Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbassava

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Senso

656385
Boito, Camillo 1 occorrenze

Si metteva a sedere, piantando i gomiti sulla tavola e posando le guance scarne sulle mani stecchite, e abbassava le palpebre come se volesse meditare lungamente su qualche grave sciagura; ma, dopo un minuto, balzava in piedi, andava allo specchio appannato e piccolo che era posto sul cassettone, contemplava la sua triste imagine con lo sguardo stralunato, e vedendosi più giallo del solito (non aveva chiuso occhio in tutta la notte) sentiva un brivido scorrergli dalla testa ai piedi. Allora si tastava il polso e gli pareva di aver la febbre. La finestra era spalancata, ma, benché non fossero ancora le sette della mattina, faceva un caldo d'inferno. Il sole di luglio dardeggiava una luce spietata, che, seguendo in quel momento la direzione della stradicciuola larga un metro o poco più, andava a battere sul lastrico, diventato una striscia di fuoco bianco; sicché, quando l'inquieto giovine s'affacciò alla finestra, gli parve di accecare. A poco a poco, assuefattosi alla luce, fermò lo sguardo all'estremità della calle, sul ponte storto e su quel caro verde dei rii veneziani, che riposa la vista. Gioacchino trovò infatti un istante di requie nel bel colore di smeraldo oscillante. Giù nella calle, all'ombra di una tenda rossa a rappezzi, stava seduto Zaccaria, nella bottega del quale si vedeva un paio di scarpe rotte esposte accanto ad un bacile lustro di rame, tutto figure a sbalzo, simile ai piatti enormi che brillano nel negozio ambulante di Zamaria dalle fritole accanto ad un paio di calzoni rattoppati e ad uno spiedo arrugginito stava una spada ad elsa dorata, eredità d'un consigliere aulico dell'Austria, ed una tabacchiera con certi amorini allegri, miniati un secolo fa da un pittore francese. Gioacchino dal suo quarto piano chiamò: - Zaccaria -. Zaccaria alzò le due punte della barba grigia. Il giovine gli chiese con voce rauca: - C'è stato nessuno? - L'altro si contentò di stringersi nelle spalle, e tornò a guardare per terra. Il giovine, rientrato nella penombra della sua camera, s'era messo a guardare una specie di pesante monile di metallo bianco, largo quattro dita, sul quale stavano incise in carattere gotico le tre lettere F. A. Q. e con una pezzuola lo andava ripulendo. Gli venne una idea, che lo rallegrò: la collana poteva essere d'argento. Si vestì in fretta. Il goletto, i polsini posticci, bianchi di bucato, erano appiccati ad una camicia un po' sudicia; ma il vestito nero pareva nuovo e fatto apposta per il corpo allampanato del nostro Gioacchino. Solo i calzoni leggeri lasciavano sconciamente intravvedere, appena sotto alle ginocchia, le trombe degli stivali. Certo quegli stivali, ereditati da uno zio, erano larghi per le gambe magre, e nei calori dell'estate dovevano dare gran noia. Insomma Gioacchino uscì tenendo in mano il monile, e a cento passi dalla sua casa entrò in una botteguccia piccola, bassa, che aveva nella vetrina qualche orologio d'ottone, qualche enorme cipolla d'argento, cinque o sei catenelle d'acciaio e alcune paia di orecchini d'oro sospetto. Mettendo il piede sulla soglia non ci vide più nulla: bujo pesto. Ma un po' alla volta cominciò a distinguere le cose. In un angolo, dove entrava un tantino di luce di riflesso pallida, stava un vecchio con gli occhiali sul naso, che guardava, attraverso ad una lente grossissima, la carcassa di un orologio sconquassato. - Oh, signor Gioacchino! È un pezzo che non la si vede. C'è qualcosa da comprare? - No, ho bisogno di un favore. - Eccomi pronto, purché non sieno denari. Potrebbero strapparmi sette denti, come per cavar soldi fece a un ebreo quel re d'Inghilterra, e all'ottavo non troverei una lira. È vero che non ne ho sette tra tutte due le mascelle; e d'altra parte lei, signor Gioacchino, n'ha tanti da prestarne a tutti, e denti e quattrini. In che cosa posso servirla? - Veda questa roba. Il vecchio diede un'occhiata all'oggetto di metallo, e disse tosto: - È argento, argento massiccio e puro. - Quanto potrebbe valere? - Lo vuol vendere? - No, glie l'ho detto. - Allora pesiamo. Trenta lire, piuttosto meno che più. L'ha trovato, questo collare? - Sì. Pensavo bene io che non fosse il collare d'un suo cane. I cani - e guardava sardonicamente agli spropositati stivaloni del giovinotto - i cani le piacciono poco, mi pare, come alla buon'anima di suo zio. Mentre l'orefice e orologiaio, ridendo a squassi, borbottava queste ultime parole, passava un monello, che gridava con voce argentina: - L'"Adriatico", l'"Adriatico", col gran fatto accaduto ... Gioacchino disse un grazie rapido al vecchio, e corse dietro al monello per comperare il giornale, poi se lo portò su in camera, salendo a tre a tre gli scalini alti delle branche strettissime. Cercò alla fine della terza pagina, e trovò in carattere grosso l'avviso, che tutti i fogli del giorno innanzi avevano già pubblicato: "Chi avesse smarrito un collare da cane con tre iniziali, la prima delle quali F, è pregato di recarsi a ricuperarlo il più presto possibile alla bottega portante l'insegna dello Scudo d'oro in calle della Forca, numero 512. Il collare verrà consegnato sulla indicazione delle altre due lettere, senza esigere nessuna mancia". V'erano tre o quattro errori tipografici; ma, insomma, il testo appariva chiaro. Suonarono le otto. Il giovine tornò ad uscire in gran fretta, spinse forte l'uscio due o tre volte per essere ben certo che fosse serrato, e, passando vicino alla bottega dello Scudo d'oro disse a Zaccaria, il quale stava ancora seduto sotto la tenda rossa: - Siamo intesi: se viene qualcuno a chiedere il collare, mandatelo al cassiere della Banca di Sicurtà commerciale. Va bene? - Ho capito, ho capito. Me la ricantò ieri cento volte la solfa. - Dunque mi fido. E Zaccaria, nell'ombra della calletta angusta, dove il sole non batteva più, mormorò tra i denti, sbirciando Gioacchino, che saliva il ponte quasi di corsa: - È curiosa! Che smania di restituire la roba gli è venuta d'un tratto. Anche questa s'ha da vedere! - Gioacchino dal canto suo pensava: - È d'argento, correranno a pigliarlo. * * * Bisogna sapere che Gioacchino non era punto avaro; ma l'antiquario dello Scudo d'oro non aveva torto: quella smania riesciva stravagante. Il giovine, come vedremo, spendeva tutto quello che guadagnava. La sua camera non si poteva dir sudicia, benché la moglie borbottona di Zaccaria non togliesse la polvere dal cassettone, dallo specchio, dalle quattro scranne, dalla poltrona zoppa e dalla tavola tarlata se non una volta ogni due settimane. Codesti mobili erano assoluta proprietà di Gioacchino, il quale pagava cinque lire al mese la stanza vuota, e dava mensualmente per il servizio della degna sposa di Zaccaria una lira: molto più di quello che si meritasse. Ora mettiamo il mangiare, il vestire, i divertimenti, e giungeremo alle tre lire al giorno, né più né meno. Gioacchino aveva ereditato dallo zio, un sant'uomo, centomila lire o giù di lì, e gli affari della cassa alla Banca di Sicurtà gli avevano dato nell'ultimo bilancio un frutto netto di diecimila lire, che doveva crescere del doppio l'anno seguente; ma questo non era guadagno proprio suo, era guadagno del denaro suo: bisogna distinguere. Gioacchino, fra le altre virtù, aveva quella della modestia: valutava poco l'opera propria; e il lavoro di tredici ore, dalle otto della mattina alle sei e dalle otto della sera alle undici, gli era sembrato, dopo molti e profondi calcoli, degno di tre lire al giorno soltanto. L'entrata dunque e l'uscita si pareggiavano. Anzi, di quando in quando gli veniva il sospetto di essere un cervello sventato; e allora resecava un po' sulle spese, sicché del proprio guadagno effettivo aveva messo da parte un centinaio di lire, più qualche centesimo, destinate in casi straordinarii a certi matti dispendii. Non è male che un giovine previdente si prepari così un fondo di cassa disponibile agli ultimi estremi per una qualche pazzia. Il momento della pazzia, una vera ed improvvisa pazzia, era venuto. Sulle donne Gioacchino aveva delle idee molto sentimentali. Non gli piacevano quelle che si fanno pagare; ma dall'altra parte a quelle che non si fanno pagare non sembra che Gioacchino piacesse troppo. Con le ragazze ci sono gl'impegni e spesso le noie de' fratelli o del padre; quanto alle donne maritate, la moralità sua lo salvava dal pensarvi, e anche un poco la paura dei mariti bisbetici. Così dunque il nostro giovine, con la sua faccia d'un pallore giallastro, gli occhietti bigi, le labbra grosse violacee, il pizzo rado, le guance infossate, la testa quasi pelata, magro come uno stecchino, viveva in una castità molto impaziente. Una sera, alle sei e mezzo, in Merceria di San Salvatore mentre usciva dalla sua Cassa, ecco si imbatte in una fanciulla ammirabile. Alta, snella, con certi occhioni neri da far venire la pelle d'oca, e i capelli corvini, e la carnagione (si vedeva un poco più giù del collo) d'un bruno caldo, infiammato, che sembrava un riflesso d'incendio. Gioacchino sentì nel cuore un gran colpo, e, fatti due passi, voltò la testa. In quel punto voltava il capo anche la bella giovane, saettando con gli occhioni neri. Gioacchino incerto, tremante, quando la ragazza fu lontana ebbe il coraggio di seguirla. Alla svolta di una calle od alla discesa di un ponte, se la perdeva di vista, affrettava il passo, correva; poi, scopertala, si fermava di botto, e s'ella stava un minuto a guardare dinanzi alla mostra d'una bottega, egli andava a rifugiarsi vergognosamente in un sottoportico buio. Si studiava di camminare come se non fosse fatto suo, fischiettando, guardando in aria. Passava dalla paura all'ardire: tre o quattro volte gli venne l'impeto di accostarsi alla fanciulla; faceva due passi, e l'animo gli mancava. Così passarono da San Bartolomeo poi dal ponte dell'Olio poi dalla salizzada di San Giovanni Grisostomo e finalmente dal campo de' Santi Apostoli dove la fanciulla incontrò una vecchia vestita di nero, con il cappellino a fiori color di rosa. Il sole, splendente ancora nella vasta piazza, bruciava. Svoltato l'angolo della calle del Pistor nel ramo delle Zotte in fondo al quale si vedeva brillare il verde dell'acqua e passare il felse di una gondola nera, la fanciulla e la vecchia sparirono. Per farla breve, cinque giorni dopo, la vecchia piccola, grassa, grinzosa, dal cappellino ornato di rose, aveva già con infinite astuzie cavato quaranta lire dal salvadanaio disponibile del nostro giovine cauto. Irene era propriamente la Dea della seduzione. Quando stava ritta il suo mento ovale soverchiava in altezza il cocuzzolo mezzo pelato di Gioacchino, ma si piegava con tanta grazia! Nello slanciarsi, nell'incurvarsi, nell'ondeggiare aveva della pantera; aveva del serpente nell'attorcigliarsi, nell'aggomitolarsi, nello strisciare. E poi era tanto allegra. Il suo labbro superiore rimaneva naturalmente alzato, massime alle estremità in una curva adorabile, che faceva pensare a non so che di canino, e che lasciava sempre vedere i denti bianchissimi. Gl'incisivi dovevano essere arrotati come lame di coltello, ed i canini erano certo puntuti come pugnali. Il riso le stava tanto bene: gli occhi scintillavano e mandava un fremito di gaiezza, che pareva selvaggio. Gioacchino aveva perso la testa. Andava in calle delle Zotte subito dopo il desinare e vi restava fino alle sette e tre quarti, l'ora di tornare alla Cassa. Vi sarebbe andato anche di giorno se avesse potuto scappare, non foss'altro per dieci minuti, dalla Banca di Sicurtà; vi sarebbe tornato la sera tardi, se la fanciulla e la vecchia mamma non glielo avessero proibito, dicendo che andavano sempre a dormire innanzi i polli, e che non intendevano mettere a repentaglio nel vicinato il loro nome di donne oneste. Fatto sta che il settimo giorno, a contare dal primo incontro, la vecchia strappò al giovinotto ancora trentacinque lire. Ma Irene gli voleva tanto bene, gli si buttava addosso con tanto furore, che era un incanto! Aveva anzi il caro costume di morsecchiare; e Gioacchino, la sera, spogliandosi, guardava con infinita compiacenza le lividure delle proprie carni. Un dopo pranzo (si conoscevano da nove giorni) la fanciulla era più gaia e Gioacchino anche più acceso del solito. Irene gridò improvvisamente: - Voglio mostrarti d'un colpo tutto quanto il mio amore - e si avventò contro di lui e, afferrandolo per le spalle, lo girò, e sotto alla nuca gli diede un gran morso con que' suoi denti taglienti e puntuti. - Sangue, sangue! - ripeteva sghignazzando. E Gioacchino, benché gli facesse un poco male, e sopra tutto gli rincrescesse che il goletto e la cravatta avessero ad imbrattarsi, rideva anche lui con quella sua faccia sparuta e squallida, e si asciugava la ferita con la pezzuola. Erano quasi le otto. Uscì felice, toccandosi a brevi intervalli col fazzoletto la nuca, dove le gocce di sangue si rinnovavano ad ogni tratto; ma, poiché il sangue non voleva stagnare, entrò in una farmacia a farsi mettere sulla ferita un pezzetto di cerotto giallo. Di notte sentì un pizzicore, che lo tenne svegliato. La sera seguente Gioacchino spasimava d'amore, benché durante la giornata si fosse sentito in tutte le membra una spossatezza grandissima. All'ora consueta la vecchia lo aspettava sulla porta di strada. Quando Gioacchino la vide bisbigliò: - Ci siamo! - La vecchia infatti lo tirò nella cucina, dove due pentole, un candelotto, cinque o sei tondi e qualche posata arrugginita ornavano la credenza. Principiò le lamentazioni. Irene non ne sapeva nulla, poveretta! ma certi impegni urgentissimi, gli ultimi creditori impertinenti da far tacere; bastavano trenta lire; era tanto buono, tanto gentile; non l'avrebbe seccato mai più, lo giurava sulla immagine di Santa Brigida. Gioacchino teneva duro. Allora la vecchia, piantandosi le mani ai fianchi, smessa la studiata dolcezza del volto grinzoso e la mellifluità della voce fessa, continuò ringhiando. Irene dipendeva da lei; non c'è amore che tenga; gli avrebbe dato un calcio da quella parte, e poi chiusa la porta in faccia in saecula saeculorum , una bella faccia davvero! Se voleva continuare a veder la ragazza doveva contribuire anche lui alle spese di casa; e poi una ragazza tutta per lui, così pura, così innocente; infine si trattava di poche lire; era una spilorceria, una sordidezza; o con chi credeva di aver da fare? le persone si devono apprezzare per quel che meritano, e lei e la figliuola volevano essere tenute in conto di donne dabbene; l'aveva intesa sì o no? Gioacchino diede le ultime venticinque lire. Oramai dei risparmi sull'onorario, che aveva concesso a sé medesimo, gli restava qualche misero soldo; ma il giovine si sentiva tanti bollori addosso, che l'intaccare all'occorrenza d'un altro centinaio di lire le ventimila, che il suo danaro doveva in quell'anno fruttargli, non gli appariva la cosa più atroce di questa terra mortale. Irene stava sdraiata sull'ottomana. Faceva un caldo grave umido, soffocante. Era vestita d'una sottana piuttosto corta e d'un casacchino, dal quale s'erano strappati quasi tutti i bottoni. Gioacchino, vedendola, si rasserenò: i suoi occhietti si spalancarono, il viso smorto pigliò un bel colore rosato. Bisbigliò nell'orecchio della fanciulla la eterna parola: - Mi vuoi bene? L'altra rispose a voce alta, ridendo: - T'adoro. - Ami me solo? Pensi sempre a me? Io, vedi, darei tutto il mio sangue per la mia cara Irene. E le rimproverò dolcemente il morso della sera innanzi, dicendole che ancora la nuca gli pizzicava forte. Aveva messo il capo sulle ginocchia di lei. Immerso in una specie di sopore beato, guardava, senza pensare, alla polvere densa, che da più mesi non era stata disturbata sotto ai pochi mobili sconquassati, alle sporcizie del pavimento, delle quali si sarebbe scandalezzata persino la degna sposa di Zaccaria, ed alle tendine delle finestre rabescate di lordura. Dal canale quasi asciutto saliva un fetore acre. Qualcosa di bianchiccio, di lustro, dietro ad una delle gambette storte dell'armadio, fermò lo sguardo di Gioacchino. - Guarda, che cosa c'è lì sotto? - chiese ad Irene, e senz'aspettar la risposta andò a pigliare l'oggetto. Era un collare col suo fermaglio e le tre lettere F. A. Q. La faccia di Gioacchino diventò livida. - Un cane, c'è stato un cane in questa casa. Rispondi. Irene rideva, mostrando i denti. - C'è stato un cane e ha perduto il collare? Quando? - Ieri mattina. - Ieri? - Sì, ieri; - e la donna ci pensò un attimo, poi soggiunse: - Entrò dall'uscio della scala, che la mamma con questi caldi tiene sempre aperto. Ma io non ho paura dei cani. Anzi guarda - e mostrò alla polpa della gamba destra due ferite vicine, lunghe, parallele, non ancora rimarginate. - È stato il cane? - gridò Gioacchino con gli occhi fuori dalla testa. - Sì, il cane. Non me ne rammentavo quasi più. - E non hai fatto bruciare la piaga? - Fossi matta! Perché mi restasse il segno tutta la vita. - E il cane dov'è? - Lo so io! Non l'avevo mai visto. È scappato, e buon viaggio. - Scappato subito? - Subito, e tanto in furia che pareva arrabbiato. - Arrabbiato, arrabbiato! - e si toccava la morsicatura della nuca, che da un minuto gli bruciava la carne come un tizzone ardente. Mise in tasca il collare e scappò, precipitando giù dalle scale, correndo nelle calli, sui ponti, lungo le fondamenta, dando degli spintoni a tutti quelli che incontrava, finché giunse all'Ospedale maggiore, dove chiese del chirurgo di guardia. Voleva farsi medicare col ferro e col fuoco; ma il chirurgo disse che non si poteva tentare più nulla, giacché la piaga era bell'e cicatrizzata. Del resto, saputo il caso, affermò dottrinariamente che la rabbia non si trasfonde da uomo ad uomo, eccitò Gioacchino a dormire quindi i suoi sonni tranquilli, e gli voltò le spalle. Gioacchino pensava: - Menzogna, inganno pietoso. Voglio sapere la verità ad ogni costo - e nel correre verso casa, passando innanzi alla Farmacia di Santa Fosca, di cui conosceva il principale, vi entrò difilato. Giunto al banco starnutò. L'aria impregnata degli odori di droghe, di olii, di mantecche e di elettuarii, gli punzecchiava le papille del naso. La Farmacia di Santa Fosca è celebre. Delle sue pillole miracolose si occupò più volte niente meno che il Gran Consiglio della Repubblica di Venezia. La sala, piuttosto vasta, appare molto solenne; un resto, perfettamente conservato, dell'arte barocca: grandi armadii tutt'intorno in legno massiccio, a pilastri, a cornicioni, a timpani, con riquadri arzigogolati e volute gobbe; sulla porta di mezzo, in faccia all'ingresso, il busto di un vecchio sapiente, in atto di consultare un librone enorme di farmacopea; sulla porta a destra il busto d'un giovine, che tiene una storta, e sulla porta a sinistra quello di un altro giovine, che pesta nel mortaio; all'alto dei frontespizii certe figure allegoriche di donne sdraiate e dorate; qua e là delfini e caducei. Il soppalco a travi regolari, dipinti in fiorami gialli, non ha una ragnatela; nelle scansie i vetri di maiolica, bianchi con gli ornati di fogliami celesti e le iscrizioni a lettere gotiche nere, i più grossi e panciuti nel palchetto più alto, in mezzo i mezzani e sotto i piccoli, stanno schierati l'uno accanto all'altro con una regolarità, dove s'indovina la mano avvezza agli scrupoli d'oncia. Se la discorrevano insieme nella stanza vicina, intorno alla tavola tonda, quattro medici, mentre, dietro al banco, lo speziale attendeva a pesare e ad incartare non si sa quali polveri bianche. Gioacchino, vergognandosi di parlare di sé, principiò a narrare allo speziale il caso di un amico suo, che era stato morsicato da una donna, la quale alla sua volta era stata morsicata da un cane, probabilmente rabbioso. Nell'andare innanzi, infervoratosi nei particolari della storia, alzò a poco a poco la voce, sicché i medici, dall'uscio aperto, si posero ad ascoltare. Il punto sul quale Gioacchino voleva essere illuminato era questo: - L'idrofobia si può trasmettere dall'uomo all'uomo? - Il farmacista non sapeva che cosa rispondere; ma intanto entrò una vecchietta a chiedere tre once di olio di ricino, e il farmacista, conducendo Gioacchino nella stanza attigua, espose ai medici la domanda di lui, mentre la vecchietta gli tirava la falda dell'abito perché si sbrigasse a darle quel purgante, il quale doveva servire a guarir dalla colica la sua nuora, un bel pezzo di giovinotta, che aveva mangiato, essendo giorno di magro, un subisso di baccalà. I quattro medici, i quali stavano aspettando invano di essere chiamati da qualche cliente, e intanto non sapevano come ingannare il tempo, giudicarono la quistione bella, ma molto intricata. Uno, il più vecchio, si rammentava di avere letto nello "Sperimentale" di un caso d'idrofobia comunicata ad un fanciullo dalla morsicatura di una ragazza, innanzi che le si manifestasse la rabbia. Gioacchino allibì. Vero è che la notizia fu poi smentita nello stesso periodico. Gioacchino respirò. Frattanto il secondo dottore, sbarbato, con i capelli biondi e lunghi e gli occhiali sul naso, era andato a frugare nella libreria, che pigliava tre lati della stanza (la più ricca libreria delle farmacie di Venezia) e ne aveva cavato il fascicolo del giugno 1880 del "Giornale internazionale delle scienze mediche". Interrompendo senz'altro i discorsi dei colleghi si mise a leggere lentamente, gravemente alla pagina 488 questo articoletto: "Sulla trasmissibilità della Rabbia" pel dottor Raynaud. Fino ad ora si teneva per indiscutibile che l'uomo rabido non sia atto a trasmettere ad altri la malattia; oggi pare che tale questione sia entrata in una fase tutt'altro che rassicurante. Da alcune esperienze è lecito dedurre che il virus rabido dell'uomo è contagioso. L'inoculazione fatta nei conigli della saliva o del detrito della glandula salivale di un uomo affetto da rabbia, per morso riportato da animale sospetto, diede luogo ai sintomi rabidi, indi alla morte. Da ciò si deduce la trasmissione della rabbia non solo dall'uomo agli animali, ma eziandio da uomo ad uomo; e, ciò ammesso, si comprende come bisogna guardarsi con scrupolosa attenzione così dai morsi degli infermi affetti da rabbia, come anche dalla loro saliva e dagli oggetti che ne fossero imbrattati, specialmente nel caso che nelle mani esista qualche taglio o scalfittura o piaga". Gioacchino era diventato verde e immobile come un cadavere: soltanto le sue labbra tremavano; ma i medici, incaloriti nella questione, non gli badavano affatto. Uno di essi, il più giovane de' quattro, piccoletto, gobbetto, tutto malizia negli occhi e nella bocca, osservò: - L'articolo non vuol dir nulla. Gli uomini, è vero, somigliano ai conigli nell'animo, ma non si possono confondere con i conigli nel fisico. Io in questa materia la so lunga, pur troppo! La mia tesi di laurea ebbe a tema l'idrofobia: ho dovuto consultare un monte di libri, e sono stato aiutato dal professore Lussana, che ha compiuto delle belle esperienze. Vi ricordate certo di quel povero dottore Agostino Marin, medico condotto di Cervarese Santa Croce, tanto buono, tanto amato da tutti, il quale, morsicato da un cane, sentendosi dopo tre mesi i primi sintomi dell'idrofobia, montò in carrettella e, guidando da sé, si recò all'Ospedale di Padova, dove al medico di guardia disse quietamente: - Vengo a finire qui, per non funestare con l'orrendo spettacolo della mia morte la mia moglie ed i miei figliuoli, che amo tanto -. Morì in fatti qualche giorno appresso; e il Lussana, avendo avuto un poco di sangue di quel disgraziato, lo iniettò nella vena femorale di due cani. Uno de' cani poco dopo morì, l'altro fu ucciso: era stata comunicata a tutti e due la così detta idrofobia lipemaniaca o taciturna. Il medico biondo interruppe: - O dunque, se ai conigli e ai cani, con la saliva e col sangue la rabbia si trasmette, perché non s'ha a trasmettere all'uomo? - Caro dottore, o perché i cavalli, i ciuchi ed i buoi vanno soggetti a malattie diverse da quelle della bestia umana? Non ci sono forse dei veleni che accoppano certi dati animali, non facendo agli altri né caldo né freddo? L'Hertwigx dichiara che solo il quinto degli uomini addentati direttamente da cani idrofobi s'ammala; e il Giraud, il Bezard, il Parvisse, il Gauhier, il Vaughan ... - Basta, per carità! - gridò lo speziale dal suo banco. - ... Il Giraud, il Babington praticarono l'innesto senza ottenere mai ombra d'idrofobia. Nessuno dei coraggiosi dissettori che, studiando i cadaveri di idrofobi, s'erano fatti alle mani o tagli o graffiature, ebbe a soffrire nulla, salvo uno, pare, se si deve credere all'Andry. - La conclusione è questa - notò il medico vecchio - che non sappiamo nulla; ma non vorrei, lo confesso, neanche a ricoprirmi d'oro, sperimentare nella mia carne i denti di un uomo idrofobo. Gioacchino era caduto sopra una seggiola: tendeva l'orecchio, ma non respirava più. Si fece coraggio, e chiese, balbettando, al medico gobbetto, che gli stava accanto: - La rabbia, scusi, negli uomini e nei cani si può sempre riconoscere dalle loro furie, dagli ululati, dalla bava, da qualche altro segno sicuro? Il novello Esculapio, lietissimo di poter sciorinare la sua sapienza, rispose: - No. La rabbia non si manifesta con accessi di furore, anzi è una malattia, a prima giunta, di apparenza benigna; ma fino dal principio la saliva riesce virulenta, cioè contiene il germe inoculabile; ed il cane, o anche l'uomo, senza fallo, è allora più pericoloso per le carezze della sua lingua, che non per la tendenza a mordere. La copia della bava non appare un indizio costante: talvolta la gola resta umida, talvolta secca. In una varietà particolare, che si denomina rabbia muta la mascella inferiore si discosta assai dalla superiore, e si vede sino al fondo la gola nera. Sovente il cane cammina con il passo vacillante, con la coda rilassata, con la testa china e gli occhi spalancati e la lingua pendente fuori della bocca, lunga, azzurrastra. Alza il capo per mordere, e poi subito ripiglia il suo fatale cammino. - E nei rimedii - chiese il medico vecchio, il quale non aveva più voglia di tenere dietro ai progressi dubbiosi della sua scienza - dopo il vano tentativo del curaro, hanno inventato altro? - La tracheotomia - rispose il gobbetto. - La tracheotomia - brontolò con un soffio di voce Gioacchino. - Che cosa è? - È un taglio lungo la trachea - e il medico mostrava la gola più giù del colletto. - Il pathos eminens dell'idrofobia consiste in uno spasmo laringo-faringeo; non potendo dunque respirare di su, si spacca la gola e si respira più sotto. Gioacchino inorridiva, ma il medico, senza guardarlo, continuava: - Vero è che alla stretta dei conti si muore ugualmente, strozzati, epilettici, furiosi, con la bava e il sangue alla bocca, ballando come nel delirium tremens il più orribile e infernale dei can-can. Il dottore biondo, quello con gli occhiali, mentre i colleghi suoi ragionavano, non aveva fatto altro che togliere dalla libreria dei volumi e scartabellarli e ammonticchiarli sulla tavola. Sfogliandone uno, dopo avere scorso una mezza pagina, si pose a ridere, dicendo: - Sentite, amici, niente meno che l' Encyclopêdie , quella del Diderot e del d'Alembert, quella che ha illuminato il mondo. Ecco l'articolo Rage . Rabbia dunque ce n'è di sette sorte: quattro hanno rimedio: per le altre v'ha un riparo soltanto: tuer le chien enragé . E delle medicine questa è amena: "Pigliate il peso di sei scudi di sugo d'assenzio, il peso di due scudi di polvere d'aloe, il peso di due scudi di corno di cervo bruciato, due dramme di agarico e il peso di sei scudi di vino bianco: mêlez le tout ensemble, et les faites avaler ". Qui scoppiò una lunga risata; ma il dottore biondo continuava imperterrito: - Farmaco per impedire che la rabbia si manifesti: "Pigliate del latte di vacca appena munto, mettetegli in fusione della pimpinella selvatica, e fatene bere tutte le mattine per nove giorni". Lo speziale, messo in curiosità dalle risa dei dottori, era andato ad ascoltare. - Ha inteso? - disse a Gioacchino - basta bere per nove mattine il latte con la pimpinella. Ma il quarto medico, il quale non aveva mai aperto bocca, e pareva che sonnecchiasse, si alzò e, preso in disparte Gioacchino, gli bisbigliò con molta solennità in un orecchio: - Lasci sbraitare questi signori. Il fatto è questo, che la trasmissione dell'idrofobia da uomo ad uomo è cosa oramai certissima. Se dunque il cane era idrofobo, l'amico è spacciato. Il punto sta qui: sapere se il cane era idrofobo; e, poiché i cani idrofobi non guariscono mai, sapere se il cane è vivo e sano. Se il suo amico o lei o qualche conoscente avessero bisogno di un medico, eccole il mio biglietto da visita. Gioacchino uscì sbalordito, mezzo tramortito, barcollando sulle magre gambe. Sapere se il cane è vivo! Gioacchino si rammentò del collare che aveva in tasca. Gli venne una grande idea: corse la sera stessa agli uffici de' giornali che si pubblicano la mattina, e la mattina seguente, per tempo, agli uffici de' giornali che si pubblicano la sera; e fece stampare l'avviso che conosciamo. * * * Lo abbiamo lasciato che andava alla sua Cassa, dove giunse in ritardo, ruminando nel cervello cento storie terribili di cani arrabbiati, d'uomini morti negli spasimi più tremendi, quando meno se l'aspettavano, molte settimane, molti mesi, molti anni dopo morsicati. Vivere in tante ambasce! meglio buttarsi subito nel canale con una pietra al collo. E contava i biglietti di banca con la sicurezza meccanica della consuetudine lunga; e pensava intanto al suo povero zio, che, vedendo un cane, allibiva, sgattaiolava lungo i muri, si rannicchiava ne' canti; al suo povero zio, quel sant'uomo, che, dopo avere mangiato pane e cipolle tutta la vita, gli aveva lasciato centomila lire, facendogli giurare solennemente di portare sempre gli stivali sino alle ginocchia, poiché i cani hanno l'usanza di addentare alle polpe. Si presentò allo sportello della Cassa la testa unta di Zaccaria, e in atto di mistero disse: - C'è quel signore. - Chi? - Quello del collare. Gioacchino scattò, e gli passò sulla fronte un lampo di gioia. Il proprietario del collare era un bel giovinotto, alto e robusto, tenente di fanteria marina, il quale, dette le due lettere che l'avviso chiedeva e ringraziato il cassiere, dichiarò di voler pagare, non foss'altro, le spese delle pubblicazioni; ma Gioacchino non rispondeva. Guardava intorno, cercando il cane: - E il cane dov'è? - Il cane è scappato. - Quando? - Ier l'altro. Gioacchino si sentì gelare, e, come parlasse a sé medesimo, con un accento di strazio mortale, bisbigliò: - Il giorno in cui ha morsicato Irene! - Appunto. È un cane mansueto come un agnello; ma non bisogna tirargli le orecchie. Irene gliele tirò, ed egli dentro coi denti nelle polpe. Allora gliene diedi tante e tante, che scappò giù dalle scale, e non l'ho più veduto. Ma tornerà, ne son certo; mi capiterà tra i piedi o al caffè, o in qualche casa dove ho per costume di andare. Non è la prima volta che mi fa questi scherzi. - Era sano? - Come un pesce, ma con questi calori non si sa mai. Gioacchino, alzando gli occhi e guardando il volto rotondo e gioviale del tenente, chiese tremando: - Ella conosce Irene? L'altro si mise a ridere, come se volesse dire: e chi non la conosce? - Scusi, ci andò ier l'altro per caso? - Sono tre mesi che ci vado tre o quattro volte la settimana e le ho condotto quasi tutti gli ufficiali del battaglione. - Irene in calle delle Zotte numero 120, quella ragazza che abita con la madre? - Una bella madre davvero! - Ma insomma, Irene ... ? - Non lo sapeva? Allora soltanto il bel giovine s'avvide che il disgraziato cassiere non si sentiva bene, e, poiché Gioacchino pregava di essere lasciato solo, il tenente, senza darsi la briga di capire codesto imbroglio, se ne andò via, intendendosela con l'antiquario dello Scudo d'oro perché, quando a quel matto del cassiere fosse piaciuto, gli portasse a casa il collare. Zaccaria s'inchinò tanto che toccò quasi il suolo con le due punte della barba grigia. - E mi costa cento lire! - ripeteva Gioacchino, e, mentre contava i danari allo sportello, andava ripensando alla pietra da legarsi al collo e al canale ove affogarsi. Poi esclamava: - Voglio vendicarmi; voglio uccidere la vecchia prima e la giovane poi -. E tremava di paura. Alle sette di sera, senza sapere quel che si facesse, entrò nel chiassuolo delle Zotte. La porta era aperta, salì e sul pianerottolo si fermò un istante: gli pareva di sentirsi strozzare, non poteva più inghiottir la saliva, aveva il granchio alle mani, il cuore con i suoi gran colpi voleva spezzargli il petto. - Ci siamo - pensò - mi restano poche ore di vita -. Mise il piede sulla soglia della camera d'Irene. Irene, sdraiata come al solito sull'ottomana, scherzava con un cane. Gioacchino si voltò per fuggire, ma Irene gli gridò: - Vieni, vieni, guarda com'è grazioso. Poi, parlando al cane: - Non mi morderai più, non è vero? Era il cane che Gioacchino cercava, sano, allegro, saltellante. Gioacchino, trasformato, cavò di tasca il collare e s'avvicinò alla bestia, la quale, sentendo l'odore della roba sua, sbalzò ai piedi del giovinotto, e ballandogli intorno abbaiava di gioia. Gioacchino affibbiò al cane il collare, poi con un ginocchio a terra, si pose ad accarezzare il suo pelo nero, vellutato, morbido; e il cane s'avvoltolava, e con la pancia all'aria dimenava le zampe. Irene rideva a crepapelle. A un tratto Gioacchino s'alzò dignitosamente, e cercando di dare alla sua fisonomia squallida, a' suoi occhietti piccoli e spenti una espressione terribile, disse con la sua voce stridula: - Signora, vi lascio al tenente di fanteria marina ed al suo battaglione; vi lascio al padrone di questa bestia. So tutto, tutto - e s'avviò risoluto all'uscio. L'ilarità di Irene non ebbe più freno; si sganasciava, e, battendo le mani, gridava al cane: - Acchiappa, Budda, acchiappa il ladro, acchiappalo - e incitava il cane col gesto. Budda, ringhiando, corse giù per le scale dietro a Gioacchino; ma questi era stato più lesto e aveva chiuso la porta. La vecchia infame gettò dalla finestra sul cappello del giovine, mentre usciva, una buccia di limone. * * * Il nostro cassiere tornò alla sua vita di prima, regolare e monotona; non s'attentò più di seguire nelle vie le belle brune; si rimise a' risparmii, e comperò un paio di stivaloni nuovi, per proteggere anche le ginocchia.

Racconti 1

662654
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
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Il suo petto si alzava e si abbassava con una respirazione accelerata. Nulla però che accennasse o la sorpresa o lo sdegno. Pareva piuttosto quasi trasfigurata e come raggiante. Il suo volto acceso d'una fiamma leggiera aveva rapidamente acquistato un che di piú diafano meraviglioso. Gli sguardi, il sorriso le spandevano attorno alla fronte ombreggiata dal cappellino un'aureola a dirittura. Non sembrav a piú dessa. Io non mi sarei punto imaginato ch'ella potesse mai divenir bella a quel grado, e il piacere e la meraviglia che ne provavo guardandola mi fecero dimenticare per poco ciò che accadeva fra noi due. Infatti quando corsi a sedermi nuovamente al suo fianco, ero cosí fuor di me da non capire piú né quel che facevo, né dove mi trovavo. Ella prese, alla sua volta, la mia mano, e stringendola forte: - Grazie, Eugenio - esclamò; - grazie! - Né potè piú proseguire. Era troppo commossa Tratteneva a stento i singhiozzi. - Oh sí - continuò dopo essersi alquanto rimessa in calma; - noi siamo avviluppati dal mistero. Non viviamo forse in questo momento fuori del mondo? Non siamo come sopraffatti da una magica potenza che par trasmuti ogni cosa attorno e dentro di noi? ... Eugenio! - indi soggiunse dopo un istante di esitazione - pensi di me quel che lei vuole; mi creda pure una matta, mi creda, che piú? una sciagurata, la quale abbia perduto ogni pudore ... ma io non tacerò per questo, non posso affatto tacere! Io pre sto cieca fede a tutto quello che or ora mi ha detto; non la credo capace di mentire. Un uomo che fingesse avrebbe fatto altrimenti ... Ma sia! E cominci pure col disprezzarmi. Son sicura che alzandosi da questo sedile ella mi avrà piú amore, perché mi avrà piú stima. La sua stima mi è cara. Questo momento, non è vero? È per lei proprio inatteso. Ma io, io l'ho invocato a lungo, l'ho sospirato degli anni, non ho mai disperato che giungesse! Dal giorno che la seppi partito da Firenze, pallido, sofferente , quasi sfinito di forze, da quel giorno fino alla mattina che il vapore mi recò a Siracusa io non sognai altro che la Sicilia, quest'immenso giardino. Quante ore passate ad imaginarmi queste città cosí diverse dalle nostre, la sua casa, la sua famiglia! E, a giorni, come fui felice per la sola illusione di avere, con un miracolo dell'amore, veduto davvero! - Ma scusi, Delfina! - balbettai io, che a quelle parole mi sentivo sconvolgere il senno - Ho io inteso bene? Un miracol dell'amore? Possibile? Dio mio! Possibile? - È una storia breve, trista, semplicissima; ma è tutta la mia vita. Stia dunque a sentire Sono di già cinque anni e par proprio ieri! L'Emilia mi trasse fuori della sala ove era riunita la solita società di casa F***, e mi condusse nel salottino verde facendomi trattenere in mezzo all'uscio. Aspettava lei. Voleva parlarle prima che fosse visto dagli altri. Io ero ritornata in Firenze da fresco Ero stata a Pisa sei mesi col babbo, e però poco o nulla sapevo del loro amore. L'Emilia cominciò, non richiesta, a dirmi ogni cosa, e con un tono cosí ironico e pungente ch'io previdi subito una rottura. Però dal discorso, tutto pieno di pretesti, non ci volle molto a comprendere che il torto stava dalla sua parte. Allora, Eugenio, mi entrò nel cuore una grande pietà di lei! Pensai: chi sa com'egli l'ama? ... E intanto! E insieme alla pietà un sentimento di disprezzo per quella trista ragazza; vergognai di esserle amica. L'Emilia diceva di averle scritto una letteraccia, proprio cosí: ed era ansiosa di sapere in che modo l'avesse lei presa. "Ma insomma - le dissi - tu vuoi romperla ad ogni costo!" "È troppo serio - mi rispose - i mutrioni gli abborrisco" "Questo cuore non ha mai amato! Una simile leggerezza sarebbe inesplicabile. Ha creduto di amare e si è illuso!" pensavo io per vincere la mia stizza. Ma m'ingannavo. Quel cuore calcolava! Suonò il campanello Era lei. Io mi nascosi frettolosa nella stanza appresso e dietro la tappezzeria potei sentir tutto e vedere ... Tremavo, sudavo diaccio. Non mi ero mai trovata a un caso simile. Intesi il suo passo sul tappeto della stanza, poi la sua voce che pronunziava affettuosamente il nome di Emilia ... Ci furono alcuni momenti di silenzio. Indi cominciò tra voi due un dialogo che mi è rimasto impresso nella memoria parola per parola, un dialogo straziante, una vera lotta dell'amore colla freddezza e coll'egoismo, ma d ignitosa e sublime! Quanta passione nelle sue parole! Quanta mestizia nel suono della sua voce commossa! E insieme quanta fierezza nei suoi sguardi e quanta nobile alterezza in tutto il suo contegno! L'Emilia godeva e fremeva. Vedersi vinta nel suo stesso trionfo! Non se la sarebbe aspettata. Già la rottura, dall'indirizzo del ragionamento, si poteva omai dire inevitabile ... Era lo scopo della letteraccia e di quell'abboccamento preparato con arte ... Ma il modo le spiaceva, la contrariava; la si sentiva avvilita. Eugenio! È impossibile far capire ciò che io provai in quegli istanti. Ascoltavo trattenendo il respiro, col cuore che mi batteva violentemente nel petto, come se da quel discorso fosse dipesa la felicità o l'infelicità della mia vita. Vi fu un punto in cui non seppi piú frenarmi di trarre la tappezzeria un pochino da parte per meglio udire non solo, ma anche per vedere. L'Emilia era stesa sulla poltrona, cogli occhi bassi, il viso contratto, e rodeva rabbiosamente la punta del suo collare di merletto ... Ella invece stava in piedi, lí presso, col viso bianco come un cadavere, il capo abbassato e le mani immobili nelle tasche dei pantaloni. Di sotto le sue sopracciglia scappavano certe occhiate che pareva volessero fulminare. Parlava con accento basso, represso, profondo: la voce tremava. Quale scena per me! Non potrò mai dimenticarla. Finalmente ella si scosse, passò una mano fra i capelli e sulla fronte, fece un moto colle spalle e poi disse: "Addio, Emilia! Non ci pensiamo piú!" Ma non si mosse. Attendeva forse una risposta. L'Emilia tacque. Ella, indegnato, voltò allora subito le spalle e andò via di corsa. Io avevo le lagrime agli occhi. Dovetti buttarmi su di una sedia per non cadere a terra ... Mi sentivo mancare "Poverino! - esclamavo; - poverino!" E non sapevo dir altro. Ma quella parola diceva tutto. Quando l'Emilia mi chiamò per rientrare in sala, io non potei trattenermi dal dirle: "Sei stata crudele! Hai commesso una vera indegnità! Mi hai fatto proprio male!" Ritornai a casa come istupidita, e corsi con un pretesto a mettermi subito a letto. Non potei chiuder occhio. L'avevo sempre dinanzi! E dentro le orecchie la sua voce! Era una cosa non mai provata per me. Il giorno appresso stetti sempre attristata, silenziosa, esclamando di quando in quando: "Poverino! Chi sa che farà mai? Come dovrà soffrire a quest'ora! Se potessi consolarlo! Oh, lo farei volentieri!" E mi arrabbiavo di esser donna. Poi stupivo di quel nuovo stato dell'animo mio, e mi chiedevo, spaurita, che voleva egli dire; ma non riuscivo a darmi una risposta, o rispondevo soltanto: "Passerà!" Ma non passava. I giorni si seguirono: il mio turbamento divenne maggiore. Provavo una smania di rivederla, rivederla da lontano, anche senza esser vista da lei ... e quando, tre o quattro giorni dopo, io lo incontrai sui Lungarni, presso al ponte alla Carraia, appoggiato alla spalliera del fiume, cogli occhi fissi sulle acque, mi sentii dare un tuffo al sangue: mi parve di morire, tanta fu la stretta del cuore. Allora cominciò per me un vero martirio senza nome. Che giornate! Che settimane! Che mesi! La sua imagine era diventata una necessità dell'anima mia; non sapevo saziarmi di fissarla e di adorarla. Amai quindi il mio patimento, e mi compiacqui di prolungarlo e di gustarmelo da tutti i lati. Mi pareva, che mattezza! che quel mio affetto cosí segreto, cosí fuori d'ogni speranza dovesse servirle di consolazione, di compenso pel vile tradimento dell'Emilia; e credevo che per cotesto santo fine non avrei mai pati to abbastanza! Era la prima volta, che il cuore mi si apriva alla vita ineffabile dell'amore! Né doveva amare piú mai! Tre mesi dopo ella lasciò Firenze e la Toscana quasi disperato della salute. Il mio dolore fu immenso! L'unico e debole filo di speranza di che osavo talvolta lusingare i miei sogni e i miei delirii, si spezzava ad un tratto. Già tra me e lei, credevo, c'era omai di mezzo l'infinito. Dio mio! E sarei morta senza essere riamata un istante; senza che l'amor mio fosse da lei conosciuto! Potei rassegnarmi anche a questo; e divenni, se era possibile, piú sua; giacché mi strinsi, giurando solennemente, ad un voto : non mi avrebbe avuto alcun altri! Ho mantenuto. Due anni appresso sposai, per crudele necessità di famiglia, un uomo il quale mi amava davvero, piú di quel che non meritassi e mi ama sempre. Sposa fedele, obbediente, servizievole, io non gli ho concesso che il mio corpo. Oh l'anima mia, no, non l'avrà mai! Son io colpevole? Non lo so; non voglio saperlo. Quando anche la fossi? Per me val lo stesso. Già ho tentato di amarlo, ma non ci son potuta riuscire. Tu, Eugenio, sei rimasto nella mia mente come una figura celestiale, bello di giovinezza immortale, s empre lo stesso, sempre l'Eugenio di quella sera fatale, col cuore immeritamente lacerato, coll'anima nobilmente dignitosa sotto un'onta vigliacca, e la tua immagine si scancellerà dal mio petto coll'ultimo respiro della mia vita! Quando mio marito mi annunziò che il suo officio d'ingegnere delle strade ferrate lo chiamava in Sicilia, fui, dalla contentezza, sul punto di ammattire. Mi pareva che la Sicilia fosse come una sola città e che ti avrei infallibilmente riveduto. Ahimè! Messina, Siracusa, Augusta, Catania dove saresti tu mai? Avrei voluto fin morire in Sicilia per rimanerti vicina! Giorni fa, oh! tu non puoi credere che festa fu la mia! E insieme che tormento! "Non mi ha riconosciuta!" dissi all'amica che avevo allato. Ma non voleva dir nulla! Ti avevo trovato! Finalmente! Ed ero decisa a cercarti. Oh non volevo andar via cosí lontano, in Oriente, senza dirti il mio segreto, senza sgravarmi il cuore da un peso affannoso! ... Come sono ora felice! Tu mi dimenticherai presto lo so; ma che m'importa? Mi hai amato un momento, almeno me l'hai detto, e voglio illudermi e credere. Non osavo sperar tanto. Ripetimelo! T'amo anch'io, Eugenio! T'amo! T'amo! Ed ora andiamo via - soggiunse tosto - e si levò da sedere - Delfina! Delfina! - esclamai trattenendola per la mano, né sapendo aggiunger altro - Lasciami! Andiamo! - diss'ella con un accento dolce e quasi di preghiera - Ma quando, ma dove potrò rivederti? - le chiesi allora atterrito - Rivedermi? - fece ella, diventando seria tutto ad un tratto - Rivedermi? Mai piú! Credi che io sia tanto forte da sfidare il pericolo? No, Eugenio. Sono stanca. Lasciami, andiamo per pietà! Non le ritenni piú la mano e il suo braccio cadde come un corpo inerte. La guardai in viso. Un pallore mortale aveva improvvisamente tinto le sue guance e scolorito fin le sue labbra - Tu soffri? - le chiesi piú atterrito di prima - T'amo! - rispose con voce spenta. E si avviò a capo chino Fatti pochi passi, si rivolse verso di me che le tenevo macchinalmente dietro. - Ti chiedo una grazia - disse, sforzandosi ad un sorriso: - mi giuri di accordarmela? - Te lo giuro! - risposi non sospettando nulla di quel che avrebbe richiesto. - Non seguirmi! - Oh! - Hai giurato! - riprese con autorevole dignità - Poi è inutile rivederci! Domani l'altro partirò con mio marito per Costantinopoli, ove la società delle ferrovie lo manda a dirigere e a sorvegliare i lavori. Perché metterci al repentaglio di mutarci in un rimorso questi tristi, ma grandi, ma solenni momenti di gioia? - Scendemmo pei viali, silenziosi come due condannati a morte; io traendo a stento i passi, senza vedere né pensare; Delfina lesta e quasi affrettata. Giungemmo al cancello. - T'amo! - ella mi disse sottovoce come addio, e mi strinse la mano. - T'amo! - risposi. E mi appoggiai ad uno dei candelabri che sono lí innanzi. Si allontanò per la via diritta andando in su, poi torse a destra. E quando vidi sparire dietro la cantonata l'ultimo lembo della sua veste, mi parve che metà della mia vita fuggisse via dietro a lei!

