Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbandonato

Numero di risultati: 242 in 5 pagine

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Vietato ai minori

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Bonanni, Laudomia 1 occorrenze

L'organista s'è abbandonato al canto col collo gonfio. Così compreso, penso, come bambino nella sacrestia del paese imparò a pigiare i tasti con l'indice e provò la vocetta intonata. Ho perso la nozione del tempo. Mi riscuotono mormorii e piccoli subbugli da scuola, quando i ragazzi stanno per essere chiamati a dire la lezione. Sono gli agenti a muoversi per primi. Uno a uno, quasi avessero finora circolato, risalgono la chiesa con un curioso effetto semovente delle fiammelle azzurre ai risvolti della divisa. Vanno a ricevere essi la comunione e sarà l'unico momento senza custodia. Ma non necessitava custodia. Rannicchiati e come spauriti _ il disagio di uscire dalle file, esporsi _gli uomini si preparano. Al posto delle guardie, subito dopo, il gruppo dell'armonium senza impaccio. Quindi un brusco agitarsi nei banchi, un disincagliarsi, a due a tre, con passi secchi, una sorta di corsa un po' disperata come se si consegnassero. Hanno raggiunto i gradini a testa sotto, quasi cozzando. Non potrei calcolare il numero, è stata una cosa repentina e in certo senso disordinata, a strappi. Si susseguono all'altare scaglioni, dorsi curvi, nuche giovani e vecchie, teste folte calve rapate, spalle rigonfie e spalle cadenti. Una giacca inverosimilmente stazzonata copre una magra schiena dalle scapole prominenti come il residuo di ali mozzate. Scarpe sdrucitissime si mostrano con quell'aria disarmata delle suole esposte. Parecchi indossano le brache dell'uniforme. Vedo presentarsi tra gli ultimi il bei giovane faccia derisoria, l'andatura bighellona e di colpo mettersi giù. Anche lui sotto la giacca sagomata da guappo ha le strisce del carcere, non possiede un pantalone. Due corti piedi da ragazzo, le punte in dentro, ingenue, si uniscono ritti scoprendo calze bianche in certe scarpucce aperte ai talloni. Colgo qualche profilo, il mento tremante, protendersi a bocca spalancata verso l'ostia. Brutte bocche di viziosi e di violenti. Ma non oso più domandarmi chi siano costoro e che abbiano fatto. Le schiene profondamente umiliate, l'annaspo delle labbra timorose, e i piedi, quei piedi uniti come mani, tutto negli uomini prosternati esprime in un modo quasi straziante l'anelito spirituale. Sia pure dell'attimo suggestivo, dell'occasione. Si alzano raccolti in sé come ciechi. Al gesto del frate che li aspetta al passaggio per distribuire un'immaginetta, riscuotendosi trasaliscono. Assise sulla dura poltrona d'ufficio carcerario, il vescovo parla ai suoi figli. Voce suasiva, con poche modulazioni, risulta un dolce lamento. La testa delicata appare giovane, sembra giovane di purezza fisica, la castità come un'ibernazione. Ha le fìsique du rôle . Nel silenzio della cappella si avverte il momento più acuto, e forse il più precario, dell'abbandono. Scopro qualche nobile tratto di fisionomia, occhi patetici, tristi incavi di bocche. Libriccini e immagini sono sui banchi, corone di rosario restano visibili appese a mani nocchiute. So che dopo si vergogneranno e irrideranno l'uno all'altro (è umano, ed essi sono più che umani nel senso della fralezza) ma adesso ascoltano ancora con una specie di avidità, quella cosa che somiglia alla fame e che si sente dentro come un buco. Le mani del vescovo, distese sulle ginocchia, di un rosa lillà un po' livido, le unghie bianche, sembrano essersi appassite. Non gesticola. Il movimento è solo nelle modulazioni della voce. Anche il senso è piuttosto nel suono, in quella blandizie. Parla del Cristo. Là in alto dietro a lui, l'enorme Crocifisso sfigurato stravolto, con grumi e colaticci di vernice vermiglia, opera di un detenuto. Vi si levano tutti gli occhi sgusciando il bianco con una certa somiglianza. Le fronti sono aggrottate nello sforzo. Essi non intendono la lettera. Sfugge il significato delle parole, si smarriscono le mistiche astrazioni: quello che vi è di rarefatto di teologicamente incorporeo nei sermoni cattolici, non li raggiunge. Ma sono indotti a guardare il Cristo con le piaghe, l'eloquenza irrefragabile del sangue. Il cattolicesimo ancora si regge sulla suggestione del rituale liturgico e delle immagini, non soltanto per i semplici, ciascuno vi reperisce qualcosa dal basso o dall'alto. Nel momento che metterà mano all'apparato correrà il più grande rischio della sua storia. Tornando a guardare le file uniformate, non vedo che teste ispide e menti deboli. Nell'aria viziata un sentore di corpi, un lezzo. E di nuovo l'impressione di scuola, quando sta per suonare la campanella, lo stesso tramestio del radunare furtivamente sotto il banco. Sguardi bassi seguono le braccia dei frati che spogliano il loro vescovo. È molto sottile, senza carne, le spalle escono esili da sotto la cappa. Gli agenti hanno ripreso a circolare. Nello spazio sgombro procede il corteo delle autorità fra i detenuti in piedi. Nessuno si sporge a baciare l'anello, forse è stato proibito. O si è spento lo slancio. Le facce inespressive arretrano confondendosi. Dietro la frusciante immacolata veste principesca si leva a grado a grado un brusio, un bisbiglio, un brulicame. E poi, alle nostre spalle, sordo, il clamore incoercibile, sempre un po' minaccioso, della gente ingabbiata. Andiamo a consumare il rinfresco. Cioccolato caldo con paste, dato che Sua Eccellenza e gli altri officiami sono digiuni.

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SI CONTA E SI RACCONTA - Fiabe Minime

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Il Reuccio stava col capo abbandonato sui guanciali, mezzo trasognato, col viso infiammato dalla febbre, credette il Re; con la mente in delirio, credette la Regina. Balbettava: - L'hanno già preso! L'hanno messo nella gabbia! E sorrideva, beato. - Tra giorni l'avrò qui l'Uccellino che non canta! L'hanno già preso! L'hanno messo nella gabbia! Il Re e la Regina si sentivano spezzare il cuore. Intanto il povero ciaba si struggeva in lacrime nel fetido carcere dov'era stato rinchiuso insieme con la figlia. Questa però se ne stava seduta in un cantuccio, zitta, come se niente fosse stato. Il carceriere era stupito del contegno di lei. E disse al padre: - Chi vi accecò da farvi beffe del Re? - Volevano ... - i singhiozzi gli impedivano la parola. - Volevano l'Uccellino ... l'Uccellino che non canta, e ... l'Uccellino che non canta ... è questa qui! Il carceriere si presentò al Re: - Maestà, o quell'omo è pazzo, o dice la verità. Egli giura e spergiura che sua figlia si chiama l'Uccellino che non canta! Il Re rimase sconvolto da questa notizia, e ne mise a parte la Regina. - Che, Maestà? Voi permettereste che il Reuccio sposasse quel verme di terra? - È bella, si chiama l'Uccellino che non canta, e può dare la salute e la vita al nostro figliuolo. Almeno proviamo: facciamogliela vedere! ... Se si ottiene ... La Regina non lo lasciò finire e gli voltò le spalle. Il Re pensò: - La notte porta consiglio. E andò a letto, risoluto di prendere una decisione domani. La mattina, appena alzatosi, fece chiamare il carceriere. - Maestà - disse questi. - Il vostro ordine è stato subito eseguito: strozzati tutti e due, padre e figlia! Nello stesso momento si udirono pianti e grida per tutta la reggia. - Il Reuccio è morto! Il Reuccio è morto! - Ah, donna scellerata! - urlò il Re, comprendendo che l'ordine di morte era stato dato dalla Regina. E se non. l'avessero trattenuto, l'avrebbe passata da parte a parte con la spada furiosamente cavata dal fodero. La uccise in poco tempo il rimorso di aver cagionato, con un impeto di stolta superbia, la morte del figlio. Il Re volle che nella stessa tomba del Reuccio fosse pure seppellito l'Uccellino che non canta. - Non han potuto essere uniti da vivi, saranno uniti, e per sempre, da morti! Ma doveva avverarsi la canzone del ciaba: L'Uccellino che non canta Volerà su l'alta pianta; Farà il nido in cima in cima, Non più zitto come prima! Mentre si celebravano i funerali, ecco una vecchietta che si fa largo tra la folla, gridando:- Maestà! Maestà! Non riuscirono a trattenerla, finché non giunse al cospetto del Re. - Che fate, Maestà? Non sono morti, dormono! Infatti i due cadaveri sembravano proprio addormentati. - Reuccio, su! Uccellino che non canta, su! E furono visti rizzarsi, strofinandosi gli occhi, come chi è ancora mezzo insonnolito. Quella vecchietta era la donna che aveva custodito, bambina, l'Uccellino che non canta. La ragazza la riconobbe e voleva abbracciarla; ma essa - una Fata! - diè un bagliore di luce vivissima e sparve nell'aria. E il ciaba? Si destò anche lui, strofinandosi gli occhi, come chi è ancora mezzo insonnolito. Venne ad annunciarlo il carceriere tutto spaventato del fatto. Il Re unì le mani del Reuccio e dell'Uccellino che non canta, e disse: - Siete marito e moglie! E il ciaba fu fatto Principe ed ebbe in regalo un castello. Vissero tutti felici e contenti ... E c'è chi tira la vita coi denti!

