E sono pericolosi? - I primi sì. Assaliti si difendono e strappano gli occhi ai cacciatori. - Ci tengo a non perdere i miei. Se lasciassimo questi cespugli? - Se voi ci tenete ai vostri occhi, io non ho alcun desiderio di perdere le mie gambe o per lo meno di lasciare i polpacci fra i denti dei bighana. A giudicare dalle loro urla, devono essere straordinariamente cresciuti di numero. Vedo dappertutto brillare i loro occhi. - Allora quegli animali sono pericolosi. - Più degli orsi, in questo momento. Ci hanno circondati e non mi pare che abbiano l'intenzione di lasciarci, senza aver almeno assaggiato un pezzetto delle nostre gambe. - Proviamo a respingerli - disse Rokoff. - E l'orso? - Non lo vedo scendere. - Una scarica a destra e una a sinistra. I due cacciatori si fecero largo fra i cespugli, per giudicare prima la loro situazione. Entrambi non poterono reprimere una smorfia di malcontento. I bighana a poco a poco li avevano circondati e si erano radunati in numero tale da temere un furioso assalto. Se ne vedevano dappertutto e s'avanzavano lentamente e incessantemente, stringendo i loro ranghi. Come il capitano aveva detto, i lupi indiani, quando si trovano in buon numero, sono coraggiosi, anzi non la cedono, per audacia, ai grossi lupi delle steppe e della Siberia. Somigliano ai loro congeneri del settentrione, sono invece più piccoli, non essendo più alti di sessanta centimetri, né più lunghi di ottanta o novanta. Hanno il pelame rossiccio o grigiastro, colle parti inferiori bianco sporco. Ordinariamente vivono in piccoli branchi di sette od otto individui; sovente si radunano in grosse bande e allora diventano il terrore dei pastori e dei villaggi montanini. Intelligenti, velocissimi, coraggiosi, si precipitano sui montoni e sui buoi senza spaventarsi delle grida dei mandriani e osano perfino entrare, in pieno giorno, nelle borgate per rapire i bambini sotto gli occhi dei genitori. Il capitano, che li conosceva, vedendoli in così grosso numero, era diventato inquieto. - Non credevo che in così poco tempo si fossero radunati in tanti - disse a Rokoff. - Il pericolo maggiore non sta alle nostre spalle, bensì dinanzi a noi. - Cerchiamo un rifugio - disse Rokoff. - E dove? - Arrampichiamoci sul nim. - E avremo da fare i conti coll'orso. - Non sappiamo ancora se lassù si trovi veramente un tale animale. - Questo è vero - rispose il capitano. - Dei due mali, scegliamo il minore. - Proviamo prima a fucilare questi audaci predoni. - Sono pronto, capitano. Le due carabine tuonano quasi contemporaneamente con un rimbombo assordante, coprendo le urla acute dei bighana. I grossi proiettili atterrano due file di animali. Gli altri indietreggiano vivamente, balzando attraverso i cespugli e s'arrestano cinquanta passi più lontano, riprendendo con maggior lena il loro scordato concerto. - Non ci lasceranno - disse il capitano. - Vedete l'animale scendere il nim? - No - rispose Rokoffi. - Ho invece ricevuto un altro ramo sul viso e più grosso degli altri. - Mettiamo in salvo le gambe; ecco i bighana che tornano a restringere le file e che si preparano per un assalto generale. Caricate la carabina. - È già pronta. - Salite, mentre io faccio una nuova scarica. Il cosacco si gettò a bandoliera l'express, s'aggrappò al tronco e aiutandosi con delle piante parassite che lo avvolgevano, si mise a salire, tenendo gli sguardi volti in alto per paura di vedersi rovinare addosso l'animale. Il capitano, fatto una nuova scarica, si era affrettato a raggiungerlo. I lupi, furiosi di vedersi sfuggire la preda, si erano subito scagliati contro il tronco del nim, ululando ferocemente e spiccando salti colla speranza di raggiungerli. Erano quattro o cinque dozzine, numero più che sufficiente per mettere a