Racconti 3

662736
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Appena la marchesa, col pretesto di un ordine da dare, lo lasciava là, seduto a piè del lettino dove la marchesina era coricata vestita, coperta soltanto fino a metà del corpo con uno scialle, egli abbassava gli occhi e non trovava parole per riprendere la conversazione. - Indovino perché mammà vi ha condotto qui - disse la marchesina, rompendo il lungo intervallo di silenzio, quasi impietosita dell'imbarazzo del prete. - Che cosa vogliono da me? - Quel che una figlia rispettosa e obbediente deve ai suoi genitori. Le parlo da indegno ministro di Dio, da confessore. - Mi vogliono maritare con uno che non conosco neppure di vista. - Pensano all'avvenire di voscenza, alla sua situazione nel mondo. E giacché si sono decisi per questa scelta, vuol dire che vi trovano tutte le eccellenti condizioni morali e materiali degne della loro nobilissima casa. I genitori s'ingannano di rado. - E il mio cuore non conta nulla? - Il suo cuore sarà tutto della persona che avrà la fortuna di sposarla. Voscenza ha l'esempio della mamma, di una santa ... - E se ... Ella s'interruppe, irrigidendosi, facendo un visibile sforzo di contenersi. - So che ha risposto con un rifiuto - disse il prete. - Oh! Una Santacroce non deve avere volontà di fronte ai genitori. Vi sono doveri che s'impongono innanzi tutto quando si occupa, per nascita, una posizione elevata come la sua. Le donne della famiglia Santacroce sono state sempre mirabili modelli su questo punto. La signora marchesina non vorrà dare un gran dispiacere a suo padre ... che ha già impegnata la parola col barone di Pietrerase. Gran signore anche lui, il barone ... Il principe suo fratello non ha figli ... Io le auguro di vederla principessa, un giorno o l'altro. Il titolo toccherebbe di diritto al barone. I Cavanna, dice bene il signor marchese, non possono competere coi Santacroce per nobiltà, ma sono tra le piú illustri e ricche famiglie siciliane. - E se io volessi sposare un altro? - lo interruppe la marchesina sollevandosi sopra un gomito e appoggiando la testa sul palmo della mano. - Mi confido col confessore ... Sono stata di poco coraggio; non ne ho detto niente a mia madre. - Un altro? ... Chi? Giacché mi parla come a confessore ... - Il nome non importa ... per ora. - Se è degno della sua famiglia, il marchese certamente non si opporrà. - Non è nobile, né ricco. - In questo caso ... Una Santacroce non può discendere in basso. Sarebbe un gran dolore pei suoi genitori; sarebbe un fatto senza precedenti in famiglia ... una cosa impossibile! - Rimarrò zitella. - La signora marchesina deve riflettere ... - Ho riflettuto. Non credo che si voglia la mia infelicità. - Se la prepara voscenza stessa, con le proprie mani. Non si ostinerà, oso di lusingarmi. Io, suo confessore, non verrei a consigliarle di sottomettersi, se credessi di fare opera contraria al mio sacro ministero. Non si offenda se immagino che la poca esperienza del mondo, la giovinezza, e, forse, una mal riposta passioncina la illudono in questo momento. - Al confessore si deve dire tutto. Mi sarei confidata con mammà se non sapessi che ella non ha altra volontà all'infuori di quella di mio padre. Ho voluto risparmiarle un dispiacere. Dirò tutto al confessore. Sí, io amo un altro, da due anni, e so di essere amata. Tutti e due abbiamo però compreso le difficoltà che oggi si oppongono alla nostra unione, e ci siamo rassegnati. Se mio padre vorrà disporre di me altrimenti, io forse non resisterò ai suoi ordini, quantunque in questo momento sia già decisa a resistere. Avrà un gran peso su la coscienza mio padre! Quel che farò dopo non so ... - Niente che possa recar disonore alla sua nobile famiglia, ne sono sicuro - la interruppe don Paolo. - Il barone di Pietrerase è un gran signore anche lui; saprà darle tutte le felicità che si possono conseguire in questo mondo ... - Preferirei di essere infelice ma libera di agire a modo mio. - Guardi, marchesina. Crede voscenza che io sia un cattivo prete? Ho i miei difetti ... ma, insomma! ... Ebbene io sono stato fatto prete per forza. Mio padre mi mise il collare da chierico a dieci anni; poi mi mandò in seminario ... E una volta che ebbi l'ardire, prima di prendere gli ordini minori - ero grande e grosso, a diciotto anni - una volta che ebbi l'ardire di dirgli che avrei voluto essere medico, avvocato, agrimensore, o altro ma non sacerdote, mio padre mi schiaffeggiò come un ragazzino, mi saziò di pugni e pedate - era manesco, Dio l'abbia in gloria! - e cosí mi levò di capo ogni voglia di ribellarmi alla sua volontà. Ora dico che fece bene. Sono contento del mio stato; e quando osservo tanti altri che furono in seminario con me, e che buttarono via il collare anche dopo di aver ricevuto gli ordini minori, benedico quegli schiaffi, quei pugni, quelle pedate. - E se suo padre si fosse ingannato? Se lei fosse riuscito un cattivo prete? - Bisogna aver fede in Dio, marchesina! ... Che cosa dovrò dunque riferire alla marchesa? Attende ansiosamente la risposta, povera signora. Forse, se dipendesse da lei ... - Ditele che le chiedo perdono del dispiacere che le faccio, ma che rifiuto, rifiuto ... rifiuto! Mi lascino in pace. Vogliono sbarazzarsi di me? Io non do noia a nessuno in questa casa ... Perché mio padre dovrebbe mantenere la sua parola al barone? ... Poteva darla? - Allora ... - rispose don Paolo, esitando - Allora sarà meglio fare cosí. Dia retta al mio consiglio. Io riferirò al marchese e alla marchesa che voscenza, da figlia buona e obbediente, si sottomette alla loro volontà ... Mi lasci dire. La prima volta che si troverà da solo a solo col barone di Pietrerase - e sarà presto, forse in settimana - abbia il coraggio di dire a lui quel che ha avuto la sincerità di accennare a me. Troverà lui, dovrà trovare lui una soluzione dignitosa per tutti, perché non è possibile che voglia ostinarsi nella sua richiesta dopo quel che lei gli avrà confidato ... Faccia a modo mio ... Dio l'aiuterà ... E in questa maniera ella eviterà a sé e ai suoi genitori gravissimi dispiaceri ... Faccia a modo mio! - La marchesina si era subito pentita di essersi lasciata indurre ad accettare il consiglio del confessore. Avrebbe ella avuto la forza d'animo di aprire il suo cuore a una persona che si sarebbe trovata davanti a lei la prima volta e in un momento che doveva decidere irrimediabilmente del suo avvenire? Si era sentita già condannata vedendo entrare nella camera inaspettatamente il marchese: - Godo che state meglio, marchesina -. La marchesa, che era venuta assieme con lui, non aveva detto nulla; ma gli occhi materni avevano cercato di leggere sul viso della figlia una risposta piú sincera di quella recata da don Paolo Forti. E appena rimasta sola con lei, le domandava: - È vero? ... È vero? - Sí, mammà . - E sei contenta? - Sí, mammà -. La povera signora esitò qualche istante; gli occhi le si empirono di lagrime; ed abbracciò e baciò la figlia; poi, ponendole le mani sul capo, pronunciò commossa: - Dio ti faccia felice! - C'era una gran tristezza in quelle parole. La marchesa, infatti, si era rivista giovane come sua figlia, quando sotto il tormento di una costrinzione per volontà dei parenti, come sua figlia, aveva invidiato la sorte delle piú umili creature che potevano liberamente secondare gli impulsi del loro cuore, e non accusare nessuno della loro infelicità nel caso che il cuore si fosse ingannato. Si era rivista sposa, madre, quasi schiava di un uomo che ella aveva rispettato senza mai poter arrivare ad amarlo; e pensava, tremando, che forse sarebbe accaduto cosí anche a sua figlia, a cui la parola del confessore aveva probabilmente imposto una rassegnazione che le avrebbe contristato tutta la vita. A che insistere intanto per sapere se «era vero»? Se la marchesina si fosse decisa a confidarsi con lei, che cosa avrebbe potuto ella fare per impedire la disgrazia? Dio aveva disposto cosí: i signori dovevano scontare a quel modo la vanità dei titoli delle loro ricchezze, e vedersi invidiati quando avrebbero dovuto essere compatibili! In quei giorni la marchesina parve presa da un furore di musica; il pianoforte tacque soltanto a intervalli. Le melodie piú tristi e piú cupe piansero, ulularono, si lamentarono sommessamente, ripresero a ululare e a piangere nel salottino, quasi la nervosità delle dita della suonatrice partecipasse alle note un'espressione tutta personale da farle diventare pianto, ululo, lamento del suo cuore straziato. Di tratto in tratto, esse venivano improvvisamente interrotte; melodie dolcissime, sognanti, si elevavano allora, sospiravano, simili a invocazioni, simili a richiami, smorivano quasi andassero lontano lontano dove il cuore della sonatrice le inviava; e si sarebbe detto che esse recassero contristanti risposte, se, poco dopo, le desolatissime note riprendevano con impeto, prolungatamente; e il silenzio che seguiva finalmente, per stanchezza, produceva infatti un senso di disperato abbandono alla marchesina proprio come se colui al quale ella inviava, a quel modo, il grido del suo cuore, le avesse risposto: - Non c'è piú speranza! È finita! - E rivedeva, quasi in sogno, l'albergo di Catania dove era andata, pochi mesi dopo di essere uscita dal convento, per assistere la marchesa che doveva subire una difficile operazione chirurgica. Questi stanzoni del vecchio palazzo signorile trasformato in albergo erano severi e malinconici come gli stanzoni del suo palazzo a R***. Un via vai di medici, di chirurgi, di persone di servizio ... Un silenzio greve, un raccoglimento malauguroso, una segregazione ... E al balcone accanto alla sua camera, quel giovane pallido, biondo, malato anche lui, che un giorno aveva ardito di chiederle notizie della signora marchesa che doveva essere operata e della quale tutti nell'albergo s'interessavano. Poi, nelle ore in cui il male concedeva qualche riposo alla sofferente, un piú lungo scambio di parole, e d'intensi sguardi che, dalla parte del giovane, dicevano assai piú che non le parole, anzi quel che esse non osavano di esprimere, ella se n'era subito accorta. - Ora che sua madre sta meglio, lei partirà ... e non la rivedrò piú! Anch'io sto meglio ... È doloroso conoscere una persona e non aver speranza di rivederla piú. - Chi non muore si rivede. - Perché desiderare di rivedersi? È sciocco quel che io dico ... - Ella aveva interrotto la conversazione col pretesto che l'avevano chiamata; ma le era rimasta negli occhi la desolazione di quel viso pallido che già stava per dirle quel che ella aveva indovinato, quel che l'aveva turbata profondamente nei giorni avanti e nelle notti senza sonno, dandole insieme col turbamento una sensazione nuova, un fremito di vita, la sodisfazione ineffabile di un inconsapevole bisogno del suo cuore e della sua giovinezza, una nova coscienza di se stessa. Quante volte non aveva ella evocato questi ricordi nella solitudine della sua camera, e quel che le era accaduto poche ore prima di lasciare l'albergo e ripartire per R***! - Poiché non ci rivedremo piú ... Mi perdoni, non posso fare a meno di dirglielo ... quantunque sia convinto che lei dimenticherà presto le mie parole ... - Ella gli aveva accennato di tacere, tremante di commozione, ma con negli occhi un tal sorriso di felicità da rendere inutile il divieto ... E appena colui avea finito di parlare, uno scoppio era avvenuto nel cuore di lei, uno scoppio che le aveva fatto dimenticare ogni ritegno, che l'aveva violentemente spinta a dire quel ch'ella si era immaginato dovesse restarle sepolto nel profondo petto, come un segreto da portar con sé nella tomba. Poche e semplici parole, ma esaurienti, definitive, chiamandolo per nome, dandogli del tu, quasi per fargli cosí un'affettuosa carezza, per stringere un patto infrangibile, urgente, giacché qualche ora dopo sarebbero stati divisi, ma legati almeno da quel patto, ma sostenuti almeno da un barlume di speranza! - Ti scriverò io; troverò io il modo con cui tu possa farmi pervenire le tue lettere! - E la marchesina era sparita dal balcone, con lo spavento di chi ha commesso un atto di audacia incredibile, e nello stesso tempo con l'intima gioia di aver operato quell'incredibile atto di audacia. Non rileggeva piú le tre lettere da lui ricevute per mezzo di una povera donna che aveva acconsentito, dopo molte preghiere e molte promesse, a ritirarle dalla posta indirizzate al marito. C'era mancato poco che costui non l'avesse picchiata quando avea saputo dell'incarico assunto da sua moglie, per pietà della marchesina, d'impostare cioè le lettere di lei e ritirare quelle dell'«altro» e portargliele a palazzo nelle rare occasioni che vi andava. Quelle lettere ella non le rileggeva piú; già le sapeva a memoria: lettere infiammate, sconsolatissime, nelle quali egli tornava a domandarle perdono di averle svelato il suo amore servito unicamente a renderla infelice, mentre da parte sua non avrebbe mai osato di pensare che la marchesina di Santacroce potesse un giorno abbassare gli occhi fino a lui e concedergli il suo cuore. Per disgrazia, quella povera donna era morta da quattro mesi; e la marchesina non aveva potuto trovar altro mezzo di comunicazione col lontano; che però era stato avvisato della probabilità di una lunga interruzione della loro corrispondenza e incoraggiato a non sospettare di lei. Ella si dichiarava sempre pronta a combattere contro ogni resistenza dei genitori quando il momento opportuno fosse arrivato. Ed ora si lusingava che la disperazione l'avrebbe resa fin temeraria, quantunque la remissione al consiglio del confessore non sembrasse a lei stessa buon indizio, oh, no! Il barone di Pietrerase non era una figura signorile. Aveva qualcosa tra di maggiordomo o di cocchiere di buona famiglia, con la folta chioma spartita da lato e le fedine all'austriaca. All'entrata della marchesa, che teneva ancora per mano la marchesina quasi avesse temuto di vederla tornare addietro attraversando il largo corridoio per recarsi nel salone di ricevimento, egli le aveva fatto un profondo inchino e le aveva baciato la mano; un altro inchino aveva fatto alla marchesina, che rispose abbassando un po' il capo e squadrandolo con rapida occhiata indagatrice. - Cilia , - disse il marchese - il barone di Pietrerase ci ha fatto l'onore di chiedere la vostra mano, ed io e la marchesa siamo stati lieti di fargli sapere che la sua richiesta vi è gradita quanto a noi. - L'onore, marchese, è tutto mio. Ringrazio la marchesina del suo benigno acconsentimento, e voglio credere che ... e voglio augurarmi che ... - Cosí parlando, cercava nelle tasche posteriori dell'abito nero qualche cosa che doveva compire la frase imbarazzata e rimasta interrotta. Ne cavò due astucci di velluto azzurro, e presentandoli alla marchesina, con aria di volgare compiacenza, soggiungeva - E voglio augurarmi che accetterà gentilmente questo piccolo segno di affetto che mio fratello il principe ed io ci permettiamo di offrirle -. La marchesina balbettò qualche parola di ringraziamento intanto che la marchesa, aperti gli astucci, ammirava il regalo e ringraziava da parte sua. - Gioie di famiglia - disse il marchese - e per ciò di maggior valore. È stato delicatissimo pensiero. - Ricordo della principessa mia madre. Il principe mio fratello è dispiacente che uno dei soliti attacchi di podagra a cui va soggetto - fa pena a vederlo soffrire, inchiodato su una poltrona, come l'ho lasciato ieri! - gli abbia impedito di accompagnarmi per conoscere personalmente la futura cognata -. E tutt'a un tratto, mutando tono, aggiungeva: - Bisogna essere allegra in casa mia, cara marchesina! Io sono sempre di buon umore. Bado ai miei affari; non m'impaccio di cose pubbliche; e non amo certi contatti con certa gente venuta su a galla al giorno di oggi. Mio fratello il principe è di parere diverso ... È però appassionato della musica, come voi; so che siete una pianista di prima forza. Mio fratello è bravo suonatore di violoncello; la principessa mia cognata canta discretamente ... Vi troverete in buona compagnia con loro ... Io ... io faccio qualcosa di piú utile; bado agli affari di casa mia, che non sono pochi ... Per la musica ho l'orecchio duro ... Stono terribilmente cantando. Non sembro della razza dei Cavanna che sono stati tutti, chi piú chi meno, musicisti. Non vi dispiacerà. Sono sincero; è meglio farsi conoscere subito per quel che si è. Con me bisogna stare sempre allegri; le barzellette mi piacciono, lecite, s'intende. Non posso patire i collitorti. «Servite Domino in laetitia», come diceva mio zio il vicario capitolare, che non volle esser vescovo per non avere troppi grattacapi. Io rassomiglio a lui ... - Pareva che, preso l'aire, non potesse fermarsi; e parlando, si stropicciava le mani, contento di sé e di quel che diceva. E non si accorgeva dell'impressione di repugnanza e di nausea che la marchesina non riusciva a nascondere, seria, impallidita un po', con le labbra lievemente contratte da un lato, e gli occhi socchiusi. Oh, si sentiva salir dal cuore una forza inattesa! Davanti a quell'uomo ella avrebbe parlato forte, dignitosamente, da vincerlo in pochi istanti, da abbatterne la sciocca vanità. Che confronto con l'«altro», col lontano, con l'amato! Tutta l'anima sua si protendeva verso l'assente, e la persona secondava il moto dell'anima, inchinando il busto, irrigidendo il collo, quasi rapita dalla visione che le sorrideva davanti. Piú tardi, poco prima di andare a pranzo, si erano trovati soli sul terrazzino del salone che guardava verso la cittaduzza sottoposta, gran mucchio di case addossato alla collina, con le punte dei campanili e le cupole delle chiese indorate dagli ultimi raggi del sole prossimo a tramontare. - Bella vista! - egli disse. La marchesina approvò con la testa. Poi cominciò: - Per scrupolo di coscienza e confidando nella vostra generosità ... - Siccome egli aveva fatto un gesto di sorpresa alle prime parole di lei, cosí la marchesina si era arrestata. - Quale scrupolo? - egli fece dopo breve pausa. - Dicono che una Santacroce deve rassegnarsi alla volontà dei parenti; mi sono rassegnata. A voi però, non posso né devo nascondere ... che il mio cuore ... - E si arrestò di nuovo a un piú vivo gesto di sorpresa del barone, che, rizzandosi su la persona, appoggiate le mani sul ferro della ringhiera, la fissava curiosamente, quasi egli non avesse capito bene ... - ... che il mio cuore non è libero, da due anni ... I miei parenti lo ignorano - riprese la marchesina. - Tutte le ragazze, alla vostra età, hanno il segreto di un amoruccio ... senza conseguenze. Grazie della confidenza. Questo intanto non influisce ... Eh, via! Se si dovesse tener conto di simili picciolezze! ... - Picciolezze? Barone, v'ingannate ... - Eh via! Io conosco la vita ... Va bene! ... Non vi affliggete per ciò. Il matrimonio è un'altra cosa. Il matrimonio scancella ben piú che un amoruccio ... di convento, mi figuro. Non c'è da avere scrupoli ... Io conosco la vita! - Dovreste fare un atto degno di voi ... Rinunziare alla mia mano; trovare una scusa, un pretesto qualunque ... - Anzi! Anzi! Questa vostra confessione, mi fa anzi capire che ho scelto bene, molto bene. Un'altra, nel vostro caso, avrebbe taciuto. Inezie! Io mi ritengo un confessore in questo momento; dimenticherò ... Non ne parliamo piú! - Rideva, si stropicciava le mani; e la marchesina lo guardava sbalordita, con un fiotto di sdegno che la soffocava e le strozzava le parole in gola. - Parliamone piuttosto - ella balbettò - mentre siamo in tempo. Ho fatto appello alla vostra lealtà, alla vostra generosità. Io, ve lo dico schiettamente, non potrò esser felice con voi. Voglio risparmiarvi l'umiliazione di un rifiuto; l'accetto, la invoco da voi. Trovate un pretesto qualunque.,. - Ma queste cose si fanno nei romanzi francesi! - egli la interruppe - La gente riderebbe di voi e di me, se mai arrivasse a sapere ... - Nessuno saprà niente. Sarà un segreto tra noi due ... Come potrete sposarmi, ora che conoscete che il mio cuore appartiene a un altro? - Eh, via, marchesina! Parlate sul serio? - Come se fossi in punto di morte! - ella rispose. - Ho detto cosí non perché io dubiti della vostra sincerità, ma perché i vostri scrupoli, scusate, mi sembrano puerili. Voi siete inesperta. Siete vissuta in convento fino a diciotto anni. La vostra casa è peggio di un convento ... Io non sono d'accordo col principe mio fratello, che ... liberaleggia; ma non approvo neppure il marchese vostro padre che si è chiuso in questo palazzo come in una prigione ... Io batto la via di mezzo. In casa mia si prende il mondo com'è; tanto, il mondo va senza di noi; è inutile affannarsi per esso. Dobbiamo badare ai fatti nostri. Chi ha tempo da perdere ... Io non ne ho, e voglio vivere tranquillo, come mio zio il vicario capitolare che rinunziò di esser vescovo ... Vescovo di casa mia, sí ... Ho pensato sempre cosí. Penserete cosí anche voi, perché il matrimonio accomuna ... E gli amorucci ... di convento, svaniscono presto ... Avrete altro a cui badare quando sarete baronessa di Pietrerase! - Ma voi mi giudicate male ... - Vi giudico benissimo. Lasciate fare a me. Se il vostro amoruccio fosse una cosa seria, già sarebbe un matrimonio, o un principio di matrimonio; non avreste avuto ritegno di confessarlo ai vostri parenti ... Uno studentucolo, mi figuro! Ah! Ah! Vi ammiro, per l'ingenuità ... Vapori! Nebbia! Un soffio di vento porta via ogni cosa! E poi, e poi ... farei una bella figura presso il marchese vostro padre e presso la marchesa! E perché? Per una fisima! Se ne aveste parlato a vostra madre, l'avreste veduta sorridere, vi avrebbe risposto come me: Non c'è d'avere scrupoli, figlia mia! ... Zitta! Eccola ... Per me è come se non sapessi niente. E non ve ne riparlerò mai; contate su la mia parola -. Quasi le fosse cascato un macigno addosso! Quasi tutto quel rosso che tingeva cupamente il cielo là di faccia fosse stato il sangue del suo cuore sgorgato dalla ferita ch'ella si sentiva fatta dalla barbara mano del barone! ... - Fa un po' fresco; sei pallida - le disse la marchesa. - Bella vista! - esclamò il barone, per rompere il silenzio. - I polmoni si dilatano nel respirare tant'aria. - Non abbiamo altro qui - rispose la marchesa. La marchesina trambasciava e sfuggiva gli sguardi di sua madre che sembrava volessero interrogarla. Aveva perduto ogni ardire, ogni forza. Era inutile ribellarsi contro il destino. Si vedeva già in balia di quell'uomo che si accarezzava stupidamente le fedine, che appariva pago di sé per la risposta data a lei poco prima, quasi assaporasse la vittoria, poiché sorrideva senza nessun motivo, mentre tutti e tre tacevano e anche la marchesa sembrava assorta da qualche dolorosa riflessione. - Ho avuto torto di non confidarmi con mammà! - pensava la marchesina. - Ma ormai ... è troppo tardi! ... - A tavola, il barone avea parlato per dieci. Don Paolo Forti, unico commensale estraneo alla famiglia, si era creduto in obbligo di applaudire, ridendo, le volgari spiritosità del futuro marito della marchesina. Certamente essa non aveva ancora avuto l'occasione di parlargli da solo a solo, altrimenti il barone non sarebbe stato di umore cosí allegro - pensava don Paolo. - Ma pensava anche che i signori sogliono prendere le cose in modo diverso dagli altri. Poteva darsi benissimo che quell'allegria fosse finta, per mascherare la sconfitta. - Cappellano, siete di poco appetito oggi! - Ah, signor barone! La mia tavola ordinaria non va piú in là di due pietanze alla buona. - Ma quando capita ... - Lo stomaco ha le sue abitudini. - Io non ho preferenze né repugnanze in fatto di mangiare. In campagna mangio anche pane e cipolla come i contadini, se occorre. «T'invidio» mi dice sempre il principe mio fratello. Lui, con la podagra, deve privarsi di questo, di quello; non sa piú che cosa mangiare. Stomaco di ferro ci vuole. Io digerirei anche i ciottoli, come gli struzzi. La marchesina non dovrà impazzire per la mia tavola. - Dovrà pensarci il maestro di casa o il cuoco - disse la marchesa con lieve punta di ironia. - Certamente; ma le redini della casa - è tradizionale nella famiglia Cavanna - stanno in mano della padrona. La principessa mia cognata bada a tutto, ha occhio per tutto; una vera massaia. Se non si fa cosí, specialmente oggi che l'Italia ci scortica, anche le piú solide famiglie vanno giú -. Il marchese scosse la testa, confermando. Durante il pranzo, la marchesina Cilia aveva detto poche parole. Ma non era una Santacroce per nulla; capiva istintivamente che era indegna di una sua pari mostrarsi abbattuta. La sottomissione ai riguardi, ai pregiudizi della razza ella la portava nel sangue. Cosí avevano fatto l'ava, la nonna, sua madre; cosí doveva far lei; non poteva avvenire diversamente! Quando il pericolo era lontano ella si era illusa che avrebbe saputo sfidarlo e superarlo: ora che era prossimo, anzi là accanto a lei, sotto la forma di quell'uomo non giovane né vecchio, senza età apparente, con quella voce grossolana, con quelle fedine da cameriere, con l'aria di sciocca superiorità e di volgare bonomia con cui aveva trattato da «picciolezza», da «ingenuità» il vibrante appello del cuore di lei, la confessione fattagli, e ne aveva riso; ora che ella era stata incapace di mostrare la minima resistenza alla volontà dei suoi genitori e si era vista sfuggire l'unica speranza di salvezza riposta nella generosità di quell'uomo; ora ella sentiva soltanto l'orgoglio di non dover dare a nessuno la sodisfazione di mostrarsi vinta; sentiva soltanto la fiera voluttà di una vendetta - ancora non sapeva quale - con cui punire, prima, se stessa in espiazione del dolore che avrebbe arrecato al «lontano» la notizia del matrimonio di lei, quantunque egli non avesse mai concepito l'illusione che il loro amore potesse finire altrimenti; e poi punire quel vanitoso che si stimava tale da strapparle facilmente il dolce conforto di quell'amore dal cuore! Ella sentiva anzi, nel momento che il barone rispondeva ai brindisi di auguri di don Paolo Forti, ancora in piedi, con una punta del tovagliolo infilata tra collo e collare - specie di sermoncino piú che brindisi, che il prete aveva preso a memoria come soleva con le sue prediche - ella sentiva anzi in quel momento qualcosa di piú che la fiera indeterminata voluttà della vendetta; qualcosa che si maturava nella misteriosa oscurità del suo cervello o del suo cuore, e che presto si sarebbe rivelata perché lei la mettesse in atto; e con questo senso di prossima vendetta, ella toccò la coppa da sciampagna che il barone le stendeva; e il gesto fu cosí vivace che don Paolo Forti pensò: - Tutto è accomodato; tanto meglio! - E se ne rallegrò, poco dopo, con la marchesa. - Come? Voscenza ne dubita? - egli esclamò, vedendole scotere tristamente la testa. - In certi momenti, mia figlia mi fa paura! - rispose la marchesa. Le nozze dovevano aver luogo nei primi di settembre. Durante i quattro mesi d'intervallo, i preparativi venivano fatti quasi alla chetichella, per non dar nell'occhio, perché il marchese voleva che l'avvenimento si limitasse a un'intima festa di famiglia, e apparisse anche un atto di protesta contro le «novità» che ormai non piú erano «novità», e non lasciavano intravedere nessuna speranza di cangiamento. Don Paolo Forti recava lassú, a «palazzo», le strabilianti notizie della guerra franco- prussiana. - Ebbene? ... Che ne sperate? - domandava il marchese. - Bismarck, dicono, restituirà alla chiesa le province toltegli dal governo usurpatore. - È protestante ... Come vi illudete! - Io ripeto le voci che vanno attorno; rimetterà i Borboni sul trono di Napoli e di Parma, costituirà la Confederazione italiana sotto l'alta presidenza del Pontefice; notizie che vengono da Roma -. E il barone di Pietrerase, nelle sue frequenti visite, ripeteva le stesse cose. - Il principe però ... - obiettava il marchese. - Mio fratello è divenuto liberale, piú per mostra che per altro, credo. Egli è di opinione che i nobili non devono lasciarsi prendere la mano ... È sindaco, quasi un impiegato del governo; non può parlare altrimenti. L'ultima volta che è stato qui, però, lo avete udito: egli ha rimpianto la indipendenza siciliana, il parlamento siciliano ... È opportunista mio fratello. La nostra politica, marchesina, consisterà nel buon governo della nostra casa; dico bene? Voi regina, io re, e assoluti. E per ciò - scusate, marchese - non è necessario sequestrarsi, segregarsi ... Io la penso cosí. - I veri Santacroce spariscono dal mondo! - rispose tristamente il marchese. - Questo nome, tra qualche anno, alla mia morte, sarà portato quasi per irrisione da un miserabile che lo disonorerà ... Non mi importa piú di niente! - E cosí, non ostante le prossime nozze, una gran tristezza continuava a invadere le stanze del suo palazzo, di cui i balconi a ponente rimanevano chiusi, nelle settimane che il barone non veniva a R*** per fare a modo suo la corte di fidanzato alla marchesina, irritandola sovente con la solita esortazione: - Con me bisogna stare sempre allegri! - Invece ella era sempre piú cupa e piú chiusa che mai. Sacrificarsi alla volontà del padre stimava ormai un dovere impostole dalla sua condizione e dal sentimento religioso; ma sacrificarsi a colui che avrebbe dovuto salvarla dopo ch'ella gli aveva aperto confidentemente il cuore, le sembrava enorme. Dell'«altro» non aveva piú nessuna notizia e non era riuscita a fargliene avere da parte sua. Aspettava di esser libera, maritata, per spedirgli la lunga e straziante lettera, alla quale aggiungeva ogni giorno qualche pagina e che teneva chiusa sotto chiave in un armadietto in camera sua. Scriveva la notte, quando non le riusciva di prender sonno, o quando era stanca di mulinare la vendetta che avrebbe dovuto mettere in atto, già abbozzata nella sua mente, e per la quale temeva soltanto di non essere abbastanza forte e persistente, perché le circostanze della vita infiacchiscono le piú nobili energie, rendono vigliacchi i piú risoluti caratteri! Talvolta ella amava figurarsi che il barone, all'ultimo momento, si lasciasse vincere dalla riflessione. Egli aveva mantenuto la parola, non aveva mai accennato, neppure velatamente, al loro colloquio di quella sera, mentre il sole tramontava dietro i colli lontani; ma non poteva averlo dimenticato. La sua vanità non gliel'aveva fatto valutar bene quel giorno; dopo, però ... Ma forse egli contava su la bontà dell'animo di lei, su la sua dignità di donna e di marchesina Santacroce, che le avrebbe impedito di commettere una pazzia o una bassezza! E si sdegnava riconoscendo che era vero: ella non sarebbe stata capace di commettere una bassezza o una pazzia! Si considerava come divisa in due metà: il suo corpo, impassibile, lo avrebbe dato in balia di colui; ma il cuore, ma lo spirito sarebbero stati sempre di quell'«altro» ... E se questo era peccato, tanto peggio per coloro che la forzavano a peccare! Suo padre e sua madre non avrebbero potuto lagnarsi di lei: non obbediva ciecamente? Il giorno in cui essa diventerebbe baronessa di Pietrerase, la situazione non era piú la stessa; ella acquistava, quel giorno, piena libertà di azione. Suo marito avrebbe saputo anticipatamente quel che doveva attendersi. Voleva essere leale, ingenua, come diceva lui, fino all'ultimo! Appunto il giorno precedente alle nozze, ella parlò al barone: - Ascoltatemi attentamente: debbo dirvi poche parole, ma di suprema importanza. - Oh! oh! - egli rispose. - Qualche altro segreto? Il primo l'ho dimenticato; credo che l'abbiate già dimenticato anche voi. - Io non dimentico, tenetelo a memoria! - Dunque ... ? - Sembrava ch'egli intendesse di provocarla con quell'aria di sfida, con quel sorrisetto compassionevole tra le ispide fedine all'austriaca. - Non prendete a scherzo quel che sto per dirvi. I miei genitori hanno diritto a un'assoluta obbedienza. Nel monastero, in casa, nel confessionale, tutti hanno ribadito questa convinzione, ed io l'ho accettata come un domma di fede. I Santacroce però, dice mio padre, hanno una volontà di acciaio; sento di averla anch'io ... e non vorrei darvene una prova. - Quale, in caso? - Ho giurato a me stessa ... - Io non giuro mai, per precauzione. - Ho giurato a me stessa ... che se domani dovrò pronunziare il fatalissimo «sí» ... - E chiaro e sonoro, spero, perché il sindaco e il cappellano lo odano bene! - Esso sarà l'ultima sillaba che uscirà dalle mie labbra! - Non capisco ... Non sarà una sillaba mortale. - Cosí fosse! ... Siete ancora in tempo! Trovate, ve ne supplico, un pretesto! - Di nuovo quella storia? Ve lo ripeto: la vostra bella coscienza può vivere tranquilla. Io non vi farò mai una colpa di un sentimento ... naturalissimo ... Nessuna donna e nessun uomo sono mai andati dal sindaco o a piè dell'altare con la verginità del cuore ... Il matrimonio è come il battesimo: scancella il peccato originale di qualunque amoretto ... Se io sospettassi che quella vostra confidenza ... - e ve ne torno a ringraziare e ve ne sono gratissimo! - Ma essa non mi ammonisce di un pericolo ... Mi sembrate una bambina che si accusa di aver mangiato, di nascosto della mamma, qualche dolce ... Si sa, i dolci piacciono ai bambini; ed essi sono scusabili se li mangiano non ostante i timori della mamma per un'indigestione, Via! via! Non torniamo piú su questo argomento ... ! Con me bisogna stare allegri! - Ancora dopo una settimana egli non sapeva persuadersi che non si trattasse d'un semplice scherzo; o, se non di uno scherzo, di una cattiva scontrosità femminile; o, se non di questa, di un irragionevole tentativo di rivincita che non poteva certamente né doveva durare molto a lungo. Dopo il «sí» davanti al sindaco e a piè dell'altare nella cappella privilegiata di famiglia, la marchesina Cecilia Santacroce, ora baronessa di Pietrerase, non si era piú lasciata sfuggir di bocca una sola parola. Aveva detto: - Esso sarà l'ultima sillaba che uscirà dalle mie labbra, l'ho giurato a me stessa! - Ed era stato davvero l'ultima sillaba da lei pronunziata. Nei primi momenti tutti avevano creduto che la commozione pel prossimo distacco dai genitori le impedisse di parlare. Era un po' pallida, un po' sbalordita, ma non piangeva, non si mostrava agitata; e anche questa mancanza di uno sfogo di lagrime era stata creduta effetto dell'eccessiva commozione nervosa. Piú tardi, soltanto la marchesa aveva intravista la verità. - Figlia mia! Figlia mia! - La baronessa le sorrideva, la baciava in fronte, le passava per confortarla, amorosamente, quasi maternamente, le mani su le guance bagnate di pianto, e con umile gesto le chiedeva perdono. - Parla! parla! - insisteva la marchesa. La baronessa scoteva la testa, negativamente, e alzando gli occhi, e accompagnando l'espressione di essi con un risoluto movimento della destra rispondeva. - Mai piú! Mai piú! - E per calmare la desolazione della mamma, ella scrisse su un foglio: - È un voto! Lasciami fare, mammà ! - Il barone fingeva di prender la cosa rassegnatamente: - Avrò sposato una muta! - Ma pensava che, prima con le buone, poi un po' con le cattive avrebbe finalmente sciolto la lingua alla moglie. Rimaneva intanto molto imbarazzato davanti al contegno di lei: nessuna resistenza, nessun atto di repugnanza; egli poteva fare di quel corpo senza parola quel che piú le piaceva. Baci, abbracci, parole affettuose, preghiere, scuse umilissime, ragioni di ogni sorta, tutto però riusciva inutile contro quell'ostinatezza inflessibile. - Ma è ridicolo; dovreste capirlo! Se non per me, per vostra madre almeno ... Siate ragionevole, siate buona! - La baronessa lo lasciava dire, quasi non comprendesse. Una gran serenità le risplendeva nel volto, nella persona. Ella andava e veniva per le stanze, accennando benevolmente alla gente di servizio qualche ordine e riuscendo a farsi intendere senza stento. Quella figura silenziosa, che pareva avesse imposto silenzio anche ai suoi passi, ispirava rispetto e compassione insieme, perché si era sparsa la voce che una strana paralisi della lingua l'avesse colpita durante la cerimonia nuziale. Qualcuno si maravigliava che il barone non consultasse un dottore, uno specialista. - La baronessa si rifiuta. E poi, dicono che le malattie di questo genere si risolvano da sé all'improvviso; vanno via come vengono, senza sintomi apparenti -. Si scusava in tal modo, lasciando volentieri accreditare la voce della paralisi, intestato nel convincimento che un giorno o l'altro sua moglie si sarebbe stancata. Ci voleva la gran caparbietà di una donna per condannarsi al silenzio e perdurare! E cominciava a irritarsi, vedendo che tutti i suoi calcoli venivano sconvolti. Dapprincipio egli si era detto: - La ridurrò con le buone maniere; un po' con le cattive, se occorrerà -. Ma la baronessa non gli dava nessun pretesto di mostrarsi irritato con lei, all'infuori di quella maledetta mutezza, che, prolungata, poteva, da finta, diventare reale. Egli rammentava una sua visita al carcere cellulare di Noto, inaugurato pochi mesi avanti. Tra i condannati, il direttore gli aveva fatto notare un fabbroferraio che costruiva serrature complicatissime, da sfidare qualunque ingegnosità di ladri per aprirle; una di esse era stata premiata all'esposizione universale di Parigi. Costui, condannato a vita per omicidio, da sedici anni, secondo il regolamento carcerario, non parlava. Dal cellulare di Pallanza lo avevano trasportato a quello di Noto; intanto le corde vocali gli si erano atrofizzate, e la lingua articolava a stento poche parole. Alla baronessa sarebbe accaduta la stessa cosa? Glielo disse, per spaventarla con l'idea di tal pericolo. Non se ne mostrò affatto scossa. Ella aveva un mezzo per manifestare i sentimenti del suo cuore; il pianoforte. Tre, quattro volte al giorno, specialmente quand'era sola in casa, tutta l'abbondanza dell'anima sua vibrava dalle corde dello strumento, diventava parola per lei, si effondeva fuori dell'aperto balcone, volava via, lontano, lontano! Ella non sapeva precisamente dove indirizzare quelle note tristi, fremebonde, lamentose; era certa però che esse avrebbero trovato la giusta strada e sarebbero arrivate dove dovevano arrivare! E che importava se si smarrivano a metà di cammino? se morivano nello spazio inascoltate? L'«altro», ormai, era divenuto, piú che un ricordo, una lontana visione fantasticata o sognata. Non ne aveva saputo piú niente. Era ancora vivo? Era morto? ... Non gli aveva piú spedito la lunga lettera stimando inutili le scuse, le proteste, e sembrandole che avrebbe commesso un atto indegno di lei ora che portava il nome altrui e piú non era libera di sé. Un giorno aveva riletto quei fogli piangendo e li aveva bruciati. Le pallide sembianze di lui, il suono della voce, gli occhi che la penetravano con intensi sguardi dal balcone dell'albergo, dopo quest'ultimo sacrificio le si erano attenuati, spiritualizzati nella memoria; e la parola interiore, che non prendeva suono neppure quando avrebbe potuto sfogarsi in soliloqui, infondeva a quella figura attenuata, spiritualizzata un prestigio indefinibile; e stimolava acutamente la baronessa a perseverare nel giuramento, non ostante che questo l'avesse fatta incorrere nello sdegno dei suoi genitori, e ora provocasse impeti scortesi da parte di suo marito. Una notte ella avea sognato che, nell'assenza del barone, la posta le recava una lettera. Riconosciuta subito la calligrafia, s'era sentita invadere da tal tremore per tutto il corpo che le era parso di morire. Doveva aprirla? Doveva leggerla? Lungamente indecisa, guardava la busta gettata sul tavolino con inconsapevole gesto di terrore. Poi le era sembrato di sentire la voce, lontana, del pallido giovane innamorato che la supplicava di leggere. Aveva resistito ancora. Come mai, dopo un anno e mezzo, egli si era risoluto a farsi vivo con lei? Che cosa poteva dirle? Che cosa voleva da lei? E il timore che, non ricevendo risposta, egli potesse commettere l'imprudenza di tornare a scriverle e che la lettera potesse capitare in mano del barone, l'aveva spinta ad aprire con mani tremanti la busta. Poche righe: e, appena finito di leggerle, si era destata di soprassalto, con gli occhi bagnati di lagrime e il cuore penetrato da dolcezza infinita. Non aveva dubitato un istante che colui che nel sogno le indirizzava cosí semplici, cosí affettuose e cosí tristi parole, non era piú! Ella però non lo rimpiangeva. Se lo sentiva accanto, invisibile, come non aveva pensato mai che fosse potuto accadere nella realtà, come non avrebbe permesso mai che accadesse se le circostanze della vita avessero apportato davvero un incontro! Le sembrava intanto che da ora in poi tutta la sua esistenza sarebbe trascorsa sotto gli occhi vigilanti di lui. Arrossiva provava brividi acuti al solo pensiero che il suo contegno verso il marito potesse offendere il povero morto e dargli angosce e tormenti di gelosia che la lontananza gli aveva probabilmente risparmiati quando era vivo. In certi momenti, il sospetto che il sogno fosse stato fallace eccitava la sua fantasia alla ricerca di un mezzo con cui accertarsene. Ma l'idea di arrivare a una scoperta che confermasse il sospetto la distoglieva da qualunque piú timido tentativo. Era cosí consolante saperlo morto fedele a lei, come la sognata lettera diceva! Ella avea sentito parlare tante volte di sogni veritieri. Anche lei, parecchie notti avanti di lasciare il convento, aveva sognato l'arrivo dei suoi parenti che venivano per condurla via. Ignorava che dovessero venire, ed era rimasta stupita vedendoli apparire inattesamente, realizzando il suo sogno! Fin allora ella aveva soffocato la ripugnanza che le ispirava il contatto del barone. L'impero delle convenienze sociali e dei sentimenti religiosi le avevano imposto una rassegnazione passiva. - Questo ghiaccio non si scioglierà mai? - le diceva talvolta il barone. - Io sono paziente; attendo, attenderò. E vi si snoderà anche la lingua. San Sebastiano opererà il miracolo! Vedete che vita mi fate fare? - Ella crollava la testa, negando. Il barone infatti per stanchezza, per fiacchezza anche, aveva già ripreso la sua solita vita di scapolo. Quando non andava in campagna, passava molte ore della giornata al casino di convegno giocando a tressette, al bigliardo; o nella farmacia dei Sorci, come veniva chiamata la farmacia Garano, dove si riunivano i clericali, i borbonici che si sfogavano a dir male del governo e a rimpiangere il passato. Egli veramente non si scalmanava né pel papa, né per Francesco II, ma si compiaceva di mostrarsi colà per darsi l'aria di persona seria e un po' per far dispetto al principe suo fratello che «liberaleggiava» e riceveva il sottoprefetto e gli ufficiali della piccola guarnigione. Spesso però restava in casa, a tormentare la baronessa con interminabili discorsi, nei quali egli ormai aveva preso l'abitudine di farsi le domande e di rispondersi, quasi sua moglie lo interrompesse. O andava a sedersi sul canapè di faccia al pianoforte mentre ella suonava, rimproverandole talvolta che avesse suonato distrattamente lo stesso pezzo la sera avanti nel salone del principe, e avesse accompagnato male la cognata principessa che se n'era indispettita, quantunque non lo avesse lasciato scorgere davanti agli altri. Lo faceva a posta? Anche questo? Fortuna ch'egli non era un marito brutale! ... E la baronessa cessava tutt'a un tratto di sonare, indignata perché quel ch'egli chiamava rassegnata aspettazione veniva da lei giudicata atto di villano orgoglio e sciocca lusinga di vincerla. Oh! Avrebbe preferito di sperimentarlo brutale. Il barone era stato assente tre giorni per sorvegliare alcuni lavori nel fondo di Saccorotto datole in dote dal padre; ed ella aveva cosí potuto abbandonarsi interamente al triste conforto del suo sogno. Per disgrazia, arrivando di assai buon umore, egli si era seccato di trovare la baronessa assorta a suonare un malinconicissimo pezzo. - Mancano funerali in questa casa? - aveva esclamato, ridendo sarcasticamente. E con brusco moto della mano chiudeva sul leggio del pianoforte il volume della musica. La baronessa continuò a suonare a memoria. Egli ebbe la malaccortezza di fermarle le mani e di abbassare il coperchio dello strumento. La baronessa scattò in piedi, svincolandosi da un abbraccio. Rimasero un istante a guardarsi negli occhi; il barone stupito di vederla reagire, ella mordendosi la lingua per non rompere il giuramento di non fargli mai piú udire il suono della sua voce neppur con la feroce parola che le stringeva la gola: e uscí dal salotto. Il barone le corse dietro. - Via! via! Sono stato un po' vivace ... - Ella entrò rapidamente nella stanza vicina e gli chiuse l'uscio in faccia. - Aprite! ... Vi dico aprite! O butto l'uscio a terra! - Lo sentiva gridare, imbestialito, battere coi pugni chiusi e con la punta delle scarpe ... - Aprite! O butto l'uscio a terra! Sono stanco di fare l'imbecille! ... Comando io in casa mia! ... Aprite! - Gettata bocconi a traverso il lettino che si trovava colà, la baronessa non singhiozzava, non piangeva. Si premeva desolatamente le mani su gli occhi, e col pensiero invocava: - Mammà ! Mammà ! - Due mesi dopo, la marchesa era accorsa chiamata in fretta da una lettera del barone che annunziava un peggioramento nella malattia di languore da cui sua figlia era stata colpita. Il marchese resistendo a ogni preghiera e al pianto della moglie, non avea voluto accompagnarla presso la figlia «ribelle», che con quel mutismo significativo contristava la sua vecchiaia. - Ha fatto la nostra volontà! - A modo suo! - rispose il marchese inesorabile. - Non v'impedisco di andare. - Cilia ! ... Figlia mia! - Quasi non la riconosceva, tanto sua figlia era cangiata. - Parla! parla! - insisteva. - Cosí ti uccidi! - Sembrava che, anche volendo, la baronessa ora piú non avesse forza di parlare. Ed era affliggente a vedersi quel viso scarno, di un pallore cadaverico, con gli occhi infossati, e che pareva sorridere con strana dolcezza, sotto i baci e gli abbracci della madre. - Perché? Come mai! - Colpa sua, marchesa! - rispose il barone duramente, indicando la moglie. - Di me non può lagnarsi! - Don Paolo Forti, che aveva accompagnato la marchesa, si teneva rispettosamente in disparte, con le mani giunte, girando i pollici l'uno attorno all'altro, e con le labbra strette e allungate. - C'è qui il cappellano, il tuo confessore! - La baronessa sorrise anche a lui, che si fece avanti invitato da un cenno della marchesa. - Non perché voscenza abbia bisogno di me ... La signora marchesa mi ha dato l'onore di accompagnarla ... Si ha bisogno soltanto di Dio ... E Dio le concederà la salute, presto! Ogni domenica, nella santa messa, «a palazzo», abbiamo pregato per lei. Ora che ha qui la mamma, voscenza si deve spicciare a ristabilirsi ... Un po' d'aria nativa le farà bene ... L'aria nativa è balsamo ... - Il pover'uomo era tutto confuso di aver detto tante vane parole; ci voleva un miracolo di Dio e della Madonna - pensava, parlando - per ridar vita a quel corpo estenuato che pareva respirasse a stento e non apriva le labbra neppure per lamentarsi! Perché avrebbe dovuto lamentarsi? Ella era lieta di morire. E affrettava la morte fingendo di prendere le pillole, le cartine ordinate dal dottore, levandosele con astuzia di bocca, sputandole senza farsi scorgere, sorridendo di triste sodisfazione quando sentiva maravigliare il dottore della incredibile inefficacia dei rimedi apprestati. Quel doloroso sorriso che le fioriva a ogni momento su le labbra smorte irritava il barone. Egli che si era immaginato di poter avere, presto o tardi, ragione degli ingenui scrupoli confidatigli dalla marchesina prima delle nozze, e non aveva creduto possibile l'attuazione della minaccia: «Il "sì" sarà l'ultima sillaba che mi uscirà dalle labbra!» tardi si accorgeva che le donne sono capaci di qualunque pazzia. - Non si tratta d'altro! - egli si sfogava col cappellano. - Avrei dovuto farla chiudere in un manicomio, e sarebbe stato bene per lei e per tutti! ... Queste cose non posso dirle alla marchesa ... E doveva capitare a me! - Chi lo sa? Qualche segreta ragione! - disse timidamente don Paolo Forti. - Pazzia, vi ripeto! ... Quale segreta ragione? Ve l'ha detta, forse, confessandosi? Avete fatto male a non rivelarla ... senza rompere il sigillo della confessione - soggiunse vedendo lo stupore del cappellano a quelle parole. - La paralisi ... - Che paralisi! Anche voi fingete di credervi? Atto diabolico! Io non so come abbia potuto resistere e come abbia resistito io ... Ma siamo alla fine! ... Vedete che mi fa dire? L'ho sopportata, l'ho compatita quasi due anni ... È stata implacabile! ... Ora non ne posso piú! ... E sorride, sorride ... perché l'ha vinta lei ... Per questo sorride! E mi rende spietato ... Dovea capitare proprio a me! - Misteri della volontà di Dio! - conchiuse don Paolo. Per consiglio della marchesa, due giorni dopo egli si presentava alla malata con la qualità di confessore. - La vita e la morte sono in mano di Dio! ... Non perché voscenza sia in pericolo, ma per precauzione, se mai ... La baronessa gli porse una mano e strinse forte quella del prete guardandolo fisso negli occhi. - Perdonate, figliuola mia? - Ella assentí con un'altra stretta. - Dite qualche parola di consolazione a vostra madre ... Parlate almeno una volta, solo per mostrare che non portate via nessun rancore! La baronessa ritirò lentamente la mano. Il prete, spaventato del repentino disfacimento di quel viso pallido e scarno, si affrettò a dare alla moribonda l'assoluzione ... Gli occhi della baronessa si dilatarono quasi errando con lo sguardo dietro una visione che spariva. Con la chiaroveggenza dei morenti vide forse che il sogno l'aveva ingannata? E il dolce strano sorriso di quelle ultime settimane (non si capiva se di sodisfazione o di delusione) le si fissava poco dopo su le aride labbra per sempre!