EH!La vita...(Novelle)

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Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1913
  • Tipografia agraria
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Aveva abbandonato, l'avevano abbandonata, brutalmente. Con certe dorme noi non ci crediamo obbligati neppure ad essere persone educate, non dico indulgenti. La colpa era stata un po' sua; molto di altri che l'avevano stimata cosa, non creatura umana. Così la perversione si era insinuata nel suo cuore, nel suo carattere. Credevo di essere arrivato a scancellarne ogni traccia. Eh, sì! La donna è un abisso senza fondo. " Non ne potevo più. Il sospetto finalmente era diventato certezza! Eppure osavo ancora di lusingarmi. "Ho pensato sempre che la donna che tradisce è un rettile sozzo - anche l'uomo, s'intende; non voglio accordarmi privilegi. Bisogna schiacciarli col piede. Ma quando si ama! Il terribile è appunto questo: quando si ama!... " Lidia doveva credersi sicura di non poter essere non che scoperta, sospettata. Era allegra; canticchiava, diceva cose buffe delle quali rideva anche prima di metterle fuori; non si accorgeva del mutamento avvenuto in me, da qualche giorno. Che significava? Che non glie ne importava niente. "Ieri le dissi a bruciapelo: " - Tu mi tradisci! " - Ti tradisco? - rispose. - Faccio quel che mi pare. Non sono una schiava. " E siccome io le sbarravo gli occhi in viso, quasi atterrito di tanta spudoratezza, soggiunse: " - Perché sono la tua amante? Anche tu hai goduto di avermi indotta a tradire un altro. Vuol dire che è lecito, che è permesso. Non fare il ragazzo. " - Lidia! - le gridai. - Lidia! " Riprese a canticchiare, come se il mio grido di suprema angoscia non le fosse penetrato negli orecchi, non fosse arrivato al suo cuore! "Il momento era quello: un lampo mi aveva attraversata la mente e fatto fremere da capo a piedi; le mie dita si erano contratte come artigli che si apprestavano ad afferrare, a stringere, a dilaniare... Non avrei dovuto lasciar trascorrere quel momento di bestiale ferocia; e a quest'ora!.... Si vede che, fin nelle più grandi crisi della nostra intelligenza, veglia, potentissimo, l'istinto della personale conservazione. Mi vidi arrestato, condannato.... ". - Qui ci sono otto righi scancellati in maniera da non potersi affatto leggere. - Non importa; prosegui - disse Borelli. Insomma, l'ha ammazzata? Non l'ha ammazzata? - Ho letto soltanto fino a questa quinta cartella. Ha mutato penna e inchiostro. Qui si parla dei preparativi; mette i brividi addosso per la freddezza con cui scrive: " No; deve accorgersi che sconta una colpa; deve vedersi morire e sapere perché. Desdemona, avete detto le vostre orazioni? Lidia forse non ha pregato mai. Forse nessuno le ha mai fatto comprendere che si possa, che si debba pregare. Meglio così. Non ci saranno indugi. La giovinezza? Ci son donne invecchiate senza aver mai provato nè goduto la più piccola parte di quel che ha goduto e provato costei; donne oneste, donne buone che invece hanno sofferto, hanno pianto... Lidia, avete detto le vostre orazioni? Le parrà una parodia, e sarà una tragica verità. Perché queste parole dello Shakespeare mi tornano insistentemente alla memoria? Non morrà soffocata come Desdemona, tra due guanciali; sarebbe troppo onore per lei far la fine della buona moglie del Moro di Venezia... Morrà annegata, precipitata tra gli scogli... Ho visitato questa mattina la località.... ". " Signor Procuratore del Re... ". - Ecco disse Coraldi. - Arrivato fin qui non ho avuto coraggio di andare avanti, anche perché ieri sera ho letto nel giornale il rinvenimento del cadavere di una bella giovane annegata non si sa ancora se per suicidio o per delitto. . - La povera Lidia?.... Leggi, leggi! - fece Borelli. : Coraldi aperse la penultima cartella, scritta su mezzo foglio di carta protocollo. Gli tremavano le mani nel tenerla spiegata: "Signor Procuratore del Re. Giustizia è stata fatta! - come si diceva una volta. " - Che bel chiaro di luna! - ella esclamò. " - È l'ultimo che tu vedi! " - Perché l'ultimo? " - Perché devi morire! Non tradirai più nessun altro!... " Eravamo in cima agli scogli: la spiaggia era deserta. Il mare un po' agitato, pareva assalisse gli scogli con ondate di spuma. " Dalla cupezza della mia voce, dal mio viso sconvolto, ella ha capito che non si trattava di una stupida finzione. " Si è afferrata al mio braccio, ha tentato di tornare indietro, di sfuggirmi.... Una vigorosa spinta... Stetti a guardarla, quasi non fosse la creatura che ho più amata in vita mia: mi pareva di assistere ad uno spettacolo, a una finzione d'arte. Le ondate la sballottavano, l'avvolgevano, la sopraffacevano. Due o tre volte mi chiamò per nome; poi si abbandonò, affondò lentamente, non ricomparve più!... Giustizia era stata fatta! "Era bruna di capelli, ma aveva voluto ridursi bionda... Il sale marino forse corroderà la tintura; l'avverto di questo, signor Procuratore del Re, pel riconoscimento del cadavere, se mai dovesse accadere! ". Coradi era così commosso da non aver coraggio di continuare la lettura. - E il cadavere trovato è di una bionda? - No; di una bruna - rispose Coraldi. - Ma costui è pazzo! - esclamò Borelli. - Ragiona troppo freddamente. C'è la sua firma in fondo? - No. - Finisci di leggere. Coraldi prese in mano l'ultima cartella, mezzo foglietto di carta da lettera: " Signor Procuratore del Re Re"Le ho descritto l'annegamento... come, secondo il mio progetto, avrebbe dovuto accadere. Per fortuna mia, della sciagurata, e un po' anche di lei, magistrato, che così non avrà noie per cagion mia, durante la nottata ho lungamente riflettuto. Mi son detto: - Non ti basta di sentirla morta nel tuo cuore? Dovrebbe bastarti! " Mi sembra di essere diventato un altro, un uomo, mi sembra.... Sono quarantotto ore che non prendo cibo.... Vado alla trattoria...". - L'ha fatta finire così? Brava, Lidia! Non ti meritava! Borelli era indignato. Coraldi non rinveniva dallo stupore. - Atterrito tanto! Conciato dalla pioggia! - pensava con rabbia. - E se ne va alla trattoria! Non sapeva darsene pace!