mal partito due uomini, anche se formidabilmente armati. Rokoff e il capitano, ormai al sicuro, salivano con precauzione, guardando sempre in alto. Un animale che non riuscivano ancora a distinguere in causa della foltezza del fogliame, si agitava fra i rami, scuotendoli vigorosamente e facendone cadere parecchi. Si erano elevati d'una decina di metri, quando Rokoff, che distava pochi passi dalla prima biforcazione della pianta, si fermò, dicendo: - La bestia che sta lassù, mi pare molto grossa, capitano. - Che cosa vi sembra? - Un'enorme scimmia. - Questo non è il paese dei gorilla e nemmeno dei mias, signor Rokoff - rispose il capitano. - Sono convinto che si tratti d'un orso. - Se ci piomba addosso ci getterà giù e allora verremo alle prese coi bighana, se non ci romperemo il collo o le gambe. - Non potete far fuoco? - È impossibile, capitano, non vi sono più piante parassite a cui aggrapparmi e il tronco è così liscio che è un vero miracolo che ci possiamo sorreggere con ambo le mani. - Che cosa fa quell'animale? - Scuote i rami e grugnisce come un porco. - Potete raggiungere la biforcazione? - Mi ci proverò, ma ... se quell'animalaccio scende? - Non affrontatelo; piuttosto ridiscendete. Se è grosso deve essere un labiato e non già un panda. - Bella posizione! - borbottò Rokoff. - Abbasso i cani che non attendono altro che di rosicchiarci le gambe e sulla testa quattro zampe armate d'unghie. Siamo fra Scilla e Cariddi. - Orsù, signor Rokoff, decidetevi. Non ho più forze per sorreggermi - disse il capitano. - Giacché non vi è scampo né da una parte né dall'altra, affrontiamo il nemico che può fornirci degli zamponi. Il cosacco si assicurò la carabina onde non gli sfuggisse dalla spalla, si mise fra i denti il coltello da caccia e riprese la salita, la quale diventava sempre più difficile, non essendovi più piante arrampicanti ed essendo il tronco ancora più grosso da non poterlo abbracciare interamente. Sotto, i lupi indiani continuavano a ululare e a saltare come se fossero impazziti; sopra, l'orso, ammesso che fosse tale, continuava a scuotere furiosamente i rami, minacciando a ogni istante di lasciarsi scivolare lungo il tronco e di travolgere i due cacciatori. Rokoff, che faticava assai a tenersi stretto, con un supremo sforzo riuscì a raggiungere la biforcazione dei rami. Stava per mettersi a cavalcioni e aiutare il capitano, quando si vide precipitare addosso l'animale, il quale, fino allora, si era tenuto aggrappato a un grosso ramo trasversale, situato due metri più sopra. Come il capitano aveva supposto, si trattava veramente d'un orso della specie dei labiati, chiamati dagl'indiani adamsad, molto comuni sulle catene dell'Himalaya e anche nelle foreste del Nepal. Quantunque appartengano alla medesima razza degli altri plantigradi, sono diversi nelle forme e nelle abitudini. Hanno il corpo più corto e più massiccio, le zampe assai basse, armate di robuste unghie ricurve; muso molto sporgente che finisce in una punta tronca, pelame lunghissimo, nero sul dorso, grigio sulla testa, con qualche macchia gialla e una lunga criniera che finisce in due lunghi ciuffi, che danno a quegli animali uno strano aspetto. A prima vista, sembrerebbero gobbi. Abilissimi arrampicatori, si può dire che vivono più sugli alberi che in terra, nutrendosi quasi esclusivamente di frutta. Amano però anche le alte rupi e se sono inseguiti non esitano a slanciarsi negli abissi, nascondendo la testa fra le zampe e cavandosela senza troppi guasti. L'animale che stava per assalire il cosacco, era grosso e pesante almeno un quintale e mezzo, un nemico certo pericoloso, che poteva abbattere i due uomini. Vedendolo avanzarsi, Rokoff aveva afferrato precipitosamente la carabina, mentre gridava al capitano: - Aggrappatevi ai miei piedi! Resisterò meglio! L'orso scese rapidamente il ramo, mise le zampe posteriori sulla biforcazione e s'alzò brancolando con quelle anteriori, armate di lunghi artigli. - Fuoco! Fate fuoco! - gridò il capitano. Rokoff aveva puntato la carabina, sparando precipitosamente, quasi senza mirare. Non ebbe il tempo di constatare gli effetti della scarica, perché si sentì afferrare strettamente da due zampacce e scuotere a destra e a manca, mentre si sentiva soffiare in viso un alito caldo e fetente. Credeva di sentirsi già dilaniare le carni o scaraventare nel vuoto da un'altezza di cinquanta piedi, quando una seconda detonazione rimbombò. Era stata sparata così da vicino, che per un momento si credette accecato dalla polvere. Il capitano, comprendendo che il cosacco stava per venire oppresso e che non doveva aver colpito la belva, tenendosi con una mano, coll'altra aveva scaricato la carabina. Il labiato aveva mandato un urlo di dolore, poi aveva lasciato il cosacco, arrampicandosi su pel tronco e rifugiandosi sui rami. - Colpito! - gridò Rokoff, allungando le braccia verso il capitano, il quale si era lasciato sfuggire di mano la carabina, pel contraccolpo della grossa carica di polvere che per poco non l'aveva gettato giù. - Ma è ancora vivo - rispose il comandante. - L'avete colpito, voi? - Lo credo. - E io l'ho solamente ferito. - Forse gravemente. Guardate, mi gocciola addosso del sangue. - Morisse almeno dissanguato! - esclamò il capitano, mettendosi a cavalcioni del ramo. - Sapete che vi credevo già perduto? - Ancora un momento e venivo gettato giù. - Vi ha piantato le unghie nelle spalle? - Non ne ha avuto il tempo; ha lacerato solamente la mia casacca. - E la mia carabina è caduta! - Ne abbiamo ancora una - disse Rokoff. - Io non l'ho abbandonata e ci servirà per finire quel dannato orso. - E perdereste gli zamponi. - Perché, capitano? - I bighana ve li mangerebbero. - E durerà molto questo assedio? - Fino all'alba, se i nostri compagni non vengono a liberarci - disse il capitano. - Quei lupi non torneranno alle loro tane prima che spunti il sole. - Brutta prospettiva. Che non vengano Fedoro e gli altri? Abbiamo già sparato cinque colpi di carabina e devono averli uditi. - Diranno che noi abbiamo fatto buona caccia e non si muoveranno, signor Rokoff. - Fuciliamo i lupi. - Abbiamo una carabina troppo grossa per ottenere buoni risultati - rispose il capitano. - Queste armi sono buone contro le tigri e i rinoceronti. - Non credevo che questa caccia finisse così male! - E come, vi lamentate, incontentabile cacciatore? Siamo qui da sole due ore e abbiamo già ucciso sette od otto lupi e ferito un orso. - E siamo assediati - disse Rokoff. - Sia pure, ma siamo anche completamente al sicuro dalle offese dei nemici. Il labiato non pensa più a discendere per attaccarci e i lupi non possono salire. Che cosa volete di più, signor cosacco? E avete il coraggio di lamentarvi? - Adagio, capitano, colle vostre buone speranze. Vedo invece l'orso agitarsi e l'odo brontolare. - Si lamenta delle ferite. - E se invece scendesse? - Allora perderete gli zamponi perché sarete costretto a fucilarlo e gettarlo a pasto dei lupi - disse il capitano. - Preferisco che rimanga lassù - rispose Rokoff. - Credo che ci tenga anche lui a non esporsi agli assalti dei lupi. Se non fosse ferito, non avrebbe paura ad affrontarli, mentre chissà in quale stato si trova e se le sue zampe sono in grado di distribuire colpi d'artiglio. - Cade sempre il sangue? - Mi piove addosso - rispose Rokoff. - Devo sembrare un macellaio. - Signor Rokoff! - Capitano. - Siete annoiato? - Un pochino. - Allora tirate al bersaglio. Abbiamo ancora centonovantacinque cartucce e i lupi non sono più di cinque o