CENERE

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Deledda, Grazia 1 occorrenze

Anania avrebbe voluto spegnere il lume e restare al chiaro di luna, solo con lei, e caderle ai piedi, e chiamarla coi più dolci nomi; ma non poteva, non poteva, sebbene s'accorgesse che anche lei sollevava e abbassava gli occhi con delizioso terrore, in attesa del suo grido d'amore. «Ha letto, tuo padre?», egli chiese a bassa voce. «Sì, ha letto; e rideva», ella rispose, commossa. «Rideva?» «Sì, rideva. Alla fine mi diede il foglio e disse: "Chi diavolo sarà?".» «E tu? E tu?» «Ed io ... » Essi parlavano piano, ansiosi, già avviluppati dal mistero di una complicità deliziosa; ma improvvisamente Margherita cambiò voce ed aspetto. «Oh, ecco papà. C'è Anania!», esclamò correndo verso l'uscio; e uscì rapidamente, mentre Anania ricadeva nel massimo turbamento. Egli sentì la mano calda e molle del padrino stringere la sua, e vide gli occhi azzurri e la catena d'oro scintillare, ma non ricordò mai precisamente i buoni consigli e le barzellette che il padre di Margherita quella sera gli prodigò. Un dubbio amaro lo tormentava. Aveva o no capito Margherita il vero significato del sonetto? E che ne pensava? Ella non aveva detto nulla a proposito, nei preziosi istanti che egli s'era così stupidamente lasciato sfuggire. L'aspetto turbato di lei non gli bastava; no; ed egli voleva sapere di più, voleva sapere tutto ... «Che cosa?», si domandò con tristezza. Niente. Era tutto inutile. Anche se ella aveva capito, anche se ella gli voleva bene ... Ma questa era una stupidaggine. Eppoi tutto era inutile! Un vuoto immenso lo circondava, e in questo vuoto la voce del signor Carboni si perdeva senza essere ascoltata, come in un abisso deserto. «Sta lieto e non pensare ad altro che a studiare!», concluse il padrino, vedendo che Anania sospirava. «Allegro dunque! Sii uomo e fatti onore!» Margherita rientrò accompagnata dalla madre, che prodigò allo studente la sua parte di consigli e d'incoraggiamenti. La fanciulla andava e veniva per la stanza; s'era ravviata i capelli in modo civettuolo, lasciando un ciuffetto sulla tempia sinistra, e, quel che più importa, s'era incipriata. I suoi occhi scintillavano; era bellissima, ed Anania la seguiva con uno sguardo delirante, ripensando al bacio di Agata. Come attirata dal fascino di quello sguardo, quando egli andò via ella lo seguì e lo accompagnò fino al portone. La luna illuminava il cortile, come in quella sera lontana, quando la visione altera eppur soave di lei aveva destato nel bimbo la coscienza del dovere: anche adesso ella appariva altera e soave, e camminava leggera, con un fruscìo d'ali, pronta a volare: ed Anania credeva ancora di sognare, di vederla sollevarsi davvero e sparire nell'infinito, e di non poterla raggiungere mai più; e il desiderio di stringerle la vita sottile, cinta dal nastro lucente, gli dava le vertigini. «Non la vedrò più! Cadrò morto appena ella avrà chiuso il portone», pensò, quando giunsero al limite fatale. Margherita tirò il catenaccio, poi si volse e porse la mano allo studente. Era pallidissima. «Addio ... Ti scriverò ... Anania ... » «Addio», egli disse, tremando di gioia; ma invece di andarsene si ritrasse nell'ombra e attirò a sé Margherita. E parve ad entrambi che il contatto delle loro labbra facesse scoppiare qualche cosa di terribile e di grandioso nell'aria, perché, mentre si baciavano perdutamente, sentirono come il rombo e l'ardore e la luce del fulmine.

Il cappello del prete

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Il vecchio usciere per poco rimaneva massacrato dalla sedia che l'assassino gli scaraventò sulla testa; guai a lui, se non si abbassava a tempo! Seguí una lotta fiera a corpo a corpo, tra l'assassino inferocito e i due soldati dalle braccia robuste, che lo avvinghiarono come un orso feroce. L'assassino rotolò in terra ai piedi della tavola, trascinando con sé uno dei carabinieri che tentò di mordere al viso. Finalmente, coll'aiuto d'altri secondini accorsi, fu domato, legato.... ma la giustizia umana non ebbe nelle mani che un povero pazzo. Il barone era stato tradito e punito dalla sua stessa coscienza.

Versione elettronica di testi relativi al periodo 800 - 900 Donna Folgore

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Faldella, Giovanni 1 occorrenze

Dalla contemplazione del cielo il suo sguardo si abbassava a scrutare l'illuminazione di Torino, su cui era filata la stella cadente di Nerina. Ed in ogni lume egli vedeva dantescamente bruciare un capriccio di lei. Due fanali elettrici, che parevano riverberarsi i loro raggi ostilmente, erano per lui le anime delle due maggiori vittime di Nerina, dopo il padre: * Adriano Meraldi e Federico De Ritz. De Ritz e Meraldi si erano bastonati orribilmente sulle teste al Cancello del Santo Oblio; e non si erano punto dimenticati. Rottasi mutuamente la cappadocia per i capricci di Nerina, staccati, destinati a distinte lontane agonie, l'uno al Castello di Ripafratta, l'altro al borgo natio di S. Gerolamo ... Pure per la bramosia della loro invidiata Nerina, quelle teste ancora si beccavano lontanamente, come due dannati nella gelatina dell'inferno dantesco. "Come due becchi cozzan insieme" novelli Alessandro e Napoleone conti di Manzona. Si era rinnovata la pugna mentale fino all'estinzione delle loro vite ... Tanto era inestinguibile la sete dell'amore di Nerina. E nella loro pugna pindarica "e forti nervi e nel pugnar crescenti" in mutua orrenda strage psicologica ... Ed ora che sono da gran tempo spirati entrambi, ecco in quei due fari elettrici l'immagine della loro pira di nuovi Eteocle e Polinice, in cui le fiamme cigolando si spartiscono in segno d'una pretesa d'odio immortale, che Domine Dio faccia cessare ... L'avvocato Gioiazza ricapitola le morti di Federico De Ritz e di Adriano Meraldi. Federico De Ritz aveva potuto evadere dal suo castello di Ripafratta. Adriano Meraldi non lo si poté smuovere da S. Gerolamo. I suoi genitori erano finiti di crepacuore, a forza di sentirlo esclamare, che egli era cassé . La maldicenza villana sospettò, che egli si fosse finto perdutamente ammalato per goderne più presto la eredità. Invece egli sentì l'orrore della solitudine aggravato dal rimorso di avere, sia pure involontariamente, amareggiata la fine di papà e mamma, che avrebbero volontieri sacrificato cento delle loro vite per allietargli e prolungargli la sua. Lo strofanto più non giovava a rianimargli l'attività del cuore. Egli si sentiva irremissibilmente deperire, senza velleità di rimediarvi ... Piuttosto avrebbe voluto raccorciare violentamente quell'agonia ... Ma lo spauriva il pensiero del suicidio nel luogo natio, dando di sé vista afrosa ai suoi compaesani, che lo avevano visto nascere e crescere bellin e suscitando commenti di previsione raccapricciante. Avrebbe preferito essere assassinato di notte in una foresta africana, e sepolto di nascosto nel seno vivente di una grande pianta di baobab, a cui avrebbe dato succhi e foglie ... O gettarsi dalla alta prora di una nave nel mare profondo nutrimento dei pesci ... Ma non si sentiva la forza di viaggiare neppure sino a Genova ... Lo tratteneva la mania carceriera cellulare, l'orrore dello spazio viatorio. Meglio meglio ancora, se fosse rapito in cielo come un profeta della Bibbia! Intanto sulla terra di S. Gerolamo gli rimaneva unica custode la vecchia Cecchina, la fantesca, che lo aveva portato in braccio da bambino ... Ed ora si provasse a portare quel cadavere grasso annacquato ... Ma la vecchia Cecchina non accettava più lo scherzo, neppure macabro. Essa era divenuta asciutta, di poche parole, come se l'innata bontà e l'antica devozione familiare fossero state corrose, slavate dalle teorie invadenti del socialismo dissocievole. Migliore compagnia tenevano al volontario coatto un gattino ed un verdone. Egli si credette un Mazzini, quando riuscì ad ottenere che verdone e gattino mangiassero insieme fraternamente nello stesso piattello. Omne tulit punctum , gli pare di toccare il cielo con il dito, allorché si crogiola, si appisola dentro il seggiolone, lasciando il gatto assiso come una sfinge sulle ginocchia di lui, e sentendo il rantolio delle sue fusa lusinghiere, mentre il verdone appollajatosi sopra una spalla di lui gli manda al vicino orecchio un sentore di vigilanza geniale, protettrice. Ma una trista notte di febbraio, il gatto divenuto gattone, andando lontano in gattogna , venne ghermito in un laccio malandrino, e finito a mazzate, nonostante le più rabbiose e lamentose ed alte proteste dei suoi gnaulati, quindi venne macerato in una roggia, infine mangiato come lepre in un baccanale di lurida osteria. Senza il micio, anche il verdone gli pareva spaesato, distratto, smarrito. Inutilmente Meraldi gli rivolgeva la parola: * Verdone, o verdone, cugino primo dei canarini e cugino secondo dei cardellini, quando io era studente a Torino, vidi, ammirai un tuo collega, un antenato della tua specie in piazza Castello, addomesticato a tirare l'oroscopo, il pianeta della sorte dalla gabbia sotto il comando di un vecchio leggendario bagattelliere, che si diceva essere stato il misterioso uccisore del filosofo Rosmini a Stresa ... Verdone, o verdone, quale prossima sorte mi è riservata, mi attende? Ora quasi lo crucciava smaniosamente la voluta dimenticanza del mondo. Questa dimenticanza pare maravigliosa e non è punto maravigliosa né anche per chi abbia goduto di una celebrità europea. Le centurie dei malevoli e specialmente degli invidiosi e più specialmente dei giovani anelanti ad usurpare il posto dei ritirati dalla scena, aiutano a perfezione di riuscita l'impresa della volontaria dimenticanza. Riescono sempre prodigiosamente codeste congiure dell'avido rapace silenzio, salvo il soprassalto di un risveglio, quando si sente che un uomo già celebre è spirato definitivamente. Allora è un esclamare compunto unanime: "Credevamo che da un pezzo egli fosse nel Pantheon dei trapassati!" Ma più che l'isolamento dagli altri, più che il non ricevere visita o lettera veruna, tormentava Meraldi la coscienza della sua cresciuta impotenza cerebrale. La grafofobia non gli consentiva più di scrivere due righe. Pazienza! Egli si comandava pazienza, asciugandosi la fronte. Ma quando accintosi a leggere mezza pagina dei Miei tempi di Brofferio, così allegramente limpidi, e facilmente scorrevoli ed a lui familiari fin dai banchi della scuola, si accorse che non ne capiva buccicata, egli diede in un rovescio di pianto amaro, disperato. Nulla rende maggiormente spaurito, fuggiasco il letterato, che il leggere due righe e non riuscire più a comprenderle. Allora Adriano Meraldi deliberò di finirla senza più. Andò a togliere dal secreto armadio della sua camera da letto un pistolone, già di suo padre, un pistolone, che da tempo egli aveva accuratamente caricato; ne alzò il cane, esaminò la capsula pronta lucente. Rientrò sprangato nello studio, e per un istante posò l'arma sul vocabolario già inutilmente aperto per ricominciare una vita studiosa. Ora egli ha stabilito che lo studio sia il teatro della sua tragica fine. Ma prima volle ancora salutare la stanza, dove erano morti per lui i suoi ottimi genitori. Quivi si inginocchiò, pregò, pianse le sue lacrime più calde e rimordenti. Quindi, come se compisse in sé una vendetta di Nerina, ritornò risolutamente nel suo ufficio con gli occhi luminosi e ciechi. Brandì il pistolone, fece scattare replicatamente il grilletto, che ripetutamente gli rispose cecca. Egli si ostinava, senza esame, nella risoluzione dello sparo, quando alla nuova cilecca del colpo, sentì rispondere di fuori un gorgheggio, quasi un risolino festante trionfale. Si affacciò alla veranda e vide sulla banderuola del pinacolo il verdone che accompagnava ad ali larghe il suo canto. Esso come sapesse di salvare il suo scosso amico dalla grossa bestialità di un suicidio, saltabeccando incolume aveva svelta la capsula dal cane della pistola, ed era volato con la formidabile preda, che gli luccicava nel becco, ad una gronda, aveva lasciato cadere il fulminante micidiale in una tinozza quasi trasparente di lisciva innocua. Quindi era volato sulla banderuola del pinacolo a cantare giustamente vittoria. Quel gorgheggio suonava un incoraggiamento, un saluto alla vita di Adriano. Il salvato Meraldi guardò con occhio di commozione tra il rimprovero e la riconoscenza il suo piccolo salvatore. Ed il verdone gli rivolava amichevolmente sulla spalla destra, beccandogli dolcemente il lobo dell'orecchio, come per trasfondergli un'elettricità di vita nuova. Disavvedutamente tre giorni dopo, Adriano Meraldi, chiudendo dietro sé l'uscio dello studio, schiacciava il suo piccolo salvatore. L'ultimo gemito dello schiacciato parve gelargli tutto il sangue nelle vene. Raccolse tra le palme trepide quel cadaverino caldo, allungato, dagli occhietti pungenti, a cui avrebbe voluto ridare l'anelito con tutto il soffio della propria residua vita. Lo seppellì in un vaso di fiori. Dopo allora il mondo vivente cessò assolutamente dall'avere qualsiasi attrattiva per lui. Inutilmente per lui alle bieche giornate del rigido inverno succedeva il sole ... Egli più non sentiva la beneficenza dei raggi solari sulle guancie, mentre l'erba bianca cristallina dei prati pareva luccicare festosamente al sole rinato. Inutilmente la luna suscitava nelle brine il scintillio vivace delle gemme ... Egli pensò, ripensò, aspirò unico rimedio, l'alta nebulosa ogiva del vecchio ponte sulla Gerolamia. Ed egli che vent'anni prima era accorso ad impedire il tonfo di Spirito Losati precipite nel rapido fiume, egli che ora smaniava di sfuggire ad una esposizione mortuaria, fu rinvenuto nel torrente gelato, cadavere in vetrina. * * * L'avv. Gioiazza riandò più brevemente la fine di Federico De Ritz, attesa la incertezza delle sue straordinarie finali vicende. Si disse nientemeno, che il biondo garibaldino italiano oriundo tedesco annerisse guerreggiando fra le fila degli Zulu, e fosse desso lo scagliatore della zagaglia, che trafisse il principe Eugenio Napoleone cantato dal Carducci. Alla sua volta egli procombeva eroicamente difendendo la libertà dei Boeri contra gli stessi Inglesi, mentre, se non fosse stato il vituperio di Nerina, avrebbe potuto perdurare e finire eroe della virtù italiana. Naturalmente il padre di Federico, barone ... e la madre signora Ninfa nata Amasole morirono di morte accelerata dallo accoramento per la scomparsa di quel tesoro unico di figlio. Gioiazza crede di vederne i lumi ... penosamente agitati. Altri lumi gli rischiarano la certezza di altre vittime direttamente o indirettamente causate da Nerina. Riffola, uno dei primi amanti di frodo della tota e della contessa, finì giustiziato con la sedia elettrica nel Colorado degli Stati Uniti d'America. Il marchese Stefanina, nelle cui sale Federico De Ritz era stato presentato a Tota Nerina, andò a Terracina, ossia in bolletta. Si direbbe che il contatto di Nerina abbia portato a tutti la iettatura ... Così narrano quei lumi alla contemplazione di Gioiazza ... Ecco il Santo lume di Suora Crocifissa, strappata per il subbuglio della Contessa alla Provvidenza del Santo Oblio ... Eccola spenta carbonizzata nell'incendio di un cinematografo di Parigi, dove aiutata da un cuoco eroe aveva salvate parecchie vite da certa morte, mentre giovani visconti eredi delle Crociate calpestavano donne cadute, le calpestavano per salvare la propria pelle. Come guizza ora il lume di Suor Crocifissa spenta eroicamente! Il reverendo socio di Suor Crocifissa nelle fondazioni caritatevoli, canonico Giunipero, detto anche Puerperio, a detta dell'avvocato Gioiazza, morì di parto, dopo che il Tribunale Civile in sede commerciale dichiarava il fallimento della sua appena sbocciata Società Alimentare delle misere lattanti. * Questo è un lume ben grosso! * continuava nelle sue osservazioni l'avvocato Gioiazza additandolo a se stesso: * Sono certo di non errare attribuendolo a Monsignor Pettorali arcidiacono della Basilica Metropolitana di Trentacelle, quegli che dichiarava apertamente preferire a un cardinale papabile una badessa palpabile ... Ebbene si dice, che anch'egli per una saggiatura di Nerina spinta all'indigestione, sia rimasto soffocato nella sua obesità rosea pallida. Invece Evasio Frappa, il caustico bozzettista dell' Eco di Trentacelle , dopo essersi scapriccito con Nerina vuolsi strozzato, bruciato da una congestione nera. Che schizzi satirici dà il suo lume! Persino la perla degli amici del Mezzogiorno, Cristiano della Monaca, già studioso ingenuo, poi professore, in cui la grande scienza si combinava colla grande modestia, dopo avere conosciuto biblicamente Nerina, cambiò carattere e connotati. Da chiaro alienista diventò poco per volta un oscuro alienato. Vantavasi di aver curato il nervosismo delle più cospicue signore d'Italia e d'Europa e d'America, e proclamava superiore alle presidentesse, alle regine e alle imperatrici, proclamava la Contessa De Ritz. Ed egli era l'uomo superiore, il superuomo più sprezzante di questo mondo. Non riconosceva supremazia altrui in nessun genere. Non parliamo della sua scienza. Ma se egli avesse voluto fare il letterato, l'artista e l'uomo politico, sarebbe stato il primo letterato, il primo artista, il primo statista dell'orbe terracqueo e della Storia universale. Cadde pedestremente ammalato. Avrebbe avuto bisogno di un servo infermiere, che gli fosse familiare sostegno. Non trovò Carlino il domestico toccasana romantizzato da Giovanni Ruffini. Inciampò in una portinaia, rassomigliante fisicamente e moralmente a una scimmia, una forca di scimmia come la donna satirizzata da Simonide. La fece sua e ne divenne schiavo da catena. Avviso al lettore ed anche all'osservatore dell'illuminazione. Una vera scimmia chimpanzè dal balcone di un vicino lo scherniva con lazzi petulanti e sforacchianti. Egli la uccise con una schioppettata, dicendole: "Prega per me!" Venne dichiarato pazzo. Così l'alienista alienato terminò con il peggiore morbo in una casa cosidetta di salute. L'avvocato Gioiazza non si stancava di applicare nomi di persone vissute e defunte a quei filari di luci, a quei viali di lumi, a quello zodiaco di fiammelle, che componevano l'illuminazione notturna di Torino. Quel formicaio di faville sono le vittime disperse del Santo Oblio, sono le schiave bianche costrette alla prostituzione dai Regolamenti dei paesi liberi e civili. Qua e là in quei lumicini Gioiazza scorge un monaco greco strangolato, un papuasso turco impalato, una Suora Levantina morta naufraga con Suora Ermellina Diotamo, e con Padre Equoreo e con Franco Massi, parecchi cantori dalla voce squarciata e varii pittori dalla tavolozza infranta, un hidalgo piegato a ciabattino, un vegetariano scarnificato, un principe russo annichilito ... In quel lanternone veggo la fu squarquoia pretoressa Frusoli svolazzante come falena, evanescente come festuca da fuoco di paglia! ... Tutte conoscenze di Nerina ... Quanti lumi! Tante vittime! Che visibilio di perduta gente. E nessun lanternino si salva in questo naufragio di lanterna magica? Unici salvi dal naufragio dei Capricci di Nerina le coppie dei Losati e degli Svolazzini, che credettero una cosa seria l'amore e affermarono la loro fede con il matrimonio. Unici rimasti ritti nel generale abbattimento Svembaldo e Gilda perché avevano tenuto fede al proprio amore; Spirito e Lorenzina, perché questa imperterrita aveva perdonato ad un amore alieno del marito ed aveva ricondotto lui alla fede coniugale. Di vero il barone ing.re Svembaldo Svolazzini ha la più alta e meritata fortuna con la costruzione delle locomotive a vapore e dei vagoni ferroviarii, rendendone l'industria nazionale quasi sovrana, mentre prima era tributaria omninamente all'estero. Il barone Svembaldo figlio è già succeduto al barone Rollone padre nel Senato del Regno. La giovine baronessa, leggendo una gentile novella di Nino Pettinati, concepì il gentile pensiero, che suo marito designasse e facesse costruire per la vecchia baronessa madre emiplegica un vagone appositamente imbottito e adobbato ... quasi su misura. Ora la austera semiparalitica ancora desiosa di mobilitazione se ne serve quasi a delizia, facendosi trasportare dalla villa di San Gerolamo alle Officine di San Pier d'Arena, e a Roma per i ricevimenti Vaticani e per le Sedute Reali del Parlamento e dei Lincei. Onde la vecchia già orgogliosa ed inesorabile ora benedice teneramente al figlio e alla nuora. Il professore Spirito Losati già vide celebrarsi il proprio giubileo cattedratico con targa, medaglione, medaglietta, pergamena, album di autografi illustri e di sottoscrizioni popolari, banchetto e marcia musicale espressamente per lui composta dal compositore Maestro organista Massimo Bonario. Si dice pure prossima la sua chiamata all'alto ed augusto consesso dei Senatori. La consorte del cattedratico, anziché ampliarsi come una cattedrale, si rimpiccolisce e si mostra umile in tanta gloria ed accarezza con un profumo di santa massaia operosa il marito, i figli, non che il vecchio papaloto , macellaio emerito. Quindi conclusione indeclinabile: principale, se non unica, felicità sulla terra è l'amore reso divino ossia congiunto ai doveri e senza capricci. Ed egli Gioiazza? Egli, che predica così bene, razzola forse male? Facendo uno spregiudicato esame di coscienza, egli crede di avere adottato questo programma, questa filosofia della vita: essere sempre tollerante, e possibilmente irreprensibile, tenendo fermi i seguenti capisaldi: onore, dovere, riconoscenza, proporzionalità, e sopratutto amore; per la proporzionalità trattare le pie monache come pie monache e non come dissolute sgualdrine; trattare le dissolute sgualdrine come dissolute sgualdrine e non come pie monache, e così nel termini medi restare equanimi; per l'amore massimamente del prossimo, fare tutto il bene che si può, non fare mai del male a nessuno, non fare mai ingiustamente soffrire alcuna creatura ... * Ma, dico, padre Zappata, che predica così bene, praticamente come razzola ... ? L'avvocato Ilarione Gioiazza, nel difendere la sua condotta davanti se stesso, ha l'ilare coraggio di paragonarsi al Padre della Patria. Sì per giustificare il suo faux menage , la sua vita domestica more uxorio con Quagliastra, ha l'ardimento di riferirsi all'esempio del Gran Re Liberatore, che nell'amore relativamente libero, predilesse come raggio della Natura, figlia o nipote divina, la forma e la psiche popolare. Gli è vero che Vittorione, dopo aver sposata morganaticamente una piacentissima tamburina, sentendo che l'Altezza Reale di un suo augusto cugino faceva lo stesso con una ballerina, sentenziò in un eccesso di autocritica scherzosa, fino a tradurre dialettalmente un verbo plebeo di Dante: Casa d'le Crossade a l'è ampus ... asse pa' mal! Ma è pur verissimo che papà Vittorio, il Gran Re finì vittorioso a Roma, mentre il piccolo Napoleone, imperatore curvo al lecchezzo delle superbe dame, venne abbattuto, spazzato via da una delle più sonore batoste storiche ... * Ma, * ripiglia * padre Zappata, hai forse seguito, per quanto ti fosse possibile, l'esempio morganatico del Gran Re? * Comprendo, * rispondeva a se stesso, sdoppiandosi psicologicamente l'avvocato * comprendo ed apprezzo il tuo sospetto, comprendo e sento la tua gelosia quasi lancinante per le testarde premure della tua serva padrona verso il giovane ortolano, benché Miclìn si mostri teco estremamente servizievole con un'aria da santificetur e con un profilo di San Luigi Gonzaga. * Insomma chi conterà la fine di un capriccio di Gioiazza? Lo conterà la sua serva padrona ed ereditiera? Per ora l'avvocato Gioiazza, constatando che non è possibile restaurare il concubinato nella presente civiltà giuridica, presagisce, che egli finirà con lo sposare Quagliastra almeno con il rito religioso, magari licenziando il giovine ortolano, ed assumendo all'irrigazione e alla coltivazione dell'orto un giardiniere stravecchio, o meglio un veterano reduce d'Africa, a cui gli abissini abbiano fatto l'estremo oltraggio, dando gli onori dei cantori della cappella Sistina. Nell'ultimo sguardo alla illuminazione della sottostante Torino, l'avvocato Gioiazza già si vede, come in uno specchio: salire alla villa, portando la sporta alla cuoca elevata a mogliera, ed aggiungendole cordiali, stimolanti e rispettose facezie per ingraziarsi lei ingrugnata, per feje chitè 'l grugn. Il purgato spirito di Nerina folgore caduta in un pozzo, risorgerà in alto, in alto, e sorriderà da una stella invisibile al critico contatore dei Capricci per pianoforte .

Un giorno a Madera

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Mantegazza, Paolo 1 occorrenze