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GIACINTA

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

E col capo abbandonato, con le gambe accavalciate, seguitava a fumare. Giacinta, un po' commossa, riprendeva: - Ti rammenti di quella sera presso il caminetto nel salotto della mamma? Io ero al tuo posto; e tu, piegato un ginocchio, armeggiavi con le molle e facevi spegnere la fiamma ... - Sí, sí! - brontolò Andrea, stringendo la sigaretta fra le labbra, strizzando gli occhi. - Te ne rammenti? Io ti dissi: "Stia fermo, fa peggio". E tu mi rispondesti: "Dice bene. Destar fiamme non è il mio forte". Quel tuo accento turbato mi rimase nell'orecchio. - Sí, sí! Giacinta si rizzò sulla vita, sdegnosamente: - Se ti annoi, se ... Ma frenossi, vedendo la Marietta che ritornava con un canestro pieno di posate, di bicchieri e di piatti. Andrea, buttata la sigaretta nel fuoco, in piedi, si allungava, stirando in giú le braccia, aggrottando le sopracciglia: - Aah! ... Nulla impoltronisce come la fiamma del camino! Non mi muoverei di qui giorno e notte; mi lascerei rosolare, senza tirarmi indietro! E tornava a stirarsi. Nel silenzio, si sentiva soltanto il rumore dei piatti e delle posate che Marietta andava disponendo sulla tavola. - Se ti annoi, dillo pure! - insisté Giacinta, appena la cameriera uscí di nuovo. - Sei stato tutta la serata muto come un pesce, ruminando chi sa che cosa ... - Io? - Sí. Tu cominci a diventarmi strano ... Non posso piú star zitta, soffro troppo! ... T'annoi con me; confessalo! - T'inganni, t'inganni! Giacinta crollava tristamente il capo: - No, non m'inganno. Ho notato, fra gli altri, un terribile indizio. Son donna, capisci? - Quale? Andrea spalancò gli occhi, aspettando ch'ella parlasse; e le stese una mano per rassicurarla. - Hai ripreso a giocare - disse Giacinta, con aria severa. - Oh ... figurati! Però si voltava di là, un po' confuso, per evitare le di lei pupille che gli penetravano nel cuore come una lama. - Ti voglio tutto per me! ... Ti voglio tutto per me! - esclamò Giacinta. E lo accarezzava con la voce, stringendogli le mani fra le sue, non sapendo rimproverarlo altrimenti. Quegli si scusava: - È stato due o tre volte, per compiacere agli amici. Mi parve brutto rifiutare ... - E tutt'a un colpo, mostrandosi offeso, aggiunse: - Ho fatto male, ne convengo. - Non finger di fraintendere! - ella gli disse bruscamente. Nel sedersi a tavola si passava le mani sulla fronte, atterrita all'idea che, insistendo ancora, avrebbe forse potuto scoprire qualcosa di peggio, dietro quel dubbio che le rodeva da piú mesi il cervello. - Sarebbe un'infamia! - pensava. - Una cosa contro natura! ... Nel naufragio della mia vita, mi sono aggrappata a lui come a una tavola di salvezza, e me gli aggrappo di giorno in giorno piú fortemente, per passione, per gratitudine ... È nello stesso caso anche lui ... Non dovrebbe accadergli lo stesso? Marietta girava attorno, presentando le pietanze, levando via i piatti vuoti, un po' sorpresa dall'insolito silenzio che gli urli del vento, cessata la pioggia, rendevano piú tristo e piú significativo. Andrea mangiava in fretta senz'avvedersene, frugando nel cervello per trovarvi qualcosa da sviare quell'incubo; ma non trovava nulla! Il suo cervello era vuoto. E si mesceva spesso: - Il vino, forse, gli avrebbe sciolto la lingua. Scorgendo che Giacinta assaggiava le pietanze appena con la punta delle labbra, assorta chi sa da quali pensieri, sentí maggiormente aggravarsi addosso l'intero malessere che lo opprimeva: - Un bell'anniversario, davvero? Ma la colpa è di lei che ingrandisce ogni nonnulla e si foggia continui spauracchi. Diamine! ... Dopo quattro anni è naturale non si rinnovino gli entusiasmi d'una volta ... L'abitudine ammortisce le impressioni piú acute ... Ma perché non lo dico anche a lei? Perché sto muto? La pioggia ricominciava, a sbruffi, a rovesci rabbiosi, a seconda del vento. - Tempo di levante - disse Andrea. - Ne avremo almeno per tre giorni. Giacinta rizzò la testa: - Finalmente! ... Mi pareva che non avresti aperto piú la bocca! Andrea, col naso nel piatto, strappando con due dita un po' di crosta da un panino, fra un boccone e l'altro continuava: - Me lo sentivo da due giorni dentro le ossa. Un malumore, una fiacchezza! ... L'umido, m'irrita i nervi. Sono un barometro. Giacinta, per credergli e star tranquilla, avrebbe voluto potergli leggere in cuore, come in un libro. Non provocava una spiegazione perché temeva di far peggio; e sentendolo parlare del cattivo tempo, dell'umido, dei nervi, senza che la voce di lui le rivelasse altro, assentiva col capo, intanto che presentavagli il bicchiere perché le versasse un po' d'acqua. - Toh! - egli disse a un tratto. - Dimenticavo di darti la notizia che Gessi ed Elisa son tornati questa mattina dal loro viaggio di nozze. Gli ho incontrati in carrozza, all'arrivo dalla stazione. E, lieto d'aver trovato finalmente un soggetto di discorso, rideva anticipatamente di quel che stava per dire: - Sai? La Elisa (pare impossibile!) è tornata piú nera, piú stecchita; con certi zigomi, con certi denti! ... Ogni bacio dev'essere una contusione pel povero Gessi. Giacinta fece mostra di sorridere. La Marietta, per non farsi scorgere, torceva il capo: - Meno male! Un po' d'allegria veniva a galla. Le pareva fosse tempo. Ma appena intesero nell'altra stanza un rumore di passi gravi e strascicanti, si guardarono tutti e tre negli occhi. - Il conte non era dunque andato a letto? - Sí, signora contessa. Battista è in cucina. - Si sarà levato - disse Andrea. E il conte apparve in mezzo all'uscio, cosí sfigurato dalla malattia che lo affliggeva da un anno da sembrare un vecchio; il collare della camicia sbottonato, i capelli in disordine. Non riusciva ad infilare una manica del vestito. Entrò curvo, un po' barcollante; ma la tavola apparecchiata, coi bicchieri e le posate che scintillavano, col vino che accendeva nelle bottiglie trasparenze di rubino, gli fecero alzar la testa. - Oh, bene! Oh, bene! Batteva le mani, avanzandosi verso la tavola con passo mal fermo, facendo scoppiettare le labbra, come se già masticasse qualcosa. - Qui - gli disse, Andrea, cedendogli il suo posto. Marietta era mortificata: - Quello scimunito di Battista! E voleva scusarsi, per la sua parte, parlando alla padrona sotto voce, guardando il conte che s'era messo subito a mangiare nello stesso piatto di Andrea. - Ho capito, non importa - rispose Giacinta. Il conte, dando un'occhiata ora a lei ora ad Andrea, faceva dei bocconi grossi e masticava in fretta: - Non mi aspettavate, è vero? Non mi aspettavate! - Ti si sapeva a letto - risposero ad una volta Giacinta e Andrea. Stavano a vederlo mangiare, muti, un po' imbarazzati, sebbene Andrea non fosse tanto dolente dell'inattesa apparizione: - Era un diversivo. - Giulio, no; il dottore non vuole - disse Giacinta, fermando il braccio al conte, che voleva versarsi del vino. - Ah! Ah! Il dottore! ... Ah! Ah! Egli rideva e parlava, con la bocca piena, tentando di svincolare la mano, dando da bere alla tovaglia: - Il dottore non è qui ... Un gocciolino solo! - No, no; lo sai bene, il dottore non vuole! - ripeté Andrea, levandogli la bottiglia di mano. Il conte seguí con gli occhi desolati Marietta che la portava via; poi, subitamente rassegnatosi, riprese a mangiare, ingollando i bocconi appena masticati, stendendo le mani lunghe e scarne al pane, alle frutta, ai vassoi delle pietanze, mettendoseli dinanzi, tutti in fila. - Che fai lí? - diceva alla Marietta guardandola di traverso, diffidente. Giacinta, rimescolata da una pietà sorda sorda, non poteva piú levar gli occhi d'addosso al marito. Provava un intenerimento strano, quasi un bisogno di piangere. E siccome Andrea cercava di prenderle la mano, sotto la tavola, ella la ritirò vivamente. - Almeno un gocciolino! - replicava il conte. - Il dottore non è qui ... Non gli diremo nulla!

PROFUMO

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

"Pare un luogo abbandonato" diceva il dottore. "Le erbe selvatiche invadono il terreno, avvolgono le croci, scon- quassano le pietre dei tumuli. Che desolazione! Poveri morti! Nessuno se ne cura più. Lei è un'eccezione. Nei nostri piccoli paesi, il popolo non si è ancora abituato a credere alla santità di questo luogo, sebbene lo chiami camposanto. Parecchi commettono tuttavia delle truffe, quando possono trovare sagrestani compiacenti; di notte, fanno seppellire in chiesa il morto, e mandano qui la cassa vuota. Ci sono stati dei processi." Si fermava ora per leggere qualche nome mezzo scancellato dalla pioggia, scostando con la punta della mazza le er- bacce che coprivano la rozza lastra di pietra; ora per rialzare qualche croce pencolante; ora per levarsi il cappello davan- ti a una tomba di persona amica e recitare un requiem, facendo con la mano un rapido segno di croce. "Era anche questa una selva di convento" riprese a dire. "Non vi sono più venuto da anni. Gli alberi son rimasti tal quale; crescono, intristiscono e nessuno vi bada, e nessuno li tocca più; muoiono sopra i morti, come questo melograna- to. Contraddizione! È inaridito vicino alla tomba di una bambina. E accanto a quella là, di un vecchio, quanti portoni attorno al ceppo di quell'ulivo carico di frutto!" Patrizio, pratico del posto, andava avanti, calpestando l'erba e le piante selvatiche che ingombravano il viottolo a si- nistra. In quel lato le croci erano più fitte; rozze pietre, meschini tumoletti di sassi e gesso biancheggiavano tra il verde, sgretolati, immiseriti, sormontati da croci di ferro munite di cartellini col nome della persona sepolta. Un ulivo dai lar- ghi rami proteggeva una tomba; brevi siepi di alloro si allargavano di qua e di là, tra i mandorli e i fichi dalle braccia contorte e biancastre, rade di foglie; dietro macchie di mortelle e di spino spuntava una piramidetta, un cippo, un alto fusto di croce ornato di corone avvizzite. Il terreno si elevava sassoso, più incolto e più ingombro verso la roccia che fiancheggiava il convento, forata da grotte mezze nascoste da piante di fichi d'India e da oleastri. La signora Geltrude era stata sepolta in una di esse, e la sua si distingueva a distanza, pei fiori che ornavano lo spazio davanti al cancello di ferro. Patrizio si scoperse il capo, e il dottore lo imitò. Dalle piante che sormontavano la grotta due uccellini, pigolando, pareva accompagnassero la preghiera che il dottore mormorava a capo chino e occhi socchiusi. Patrizio non diceva nul- la. Guardava fisso, in fondo alla grotta, la lapide murata nel centro, contornata di rami di alloro e di mortella; e sembra- va volesse penetrarla per vedere il cadavere della sua povera mamma addormentata nel sonno eterno. "Ho passato tante ore seduto là!" egli disse, accennando una grossa pietra d'arenaria poco distante. "Nei primi gior- ni, chiamavo, invocavo mia madre, tra le lagrime, aspettando, nella follia del mio dolore, un segno che mi rivelasse di essere udito e ascoltato da lei. Ora - ah, caro amico, ecco quel che mi rende così triste! - ora, invece, vengo qui con un senso di rancore che non so vincere; vengo quasi soltanto per offrirle lo spettacolo delle angosce della mia vita ch'ella volle così qual è, e che avrebbe dovuto essere tutt'altra! Vengo perché ella sappia che abbiamo sbagliato tutti e due, e che io non ho la forza di rimediare! È orribile, è vero?" Il dottor Mola non sapeva che rispondere e lo guardava stupito. "Sì, abbiamo sbagliato! Fra qualche mese avrò trent'otto anni, e mi sento fanciullo senza esperienza, senza forza, in- timidito dal subbuglio della vita che ignoro, roso dal dubbio che io non apporti male più agli altri che a me stesso, e non formi la infelicità di colei che pure vorrei la più felice del mondo!" "Vostra moglie? Perché?" disse il dottore, coprendosi il capo. "È il segreto che mi soffoca! Non ho saputo legarla a me, non ho saputo farmi amare! Non ho saputo ..." "Vi ingannate. Non è possibile; quella buona signora ..." "La colpa non è sua!" "Vostra? Non me ne persuado. Vivete da eremita; siete un santo, se non per fede, per le opere ..." "Sono un infelice!" "Come vi perdete facilmente d'animo! Non lo avrei mai creduto." "È vero! È vero!" esclamò Patrizio. Pareva che singhiozzasse; e il dottore gli si accostò e lo prese paternamente per le mani. "Via! Via!" disse. "Dovreste tener conto che la vostra signora è ancora un po' malata, quantunque non sembri. Certe stranezze del suo carattere vanno attribuite ai nervi. Io non so precisamente di che cosa si tratti e non vorrei essere indi- screto; ma son sicuro che voi date corpo a delle ombre, e che scambiate i fantasmi della vostra immaginazione per real- tà." "Può darsi; e il male sta qui!" rispose Patrizio, abbassando il capo sconsolatamente. "Il mio passato mi opprime. In questo momento vorrei sfogarmi con lei, e un fanciullesco ritegno mi tronca le parole in gola. Così con Eugenia. Così! ... Eppure l'amo. Darei la mia vita per farglielo intendere. E poi, quando mi stende le braccia e mi grida: "Voglio essere amata! Voglio essere amata!" mi sento irrigidire, quasi quel grido offendesse qualcosa di sacro dentro di me: lei stessa! So, so da che proviene questo sentimento; ma saperlo non giova. Mi è rimasto un invincibile senso di avversione e di nausea dei primi e soli abbracci venali provati in gioventù. Oh, quelle carezze, quei baci che simulano l'amore, che profanano l'amore! Non li ho potuti dimenticare. E il convincimento che l'amore santo, di marito e moglie, dovrebbe essere tutt'altro ... Fissazione!" "Infatti è un'altra cosa. Sacramentum magnum, dice san Paolo!" "Che dolori, dottore, e che complicazioni nella mia vita! Eugenia colpita, e da qual male! Mia madre ..." E corse al cancello, e vi si appoggiò, tendendo le braccia alla tomba, come invocando soccorso: "Lasciami in pace, mamma! Perché sei ancora gelosa di lei? Perché ti frapponi ancora tra me e lei? Lasciami tutto a lei ... Ora non hai più bisogno di me. Mamma! mamma!" Il dottore lo strappò di là. "Vi proibisco di venir più qui" disse. "Siete troppo esaltato. Ve lo proibisco, come medico e come amico. Andiamo, andiamo via subito." Patrizio si lasciava condurre. "Promettetemi che questa sarà, per ora, l'ultima vostra visita al camposanto. Promettetemelo" replicò il dottore. "Ha ragione. Glielo prometto." "La solitudine vi ha fatto molto male. Riparate; siete in tempo." "Sì, sì" diceva Patrizio, senza intender bene in che maniera avrebbe potuto. "Ne riparleremo in un momento più calmo" soggiunse il dottore. "Dimenticate, e per un pezzo, questa via. I vivi coi vivi, i morti coi morti. Dio vuole così! Basta rammentarli nelle preghiere. Gli eccessi, anche nel bene, diventano biasi- mevoli. La salute dello spirito, come quella del corpo, consiste nella giusta misura. Un vecchio e medico vi dice questo, tenetelo a mente." Patrizio si sentiva confortato, quantunque riflettesse che forse aveva promesso più che non potesse mantenere. "I vivi coi vivi! I morti coi morti!" ripeteva dentro di sè. E affrettava il passo verso casa, dove era condensata oramai la sua vera vita. Riandava i giorni felici, quando il cuore gli s'era tutt'a un tratto svegliato. Rivedeva il terrazzino dove Eugenia gli era apparsa la prima volta, e sentiva la dolce commozione di quel giorno, specie di puntura, e ferita soavissima. Oh, i bei sogni delle prime settimane! ... E tornava più indietro assai, a' suoi primi anni. Un'altra morta, Giulietta, da cui s'era sentito posseduto. Non l'aveva più rammentata da tanto tempo! E la rivedeva nel pianerottolo della scala, con la bambola tra le braccia ... Indi, pallida, stesa immobile sul letto. E poi? Solitudine e silenzio! Dolori sopra dolori! Disinganni sopra disinganni! ... E l'afflitta figura della madre, che gli stava accanto, che lo covava coi vedovi sguardi, come un tesoro. E sempre silenzio e solitudine! ... Ecco perché; ecco perché. "I vivi coi vivi! I morti coi morti!" Che spietata filosofia in queste parole! Si sentiva confortato e, insieme, con un gran vuoto nel cuore. Doveva ricominciare da capo; ritessere tutta la tela della sua vita, tentare l'impossibile! E passando pel portone del convento, e salendo i pochi scalini che mettevano nel corridoio, gli pareva di sentirsi di nuovo avviluppare nella miserevole rete della solitudine e del silenzio, penetrare da quel freddo che le calde e affettuose parole del dottore avevano cominciato a dissipare. Nella penombra della sera, il corridoio sembrava allungarsi, allun- garsi davanti ai suoi passi, con in fondo quella vetrata dalla luce scialba, che serviva soltanto a dare una paurosa idea della incalcolabile lunghezza, con quegli usci in fila, di qua e di là, chiusi per sempre ad anima viva; sepolcro dove il destino li aveva spietatamente gettati perché vi vivessero la morte, senza speranza di resurrezione! E gli parve naturale che Eugenia non avesse ancora pensato a far portare il lume in camera e che rispondesse appena al suo: "Buona sera!" rimanendo appoggiata sul davanzale della finestra, con la testa fra le mani, povera creatura!