sei dozzine. Se volete, divertitevi, mentre io sorveglierò l'orso. Vi concedo un lupo ogni cinque palle. - Cercherò di ammazzarne invece due su cinque colpi - disse Rokoff, accomodandosi sul ramo, onde tirare con maggior attenzione. I bighana non avevano lasciato la base dell'albero. Continuavano a saltellare, mordendo la corteccia della pianta e strappandola a larghi pezzi coi loro denti acuminati e robusti e ad urlare con tale fracasso da far rintronare la foresta. Di quando in quando alcuni si allontanavano in diverse direzioni e andavano a urlare cinque o seicento passi più lontano, su diversi toni. - Chiamano altri compagni - disse il capitano. - Che sperino di rosicchiare l'albero fino a farlo cadere? - chiese Rokoff. - Non temete; ci vorrebbero delle settimane per atterrare una simile pianta. Signor Rokoff, aspettano i vostri saluti. Il cosacco puntò la carabina mirando in mezzo al gruppo e sparò il primo colpo, facendo cadere due bestie nello stesso momento. - Ho nove palle di vantaggio - disse ridendo. - Continuate - rispose il capitano. - Ah! L'amico che sta lassù comincia ad inquietarsi. Il labiato, udendo quello sparo e vedendo il fumo salire fra il fogliame, aveva ricominciato a dimenarsi, facendo scricchiolare i rami. - Che ci cada addosso? - chiese Rokoff, guardando in alto. - Non sarà così stupido da tentare un simile capitombolo, quantunque abbiano l'abitudine di precipitarsi da altezze considerevoli, allorquando si vedono in pericolo. Se non vi fossero sotto di noi i lupi, chissà, potrebbe tentare un simile salto. - Senza fracassarsi? - Pare che abbiano le ossa molto dure i labiati e posseggano una elasticità incredibile. Signor Rokoff, i lupi aspettano sempre. - Eccomi! Il cosacco aveva ripreso il fuoco. Sparava con calma, mirando attentamente, come se si trovasse in un tiro a segno durante una gara e i lupi cadevano a uno e a due alla volta. Era davvero un valente bersagliere; di rado sbagliava l'animale che aveva scelto. In cinque minuti, undici lupi giacevano attorno all'albero, massacrati dai grossi proiettili della carabina express. - Rimangono ancora cinque dozzine - disse il capitano. - E ne giungono altre due o tre - disse Rokoff, con accento scoraggiato. - Quelli che erano partiti urlando al largo tornano con nuovi rinforzi. - Che questa foresta sia piena di bighana? - Pare che sia così, capitano. E l'orso? - Si è tranquillizzato e non l'odo più muoversi. - Che sia morto? - Sarebbe caduto. - Salutiamo i nuovi arrivati - disse Rokoff. Aveva ripreso il fuoco, mirando in mezzo ai gruppi e senza mai mancare al bersaglio. I bighana però non accennavano a volersi ritirare, quantunque vedessero aumentare i morti. Avevano tuttavia compreso che rimanendo così uniti offrivano un bersaglio troppo facile e si erano dispersi fra i cespugli, senza però allontanarsi troppo dalla pianta. - Il tiro a segno comincia ad andare male - disse Rokoff, dopo aver sprecato cinque o sei palle. - Rimarremo senza cartucce prima di averli distrutti. - Me ne sono accorto - disse il capitano. - Devo continuare? - Sì, signor Rokoff. I nostri compagni, udendo questi continui spari, s'immagineranno che noi corriamo qualche pericolo e verranno di certo in nostro soccorso. Non siamo lontani più d'un chilometro dallo "Sparviero" e le detonazioni giungeranno distinte fino al fuso. Ah! Udite? Uno sparo si era udito in quel momento in direzione del piccolo altipiano. - È uno Snider - disse il capitano. - Signor Rokoff, rispondete. Il cosacco scaricò la carabina facendo cadere un altro lupo. Un istante dopo un altro sparo echeggiava verso lo "Sparviero". - Continuate il fuoco senza interruzione - disse il capitano. - Ormai i nostri compagni hanno compreso che noi abbiamo bisogno d'aiuti. - E