Era in camicia; era pallida, magra: aveva una mano bianca appoggiata sul petto che si alzava e si abbassava nei moti alterni di un respiro affannoso. Il volto era quello d'un angelo e aveva in sé la bellezza della razza latina e dell'inglese; un ovale perfetto, un mento piccino e rotondetto, come una nocciuola ancor verde; due labbra rosee, ma secche e socchiuse; un nasino affilato grazioso, sopracciglia nere nere e stranamente folte; ciglia lunghe e nere e palpebre grandi che coprivano due occhi neri che vagavano fra i crepuscoli d'un sonno febbrile. Dalla fronte reclinata all'indietro cadeva un torrente di capelli biondi con vene castane, dorate, rosse; tutta una tavolozza di tinte che con un disordine di rara bellezza fermavano l'occhio lungamente. - Vedete questa mia Dolores, è l'ultima che mi resta, e l'ho chiamata Dolores, perché è nata pochi giorni prima della morte di sua madre. Sì, mia signora, ho perduto la moglie, ho perduto tre maschi e due bambine, tutti tisici. Ed io, soggiunse ridendo in un modo crudele, non posso mandare i miei figli a Madera, perché guariscano; in casa mia si nasce a Madera, ma si muore anche a Madera. Allora Dolores, svegliandosi improvvisamente, si mise a sedere sulle ginocchia del padre e a tossire; e tossiva così forte che le guancie le divennero porporine e sudanti, e gli occhi lagrimosi. - Vedete, vedete, anche questa farà come gli altri. Maledizione! Maledizione! Quel dolore però era troppo grande, perché potesse a lungo mescersi coll'ira: e quel pover'uomo, chinando il capo su quel volto d'angelo, lo baciò, lo ribaciò cento volte, e quando lo rialzò, i suoi occhi eran rossi, gonfi di lagrime. - Sono un uomo rozzo io, sono un villano tirato su a piantar viti e patate, ma son vent'anni che ho malati e morti in casa; e il cuore per Dio (e qui col grosso pugno peloso stretto stretto batteva sul cuore fino a far rimbombare il petto) non mi si è fatto ancora di pietra, piango ancora io. - Caro signore, voi siete infelice, ma Dolores guarirà. In una famiglia di tubercolosi non muoiono mai tutti. Anch'io, sapete, ebbi undici fratelli e sorelle e tutti son morti tisici, ma ho già venticinque anni e vivo e penso di guarire. Dolores sarà delicata, avrà spesso la tosse, ma guarirà, guarirà sicuramente. - Lo spero anch'io: sarebbe troppo crudeltà lasciarmi solo. Se avessi a seppellire anche questa, darei - fuoco alla mia casa e me n'andrei a imbarcarmi come marinaio sulla prima nave che partisse per l'America, per il Portogallo, per la casa del diavolo ... scusatemi, signora. - Ma come mai, voi nato qui, in un paese dove la tisi è rara, specialmente fra gli agiati, avete tanta sventura? - L'è una storia ben triste, mia buona signora; e, vedete, la racconto a tutti, perché almeno abbia a giovare a chi può ancora approfittare di una lezione. Avete voi marito? - No. - Ebbene, allora anche a voi la mia storia può esser utile. E poi, vedete, voi avete il petto gracile, voi avete un'aria tanto gentile che subito subito mi avete aperto le cateratte del cuore, che in me stanno chiuse per giorni e settimane e mesi. Più volte mi chiudo in casa tutto solo, coi miei dolori: passeggio per le camere deserte, colla mia Dolores per mano, e più spesso colla mia Dolores fra le braccia. Ho venti camere, capite, in questa mia casa, e son tutte vuote meno una dove dormo e vivo e mangio colla mia figliuola. Capite voi in qual deserto io viva? E mi fa molto bene quando posso trovare una persona come voi a cui raccontare i miei dolori. Io ho quarant'anni soli, sapete, quarant'anni con tanti capelli bianchi e tante rughe, e tutti me ne dànno almeno cinquanta e anche più. Non me ne meraviglio; piuttosto stupisco di esser ancor vivo, ma già è la mia Dolores che non mi lascia morire. Anch'io ebbi i miei vent'anni; anch'io cavalcava sul più ardente dei cavalli di Madera, e senza sella amava gettarmi al galoppo nei sentieri che rasentavano gli abissi più profondi e precipitarmi giù per le chine, con una mano robusta nella criniera e un'altra nella coda, e giù, e giù, sicuro di non distaccarmi mai dal mio cavallo; amava sentirmi intorno l'aria vertiginosa che mi sollevava i capelli e mi fischiava nelle orecchie. Aveva braccia così robuste che più d'una volta andava a strappar la zappa dalle mani dei contadini di mio padre, e mi metteva a zappar profondamente, fortemente, finché non mi sentissi correre il sudore a ruscelletti lungo le spalle giù per il petto infuocato. Aveva ereditato da mio padre la passione della terra: odiava la città e i villaggi; voleva sempre esser fra i campi di maiz o all'ombra dei lauri. Non guardava mai in faccia alle donne: non so perché, ma mi pareva una smorfia da cittadini il fare all'amore. Aveva una febbre nei muscoli che volevano sempre muoversi; aveva una smania nel petto di respirare l'aria più pura, e respirarla a onde e tutti i picchi più alti dell'isola hanno veduto i miei piedi: c'è qualche roccia che io solo e l'aquila abbiamo toccato. L'amore mi prese come un fulmine, come una palla da cannone che vi colpisca in mezzo al petto. Un giorno me n'era andato a Funchal e stava passeggiando sul molo del porto, aspettando un amico con cui dovevo imbarcarmi per Porto Santo. Voleva andare a caccia di conigli. Zufolava, impazientito che il mio amico mi facesse aspettare, quando dinnanzi a me vedo una carrozzina in cui stava una pallidissima creatura che, se non avesse tenuto gli occhi aperti, io avrei giudicata morta. Dietro al carrozzino stava un'altra creatura giovane e bellissima che lo spingeva innanzi e che ad ogni tratto amorosamente si chinava a domandare alla povera signora moribonda che cosa volesse. Quella signora doveva essere una cameriera, ma questo a me non importava nulla: quel ch'io ricordo è che i suoi occhi azzurri, i suoi folti capelli biondi, la sua carnagione di rosa mi innamorarono talmente che quando l'amico mi venne incontro col suo fucile ad armacollo, gli dissi che non partivo più per Porto Santo. Era la prima donna ch'io aveva guardato in volto, ma mi parve subito che non avrei potuto vivere senza di lei, e il mio amore dovette essere così violento, così contagioso, che dopo otto giorni anche Jessy era innamorata di me. Ella era una cameriera, ma una cameriera inglese che parlava tre lingue, che leggeva molto, che scriveva; era un cuore di zucchero innamorato della sua padrona, con cui viveva tutto il giorno, con cui dormiva di notte, di cui era innamorata. Qui si dice che la tisi non è contagiosa, ma io so che la mia Jessy, che era bella e fresca come una rosa, pigliò il male dalla sua padrona, e che quando questa fu morta ed io doveva sposare Jessy, ella fu colta da un male che i medici di Funchal chiamarono bronchite, ma che infine era una tisi bella e buona. Fu malata due mesi, ma la convalescenza non finiva mai. Mangiava, camminava, ma era debole, e la tosse non se n'andava mai ed ella era magra magra. Ad onta di tutto questo Jessy era allegra come un pesce, e mi diceva di esser magra, perché era innamorata di me, e che quando ci fossimo sposati, saremmo guariti. Mio padre mi diceva sempre: - Sebastiano, Sebastiano, quella donna non è per te; è troppo delicata, tu la perderai presto e avrai dei figli malati. Sebastiano, va a Lisbona a trovar tuo zio, dimentica Jessy, io mi sono innamorato dieci volte prima di sposar tua madre e vorrai tu sposare la prima donna che t'è venuta fra i piedi? Mio padre aveva ragione, ma nessun medico mi sconsigliò da quel matrimonio: ma a che servono i medici? Servono a tormentare i malati, ma non a tener sani i sani. Eravamo tanto innamorati! Ci sposammo: Jessy rimase subito incinta e durante la prima gravidanza cessò la tosse, ingrassò un pochino; io mi credeva il più felice degli uomini; ma venne il parto e d'allora in poi la vita di Jessy fu una lenta agonia ed io, ignorante come una bestia, la vedevo migliorare ad ogni gravidanza, e aveva sempre nuovi figli. Nessun medico mi diceva che ad ogni parto mia moglie era più debole di prima, che ogni figliuolo le dava una spinta verso la tomba. Il buon clima di Madera la tenne viva otto anni, che tanti ne durò il nostro matrimonio; in Inghilterra sarebbe morta in pochi mesi. Il cielo della nostra isola le concesse una lunga, una dolorosa agonia. E non solo mi è morta la mia Jessy, ma mi sono morti tutti i miei figliuoli. Tutti rassomigliavano alla mamma; nessuno seppe prendersi le mie spalle, i miei polmoni di ferro. Se li aveste veduti! Com'eran belli! Eran tutti come Dolores, alcuni più belli ancora; biondi rosei intelligenti, amorosi. Son vent'anni che ho preso moglie e per vent'anni la mia casa è stata un ospedale e un cimitero. Io ho fatto da infermiere a Jessy, a Michele, a Sebastiano, ad Antonio, a Lisa, a Robinia; io li ho seppelliti tutti, mia signora. E capite voi cosa voglia dire avere un figliuolo moribondo nel letto, e un altro che sputa sangue e sta coricato sotto gli alberi del giardino, perché non ha fiato di muoversi? Capite voi che cosa vuol dire andare a tavola e leggere coll'occhio ansioso nel volto dei vostri figliuoli i primi segni della fatal malattia? E capite voi che cosa voglia dire svegliarsi di notte e d'improvviso sentir tossire il più robusto dei vostri figli, quello che pareva voler sfuggire alla sorte comune? Capite voi che cosa voglia dire andar errando il mattino di letto in letto a veder le macchie rosee che la saliva insanguinata d'una vostra bambina ha lasciato sul guanciale nel respiro affannoso della notte? E capite voi che cosa voglia dire vivere fra l'agonia dei vivi e l'agonia dei moribondi e dover sorridere per tranquillare i figli sgomenti e dover mentire oggi, mentire domani, mentir sempre, inventando ai malati sempre nuove e più crudeli menzogne, inventando menzogne ai sani che già temono di esser malati? Capite voi tutto questo, avete voi letto nei vecchi libri che vi sia tortura più crudele di questa? Una volta, me lo ricordo ancora, era un dì di dicembre e pioveva e pioveva, e un freddo umido penetrava fin nelle ossa. Si ritornava coi miei figliuoli dal cimitero dove avevamo accompagnato la mia bellissima Lisa, fanciulla di quindici anni. Eravamo allora quattro ancora; io, Robinia, Dolores e Michele. Avevamo tutti i vestiti inzuppati d'acqua fredda e nessuno parlava. Mentre si saliva sull'erta che avete salito voi, pochi momenti or sono, Michele si mette a tossire; una tosse secca, crudele feroce; e poi si avvicina il fazzoletto alla bocca, lo guarda, quindi facendosi pallido e pur sorridendo, lo mostra a Robinia: era tutto insanguinato. Io veniva dietro ai miei figliuoli e vedeva tutto. Robinia si voltò a me improvvisamente, e piangendo e singhiozzando, mi gridava: - Papà, papà, dobbiamo noi morir tutti, proprio tutti? Caddi seduto sul muricciuolo della strada; Robinia, Michele e la piccola Dolores mi si strinsero tutti intorno alle ginocchia. Dolores piangeva senza sapere il perché, e Michele mi accarezzava e diceva: - Papà, papà, non sarà nulla; ho una gengiva ferita; è sangue venuto dalle gengive. - Ma un anno dopo, mia buona signora, si seppelliva anche Michele, e ritornando a casa noi eravamo tre soli. Ch'io sia maledetto, ch'io sia maledetto! Ora non ho più che Dolores, e seppellirò anche questa accanto a Jessy, ed io mi farò seppellir vivo accanto a tutti i miei figliuoli. Ch'io sia maledetto: non si ha il diritto di dare una vita moribonda ai propri figliuoli, no, no, non si ha il diritto di mettere al mondo uomini condannati a morir fanciulli, a morir giovinetti nell'età delle gioie e delle speranze. No, no, ch'io sia maledetto, la vita è un peso: convien dare insieme ad essa forza e salute per sopportarla. La vita non è un dono, è un peso, è una croce. Non siete voi forse, mia buona signora, figlia di un padre o di una madre tisica?» Mio William, io mi alzai a queste parole come una pazza, gridando: - Basta, basta, signore, voi mi uccidete insieme ai vostri figliuoli. E fuggii da quell'orto e fuggii a casa e mi gettai piangendo e singhiozzando fra le braccia della zia, che mi veniva incontro. William, tutto questo t'ho voluto scrivere; mi è sembrato che fosse mio dovere il farlo. MISS ANNA A WILLIAM. Londra, 3 Agosto. William, la nostra Emma è morta; ed io non trovo altra parola, ed io non so immaginare ipocrisia pietosa che valga a farmi tacere. Ah, William, tu che l'hai tanto amata, tu che vivrai eternamente colla memoria di quell'angelo che abbiam perduto, capirai la mia brutalità. Perché tenterei nasconderti l'orrenda novella fra le pieghe di lunghi periodi, perché tenterei nasconderla nell'ultima pagina della mia lettera? Son sicura che nell'aprir questo foglio, tu sentiresti nell'aria l'odore della fossa, ed io non potrei ingannarti. Potrei tacerti ancora per qualche tempo l'orribile parola, ma il mio silenzio sarebbe ancor più crudele. Ella ti aveva giurato di scriverti ad ogni corriere, e tu non avresti più ricevute notizie di Emma. Vi ha qualche cosa peggiore della morte, ed è l'agonia. Son quindici giorni che la nostra Emma riposa nel bosco dei pini, nel parco, vicino al ponticello; e solo perché oggi parte il corriere, dopo una lunga tortura ho potuto prender la penna e scriverti. William, come possono tollerare la vita coloro che non credono in Dio, come possiamo sentirci strappar vivente il cuore a brani a brani, mentre siamo ancor vivi, senza credere che rivedremo un giorno i nostri cari? Ho letto che gli abitanti dell'Abissinia strappano dai bovi brandelli palpitanti di carne che poi fanno cuocere per loro alimento: e così di giorno in giorno macellano e straziano quei poveri animali, finché non rimangono che le ossa e le viscere, mal vive o mal morte. Ma non siamo noi nel corso della nostra vita in tutto eguali ai bovi dell'Abissinia? Non perdiam noi lembo a lembo i nostri più santi affetti, e chi vive a lungo non si trova all'ultimo ridotto ad uno scheletro senza carni e senza gioia, ma che pur cammina, spossato ed esangue per la lunga abitudine di aver vissuto? William, pensa che la tua Emma è morta sicura di rivederti in un mondo migliore, ha chiuso gli occhi tranquilla e serena, confidando che tu saprai resistere al tuo dolore, che tu non affretterai d'un minuto l'orologio della tua vita. Io piangerò finché vivo la mia Emma, che ho amato come una figliuola, ma nel mio pianto avrò sempre la cara speranza di rivederla. E anche tu, William, devi piangerla a questo modo; ritorna in Inghilterra a baciare la sua tomba, ritorna fra noi. Io sono rimasta sola sola, ultimo avanzo d'una famiglia numerosa, spenta in pochi anni. Tu che sei mio figlio d'adozione, vieni ad abitare con me. Vieni a dare qualche conforto ad una povera vecchia che cammina silenziosa in un vasto palazzo, e sente paura nell'udire i suoi passi, solo avanzo di tanta vita, di tanto rumore. Già da molti anni non si udiva il lieto schiamazzo dei bambini, le grida di pianti innocenti, le esclamazioni della vecchia zia Anna; ma da un anno Emma aveva riempito la casa di una vita nuova. Dove si moveva quell'angelo, dove respirava, vi era un giardino sempre fiorito. Non diceva una parola che non fosse una poesia vivente; non aveva un sorriso che non fosse una carezza; malinconica, malata, sofferente, ella non aveva che gioie e benedizioni per le creature che l'avvicinavano. Quanto vuoto lascia in questo mondo una creatura che si ama! Vieni, William, a raccogliere tutta questa eredità di profumi e di passioni. È tua, soltanto tua, nessuno prima di te verrà a profanarla. Ho chiuso la casa ai curiosi, ai parenti lontani, agli amici. La casa dove ha vissuto gli ultimi giorni la tua Emma, è tutta tua, soltanto tua. Permetti a me sola di esserti guardiana del tuo cimitero. Troverai ancora il cembalo aperto, e sul leggìo l'ultima musica che ha suonato. Troverai nel suo bicchiere accanto al letto dove è morta, i suoi fiori inariditi e pur profumati ancora; vedrai il suo orologio che camminò ancora sette ore dopoché ella era morta; troverai ancora vivo il suo canarino. Vedrai sul suo cavalletto un disegno non finito; troverai i suoi vestiti, i suoi libri prediletti: tutto troverai, fuorché la nostra Emma che dorme in pace nel parco accanto al padre. Vieni, William, non morire su terre lontane, fra stranieri che non ti intendono, fra gente che non l'hanno conosciuta; vieni a raccogliere l'ultimo fiato di quell'anima che non ha vissuto che per te e per te solo. Vieni a baciare su questo nido il suo spirito che aleggia intorno intorno, come una farfalla che batte le sue ali tenerelle contro i vetri della finestra per cercare i raggi di un sole che più non tramonta. La nostra Emma sentiva la morte vicina e, ad onta della sua fermezza, ne aveva paura. Già da più giorni non voleva più rimaner sola, e quando aveva presso di lei una cameriera o un'amica, si indispettiva per un nonnulla, e contraddiceva ogni cosa e montava in collera. Ella, sempre pazientissima, sgridava aspramente le sue cameriere, e poi se ne pentiva e chiedeva loro perdono. Diceva di sentirsi bene, ma tossiva più del solito e non aveva appetito; e dopo aver detto poche parole, si stancava; e pochi gradini della scala la facevano ansare orribilmente. Le proposi di far chiamare un medico; ma montò sulle furie a questa mia proposta, e divenne così rossa in volto da farmi credere che una febbre gagliarda l'avesse assalita colla rapidità del fulmine. Irascibile, irrequieta, malcontenta di tutto, si sdraiava sul letto, e poi si metteva a sedere, e poi di nuovo accasciata si gettava col capo fra i cuscini. In un'ora sola faceva cento cose; in un'ora sola leggeva, scriveva, suonava il cembalo, tentava di dipingere, domandava i giornali, frugava la libreria, e tutto la scontentava. Nelle ore più calde della giornata la prostrazione delle forze era tale che non esciva dalla camera. Io la vedeva soffrire e non poteva consolarla. Tentai ogni via per farlo, ma era un dolore profondo, insanabile, che le rodeva le viscere; ed io non insistetti ad importunarla colle mie domande e i miei consigli. Ella che ha sempre saputo leggere nel cuore di chi la circondava, senza bisogno delle parole, mi era grata del mio silenzio rispettoso. Una mattina, e fu l'ultima della sua vita, mi alzai tardi perché mi sentiva malata, e avendo chiesto di Emma, mi fu risposto che si era alzata per tempissimo e che ravvolta nel suo scialle era uscita di casa, dicendo alla cameriera: - Direte a mia zia che sono andata col primo treno a Bath, per fare una visita alla tomba di mio padre, ma che sarò di ritorno all'ora di pranzo. Fui tutto il giorno inquieta, e i miei occhi cercavano impazienti l'orologio e più di una volta mi avvenne di metterlo all'orecchio, perché mi sembrava che dovesse essersi fermato, tanto il tempo mi sembrava lungo. Finalmente alle quattro ella venne: le corsi incontro: era pallida come la morte, non poteva parlare, tanto le era cresciuto l'affanno del respiro per aver montate le scale. Volle sorridermi, quasi col labbro muto volesse rispondere alle cento domande che mi si affollavano alla mente e che esprimeva colla faccia angosciata e il gesto straziante. Si precipitò nella cameretta da letto e si lasciò cadere quasi stramazzone sul suo sofà, senza aver tempo né forza di levarsi lo scialle, il cappello, i guanti. Aveva le mani gelate e non mostrava di esser viva che con brividi ripetuti e con sospiri profondi e affannosi. Tirai il campanello con tanta forza che ne strappai il cordone: gridai che subito si chiamasse il medico di casa, e poi, fuori di me, appoggiandomi alla sedia e alle pareti, credendo di dover cadere svenuta ad ogni passo, e ad ogni passo ripigliando tutta la mia forza di volontà, escii dalla camera per cercare non so che cosa. Voleva fare un mondo di cose in una volta sola; avrei voluto aver senape, fuoco, acqua di Colonia; avrei voluto avere con me tutti i medici, tutti i farmacisti di Londra; ma sopratutto io cercava William. Mi pareva che tu fossi in quel momento la cosa più necessaria alla mia Emma. Rientrai pochi minuti dopo, udii un grido forsennato di Jessy che gridava: La mia padrona è morta! Miss Emma muore! - e si strappava i capelli. Mi avvicinai al letto e vidi la mia figliuola divenuta del color della cera: le sue labbra livide e insanguinate nuotavano sul cuscino in un lago di sangue che innondava anche il letto ed era caduto sul tappeto. E quelle labbra si aprivano e si chiudevano, e l'ultimo fiato gorgogliava nel sangue. Mi gettai sulla mia figliuola, la abbracciai stretto stretto, e le gridai: Emma, Emma! con una forza tale che il mio grido mi spaventò. Ella aperse gli occhi, volle parlare, sollevò una mano e mi fece cenno allo scrittoio e poi, agitandosi e raccogliendosi in uno sforzo supremo, appoggiò le sue labbra al mio orecchio e chiaramente pronunciò il tuo nome, o William; e poi mi cadde a rovescio ed io perdetti i sensi. Mio William, io rimasi fuor di me due giorni e due notti e non riapersi gli occhi che per piangere, tutto quel che mi resta di anni o di mesi in questo mondo, non riapersi gli occhi che per sentirmi infelice e sola. Parecchi giorni dopo la morte della nostra Emma, ricordai quel gesto supremo con cui mi aveva fatto cenno allo scrittoio, e con religiosa paura andai là e apersi il cassetto. Subito mi cadde sotto gli occhi una lettera suggellata e diretta a te. Te la mando, o William, dopo averla baciata cento volte. Io sento che in quelle pagine il nostro angelo deve aver chiuso qualche santo pensiero che sarà un balsamo per te, che l'hai tanto amata. Sento che in quelle pagine tu troverai il coraggio per vivere, la forza per sperare; e non so distaccarmi da quell'ultimo tesoro senza dolore e senza una orribile trepidazione che, in sì lungo viaggio, possa andare smarrita. Possa un angelo accompagnare quel foglio attraverso l'Oceano; possa giungerti intatto ... William, io so di averti dato con questa mia lettera lo strazio più crudele che possa sopportare il cuore di un uomo; ma anch'io piango e soffro e vivo perché t'aspetto: e conterò i giorni e le ore, perché so che col primo postale di Panama tu sarai qui con me. Fin allora io terrò lontano dalla casa dove visse la nostra Emma, ogni curioso, anche gli amici. Nessuno toccherà i suoi libri, i suoi fiori, il suo cembalo, tutto ciò che fu suo. Nessuno porterà i suoi passi profani là, sotto i pini, dove ella riposa accanto al padre. Più d'una volta ella m'aveva detto che là voleva dormire l'ultimo sonno; e là l'ho coricata per sempre. Vieni a piangere colla tua vecchia zia Anna su quella fossa. Vieni William, vieni subito: io ti attendo. Eccovi le ultime parole di una delle più belle e più sante creature che abbian sorriso e pianto sotto i raggi del sole. L'ultima lettera di Emma portava la data del 14 luglio, vigilia della sua morte. Londra, 14 luglio, 18… William, mi sento morire. Non l'ho detto alla buona zia Anna, non l'ho detto al medico, perché sento che tutto sarebbe inutile. Il dolce clima di Madera aveva messo un velo sottile sulla mia piaga, ma le nebbie di Londra me l'hanno riaperta e più crudele che mai. Io non posso più vivere e solo mi duole che morrò senza averti veduto. Guardo ad ogni ora, ad ogni minuto il tuo ritratto, e ti guardo con così intenso desiderio, che mi pare tu m'abbia a rispondere, che tu abbia a venire a vedermi un'ultima volta - Ma tu non morrai. - E poi mi spaventa ancora il pensiero di dover morire improvvisamente. Sento nel mio petto un fuoco ardente; mi par di sentirvi qualcosa che abbia a scoppiare da un momento all'altro. Tutto questo è nulla, mio William, muoiono tutti: deve esser cosa molto facile il morire. Io ho in me una gioia divina che mi dà coraggio, che mi fa superba d'aver vissuto, che mi fa beata d'averti conosciuto, di averti amato, d'esser stata tanto amata da te! Come siamo egoisti; sto per morire e tripudio come una fanciulla nella beata sicurezza che tu non sarai di nessuna donna, che non sei stato e non sarai d'altri che della tua Emma. M'hai troppo amato! Ti lascio troppo ricco tesoro di memorie, troppo splendida eredità di affetti, perché tu possa essere di un'altra. Questo pensiero mi fa delirar di gioia. Ho bisogno di mettermi le due mani al mio povero seno, e stringerle forte forte, perché il cuore mi palpita tanto che sembra volermi soffocare. La mia fede nel tuo amore è così sicura come la mia fede in Dio. Ah, padre mio, ho fatto il mio dovere. Domani andrò a visitare la tua tomba, andrò a mormorare al tuo orecchio che la tua Emma ha tenuto la sua parola, che è degna di te, che ella muore senza aver messo al mondo altri infelici che come lei sarebbero morti, ma che forse avrebbero maledetta la vita e chi glie l'aveva data. Tu, no, mio padre, non hai avuto colpa alcuna di avermi messo al mondo; tu non sapevi di esser malato quando mi davi la vita. Non vedi, mio William? Io aveva ragione di resistere al tuo amore, di resistere alle tue speranze. Il clima di Madera m'aveva cicatrizzata una ferita, non mi aveva guarita. Se t'avessi dato la mano di sposa, avremmo avuto figli maledetti nel grembo della madre. Un rimorso eterno avrebbe avvelenato il nostro amore; io non avrei potuto pensare a mio padre. Sarebbe stato un inferno. Ma tu devi vivere, mio William, tu me l'hai a giurare, mio William; qui al fondo di questo foglio su cui per l'ultima volta si è appoggiata la mano pallida e magra della tua Emma, tu hai a scrivere il tuo giuramento; tu hai a giurare in nome di questa margheritina, di questo primo fiore che mi hai colto nel Parco di Bath, quando tu mi hai detto, senza parole, d'amarmi. Tu me l'hai a giurare su questa ciocca di capelli, dove tu un giorno, in un delirio d'amore hai deposto un bacio. Sono le reliquie della tua Emma. Quando verrà il tuo ultimo giorno, fatti seppellire con esse; fa di serbarmele, finché ci rivedremo in cielo. Mio William, tu non hai soltanto a vivere, ma tu hai a rendere feconda la tua vita di opere coraggiose, di opere grandi. Il tuo splendido ingegno può trovare dappertutto un campo d'attività. Nella scienza, in viaggi, pericolosi e nuovi, nel terreno ardente della politica, tu puoi, tu devi essere un uomo grande, utile, potente. Fa tutto quel bene che non ho potuto fare io stessa, che non abbiam potuto fare insieme. E anch'io non avrò vissuto inutilmente, perché la mia memoria ti accompagnerà nelle tue lotte, nelle tue fatiche, nei tuoi affanni. Io muoio coll'orgoglio di averti ispirato sentimenti elevati, di averti ispirato opere utili e grandi. Quando nel silenzio del tuo studio il tuo ingegno detterà pagine sublimi che insegnino agli uomini ad essere onesti, ricordati che l'ombra della tua Emma ti sta vicino; che ella incrocia le sue mani sottili e pallide nel suo grembo; sappi che ella ti contempla e sorride al lampo del tuo ingegno. E quando, nella lotta delle passioni politiche, tu combatterai per la libertà; quando nel turbine degli affari lampeggeranno i tuoi occhi battaglieri e sublimi, ricordati che nella folla si nasconde l'ombra della tua Emma; ricordati che ella applaude ai tuoi trionfi, che piange di gioia di essere stata amata da un uomo nobile, grande, e generoso. E quando ti recherai nella casa del povero, e quando asciugherai una lagrima, quando studierai i tristi problemi del pauperismo e del dolore, ricordati che io ti vedo, che io ti ascolto, che io piango e m'allegro con te. E quando contemplerai le bellezze della natura, che abbiamo adorato insieme tante volte come due fedeli sacerdoti del bello, e nell'azzurro d'un cielo sereno, e nel raggio mesto della luna, e nel mistico silenzio dei folti boschi, e fra le erbe dei prati profumati, e nell'onda querula dei laghi, e nel muggito del mare, ricordati ch'io son con te; io nascosta, ma tremebonda di amore; muta ma sospirosa, beata di accompagnarti in ogni luogo, di vivere ancora nelle tue speranze, nella tua memoria. Dedica a me ogni tua opera buona, ogni santo proposito, ogni slancio generoso, e la tua Emma sarà superba di tutto il tuo ingegno, di ciò che farai di grande. Ella ti aspetta, sì, t'aspetta sicura di stringerti al cuore con un amplesso eterno, senza cure, senza affanni, senza rimorsi; sitibonda di una sete che avrà durato per secoli infiniti, ma che l'infinito avrà ad appagare. La tua Emma parte e t'attende dove tu pure verrai. Addio. Vivi e sii grande; vivi e sii uomo utile; vivi e non far soffrire anima viva; vivi e mi ama, come io t'amerò eternamente. Tracciato con caratteri convulsi e tremanti sotto a questa pagina si leggono queste linee: Ti giuro, mia Emma, di vivere. Ti giuro di essere uomo utile e laborioso, te lo giuro per amor tuo. Quito, 27 ottobre 18... WILLIAM. Dacché ho ricevuto le reliquie di Emma e di William, ho sempre atteso religiosamente e in silenzio che una lettera mi dicesse qualche cosa del mio sventurato amico e ho sempre atteso invano. Dieci anni son passati ed io ho diritto di pubblicare queste pagine ardenti di due fra le più nobili creature che io abbia conosciute. Ad onta del mio diritto, ho scritto in Inghilterra più volte a William, alla zia Anna, ma non ebbi risposta alcuna. E dopo aver sperato fino all'ultima ora una parola del mio amico, ho pensato di pubblicare i fogli che mi aveva inviato. Ho la ferma convinzione che l'averli letti non farà male ad alcuno, potrà fare bene a molti.

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Oro Incenso e Mirra

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Oriani, Alfredo 1 occorrenze

Santone alto e tarchiato, coi capelli rossi, i baffi ispidi, il naso corto e grosso, sembrava un bufalo; tratto tratto abbassava i sopraccigli villosi saettando in giro sguardi diffidenti. Viù lo vide tastarsi il coltello nella tasca interna della giubba. - Così non canti, Mengo? - Quella falsa scioltezza impacciava anche gli altri, quando finalmente arrivò Teresa colla bottiglia. - Un'altra, la mia - ordinò Viù spianandosi meglio sulla sedia. - Vada, tutto è accomodato. Datevi la mano - insisté due o tre volte Mengo. - Io sempre - rispose Viù, interrogando l'avversario collo sguardo. Questi gl'indovinò forse nel fondo degli occhietti la sottile canzonatura, e strinse daccapo i pugni; poi vi fu ancora uno scambio lungo, noioso delle solite raccomandazioni, molti già rientrati nella stanza tornarono intorno al tavolo per bere gratis a quella pace, vi ebbero spinte, considerazioni sciocche, complimenti sotto forma d'ingiuria, qualche ingiuria vera fra i pacificatori. Rocco, vessato da tutto quell'intervento, che riduceva a zero la parte così importante avuta nella crisi, se ne andò brontolando, e la pace fu conchiusa finalmente con una terza bottiglia pagata da Santone. Nullameno questi rimaneva accigliato; Viù invece alzando la voce provocantemente, come un vincitore, aveva già fatto cenno a Toto di ravviare la partita. Santone ricusò brutalmente, ma dopo dieci minuti, bloccato, vinto, giocava nuovamente avendo per compagno lo stesso Viù. - Asino! - questi gli gridò confidenzialmente alla prima svista: - non vedi che serbando il re di bastoni avremmo fatto l'ultima presa? Tua figlia Santina gioca meglio di te. - Va dunque a giocare con lei e cavami quattro dita dai... - Là, là, t'inquieti ancora! Bevevano già da tre ore. La partita proseguì facendosi mano mano più seria senza attirare altrimenti l'attenzione del pubblico: si sapeva sin troppo che Viù non lasciava passare giorno senza accattare briga, quantunque in fondo fosse un vigliacco e ne buscasse soventi di sonore. Suo padre, un'altra canaglia, era stato lungo tempo il terrore del paese, poi invecchiando aveva fatto meno paura malgrado l'abitudine delle minacce, e ora diventato idropico per un vizio cardiaco non era più che uno spettro giallo, il quale passava ancora lungo i muri delle case, cogli occhi opachi e il viso smunto, così grottesco nella propria orridezza che i monelli gli davano la baia. E il primo era sempre Viù, il suo unico figlio. Quel giorno stesso dalla porta della pizzicheria vecchia, questi vedendolo attraversare adagio adagio la piazzetta, lo aveva apostrofato: - Morite pure contento, babbo: io mi bevo anticipatamente i danari per la vostra cassa. - Maledetto! Ma l'ingiuria raccapricciante aveva ghiacciato il riso sulle labbra di tutti. Viù non se n'era dato per inteso, anzi scorrazzando per il paese lo aveva riempito del proprio chiasso di bettola in bettola, seguìto da una torma di giovinastri, che bevevano alle sue spalle. Difatti in quel martedì egli aveva intascato parecchie lire colla tassa sul posteggio, della quale il padre aveva dovuto cedergli la riscossione per non potersi più reggere dritto tutta la mattina a farsi pagare dai villani, che venivano colle ceste al mercato. Però l'ultima scena con Santone era rimasta sullo stomaco a Viù. Già, prima, aveva combinato con Toto e con Ghino di prenderlo in mezzo per vincergli una bottiglia e sbertarlo poi ignominiosamente; ma nonostante tutta la sua semplicità quegli se n'era accorto minacciandogli uno scapaccione. Viù di rimando aveva messo mano al coltello, se non che la grossa mano di Santone gli era piombata subito sul pugno stritolandoglielo quasi nello strappargli l'arma. Adesso ci pensavano ambedue scontrandosi tratto tratto con una occhiata seria. - Mi rendi il mio coltello? - chiese Viù all'improvviso. - No. Un lampo sprizzò dagli occhi del ragazzaccio, che finse di stringersi nelle spalle con bonomia. - Ne comprerò un altro. Santone non rispose, bevvero ancora, quindi sopraggiunsero altri monelli in sudore, perché uscivano dal ballo. Se ne parlò, si fecero i nomi delle donne che vi pestavano i piedi sino dal mezzogiorno; uno citò Girella, il peggiore ubbriaco del paese che vi ballava colla moglie e la figlia già grandicella, due sgualdrine, facendosi pagare i poncini da tutti; poi un altro si chinò all'orecchio di Viù: - C'è anche Santina mezzo ubbriaca. - Oh! La partita era alla fine. - Pago io l'ultimo litro - si volse Viù; poi disse: - Andiamo tutti nel pozzangherone. Così chiamavano in paese la sala dove si ballava. - E tu non vieni con noi, Santone? Via! balleremo io e te: io farò da donna, andiamo. "Si scopron le tombe, si levano i morti" - stridé Viù aprendo la marcia a braccio di Santone invano riluttante fra tutti quei ragazzacci, che lo trascinavano quasi a forza cantando e ridendo. Fuori la notte era buia, ma uno scirocco umido la manteneva così calda che si sarebbe potuto girare senza gabbano; per la larga ed unica strada del paesello i pochi fanali sembravano scavare delle pozzanghere giallastre entro l'oscurità dell'acciottolato, e lontano, dove il paese finiva ad un muraglione poggiato sopra una fila di archi a difesa della ripa contro la corrente del fiume, e i freddi invernali, si udivano i rantoli di un organetto. Non erano più delle dieci di notte. Tutti coloro che intendevano prendere parte al carnevale ubbriacandosi nelle bettole o ballando nel pozzangherone, erano già rincasati; dai vetri dei due caffè ancora aperti si vedeva qualche coppia ostinata in una ultima partita a carte entro la luce nebbiosa: quindi un sordo rumore di battenti percossi avvertì la comitiva che anche la Teresa chiudeva l'osteria. Un centinaio di passi più innanzi, dalle due larghe finestre, al primo piano, di una casetta tutta nera uscivano con un gran lume le battute asmatiche di una polka, che un organetto suonava appoggiandosi sui bassi di un violoncello. - Senti Caputo come raschia! - osservò Toto spiccando un salto per arrivare primo lassù. La combriccola invece si arrestò un momento al portone aperto; nel muro di contro, alla stessa altezza, si vedevano passare gesticolando delle grandi ombre entro una specie di vano luminoso, e sparire istantaneamente nell'oscurità della parete; sopra al portone e giù per l'andito nero che si apriva più basso della strada rintronavano le battute di tutti quei piedi, la maggior parte colle scarpe imbullettate, così che i muri ne tremavano; mentre uno strido rauco o un colpo di tacco più violento tentavano di affrettare ancora quel galoppo rovinoso. - E forza... dalli, dalli dunque! - urlarono cinque o sei voci. Allora l'organetto, come preso anch'esso nella vertigine della ronda, strinse così freneticamente il tempo che le note stesse sembrarono pestarsi l'una l'altra come i piedi che, non trovando più il terreno sotto, si ammaccavano balzelloni fra il polverìo rosso dell'ammattonato e il vapore di tutti quegli aliti. Infatti dalle finestre spalancate usciva come una nebbia. - Ballano, ballano! - disse Santone con un sorriso bonario contemplando i salti delle ombre nel muro opposto. Dall'andito aperto nel fondo, dietro la scala, sopra la ripa del fiume, venivano tra il tanfo della fanghiglia lasciatavi da tutti quei piedi fetori umani più acuti, che non permettevano alcun dubbio sul come gl'inquilini della casa ed altri forse del paese, essendo quel portone sempre aperto anche di notte, usassero del cortiletto. Non v'era lume, ma giù dalla scala scendeva un filo di luce sottile come un ragnatelo, appena sufficiente per indicare per dove dall'andito si montasse alla sala. Alcuni calavano già le scale, benché il galoppo non si fosse ancora arrestato. La comitiva entrò. Sopra il secondo pianerottolo quattro scalini mettevano alla sala, altri due invece scendevano in una specie di cucinetta, improvvisata a caffè, con due lunghe tavole da bettola e qualche cocoma sul focolare, ma era quasi vuota in quel momento. Il padrone, un gran pezzo di facchino dai capelli rossi, senza giacca e con un lercio mozzicone di pipa in bocca, raccolse il loro soldo a testa in un vecchio bacile di ferro, che tornò a posare sopra una sedia mezzo spagliata; più in alto, entro un pezzo di legno, era piantata una candela di sego. - Avanti, avanti! - diceva con un gran gesto, ma vedendo Santone cercarsi in tasca i fiammiferi staccò gentilmente la candela dal muro. Era impossibile entrare. In quel momento le coppie dei ballerini si precipitavano dall'uscio verso il caffè sudanti, trafelate; gli uomini trascinando a forza le donne, che sembravano non volervi accondiscendere per quella finta ripugnanza imposta loro dall'uso di dover sempre opporre un rifiuto prima di accettare un rinfresco, e rotolavano quasi dai gradini a grappoli nel buio del pianerottolo, rumoreggiando. Dentro, la sala era ancora piena. Tre lumi a petrolio, sospesi ai travicelli del soffitto, la illuminavano vivamente; in fondo, presso una delle finestre spalancate, il palco dell'orchestra non era composto che di una tavola con sopra due sedie, e i suonatori affranti guardavano con occhio vago. Si girava a stento. Quasi tutti gli uomini, specialmente quelli che non ballavano, rimanevano ritti, ammantellati come la domenica in piazza, senza muoversi: molte donne attempate sedevano sopra due panche lungo le pareti, ed erano le mamme delle più giovani venute a ballare, ma nessuno le invitava mai se non per lazzo; in un altro angolo due carabinieri in berretto e mantello vigilavano scuri, seri, quasi inosservati. Ma nonostante le finestre aperte era caldo. Un puzzo di cenci sudanti, di scarpe unte colla grascia, di petrolio, di polvere, di fiati mozzava il respiro; si parlava a gruppetti sogghignando, la maggior parte fumavano. E un altro odore acuto di vino cotto veniva per l'uscio della cucina, ove i ballerini bevevano secondo il solito dopo ogni ballo. Giga, la bella mora, non aveva voluto a nessun patto discendervi quella volta, benché fosse anche essa fra quelle scritturate dal padrone per il ballo: paga non ne riceveva come tutte le altre, ma solamente a mezzogiorno e sull'avemaria da mangiare: al resto bisognava pensarci da sé eccitando la baldoria e facendo bere i ballerini, perché lì appunto stava il guadagno del ballo. Ogni bicchierino costava due soldi e non valeva forse due centesimi, poi vi erano le zucchette di aleatico a quindici, a trenta, magari a cinquanta soldi l'una, giacché si ballava sempre a sfida. Uno scommetteva di piroettarvi intorno mulinando colla donna senza mai urtarvi del piede; nel caso contrario doveva pagare, ma se gli riusciva invece toccava all'avversario. Ed era il ballo più festoso, che eccitava tutti gli orgogli e tutte le curiosità come gli a solo in teatro. Viù si accostò a Giga. - Ohé, Mora, vuoi fare una galletta con me? - Perché no? adesso, dopo. - Allora chi pigliamo? Santina? - È andata via poco fa. - Con chi? - Lo so io? - rispose la Mora con un sorriso sprezzante che le scoperse tutti i magnifici denti bianchi. - Cerca tu le donne che vuoi. Per il ballo della galletta ce ne volevano quattro, e un uomo solo nel mezzo. Viù invece si accostò a Toto: - Dov'è Santina? - Era quasi ubbriaca del tutto, sarà andata a casa. - Imbecille! Lei non va a casa se è ubbriaca: l'avranno portata fuori. Toto si mise in cerca che già Perpignano, il direttore di sala, batteva le mani per il nuovo ballo; i ballerini ritornavano lentamente dal caffè a coppie, perdendosi fra la folla, mentre Caputo tentava d'accordare il violoncello e la gente rimaneva sempre lì nel mezzo. - Indietro dunque, indietro! - gridava Perpignano colle lunghe braccia distese per disegnare il circolo, e intanto chiedeva il soldo a tutti gli uomini che si disponevano in fila con una donna. - Indietro dunque! Paga il soldo tu, Cristiano: va bene, spingi indietro. Ehi, Tonio! non hai pagato nemmeno l'altra volta, credi che me ne sia scordato? Per Dio! ma se non date indietro vi pesto i piedi: lasciate dunque ballare. Monferrina, avanti! To,... il soldo? Mora, in fila, bella Mora, e tu, Cocca, fatti avanti con Santone. Bene, Santone! quattro salti anche tu, crepi la malinconia, bisogna divertirsi al mondo! - Viva il carnevale! - strillò Viù spingendo Santone un po' impacciato colla sua ballerina, la Berta del beccamorti, una ragazza sottile come una faina, dal musetto nero e due occhi che foravano la pelle. Ella rideva con Viù. Ma l'ondeggiamento della sala seguitava sempre impedendo al circolo di formarsi malgrado tutti gli sforzi di Perpignano, alto e secco, che pigliava la gente per le spalle, dove meglio poteva, respingendola in fila. Il pubblico troppo affollato quella sera, finiva coll'aver ragione dei ballerini. L'organetto aveva gettato la prima battuta in una nota di falsetto stridula come di una punta sul vetro, che si era perduta nel fracasso; dalle finestre aperte improvvisi buffi di vento abbassavano le fiamme dei lumi a petrolio producendo bizzarri effetti di ombra sopra quella massa grigia, compatta ed oscillante, cui le donne allineate alla parete facevano come una cornice anche più scura. Tratto tratto a un grido di ragazzetto nascosto fra le gambe degli altri, a un urto imprevisto trasalivano. Viù impaziente di primeggiare apostrofò Perpignano: - Ridammi il mio soldo, se non sai far stare la gente a posto. - Ti cogliesse un accidente! come vuoi fare? - Musica, musica! vedrai che si scostano. Infatti egli per il primo urtò in Santone spingendoselo innanzi, e tutte le coppie spostandosi in una specie di curva riuscirono a fare il vuoto nel mezzo. La monferrina, intonata con una veemenza di fanfara sugli acuti più stridenti dell'organetto, si allentava ogni tanto nella scarica di quattro passi di polka per riprendere daccapo sopra un ritmo di una monotonia accorante, senza che alcuno se ne impressionasse. Invece si notavano già le bizzarrie del ballo: quelli che non pigliavano mai il tempo e galoppavano pettoruti, o curvi, o dinoccolati, con un braccio intorno alla cintura della donna nella goffaggine pesante di una carezza, che talvolta tentavano di compiere accostandole di più il volto, mentre ella si ritraeva con ripugnanza; altre coppie più strette, che si parlavano all'orecchio brancicandosi; parole ed atti lubrici scattavano come scintille fra il polverio, senza che nessuno di quei volti esprimesse una gioia. Tutti sembravano faticare, colle carni in sudore e la bocca semi aperta. Le donne, meno grevi degli uomini, si lasciavano trascinare guizzando talora negli scambietti della polka con subita agilità. - A me! - gridò Viù cacciandosi fra Santone e Berta per portargliela via; e difatti vi riuscì col tagliare il circolo insinuandovisi poco più lungi fra le altre due coppie, mentre Santone rimasto nel mezzo fra lo scoppio di una risata generale si sentiva improvvisamente preso alle spalle. Era Cocca, la ballerina di Viù, che per non restare sola lo aveva abbracciato sospingendolo nuovamente al galoppo. - Ih, ih! frusta, Cocca - si gridava da ogni parte: - tira di fianco come un cavallo da bilanciere. Allo stesso momento Viù e Berta, nel passargli dinanzi colla leggerezza di due uccelli, sfiancavano daccapo per piroettare nel mezzo. La piccola Berta sembrava scodinzolare dentro le sottane scartando rapidamente il piede e torcendosi sui fianchi con una mossa, che faceva quasi sempre dare un urlo alla massa. Viù invece era sgarbato, ma la disgustosa brutalità della sua faccia in quelle contorsioni del ballo si animava di una lascivia esilarante. A testa bassa, col comignolo della gobba, che gli saliva quasi sopra un orecchio, fingeva ad ogni istante di precipitarsi contro il ventre della ballerina, e le donne ne ridevano più degli uomini. - Che duri, che duri! - vociavano le coppie tornate al passo per ripigliare il fiato. - Vuoi venire a bere? - domandò Santone alla Cocca. - No. Ma ad un gesto di Perpignano il galoppo ricominciò così frenetico che tutti ne indovinarono la fine; allora si alzarono proteste, gridii, pestando più violentemente i piedi fra lo scherno di quelli che non ballavano e si compiacevano di vedere i ballerini mezzo frodati del loro soldo. - Che duri, per Dio! - È finita, gobbo... - Bella Mora, avanti! - La Cocca squittì colla sua voce di volpe: - Santone, tira gli ultimi. - Vengo io - le saltò innanzi Ghino, mentre l'altro preso dalla vertigine di quel circolo troppo stretto girava sopra sè stesso come un bue colpito da una mazzata fra le corna, ma si rimise quasi subito e, riafferrando la Cocca di volo, all'ultima battuta, la sostenne per aria con una mano. - A bere, a bere! - urlarono quasi tutti aggruppandosi intorno a Santone, che si era messo violentemente la Cocca sotto un braccio: Viù li seguiva con Berta, Ghino con la bella Mora. Si misero a tavola nel camerino con dinanzi un piattello di paste e dei bicchierini di vermouth per le donne, gli uomini presero del vino caldo, ma anche lì c'era ressa. La gente non arrivava a potersi sedere, trasudata, senza un pensiero delle correnti di aria che s'infilavano su per le scale, non domandava insistentemente che da bere. - Se muta vento, Mora, farai la brina su tutto il pelo. - E tu? - Dammi una mano che ti faccia sentire fin dove son bagnato. La Mora alzò le spalle voltandosi a guardare negli occhi Ghino, che le pizzicava una coscia sotto la tavola. - Non è lì! - ghignò con un impudore sprezzante. L'altro rimase interdetto. Santone invece non sapendo cosa dire aveva già vuotati due bicchieri di vin caldo, e badava ad offrire delle paste battendo leggermente col labbro del piattello nel seno delle ragazze perché ne prendessero; nel camerino così pieno era un continuo via vai, molti si affacciavano all'uscio per scambiare una parola o guardavano solo curiosamente senza entrare, mentre la Veronica, sorella del padrone, si affannava indarno per servire tutti. Viù aveva indettato Berta. - Perché, Santone, non vuoi che Santina venga anche lei a ballare? - Non voglio - replicò l'altro duramente senza accorgersi dei sorrisi che la sua risposta provocava. - E se fosse venuta! Io almeno non l'ho vista: bel male che ci sarebbe... Adesso sarà a casa. E la voce di Berta aveva uno squillo tagliente, poiché aveva già saputo tutto prima di Toto, e lo aveva detto a Viù. - Anch'io voglio andarmene presto - disse Santone. - Perché? Qui si sta bene - rispose Ghino. - Voialtri potete starci, io me ne vado. - Santina non ha paura di rimanere sola a casa? - Perché paura? - Tu l'avresti, Berta? - Io sì - ribatté con atto monellesco che smentiva le parole. Ma un altro accordo si era fatto sentire e nuovi ballerini vennero a cercare le ragazze; i tre uomini rimasero a tavola, poi Santone alzatosi per accendere un mozzicone di sigaro ad una bracia del focolare vi rimase seduto presso alla Veronica. Era una vecchia ragazza sdentata, con un gran naso nel quale una narice molto più larga faceva come un buco; ma tutti le volevano bene perché lavorava tutto l'anno da tessitrice per mantenere il fratello ubbriacone. Quella fatica di fare da sola i ponci, i caffè e il vino caldo, sempre col viso nel fuoco, le aveva fatto diventare le guance giallastre un po' lucide. - Non ho potuto trovarla ancora - mormorò Toto, rientrando, all'orecchio di Viù. - Io so dov'è. - Tu? - Me lo ha detto Berta: è giù nel capanno della Costa con Prugnolina, Scopetta e Sandro. A quest'ora ci saranno già altri. Toto scattò per andar via. - Aspetta - fe' l'altro, gittando una occhiata sinistra a Santone: - si sono portati dietro un fiasco per finire di ubbriacarla, la metteranno in cuccagna. - Nel capanno ci si sta bene. Turulù vi ha lasciato l'altra settimana un fascio di paglia - replicò Toto cogli occhi luccicanti. - Adesso bisogna tener qui Santone. - Vado a vedere. - No, se vai ci resti: sta qui - conchiuse imperiosamente guardandogli in faccia così che l'altro si sottomise. - Allora che cosa vuoi fare? - Andremo giù noi con Santone. L'altro ebbe un gesto d'incredulità. - Gli dico che è la Sghemba di Porciano; noi l'abbiamo condotta laggiù d'accordo cogli altri e vedrai che viene anche lui. Tu vai avanti ad avvisare che scappino perché arriva Santone. L'altro non capiva ancora. - E se la scopre? - Non la scoprirà. È buio; Santina, riconoscendolo alla voce, starà zitta. Mengo e Rocco entrando dalla scala tagliarono loro il dialogo; allora Santone tornò alla tavola e la Veronica servì altri cinque ponci. - Abbiamo cantato fino adesso: ohé, Mengo!, torna a dire l'ultimo stornello - esclamò Rocco, che una sbornia affettuosa traeva a confessare la propria inferiorità davanti al rivale. Fiori di cesta. Se Adamo c'ebbe a perdere una costa nel far la donna Dio perdé la testa. Ma gli stornelli non facevano più effetto a quella ora. Fortunatamente Santone s'impegnò con Mengo in un discorso di fieno, che non poteva essere breve, perché quegli ne aveva ancora da vendere una buona partita, tutto il suo ricolto dell'estate. Allora Toto e Viù diedero una occhiata in sala e, non potendo stare neanche lì, uscirono a passeggiare. La notte era sempre così tiepida, umida e nera; non si sarebbe riconosciuto un uomo a cinque passi di distanza. - Andiamo laggiù a vedere - insisteva sempre Toto con un tremito spaurito nella voce dopo quella confidenza. Il gobbo invece rideva silenziosamente: ogni tanto qualcuno usciva o rientrava dal portone. - Dunque nessuno lo sa ancora, perché andrebbero per di là in questo caso? - egli osservò accennando verso il fiume. - Che Berta abbia tenuto il secreto? Sarà stato Sandro che non ha voluto avvisare altri; lo conosco. Se gli fosse capitato il tiro da solo, sarebbe stato anche più contento. - Ma Berta come lo ha saputo? - Non ha voluto dirmelo. - Andiamo a vedere. - Andiamo. Oltrepassarono il muraglione a passi concitati, quindi sfiancando per un sentiero discesero la sponda del fiume per tornare quasi sotto la casa del pozzangherone. In quella oscurità il pericolo di tombolare giù sino all'acqua era imminente ad ogni passo, ma i due ragazzacci conoscevano troppo bene cinghione per cinghione tutta la ripa per darsene pensiero. Appena in fondo Viù si arrestò mettendo un fischio. - Vado io. - No, verrà uno di loro - e ripeté cinque o sei volte quel sibilo del quale era solito servirsi come di un segnale. Nullameno s'inoltrarono. La corrente del fiume ingrossata dallo sciogliersi delle nevi rumoreggiava sordamente; si distingueva appena il vecchio ponte, e giù pel greto una casa perché v'era lume ad una finestra. Dall'altro lato non si vedeva che buio. Viù fischiò ancora, poco dopo un'ombra gli si parò davanti. - Sei tu, Sandro? - Sì. Ah! lo hai saputo. - Lo ha saputo anche Santone, almeno cerca Santina. - Oramai è talmente ubbriaca che non ci riconosce più. Vieni. - No, torno su per trattenere Santone; ma se mi sentite ancora a fischiare, scappate subito; vuol dire che egli viene giù. Lo conoscete! - L'altro era rimasto interdetto. La voce di Viù, la sua premura, mentre tutti lo sapevano così pronto a godersi il male altrui, gli parevano sospette. - Di', vuoi mandarci via per restare tu con lei? - La pigli così? Ti saluto. - Aspetta. Toto era perplesso, ma la soggezione verso Viù lo vinse anche questa volta; allora Sandro andò loro dietro per qualche passo, quindi concluse: - Per me ne ho avuto già abbastanza. - No, per Dio! - ribatté Viù - io torno subito. Se posso, imbroglio Santone e lo mando a cercare dal lato opposto, altrimenti calo anch'io con lui fischiando. Voialtri fuggite per il fiume: ma se veniamo soli io e Toto, ci divertiremo. Com'è, com'è Santina? - chiese mutando tono. - Oh! è da ridere; spranga calci come una cavalla. - Su, svelto, Toto! - E si separarono. Santone scendeva appunto le scale per tornare a casa, quando essi rientrarono nell'andito. - Dove vai? - A letto. - Vuoi venire con noi invece? - Dove? - Abbiamo la Sghemba di Porciano nel capanno della Costa. - Ohé! - esclamò Santone sorridendo - siamo noi soli? - Ritorno adesso di là, è mezzo ubbriaca: ho detto che venivo a prendere un fiasco. Vedrai che rideremo. - Andiamo pure. Toto non aveva fiatato; malgrado la sua precoce malvagità quel tentativo lo spaventava. Lungo il muraglione diede una gomitata a Viù, ma questi gli disse di andare innanzi; quindi scesero adagio, circospetti, perché Santone meno agile di loro veniva ultimo. - Com'è che non parliamo? Pare che andiamo a seppellire un morto - questi esclamò. - Sta zitto, qualcuno potrebbe seguirci; è meglio che siamo soli. - La Sghemba ne ha viste ben altre. - Sai pure che quando s'impunta è capace di non volere alcuno. - Questa volta la vedremo! - replicò Santone con un franco riso. - È tutto carnevale. Erano scesi. - Vado io, voialtri venite adagio - disse Viù sparendo rapidamente nell'ombra. I due si fermarono. Toto tremava. Benché il capanno non si distinguesse ancora, non era a più di cinquanta passi entro una insenatura della ripa coperta di virgulti, pei quali coll'agilità della giovinezza non sarebbe stato molto difficile arrampicarsi; e davanti gli si apriva un bel pezzo di fiume asciutto. Santone andò innanzi. - Vieni, è mezzo addormentata - gli sussurrò improvvisamente Viù sorgendogli di faccia ad una svolta: - Entra tu per il primo che sei il più forte: con te certo non la può. - Non c'è nessun altro? - No, io non sono nemmeno entrato: l'ho sentita dal di fuori nicchiare sul fieno. - Lascia fare a me. - Bada che ci siamo anche noi dopo - riprese Viù sogghignando. - Diavolo! - Ecco. Toto e Viù si ritrassero, mentre Santone allungando due passi imboccava l'apertura del capanno. - Ohé, Sghemba! - chiamò a mezza voce. Un urlo soffocato fu la risposta, intanto che Toto e Viù sgattaiolavano su per la macchia, nella quale gli altri tre erano già fuggiti. Ma Viù si fermò: il rombo del fiume in quel momento gli parve spaventevole. Aspettò ansiosamente con Toto senza capire che cosa potesse accadere, giacché Santone era sparito dentro al capanno ridendo all'urlo di Santina senza riconoscerla. S'intese un rumore sordo di lotta e la voce di Santone che disse: - Va là, Sghemba, che non mi scappi. - No, no - esclamò soffocatamente Toto alzandosi. - Che fai? - Vado via. - Vigliacco! hai paura - rispose Viù con voce tremula. - Tu sei il vigliacco - replicò l'altro: - va là, questo non ti tornerà a conto. Un urlo di donna, sottile, disperato, si spense dentro al capanno. Allora Viù rimasto solo ebbe paura. Benché la notte fosse buia, si sentì veduto fra quei cespugli: l'aria era pesante, la corrente del fiume scura come l'aria trabalzava rantolando sui sassi, tutto il resto era solitudine. Coll'orecchio teso colse i più piccoli suoni, seguì su per la ripa l'ascensione di Toto, che si separava fuggendo da quel delitto per correre senza dubbio a letto. Nel capanno non si udiva più altro. Santone scambiando la figlia per la Sghemba non si era fatto naturalmente alcun riguardo, mentre l'altra inorridita, inebetita dalla violenza aveva tentato invano di difendersi, poi si era taciuta per una ultima disperata lusinga di non essere così riconosciuta. - Cercherà di sfuggirgli improvvisamente dal capanno, dopo - pensò Viù. Ed egli aveva voluto questo per vendetta dello scapaccione toccato come risposta alla coltellata colla quale per poco non aveva aperto un fianco a Santone. Tutto quanto gli restava ancora di meno guasto nella precoce perversità del cuore balzò in sussulto; poi il silenzio dentro il capanno, come se quei due vi fossero morti, gli dié una paura istantanea, pazza, di poter essere anch'egli ucciso. D'un salto, col medesimo ribrezzo di Toto, si cacciò a caso su per l'erta, ma quando giunse sulla cima era già pentito di aver ceduto a quel moto istintivo; allentò il passo e si dispose a tornare nel pozzangherone. - Sei stato da Santina? - gli chiese Berta col suo sorriso sfrontato. La festa non gli parve più quella. Infatti la maggior parte di coloro che non ballavano l'avevano abbandonata; per le finestre spalancate l'aria della notte, entrando con un freddo umido, sbatteva sinistramente le fiamme dei lumi a petrolio, mentre gli ultimi ballerini, i più ostinati, ballavano come trottano i cavalli da vettura poco più discosti dalla stalla anche se sfiniti. Egli non rideva più. Gli sembrò che la gente lo esaminasse, Toto e Ghino erano spariti, nel botteghino vuoto del caffè la Veronica affranta dormigliava sopra una sedia. Nell'insopportabile crescendo di quella oppressione si ricordò l'atroce ingiuria detta nel pomeriggio al padre, ridotto ad uno spettro, spregiato da tutti per le violenze di una volta, e che nullameno lo aveva sempre amato alla propria maniera. La mamma era morta l'anno passato, in una sera di carnevale, mentre egli, Viù, ballava in quello stesso pozzangherone: se ne ricordava benissimo, che erano venuti indarno a chiamarlo, ma sin d'allora anche i peggiori giovinastri del paese lo avevano giudicato e condannato senza appello. - Vogliamo fare il saltarello? - gli passò innanzi Berta. - Balla tu l'ultima zucchetta - aggiunse un altro. - Balliamola, balliamola! - replicò Berta. - Ti ho detto di no, figlia di beccamorti. - Tu sei il beccamorti, che uccidi tuo padre. - Ohé, ohé! - intervenne il padrone - qui si sta allegri. Balli o non balli la zucchetta? - Viù scrollò la spalla gobba senza rispondere. - Che canaglia! - gli disse dietro il padrone. Ma appena fuori il tormento gli si fece più acuto, avrebbe voluto sapere a qualunque costo come la era andata a finire, e invece appena il pensiero gli si fermava su quella domanda si sentiva correre per le ossa un brivido gelato. Qualche cosa, che prima non avrebbe mai supposto, gli capovolgeva la coscienza, bizzarri rimorsi della vita condotta sino allora gli battevano sul cervello colla violenza di un'accusa, contro la quale non trovava risposta; perché aveva fatto così? Involontariamente tornò al muraglione spiando giù nelle tenebre, ma non udì altro che il rombo del fiume, continuo e misterioso, perdersi nell'invisibile. La notte buia diventava sempre più fredda senza stelle e senza vento: egli solo era così agitato. Sapeva dove abitava Santone, ma non ebbe il coraggio di passare da quel vicolo per vedere se vi era lume alle sue finestre, e Santina vi fosse tornata. Ella era come lui depravata e perversa. Era riuscita a scappare senza farsi riconoscere? Avrebbe voluto sperarlo, perché non ne sarebbe a quel modo rimasto più che uno scherzo: che importava il fatto, se Santone non se ne accorgeva? Questa strana moralità era la sola, nella quale vedesse chiaro. Poi quella tensione troppo forte per il suo spirito si spezzò lasciandolo in una specie di sonnolenza bruta, con un malessere di sbornia e una ripugnanza istintiva a tornare in casa, dove suo padre solo sul pagliericcio stava senza dubbio rantolando come tutte le altre notti. Accese la pipa e ripassò per tutto il villaggio, quanto era lungo, mettendosi sulla strada di Porciano. Adesso pensava alla Sghemba, quell'altra sgualdrina egualmente nota ai due paesi per la brutalità chiassosa delle proprie avventure, e ancora abbastanza bella malgrado i quarant'anni passati. Cantò Mengo, da lontano: Fior di cicuta. Io remo e la barchetta va spedita Perché, donna, dal cor mi sei caduta. Allora Viù affrettò il passo per incontrarlo, ma quando poté scorgere un'ombra s'accorse che un'altra le veniva dietro. Si avvicinava lentamente, egli riconobbe Santone e saltò la siepe nascondendosi dietro un grosso olmo. Si capiva che andavano a spasso per digerire il troppo vino ingollato, poi Mengo traballando riprese il discorso di prima con quella ostinazione degli ubbriachi, specialmente quando un ricordo affettuoso li mette sui racconti di famiglia. - Perché vedi - si sentiva piagnucolare la sua voce - io le volevo un gran bene; l'avevo sposata senza la camicia contro la volontà di mio padre, che mi avrebbe voluto dare in moglie la Ghita. Va là, vi avrei trovato duecento scudi di dote, che non mi avrebbero giovato gran cosa. Bisogna amarsi piuttosto in famiglia: allora, anche se torni a casa qualche volta ubbriaco, tutto si accomoda. La Ghita ha sposato Giustino, ebbene, Giustino ha fatto un cattivo affare... bisogna che porti sempre il basto e lei sopra. Tu capisci. Ma se vi volete bene in famiglia... la non dura. Qualche cosa ci ha sempre da essere di guasto in casa, o la moglie o la figlia. Santone dié un soprassalto. - Non dico per la tua, ma è così. Io non ho figlie, se le avessi, farebbero come le altre; che colpa ne abbiamo noi? Io me lo sono detto mille volte, i primi giorni, quando mi veniva da piangere anche per strada; e che, la colpa è mia, se Teresa mi è morta di parto? Lo so, doveva accadere così, perché fu così, ma mi pare, guarda, mi pare talvolta ancora di avercene avuto colpa. Non è vero: io non ce ne ho avuta, dillo anche tu. Non avrebbe potuto accadere anche a te? Tu vai a casa, e la moglie resta gravida: ebbene? Dovevo saperlo io che sarebbe morta? - Santone alzò la testa; erano oramai presso l'olmo, ma l'altro non finiva il discorso. - Infine - mormorò Mengo - chi non ne ha colpa non ne ha. Che cosa ci può fare un uomo? Ti capitano alle volte delle cose che non si crederebbero a raccontarle: io ho ammazzato mia moglie, sono io l'assassino! - esclamò Mengo con un singhiozzo. - L'assassino è chi lo sapeva! - mugghiò Santone cupamente stringendo i pugni nell'ombra. Eppure nessun altro assassinio n'è seguìto. Il fatto narrato la mattina da Toto occupò tutti i discorsi del paese senza che alcuno pensasse a denunciarlo alle autorità. Viù, sbigottito, sulle prime tentò di negare, ma siccome Santone era partito per Porciano, dove andava qualche volta a lavorare nelle carbonaie, non stette molto a vantarsene. Quindi la lubricità dello scherzo ne fece presto dimenticare l'orrore, molto più che Santina negando risolutamente non se ne mostrava affatto preoccupata. - Il rovescio di Mirra! - disse un giorno il segretario comunale, appassionato filodrammatico, vedendola passare sgonnellando per la strada. - Mirra, che cosa? - chiese il sindaco, ex maresciallo dei carabinieri, che aveva preso moglie nel paese. E l'altro colse a volo l'occasione di spiegargli lungamente il caso della tragedia alfieriana.