Racconti 1

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Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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. - abbandonato sopra il divano, anelante, con le braccia penzoloni, abbattuto da quell'insperata felicità; e guardando fissamente nello specchio di fronte, si vedeva pallido come un cadavere, con gli occhi smarriti ... - No, non è vero! - Nello studio, silenzio profondo, penombra soave. Il gran quadro, i bozzetti, i disegni a penna, le stampe rare, le panoplie, gli strumenti barbari, le stoffe antiche, i vecchi mobili scolpiti, tutti i gingilli di bronzo e di porcellana sparsi disordinatamente qua e là, stavano assopiti nella grande quiete della sera che invadeva la stanza vasta e alta; quiete commovente, pietosa, quasi d'addio! ... Soltanto la figura di donna ignuda, mezz'affondata tra la giubba d'una pelle di leone, soltanto quella pare va lo guardasse intentamente con occhi vibranti, cerchiati d'azzurro, invitandolo ai baci con le sottili labbra semiaperte, insistente, insistente, quasi dovesse lei, e non l'altra, prendergli la vita, la giovinezza, l'avvenire, tutto, in cambio d'un bacio, d'uno solo! "A questo patto, venite!" Si alzò barcollante nel buio; e chiuso l'uscio, discese le scale, non accorgendosi neppure che erano al buio anch'esse; tanta luce gli rideva nel cuore! Appena scorse, indistinta nell'oscurità, in fondo al gran viale alberato, la palazzina indicatagli, Alberto s'inoltrò in punta di piedi, trattenendo il respiro. Gli immani alberi attorno stormivano leggermente; nel cielo, di un nero d'inchiostro, brillavano poche stelle; e al loro scarso lume si vedevano i fumaioli rizzati fantasticamente sul tetto, quasi persone poste in sentinella, in strana lontananza; la quale pareva indietreggiasse, indietreggiasse, di mano in mano ch'egli, con andare di sonnambulo, in oltravasi, sopraffatto dall'improvviso terrore di esseri sovrumani - nascosti fra le siepi scure e fra i cespugli - della cui presenza gli pareva lo avvertisse quel brivido che gli formicolava per la persona. La palazzina era lí, a pochi passi, silenziosa, con tutte le finestre chiuse; e le piante arrampicate serpeggiando alla facciata, sembravano larghi crepacci di vecchio edifizio lasciato in preda alla distruzione ... Allora, senza far rumore, un usciolino s'era aperto; il bianco fantasma apparso sulla soglia aveva accennato con una mano; un mormorio di voce femminile s'era disperso, inintelligibile, nell'oscurità ... E Alberto, seguendo quel bianco fantasma di donna pel breve corridoio rischiarato da riflessi che scappavano da un uscio socchiuso, credeva proprio di sognare; e mentalmente pregava: - È troppo bello, Signore! Non vorrei piú svegliarmi, Signore! - Ella lo aveva spinto, tutt'a a un tratto, nella stanza illuminata, arrestandosi, mezza avvolta tra le tende dell'uscio, con vivissimo stupore negli occhi dilatati. - E siete venuto? ... A quel patto? - Alberto non aveva forza di rispondere, intimidito da quegli sguardi che lo scrutavano, da quell'esotico accento che dava alla parola un'espressione piú efficace, quasi un significato nuovo e profondo, che nessuno avrebbe mai sospettato. - A quel patto? - Ella lo ripeteva con una specie di malvagia durezza nell'atteggiamento delle labbra e nella voce; diffidente, immobile fra le tende grige, quasi in mezzo a nube che dovesse, da lí a poco, avvolgerla e farla sparire dagli occhi di lui. - Grazie! La ho vista da vicino ... Ho inteso la sua voce ... Mi basta! ... Mi faccia morire! ... Mi basta! ... - balbettò, fissandola con supplichevole sguardo. Tutto quel che provava era cosí assurdo, cosí incredibile e cosí immensamente dolce, da farlo soffrire piú di ogni tormento di desiderio, piú d'ogni smania di speranza, piú di ogni angoscia di disperazione in quei tre mesi provata. - Sedete - ella disse, slanciandosi per allungarsi nella poltrona dirimpetto a lui. - Vi ho creduto. Vi conoscevo, da un pezzo, avendovi notato tra la folla; mi seguivate dovunque! ... Vi ho creduto, perché ho visto prima i vostri sguardi ... Sono una donna come le altre ... ma fino a un certo punto. Un'altra, infatti, non avrebbe accettato; io sí. A qualunque altra mancherebbe il coraggio di dirvi: "Ecco un veleno che non perdona; bevete ... e baciatemi!" Non mi avete proposto questo? - Sí! ... - E se io non avessi risposto? Che avreste fatto? - Non lo so -. Alberto se la divorava con gli occhi, ancora incerto s'ella fosse davvero lí, stesa su quella poltrona. La veste da camera di seta cinese, spumeggiante di trine, le modellava talmente alcune parti del corpo da svelarne tutto il meraviglioso segreto delle linee, che qua e là si perdeva nell'ondeggiamento della stoffa. Quella voce cosí meravigliosamente melodiosa che poco prima era risuonata pel salottino con accento vibrante, ora quasi mormorava. Col capo indietro, le braccia distese lungo il corpo e le dita delle mani incrociate, ella lo guardava fisso e continuava: - Non avete ben riflettuto, forse; siete però ancora in tempo. La vita è cosí bella! ... Voi amate, almeno vi sembra ... Dicono che sia cosí delizioso! Amare! Illudersi! Essere amata dovrebbe essere delizioso egualmente ... Ma la certezza? ... E poi, tutto questo dura appena un istante. Riflettete. Io sono donna: ho quella curiosità che rende fin perverse e crudeli ... Ho accettato per mera curiosità. Se voi avete calcolato su la debolezza del mio cuore, vi siete ingannato. Ve lo dico prima; non voglio avere rimorsi. Non c'è un uomo al mondo finora che possa vantarsi di aver sfiorato con un bacio le mie labbra, le mie guance, una di queste mani; e ne sono orgogliosa. Siete cosí vanitosi, cosí meschini, tutti! Con voi, è un'altra faccenda. Chi sta per morire è quasi uno spirito, non è piú di questo mondo. Tra voi e me starebbe un segreto che nessuno potrebbe rompere. E bello; è strano ... Mi avete tentato ... Sareste il mio fidanzato eterno ... Forse allora vi amerei ... Vi dovrei es ser grata di avermi fatto provare un sentimento ancora a me ignoto -. S'era rizzata sul busto, sporgendosi verso di Alberto, affascinante, col bianco volto dagli occhi nerissimi sotto le nerissime sopracciglia, i neri capelli raccolti sul capo in un gran nodo e una lieve ombra di ricci folli su la fronte marmorea. - È vero che è delizioso? - E taceva, aspettando la risposta. - Tanto - disse Alberto - che dare per questo la vita mi par niente! - Riflettete ... - Ora? ... È impossibile! - Vedendola scattare in piedi, Alberto si alzò anche lui; ma non fece neppure un passo per seguirla verso l'armadietto d'ebano dov'era andata a prendere un bicchiere d'oro e una boccettina d'oro finamente cesellati ... - Il sapore è cattivo - ella disse, versando un liquido latteo. La sua mano non tremava; il suo viso era impassibile; se non che le balenava negli occhi la crudele curiosità della donna che non indietreggia davanti a nulla, quando è tentata dall'assurdo e vuol vedere ... e vuol sapere ... Ma che importava? Alberto stese il braccio, guardando quelle labbra leggermente increspate, quasi frementi pel prossimo contatto del bacio. - No - ella aggiunse subito, scostando la mano. - Riflettete ... No ... No! Rifle ... - S'era interrotta, vedendogli sorbire il liquido lentamente, senza nausea ... E appena Alberto le rese il bicchiere, s'avanzò risoluta, severa, con gli occhi socchiusi: poi si arrestò immobile, offrendo le labbra impallidite, e attese ... Lo lasciò fare ... Uno, due, dieci, venti baci ... senza ch'ella si scotesse, senza che accennasse a renderne uno! Il leggiero tremito di tutta la persona, il rapido battere delle palpebre abbassate erano l'unico indizio da cui Alberto poté capire che stringeva fra le braccia un corpo vivo! Come poco prima, gl'immani alberi del viale stormivano leggermente; nel cielo, d'un nero d'inchiostro, brillavano poche stelle ... Con la testa vagellante, e il respiro affannato, Alberto si sentiva avvolto da una vampa, da capo a piedi ... Appena scostatosi dall'uscio che s'era subito richiuso ... Gli era parso? ... No; il bianco fantasma era di nuovo lí, accennante; di nuovo, un mormorio di voce femminile si perdeva inintelligibile nell'oscurità ... Egli si lanciò per esalar su quelle labbra l'anima agonizzante: - Addio! ... Addio! - ripeteva, aspirando il respiro di lei. Ella intanto, con fremito lieve della voce, dolcemente, gli mormorava all'orecchio: - Oh, no, addio! A rivederci, amore! - Napoli, maggio 1888@. 1888.