non li assaliranno i lupi? - chiese Rokoff. - Ci siamo anche noi, e cinque uomini bene armati possono tener testa a quei piccoli predoni. Rokoff riprese a sparare senza far risparmio di cartucce. Ormai sapeva che gli aiuti stavano per giungere e non si preoccupava di rimanere con sole poche cariche. I lupi dovevano essersi accorti che altri uomini s'avvicinavano, perché alcuni si erano distaccati dal grosso ed erano partiti ululando, in direzione del piccolo altipiano. - Li hanno fiutati - disse il capitano. - Prepariamoci ad appoggiare i compagni. D'un tratto sotto gli alberi si videro balenare dei lampi seguiti da spari. - I Winchesters - disse il capitano. - Buone armi a ripetizione che faranno ballare i bighana! I lupi che assediavano l'albero, udendo quelle detonazioni, erano partiti a corsa disperata, ululando a piena gola. - Scendiamo! - gridò il capitano. Si lasciarono scivolare lungo il tronco, toccando ben presto terra. Il capitano raccolse la sua carabina, l'armò precipitosamente e si slanciò fuori dai cespugli, gridando: - Signor Fedoro! Badate a non fucilarci! Veniamo in vostro aiuto! Vedendo i lupi radunarsi innanzi a una folta macchia, in mezzo alla quale dovevano trovarsi il russo, il macchinista e lo sconosciuto, li presero alle spalle fucilandoli senza misericordia. I bighana, presi fra due fuochi non ressero molto a quella tempesta di palle che li decimava rapidamente. Dopo d'aver cercato di far fronte ai due pericoli, si sbandarono, fuggendo velocemente attraverso la foresta, perseguitati per qualche tratto da Fedoro, dal macchinista e dal loro compagno. Rokoff stava per seguirli, quando udì il capitano gridare: - L'orso! Ecco che scende! Il cosacco si era subito arrestato, ricaricando la carabina. Il labiato, approfittando della discesa dei suoi compagni e del combattimento coi lupi, aveva lasciato gli alti rami del nim e si lasciava a sua volta scivolare lungo il tronco, colla speranza di raggiungere inosservato i cespugli e di scomparire entro le folte macchie. Aveva però fatto i conti senza il capitano, il quale, pur facendo fronte ai bighana, non aveva dimenticato quella grossa e succolenta selvaggina. Vedendo i cacciatori tornare, nascose la testa fra le zampe anteriori e si lasciò andare precipitandosi da un'altezza di otto o dieci metri. Piombò in mezzo ai cespugli che schiantò col proprio peso e senza farsi, probabilmente, troppo male, poi si rialzò di scatto e si scagliò contro il capitano, che gli era vicino, cercando di piantargli gli unghioni nel viso. - Badate! - gridò Rokoff, che giungeva di corsa. Il capitano aveva fatto un salto indietro per evitare l'urto e aveva puntato la carabina facendo fuoco quasi a bruciapelo. Quantunque ferito a morte, il labiato non era caduto, anzi si era alzato sulle zampe posteriori facendo un salto innanzi. L'attacco era stato così improvviso e così impetuoso, che il capitano, il quale credeva di averlo fulminato sul colpo, non poté reggere e cadde lungo disteso. Fortunatamente Rokoff era vicino. Si udì un secondo sparo. Il labiato brancolò un istante dimenando disordinatamente le zampe, poi stramazzò mandando un rauco urlo che finì in una specie di sibilo soffocato. - Pare che sia proprio finito questa volta - disse Rokoff. - Tre palle express e quasi non bastavano ancora! ... Che pelle dura hanno questi animali! Fedoro e i suoi compagni, dispersi i lupi, tornavano. - Un orso! - esclamò il russo. - Che ci fornirà degli zamponi deliziosi - rispose Rokoff. - E centocinquanta chilogrammi di carne eccellente - aggiunse il capitano. - Lasciamo i lupi e portiamo questo morto allo "Sparviero". La caccia, come avete veduto, signor Rokoff, non poteva riuscire migliore.

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