Se non ora quando

680672
Levi, Primo 1 occorrenze

Anche Francine, come Schmulek, come Edek, quando parlava di morte abbassava la voce. Non lo so: ho incontrato una francese che era dottoressa nell' infermeria, mi ha aiutato, mi dava da mangiare, per un po' di tempo mi ha fatto lavorare come infermiera. Ma questo non sarebbe bastato, molte donne mangiavano più di me e morivano ugualmente, si lasciavano andare a fondo. Io ho resistito, ma non so perché; forse perché amavo la vita più di loro, o perché credevo che la vita avesse un senso. È strano: era più facile crederlo laggiù che non qui. In Lager nessuno si uccideva. Non c' era tempo, c' era altro da pensare, al pane, ai foruncoli. Qui c' è tempo, e la gente si uccide. Anche per la vergogna. _ Quale vergogna? _ chiese Line: _ Si ha vergogna di una colpa, e loro non hanno colpa. _ Vergogna di non essere morti, _ disse Francine. _ Ce l' ho anch' io: è stupido ma ce l' ho. È difficile spiegarla. È l' impressione che gli altri siano morti al tuo posto; di essere vivi gratis, per un privilegio che non hai meritato, per un sopruso che hai fatto ai morti. Essere vivi non è una colpa, ma noi la sentiamo come una colpa. Gedale non si staccava da Francine, Bella ne era gelosa, e Gedale non si curava della gelosia di Bella. _ Eh già, _ diceva Bella, _ lui fa sempre così, gli viene naturale. Gli interessano le forestiere, corre sempre dietro all' ultima che incontra. Alle domande di Gedale e degli altri, Francine rispondeva con volubilità nervosa. Era stata infermiera, sì; aveva compassione per le malate, ma qualche volta le picchiava. Non per far loro del male, solo per difendersi, non sapeva come spiegare, difendersi dalle loro richieste, dai loro lamenti. Lei sapeva del gas, tutte le anziane sapevano, ma non lo diceva alle nuove arrivate, non avrebbe servito a niente. Scappare? Una pazzia: scappare dove? E lei, poi, che parlava male il tedesco e niente il polacco? _ Vieni con noi, _ le disse Sissl, _ adesso tutto è finito, sarai il nostro medico. _ E fra qualche mese nascerà anche un bambino. Mio figlio, _ aggiunse Isidor. _ Non sono come voi, _ rispose Francine, _ io torno in Francia, è il mio paese _. Vide in mano a Bella il romanzo, lesse "Victor Hugo", e se ne impadronì con un grido di gioia: _ Oh, un libro francese! _; ma subito vide il titolo polacco, indecifrabile, e rese il volume a Bella che riprese a leggerlo con freddezza ostentata. Per qualche giorno Pavel si arrabattò a corteggiare Francine, con la grazia di un orso; ma lei rideva del suo francese orecchiato nei cabarets, e Pavel si ritirò senza drammi, anzi, con qualche vanteria borbottata fra i denti: _ Non era il mio tipo, gliel' ho fatto capire. Troppo fine, troppo delicata: un po' meschugge, sarà effetto dei guai che ha patito, ma non pensa che a mangiare. L' ho vista io, tutte le briciole che trova se le ficca in tasca. E si lava troppo. Nel campo di Glogau il tempo passava in un modo strano. I giorni erano vuoti, tutti uguali, colavano via noiosi e lunghi, ma nel ricordo si appiattivano, diventavano corti e si confondevano l' uno con l' altro. Passavano le settimane, i russi erano distratti, spesso anche ubriachi, ma non davano permessi d' uscita. Nel recinto c' era un andirivieni continuo: arrivavano prigionieri di tutte le nazionalità e condizioni, altri venivano rilasciati in virtù di criteri indecifrabili. Partirono i greci, poi i francesi e Francine con loro; i polacchi e i tedeschi rimasero. Il comandante del campo era gentile, ma si stringeva nelle spalle: lui non sapeva niente, non dipendeva da lui, eseguiva gli ordini che riceveva dai Comandi. Gentile ma fermo; di fatto la guerra era vinta, ma si combatteva ancora, e non lontano: intorno a Breslavia, ed anche sui monti dei Sudeti occidentali. Le disposizioni erano severe, nessuno doveva ingombrare le strade. _ Abbiate pazienza ancora per qualche giorno, e non chiedetemi cose che non vi posso concedere. E non tentate di evadere; è una cortesia che vi chiedo. Gentile, fermo e curioso. Chiamò Gedale nel suo ufficio, poi tutti gli altri ad uno ad uno. Era mutilato della mano sinistra, e portava sul petto una medaglia d' argento e una di bronzo; dimostrava una quarantina d' anni, era magro e calvo, scuro di carnagione, aveva grosse sopracciglia nere, parlava con voce tranquilla ed educata e sembrava molto intelligente. _ Secondo me, non è molto tempo che il capitano Smirnov si chiama Smirnov, _ dichiarò Gedale di ritorno dall' interrogatorio. _ Che vuoi dire? _ chiese Mottel che non era ancora stato chiamato. _ Voglio dire che è riuscito a farsi cambiare il nome. Che è ebreo, ma non vuole che lo si sappia. Vedete un po' anche voi, quando verrà il vostro turno, ma siate cauti. _ Che cosa dobbiamo dire e non dire? _ chiese Line. _ Dire il meno possibile. Che siamo ebrei, va da sé. Che fossimo armati non lo possiamo negare; se ve lo chiede, ammettete di essere partigiani, è sempre meglio che passare per banditi. Insistete sul fatto che abbiamo combattuto contro i tedeschi: dite dove e quando. Silenzio sulla banda di Edek e sui contatti con l' Organizzazione Ebraica di Combattimento. Silenzio, se possibile, anche sul camion, perché l' abbiamo fatta un po' grossa; alla peggio, dite che l' abbiamo trovato in avaria e l' abbiamo riparato. Sul resto è meglio essere vaghi: dove andiamo e da dove veniamo. Chi è stato nell' Armata Rossa se lo tenga per sé: tu soprattutto, Piotr; preparati una storia che stia in piedi. Ma non credo che sia della polizia, è curioso in proprio, e noi gli interessiamo. Il turno di Mendel venne alla fine di aprile, quando già si aprivano le gemme delle betulle e la pioggia insistente aveva lavato via dai tetti delle baracche la polvere bruna della lignite. Le notizie della guerra erano trionfali: Bratislava e Vienna erano cadute, le truppe del 1ä Fronte Ucraino combattevano già nei sobborghi di Berlino. Anche sul fronte occidentale la Germania era in agonia, gli americani erano a Norimberga, i francesi a Stoccarda e a Berchtesgaden, gli inglesi sull' Elba. In Italia, gli Alleati avevano raggiunto il Po, ed a Genova, Milano, Torino i partigiani italiani avevano cacciato i nazisti prima ancora che arrivassero le truppe liberatrici. Il capitano Smirnov era elegante nella sua uniforme ben stirata, parlava un russo senza accento, e trattenne Mendel per quasi due ore, offrendogli whisky irlandese e sigari cubani. La favola che Mendel si era preparata, del resto poco plausibile, si rivelò superflua: Smirnov sapeva parecchio di lui, non soltanto il suo nome, patronimico e cognome. Sapeva dove e quando era rimasto disperso, conosceva i fatti di Novoselki e di Turov. Gli fece invece molte domande sull' incontro con la banda di Venjamìn. Chi lo aveva informato? Ulybin stesso? Polina Gelman? I due messaggeri dell' aereo? Mendel non riuscì a stabilirlo. _ È stato dunque questo Venjamìn che non vi ha voluti? E perché? Mendel si tenne sul vago: _ Non so. Non saprei dire: un capo partigiano dev' essere diffidente, e per quei boschi girava gente d' ogni sorta. O forse non ci ha giudicati adatti a entrare nella sua banda, noi non conoscevamo quella zona .... _ Mendel Nachmanovic, anzi, Mendel ben Nachman, _ disse Smirnov sottolineando il patronimico ebraico, con me puoi parlare. Ti vorrei convincere che io non sono un inquisitore, anche se raccolgo notizie e faccio domande. Ecco, io vorrei scrivere la tua storia, perché non vada perduta. Vorrei scrivere le storie di tutti voi, dei soldati ebrei dell' Armata Rossa che hanno fatto la tua scelta, e che sono rimasti russi ed ebrei anche quando i russi gli hanno fatto intendere, con le parole o coi fatti, che bisognava decidere, che non si poteva essere l' uno e l' altro. Non so se ci riuscirò, e se scriverò questo libro non so se lo potrò pubblicare: i tempi possono cambiare, forse in meglio, forse in peggio. Mendel tacque, attonito, perplesso, combattuto fra la reverenza e il sospetto. Per antica abitudine, diffidava di chi mostra benevolenza e fa domande. Smirnov riprese: _ Non ti fidi, e non hai torto. Anch' io so le cose che tu sai; anch' io mi fido di pochi, e mi sforzo spesso di resistere alla tentazione di fidarmi. Pensaci su; ma una cosa ti voglio dire, ammiro te e i tuoi compagni, e vi invidio anche un poco. _ Ci invidi? Non siamo da invidiare. Non abbiamo avuto un cammino facile. Perché ci invidi? _ Perché la vostra scelta non vi è stata imposta. Perché avete inventato il vostro destino. _ Compagno capitano, _ disse Mendel, _ la guerra non è finita, e non sappiamo se questa guerra non ne partorirà un' altra. Forse è presto per scrivere la nostra storia. _ Lo so, _ disse Smirnov. _ So che cosa è la guerra partigiana. So che a un partigiano può capitare di aver fatto, visto o detto cose che non deve raccontare. Ma so anche che quanto voi avete imparato nelle paludi e nel bosco non deve andare perduto; e non basta che sopravviva in un libro. Smirnov aveva pronunciato queste ultime parole staccando le sillabe e guardando Mendel fisso negli occhi. _ Che cosa vuoi dire? _ chiese Mendel. _ So dove andate, e so che la vostra guerra non è finita. Ricomincerà, fra qualche anno, non saprei dire quando, e non più contro i tedeschi. Non per la Russia, ma con l' aiuto della Russia. Ci sarà bisogno di gente come te, per esempio; potresti insegnare ad altri le cose che hai imparato, al fronte di Kursk, a Novoselki, a Turov, e forse anche altrove. Pensaci, artigliere: pensa anche a questo. Mendel si sentiva come afferrato da un' aquila e trascinato in alto nel cielo. _ Compagno capitano, _ disse, _ questa guerra non è ancora finita e tu già mi parli di un' altra. Noi siamo gente stanca, abbiamo fatto e sopportato molte cose, e molti di noi sono morti. _ Non ti posso dare torto. E se tu mi dicessi che vuoi ricominciare a fare l' orologiaio, neppure ti saprei dare torto. Ma pensaci su. Il capitano versò whisky per Mendel e per sé, alzò il bicchiere e disse "L' khàyim!" Mendel alzò il capo di scatto: questa espressione è l' equivalente ebraico di "Alla tua salute!", e si dice appunto quando si beve; ma ha una risonanza più ampia, perché letteralmente significa "Alla vita!" Pochi russi la conoscono, e di solito la pronunciano male; invece Smirnov aveva riprodotto con correttezza l' aspirazione dura del kh. Nei giorni seguenti Smirnov chiamò a colloquio ad uno ad uno tutti i gedalisti, alcuni anche più di una volta. Con tutti fu estremamente gentile, ma sulla sua persona e sulla sua vera identità nacquero discussioni a non finire. Un ebreo convertito; un ebreo mascherato; un ebreo che si finge cristiano, o un cristiano che si finge ebreo. Uno storico. Un ficcanaso. Molti lo giudicarono per lo meno ambiguo, alcuni dissero chiaro e tondo che quello era una spia dell' NKVD, solo un po' più abile della norma; ma la maggior parte dei gedalisti, e fra questi Mendel e Gedale stesso, ebbero fiducia in lui e raccontarono le imprese della banda e le loro vicende personali, perché, come si dice, "Ibergekùmene tsòres iz gut tsu dertséyln", è bello raccontare i guai passati. Il proverbio vale in tutte le lingue del mondo, ma in jiddisch suona particolarmente appropriato. Nei giorni tumultuosi e memorabili in cui finì la Seconda Guerra Mondiale sui fronti europei, all' inizio del maggio 1945, il comando russo che amministrava la costellazione dei piccoli Lager di Glogau sparì come per un incantesimo. Di notte, senza saluti, senza congedi, se ne andarono tutti, compreso il capitano Smirnov: nessuno seppe se trasferiti o smobilitati o semplicemente assorbiti dalla frenesia collettiva dell' Armata Rossa ubriaca di vittoria. Non c' erano più sentinelle, i cancelli erano aperti, i magazzini saccheggiati; ma, inchiodato dall' esterno alla porta della loro baracca, i gedalisti trovarono un biglietto scarabocchiato in gran fretta: Dobbiamo partire. Scavate dietro il camino delle cucine; c' è un regalo per voi, a noi non serve più. Buona fortuna. Smirnov Dietro le cucine trovarono qualche bomba a mano, tre pistole, una pistola mitragliatrice tedesca, una piccola scorta di munizioni, una carta militare della Sassonia e della Baviera, ed una mazzetta di ottocento dollari. La banda di Gedale si mise in cammino ancora una volta: non più di notte, non più per sentieri furtivi né in terre deserte e selvagge, ma per le strade della Germania già prospera e superba ed ora devastata, fra due siepi di visi sigillati, segnati dall' impotenza nuova, da cui il vecchio odio traeva nuovo alimento. _ Prima regola, non separarci, _ aveva detto Gedale; marciavano per lo più a piedi, chiedendo occasionalmente un passaggio ai veicoli militari sovietici, ma solo se la loro capienza era sufficiente a caricare tutti. Ròkhele Bianca entrava ormai nel settimo mese di gravidanza: solo a lei Gedale consentiva di farsi trasportare su qualche carro a cavalli, ma allora l' intera banda si disponeva a scorta. Sullo sfondo indifferente della campagna primaverile, quelle strade brulicavano di un' umanità bipartita, afflitta e festante. Cittadini tedeschi, a piedi o su carri, rientravano nelle città diroccate, ciechi di stanchezza; su altri carri affluivano i contadini, ad alimentare il mercato nero. A contrasto, soldati sovietici, in bicicletta, in motocicletta, su veicoli militari, su automobili requisite, correvano come impazziti nei due sensi, cantando, suonando, sparando per aria. Per poco i gedalisti non furono travolti da un camion Dodge su cui erano caricati due pianoforti a coda: due ufficiali in divisa vi stavano suonando all' unisono, con impegno e solennità, l' "Ouverture 1.12" di Cajkovskij, mentre il guidatore si destreggiava fra i carri con sterzate brusche, pigiando la sirena a tutta forza e senza curarsi dei pedoni che si trovava davanti. Ex prigionieri di tutte le nazionalità si spostavano in gruppi o solitari, uomini e donne, civili in panni borghesi laceri, militari alleati nelle loro divise khaki con le grosse lettere KG sulla schiena: tutti sulla via del rimpatrio o alla ricerca di una sistemazione qualsiasi. Verso la fine di maggio la banda si accampò alle porte del villaggio di Neuhaus, non lontano da Dresda. Da quando avanzavano in terra tedesca si erano accorti che era quasi impossibile comperare viveri nei centri più grandi, semidistrutti, semivuoti ed affamati. Pavel, Ròkhele Nera ed altri due uomini, in missione di approvvigionamento, bussarono alla porta di una casa colonica, due, tre volte; non rispose nessuno. _ Entriamo? _ propose Pavel. Gli scuri delle finestre erano stati dipinti di fresco, con vernice dai colori vivaci. Cedettero subito, ma dietro non c' erano i vetri: c' era una parete compatta di cemento armato, ed in corrispondenza della finestra si apriva la strombatura di una feritoia. Non era una cascina, ma un bunker camuffato, ora abbandonato e vuoto. Il villaggio, invece, brulicava di gente. Era cinto da mura, e dalle porte entravano ed uscivano uomini anziani e donne, dall' aria furtiva e famelica, trascinando carrettini con viveri o cianfrusaglie. Ai lati del portale stavano due guardiani dal volto duro, in borghese, apparentemente disarmati. _ Che cosa volete? _ chiesero ai quattro, che avevano riconosciuto come forestieri. _ Comprare roba da mangiare, _ rispose Pavel nel suo miglior tedesco. Una delle sentinelle fece con la testa cenno di entrare. Il villaggio non era stato danneggiato. Le viuzze acciottolate correvano racchiuse fra pittoresche facciate dai colori vivaci intersecate dai travi a vista dipinti di nero. Lo sfondo era sereno, ma la presenza umana era inquietante. Le strade erano gremite di gente che camminava in tutte le direzioni, apparentemente senza meta né scopo: persone anziane, bambini, mutilati. Non si vedevano uomini validi. Anche le finestre erano piene di volti timorosi e diffidenti. _ Sembra un ghetto, _ mormorò Ròkhele, che era stata a Kossovo. _ Lo è, _ rispose Pavel; _ devono essere profughi da Dresda. Adesso tocca a loro _. Avevano parlato in jiddisch, e forse a voce troppo alta, perché una donna dal corpo massiccio, infilata in un paio di stivali da uomo, si volse ad un vecchio che l' accompagnava e gli disse con ostentazione: _ Eccoli qui di nuovo, più sfrontati di prima _. Poi, rivolgendosi direttamente ai quattro ebrei, aggiunse: _ Il vostro posto non è qui. _ E dove, allora? _ disse Pavel in buona fede. _ Dietro il filo spinato, _ rispose la donna. Pavel, d' impeto, la afferrò per i risvolti del cappotto, ma subito la lasciò andare perché con la coda dell' occhio aveva visto che intorno a loro si stava formando assembramento. Allo stesso istante udì sopra il suo capo un colpo secco, e al suo fianco Ròkhele barcollò e cadde prona. La gente che stava intorno sparì in un attimo, anche le finestre si svuotarono. Pavel si inginocchiò accanto alla ragazza: respirava, ma le sue membra erano flosce, inerti. Non sanguinava, non si vedevano ferite. _ È svenuta; portiamola via, _ disse agli altri due. Al campo, Sissl e Mendel la esaminarono meglio. La ferita c' era sì, quasi invisibile, nascosta sotto la folta capigliatura nera: un foro netto poco al di sopra della tempia sinistra; non c' era foro di uscita, la pallottola era rimasta nel cranio. Gli occhi erano chiusi; Sissl sollevò le palpebre e vide solo il bianco della sclera, le iridi erano girate all' in su, nascoste dentro le orbite. Ròkhele respirava sempre più leggermente, irregolarmente, e non aveva più polso. Finché visse, nessuno osò parlare, come per timore di spezzare quel soffio; a sera la ragazza era morta. Gedale disse: _ Andiamo, con tutte le armi. Partirono a notte, tutti; rimasero nel campo solo Bella e Sissl a scavare la fossa, e la Bianca a recitare la preghiera dei morti sul corpo della sua compagna nera. Le armi non erano molte, ma la collera li spingeva come la tempesta spinge una nave. Una donna, di vent' anni, neppure una guerriera; una donna scampata al ghetto e a Treblinka, uccisa in tempo di pace, a tradimento, senza motivo, da una mano tedesca. Una donna senz' armi, operosa gaia e spensierata, quella che accettava tutto e non si lamentava mai, la sola che non conoscesse la paralisi della disperazione, la fuochista di Mendel, la donna di Piotr. Era Piotr il più furente, ed anche il più lucido. _ Al Rathaus, _ disse breve: _ Quelli che contano saranno lì _. Raggiunsero rapidi e silenziosi la porta del villaggio; le sentinelle non c' erano, irruppero di corsa per le vie deserte, mentre a Mendel tornavano a mente immagini lontane, sbiadite ed importune, immagini che ti inceppano invece di sospingerti. Simone e Levi che vendicano col sangue l' affronto fatto dai Sichemiti alla sorella Dina. Era stata giusta quella vendetta? Esiste una vendetta giusta? Non esiste; ma sei uomo, e la vendetta grida nel tuo sangue, e allora corri e distruggi e uccidi. Come loro, come i tedeschi. Accerchiarono il Rathaus. Piotr aveva ragione: a Neuhaus mancava ancora l' energia elettrica, le strade erano buie, e buie la maggior parte delle finestre, ma quelle del primo piano del municipio erano debolmente illuminate. Piotr aveva chiesto ed ottenuto la pistola automatica donata da Smirnov; dall' ombra dove si era nascosto, con due soli colpi singoli, uccise i due uomini che stavano di guardia davanti all' ingresso. _ Presto, adesso! _ gridò. Corse alla porta e tentò convulsamente di sfondarla, prima col calcio della pistola, poi a spallate. Era pesante e resisteva, e già si sentivano voci concitate all' interno. Arié e Mendel si scostarono dalla facciata, e simultaneamente gettarono ciascuno una bomba a mano contro le finestre illuminate; piovvero in strada schegge di vetro, passarono tre lunghissimi secondi, poi si udirono le due esplosioni: tutte le finestre del piano si sfondarono e vomitarono fuori frammenti di legno e carte. Intanto Mottel cercava inutilmente di aiutare Piotr ad aprire la porta. _ Aspetta! _ gli gridò; si arrampicò in un lampo alla finestra del piano terreno, sfondò i vetri con un colpo d' anca e saltò all' interno. Pochi secondo dopo lo si sentì sparare tre, quattro colpi dalla sua pistola, e subito dopo la serratura della porta fu aperta dall' interno. _ Voi rimanete qui fuori, e non lasciate scappare nessuno! _ ordinò Piotr a quattro degli uomini di Ruzany; lui e tutti gli altri si precipitarono su per le scale, scavalcando il corpo di un uomo anziano che giaceva di traverso sugli scalini. Nella sala del consiglio stavano quattro uomini con le braccia alzate; altri due erano morti, e il settimo gemeva in un angolo e si agitava debolmente. _ Chi è il borgomastro? _ urlò Gedale; ma già Piotr aveva premuto il grilletto a raffica ed aveva falciato tutti. Nessuno era intervenuto, nessuno era sfuggito, e i quattro uomini messi a guardia non avevano visto avvicinarsi nessuno. Nelle cantine del Rathaus i gedalisti trovarono pane, prosciutti e lardo, e tornarono al campo carichi e indenni, ma Gedale disse: _ Di qui ce ne dobbiamo andare. Seppellite la Nera, smontate le tende, e subito in marcia: gli americani sono a trenta chilometri. Camminavano nella notte, con fretta, e rimorso per la vendetta facile, e sollievo perché tutto era finito. La Bianca marciava con coraggio, aiutata a turno dagli altri perché non rimanesse indietro. Mendel si trovò a camminare in testa alla colonna, fra Line e Gedale. _ Li avete contati? _ chiese Line. _ Dieci, _ rispose Gedale. _ Due accanto alla porta, uno lo ha ucciso Mottel per le scale, sette nel salone. _ Dieci contro uno, _ disse Mendel. _ Abbiamo fatto come loro: dieci ostaggi per un tedesco ucciso. _ Il tuo conto è sbagliato, _ disse Line. _ I dieci di Neuhaus non vanno sul conto di Ròkhele. Vanno sul conto dei milioni di Auschwitz. Ricordati di quello che ha raccontato la francese. Mendel disse: _ Il sangue non si paga col sangue. Il sangue si paga con la giustizia. Chi ha sparato alla Nera è stato una bestia, ed io non voglio diventare una bestia. Se i tedeschi hanno ucciso col gas, dovremo uccidere col gas tutti i tedeschi? Se i tedeschi uccidevano dieci per uno, e noi faremo come loro, diventeremo come loro, e non ci sarà pace mai più. Gedale si intromise: _ Forse hai ragione, Mendel. Ma allora, come si spiega che io adesso mi sento meglio? Mendel si guardò dentro, poi ammise: _ Sì, anch' io mi sento meglio, ma questo non dimostra niente. A Neuhaus erano profughi da Dresda. Lo ha raccontato Smirnov: a Dresda sono morti centoquarantamila tedeschi in una sola notte. Quella notte, a Dresda, c' era un fuoco che ha fuso la ghisa dei lampioni. _ Non siamo stati noi a bombardare Dresda, _ disse Line. _ Basta, _ disse Mendel. _ È stata l' ultima battaglia. Camminiamo, andiamo dagli americani. _ Andiamo a vedere che faccia hanno, _ disse Gedale, che non sembrava troppo coinvolto dai problemi che preoccupavano Mendel. _ La guerra è finita: è difficile da capire, lo capiremo a poco a poco, ma è finita. Domani farà giorno e non ci sarà più da sparare né da nascondersi. È primavera, e da mangiare ne abbiamo, e tutte le strade sono aperte. Andiamo a cercare un posto nel mondo dove lui possa nascere in pace. _ Lui chi? _ chiese Line. _ Il bambino. Nostro figlio, il figlio dei due innocenti. Si inoltrarono nella terra di nessuno con gli animi divisi. Erano incerti e timidi, si sentivano lavati a nuovo, come pagine bianche, ritornati bambini. Bambini adulti e selvaggi, maturati nei disagi, nell' isolamento, nei bivacchi e nella guerra, disadatti davanti alla soglia dell' Occidente e della pace. Ecco, sotto i loro stivali venti volte rappezzati, il suolo della nemica, della sterminatrice, la Germania-Deutschland-Dajcland-Niemcy: una campagna nitida, non toccata dalla guerra, ma attenzione, non è che apparenza, la Germania vera è quella delle città, quella intravista a Glogau e a Neuhaus, quella di Dresda, Berlino e Amburgo di cui avevano sentito raccontare con raccapriccio. È quella la vera Germania, quella che si era ubriacata di sangue e aveva dovuto pagare; un corpo prostrato, ferito a morte, già corrotto. Nudo: insieme con l' allegria barbarica della rivincita, provavano un disagio nuovo; si sentivano indiscreti ed impudichi, come chi scopre una nudità vietata. Ai due lati della strada si vedevano case con le finestre sbarrate, come occhi spenti o che non vogliano vedere; alcune ancora coperte dal tetto di paglia, altre scoperchiate, o con il tetto bruciato. Campanili smozzicati, campi sportivi su cui già crescevano erbacce. Nei centri abitati, mucchi di macerie su cui si leggevano cartelli: "Non calpestare: corpi umani"; lunghe code davanti ai pochi negozi aperti, e cittadini affaccendati a cancellare e scalpellare i simboli del passato, quelle aquile e croci uncinate che avrebbero dovuto durare mille anni. Ai balconi sventolavano strane bandiere rosse: recavano ancora l' ombra della svastica nera che ne era stata scucita in gran fretta; ma presto, al progredire del loro cammino, le bandiere rosse si fecero più rade e infine sparirono. Gedale disse a Mendel: _ Se il tuo nemico cade, non rallegrarti; ma non aiutarlo a rialzarsi. La linea di demarcazione fra i due eserciti non era ancora stata consolidata. Al mattino del secondo giorno di marcia si trovarono in un dolce paese verde e bruno, collinoso, cosparso di fattorie e di ville; sui campi i contadini erano già al lavoro. _ Americani? _; i contadini si stringevano nelle spalle con diffidenza ed accennavano vagamente a ovest. _ Russi? _ Niente russi; qui nessun russo. Si trovarono in mezzo agli americani senza accorgersi del trapasso. Le prime pattuglie in cui si imbatterono sbirciarono senza interesse la carovana sbrindellata dei gedalisti: in Germania non c' erano che profughi, avevano visto di peggio. Solo a Scheibenberg una ronda li fermò e li scortò al comando tappa. Il piccolo ufficio, ricavato al piano terreno di una villa requisita, traboccava di gente, quasi tutti tedeschi, evacuati dalle città bombardate o in fuga davanti all' Armata Rossa. Gli uomini della banda lasciarono i bagagli (e le armi nascoste nei bagagli) alla custodia di Mottel e si misero ordinatamente in coda. _ Parla tu per tutti, _ disse Gedale a Pavel. Pavel era intimidito: _ Ma l' inglese io non lo so. Faccio finta di saperlo, mastico solo le parole, come fanno gli attori e i pappagalli. _ Non importa, ti interrogherà in tedesco. Tu rispondi in cattivo tedesco, di' che siamo italiani e che andiamo in Italia. _ Non mi crederà. Non abbiamo l' aria di italiani. _ Tu prova. Se va bene, bene; se va male, vedremo. Non rischiamo molto, Hitler adesso non c' è più. L' americano che sedeva dietro la scrivania era sudato, scamiciato ed annoiato, ed interrogò Pavel in un tedesco sorprendentemente buono; tanto che Pavel dovette faticare non poco per inventarsi un linguaggio che suonasse credibile in bocca a un italiano. Fortunatamente l' americano sembrava del tutto indifferente a quello che Pavel diceva, a come lo diceva, alla banda, alla sua composizione, alle sue intenzioni, al suo passato e al suo futuro. Dopo qualche istante disse a Pavel: _ Per favore, sia più conciso _; dopo un altro minuto lo interruppe e gli disse di aspettare fuori della villa, lui e i suoi compagni. Pavel uscì, tutti si rimisero gli zaini in spalla, e se ne andarono da Scheibenberg "con la mano levata". Gedale disse: _ Non è detto che tutti gli americani siano così distratti, e non sappiamo quali accordi ci siano fra russi e americani. A buon conto, chi ha ancora uniformi e distintivi sovietici addosso o nel bagaglio, è meglio che se ne liberi; se ci rimandassero indietro non sarebbe divertente. Ormai non avevano più fretta. Proseguirono verso ponente a piccole tappe, fermandosi spesso a riposare, in uno scenario sempre nuovo, idilliaco e tragico. Spesso venivano sorpassati da reparti militari americani, motorizzati o a piedi, in marcia verso il cuore della Germania, o incrociavano sterminate colonne di prigionieri di guerra tedeschi scortati da soldati americani, bianchi o negri, col mitragliatore che pendeva indolentemente dalla spalla. Alla stazione di Chemnitz, fermo su un binario morto, stava un treno merci di cinquanta vagoni, orientato in direzione della linea di demarcazione; portava l' intero macchinario di una cartiera, le scorte, gli enormi rotoli di carta appena prodotta, e i mobili degli uffici. A guardia del convoglio c' era soltanto un soldato, giovanissimo e biondo, in divisa sovietica, sdraiato su un divano incastrato in mezzo al macchinario; Piotr lo salutò in russo, attaccarono discorso, e il soldatino spiegò che la cartiera andava in Russia, non sapeva dove; era un regalo degli americani ai russi, perché tutte le fabbriche russe erano kaputt. A Piotr il soldato non chiese nulla. Poco oltre era una fabbrica bombardata, forse un' officina meccanica; una squadra di prigionieri di guerra stava spalando le macerie, sorvegliata da ufficiali e tecnici americani. Non lavoravano come sterratori, ma piuttosto come archeologi: in punta di pala, spesso con le mani nude, e su ogni reperto metallico gli americani si curvavano attenti, lo esaminavano, lo etichettavano e lo mettevano accuratamente da parte. Ròkhele non si lamentava mai, ma era stanca, e le sue condizioni preoccupavano tutti. Stentava a camminare: le sue caviglie gonfiavano ogni giorno di più, dovette rinunciare agli stivali, tagliare malamente la tomaia delle scarpe che Mottel le aveva procurate, e si ridusse infine a camminare in ciabatte. Per brevi tratti la portarono anche su una barella, ma era chiaro che bisognava trovare una soluzione. Arrivarono a metà giugno a Plauen, sulla linea ferroviaria Berlino-Monaco-Brennero, e Gedale mandò Pavel e Mottel a studiare la situazione. La situazione era confusa; i treni passavano irregolarmente, con orari imprevedibili, carichi oltre ogni limite ragionevole. Si accamparono nella sala d' aspetto, che aveva assunto l' apparenza di un dormitorio pubblico. In cassa non c' era più denaro sufficiente per pagare il tragitto dell' intera banda fino al Brennero, come Gedale avrebbe voluto; altro denaro dovette essere speso per una visita ginecologica alla Bianca, che fu ricoverata in una clinica e ne uscì entusiasta per la pulizia e l' ordine che vi aveva trovato; era sana, la gravidanza normale, solo un po' di stanchezza. Camminare sì, ma non troppo. Nel frattempo, la maggior parte dei componenti della banda vagabondavano per la città, come turisti ed insieme alla ricerca di qualche baratto da cui ricavare quattrini. _ Gli abiti pesanti sì, perché andiamo verso Sud e verso l' estate, _ aveva detto Gedale. _ Gli attrezzi di cucina solo se a un prezzo conveniente; le armi a nessun costo. Nessuno dei gedalisti aveva esperienza della vita di città; solo Leonid l' aveva avuta, e molti lo rimpiangevano. A Plauen erano intimiditi e sorpresi dalle contraddizioni: in mezzo alle strade ancora ingombre di macerie girava il lattaio col carrettino e la trombetta, puntuale, tutte le mattine alla stessa ora. Il caffè e la carne avevano prezzi folli, invece l' argenteria era a buon mercato. Mottel comprò per pochi marchi una bella macchina fotografica già carica; si disposero in gruppo, alcuni in piedi, altri accovacciati in prima fila, tutti con le armi bene in vista. Nessuno voleva mancare dalla foto, così dovettero pregare un passante di fotografarli, sullo sfondo di una prospettiva di case in rovina. I treni funzionavano male, ma il Reisebüro, l' unico Ufficio Viaggi della città, funzionava bene: la linea telefonica era stata ripristinata, e sapevano più cose che alla stazione. Ciò non di meno, Gedale dalla stazione non si allontanava mai molto. Lo si vedeva spesso in compagnia di uno dei manovali delle ferrovie; Gedale era generoso con lui, gli offriva la birra all' osteria, un giorno furono visti insieme appartati nel giardinetto della stazione: Gedale suonava il violino e il tedesco il flauto, entrambi seri ed intenti. Gedale, senza dare spiegazioni, raccomandò che nessuno si assentasse: forse si ripartiva presto, tutti dovevano essere reperibili nel giro di pochi minuti. Invece trascorsero nella stazione ancora alcune settimane, in un' atmosfera di pigrizia e di attesa indistinta. Faceva caldo, in stazione funzionava un posto della Croce Rossa che distribuiva ogni giorno una zuppa a chiunque la richiedesse, profughi e dispersi di ogni razza e nazionalità arrivavano e partivano alla spicciolata. Alcuni fra i cittadini di Plauen intrecciarono cauti rapporti con i gedalisti accampati: erano incuriositi ma non facevano domande. I dialoghi erano inceppati dall' attrito linguistico; chi parla jiddisch capisce abbastanza bene chi parla tedesco e viceversa, e per di più quasi tutti i gedalisti si arrangiavano a parlare il tedesco, più o meno correttamente, e con accento jiddisch più o meno marcato, ma le due lingue, storicamente sorelle, appaiono ai rispettivi parlatori l' una come la caricatura dell' altra, così come a noi uomini le scimmie appaiono come le nostre caricature (e certo noi appariamo tali a loro). Forse questo fatto non è estraneo all' antico risentimento dei tedeschi contro gli ebrei aschenaziti, in quanto corruttori dell' Alto Tedesco. Ma altri fattori più profondi intervenivano ad intercettare la comprensione reciproca. Ai tedeschi, quegli stranieri ebrei, così diversi dai borghesi ebrei locali che si erano lasciati disciplinatamente irretire e massacrare, apparivano sospetti: troppo pronti, troppo energici, sporchi, stracciati, fieri, imprevedibili, primitivi, "russi". Agli ebrei riusciva impossibile, ed insieme necessario, distinguere i cacciatori di teste a cui erano sfuggiti, e su cui si erano appassionatamente vendicati, da questi vecchietti timidi e chiusi, da questi bambini biondi e gentili che si affacciavano alle porte della stazione come davanti alle inferriate dello zoo. Non sono loro, no: ma sono i loro padri, i loro maestri, i loro figli, loro stessi ieri e domani. Come risolvere il groviglio? Non lo si risolve. Partire, al più presto. Anche questa terra scotta: scotta questo paese pettinato ed innamorato dell' ordine, scotta quest' aria dolce e blanda di piena estate. Partire, partire: non siamo venuti dal fondo della Polessia per addormentarci nella Wartesaal di Plauen sull' Elster, e per ingannare l' attesa con le foto di gruppo e la zuppa della Croce Rossa. Ma il 20 di luglio venne improvviso il segnale, in piena notte, ad esaudire il desiderio collettivo ed inespresso. Piombò Gedale nell' atrio, fra i dormienti: _ Tutti in piedi subito, con i bagagli legati. Seguitemi in silenzio, si parte fra un quarto d' ora _. Nel tramestio che seguì si incrociarono le domande e le spiegazioni frettolose: che tutti gli venissero dietro, non lontano, sul binario di manovra. Il suo amico, il flautista, il manovale, aveva fatto il miracolo. Eccolo lì, quasi nuovo, come nuovo, il vagone che li avrebbe portati in Italia: comperato, sì; comperato per pochi dollari, non tanto legalmente; un vagone sinistrato, riparato da poco, ancora da collaudare; organizzato, insomma. Organizzato? Sì, si dice così, si diceva così nei ghetti, nei Lager, in tutta l' Europa nazista; una cosa che uno si procura illegalmente si chiama organizzata. E il treno sarebbe arrivato fra poco, il campanello della stazione stava già suonando. Tutti furono pronti in un momento, ma all' appello mancava Pavel. Gedale bestemmiò in polacco (perché il jiddisch non possiede bestemmie) e mandò di corsa un gregario a cercarlo; fu trovato poco lontano, con una prostituta tedesca, e ricondotto alla stazione mentre ancora si riabbottonava i pantaloni. Bestemmiava anche lui, in russo, ma non fece obiezioni. Salirono tutti sul vagone senza fare rumore. _ Chi lo aggancerà al treno? _ chiese Mendel. _ Lui, Ludwig. Me lo ha promesso. Se occorrerà, gli daremo una mano anche noi. _ Ma come hai fatto a fartelo amico? _ Col violino. Come quel tale, nell' antichità, che con la lira ammansiva le tigri. Non che Ludwig sia una tigre, è gentile e pieno di talento, è stato un piacere suonare con lui; e per farci questo servizio si è accontentato di poco. _ Però è sempre un tedesco, _ brontolò Pavel. _ Beh, che c' entra? In guerra non c' è andato, ha sempre fatto il ferroviere, suona il flauto e nel '33 non ha votato per Hitler. Lo sai, tu, che cosa avresti fatto se fossi nato in Germania, da un padre e da una madre purosangue, e se a scuola ti avessero insegnato tutto quelle loro bubkes del sangue e del suolo? Le donne prepararono in un angolo del vagone un giaciglio per la Bianca, con paglia e coperte. Bella si volse a Gedale e disse: _ ... però, di' la verità, a te i treni sono sempre piaciuti. Io credo che, se non ci si fosse messa di mezzo quella suora di Bialystok, non saresti diventato un violinista ma un ferroviere. Gedale rise felice e disse che era proprio vero, gli piacevano i treni e tutti i veicoli: _ Ma questa volta il gioco ha dato profitto, andiamo in Italia con un vagone tutto nostro, padronale. Così viaggiano solo i capi di Stato! _ Nu, _ disse Isidor pensieroso, _ sei ancora abbastanza giovane. Adesso che la guerra è finita i partigiani non servono più. Perché non dovresti fare il ferroviere? Piacerebbe anche a me, laggiù in Terra d' Israele. In quel momento si udì un fragore di ruote, si vide sui binari il bagliore del faro, e un lungo treno merci entrò in stazione. Frenò stridendo, rimase fermo per una mezz' ora, poi manovrò lentamente: appollaiato sui respingenti dell' ultimo vagone, un uomo agitò la lanterna in segno di saluto, era lui, Ludwig. Il treno retrocedette a passo d' uomo, ci fu un urto, poi si udì lo stridore di ganci. Il treno ripartì, trascinando verso le Alpi il vagone speciale dei gedalisti.