SCURPIDDU

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Lo zùfolo rimaneva in fondo alla tasca abbandonato. E Paola volava e rivolava da un albero all'altro, si faceva portare in carrozza dai tacchini, si allontanava dal branco, e spesso, sul punto di ritornare alla masseria, Scurpiddu doveva richiamarla a lungo col fischio e gridare più volte - Paola ! Ehi! Paola ! - prima di vederla venire a posàrglisi su la spalla. - Hai ragione, - egli le diceva. - Il padrone ti trascura. Ma che vuoi? Dobbiamo guadagnare quattrini. Tu non ne hai bisogno di quattrini; io sì, Paola ! Domani però ti farò la collana e gli anellini, uno per piede. Il giorno dopo, appena egli le infilò al collo la collana e gli anellini ai piedi, Paola diventò irrequieta; voleva togliersi a ogni costo quegli strani impacci d'addosso. Se la prendeva particolarmente con gli anellini, due semplici cerchietti di fil di rame. Si stizziva, si accaniva a dar colpi di becco ora a questo, ora a quello; e quando si persuadeva che era inutile tentar di spezzarli, si rivolgeva alla collana mezza affondata tra le piume del collo a forza di scosse e di strappate. Scurpiddu rideva: le rimetteva la collana a posto, e aggiustava gli anellini già un po' deformati. - Sta' cheta, Paola ! Sembri una sposa, Paola ! Paola non gli dava retta. Ripreso a inveire contro gli anellini, per essere più libera volava lontano, sur un mandorlo. E lassù, dopo un quarto d'ora, era riuscita a cavarseli. Scurpiddu la vide tornare tranquilla. Pareva gli dicesse: - Vedi se l'ho vinta io? Di tanto in tanto allungava il collo, chinava la testa, afferrava con la punta del becco la collana, la scoteva, cercava di tirarla su ma smetteva sùbito. Il giorno che Scurpiddu regalò la corona alla massaia, e si seppe alla masseria il nuovo mestiere di lui, il Soldato non gli dètte requie. - Zanni, vieni qua; cavami un dente! Vieni a cavare i denti alle mule! Per questo, marmotta, non badi più a imparare a lèggere! Te la faccio io una bella corona! Aveva legato in filza, con lo spago, zanne di animali, ossicini d'ogni specie, sassolini, e preso Scurpiddu fra le gambe, gli attaccava quella corona al collo, quantunque il ragazzo si schermisse. - Così sembri uno zanni davvero! Gli zanni , infatti, per segno della loro valentia nel cavar denti, ne portavano al collo una filza, legati con maglie di fil di ferro, come i chicchi di una corona.

CENERE

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Deledda, Grazia 4 occorrenze

, si domandava con disperazione il piccolo abbandonato, piangendo sconsolatamente. Ella avrà avuto paura. Dove sarà adesso? Perché non viene? E quell'uomo lurido, oleoso, cattivo, quello è suo padre? Le carezze e le dolci parole di zia Tatàna lo confortarono alquanto; cessò di piangere, si leccò le lagrime e se le sparse di qua e di là delle guance, col gesto che gli era abituale; poi subito pensò alla fuga. La donna, il mugnaio, gli uomini, il ragazzetto, tutti gridavano, imprecavano, ridevano e si bisticciavano. «È proprio tuo figlio. Tale e quale!», diceva la donna, rivolta al mugnaio. E il mugnaio gridava: «Non lo voglio, no, non lo vogliooo! ... ». «Sei ben scomunicato, sei senza viscere. Santa Caterina mia, è possibile che vi sieno uomini così malvagi?», diceva zia Tatàna, un po' scherzando, un po' sul serio. «Ah, Anania, Anania, sei sempre tu!» «E chi dunque vuoi ch'io sia? Ora vado subito in Questura.» «Tu non andrai in nessun posto, stupido! Tu vuoi tirar fuori di tasca le tue corna per mettertele sul capo!», osservò energicamente la donna. Ma siccome egli insisteva, ella disse: «Ebbene, andrai domani. Ora finisci il tuo lavoro, e ricordati ciò che diceva il re Salomone: "La furia della sera lasciala alla mattina ... "». I tre uomini tornarono al lavoro: ma spingendo sotto la ruota la pasta delle olive frante, il mugnaio gridava, borbottava, imprecava, mentre gli altri lo deridevano e la moglie gli diceva tranquillamente: «Via, non prenderti poi la porzione più grande. Dovrei arrabbiarmi io, Santa Caterina mia! Ricordati, Anania, che Dio non paga il sabato». «Taci, figliolino mio», disse poi al bimbo, che singhiozzava nuovamente, «domani aggiusteremo tutto. Ecco, così gli uccelli volano dal nido appena hanno le ali.» «Ma sapevate voi che quest'uccellino esisteva?», chiese ridendo uno dei due uomini che spingevano la spranga. «Dove sarà andata tua madre? Com'è fatta, dimmi?», domandò il ragazzetto, mettendosi davanti ad Anania. «Bustianeddu», gridò il mugnaio, «se non te ne vai ti mando via a calci ... » «E provate un po'!», diss'egli, spavaldo. «E diglielo dunque tu come è fatta Olì!», esclamò uno dei due uomini. L'altro rise tanto che dovette abbandonar la spranga e premersi il petto. Intanto zia Tatàna, premurosa e carezzevole, interrogava il bimbo, esaminandogli le povere vestine. Egli raccontò tutto con vocina incerta e lamentosa, ogni tanto interrotta da singhiozzi. «Poverino, poverino! Uccellino senz'ali: senz'ali e senza nido!», diceva pietosamente la donna. «Taci, anima mia; tu avrai fame, non è vero? Adesso andiamo a casa, e zia Tatàna ti darà da mangiare, e poi ti manderà a letto, con l'angelo custode, e domani aggiusteremo tutte le cose.» Con questa promessa ella lo condusse in una casetta vicina al molino, e gli diede da mangiare pane bianco e formaggio, un uovo ed una pera. Mai Anania aveva mangiato tanto bene: e la pera, dopo le carezze materne e le dolci parole di zia Tatàna, finì di confortarlo. «Domani ... », diceva la donna. «Domani ... », ripeteva il fanciulletto. Mentre egli mangiava, zia Tatàna, che preparava la cena per il marito, lo interrogava e gli dava buoni consigli, avvalorandoli con l'affermare che erano già stati dettati dal re Salomone ed anche da Santa Caterina. Ad un tratto, sollevando gli occhi ella scorse alla finestruola il visetto paffuto di Bustianeddu. «Va via», disse, «va via, piccola rana. Fa freddo.» «Lasciatemi dunque entrare», egli supplicò. «Fa freddo davvero.» «Va dunque al molino.» «No, c'è mio padre che mi ha mandato via. Ih, quanta gente è venuta là!» «Entra dunque, povero orfano, anche tu senza madre! Che cosa dice zio Anania? Grida ancora?» «E lasciatelo gridare!», consigliò Bustianeddu, sedendosi accanto ad Anania, e raccogliendo e rosicchiando il torso della pera, abbastanza rosicchiato e già buttato via dal piccolo straniero. «Son venuti tutti», raccontò poi, parlando e gestendo come un uomo maturo. «Maestro Pane, mio padre, zio Pera, quel bugiardone di Franziscu Carchide, zia Corredda, tutti vi dico insomma ... » «Che cosa dicevano?» chiese la donna con viva curiosità. «Tutti dicevano che dovete adottare questo bambino. E zio Pera diceva ridendo: "Anania, e a chi dunque lascerai i tuoi beni, se non tieni il bambino?". Zio Anania lo rincorse con la pala; tutti ridevano come pazzi.» La donna dovette esser vinta dalla curiosità, perché ad un tratto raccomandò a Bustianeddu di non lasciar solo Anania ed uscì per tornare al molino. Rimasti soli, Bustianeddu cominciò a fare qualche confidenza al piccolo abbandonato. «Mio padre ha cento lire nel cassetto del canterano, ed io so dove è la chiave. Noi abitiamo qui vicino, e abbiamo un podere per il quale paghiamo trenta lire di imposta: ma l'altra volta venne il commissario e sequestrò l'orzo. Cosa c'è qui, dentro il tegame, che fa cra-cra-cra? Ti pare che prenda fumo?», sollevò il coperchio e guardò. «Diavolo, ci son patate. Credevo fosse altro. Ora assaggio.» Con due ditina prese una fetta bollente, ci soffiò sopra più volte, se la mangiò; ne prese un'altra ... «Che cosa fai?», disse Anania, con un po' di dispetto. «Se viene quella donna! ... » «Noi sappiamo fare i maccheroni, io e mio padre», riprese imperturbato Bustianeddu. «Tu li sai fare? E il sugo?» «Io no», disse Anania, melanconico. Pensava sempre a sua madre, assediato da tristi domande. Dove era andata? Perché non era entrata nel molino? Perché lo aveva abbandonato e dimenticato? Adesso che aveva mangiato e sentiva caldo, egli aveva voglia di piangere ancora, di fuggire. Fuggire! Cercar sua madre! Questa idea lo afferrò tutto e non lo lasciò più. Poco dopo rientrò zia Tatàna, seguìta da una donna lacera, barcollante, che aveva un gran naso rosso ed una enorme bocca livida dal labbro inferiore penzolante. «È questo ... è questo ... l'uccellino? ... », chiese balbettando l'orribile donna: e guardò con tenerezza il piccolo abbandonato. «Fammi vedere la tua faccina, che tu sii benedetto! È bello come una stella, in verità santa! E lui non lo vuole? Ebbene, Tatàna Atonzu, raccoglilo tu, raccoglilo come un confetto ... » Si avvicino e baciò Anania, che torse il viso con disgusto perché l'enorme bocca della donna puzzava d'acquavite e di vino. «Zia Nanna», disse Bustianeddu, facendo cenno di bere, «oggi l'avete presa giusta!» «Co ... co ... cosa sai tu? Che fai qui? Moscherino, povero orfano, va a letto.» «Anche tu dovresti andare a letto!», osservò zia Tatàna. «Andate, andate via tutti e due: è tardi.» Spinse dolcemente l'ubriaca, ma prima d'uscire ella chiese da bere. Bustianeddu riempì d'acqua una scodella e gliela porse: ella la prese con buona grazia, ma appena v'ebbe guardato dentro, scosse il capo e la rifiutò. Poi andò via traballando. Zia Tatàna mandò via anche Bustianeddu e chiuse la porta. «Tu sarai stanco, anima mia; adesso ti metterò a dormire», disse ad Anania, conducendolo in una grande camera attigua alla cucina e aiutandolo a spogliarsi. «Non aver paura, sai; domani tua madre verrà, o andremo a cercarla noi. Sai farti il segno della croce? Sai il Credo? Sì, bisogna recitare il Credo tutte le notti. Poi io ti insegnerò tante altre preghiere, una delle quali per San Pasquale che ci avvertirà dell'ora della nostra morte. E così sia. Ah, tieni anche la rezetta? E come è bella! Sì, bravo, San Giovanni ti proteggerà: sì, egli era un bimbo ignudo come te, eppure battezzò Gesù Signore Nostro. Dormi, anima mia: in nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Amen.» Anania si trovò in un gran letto dai guanciali rossi; zia Tatàna lo coprì bene ed uscì, lasciandolo al buio. Egli mise la manina sull'amuleto, chiuse gli occhi e non pianse, ma non poté dormire. Domani ... Domani ... Ma quanti anni erano trascorsi dopo la partenza da Fonni? Che pensava Zuanne non vedendo ritornare l'amico? Pensieri confusi, immagini strane gli passavano nella piccola mente; ma la figura della madre non lo abbandonava mai. Dov'era andata? Aveva freddo? Domani la rivedrebbe ... Domani ... Se non lo conducevano da lei egli fuggirebbe ... Domani ... Sentì il mugnaio rientrare e litigare con la moglie: il cattivo uomo gridava: «Non lo voglio! Non lo voglio!». Poi tutto fu silenzio. Ad un tratto qualcuno aprì l'uscio, entrò, camminò in punta di piedi, s'avvicinò al letto e sollevò cautamente la coperta. Un baffo ispido sfiorò lievemente la guancia di Anania, ed egli, che fingeva di dormire, socchiuse appena appena un occhio e vide che chi l'aveva baciato era suo padre. Pochi momenti dopo zia Tatàna entrò e si coricò nel gran letto, a fianco di Anania, che la sentì lungamente pregare bisbigliando e sospirando.