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IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Prima di far fuoco cambiava piú di dieci volte posizione, abbassava e rialzava il pesante archibugio e, quando sparava, la detonazione era seguita quasi sempre da un urlo o da una bestemmia. Se non uccideva, di certo feriva o storpiava. - Che uomini! - mormorava Mendoza, il quale pareva che fosse altamente stupito di quei tiri. - Si vantavano i filibustieri, ma questi bucanieri sono inarrivabili! Ora comprendo perché sono riusciti ad espugnare Vera-Cruz e anche Panama, sotto la guida di quel diavolo di Morgan! Gli spagnuoli peraltro, degni discendenti di quei formidabili conquistatori che con un pugno d'uomini avevano rovesciato i due piú potenti imperi dell'America, quello dei Messicani e quello dei Peruviani, quantunque sprovvisti di ogni arma da fuoco, si mantenevano coraggiosamente sul posto, esponendosi audacemente al tiro del bucaniere e dei suoi compagni, convinti di poter facilmente aver ragione di quel piccolo gruppo di avversari. Strisciavano fra le erbe, ansiosi di venire ad un corpo a corpo e di giungere sotto l'albero. Quella tenacia parve sconcertare Buttafuoco. - Devono avere qualche progetto - disse il bucaniere al conte. - Quale? - chiese il signor di Ventimiglia. - Io non riesco a indovinarlo; ma non sono affatto tranquillo. - Che contino sui cani? Buttafuoco scosse la testa. - Forse piú tardi - disse poi. - Li vedete? - Io no. - E voi, Mendoza? - Non vedo altro che delle erbe che continuano a muoversi rispose il marinaio. - Ed io, che ho gli occhi d'un vero guascone, scorgo qualche altra cosa - disse don Barrejo, il quale era salito molto in alto, con la speranza di fare un buon colpo contro l'avanguardia. - Dite. - Fanno dei fasci. - Di legna? - Sí. - Se riescono a giungere qui, ci bruceranno o per lo meno ci arrostiranno un po'. Manovra vecchia che non sempre è riuscita completamente. Signori, avete tutti le spade? - E che tagliano come rasoi - disse Mendoza. - Io non vorrei provarle sul mio collo, ve lo giuro. - Che cosa volete fare delle nostre spade, Buttafuoco? - chiese il signor di Ventimiglia. - Tagliare le alabarde? Avrebbero un cattivo giuoco. - No; ma usarle contro quei dannati cani - rispose il bucaniere. - Se è per questo, non v'inquietate. - Me ne incarico io - disse il guascone. - Sempre spaccone! - brontolò Mendoza. - Questi uomini sono davvero incorreggibili. - Continuate il fuoco - disse il bucaniere. - Anche voi, soldato. L'avanguardia non pare che abbia voglia di punzecchiarci le gambe con le sue alabarde. - Già, non arriverebbero fino alle mie - rispose il guascone. - Ci vorrebbe una scala. Ora butto giú un uomo ogni mezzo minuto! I quattro uomini ricominciarono a sparare fra le erbe, con crescente rabbia. Il bucaniere, il quale misurava bene i suoi colpi, faceva dei tiri meravigliosi, tuttavia gli spagnuoli non cessavano di guadagnare terreno, malgrado le enormi perdite che subivano. Degli uomini certo cadevano di quando in quando morti o feriti, pure essi s'avvicinavano con un'ostinazione ammirabile alla macchia scivolando fra le alte erbe. Che cosa volevano tentare? Se avessero avuto qualche archibugio si sarebbero certamente sbarazzati, con poche scariche, di quel piccolo gruppo di nemici. Probabilmente volevano tentare un disperato assalto all'arma bianca. Buttafuoco s'infuriava, bestemmiando e sparando senza tregua. - Che non riesca questa volta a farli scappare? - brontolava. Che uomini abbiamo dunque noi dinanzi? Sono fusi con acciaio temprato nelle acque del Guadalquivir? Invano le palle fischiavano o miagolavano sopra le erbe ed invano i quattro assediati sparavano con rabbia crescente. Le due cinquantine, risolute a por fine a quel combattimento che costava loro molte perdite, non cessavano di avanzarsi e di circondare la macchia. - Ebbene, Buttafuoco? - chiese il signor di Ventimiglia ad un certo momento. - Come va questa faccenda? - Che cosa volete che vi dica, signor conte? - rispose il bucaniere. - Io sono meravigliato. In vita mia non ho mai veduto degli uomini cosí coraggiosi. Queste due cinquantine sono stupefacenti! Al loro posto io sarei già scappato! - Purché non facciano invece stupire noi, - disse Mendoza. - È quello che attendo, - rispose il bucaniere, - anzi che temo. Questa ostinazione mi dà molto a pensare. - Che cosa temete, Buttafuoco? - chiese il signor di Ventimiglia. - Non lo so e non sono affatto tranquillo. - Per tutti i pescicani del mar di Biscaglia! _ esclamò il guascone. - Qui l'affare sembra che cominci ad imbrogliarsi! - Voi che siete un guascone dovreste sbrogliarlo subito, - disse Mendoza. - Ci sono i cani sotto di noi. - Pei guasconi valgono meno dei lupi. - Tacete e fate fuoco invece, - disse il bucaniere. - Non è colle chiacchiere che si guadagnano le battaglie. - Toh! La chiama una battaglia! - brontolò Mendoza. - Io la chiamerei una misera scaramuccia! Quattro colpi d'archibugio rimbombarono uno dietro l'altro, facendo scappare una mezza dozzina di spagnuoli; gli altri però non lasciarono le erbe e continuarono a spingersi audacemente attraverso la foresta, sul cui margine erano ormai giunti. - Morte dell'inferno, - disse Buttafuoco, gettando via il cappello. - Ora non li fermeremo piú. - Gli spagnuoli? - Se si gettano fra i cespugli, nessun occhio potrà scovarli e nessuna palla potrà raggiungerli. Che cosa vorranno fare? Arrostirci? Si era voltato verso il guascone, il quale era disceso su uno dei rami piú bassi. - Signor soldato, - gli disse - volete prendervi la briga ora di distruggere la muta che urla sotto i nostri piedi? Dovete aver ancora una sessantina di colpi da sparare. - Io spero di averne anche di piú - rispose il guascone, il quale conservava un sangue freddo ammirabile. - Giacché l'avanguardia vi lascia inoperoso, massacratemi quei dannati mastini. - Preferirei uccidere degli uomini, - rispose Barrejo. - Ma quelli sono meno pericolosi! Vi affido un incarico piú difficile. - Un posto d'onore, - brontolò Mendoza, ridendo. - Sia pure - disse il guascone. - Se quei cani valgono gli uomini, m'incarico io di fare di loro una gigantesca frittata. Armò l'archibugio che aveva già caricato e con un colpo ben aggiustato abbatté il cane piú grosso, spaccandogli la testa. - E uno! - disse. - Quello non mangerà piú i miei polpacci. Mentre il guascone si arrabattava contro i mastini che latravano a piena gola intorno all'albero, impazienti di piantare i loro formidabili denti nelle carni dei fuggiaschi, Buttafuoco, il conte e Mendoza non cessavano di sparare qualche colpo a casaccio contro le cinquantine ormai scomparse nel bosco. Gli eroici soldati della vecchia Spagna, per nulla atterriti da quelle incessanti archibugiate che mettevano a dura prova il loro coraggio, non cessavano di avanzare, risoluti a raggiungere l'enorme albero de l cotone e a venire ad un corpo a corpo, sicuri, dato il loro numero, di aver facilmente ragione dei loro nemici. Avevano però da fare con uomini ben risoluti a vendere cara la pelle. Mentre il guascone continuava a fucilare i cani, Buttafuoco aveva impegnato una rapida conversazione col conte, interrotta di frequente dalle archibugiate di Mendoza. - È necessario sloggiare e salvarci fra le paludi - aveva detto il bucaniere. - Potremo spezzare il cerchio di ferro che sta per serrarsi intorno a noi? - aveva chiesto il signor di Ventimiglia. - Con una scarica improvvisa di archibugi ci apriremo una breccia sufficiente per passare. - E dopo? - Ci rifugeremo in mezzo ai pantani. - Mi hanno detto che queste paludi hanno dei banchi di sabbie mobili. - Li conosco. - E i cani? - Il vostro compagno sta fucilandoli con rara maestria. Ancora qualche minuto e non vi sarà piú un mastino sotto di noi ... Ah, ecco quello che temevo! Un bagliore sinistro era balenato a breve distanza dall'albero, poi un fastello di legna veniva scaraventato contro il tronco del bombax, facendo scappare i cinque o sei cani sfuggiti ai colpi del guascone. Un fumo denso, soffocante, che provocò agli assediati una tosse violentissima e che fece lagrimare istantaneamente i loro occhi, si alzò subito. - Del pimento! - gridò Buttafuoco. - A terra, amici, o non potremo piú resistere! Lasciate gli archibugi e preparatevi a lavorare con le spade. Giú! Un secondo fascio di legna, pure acceso, era stato scagliato. Anche quello era formato di rami di pepe rosso di Cajenna che sprigionavano un fumo infernale. - Sono carichi gli archibugi? - chiese Buttafuoco, il quale stava per spiccare il salto. - Sí! - Giú! e mano alle spade! I quattro uomini si lasciarono cadere. Un mastino si precipitò sul bucaniere, tentando di saltargli alla gola e di strangolarlo, ma il cacciatore, che si aspettava quell'assalto, balzò indietro con agilità prodigiosa afferrando il fucile per la canna e gli fracassò il cranio con un terribile colpo di calcio. Anche altri due, che si erano scagliati contro il conte e contro il guascone, non ebbero miglior fortuna. Due fulminei colpi di spada li fecero cadere l'uno sull'altro, con le gole squarciate. - Fuoco sulle cinquantine! - tuonò allora il bucaniere. Gli spagnuoli accorrevano con le alabarde in resta, urlando a piena gola: - Arrendetevi! Siete presi! Quattro colpi d'archibugio furono la risposta; poi il bucaniere ed i suoi compagni, approfittando della confusione manifestatasi fra gli assalitori per quell'improvvisa scarica, si slanciarono a corsa disperata verso il margine della foresta per guadagnare le paludi. Il guascone, che aveva le gambe piú lunghe degli altri e che era tutto nervi e muscoli, aveva la velocità d'un proiettile: chi si trovava forse un po' male era Mendoza; tuttavia non rimaneva indietro di molto. Gli spagnuoli si erano slanciati a loro volta, urlando ferocemente e aizzando i due ultimi cani che erano loro rimasti. Pareva però che le povere bestie, impressionate probabilmente dalla strage fatta dei loro compagni, non avessero molto desiderio di far la conoscenza con gli archibugi e con le spade di quei formidabili avversari, poiché non osavano spingersi troppo innanzi. In meno di cinque minuti i fuggiaschi attraversarono la piccola pianura e raggiunsero il margine delle paludi. - Fermatevi! - gridò Buttafuoco. - Vi possono essere dei banchi di sabbie mobili. Fate fronte agli spagnuoli per qualche minuto finché io non trovo il passaggio. Gli assalitori, vedendo i quattro uomini fermarsi e caricare precipitosamente gli archibugi, si arrestarono anch'essi, non osando esporsi al tiro di quei terribili tiratori. Buttafuoco, avendo scorto una lingua di terra coperta in parte di canne e di erbe palustri, si era slanciato risolutamente innanzi per cercare un passaggio che li conducesse in qualche luogo sicuro. Il conte e i suoi due compagni si erano intanto posti al riparo dietro il tronco d'un albero caduto per decrepitezza o abbattuto da qualche fulmine, ed avevano ricominciato a sparare, abbattendo i due ufficiali che guidavano le cinquantine. Gli alabardieri, spaventati dalla precisione terribile di quei tiri, si gettarono nuovamente fra le erbe, non sapendo in quale modo dare l'attacco. In quel momento non ringraziavano di certo i governatori che li avevano privati delle armi da fuoco. Mentre il conte e i suoi compagni mantenevano un fuoco abbastanza vivo, Buttafuoco continuava a perlustrare la palude che pareva di una estensione immensa. La sua paura era d'incontrare quelle terribili sabbie mobili che quando afferrano una preda, sia uomo o animale, non la restituiscono piú. Aveva spezzato una canna e si avanzava nell'acqua tastando il fondo. Ad un tratto il conte lo vide ritornare correndo, col volto giulivo. - Dunque? - chiese il signor di Ventimiglia, sparando un'altra archibugiata là dove vedeva scintillare gli elmetti degli alabardieri. - Ho trovato il passaggio - rispose il bucaniere. - Non sarà forse largo, tuttavia per noi basterà. - E i caimani? - Non preoccupatevi di quelle stupide bestiacce. Non ci daranno molti fastidi. Caricate gli archibugi e seguitemi tutti! Attenti sempre ai cani! Il conte ed i suoi compagni ricaricarono frettolosamente le loro armi, poi si slanciarono dietro al bucaniere, il quale correva lungo la piccola lingua di terra che aveva scoperta. I due cani, vedendoli scappare, avevano ripreso animo, mentre anche gli spagnuoli, comprendendo che i loro nemici stavano per sfuggire al tanto sospirato accerchiamento, si erano alzati agitando furiosamente le alabarde. In meno di mezzo minuto i fuggiaschi raggiunsero l'estremità della lingua di terra. - Fuori le spade e risparmiate la polvere! - gridò Buttafuoco. I due cani stavano per raggiungerli, aizzati dalle grida dei loro padroni. Il conte, che conservava un ammirevole sangue freddo, cacciò la sua spada fra le fauci spalancate del primo doz, immergendola fino a mezzo corpo, mentre Mendoza ed il guascone attaccavano coraggiosamente il secondo. Due guaiti avvertirono Buttafuoco che anche i due pericolosi avversari avevano avuto il loro conto. - In acqua, signori, - disse - e badate di seguirmi attentamente, perché ai vostri fianchi si trovano le sabbie mobili e chi vi cade dentro non ne esce piú. Se gli spagnuoli ci seguono, sparate uno per volta qualche colpo di archibugio. Ai caimani ci penso io. Erano entrati tutti nell'acqua fangosa della savana, immergendosi fino alla cintola, senza preoccuparsi gran che degli spagnuoli, i quali si erano slanciati animosamente sulla lingua di terra, con la speranza di poterli acciuffare o di vederli scomparire fra le sabbie traditrici. Buttafuoco tastava sempre il fondo con la sua canna e cercava di affrettare il passo, quantunque incespicasse ogni momento, essendovi sott'acqua delle erbe non meno perfide delle sabbie. Avevano cosí percorso circa cinquecento passi, quando videro alzarsi a breve distanza un isolotto coperto da una folta vegetazione e che pareva avesse un'estensione considerevole. - Ecco uno splendido rifugio! - disse Buttafuoco. - Se il fondo continua a mantenersi buono, sotto quelle piante potremo sfidare non due, ma anche dieci cinquantine. Mi pare già che gli spagnuoli non abbiano, almeno per il momento, alcuna intenzione di cacciarsi in acqua. Diavolo! Le sabbie mobili fanno troppa paura a tutti! Tastando sempre il terreno ed avanzando con grande precauzione, il bucaniere raggiunse l'isolotto e salí sulla riva, aggrappandosi a certe erbacce dure e coriacee, chiamate olgochloa e che sono cosí cattive che perfino le capre le rifiutano. Una massa di passiflore rampicanti si parò dinanzi al bucaniere. Sono piante che crescono molto rapidamente formando dei bellissimi festoni e che producono dei fiori purpurei con pistilli e stami bianchi con martello, chiodi, il ferro della lancia e tutti gl'istrumenti della Passione, che poi si tramutano in frutta gialle, ovoidali, grosse come poponcelli, assai apprezzate dagli abitanti, specialmente se cucinate con vino e molto zucchero. - Questo deve essere un piccolo paradiso! - mormorò Buttafuoco. - Probabilmente gli spagnuoli ci assedieranno ora, ma io credo che non riusciranno ad affamarci, come forse sperano. Conosco la ricchezza di questi isolotti. - Siamo giunti finalmente a casa? - chiese Mendoza. - Parrebbe - rispose Buttafuoco. - Che i nostri creditori vengano a romperci le tasche anche qui? - Mi sembra che abbiano rinunciato, per oggi o meglio per questa notte, ad importunarci. - Sono gente educata, - disse il guascone. - Se avessero però potuto mettervi le mani addosso, non so, mio caro signor soldato, se avreste ancora tanto spirito, - rispose il bucaniere, ridendo. - E lo dite a me? Oh li conosco io, quei signorini. Diavolo! Ci tengono poco a scherzare coi bucanieri. - E nemmeno i bucanieri con loro, - ribatté Buttafuoco. Noi siamo ancora in quattro e dubito molto che essi siano ancora in cento. Signor conte, volete dormire qualche ora? Pel momento nessun pericolo ci minaccia. - La gente di mare è abituata alle lunghe veglie e non sento affatto il desiderio di riposarmi, - rispose il signor di Ventimiglia. - Io preferirei una buona cena, - disse Mendoza. - La lingua di bufalo e anche l'arrosto di maiale non so piú dove si trovino. Probabilmente si sono affondati nei miei talloni, dopo tante corse furiose. - Io credo di averli sulle punte dei piedi, - disse il guascone con comica gravità. - Io non ho meno fame di voi, - disse il bucaniere. - Però sarete costretti, al pari di me, ad aspettare l'alba. Non posso già prendere degli uccelli di notte e qui noi non troveremo altro che uccelli. - E sarà già molto, - disse il conte, sorridendo. - Le paludi di San Domingo sono di solito molto frequentate dai pennuti, signore, ed una buona colazione non ci mancherà, purché gli spagnuoli ci lascino tranquilli. - Credete che tentino un nuovo attacco? - Ora che non hanno piú i cani, i quali costituiscono la vera forza delle cinquantine, non oseranno forse assalirci. È probabile però che mandino degli uomini a cercare dei rinforzi per assediarci. Di ciò però mi preoccupo ben poco. - E se circondassero la savana? - chiese il signor di Ventimiglia. - Eh! Ci vorrebbero almeno cento cinquantine ed il governatore di San Domingo non ne troverà mai tante. Se io ho un passaggio, non dispero di trovarne un altro e, prima che i rinforzi giungano, noi saremo a S. José, nella fattoria della marchesa. Là non correremo alcun pericolo, essendo io molto conosciuto dall'intendente. - Quest'uomo è veramente meraviglioso, - disse Mendoza. - Decisamente i filibustieri hanno una fortuna straordinaria. È bensí vero che gli spagnuoli ci credono figli o nipoti o pronipoti di compare Belzebú! È già qualche cosa anche questo. Il bucaniere ed il conte si erano coricati sotto una passiflora, sorvegliando attentamente le mosse degli spagnuoli, mosse assolutamente inoffensive, poiché non avevano osato abbandonare la penisoletta che s'avanzava nella savana. Sorvegliavano anche le acque, soprattutto quelle ingombre di erbe, per paura che qualche caimano tentasse di giungere di soppiatto fino all'isolotto per fare qualche buon colpo. Quelle brutte bestiacce non dovevano mancare in quella palude, però non si mostrarono. Probabilmente non si erano ancora accorte della presenza di quel gruppo d'uomini. Quando le tenebre cominciarono ad alzarsi, il bucaniere ed il conte, dopo essersi assicurati che gli spagnuoli erano sempre fermi sulla penisoletta, fecero una rapida escursione attraverso all'isolotto, onde cercare un passaggio che permettesse loro di sfuggire alla sorveglianza dei loro avversarii. Quel pezzo di terra era ingombro di ponted eire, bellissimi cespi di foglie d'un verde lucente e di fiori azzurri e di aristolochie dalle foglie ovali, i fiori lividi in forma di sifoni, col tronco grosso come una botte e radici gigantesche le quali s'alzavano fuori dalla terra come serpenti smisurati. Non mancavano però le piante d'alto fusto. Qua e là s'ergevano, a gruppi, delle quercie, delle magnolie acuminate cariche di certe frutta somiglianti ai cetriuoli, d'un bel rosso lucente, e che si adoperano con successo per guarire le febbri intermittenti, e anche dei noci neri, di dimensioni gigantesche e molto frondosi. Numerosi volatili fuggivano dinanzi al corsaro ed al bucaniere. Erano corvi di mare, piú grossi dei galli, ferocissimi perché osano assalire perfino le persone ferite impotenti a difendersi; fenicotteri, tantali verdi, ibis bianche e botauri, bellissimi volatili alti quasi due piedi, colle penne brune rigate, il ventre grigiastro, il becco acutissimo e gli occhi gialli e molto delicati. - Occupiamoci prima del passaggio, - disse il bucaniere al conte, il quale si preparava a sparare qualche colpo onde procurarsi una buona colazione. - Avremo tempo per massacrare questi volatili, i quali non mi sembrano molto spaventati per la nostra presenza. - Sperate di trovarlo? - Eh! ... Le savane di quest'ísola sono molto difficili ad attraversarsi in causa delle sabbie mobili che costituiscono il fondo. Ma io non dispero di trovare qualche costa che ci permetterà di farla agli spagnuoli. Voi siete sicuro che la vostra nave vi aspetta sempre al capo Tiburon? - Non scioglierà le vele senza mio ordine, - rispose il conte. - Allora possiamo andare alla fattoria della marchesa. Senza il suo appoggio sarà un po' difficile che voi possiate lasciare San Domingo. A quest'ora tutte le cinquantine saranno in movimento per catturarvi. I tre famosi corsari non sono stati dimenticati e gli spagnuoli devono essere molto spaventati nell'apprendere che ve n'era un quarto che batte ancora le acque del gran golfo e che non si sa che cosa voglia fare. - Forse è questo che farà venir loro la febbre, - disse il conte. - Che cosa io sia venuto a fare qui tutti lo ignorano. Certamente io non ho varcato l'Atlantico per continuare le gesta di mio padre e dei miei zii. Il bucaniere si era voltato vivamente, guardando fisso il figlio del Corsaro Rosso. - Delle vendette? - chiese. - Quelle verranno piú tardi, - rispose il signor di Ventimiglia, con voce grave. - Ho prima altro da fare. Si era fermato, guardando a sua volta fisso fisso il bucaniere. - Siete stato nel Darien, voi? - gli disse ad un tratto. - Sí; con Wan Horn, - rispose Buttafuoco. - Conoscete dunque quel paese? - Abbastanza bene: si trattava allora di attraversarlo con l'aiuto di un grande cacico, nemico terribile degli spagnuoli, per andare ad assalire Granata. - Come si chiamava quel grande cacico? - Hara. - Aveva delle figlie, non è vero? - Sí, signor conte. - Date spose a dei famosi filibustieri? - Questo lo ignoro - rispose Buttafuoco. - È lui. - Chi? Il conte, invece di rispondere, si mise a guardare la savana che si estendeva dinanzi a lui a perdita d'occhio, interrotta qua e là da isolotti e da altifondi coperti da una vegetazione superba. - Saremo costretti ad attraversarla? - chiese dopo un lungo silenzio. - Sí, signor conte - rispose Buttafuoco. - Non possiamo tornare indietro: perderemmo la vita, poiché sono certo che gli spagnuoli hanno mandato dei corrieri per aver degli aiuti e le cinquantine che giungeranno non saranno solamente armate di alabarde. - Quando partiremo? - Questa sera stessa, perché i nostri nemici non s'accorgano della direzione che prenderemo. - È lontana la fattoria della marchesa? - È piú vicina di quello che supponete - rispose Buttafuoco. Con una rapida marcia vi potremo giungere in cinque o sei ore. - Cerchiamo la colazione, allora. - Un momento, signor conte; è la costa che mi occorre trovare. Se non riesco a scoprirla, non potremo allontanarci dall'isolotto. Spezzò una canna, armò l'archibugio per essere piú pronto a far fuoco sui caimani e avanzò nell'acqua tastando il fondo. Aveva percorso una quindicina di passi, quando il conte lo vide ritornare. - Abbiamo una fortuna meravigliosa, - disse - il fondo è ottimo e non vi sono sabbie. Signori spagnuoli, ci aspetterete un bel po' e quando vi metterete in marcia non troverete che dei caimani ... Signor conte, guadagniamoci ora la colazione. Non sarà una faccenda lunga. Getteremo giú una mezza dozzina di scoiattoli e ci procureremo un arrosto squisito. Rifecero il cammino percorso, costeggiando specialmente i noci neri, ed aprirono quasi subito il fuoco. Fra gli enormi rami delle grosse piante saltavano disperatamente o meglio volavano dei graziosi animaletti, un po' piú grossi dei topi, col pelame grigio perla sopra e bianco argenteo sotto, con gli orecchi piccoli e neri, il muso roseo ed una splendida coda che pareva una magnifica piuma di struzzo. Erano degli scoiattoli volanti i quali, spaventati dalla presenza di quei due sconosciuti, cercavano di mettersi in salvo, come se avessero già indovinate le malevole intenzioni del bucaniere. Quantunque rassomiglino un po' a quelli che si trovano nelle foreste d'Europa, ne differiscono per una membrana pelosa che unisce le gambe posteriori a quelle anteriori, permettendo loro di spiccare delle vere volate che si prolungano talvolta perfino di cinquanta e più passi. Avevano però da fare con un tiratore meraviglioso; cosicché, in meno di cinque minuti, sette od otto di quei graziosi roditori, mitragliati dal bucaniere, caddero al suolo insieme ad un gran numero di noci che potevano servire benissimo come ottima frutta. Mendoza ed il guascone, che già s'immaginavano di avere una buona colazione con un cacciatore cosí famoso, avevano nel frattempo acceso un allegro fuoco e raccolte delle erbe aromatiche per rendere l'arrosto piú gustoso. I quattro uomini scuoiarono in pochi istanti le bestiole, le infilarono nella bacchetta di ferro d'uno degli archibugi e le misero sopra i carboni, girando quello spiedo primitivo su due forchettoni di legno piantati nel suolo. Mendoza si era improvvisato cuoco, dopo che il guascone gli aveva solennemente dichiarato di saper divorare anche sei beccaccini l'uno dietro l'altro, ma di non saperseli cucinare. Il buon marinaio non aveva né protestato, né brontolato; anzi, aveva guardato con ammirazione quel formidabile mangiatore, chiedendogli solamente per quale motivo i guasconi, pur essendo divoratori, non ingrassavano. Non occorre dire che la domanda era rimasta senza risposta, perché anche don Barrejo non avrebbe saputo dare su quello strano caso nessuna spiegazione plausibile. Il fatto sta che gli scoiattoli scomparvero tutti e la maggior parte passò nel ventre del guascone. Finita la colazione, i quattro uomini si occuparono subito degli spagnuoli, temendo sempre un improvviso colpo di mano. Quelli invece pareva che per il momento non si occupassero affatto di loro. Avevano acceso dei fuochi all'estremità della penisoletta e divoravano la loro colazione tranquillamente, composta forse di testuggini, poiché quei preziosi rettili abbondano intorno alle savane sandominghesi.. - Attendono dei rinforzi - disse Buttafuoco al conte. - Se noi non ci affrettiamo a scappare, circonderanno la palude, e allora sarà bravo chi potrà sfuggire all'accerchiamento. Le cinquantine non si trovano però lí per lí, e possono passare parecchi giorni prima che arrivino. Certo che noi non aspetteremo il momento terribile e fileremo attraverso le acque e anche fra le sabbie mobili. Penserà poi la marchesa a farvi scappare, signor conte. - Sarà la seconda volta - rispose il conte. - A lei tutto è facile - disse Buttafuoco. Aprí una tasca di cuoio che portava al fianco e offrí al conte un grosso sigaro dicendogli: - Potrete con questo ingannare il tempo. È tabacco cubano che ho potuto avere dai filibustieri della Tortue, e non ne troverete del migliore, ve lo assicuro io. Il conte stava per prendere il sigaro, quando un colpo d'archibugio rimbombò e una palla fischiò sopra di loro. Il basco si alzò precipitosamente, afferrando il suo fucile. - Signor conte - disse con la voce un po' alterata - sono giunti dei rinforzi agli spagnuoli e si preparano a prenderci a fucilate. Poi, alzando la voce, disse a Mendoza ed al guascone: - S'impegna battaglia: attenti alle palle!

IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 2 occorrenze

Tutti si rallegravano con lei per il rifiorimento della sua salute chiamandola mammà, mammà, ugurando meridionalmente questo ed altri cento, in buona salute, ioè altri cento figli, nientemeno: ed ella diventava rosea per il piacere, abbassava la testa, ringraziando, facendo scintillare la stella di diamanti che aveva nei capelli, che era poi l'oggetto dei commenti di tutte le altre Fragalà, di tutte le Naddeo, le Antonacci, le Durante e che era la segreta sospirosa ammirazione di tutte le altre invitate più umili, le cosidette mezze signore. oi mentre Cesare Fragalà chiacchierava con gli uomini, ridendo, passandosi la mano guantata fra i capelli ricciuti, vi fu un generale movimento di retrocessione verso i divani e le poltrone: tutti si sedettero. Luisella Fragalà, ritta in mezzo al salone, appena vedeva arrivare qualche signora, si avanzava sino alla porta, salutava, sorrideva, accompagnava la signora sino a una poltrona, formando un largo circolo feminile dove sugli opulenti petti, stretti nei vestiti di broccato, lentamente si agitavano i ventagli. Solo il divano di mezzo restava vuoto: era il posto d'onore, tutti lo guardavano e guardavano la porta, aspettando gli sconosciuti invitati che dovevano occuparlo, sapendo che senza di essi la festa non era realmente cominciata, sapendo che non si sarebbero offerti rinfreschi, se quegli invitati di gran pompa non fossero comparsi. Difatti, come il tempo passava, Luisella e Cesare scambiavano un'occhiata interrogativa. A un tratto, come una coppia entrava nel salone, Luisella Fragalà ebbe un rapido moto di gioia e abbraccio con effusione la signora, strinse la mano sorridendo, al signore: un mormorio vi fu nel salone, qualcuno si levò in piedi, un nome fu mormorato. Era proprio lui. don Gennaro Parascandolo, il famoso don Gennaro, l'uomo alto, forte, simpatico, con una fisionomia spirante onestà, lealtà, bontà, una persona la cui stretta di mano aveva qualche cosa di energicamente affettuoso, una persona il cui sorriso rincorava la gente più scorata, una persona il cui sguardo incoraggiava a vivere: un uomo ricchissimo, infine, il compare della piccola Agnesina Fragalà, un riccone senza figli. Ah, ne avevano avuto, dei figli, lui e la sua pallida moglie dai capelli brizzolati e dagli occhi malinconici, che restava volentieri chiusa nella sontuosa casa silente, e quando lo accompagnava. sembrava l'ombra di una donna, vivente fantasma di dolore! Avevano avuto tre bei figli due maschi e una femmina, tre figli belli, sani, forti, per i quali don Gennaro Parascandolo aveva fatto, per arricchirli, terribilmente e freddamente, il suo freddo e terribile mestiere di usuraio aristocratico: non meno di cinquemila lire, alla volta, ed anche duecentomila lire, in una volta sola, sempre con l'interesse del dieci per cento al mese: così, spietatamente, per i suoi figli. Ma, la difterite era entrata nella sua casa, furtivamente e irrimediabilmente: in venticinque giorni, non scienza dei più illustri medici, non disperazione di padre e di madre, non danaro profuso, nulla, nulla aveva potuto salvare i tre figli: tutti tre erano morti soffocati, in un modo così straziante che la ragione della signora Parascandolo, per molto tempo parve ne fosse profondamente colpita. E anche il robusto uomo parve crollato, un istante: non si riebbe che lentamente, lentamente, viaggiò più spesso, comparve a tutte le prime rappresentazioni, donò fiori e gioielli alle illustri attrici e alle illustri ballerine, ma tutto ciò con una suprema indifferenza, senza noia, ma senza allegrezza. Ogni tanto, raramente, compariva accanto a lui sua moglie, smorta creatura taciturna, incapace di togliere il pensiero e il cuore, anche per un momento, dai tre figli perduti: ma allora don Gennaro diventava gaio, sfoggiava un grosso buon umore borghese, a cui sua moglie rispondeva con qualche lieve, distratto sorriso. Giusto, quella sera, don Gennaro Parascandolo, poiché aveva deciso la sua ombra a uscire dall'ombra, era tutto lieto, e mentre Luisella Fragalà aveva condotto la signora Parascandolo al divano d'onore, egli circolava di gruppo in gruppo, seguito da Cesare Fragalà, scherzando, ridendo, mentre tutti, per dove egli passava, gli facevano coro, con quella tendenza all'adorazione della ricchezza che è in tutti, ma specialmente nella gente meridionale. Oh! erano gente ricca, i Naddeo, gli Antonacci, i Durante, i Fragalà, ma le cose del mondo possono cambiare, da un giorno all'altro: e don Gennaro era così ricco, e non sapeva proprio che cosa farsene, delle sue ricchezze! In quanto alla mezza gente ella sala, impiegati, piccoli commercianti, commessi, lo guardavano da lontano, rispettosamente, intimiditi dalle larghe spalle, dal largo torace, dalla testa leonina. E il nome era susurrato sempre, qua e là, con i commenti fatti a voce anche più bassa. - Don Gennaro Parascandolo… don Gennaro Parascandolo… Ma Luisella Fragalà e Cesare parve che avessero un'altra scossa elettrica, provocata dall'arrivo dell'altra persona che aspettavano. Era una vecchia signora che si avanzava gravemente, vestita di un antichissimo abito di seta marrone, alla foggia di trent'anni prima, una stoffa dura e forte come un cartone, arricciata a canna d'organo, e con amplissime maniche; sulle spalle aveva uno scialle di merletto nero, anch'esso molto antico e fermato sul petto da un largo spillo di rubini e turchesi, legato in argento; le mani magre, rattrappite dall'età, portavano i mezzi guanti di seta e stringevano una borsa di velluto nero, tutta ricamata a punto buono, portante da un lato un ritratto di un cagnolino, sopra un cuscino, e dall'altro la figura leziosa di una contadinella dall'ampio cappello di paglia. Luisella Fragalà, rialzando lo strascico di raso giallo, le corse incontro, le fece una profonda riverenza e si chinò a baciarle la mano, che la vecchia si lasciò baciare, conservando l'espressione arcigna del suo volto di vecchia civetta, col naso adunco, dagli occhietti rotondi e bigi. Un mormorio, nuovamente, percorse la sala: - La comare marchesa, la comare marchesa… Nessuno diceva che ella era la marchesa di Castelforte: ella era la comare marchesa, niente altro: non vi era che una sola comare marchesa nella famiglia Fragalà, ed era la madrina, la protettrice di Luisella, una dama rispettata e temuta da tutta la parentela, una marchesa, infine, una titolata, una nobile, una persona di razza superiore. Persino don Gennaro Parascandolo, che non aveva bisogno di nessuno, come tutti sapevano, andò a inchinarla, mentre la vecchia lo squadrava col suo sguardo. Ora, sul divano d'onore non vi era più posto: nel mezzo sedeva Luisella Fragalà, a destra vi era la comare marchesa che mostrava le sue scarpe di prunella nera e stringeva la sua borsa di velluto, a sinistra sedeva la signora Parascandolo, triste figura muta, vestita di un abito di Parigi e coperta di magnifiche gemme, ma curvante il capo sotto i ricordi, sempre, irrimediabilmente. E come tutti si furono seduti, nel salone si fecero due minuti di perfetto silenzio. Tutti aspettavano ancora, sogguardando furtivamente la porta, fingendo di pensare ad altro: delle signore nascondevano qualche lieve sbadiglio, dietro il ventaglio: le ragazze avevano quell'aria di sonnambule, che le fa parere distaccate da qualunque interesse umano:gli uomini si torcevano i mustacchi e i ragazzi avevano quell'aspetto di ebetismo assoluto, di cui Fofò Mayer era la nota più acuta. Ma Cesare Fragalà era sparito. E dopo tre minuti di quel silenzio comparvero i rinfreschi. E allora tutti si misero a discorrere, rumorosamente, fragorosamente, per aver un contegno disinvolto, fingendo di non badare ai rinfreschi. Ma ne arrivavano da tutte le parti, continuamente, diffondendo nel salone la letizia del desiderio che era per soddisfarsi, per la delizia di tutti quegli affamati di dolci, di quei golosi di roba dolce, uomini, donne, fanciulli, fanciulle, vecchi. Ai gelati grossi e rotondi come la luna piena, duri da dovervi conficcare profondamente il cucchiarino, di crema alla portoghese, di frutta, di fragola, di caffè bianco, di caffè di Levante, di cioccolatte, si alternavano le formette, elati più piccoli, più leggieri, formati a sfera, a romboide, a noce di cocco e contenuti graziosamente in certe conchiglie rosse e azzurre di cristallo, dai filetti d'oro: agli spumoni, metà crema e metà gelato, di tutte le mescolanze, crema e cioccolatte, mandarino e poncio, crema e pistacchio, crema e fragola, lattemiele e fragola, agli spumoni, adorazione delle donne e dei ragazzi, succedevano le gramolate di pesca, le gramolate di amarena, le granite di limone e di caffè, contenute in certi bicchieri di porcellana lattea, trasparente, che stavano fra la tazza e il bicchiere. Per dieci minuti non si udì che un tintinnare di piattini, di cucchiarini, di bicchieri: ma le entusiaste erano le signore che vedevano apparire gli spumoni, dai colori seducenti nella loro tenerezza, dal candido fiocco di spuma nel mezzo, e davano un gridolino di commozione e tendevano le mani, involontariamente; mentre altri più taciturni, più attivi, sorbivano la gramolata dopo la formetta, e assaggiavano il gelato dopo lo spumone, tanto per paragonare. Fra tanta gioia, i dialoghi si animavano, i cavalieri correvano di qua e di là, tenendo un piattino, un bicchiere, una tazza, servendo le signore, e anche servendosi, parlando da lontano, interpellandosi, richiamando i camerieri coi vassoi, facendo loro perdere un po' il capo, in quella confusione: - Uno spumone alla signora Naddeo! - Vi piacerebbe una gramolata di amarena? - Prendete un bicchiere di poncio allo sciampagna, non vi è di meglio per digerire il resto. - Chi vuol cambiare un gelato di fragola, con un caffè bianco? Vi assicuro che non vi fa nulla. Spumoni, gelati, granite, gramolate, tutt'acqua, signora mia. - Vi sarebbe un lattemiele e fragola? - L'ho io… - Mamma, dammi la crema, dammi la crema… Tutto contento, Cesare Fragalà correva da una parte e dall'altra, facendosi seguire dai camerieri: ad ogni vassoio che arrivava, la prima a averne era la comare marchesa, la seconda la signora Parascandolo: ma costei, appena assaggiato un cucchiaino di gelato, aveva subito posato il piattino, riabbassando gli occhi, distratta, come se non vedesse e non udisse tutto quello che accadeva intorno a lei. Invece la comare marchesa, pian piano, senz'affrettarsi, con la sua bocca rincagnata sulle gengive senza denti, sorbiva lentamente tutto, il gelato, la gramolata, la formetta, lo spumone, con un moto continuo delle mascelle, con un agitarsi del suo naso adunco, che scendeva sul labbro superiore. - Comare marchesa, assaggiate questo pistacchio. - Comare marchesa, preferireste il mandarino? Ella diceva sì, col capo, come un vecchio idolo cinese: e le mani rattrappite avevano lasciato la borsa di velluto nero, dopo averne cavato un ampio fazzoletto bianco, per tenere il piattino. Felice, Luisella Fragalà crollava il capo, ridendo di tutto quell'allegro rumorio. Ogni tanto il marito le si fermava innanzi un minuto: - Non prendi nulla? - domandava teneramente. - No, no, servi le altre signore. - Prendi qualche cosa, Luisella… - No, mi piace più vedere, - diceva lei, guardando intorno. Lo spettacolo, intorno, era così interessante! Le signore più sentimentali nella loro golosità, sorbivano delicatamente il sorbetto, tenendo il piattino sulla punta delle dita guantate, sollevando il dito mignolo ogni volta che approfondivano il cucchiaino, tenendo il fazzolettino di battista circondato di merletti sulle ginocchia, e mordendosi le labbra, dopo ogni cucchiaiata. Alcuni uomini, silenziosamente, seguivano passo passo il cameriere col vassoio, per fare una scelta sapiente, dopo di che si ritiravano in un angolo, a mangiare quietamente. I bimbi prendevano il gelato, tenendolo sulla sedia, mettendosi della crema sino al nasino, sporgendo le labbruccie rosse, mostrando tutta la delizia degli occhi innocenti, leccando lungamente il cucchiarino; mentre le ragazze, le grandi sonnambule, rifiutavano la tal cosa, rifiutavano la tale altra, con una smorfietta di disgusto, e finivano per prendere un po' di tutto, a metà, non ancora veramente golose; perfino la famiglia Mayer aveva vinto la propria misantropia: la signora non pensava alle sue nevralgie, don Domenico tentennava fra uno spumone e una formetta, mentre Amalia e Fofò si scambiavano i loro gelati, per avere il sapore di tutti. Nelle altre stanze, nell'anticamera, dovunque, finanche nelle stanze di sbarazzo, finanche dove dormiva la cuoca, e specialmente in cucina, era lo stesso tinnire di piattini, di tazze, di bicchieri, di cucchiaini; era la stessa, anzi maggiore allegrezza. Le serve di tutti i piani del palazzo Rossi erano accorse; era salito il portiere; il parrucchiere della signora Luisa era di ritorno; vi era il marito della balia; i cocchieri dei Naddeo e degli Antonacci che avevano vettura, erano saliti su; finanche la giornalista dell'angolo di Tarsia, finanche il postino dopo l'ultimo suo giro, ancora con la borsa delle lettere a tracolla; e intorno a Gelsomina la nutrice, intorno a donna Candida la levatrice, tutta quella umile gente di popolo che adora i sorbetti, faceva una baldoria, eccitata dalle parole del padrone, Cesare Fragalà, che ogni tanto passava, dalla lietezza del salone a quella della cucina, egualmente contento della contentezza altrui, sentendosi dilatare il cuore allo spettacolo di tutti coloro che mangiavano e bevevano, rispondendo famigliarmente agli auguri dei servi, delle serve, parlando loro in dialetto. Ora, di là, come un senso di riposo gastronomico si diffondeva; la gente si quietava, prendeva un aspetto composto; sorrideva beatamente dopo quel primo sfogo della golosità. Le conversazioni, prima illanguidite, avevano preso un tono mite, di gente sazia e tranquilla, piena di una squisita educazione: le signore sorridevano a fior di labbro, delicatamente, e le ragazze agitavano i loro ventagliucci, come sonnambule: gli uomini intavolavano delle discussioni pacate, serie, sui loro affari, sulla minuta politica quotidiana, sul poco movimento commerciale napoletano, di cui tutti soffrivano: e si tenevano in piedi, in gruppi, facendo certi gesti larghi e crollando il capo con gravità. La comare marchesa aveva ripreso la sua borsa di velluto e vi aveva incrociate sopra le mani rattrappite nei mezzi guanti: e come un torpore le immobilizzava la faccia, pareva una vecchia mummia dormente; mentre la signora Parascandolo, abbassando la testa, si perdeva nella contemplazione del suo ventaglio, un prezioso ventaglio antico che, certo, don Gennaro aveva avuto da qualche suo debitore disperato, in qualche vendita forzata. Fra queste due donne taciturne, Luisella Fragalà cominciava ad annoiarsi assai: il suo temperamento vivace la spingeva a levarsi su, ad andare in giro per il salone, discorrendo con le sue parenti ed amiche, magari andando di là, a vedere che faceva Agnesina, a vedere che cosa accadeva in cucina e in stanza da pranzo, dove udiva una grande baraonda; ma il suo posto d'onore era lì, su quel divano, il posto della padrona di casa, della madre di famiglia: sarebbe stato un delitto di lesa borghesia abbandonarlo; e continuava ad annoiarsi mortalmente, sorridendo di lontano alle sue amiche, mentre si soffiava col grande ventaglio di raso nero, cosparso di stelline d'oro. A un tratto, non potendone più, chiamò suo marito e gli parlò sottovoce, un momento: egli annuì col capo e sparve di là a organizzare il corteo. Gli invitati, abituati al programma borghese di queste feste, capirono subito e si misero a guardare verso la porta, ogni tanto, sapendo che cominciava un'altra parte dello spettacolo. - Qualche sorriso affettuoso si delineava di già: si levava un lieto susurrio. Dalla gran porta il corteo comparve. La piccola Agnesina col visetto tutto rosso nella sua cuffietta di merletto bianco dai nastri azzurri, con un corpettino di battista tutto ricami, le cui manicucce larghe e lunghe le coprivano le manine rosse, era distesa in un portabimbi, di raso azzurro e merletti bianchi, appoggiando il capo a un cuscino di raso e battista: e il portabimbi, che è nel medesimo tempo un lettuccio, una culla, un sacchetto e un vestito, stava sulle forti braccia di Gelsomina, la nutrice di Frattamaggiore, che portava il suo carico con una divozione profonda, come il chierico porta il messale, da un corno all'altro dell'altare, senza distogliere gli occhi dal volto di Agnesina che la fissava placidamente, con quegli occhietti chiari dei neonati, occhietti che sembrano di cristallo. Accanto a lei, in tutta la gravità del suo ufficio, vi era donna Candida, la levatrice, che per assodare la continuità del suo patronato, teneva la mano sul cuscino della bimba; dietro, il padre, Cesare Fragalà; e un po' più indietro, di nuovo, i camerieri coi vassoi pieni di canditi, di confetti, di pastine secche, di dolci caramellati, di frutta giulebbate, e con altri vassoi pieni di bicchieri di Marsala, di Malaga, di Lunel; e dietro ancora, facendo, osando fare capolino dalla porta, qualche serva curiosa e intenerita, che guardava, con gli occhi sgranati. All'apparire del corteo, non inatteso, poiché tutti sapevano che la creaturina sarebbe stata mostrata agli invitati, parenti ed amici, al suo apparire, dovunque scoppiò un applauso lungo, fragoroso, qua e là fatto più sordo dalle mani guantate di alcuni giovanotti eleganti: e un coro scoppiò feminile e maschile. - Evviva donn'Agnesina! - Evviva Agnesina! - Possa tu crescere santa! - Quanto è bella, quanto è cara! - Agnesina, Agnesina! - Evviva il papà e la mammà di Agnesina. Intanto la bambina, direttamente, era stata portata al bacio della comare marchesa che l'aveva tenuta al sacro fonte, la mattina, e che la baciò in fronte, leggermente, mentre metteva una carta bianca nella mano della nutrice, facendo una mossa di scontento, col suo naso adunco che le cadeva sulla bocca rincagnata. Applausi al bacio della comare marchesa. Poi, chinandosi, con la grossa faccia un po' pallida e come contratta da un triste pensiero, la baciò il compare, don Gennaro Parascandolo: forse altre feste di simil genere, gli altri battesimi dei suoi figliuoli gli erano passati nella mente, in quel minuto. Ma egli si rimise subito, rispose con un sorriso agli applausi anche più fragorosi della società. Quando la bimba fu baciata dalla madre, vi fu un minuto di silenzio, come se un'improvvisa gravità fosse caduta sulla gioconda riunione: la madre teneva il capo chinato sulla faccia della sua bambina, come se le soffiasse il suo alito, come se le parlasse, benedicendola, invocando per lei dal cielo tutte le benedizioni. Un silenzio: e poi di nuovo un grande chiasso, poiché la bimba era portata in giro, trionfalmente, e le donne davano in leggieri strilli di materna emozione, e se la sbaciucchiavano, mentre essa già cominciava a piagnucolare. E avendo levato il capo, Luisella Fragalà, a un tratto, addossata a uno stipite di porta, scorse una bizzarra figura, a lei sconosciuta. Luisella guardò due o tre volte, presa da una curiosità, quella figura, cercando di rammentarsi, dove l'avesse vista, qualche altra volta, ma fu invano: le era nuova. Chi poteva essere? Forse qualche persona condotta da un parente, da un amico, così senza neanche chieder permesso, con quella beata famigliarità, che dal popolo napoletano sale alle classi più alte. Certo, era una persona sconosciuta. E mentre la bimba troppo baciata continuava a piagnucolare, mentre la nutrice, la levatrice, le altre signore cercavano di consolarla, dicendole delle paroline amorose sopra un tono di cantilena, mentre pel salone si diffondeva un'altra volta l'allegrezza del cibo, del vino, della leccornia, Luisella Fragalà, singolarmente interessata, obbedendo a una voce interna, non poteva staccare gli occhi da quella bizzarra figura immobile. Era un uomo fra i trentacinque e i quaranta anni, col pallido volto emaciato, di chi ha fatto un lungo e disastroso viaggio: una fitta barba nera un po' riccia, incolta, scendeva dalle guance striate di un rosso malaticcio e nascondeva qualunque traccia di biancheria e di cravatta, al collo di quell'uomo; la fronte aveva lo stesso pallore esangue e due rughe vi si disegnavano, a ogni moto delle sopracciglia: i capelli erano castani, buttati indietro disordinatamente e lascianti scoperte le tempie dove erano un po' radi, dove, a guardar bene, a guardar minutamente, si vedeva, sotto la finezza della pelle, la rete delle vene azzurre, un po' ingrossate. Il collo era scarno: e a qualche movimento della testa, vi si disegnavano i tendini, come nelle zampe delle galline morte: ed erano scarne le mani abbandonate, buttate giù lungo il corpo. L'uomo era vestito poveramente, assai poveramente, con un paio di calzoni sale e pepe, un po' corti, che lasciavano vedere le scarpe non bene spolverate, scarpe alla prussiana, legate da un nastro che si era fatto rossiccio; con un panciotto e una giacchetta, sì, proprio una giacchetta, color marrone scuro. E tutto l'uomo aveva un aspetto nel medesimo tempo malaticcio e misterioso, miserabile e ignobile nella miseria; e i suoi occhi scuri vagavano, di qua e di là, senza fermarsi mai un minuto sullo stesso punto, avendo la stessa espressione di mistero e d'ignobilità di tutta la sua persona. - Chi sarà questo straccione? - domandò a sé stessa Luisella Fragalà, presa da un senso di collera e di paura. Tutti facevano baldoria, nuovamente, intorno ai vassoi dei dolci, dei dolci sopraffini che eran il fior fiore della cucina e della bottega Fragalà, a Toledo: alla naturale tendenza golosa si univa adesso la curiosità di certe forme, di certi colori, di certi sapori, che molti degli invitati avevano sempre ammirati nelle vetrine brillanti, nelle bomboniere di raso, nelle coppe di porcellana. Il dattero unito alla crema di pistacchio su cui il bicchiere di Malaga ha un sapore profondamente aromatico; lo squisito confetto alla rosa, dove qualche pezzettino di corteccia di limone, candito, mette una nota acuta, acre, eccitante il palato e che il vino di Marsala condisce così meravigliosamente; tutto quel molle, attraente, seducente, incantevole odore di vainiglia, che esce dal cioccolatte, dalla crema, dai biscotti di mandorle; tutta quella punta sopracuta di menta, di menta forte, che è nel medesimo tempo refrigerante ed eccitante, che infiamma la bocca, riscalda lo stomaco e dà sete: tutta questa unione di cose belle all'occhio, buone al palato, deliziose all'olfatto, avevano dato un novello esaltamento alla riunione a cui il vino largamente versato veniva ad aggiungere un principio di vera ebbrezza. - Chi sarà mai quel pezzente? - si domandò ancora Luisella Fragalà, sentendosi come offesa nel suo orgoglio di padrona di casa, nel suo amore della nettezza, da quell'uomo malaticcio, misero e sudicio. Si alzò macchinalmente, per sapere qualche cosa, da qualcuno, su quel bizzarro straccione che si era introdotto nella sua casa, lasciando la comare marchesa che aveva aperto di nuovo il suo fazzoletto bianco sulle ginocchia e sul fazzoletto aveva ammonticchiato ogni genere di dolci, mangiandone di tutti, lentamente e continuamente, lasciando la ricchissima e infelice signora Parascandolo, i cui occhi pieni di lacrime seguivano intentamente il portabimbi dove la piccola Agnesina continuava il suo giro per la sala. Giusto, Luisella Fragalà raggiunse il piccolo corteo, dove ora la piccolina strillava acutamente, mentre il giro finiva: e istintivamente, quando la nutrice Gelsomina si stava per fermare innanzi a quello strano personaggio, come se anche a lui volesse far baciare la bimba, Luisella Fragalà si interpose vivamente, squadrando con ribrezzo lo sconosciuto, che già si era avanzato per baciare, e dicendo rudemente alla balia, mentre metteva la mano sul cuscino della piccola Agnesina per proteggerla: - Vattene, nutrice, la bambina piange troppo. La nutrice uscì subito seguita da donna Candida, mentre la madre, dalla porta, le guardava che si allontanavano nelle altre stanze, quasi a proteggerle ancora contro un maleficio ignoto. Rientrando nel salone, Luisella Fragalà fu distratta per un momento dallo spettacolo che presentava: il tappeto era cosparso di quei cartoccetti pieghettati finemente, dove stanno i frutti canditi, come in un nido, di carte dorate e argentate dei diavolotti, di coverture metalliche scintillanti dei cioccolattini: sulle sedie, sui tavolini, sulle mensole ammonticchiati i dolci, tolti dai vassoi devastati; le signore si erano tolte i guanti, tenendo con due dita, sollevato il pezzo di candito, la pasta secca, il mandorlato, la sottile e attorcigliata caramella che mangiavano; gli uomini andavano e venivano da un vassoio all'altro, da un gruppo di donne a un altro, trasportandosi per mano i bambini, che piagnucolavano, tutti lucidi le labbra di zucchero colante e sporchi di cioccolatte. Alcuni altri, chiesto il permesso a Cesare Fragalà che lo aveva accordato, ridendo di quello scatenamento, raccoglievano in un fazzoletto dei dolci, posandoli con delicatezza, cercando di non farli schiacciare; ad altri, lo stesso Cesare, fattosi portare dei larghi fogli di carta, formava dei cartocci, alti e pesanti, finendo di svaligiare i vassoi. Tutte le mani erano attaccaticcie, tutte le bocche lucenti: sulle mensole i bicchieri di vino, posati, avevano lasciato dei circoli rossastri o giallastri, e un ciarlìo forte, continuo, inesauribile, accompagnava quel saccheggio, quella devastazione. - Cesare! - disse Luisella, chiamando suo marito. - Che vuoi, bella mia? - rispose costui, finendo di legare uno spago tricolore intorno a un cartoccio, con la grazia del venditore di dolci. - Dimmi una cosa… - Due cose, gioia mia. - Chi è quell'uomo, là, vicino alla porta? -Quello? - chiese Cesare, aguzzando gli occhi, come se non ci vedesse bene. È Giovannino Astuti, l'agente di cambio. - Nossignore, nossignore, Giovannino Astuti, lo conosco. Dico quell'altro, quell'altro… - Oh! - fece lui, con un lievissimo imbarazzo, è una persona qualunque… - Che persona? - diss'ella, duramente. - Un amico mio… - Un amico, quello straccione? - Non si possono avere amici ricchi, sempre, - ribattè, con una risatina che suonava falsa. - Capisco: ma non ci è ragione di far venire un pezzente, anche se ti è amico, in mezzo a una riunione di galantuomini - Oh Luisa, come sei nervosa, gioia mia! Un po' di carità… - La carità è una cosa, la convenienza è un'altra! - replicò ella, nella sua ostinazione. Non vedi come è sporco? - Oh sporco! - mormorò lui, nella sua costante bonomia. - È filosofo, non bada ai vestiti. - Infine, Cesare io vorrei che se ne andasse. - E come si fa? - chiese lui, confuso, mortificato dall'insistenza della moglie. - Gli si dice. - Ora gli dò prima un bicchiere di vino, Luisella: ancora un po' di pazienza e poi lo faccio andar via. Difatti, Cesare Fragalà si avvicinò allo sconosciuto e gli offrì dei dolci, del vino, parlandogli, sottovoce, guardandolo negli occhi. Costui accennò a un sorriso, con le labbra di un violetto smorto e cominciò a mangiar pian piano, con una piccola smorfia di difficoltà, come se non potesse bene deglutire. Prima di portare alla bocca il candito, la rosea pasta reale, il frutto giulebbato che Cesare Fragalà gli veniva man mano offrendo, invitandolo con gli occhi a gustarne, il misterioso personaggio guardava il dolce, con una ciera fra indecisa e diffidente: infine si risolveva a mangiarlo, facendo sempre quell'atto nervoso, penso, del volto di chi ha la gola stretta. Ed era restato in piedi, con quell'aspetto imbarazzato della propria persona, che è la incurabile infelicità di certi individui; spezzava un mandorlato scrocchiante, inghiottiva i grossi bocconi molli della pasta Margherita, uardandosi vagamente intorno, come se non osasse abbassare gli occhi sulle sue gambe e sulle sue scarpe. Pure, lentamente, continuava a mangiare; anzi Cesare Fragalà aveva fatto portare un vassoio di dolci sopra una mensola, accanto allo strano personaggio, donde gli veniva porgendo continuamente i cioccolattini i confetti di mandorle vainigliati, i quarti di mandarino, stillanti di sugo agrodolce. Anche, aveva fatto posare sulla mensola un vassoio di bicchieri di vino; ne aveva dati tre, uno dopo l'altro, al bizzarro personaggio che li aveva tracannati senza fiatare, levando il volto smunto, striato di rosso, levando l'ispida barba di convalescente uscito dall'ospedale. L'uomo seguitava a mangiare e a bere, continuamente, taciturno; mentre Cesare Fragalà, con un sorriso stentato che mal celava una certa preoccupazione, guardava l'uomo negli occhi, come se volesse leggergli in fondo all'anima. Intanto Luisella Fragalà, per distrarsi, per calmare il subitaneo moto d'impazienza che era scoppiato così vivacemente, girava di gruppo in gruppo, salutando, ringraziando, chiacchierando con le sue parenti, con le sue amiche. Oramai era corsa la voce, che la scintillante stella di brillanti che Luisella Fragalà portava nei capelli neri, era il dono del compare di Agnesina, di don Gennaro Parascandolo: degno dono di un compare così ricco. Nel cuor loro le Naddeo, le Antonacci, le Durante, e tutte le altre mercantesse, e tutte le mogli dei contabili, dei commessi, pensavano che Luisella Fragalà, nella sua avvedutezza coperta di cortesia, era stata molto furba a scegliersi un compare molto ricco; e calcolavano, alla prossima gravidanza, di fare lo stesso, pensando di scegliere, fra i tanti, un compare di battesimo che conoscesse e sapesse fare il dover suo, come quel carissimo don Gennaro Parascandolo. E dei piccoli aforismi maliziosetti correvano: - Chi ci pensa prima, non si pente poi. - Il signore, sempre signore è. - Vivi con chi è più di te e fagli le spese. Come Luisella Fragalà si accostava, tutto ciò si tramutava in un coro di ammirazione sul magnifico gioiello. Ella annuiva, abbassava il capo, arrossendo di orgoglio; e la stella, fra i neri capelli, scintillava, scintillava. Le donne avevano quel mormorio lungo di ammirazione, lusinghiero per chi lo fa e per la persona che lo riceve: mormorio pieno di compiacente soddisfazione, di tenerezza vanitosa, mentre gli occhi feminili s'illanguidiscono o lampeggiano. Qualcuna, per mostrarsi anche più amabile, sebbene fosse al corrente, domandava: - Il compare? - Sì, - rispondeva Luisella Fragalà, con un lieve sorriso. - Non poteva essere diversamente, - susurrava l'altra, con aria d'indovina felice. Altrove, due volte, Luisella aveva dovuto togliersi lo spillone dalla testa, perché le signore avevano voluto avere fra le mani il prezioso gioiello. Il gruppo si formava, le teste feminili si chinavano, piene di curiosità, piene di quell'invincibile trasporto per le gemme, che è in fondo al cuore della donna più modesta e più oscura: ed erano strilletti di ammirazione, interiezioni, interrogazioni che sorgevano, al balenare della stella di brillanti. Qualcuna arrivava finanche a volerne sapere il prezzo: ma Luisella Fragalà faceva un gesto largo d'ignoranza, un gesto che ampliava il valore della gemma: e questo mistero, questa cifra incognita acquistava, nella immaginazione feminile, una latitudine che imponeva loro rispetto. Tanto che a un certo punto, fra otto o dieci signore nel cui centro stava Luisella, per moto plebiscitario, un impeto di entusiasmo nacque, crebbe, finì con un'acclamazione: - Evviva il compare! Don Gennaro Parascandolo, facendo finta di niente, accorse, premuroso, con l'aria fra disinvolta e bonaria del napoletano che ha viaggiato. E si difese contro i complimenti, modestamente: quella era una cosa da nulla, due pietruzze insignificanti, due fondi di bicchiere: le signore contraddicevano vivamente, adulandolo, coprendolo di cortesie, col profondo istinto muliebre che fa loro prodigare parole e sorrisi, così, sapendo che qualche cosa finiranno per fruttare: e quando egli disse che donna Luisella Fragalà meritava non una stella, ma una corona di stelle, un applauso coprì la sua voce. Nel frattempo la padrona di casa aveva dato, ogni tanto, delle occhiate oblique verso il pezzente che le aveva urtato tanto i nervi; ma costui seguitava pianamente a mangiare e a bere, ritto in piedi, con quel moto lento delle mascelle, con la tensione dolorosa dei muscoli del collo, che somigliava alla zampa gialla di una gallina morta. Però qualche cosa di bizzarro avveniva intorno, di cui Luisella Fragalà si dovette dar conto, man mano che il fenomeno si propagava nel salone. Mentre il pezzente devastava il vassoio dei dolci, facendosi intorno ai piedi un circolo di cartine bianche intagliate, di cartine metalliche colorate ed anche di ossi di prugna, nel salone egli aveva attirato l'attenzione di coloro che vi erano e che avevano finito di mangiar dolci e di sorbire gelati. Nella vaga ora di digestione di tutte quelle leccornie, con lo stomaco pieno e il pacchetto di dolci da portare a casa, tutti i distratti, tutti i disoccupati, girando gli occhi attorno, avevano scorto quello strano miserabile, a cui con tanta compiacenza Cesare Fragalà dava da mangiare e da bere; e man mano, l'uno indicandolo all'altro, con un'occhiata, con una gomitata, con quella mimica significativa di occhi, di sopracciglia, di sorrisi, che costituisce il più espressivo fra i linguaggi, si erano indicati quel divoratore muto, che cominciava quando essi avevano finito, ma che pareva non dovesse finire, se non quando avesse distrutto l'ultimo dolce e bevuto l'ultimo bicchiere di vino. Qualcuno lo guardava con una certa ammirazione, dolente di non poterlo imitare in quella pappatoria continua: qualcun altro sorrideva, con indulgenza; qualcun altro aveva negli occhi come una luce di compassione per un disgraziato che pareva non avesse mai mangiato e mai bevuto; e qualche frase, qua e là, fra scherzosa e bonaria, si ripeteva, di persona in persona: - Che bello stomaco… - È la chiesa di San Pietro… - Salute e provvidenza… - Io gli farei un vestito, anzi che dargli da mangiare… - Santa Lucia gli guardi la vista, perché per l'appetito non ve ne è bisogno… Ma erano le solite esclamazioni un po' grasse, dinanzi a un forte mangiatore. Qualche uomo disoccupato si era accostato a Cesare Fragalà e all'incognito, per osservare meglio quel muto divoratore. A poco a poco, adesso, tutti quelli che erano nel salone mettevano gli occhi addosso al lungo mangiatore; e Luisella Fragalà sentiva le fiamme della vergogna salirle al viso, poiché tutti si erano accorti, adesso, dell'ignobile straccione che suo marito le aveva portato in casa e che ella doveva subire nel suo salone. Invano ella cercava, andando di gruppo in gruppo, parlando, ridendo, scherzando, agitando il suo ventaglio nero, di divergere l'attenzione: era inutile. La gente riunita nel salone aveva mangiato, aveva bevuto, aveva applaudito Agnesina, applaudita la stella di brillanti e il compare Parascandolo che gliel'aveva regalata; ora non sapendo più che cosa fare, si attaccava a quel curioso straccione, la cui presenza, certo, era una cosa inusitata in casa di Luisella Fragalà, buona ma fiera, caritatevole ma che non avrebbe introdotto mai un povero in salone. Oh era inutile che ella si arrovellasse, sentendosi salire le lacrime agli occhi; oramai tutti si erano acconti del pezzente mangione, tutti lo guardavano, anche le donne, anche le fanciulle, le grandi sonnambule che pare non vedano mai nulla. E gli stessi sorrisi di compassione, di scherzo, di scherno, d'indulgenza si dipingevano sulle labbra feminili, come si erano dipinti su quelle maschili; salvo che la curiosità muliebre, più ardente, più forte, non seppe resistere, e la signora Carmela Naddeo, piegandosi dietro il ventaglio, domandò a Luisella Fragalà: - Bella mia, chi è quell'affamato? - E chi lo conosce! - disse l'altra, con un vivo moto d'impazienza. - Cesarino, certamente. Gli dà da bere. - Cesare li raccoglie col carrettino, questi straccioni, - diss'ella, fremendo di collera. Ma ad un tratto, da uomo a uomo, da donna a donna, una parola sommessa, susurrata, corse, con uno strano stridore, con un sibilo di sillabe più fischiate che pronunziate. Chi, primo, aveva pronunziato quella sibilante parola? Qual era la persona che, conoscendolo, l'aveva pianamente soffiata, nelle sue avvolgenti e sinuose sillabe, all'orecchio del suo vicino? Chi lo aveva rivelato, il mistero dello sconosciuto? Chissà! Certo che in un minuto secondo, con la rapidità di una traccia di polvere pirica che svampa, tutti avevano saputo e ripetuto la mistica parola, per tutto il salone cremisi, e che essa ritornava su sé stessa, riavvolgendosi, negli archi, nei circoli delle sue lettere, formando come un magico cerchio, in cui entrò subito tutta l'assemblea, uomini, donne, fanciulli. E quando tutti ebbero saputo chi era quell'uomo, come una stupefazione li colse: i lumi delle lampade parve si fossero improvvisamente abbassati: un gran pallore parve caduto sulla vivezza dei volti, dei mobili, delle stoffe: un silenzio profondo si fece, dove ancora si trascinava, fioca, flebile, la mistica parola: - L' assistito, l' assistito 'istessa Luisella Fragalà, l'intrepida, impallidì nel bruno volto, e le mani che stringevano il ventaglio, tremarono. L' assistito aveva finito di mangiare e di bere, ora si riposava tranquillo, girando intorno il suo sguardo vago, incerto, non sapendo che cosa farsi delle sue mani scarne e giallastre; un po' di sangue gli era salito alle guance smunte, spuntando sotto la barbaccia nera; ma era un colorito malaticcio, a strie, un colorito di sangue guasto, di sangue povero, di sangue che è stato, o è consumato da una febbre che non si guarisce. Eppure così brutto, sporco, miserabile, ignobile come era, l' assistito veva concentrato su sé tutti gli sguardi, intenti, dell'assemblea; sguardi di curiosità, di lusinga, di ossequio, di speranza, sopratutto sguardi di rispettoso spavento, uno spavento fantastico che traluceva specialmente dagli occhi feminili. Poiché ancora le donne, nel lieve tremore dei loro nervi, ripetevano a sé stesse: - Dio mio, ecco l' assistito. come per una attrazione forte e naturale, man mano, intorno all' assistito un cerchio di persone si venne formando, stringendosi sempre più, un cerchio di facce lievemente ansiose, dove si leggeva il vivido lavorio della fantasia meridionale, la fuga di tutte quelle immaginazioni nel paese dei sogni e dei fantasmi. Alle persone meno timide, che per le prime si erano avvicinate, si venivano ad aggiungere le altre, più ritrose, ma infine vinte anch'esse, sognando anch'esse tutto il fantomatico corteo degli spiriti assistenti, l corteo degli spiriti buoni e degli spiriti cattivi, che ogni giorno, ogni notte, ogni ora del giorno e ogni ora della notte si agita, combatte, vince o è vinto intorno all'anima e intorno alla persona dell' assistito Il cerchio si era talmente ristretto che don Gennaro Parascandolo, uno dei primi accorsi, pur conservando il suo sorriso un po' scettico, si rivolse a Cesare Fragalà e gli disse: - Cesarino, presentami a questo signore. Cesare Fragalà che era molto imbarazzato, non trovando una via di uscita, colse al volo questa domanda e disse subito: - Il cav. Gennaro Parascandolo, mio compare: Pasqualino De Feo, un bravo amico. L' assistito sorrise vagamente e tese la mano: don Gennaro stese la sua e toccò una mano gelida e un po' molle di sudore, una di quelle mani repulsive che dànno un brivido di ribrezzo. Ma nessuna parola fu scambiata. Le donne che stavano fuori del cerchio e non osavano avvicinarsi, si domandavano, tormentate da un desiderio profondo: - Che dice, che dice? - Non dice nulla, - rispondeva donna Carmelina Naddeo, che era la più vicina all' assistito e che non lo perdeva d'occhio un sol minuto. Le donne si mordevano le labbra, intimidite dalla presenza degli uomini, un po' vergognose, non osando accostarsi all' assistito, entre ognuna di esse fremeva d'impazienza, fremeva di desiderio di sentire la fatidica parola di quell'uomo che viveva in continua comunicazione col mondo dei fantasmi e a cui gli spiriti buoni dicevano tutte le verità nascoste della vita, a cui gli spiriti che lo assistevano, rivelavano, ogni settimana, i cinque o almeno tre dei numeri del lotto. Che diceva? Nulla. Son gente che vive per lunghe ore, concentrata, perduta forse in un gran combattimento interiore, perduta dietro le voci dall'alto che le parlano e che ogni tanto, strappata alle sue visioni dalla realtà umana, pronuncia una frase, una frase fatale, dentro cui è il segreto che si vuole scoprire, avviluppato nel mistero di parole spesso informi, ma che s'intendono, miracolosamente, da chi ha una forte fede, una forte speranza. Tutti, uomini e donne, vinti da un grande sogno, balzati d'un tratto dalla quotidiana realtà nella ardente, consumatrice regione delle visioni, dimentichi del minuto presente, attendevano la parola dell' assistito, ome un verbo sovrumano. Ah, certo, don Gennaro Parascandolo conservava il suo sorriso di napoletano che ha viaggiato, che ha vissuto, che ha una grossa fortuna sicura; ma, in fondo al cuore, il vecchio istinto partenopeo, l'istinto del grosso guadagno, del guadagno illecito, ma non colpevole, senza fatica, improvviso, dovuto al caso, dovuto alla combinazione, a burla fatta al Governo, sorgeva, così, naturalmente, di fronte all'uomo che sapeva i segreti delle cose nascoste. Certo, certo, tutti quei Fragalà, quei Naddeo, quegli Antonacci, quei Durante, erano abituati a vendere i dolci stantii, le stoviglie di creta grossolana, i pannilana avariati e il puzzolente baccalà, nelle oscure botteghe nei freddi depositi i via Tribunali, di via Mercanti, alla Pietra del Pesce, alla via Marina: erano abituati a tutte le glacialità, le volgarità, le meschinità del commercio, dove per anni e anni si mette il soldo sopra il soldo, la lira sopra la lira, e infine, dopo due o tre generazioni, si arriva ad avere una fortuna: certo, tutti costoro sapevano che il valore del denaro è quello del lavoro, il valore dell'economia e della diligenza, ma che importa! Potere, per una frase detta da un misterioso personaggio, che costava solo la pena di raccogliere e d'interpretare, in una settimana, anzi in un sol giorno, guadagnare con una piccola posta una grossa somma, avere, in un giorno, il guadagno di venti anni di vendita di baccalà, di quarant'anni di vendita di zucchero marmoreo e di caffè arenoso, era un regalo così prelibato, era una visione così luminosa alle borghesi fantasie! Certo, tutti quei contabili, quei commessi di negozio avevano un'idea modesta, limitata del proprio avvenire, avevano vissuto di nulla, vivevano di poco, desideravano vivere con qualche cosetta di più, null'altro, umili a ogni desiderio; ma la figura dell' assistito quel pezzente così potente, quello straccione che discorreva ogni notte con gli spiriti superni e inferi, li buttava a un tratto in un mondo fantastico, dove i poveri miracolosamente si trasformavano in ricchi, dove essi, oscuri lavoratori, potevano, a un tratto, diventare dei signori. Ah, don Domenico Mayer, nipote, figliuolo, fratello, padre e zio d'impiegati, non aveva fede che nella santa burocrazia, gelida carriera di taciturni sofferenti: pure, stretto nel suo soprabitone nero, aveva lasciato in un cantuccio la sua misantropica famiglia, si era accostato al gruppo della gente che circondava Pasqualino De Feo, l' assistito, vibrava quelle sue occhiate fra severe ed ansiose, aspettando anch'esso la frase che lo doveva trarre, in un giorno solo, dall'ambiente sepolcrale della sua Intendenza di finanza. Ma le donne, le donne erano quelle che più ardevano nell'immaginazione! Certo, almeno dieci di esse, per la nascita, per il matrimonio, per le virtù proprie e per quelle dei loro parenti o mariti, erano ricche, possedevano la quiete della fortuna e l'avvenire dei figli assicurato: dieci di esse, almeno, godevano il lusso borghese dei mobili di broccato, dei gioielli, della biancheria a bizzeffe: e tutte le altre, per la saviezza, per la modestia, per l'economia, virtù proprie e virtù dei parenti e mariti, non mancavano del necessario - ma la vivace passione del sogno si era risvegliata in loro e le abbruciava; ma sorgevano loro nell'anima tutti i desiderii di benessere, di ricchezza, di lusso; ma esse volavano, volavano, pei campi del desiderio, con la forza, con la intensità che le donne più tranquille mettono in queste improvvise follie: ma le teneva una irrefrenata voglia di sapere il gran segreto; ma una crollante piramide di oro e di gioielli pareva accendesse di fiamme i loro occhi. Finanche la vecchia marchesa di Castelforte, curva, dal naso adunco, con la bocca rincagnata, rovina di una donna, avanzo isolato, solitario di una famiglia, senza parenti, senza eredi, avendo settant'anni e con la tomba per solo avvenire, si era levata su e portando seco la borsa di velluto nero, era venuta a tendere il suo profilo di vecchia civetta, fra due spalle di uomini. Perfino donna Carmela Naddeo, la bella, la ricca, la felice, la fortunata donna Carmela Naddeo, tendeva l'orecchio, convulsa di curiosità, istintivamente, dicendo a mezza voce: - Se mi dice i numeri, mi compro la stella di brillanti come quella di Luisella. Pure, l' assistito aceva: tanto che don Gennaro Parascandolo, sentendo dietro di sé l'impazienza della sala, arrischiò una domanda: - Vi è piaciuta la festa, don Pasqualino? Infine costui schiuse la bocca e dalle labbra sottili, violacee, tutte maculate dalla febbre, una voce bassa e fievole uscì: - Sì, - disse - è un bel battesimo. Anche il battesimo di Gesù Cristo nel Giordano era bello… Immediatamente vi fu un mormorio, un agitazione nella sala; tutti parlavano fra loro, sottovoce o ad alta voce, commentando la frase, cercandone subito la spiegazione, formando circoli, crocchi, le donne discutendo fra loro, mentre il numero trentatré, l numero del Redentore, correva su tutte le bocche. Placidamente, come se prendesse la data di una cambiale, don Gennaro Parascandolo aveva trascritta la frase nel suo taccuino: e celandosi dietro una portiera, senza lasciare la sua gravità burocratica e misantropica, don Domenico Mayer ne aveva preso nota. La vecchia marchesa, che era sorda, andava domandando, rabbiosamente: - Che ha detto? Che ha detto? Finì per chiederlo a Luisella Fragalà, che, immobile, con gli occhi imbambolati, sedeva presso la malinconica signora Parascandolo, e Luisella non seppe dire altro: - Non so, comare marchesa, non ho inteso. Però don Gennaro Parascandolo, non contento, insisteva: - Vi sono piaciuti i dolci, don Pasqualino? Ho visto che li mangiavate con piacere. - Sì, - mormorò costui. - Io mangio, ma non mastico… - Non avete denti? - Non ho denti… E girò gli occhi intorno, in alto, vagamente, senza fissar mai nessuno, come se vedesse delle cose di là; fece un cenno con la mano, appoggiando tre dita sulla guancia. Vi fu lo stesso mormorio, la stessa agitazione: ma sorse anche una incertezza. La frase era ambigua: e il cenno con le tre dita, che significava? Anche don Gennaro Parascandolo, mentre prendeva la sua annotazione, si fermò, pensando: e il mistero di quella seconda frase, il mistero di quel cenno scatenava tutte quelle già frementi fantasie, in un mondo sovrasensibile. Oh la fede, la fede, ecco quello che ci voleva, per intendere le parole dell' assistito E ognuno, concentrando le potenze dell'anima, cercava di avere uno slancio sublime di fede, per sapere la verità, e per conoscere come si traducesse in numeri, e per cambiarla nei danari del lotto. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A notte tarda, quando la casa fu vuotata di gente, Cesare Fragalà, insieme con le serve sonnacchiose, andò smorzando i lumi, chiudendo tutte le porte, come faceva, per prudenza, ogni sera. Rientrato nella stanza nuziale, trovò Luisella, semi spogliata, seduta nella penombra. La culla di Agnesina era stata portata nella stanza della nutrice; gli sposi erano soli. Pareva che la stanchezza li avesse ammutoliti. Pure, accostandosi alla sua giovane moglie, egli vide che ella piangeva, silenziosamente, a grosse lacrime che le si disfacevano sulle guance. - Che hai, Luisella, che hai? - chiese, abbracciandola, tremante anche lui di emozione. - Niente, - ella disse, piangendo ancora, nel silenzio, nella penombra.

La fanciulla tornava a casa, ebbra di luce, di sole, di amore, con le mani piene di fiori, con le nari rosate dilatate che respiravano ancora l'aria pura: ma come la carrozza entrava nelle vie della città, il suo giovanile sorriso si andava dileguando, e quando la carrozza entrava sotto il nero androne del palazzo Rossi, ella abbassava il capo, avvilita. - Che hai, che hai? - le domandava il medico ansiosamente. - Niente, - rispondeva ella, con la gran risposta dei disperati timidi, che nascondono la loro disperazione. Pian piano, ella risaliva nella sua nuda e triste casa: sulla soglia aveva ancora un sorriso per Antonio Amati ed entrava in casa, con un cenno risoluto, quasi che superasse una paura, un disgusto. Spesso, Carlo Cavalcanti le veniva incontro, con una collera fredda, o col viso stravolto delle sue cattive ore di passione. Ed ella fremeva, mentre solo quell'aspetto le faceva fuggire il sangue dalle guancie, faceva fuggire tutto l'idillio d'amore, tutta la dolcezza del sole e dell'amore. Quando ella era entrata nel grande salone, posando timidamente sopra un angolo di tavolino il suo gran fascio di fiori campestri, il vecchio signore la interrogava avidamente, ansiosamente, su la via che aveano preso, su quello che essa avea visto. Bianca rispondeva con voce fioca, a frasi brevi brevi, voltando il capo dall'altra parte: ma egli insisteva, voleva sapere tutto quello che aveva visto. Oramai ogni visione di sua figlia, lo riempiva d'incertezza, di curiosità, di affanno, cercando sempre, in quanto ella vedeva, la corrente mistica della cifra, dei numero. Oramai egli la credeva assistita: ssai meglio assistita di don Pasqualino, perché era donna, perché era fanciulla, fanciulla pura, fanciulla inconscia. Ella non sapeva, ma era assistita: on aveva lei veduto lo spirito, in quella notte fatale, a piangere, a salutare? Ed egli continuava le sue interrogazioni fitte, fitte, stravaganti, obbligando la figliuola a seguirlo nelle sue stravaganze. - Che hai visto, che hai visto? - era la domanda angosciosa di quel giuocatore, che dimenticava di essere padre. Ahi che il bel sogno d'amore spariva, con la sua luce, con la sua lietezza. ed ella aveva intorno quelle ombre soffocanti della nuda casa, con quel vecchio che farneticava paurosamente, imponendole le terrorizzanti fluttuazioni del suo delirio! Anzi, ogni volta che ella, dolcemente, pronunziava il nome di Antonio Amati, il salvatore, l'amico, l'amore, il marchese Cavalcanti arrossiva di collera. Ella intendeva: suo padre aveva finito per odiare profondamente Antonio Amati, odiandolo per i medesimi servigi che Amati gli aveva resi e rendeva, odiandolo per la misura di riconoscenza che gli doveva. In quei momenti, la fisonomia di Cavalcanti diventava così aspra, così feroce, che Bianca Maria si sgomentava: e il suo cuore si divideva fra l'incrollabile rispetto filiale e la passione per Amati. Una volta che Margherita, in presenza di Cavalcanti, aveva accennato alle voci di matrimonio fra la marchesina e il dottore, il marchese era diventato una furia e aveva dato tale un urlo dicendo: no! he la cameriera si era turata le orecchie, spaurita. - Eppure la signorina si dovrà maritare, un giorno - osservò ella timidamente e maternamente, - meglio il dottore, che un altro… - Ho detto, no! - ribattè, tetro, il marchese. D'allora in poi, egli si mostrò più originale, più stravagante nelle sue parole. Ogni tanto, fra le tante incoerenze mistiche e spirituali, in cui vagabondava la sua fantasia, egli ritornava, parlando a sua figlia, a un pensiero dominante: all'amore considerato come macchia, come peccato, come indelebile impurità dell'anima e del corpo. La fanciulla spesso arrossiva, nella sua semplicità, udendo le ingiurie di cui egli colmava l'amore: e allora egli faceva l'elogio della castità che mantiene il cuore nello stato di grazia, che permette agli occhi umani le sovrumane visioni, che fa attraversare la vita in uno stato soavissimo di puro sogno. Egli si esaltava, malediceva l'amore come sorgente di tutte le sozzure di tutti i mali, di tutti i dolori, la bocca si torceva sotto questo flusso impetuoso di vituperii, e Bianca Maria si nascondeva il volto fra le mani, come se tutte le ingiurie del padre la colpissero sul viso. - Mia madre era una santa donna e vi ha amato… - osservò ella, un giorno, pentendosi subito della sua audacia. - Di questo amore è morta… - rispose egli, cupamente, quasi parlasse a sé stesso. - Anche io vorrei morire come lei… - mormorò la fanciulla. - Morirai maledetta, maledetta da me, intendi? - gridò lui, come un energumeno. - Guai alla figlia dei Cavalcanti che affoghi il suo cuore nell'onta di un amore terreno! Guai alla fanciulla che preferisca le volgari laidezze della passione umana, alle purissime altitudini della vita spirituale! Ella aveva chinato il capo, senza rispondere, sentendo sempre più aggravare sulla sua vita quella mano ferrea che dovea piegarla e spezzarla. Non osava raccontare al suo innamorato tali scene: solo, ogni tanto, spezzando per un minuto il fascino del rispetto con cui la dominava suo padre, ella ripeteva ad Antonio Amati la sua parola disperata: - Portami via, portami via! E da lui, adesso, ogni calma era sparita: egli stesso vagheggiava questo progetto di rapimento, questo portarsi via la fanciulla come sua compagna, come sua adorata compagna, questo toglierla ai tetri incubi di una vita che era per lei l'agonia quotidiana. Sì, avrebbe levata quella povera vittima al suo inconscio carnefice, l'avrebbe strappata a quell'ambiente di vizio, di miseria, di follia, mettendola nella sua casa, sul suo cuore, difendendola contro tutte le pazzie, contro tutte le burrasche; il marchese Cavalcanti sarebbe restato, solo, a dibattersi contro la sua passione, e non avrebbe più trascinato nell'abisso di disperazione, ove egli affondava, una povera creatura, buona, mite, innocente. Ogni giorno questo desiderio di salvazione cresceva nel cuore di Amati, fino a rendersi prepotente: e gli tardava di parlare, perché il bel sogno divenisse un fatto. Gravemente, solennemente, lo aveva promesso a Bianca Maria, in quella serata dolorosa in cui ella gli aveva confidato tutto il mistero della sua famiglia: e un galantuomo deve mantenere le sue promesse, anche se fatte nell'estasi inebriante o nel doloroso abbattimento di supremi momenti. Gli tardava: e intanto i giorni trascorrevano, e una incertezza lo vinceva, quando più era deciso a chieder a Cavalcanti la mano di sua figlia. Sentiva vagamente che quella parola sarebbe risolutiva: e poteva risolversi in bene o in male: il bene gli era necessario, non potea farne a meno; il male gli pareva insopportabile. Ma un grave avvenimento, a un tratto, lo fece decidere. Il marchese Cavalcanti, fra le fluttuazioni della sua follia, aveva conservato la mistica reverenza, e ogni venerdì passava delle ore in preghiere, nella sua cappella, innanzi alla Madonna Addolorata, con cuore trafitto dalle spade, innanzi a quell' Ecce Homo i grandezza naturale, tutto sanguinante, dalla fronte coronata di spine, dal costato trafitto. Con quella fede dei meridionali che ha tutti gli slanci, ma che è anche vinta da una fitta rete di volgarità, che la trattiene sulla terra, egli mescolava continuamente la divinità a tutte le terrene complicazioni della sua passione: e ogni tanto, nella disperazione, la rendeva responsabile della sua rovina. - Tu l'hai permesso, tu l'hai permesso, Gesù Cristo mio! - gridava il marchese, nelle sue preghiere. Ma nei giorni terribili, la sua fede diventava anche più accusatrice, ingiusta, sacrilega: - Tu l'hai voluto, Gesù, tu l'hai voluto!… - egli imprecava con le lacrime che gli bruciavano gli occhi, con la voce soffocata. Anzi, una sera mentre Bianca Maria credeva che il padre fosse uscito, passando innanzi alla porta della cappella udì partirne delle voci interrotte, fra l'ira e il lamento: ella si avanzò e, sporgendo il capo, vide il padre che, inginocchiato, aveva buttate le braccia intorno al corpo dell' Ecce Homo e ora si lagnava della sua sfortuna, ora dava in esclamazioni, in bestemmie, maledicendo tutti i nomi della Divinità con empia parola, subito pentendosi, chiedendo perdono delle ingiuste e sacrileghe offese: infine, un novo impeto di collera lo assalse e si staccò dal sacro busto con disdegno, profferendo delle parole di minaccia. Egli prometteva nel suo delirio, a Gesù Cristo legato alla colonna, di punirlo, sì, di punirlo, se per la prossima settimana non disponeva che egli vincesse una grossa somma al lotto. Bianca Maria, esterrefatta, non vedendo più la misura di questa empia follia, fuggì, nascondendosi il volto fra le mani: e, chiusa nella sua stanza, ella pregò tutta la notte il Signore, perché l'inconscia eresia di suo padre non fosse punita. Oramai, ella si chiudeva sempre, di notte, per sottrarre il suo riposo notturno alle suggestioni di suo padre, che la voleva obbligare a evocare lo spirito, che le parlava di questi fantasmi come di persone vive, che la perseguitava, infine, in ogni ora, tenendola sotto quell'incubo spaventoso. Ma poco dormiva, malgrado la solitudine e il silenzio della sua stanzetta: poiché i suoi nervi, tesi, oscillavano al minimo rumore: poiché temeva sempre che suo padre picchiasse alla porta, o tentasse di aprire con un'altra chiave, per indurla a chiedere i numeri, nella notte, allo spirito assistente. entre ella sonnecchiava, in un lieve dormiveglia, donde il minimo scricchiolìo la traeva, ella sussultava come se voci fievoli la chiamassero, sbarrava gli occhi nell'ombra, quasi a vedere uno spettro, che le sorgesse accanto al letto: e quante volte ella si levò, seminuda, scalza, correndo sul pavimento, poiché le pareva che una mano leggera strisciasse sul capezzale, venisse a toccarle la fronte, a carezzarle i capelli! E una notte, una notte sopra sabato, ella udì, nel dormiveglia, suo padre passeggiare su e giù per la casa, passando varie volte innanzi alla sua porta, nelle furiose cogitazioni della sua anima tumultuante: e sottovoce, ella invocò per lui la calma del cielo, la calma che pareva fuggita, per sempre, da quello spirito. Ma mentre si riaddormentava, un bizzarro e sordo rumore la risvegliò, trabalzante: era come se si trascinasse un corpo pesantissimo, facendo vacillare le porte, le finestre e i pavimenti, con quel tetro fragore. Ogni tanto, il misterioso rumore si andava chetando, taceva: dopo una pausa di qualche minuto ricominciava, più forte e più sordo, nel medesimo tempo. Ella era rimasta levata sui guanciali, inchiodata da una ignota mano di ferro: che accadeva di là? Avrebbe voluto gridare, suonare il campanello, fare accorrer gente, ma quel fragore le toglieva la voce: ella restò muta, sudando freddo, con tutta la tensione dei suoi nervi concentrata nell'udito. Il rumore quasi di tremuoto, che si approssima, era sempre più vicino alla sua porta ed ella, nell'ombra, congiunse le mani, chiuse gli occhi forte forte, per non vedere, pregando Dio che non la facesse vedere. Insieme a quello strascinìo di corpo pesante e traballante, ella udì un respiro affannoso, di persona che si adopera a una diseguale fatica: e poi, un urto forte, come se avessero battuto alla sua porta con una catapulta. Ella credette che la porta si fosse schiusa violentemente e ricadde sui cuscini, non udendo più, non vedendo più, smarriti i deboli sensi. Ben tardi, molto più tardi, rinvenne: gelida, immobile, tese l'orecchio, ma non udì più nulla, per molto tempo, e nella confusione, oramai, che nella sua fantasia si formava fra la realtà e il sogno, le parve che tutto quello che aveva udito, non fosse stato che una lugubre visione, che l'avesse oppressa coi suoi terrori. Aveva sognato, dunque, quel bizzarro tremuoto, e quell'affannoso respiro, e quel forte colpo alla porta della sua stanza. La mattina, dopo aver riposato poche ore, si levo più tranquilla, e dopo aver detto) le sue orazioni andò nella stanza di suo padre, come soleva fare ogni mattina, per augurargli il buon giorno. Ma non lo trovò: e il letto era intatto. Talvolta, da qualche tempo, il marchese Cavalcanti non rientrava a casa, e l'allarme suo e dei servi, le prime volte, era stato grande: ma quando il marchese di Formosa era rientrato, aveva sgridato coloro che lo avevano cercato dicendo che non tollerava inquisizioni, che faceva il piacer suo. Pure, Bianca Maria, ogni volta che sapeva aver egli passato la notte fuori di casa, diventava inquieta: era vecchio, era stravagante, la sua follìa lo metteva in perigliosi contatti, lo rendeva credulo e debole: ella temeva sempre che qualche pericolo lo soverchiasse, una di quelle notti, nella via, in qualche oscura riunione di cabalisti. Anche quella mattina tremò: e passò nelle altre stanze, ripensando a quel fenomeno della notte, di nuovo, domandando a sé stessa, se tutto ciò non si rannodasse a un truce mistero. Trovò Giovanni che spazzava accuratamente: - Non è rientrato questa notte, il marchese? - domandò, con finta disinvoltura. - È rientrato: ma è uscito prestissimo, - rispose il servitore. - Non è andato a letto… credo… - mormorò, abbassando gli occhi. - No, Eccellenza, - disse il vecchio servitore. In questo sopraggiunse Margherita e disse qualche cosa frettolosamente al marito, che annuì e disparve nella cucina. - Ho pregato Giovanni, che tirasse lui il secchio dell'acqua, dal pozzo, stamane, - spiegò la vecchia cameriera. - Stamane non ho forza. - Poveretta, ti stanchi troppo, - osservò pietosamente Bianca Maria, con gli occhi pieni di lacrime. - Sono un po' vecchia: ma per voi farei qualunque cosa, Eccellenza, - disse la fedele, con voce materna. - Ma non so che cosa abbia, il secchio, stamane: è così pesante, che non lo posso tirare su: ho pregato Giovanni che ha più forza, a prendere il mio posto. E ambedue andarono di là, perché Margherita ci teneva all'onore di pettinare le belle e folte trecce nere di Bianca Maria. Anche la pettinatura fu interrotta da Giovanni che, non osando entrare, chiamava fuori Margherita e parlottarono fra loro, qualche tempo, mentre Bianca Maria aspettava, coi capelli neri disciolti sul bianco accappatoio. Margherita ritornò, turbata, e tremava, tenendo il pettine: - Che è? - chiese Bianca Maria. - Niente, niente, - mormorò in fretta, la cameriera. - Dimmi, che è? - insistè l'altra, guardando la vecchia. - È che neppure Giovanni, ha potuto tirar su il secchio... - Ebbene?... - Giovanni dice.., dice, che vi è un ostacolo. - Un ostacolo? - Ha chiamato Francesco il facchino… tireranno su insieme… forse vinceranno l'ostacolo... - Che ostacolo? - balbettò la fanciulla, impallidendo mortalmente. - Non so, signorina… non so, - disse la vecchia, tentando di ricominciare a pettinarla. - No. - disse quella risolutamente, scartando la mano col pettine e raccogliendo sulla testa i capelli con le forcinelle. - No, andiamo di là. - Eccellenza, Eccellenza, che ci andiamo a fare? Vi sono Giovanni e Francesco… restiamo qui. - Andiamo di là, - insistette la fanciulla, avviandosi verso la grande cucina. Il vecchio Giovanni e il facchino Francesco, in maniche di camicia, tiravano con tutte le loro forze la fune: e la fune saliva con un moto impercettibile, con uno scricchiolìo, come se si spezzasse. Ma tanto sulla faccia del vecchio servitore Giovanni come sulla faccia del facchino Francesco, oltre il senso della grossa fatica che duravano, si leggeva una grande paura. Ogni tanto, coi fianchi ansimanti e le braccia che s'irrigidivano, si fermavano dal tirare e si guardavano, scambiando un'occhiata spaventata. Dalla soglia della cucina, avvolta nell'accappatoio bianco e coi capelli mezzo disciolti, Bianca Maria li guardava fare, mentre Margherita la cameriera, alle sue spalle, la veniva pregando, sottovoce, perché se ne andasse, se voleva bene alla Madonna, perché se ne andasse, in nome di Dio. - Ma infine, che sarà? - disse con fermezza Bianca Maria, rivolgendosi ai due uomini, a cui il crescente timore troncava le forze. - Che vi posso dire, Eccellenza? - balbettò Giovanni, - questo peso non è cosa buona... Ma mentre tutti tenevano gli occhi fissi sul pozzo, in una angosciosa aspettazione, avendo tutto lo spasimo di quell'attesa e tutta la paura dell'ignoto, la cosa he i due uomini tiravano su, urtò fragorosamente, due volte, a destra e a sinistra, nelle pareti del pozzo: e il grave rumor sordo si ripercosse nel cuore di Bianca Maria, poiché era identico a quello che aveva udito nella notte. Un piccolo grido di spavento le uscì dalla bocca ed ella strinse le mani, fino a farsi entrare le unghie nella carne, per soffocare innanzi a quei servi il suo terrore. Ma ancora una volta con un rumore più forte, più vicino, la cosa attè contro la parete del pozzo. - Sta venendo, - disse il facchino paurosamente. - Sta venendo, - ripetette Giovanni, costernato. E alle spalle di Bianca Maria che non poteva più domare i suoi nervi eccitati, Margherita pregava, sottovoce, tremando: - Madonna, assistici; Madonna, scampaci! Ma quello che apparve all'orlo del pozzo, barcollando, vacillando, con la fune del secchio che gli girava tre volte intorno al collo, con la catena del secchio che gli pendeva sul petto, la fece urlare di paura. Era un tronco d'uomo, dalla fronte stillante acqua e sangue sulle guance dolorose, dal torace nudo, stillante a rivoli sangue e acqua dal costato ferito, e negli occhi aveva sangue e lagrime, e la faccia e il petto avevano il livido colore della carne dei morti. Urlando di spavento, Francesco e Giovanni fuggirono, chiamando aiuto, aiuto: rlando di paura, le due donne, padrona e cameriera, erano fuggite nel salone tenendosi abbracciate, l'una con la faccia nascosta sul petto dell'altra, non osando levare il volto, perseguitate da quella orribile visione di tronco di assassinato. E il tronco tutto livido, tutto sanguinante nel viso, e nel petto, e nelle braccia avvinte, con l'espressione desolata dei suoi occhi, della sua bocca socchiusa quasi a un singulto, gocciando acqua e sangue, restò appoggiato sul parapetto, legato dalla fune, legato dalla catena. Il facchino e il servitore si erano buttati verso le scale gridando che vi era un morto, che vi era un morto ucciso: e subito nella scala, nel portone, nel vicinato, si diffuse la voce che nel pozzo del palazzo Rossi, era stato trovato il cadavere di un assassinato. Tutti avevano aperte le porte di casa, tutti erano alle finestre: ma il racconto confuso e tremante che facevano Francesco e Giovanni, aveva tanto comunicativo spavento, che nessuno osava penetrare nella casa aperta del marchese Cavalcanti e nella cucina dove il cadavere giaceva, abbandonato. Nel salone, le due donne si tenevano sempre strette, tremando, mentre Margherita cercava di vincersi per amore della sua padrona, il cui corpo, nelle sue braccia, ella sentiva a volte ammollirsi come per mancanza di spiriti vitali, a volte irrigidirsi, come in un impulso di convulsione nervosa. Ma il gran susurro del palazzo, dal portone era giunto anche in casa del dottore, che aveva il cuore sempre fremente nell'aspettativa di una catastrofe: messo il capo alla finestra, vide gente dovunque e confusamente arrivò, anche a lui, la vociferazione che s'era trovato un morto, ucciso, nel pozzo del palazzo Rossi e che il morto era nella cucina di casa Cavalcanti. Giusto, Giovanni, ripensando alle due donne lasciate sole, pentito di quel gran chiasso, intendendo che tutto quello scandalo sarebbe ricaduto sulla famiglia Cavalcanti, risaliva le scale: - Veramente, ci è un morto? - gli chiese Amati, non arrivando a nascondere, malgrado la propria forza, il turbamento che lo aveva colpito. - Veramente, Eccellenza, - disse il cameriere, con la disperazione negli occhi e nella voce. - Chi lo ha visto? - Tutti, Eccellenza. - Chi, tutti? Anche la signorina? - Anche la signorina. Il dottore gli gettò una occhiata terribile ed entrò nella casa fatale, dove un fiato tragico aveva sempre soffiato dal primo momento che vi aveva posto il piede, dove tutte le lugubri bizzarrie parevano possibili. Girò per le stanze, come un pazzo, in cerca della fanciulla e la trovò seduta in un seggiolone del salone, così pallida, così stravolta e così muta che Margherita, sgomenta, le si era inginocchiata dinanzi, tenendole le mani, pregandola che le dicesse una parola, solo una parola. Bianca Maria diè un'occhiata ad Amati e parve non lo riconoscesse, tanto rimase fredda e inerte, fissa nella sua espressione di spavento. - Bianca! - disse il medico, con voce dolce. Ella seguitò a tacere. - Bianca! - replicò lui, più forte. E le prese la mano: a quel lieve contatto ella fremette, diè in un grido, ritornando in sé stessa. - Amor mio, amor mio, parla, piangi, - suggerì lui, guardandola magneticamente, cercando di trasfonderle la sua volontà, la sua forza, il suo coraggio. E a un tratto, come se quella volontà e quella forza le avessero dissuggellate le labbra, ella si mise a gridare: - Il morto, portatelo via, il morto! - Ora, ora, non temere, lo portiamo via, sta calma, - le disse il medico. - Il morto, il morto! - gridava lei, con la faccia fra le mani, convulsamente. - Per carità, portatelo via, questo morto, o mi porterà via! Non mi fare portar via, te ne supplico, amor mio, se mi vuoi bene! Con uno sguardo il dottore raccomandò la fanciulla a Margherita e, seguito da Giovanni, andò in cucina: in anticamera vi erano già due o tre persone che parlavano di chiamare il delegato, il portiere, la portiera, le serve di casa Fragalà e di casa Parascandolo, Francesco il facchino, ma nessuno di essi, pure seguendo il dottore, osò entrare nella cucina: lo lasciarono andar solo, aspettando nell'anticucina, in silenzio, vinti, di nuovo, da una gran paura. Il medico, pur avvezzo ai cadaveri, scosso da quella catastrofe che lo feriva intimamente, demoralizzato dal pensiero delle sue conseguenze, entrò in cucina, in preda al più profondo dei turbamenti, che la vista di quella fronte sanguinante, di quelli occhi piangenti, di quelle mani legate e sanguinanti, di quel torso livido, ferito e sanguinante, fecero crescere a dismisura. Ma il sangue freddo dello scienziato, avvezzo alla morte, riprese il sopravvento e accostandosi, egli vide che quel capo aveva la corona di spine: e in una stupefazione immensa, egli comprese tutto. Era l'Ecce Homo. a mezza statua di legno, che rappresentava alla sua naturale grandezza il Divin Redentore legato alla colonna, scolpita e dipinta magistralmente, avea tutto l'orribile aspetto del cadavere sanguinante: e l'acqua del pozzo in cui era stata immersa, ne aveva stinto il color di carne e il vermiglio del sangue, facendolo colare, nella duplice magica apparenza dell'assassinio e del l'annegamento. Pure, il dottor Amati si era sentito stringere il cuore, allo scoprire quella lugubre farsa, quella miscela di crudeltà e di grottesco: e dominata totalmente la stupefazione, l'uomo forte intendeva soltanto l'immensa amarezza di Bianca Maria inferma, addolorata, ferita forse a morte, per una tetra, mistica e puerile follia, in cui vaneggiava il marchese Cavalcanti. Adesso urgeva soccorrerla. - È l'Ecce Homo, - disse brevemente, uscendo fuori, alla gente raccolta nell'anticucina. - Voi che dite, Eccellenza! - gridò Giovanni provando lo stesso senso di stupefazione, aumentato dal dolore di quel sacrilegio. - È l'Ecce Homo, - egli ripetè, guardando tutti coloro freddamente, con quella sua aria imperiosa che non ammetteva replica. - Andate in cucina, asciugatelo e riportatelo nella cappella. Coloro si guardarono, consultandosi, sanati dal terrore del morto, presi dall'orrore di quell'oltraggio alla Divinità. - Dopo farete venire il prete, a benedire, - egli disse, conoscendo il cuore del popolo napoletano. Andò di là, nel salone. La fanciulla era ancora distesa sul seggiolone, con gli occhi coperti dalle mani, mormorando sempre, fra sé: - Il morto, il morto, amore caro, fate portare via il morto... - Non vi era nessun morto, cara, - egli le disse, con quella dolcezza che gli veniva dalla infinita pietà. - Oh sì, sì, vi era.. . - mormorò ella, melanconicamente, crollando il capo, quasi che nulla valesse a persuaderla del contrario. - Non vi era nessun morto, - replicò lui, seriamente, sentendo il bisogno di domare quel vagabondaggio della ragione. E cercò di toglierle le mani dagli occhi: ma esse s'irrigidirono e una espressione di spasimo stirò la fisonomia della ragazza. - Guardatemi un poco, Bianca Maria, - le mormorò lui con voce insinuante. - Non posso, non posso, - disse lei, con voce triste e misteriosa. - E perché? - Perché potrei vedere il morto, amore, amore mio, - ella disse, sempre con quel profondo senso di mestizia che faceva venire le lagrime agli occhi del dottore. - Cara, vi giuro che non vi è nessun morto, - replicò ancora lui, con la dolce insistenza che si fa a un fanciullo malato. E intanto cercava di prenderle il polso, per sentirne le pulsazioni, per sentire la temperatura della pelle. Strano a dirsi, mentre la fanciulla pareva quasi in delirio, la mano era gelida e le vibrazioni del polso erano lente, fievoli. Egli ebbe una stretta al cuore, come se la mancanza di vita e di forza della poveretta, gli desse la prova di una decadenza continua, invincibile. Avrebbe voluto raccapezzarsi in quel morbo singolare, in cui tutto il sangue pareva diventato debolissimo e in cui tutti i nervi fremevano in una acutissima sensibilità; ma troppo il suo cuore amava Bianca Maria, perché la sua scienza conservasse la sua lucidità. Non trovava più, non trovava il segreto di quel sangue impoverito e di quella nervatura frizzante: intendeva soltanto, così, confusamente, che quell'organismo si consumava di debolezza e di sensibilità: non pensava né alle medicine, né ai rimedii eccezionali: pensava solo, confusamente, così, che egli doveva salvare l'amor suo, niente altro. Ah, sì, egli doveva strappar subito dagli artigli di quel pazzo, la povera creatura innocente a cui s'infliggevano le quotidiane paure di una follia che non si guariva; egli doveva torre via da quella miseria crescente dell'anima e del corpo, da quella fatale discesa verso l'onta e verso la morte, la purissima creatura, che sapeva solamente soffrire, e soffriva senza ribellarsi, senza lamentarsi. Egli lo doveva, subito: era un uomo, era un cristiano, doveva salvare la infelice, come altre volte, tante volte, aveva salvato gli ammalati d'idrofobia dalla morte per la rabbia, come aveva salvato, una volta, un disperato colpito dall'implacabile tetano. Subito, subito, doveva salvarla, o non si era più a tempo. Dove era il marchese, dunque, dove era il crudele, il folle che col denaro giuocava il suo nome, il suo onore e la sua figliuola? - Eccellenza, è fatto, - disse Giovanni, facendo capolino nel salone. Il vecchio servitore era pallidissimo: dopo l'impressione orrenda di quello che aveva creduto un cadavere, la grave offesa fatta dal suo padrone alla Divinità, ne aveva sconvolto l'umile coscienza religiosa. Quella figura del Redentore, con la fune al collo, sospeso giù nel pozzo, come la salma gemente sangue di un ucciso, quella immagine del pietoso Gesù, così vilipesa, gli sembrava che avesse dato il crollo alla ragione del marchese, gli sembrava che dovesse portare la maledizione della casa. E chiamò fuori Margherita, per dirle quello che era accaduto, mentre nelle case dei vicini, nelle scale, nei portone, nelle botteghe, si andava dicendo che l' Ecce Homo i casa Cavalcanti aveva fatto un miracolo, salvando un ucciso, mettendosi al posto dell'ucciso: e dovunque, in mille forme, si cavavano i numeri dal singolarissimo avvenimento. - Il morto, il povero morto... - vaneggiava la fanciulla, con la voce che le usciva come un soffio dalle labbra. - Non dite più questo, Bianca Maria, credetemi, credetemi, - soggiunse il dottore, con una dolce fermezza. Non vi era il morto: era la statua dell' Ecce Homo. Che era? - gridò ella, levandosi in piedi, guardando il dottore, con certi occhi stravolti. Egli si scosse: ma credette che questa fosse la crisi di quel lungo vaneggiamento e le ripetette, cercando domarla con lo sguardo: - Era la statua dell' Ecce Homo: ostro padre l'aveva sospesa nel pozzo, con una fune al collo. - Dio! - urlò lei, con voce potentissima, levando le braccia al cielo. - Dio, perdonateci! E cadde ginocchioni, si prostese, toccando la terra con le labbra, piangendo, pregando, singhiozzando, continuando a supplicare il Signore, di perdonare a lei e a suo padre. Nulla valse a calmarla, a farla levare di terra, dove, ogni tanto, si abbandonava, in una crisi di lunghissimo pianto: invano il dottore volle usare la dolcezza, la bontà, la forza, la violenza, non vi riescì: l'emozione di Bianca Maria cresceva; cresceva, con qualche intervallo di stupefazione, per ricominciare più forte. Ogni tanto, mentre parea che si chetasse, un rapidissimo pensiero le attraversava il cervello ed ella si abbatteva al suolo, gridando: - Ecce Homo, Ecce Homo, perdonateci voi! Il dottore assisteva, fremendo, col capo chino sul petto, sentendo l'impotenza della sua volontà, sentendo l'impotenza della sua scienza. Che fare? Aveva chiamato Giovanni e scritte due righe sopra una carta, un'ordinazione di morfina, l'aveva mandato alla farmacia: ma la stessa morfina lo sgomentava, Bianca Maria era già troppo debole per sopportarla. Ella, desolata, con una vitalità nervosa, bizzarra, si batteva il petto, mormorando confusamente le parole latine del Miserere, iangendo sempre, come se inesauribile fosse in lei la sorgente delle lacrime. Fu dopo un'ora che il marchese, silenziosamente, entrò nel salone. Era come più vecchio, più stanco, più rotto dal peso della vita. - Che ha Bianca Maria? - domandò timidamente al dottore. - Che le hanno fatto? - Voi la uccidete, - disse gelidamente il medico. - Hai ragione, hai ragione, figlia mia, sono un assassino, - strillò il vecchio. Quell'uomo sessantenne si buttò ai piedi di sua figlia, tremante di vergogna e di umiliazione, tutto sussultante di un singulto senza pianto. E sotto gli occhi del dottore la compassionevole scena si svolse: quel padre canuto, dal gran corpo cadente, pieno di raccapriccio e di dolore, piangendo le rare e brucianti lacrime dei vecchi, sentendo tutto l'orrore della sua colpa, si piegava innanzi alla giovane figliuola, chiedendole perdono, con un balbettìo infantile, proprio come il fanciullo, che sfoga nel pianto tutto il puerile pentimento del suo errore: e la figliuola fremeva ancora, per la gran ferita che le aveva aperta nell'anima la inconscia crudeltà, per la ferita che frizzava sotto l'insulto del fiele che quella crudeltà seguitava a versarvi, per la ferita frizzante sanguinante che questa umiliazione di suo padre faceva gemere ancora, più dolorosamente: e ambedue, al forte uomo la cui vita era stata sempre una onesta e nobile lotta, una continua via verso i più alti ideali, apparivano così deboli, così miseri, così infinitamente infelici, uno come carnefice, l'altra come vittima, che egli, ancora una volta, rimpianse quel tempo, in cui questa tragica famiglia Cavalcanti non aveva preso nel suo stritolante ingranaggio, il suo cuore: ma era tardi, quella miseria, quella debolezza, quella infelicità adesso lo colpivano così direttamente che lui, il forte uomo, soffriva per tutti quegli spasimi e non poteva più domare il purissimo istinto di salvazione, che era il segreto della sua nobiltà d'animo. - Perdona, figlia mia, perdona al tuo vecchio padre; calpestami, me lo merito, ma perdonami, - andava ripetendo il marchese di Formosa, in preda a un furore di umiliazione. - Non dite questo, non lo dite, io sono una misera peccatrice: cercate perdono all' Ecce Homo he avete offeso, o la nostra casa è maledetta, o noi moriamo tutti e ci danniamo...ci danniamo...per la salute eterna, padre mio, cercate perdono all' Ecce Homo. Quello che tu vuoi, figliuola mia, quello che tu m'imponi, così sia, - egli replicò, umiliandosi ancora, tendendo le braccia in atto di supplicazione, - ma l'Ecce Homo i aveva abbandonato, Bianca Maria, egli mi aveva tradito, ancora una volta, capisci? - finì di dire, lui, di nuovo in preda alla collera che lo aveva indotto all'atto sacrilego, sciagurato e grottesco. - Voi mi fate spavento, - gridò lei, indietreggiando e stendendo le braccia per non farsi toccare da lui, - voi, uomo, avete voluto punire la Divinità di Gesù!... cercate perdono, cercate perdono, se non volete che moriamo tutti dannati... - Hai ragione, - mormorò lui, sgomento, umiliato di nuovo. - Fa di me quel che vuoi, farò penitenza, ti ubbidirò come se tu fossi mia madre, sono un assassino, sono un infame! Il marchese si era buttato sopra un seggiolone, accasciato, col petto ansimante, col capo chino, con lo sguardo vitreo fisso al suolo: e la sua figliuola ritta in piedi, nel bianco accappatoio che castamente la copriva dal collo ai piedi, coi neri capelli disciolti sulle spalle, aveva l'aria trasognata e dolorosa delle sonnambule, svegliate dalle loro errabonde e soavi visioni. Il medico intervenne: - Bianca Maria, - egli disse. - Che vuoi? - ella rispose, fievolmente, mentre il padre era immerso in un profondo abbattimento. - Tuo padre è assai turbato, tu soffri: bisogna che ambedue dimentichiate questa dolorosa scena. Vuoi ascoltare un mio consiglio, umano, buono? - Tu sei la bontà e la umanità, - sussurrò ella, levando gli occhi al cielo. - Parla, ti obbedirò. - Quest'ora è stata assai triste, Bianca, ma forse essa potrà aver frutto di bene. Avete pianto, insieme, tu e tuo padre: le lacrime lavano. Per le comuni sofferenze, per il bene che vi volete, tu devi chiedere a tuo padre, non già che egli si umilii fino a chiederti perdono, ma che ti prometta, in nome di tutto quello che hai sofferto, di fare quello che tu gli domanderai, più tardi, quando sarete calmi: diglielo così, Bianca. La mobilissima faccia della fanciulla, alla parola imperiosa, calma e benevola del medico, a quella voce che aveva il magico potere di ridarle la quiete e la fede nella vita, la faccia sino allora contratta e spasimante, si andava rasserenando. L'anima sua, sconquassata e stanca, si posava. - Così sia, - ella mormorò, come se compisse ad alta voce una preghiera interiore. E avvicinandosi al seggiolone, dove giaceva disfatto suo padre, si piegò verso lui e con una tenerissima voce, gli disse: - Mio padre, voi mi volete bene, non è vero? - Sì, - disse lui. - Voi mi volete fare una grazia? - Tutto, tutto, Bianca Maria! - Una grazia sola, per il mio bene, per la salute e la felicità del mio avvenire, promettete di farla? - Tutto quello che vuoi, figliuola, sono il tuo servo... - ... È una grazia singolare, ve la dirò più tardi quando saremo ritornati in grazia di Dio, quando saremo più tranquilli.., ho la vostra parola, mio padre, voi non avete mai mancato... - Hai la mia parola, - egli disse, affannato, come se non reggesse a quel dialogo. Ella intese. Si piegò e con quel suo consueto atto di sommissione filiale, gli sfiorò la mano con le labbra: egli le toccò la fronte, lievemente, in segno di benedizione. Ella si appressò al dottore, gli tese la mano e lo guardò con tale intensità di amore, che egli impallidì, e per nascondere la sua emozione, si abbassò a baciarle la mano. Lentamente, trascinando la persona sottile di cui le forze mancavano, ella si allontanò, uscì dal salone, lasciando i due, soli. Il vecchio pareva concentrato in profonde e tristi riflessioni, poiché ogni tanto levava la faccia al cielo in atto di angoscia e la riabbassava, crollando il capo, quasi scorato. Ma il medico vedeva che l'ora era giunta. - Potete ascoltarmi? - gli domandò, freddissimamente. - Preferirei… preferirei un altro giorno..., - gli rispose, con voce fioca, il marchese. - Meglio oggi, - insistette Amati, con la stessa freddezza dominatrice. - Sono assai turbato… assai… - Forse in quello che vi dirò, avrete modo di placarvi. Voi sapete se vi sono devoto… - Sì, sì..., - rispose l'altro, vagamente. - Io non so dire molte parole, per dimostrare la mia devozione. Cerco, quando posso, di agire devotamente. Vi sono sinceramente, sinceramente affezionato... affezionato a entrambi... - Lo sappiamo: il nostro debito di gratitudine è grande… - Non parlate di ciò. È da tempo che volevo dirvi una mia speranza e non osavo. Sapete meglio di me, che nessun interesse materiale può guidarmi. Vedete, marchese… Non vorrei richiamarvi alla memoria il passato, è troppo doloroso, ma è necessario il farlo. Voi e questa fanciulla, da anni, siete in dolorose condizioni… oh! non per colpa della fanciulla, certo! Le vostre intenzioni sono affettuose, sono sante, hanno uno scopo alto che tutti gli uomini onesti debbono approvare, la rifazione della vostra casa e della vostra fortuna, la felicità offerta a vostra figlia, sante intenzioni, non lo nego: io stesso vi ammiro in questo desiderio così nobile… Il marchese aveva levato la testa e ogni tanto sogguardava il dottore, approvando con un battito di palpebre tutto quanto egli andava dicendo, cautamente, delicatamente, per non offendere, per non abbattere di più quel vecchio, la cui umiliazione tanto lo aveva fatto soffrire. - Ma i mezzi, certo, - riprese il dottore, continuando, con la stessa cautela, - erano rischiosi, azzardati, pericolosissimi e l'ardore con cui desideravate la fortuna, vi ha fatto trascendere, vi ha fatto dimenticare tutte le sofferenze, che inconsciamente seminavate intorno. Non vedete, marchese? Avete intorno la malattia, la miseria, l'avete intorno e in voi: la passione vi ha portato via, e nel precipizio cade con voi la più pura, la più bella, la più cara fra le donne, vostra figlia! - Povera figliuola, povera figliuola, - mormorò pietosamente il marchese. - Voi amate vostra figlia, non è vero? - chiese il dottore Amati, volendo far risuonare tutte le corde del sentimento. - Io non amo che lei sopra tutte le cose, - disse subito il vecchio marchese Cavalcanti, con le lagrime agli occhi, nuovamente. - Ebbene, marchese, vi è un mezzo, per porre quella giovine esistenza innocente al coperto di tutte le angosce fisiche e morali che la consumano; vi è un mezzo, per toglierla dall'ambiente di malattia, di tristezza, di decente ma penosa miseria, in cui ella soffre per tutte le sue fibre; vi è un mezzo, per assicurarle un avvenire di salute, di agiatezza, di pace, di serenità come merita quell'anima purissima; vi è un mezzo, per cui ella può rivivere e questo mezzo è nelle vostre mani... - Ho tentato, lo sapete, - disse desolatamente il marchese Cavalcanti, fraintendendo, - ma non sono riescito. - Voi non m'intendete, - riprese il medico, frenando a stento la sua impazienza, poiché vedeva sempre acciecato il marchese. - Non vi parlo del lotto che è stato il gran disastro della vostra famiglia, che è il cruccio di vostra figlia, che è il tormento di tutti coloro che vi amano. Come potete supporre, che io vi parli del lotto?... - Eppure, è il solo mezzo per far denari, molti denari: solo con esso, io posso salvare Bianca Maria. - V'ingannate, - replicò sempre più freddamente il dottore. - Vi parlo di altro: si può trovare altrove la quiete e la fortuna. - Non è possibile: le fortune che si possono guadagnare al lotto, non hanno limite... - Marchese, qui si parla seriamente. Queste follie cabalistiche mi lasciano freddo, anzi mi esasperano, quando penso ai dolori che cagionano: posso ammetterle come intenzioni nobili, ma esse rappresentano una passione imperdonabile, non ne parlate giammai con me, giammai! Cavalcanti aveva levato la testa e la fisonomia, fino allora molle e disfatta, si era fatta glaciale e dura. Quel giammai, ronunciato con fermezza da Antonio Amati, gli aveva fatto aggrottare un po' le sopracciglia. - Di che mezzo parlavate voi? - egli domandò con una voce strana, dove Amati udì nuovamente l'ostilità. - Forse oggi siamo troppo alterati... tralasciamo, - mormorò il dottor Amati, che si vedeva in procinto di perdere una grave partita. - Domani. - Non ritardiamo, - insistette con fredda cortesia, il marchese Cavalcanti, - giacché si tratta di Bianca Maria, sono pronto. - Datemi vostra figlia in moglie, disse rapidamente ed energicamente il dottor Amati. Il marchese Cavalcanti chiuse gli occhi; un momento, quasi che una vivida luce lo abbagliasse, come se volesse nascondere il suo sguardo lampeggiante: non rispose. - Credo di poter offrire a vostra figlia una posizione degna del suo nome, - riprese subito il medico, deciso ad andare in fondo, - poiché il mio lavoro mi ha dato denaro e reputazione, è inutile esser modesto: lavorerò ancora, molto di più, perché ella sia ricca, ricchissima, felice, inattaccabile, protetta dal mio amore e dalla mia forza... - Voi amate Bianca Maria? - disse il marchese, senza guardare in viso il suo interlocutore. - Io l'adoro, - disse l'altro, con semplicità. - Ed ella vi ama? - Sì. - Voi mentite, signore, - rispose con voce profonda, il marchese Cavalcanti. - Perché insultarmi? - chiese il medico, deciso a sopportar tutto. - Un insulto non è una risposta. - Vi dico che mentite e che nulla vi autorizza a credervi amato. - Vostra figlia mi ha detto d'amarmi. - Bugia! - Me lo ha scritto. - Bugia! Dove sono le lettere? - Ve le porterò. - Sono false. Tutte bugie! - Domandate a lei. - Non lo domanderò. Mia figlia non può amare,senz'averlo detto a suo padre. - Domandateglielo. - Non si è confidata con me: voi mentite. - Domandate a lei. - Mi avrebbe già parlato: mia figlia è obbediente, mi dice tutto. - Non pare che vi dica tutto. - Sono suo padre, perdio! - Voi lo avete spesso dimenticato: essa, qualche volta, lo avrà dimenticato. - Dottore, non vogliate insistere, - fece il marchese, con la sua fredda, ironica cortesia. - Insisto, perché è il mio diritto. Non ho mentito. Del resto, io ho parlato chiaro. Mi offro a vostra figlia che è ammalata, povera, triste, come marito, come protettore, come amico, per guarirle l'anima e il corpo, per amarla e per servirla, come ella merita. Volete darmi vostra figlia? A questo dovete rispondere. - Non ve la voglio dare. - Perché? - Non ho dovere di spiegarvi le mie ragioni. - Siccome il rifiuto mi offende, ho diritto di chiederle. Forse perché non sono nobile? - Non è per questo. - Non mi trovate giovane? - Neppure per questo. - Avete una particolare disistima di me? - No. - E perché, allora? - Ripeto, non debbo dirvi le ragioni. Non posso rispondervi che questo: no. - Neppure aspettando? - Neppure. - Senza nessuna speranza? - Nessuna. - Per nessuna circostanza? - Giammai, - conchiuse il marchese Cavalcanti. Tacquero. Ambedue, diversamente straziati, erano straziati. - Voi volete veder morta la vostra figliuola, - disse il medico, dopo aver pensato. - Non temete, non morrà; vi è una forza che la sostiene. - Domani, essa sarà all'elemosina, una Cavalcanti! - Io la farò ricca a milioni, signore; ma io soltanto ho il dovere di arricchirla. - Vi ho detto che l'amo. - Nulla può agguagliare la mia tenerezza. - Ma il destino delle donne, delle fanciulle è l'amore, è il matrimonio, sono i figli! - Delle donne comuni, volgari, non di Bianca Maria Cavalcanti. Ella ha un'altissima missione, la compirà. - Marchese, voi perderete quella fanciulla. - Io la salvo: e le assicuro una fama immortale e una vita immortale. - Marchese. io ve ne prego, vedete come ve ne prego, io che non ho mai pregato nessuno: non dite di no, così, ostinatamente, senz'aver neanche interrogata Bianca. Voi le preparate un nuovo grandissimo dolore: voi togliete, a me la possibilità di vivere per lei e offendete un galantuomo, così, senza una ragione. Ve ne prego, pensateci, non vi decidete in questo momento. - O domani, o poi, è lo stesso. È un no, sempre un no, niente altro che un no. Non avrete la marchesina Bianca Maria Cavalcanti, - e sghignazzò diabolicamente. - Ripensateci ancora, marchese. Se mi dite ancora di no, io dovrò allontanarmi, per sempre. Non recidete così bruscamente i nostri legami. - Siete libero di allontanarvi, non ci vedremo più; forse, era meglio che non ci fossimo mai visti. - È vero. Me ne andrò. - Andate pure. Addio, signore. - Prima di andarmene, però, io voglio interrogare la vostra figliuola, qui, voi presente. Non siamo più nel Medio Evo: anche la volontà della fanciulla, conta. - Non conta. - V'ingannate. Io la interrogherò. Andrò via, quando essa mi dirà di andare. Chiamatela, se siete uomo leale, se siete gentiluomo. Il vecchio signore, interpellato in nome della lealtà, si rizzò e suonò il campanello, dicendo a Giovanni di far venire la figliuola. I due nemici stettero in silenzio, fino a quando ella comparve. Con la facilità dei temperamenti estremamente nervosi, ella aveva riacquistata tutta la sua calma: ma un'occhiata rivolta alle due persone che amava, sconvolse il suo spirito, immediatamente. - Lascio a voi la parola, - disse con gentilezza il medico, inchinandosi al marchese. - Bianca Maria, - cominciò con voce grave il padre, - il dottor Antonio Amati dice di amarvi: lo sapete voi? - Sì, mio padre. - Ve lo ha detto? - Sì, mio padre. - Avete tollerato che ve lo dicesse? - Sì, mio padre. - Voi avete commesso un grave errore, Bianca Maria. - Tutti erriamo, - ella mormorò, guardando Antonio Amati, per prender coraggio. - Ma vi è qualche cosa di molto peggio. Egli dice che voi lo amate. Io, in volto, gli ho ripetuto che egli mentiva, che voi non potevate amarlo. - Perché lo avete chiamato mentitore? - È mai possibile che tu abbia smarrito ogni pudore, amando costui e dicendoglielo? - Anche mia madre vi amava, e ve lo ha detto, ed era una donna pudica! - Non divergere, non chiamare testimonianze, rispondi a me, a tuo padre: tu ami questo dottore? - Sì, - ella disse, aprendo le braccia. - Io non ti perdonerò mai questa parola, Bianca Maria. - Che Dio sia più misericordioso di voi, mio padre. - Dio castiga i figliuoli disobbedienti. Il dottore Antonio Amati mi ha cercato te in isposa. Gli ho risposto di no, di no, per adesso, di no, per domani, di no, per sempre. - Voi non volete che io sposi il dottor Amati? - No, non voglio. È vero che neppure tu lo vuoi? Ella non rispose: due grosse lacrime le rigarono le guance. - Rispondete, signorina, - disse il medico, con tale angoscia nella voce, che la poveretta fremette di dolore. - Non ho nulla da dire. - Ma non avete detto che mi amate? - Sì: l'ho detto: lo ripeto. Vi amerò sempre. - E mi rifiutate? - Non vi rifiuto: è mio padre che vi rifiuta. - Ma voi siete libera, non siete una schiava; ma le fanciulle hanno diritto di scelta; ma io sono un galantuomo. - Voi siete l'uomo più buono e più onesto che io abbia mai conosciuto, - diss'ella, congiungendo le mani gracili, in atto di preghiera. - Ma mio padre rifiuta, io debbo ubbidire. - Voi sapete, che mi date il più grande dolore della mia vita? - Lo so: ma debbo ubbidire. - Voi sapete che spezzate la mia esistenza? - Lo so: non posso fare altrimenti, mia madre mi maledirebbe dal cielo, mio padre mi maledirebbe sulla terra. So tutto: debbo ubbidire. - Rinunziate alla salute, alla felicità, all'amore? - Rinunzio, per obbedienza. - E tal sia! - gridò lui, con un atto energico, quasi buttasse via tutta la sua debolezza. - Non diciamo più che una parola: addio. - Voi ve ne andate? - disse ella, tremando come un albero scosso dalla tempesta. - Debbo andare: addio. - Partite? - Sì: addio. - Non tornerete più? - Mai più. Ella guardò suo padre: egli era impassibile. Ma tanta disperazione ella sentiva in sé, ella sentiva nel cuore di Antonio Amati, che tentò ancora: - Poc'anzi, mio padre, mi prometteste in un momento di pentimento e di confusione, che avreste fatto tutto quello che voglio io, e io vi chiesi di fare una sola cosa, una sola. È questa. La parola di un gentiluomo, di un Cavalcanti, è cosa sacra. Manchereste? - Ho le mie ragioni: Dio le vede, - disse misteriosamente il marchese. - Negate? - Sempre. - Nulla può indurvi? Né le nostre preghiere, né il bene che mi volete, né il nome di mia madre, nulla v'induce? - Nulla. - Egli dice di no, amore mio, - mormorò ella, guardandosi intorno, con l'occhio smarrito. Ma Antonio Amati era troppo mortalmente ferito, per provare più compassione delle sofferenze altrui. Adesso non lo teneva che un solo desiderio, quello delle persone forti che, chiusa nell'anima la gran catastrofe di tutta la loro vita, non pensano che a fuggire, a fuggire nella solitudine, sdegnose di sterile conforto. Aveva bisogno dell'ombra, del silenzio, dove nascondersi per piangere, per urlare di dolore. La fanciulla innanzi a lui era l'immagine della desolazione, ma egli non vedeva più, non sentiva più: ogni compassione era sparita dal suo cuore, egli provava tutto l'implacabile egoismo delle immense sofferenze. - Amore mio, amore mio, - ripetette ancora lei, cercando di dar forma alla passione che l'angosciava. - Non pronunziate queste parole, Bianca Maria, - egli disse con l'amaro sogghigno dei delusi, - non servono, non ve le chiedo. Abbiamo parlato anche troppo. Lasciatemi andare. - Restate ancora un minuto, - diss'ella, come se si trattasse di arrestare, per un momento, la morte. - No, no, subito. Addio, Bianca Maria. Egli s'inchinò davanti al marchese, profondamente: il feroce e impassibile vecchio che niente aveva potuto scuotere, i cui occhi non vedevano più altro che le sue pazze visioni, gli rese il saluto. Quando il medico passò innanzi alla fanciulla, per uscire dal salone, costei gli tese la mano, umilmente: ma il dottor Amati non prese quella mano. Ella fece un atto di rassegnazione e guardò il medico con tanta infinita passione, quanta ne può mettere, nello sguardo, l'esiliato che abbandona per sempre la patria. Ma non era più tempo di parole e di saluti, fra loro: violentemente divisi, si lasciavano per sempre, le parole e i saluti erano inutili. Egli si allontanò, seguito dallo stesso magnetico sguardo di Bianca Maria, senza voltarsi indietro, andandosene solo, al suo amaro destino. Ella tese l'orecchio per ascoltare quel passo adorato, che non avrebbe più udito, mai più: udì anche la porta di entrata che si richiudeva, discretamente, come la porta di un carcere misterioso. Tutto era finito, dunque. Il padre suo era seduto nel seggiolone, pensoso, ma calmo, appoggiando la fronte a una mano. Quietamente, ella venne a inginocchiarsi presso suo padre e chinando il capo, gli disse: - Beneditemi. - Dio ti benedica, come io ti benedico, Bianca Maria, - disse piamente il marchese Cavalcanti. - La vostra figliuola è morta, - ella mormorò, e aprendo le braccia, cadde indietro, riversa, livida, fredda, immobile.