Nuda e triste come un nido abbandonato! Siediti dunque, lavati; ecco l'acqua pura e fresca, vero argento puro; lavati, bevi, riposati. Io ora ti preparerò un boccone: ah, non rifiutare, figlio delle mie viscere; non rifiutare, non umiliarmi. Per cibarti io vorrei darti il mio cuore; ma tu accetta quel che posso offrirti; ecco, asciugati, ora, anima mia! Come sei grande e bello! Dicono che tu debba sposare una ricca e bella fanciulla: ah, non è stata stupida quella fanciulla. Ma perché non mi hai tu scritto prima di venire? Ah, figlio caro, tu almeno non hai dimenticato la vecchia abbandonata!» «Ma Zuanne, Zuanne?», insisteva Anania, lavandosi con l'acqua freschissima della secchia. La vedova diventò cupa. Disse: «Ebbene, non parlarmene! Egli mi ha fatto tanto soffrire! Era meglio che ... egli avesse seguito l'esempio del padre ... Ebbene, no, non parliamone. Egli non è un uomo; sarà un santo, come dicono, ma non è un uomo! Se mio marito sollevasse il capo dalla tomba e vedesse suo figlio scalzo, col cordone, con la bisaccia, frate mendicante e stupido, che direbbe mai? Ah, lo fustigherebbe, in verità». «Dove si trova ora frate Zuanne?» «In un convento lontano; sulla cima d'un monte. Almeno fosse rimasto nel convento di Fonni! ma no, è destino che tutti debbano abbandonarmi; anche Fidele, l'altro figliuolo, ha preso moglie e raramente si ricorda di me: il nido è deserto, abbandonato; la vecchia aquila ha veduto volar via i suoi poveri aquilotti e morrà sola ... sola ... » «Venite a viver con me!», disse Anania. «Quando sarò dottore vi prenderò con me, nonna.» «In che potrei servirti? Almeno un tempo ti lavavo gli occhi e ti tagliavo le unghie; ora invece tu dovresti fare altrettanto a me ... » «Mi raccontereste delle storie ... a me ed ai miei bambini ... » «Anche le storie non so più raccontarle, adesso. Sono rimbambita del tutto: il tempo, vedi, il tempo s'è portato via il mio cervello come il vento porta via la neve dai monti. Ebbene, ragazzino mio, mangia; non ho altro da offrirti, accetta di buon cuore. Oh, questo cero, è tuo? Dove lo porterai?» «Alla Basilica, nonna, davanti all'immagine dei santi Proto e Gianuario. Viene di lontano, nonna; me lo diede una vecchia donna sarda che vive a Roma: anch'essa mi narrava delle storie, ma non belle come le vostre.» «Vive a Roma? E come fece ad andarci? Ah, io morrò senza aver veduto Roma! ... » Dopo il modestissimo pasto, Anania cercò la guida, con la quale combinò per l'indomani l'ascensione sul Gennargentu: poi si avviò alla Basilica. Nell'antico cortile, sotto i grandi alberi, susurranti, sui gradini corrosi, nelle loggie rovinate, entro la chiesa odorante d'umido come una tomba, da per tutto silenzio e desolazione. Anania depose il cero di zia Varvara sopra un altare polveroso, poi guardò i primitivi affreschi delle pareti, gli stucchi dorati da una luce melanconica, le rozze figure dei santi sardi, tutte le cose infine che un tempo gli avevano destato meraviglia e terrore, e sorrise, ma col cuore oppresso da una languida tristezza. Ritornato nel cortile vide, attraverso una finestra aperta, il cappello d'un carabiniere e un paio di stivali appesi al muro d'una cella, e nella memoria gli risuonò ancora l'aria della Gioconda: «A te questo rosario». L'odor della cera vagava nel cortile solitario; dov'erano i bimbi, compagni d'infanzia, gli uccelletti seminudi e selvatici, che un tempo animavano i gradini della chiesa? Anania non desiderava di rivederli; ma con quanta dolcezza ricordava i giuochi fatti con loro, mentre dagli alberi le foglie secche cadevano come ali d'uccelli morti! Una donna scalza, con un'anfora sul capo, passò in fondo al cortile. Anania trasalì, sembrandogli di riconoscere sua madre. Dove era sua madre? Perché egli non aveva osato, pur desiderandolo, parlarne alla vedova, - e perché questa non aveva accennato alla sua ingrata ospite? Per sfuggire ai ricordi amari egli andò alla posta e inviò una cartolina illustrata a Margherita; poi visitò il Rettore, e verso il tramonto percorse la strada che guardava sulla immensità delle valli. Vedendo le donne fonnesi che andavano alla fontana, strette nelle tuniche bizzarre, egli ripensò ai suoi primi sogni di amore, quando desiderava d'esser lui un mandriano e Margherita una paesana, fine ed elegante sebbene con l'anfora sul capo, simile alla figurina d'uno stucco pompejano. Come il passato era lontano e come diverso dal presente! Un tramonto meraviglioso illuminava l'orizzonte: pareva un miraggio apocalittico. Le nuvole disegnavano un paesaggio tragico; una pianura ardente solcata da laghi d'oro e da fiumi porpurei, e sul cui sfondo sorgevano montagne di bronzo profilate d'ambra e di neve perlata, qua e là squarciate da aperture fiammanti che sembravano bocche di grotte e dalle quali sgorgavano torrenti di sangue dorato. Una battaglia di giganti solari, di formidabili abitanti dell'infinito, si svolgeva entro quelle grotte aeree: balenava il corruscare delle armi intagliate nel metallo del sole, ed il sangue sgorgava a torrenti, inondando le infuocate pianure del cielo. Col cuore balzante di gioia Anania rimase assorto nella contemplazione del magnifico spettacolo, finché le ombre della sera, fugato il miraggio, stesero un drappo violaceo su tutte le cose: allora egli rientrò nella casa della vedova e sedette accanto al focolare. I ricordi lo riassalirono. Nella penombra, mentre la vecchia preparava la cena e parlava con voce tetra, egli rivedeva Zuanne dalle grandi orecchie, intento a cuocer le castagne, ed un'altra figura silenziosa e incerta come un fantasma. «Dunque hanno ammazzato tutti i banditi nuoresi?», chiedeva la vecchia. «Ma credi tu che passerà lungo tempo prima che nuove compagnie sorgano qua e là? Tu ti inganni, figlio mio. Finché vivranno uomini dal sangue ardente, abili al bene ed al male, esisteranno banditi. È vero che ora essi sono così cattivi, talvolta vili, ladroni e spregevoli! Ah, ai tempi di mio marito era altra cosa, sai! Come erano coraggiosi allora! Coraggiosi e benefici. Una volta mio marito incontrò una donna che piangeva perché ... » Anania s'interessava mediocremente ai ricordi di zia Grathia: altri pensieri gli passavano per la mente. «Sentite», egli disse, appena la vedova ebbe finito la pietosa storia della donna che piangeva, «non avete saputo mai nulla di mia madre?» Zia Grathia era intenta a rivoltare una piccola frittata, e non rispose. «Ella sa qualche cosa!», pensò Anania, turbandosi. Ma dopo un istante di silenzio zia Grathia osservò: «Se niente ne sai tu, come vuoi che ne sappia qualche cosa io? E adesso, figlio, mettiti qui, davanti a questa sedia, ed accetta il buon cuore». Anania sedette davanti al canestro che la vedova aveva deposto sopra una sedia, e cominciò a mangiare. «No», disse, confidandosi con la vecchia come non s'era mai potuto confidare con nessuno, «per lungo tempo io non seppi nulla di lei. Ora però credo di essere sulle sue traccie. Dopo che mi ebbe abbandonato ella partì dalla Sardegna, ed un uomo la vide a Roma, vestita da signora.» «Ma la vide davvero?», chiese vivacemente zia Grathia. «Le parlò?» «Altro che le parlò!», rispose amaramente Anania. «Egli disse d'aver passato qualche ora con lei. Dopo non si seppe più nulla; ma io, mesi fa, la feci ricercare dalla Questura e venni a sapere che ella vive a Roma, sotto un falso nome. Però si è emendata, sì, si è emendata, e adesso vive onestamente lavorando.» Zia Grathia era venuta a porsi davanti alla sedia, ed a misura che Anania parlava ella spalancava gli occhietti foschi, e si curvava e trasaliva, e apriva le mani come per raccogliere le parole di lui. Egli si rasserenava pensando a Maria Obinu: quando disse «ella ora si è emendata» provò un impeto di gioia, sicuro, in quel momento, di non ingannarsi supponendo che Maria e Olì fossero la stessa persona. «Ma sei sicuro, ma sei proprio sicuro?», chiese la vecchia, sbalordita. «Ma sì! Ma sìii! ... », egli rispose, imitando Margherita nel pronunziare quel sì lieto e un po' canzonatore. «Ho vissuto due mesi in casa sua.» Si versò da bere, guardò il vino attraverso la luce rossastra della lucerna di ferro, e sembrandogli torbido lo assaggiò appena; poi nel pulirsi la bocca vide che il vecchio tovagliolo grigiastro era bucato, e se ne coprì scherzosamente il viso. «Ricordate quando io e Zuanne ci mascheravamo?», chiese, guardando attraverso il buco. «Io mettevo sul viso questo tovagliolo. Ma che avete?», esclamò subito con voce mutata, scoprendosi il volto lievemente impallidito. Egli vedeva il viso della vedova, di solito impassibile e cadaverico, animarsi in modo strano, e dopo una profonda meraviglia esprimere la pietà più intensa; e capì immediatamente che l'oggetto di questa pietà quasi violenta era lui. Di un colpo l'edifizio del suo sogno rovinò. «Nonna! Zia Grathia! Voi sapete!», gridò con aria spaventata, stirando nervosamente il tovagliuolo quanto era lungo. «Finisci di mangiare, adesso: parleremo poi, figlio. Non ti piace quel vino?» Ma Anania la guardò con rabbia e balzò in piedi. «Parlate!», le impose. «Ah, Santissimo Signore», si lamentò zia Grathia, sospirando e schioccando le labbra, «che cosa vuoi ch'io ti dica? Perché non finisci di cenare, Anania, figlio caro? ... Parleremo poi ... » Egli non sentiva e non vedeva più nulla. «Parlate! Parlate! Voi sapete tutto, dunque? Dov'è? È viva, è morta, dov'è? Dov'è? Dov'è?» Quel «dov'è?» lo ripeté almeno venti volte, mentre s'aggirava automaticamente intorno alla cucina, piegando, spiegando, stirando il tovagliuolo, mettendolo sul viso, guardando attraverso il buco: pareva un po' impazzito, ma più irritato che commosso. «Calmati», cominciò a dirgli la vecchia, andandogli appresso, «io credevo che tu sapessi ... Sì, ella è viva, ma non è la donna che ti ha ingannato fingendosi tua madre.» «Non è stata lei a ingannarmi, nonna! L'ho creduto io ... Ella non sa neppure che io abbia supposto ... Ah, dunque non è lei?», aggiunse a bassa voce, con meraviglia, come se fino a quel momento fosse stato certo che Maria Obinu era sua madre. «Ma parlate dunque!», esclamò poi. «Perché mi tenete così sulla corda? Perché non mi avete parlato ancora di lei? Dov'è? dov'è?» «Ma se non ha mai lasciato la Sardegna!», disse la vedova, camminandogli sempre a fianco. «In verità, io credevo che tu lo sapessi. Io l'ho riveduta quest'anno, ai primi di maggio; ella venne a Fonni per la festa dei Santi Martiri, e conduceva un cantastorie, un giovine cieco suo amante. Essi erano venuti a piedi da un villaggio lontano, da Neoneli; ella soffriva le febbri di malaria, e sembrava una vecchia di sessanta anni. Terminate le feste, il cieco, che aveva guadagnato assai, abbandonò Olì per seguire una comitiva di mendicanti diretti ad un'altra festa campestre. So che ella, in giugno e luglio, fece la mietitrice nelle tancas di Mamojada. La febbre la distruggeva: stette lungamente malata nella cantoniera e ci sta ancora ... » Anania si fermò, sollevò il viso e aprì le braccia con atto disperato. «Ed io ... io ... l'ho ... vista!», gridò. «Io l'ho vista! L'ho vista! ... Siete certa di quanto mi dite?», chiese poi fissando la vedova. «Certissima: perché dovrei ingannarti?» «Ditemi», egli insisté, «ma c'è davvero? Io vidi alla finestra una donna febbricitante, gialla, terrea, con due occhi da gatto ... Era lei? Ne siete certa?» «Certissima, ti dico. Era lei certamente.» «Ed io ... io l'ho vista!», egli ripeté, e si strinse il capo fra le mani, torcendoselo, preso da una collera violenta contro se stesso che si era così lungamente, così stupidamente ingannato; che aveva cercato sua madre al di là dei monti e dei mari, mentre ella trascinava la sua miseria e il suo disonore attraverso l'isola natìa; che si era commosso davanti a tanti volti stranieri e non aveva sentito un palpito nello scorgere il volto della mendicante, della miseria viva, di sua madre, incorniciato dalla finestruola tetra della cantoniera. Che cosa dunque era l'uomo? E il cuore umano? E la vita, l'intelligenza, il pensiero? Ah, sì, ora che queste domande gli salivano non più oziosamente alle labbra, ora che la realtà batteva intorno a lui le sue ali funebri e squarciava i vapori dell'illusione, ora egli rispondeva alle sue domande e sapeva che cosa era l'uomo, il suo cuore, la sua vita: inganno, inganno, inganno. A un tratto zia Grathia lo prese per un braccio e lo costrinse a sedersi: poi gli si accoccolò davanti, gli strinse una mano, e lo guardò di sotto in su, lungamente, pietosamente. «Bambino mio», gli disse, «piangi, piangi. Ti farà bene. Come sei freddo!». Anania strappò la mano dal morso duro delle mani della vedova. «Ma per chi mi prendete?» domandò offeso. «Non sono un ragazzino, io! Perché devo piangere?» «Eppure ti farebbe bene, figlio! Ah, sì, io so quanto fa bene piangere! Quanto fu picchiato alla mia porta, una notte, ed una voce che pareva quella della Morte mi disse: "Donna, non aspettare più!" io diventai di pietra. Per ore ed ore non potei piangere; e furono le ore più terribili per me: mi pareva che il cuore, dentro il petto, fosse diventato di ferro rovente, e mi bruciasse, mi bruciasse le viscere, mi lacerasse il petto con la sua punta acuta. Ma poi il Signore mi concedé le lagrime, ed esse rinfrescarono il mio dolore come la rugiada rinfresca le pietre arse dal sole. Figlio, abbi pazienza! Siamo nati per soffrire: e cosa è mai questo tuo dispiacere in confronto di tanti altri dolori?». «Ma io non soffro!», egli protestò. «Dovevo aspettarmelo, questo colpo; me lo aspettavo anzi, vedete! Sono stato spinto a venir qui quasi da una forza misteriosa; una voce mi diceva: va, va, là saprai qualche cosa! Certo, ho provato un colpo ... un po' di sorpresa ... ma adesso è passato: non datevi pena.» Ma la vedova lo fissava, lo vedeva livido in viso, con le labbra pallide contratte, e scuoteva il capo. Egli prosegui: «Ma perché nessuno mi ha detto mai nulla? Eppure qualche cosa dovevano sapere. Il carrozziere, per esempio, possibile che non sapesse nulla?». «Forse. Ella sola poteva farti sapere qualche cosa; ma no, essa ha paura di te. Quando venne qui, per la festa, con quel miserabile cieco che si fece condurre da lei e poi la abbandonò, nessuno qui la riconobbe, tanto sembrava vecchia, piena di stracci, istupidita dalla miseria e dalla febbre. Del resto, neppure tu l'hai riconosciuta. Il cieco la chiamava con un brutto nomignolo: soltanto a me ella confidò il suo vero essere, mi raccontò la sua triste storia e mi scongiurò di non farti mai saper nulla di lei. Essa ha paura di te.» «Perché ha paura?» «Ha paura che tu la faccia mettere in prigione perché ti ha abbandonato. Ha anche paura dei suoi fratelli che sono cantonieri della ferrovia ad Iglesias.» «E suo padre?», domandò Anania, che non aveva mai pensato a questi suoi parenti. «Oh! è morto da tanti anni, morto maledicendola. E Olì crede sia stata questa maledizione a perseguitarla.» «Sì! È lei che è pazza! Ma che ha ella fatto durante tutti questi anni? Come ha vissuto? Perché non ha lavorato?» Egli sembrava di nuovo calmo, e faceva le sue domande senza curiosità, pensando alle conseguenze di questo disastroso avvenimento. Ma quando la vedova sollevò un dito e disse solennemente: «Tutto sta nelle mani di Dio! Figlio, c'è un filo terribile che ci tira e ci tira ... Forse che mio marito non avrebbe voluto lavorare, e morire sul suo letto, benedetto dal Signore? Eppure! ... Così di tua madre! Ella certo avrebbe voluto lavorare e vivere onestamente ... Ma il filo l'ha tirata ... », egli s'accese in volto, e di nuovo contorse le dita e si sentì soffocare da un impeto di vergogna e di spasimo. «Tutto ... tutto è finito per me, dunque!», singhiozzò. «Che orrore, che orrore! Che miseria, che onta! Ma raccontatemi, dunque, ditemi tutto. Come ha vissuto? ... Voglio sapere tutto ... tutto ... tutto, capite! voglio morire di vergogna, prima ancora che ... Basta!», disse poi scuotendo la testa, come per scacciare via da sé ogni turbamento. «Raccontatemi.» Zia Grathia lo guardava con infinita pietà: avrebbe voluto prenderselo sulle ginocchia, cullarlo, cantargli una nenia infantile, calmarlo, addormentarlo; ed invece lo torturava. Ma ... sia fatta la volontà del Signore: siamo nati per soffrire, e non si muore di dolore! Tuttavia la vedova cercò di raddolcire alquanto il calice amaro che Dio porgeva per le sue mani al disgraziato fanciullo. Disse: «Io non so raccontarti precisamente come ella visse e ciò che fece. So che ella, dopo averti lasciato, e fece benissimo, perché altrimenti tu non avresti avuto mai un padre e non saresti stato fortunato come lo sei ... ». «Zia Grathia! Non fatemi arrabbiare! ... », egli interruppe impetuosamente. «Tranquillità! Pazienza!», gridò la donna. «Non disconoscere la bontà del Signore, ragazzo mio! Se tu fossi rimasto qui, che avresti fatto? Forse avresti finito vilmente col farti anche tu frate ... frate mendicante ... frate poltrone! ... Basta, non parliamone più! Meglio morire che finire così! E tua madre avrebbe seguìto egualmente la sua via, perché quello era il suo destino. Anche qui, prima di partire, credi tu ch'ella menasse una vita santa? Ebbene, no: era questo il suo destino. Ella aveva qui, negli ultimi tempi, un amante carabiniere che fu trasferito a Nuraminis pochi giorni prima della vostra fuga. Dopo che ti ebbe abbandonato, almeno così la disgraziata mi raccontò, ella partì per Nuraminis, a piedi, nascondendosi di giorno, camminando di notte, attraversando metà della Sardegna. Raggiunse il carabiniere e la loro relazione continuò per qualche mese; egli aveva promesso di sposarla, ma invece si stancò presto di lei, la maltrattò, la percosse, poi l'abbandonò. Ella seguì la sua fatale via. Mi disse, - e piangeva, poveretta, piangeva da commuovere le pietre, - che cercò sempre del lavoro, ma che non poté trovarne mai. È il destino, te lo dissi! Il destino che priva del lavoro certi esseri disgraziati, come ne priva altri della ragione, della salute, della bontà. L'uomo e la donna inutilmente si ribellano. No, avanti, morite, crepate, ma seguite il filo che vi tira! Basta, ultimamente però ella si era emendata: s'era unita con un cieco cantastorie e vivevano da due anni come marito e moglie: ella lo conduceva per i paesi, per le feste campestri, da un luogo all'altro; camminavano quasi sempre a piedi, qualche volta soli, qualche volta in compagnia di altri mendicanti girovaghi. Il cieco cantava certe poesie che egli stesso componeva: aveva una bellissima voce. Qui, mi ricordo, cantò la Morte del re, una poesia che faceva piangere la gente. Il Municipio gli diede venti lire, il Rettore lo invitò a pranzo. Raccolse, in tre giorni che stette qui, più di venti scudi. Ed era un'immondezza! Anche lui prometteva di sposare la disgraziata; invece, quando la vide ammalata, che non poteva trascinarsi oltre, la piantò, per paura che lo costringessero a spendere per curarla. Di qui partirono assieme; andarono alla festa di Sant'Elia; là il cieco schifoso incontrò una compagnia di mendicanti campidanesi che dovevano recarsi ad una festa campestre nella Gallura, e andò via con loro, mentre la disgraziata moriva di febbre in una capanna di pastori. Dopo, come ti dissi, sentendosi meglio, ella vagò di qua e di là, mietendo, raccogliendo spighe, finché la febbre l'atterrò del tutto. L'altro giorno, però, mi mandò a dire che stava meglio ... » Un fremito, invano represso, percorreva tutte le membra di Anania. Quanta miseria, quanta vergogna, quanto dolore, e che iniquità divina ed umana nel racconto della vedova! Nessuno dei sanguinosi e tristi racconti ch'egli aveva sentito narrare nella sua infanzia dalla strana donna, gli era mai parso più spaventoso di questo: nessuno lo aveva mai fatto tremare come questo. Ad un tratto ricordò il pensiero balenatogli una volta in mente, in una dolce sera lontana, nel silenzio della pineta interrotto appena dal canto del galeotto pastore. «È stata anche in carcere?», domandò. «Sì, credo, una volta. Furon trovati in casa sua certi oggetti, che un suo amico aveva preso da una chiesa campestre; ma fu rilasciata perché provò di non sapere neppure di che si trattasse ... » «Voi mentite!», disse Anania con voce cupa. «Perché non dite tutta la verità? Essa è stata anche ladra ... ebbene, perché non dirlo! Credete che mi importi niente? Proprio niente, vedete, neppure così», aggiunse, mostrandole la punta del mignolo. «Che unghie, Signore!», osservò la vecchia. «Perché ti lasci crescere così le unghie?» Egli non rispose, ma balzò in piedi e camminò su e giù, furioso, mugolando come un toro. La vedova non si mosse, ed egli, dopo pochi istanti, tornò a calmarsi, e fermandosi davanti alla donna chiese con voce dolente ma rassegnata: «Ma perché son nato io? Perché mi hanno fatto nascere? Vedete, io ora sono un uomo rovinato: tutta la mia vita è distrutta. Non potrò proseguire gli studi, e la donna che dovevo sposare, e senza la quale non potrò più vivere, ora mi lascerà ... cioè devo lasciarla io». «Ma perché? Non sa chi sei tu?» «Sì, lo sa, ma crede che quella donna sia morta o così lontana da non udirne più neanche il nome. Ed ora invece ecco che essa ritorna! Come volete voi che una fanciulla pura e delicata possa vivere vicino ad una donna infame?» «Ma che cosa vuoi fare? Non hai tu stesso detto che non ti importa nulla di lei?» «E voi che cosa mi consigliate?» «Io? Che cosa ti consiglio? Di lasciarle proseguire la sua via», rispose ferocemente la vedova: «non ti ha abbandonato lei? Se tu lo vorrai, la tua sposa non incontrerà mai la disgraziata, e tu stesso non la vedrai mai più ... ». Anania la guardò, a sua volta pietoso ma anche sprezzante. «Voi non capite, non potete capire!» disse. «Lasciamo andare; ora bisogna pensare al modo di vederla; bisogna ch'io vada là domani mattina.» «Tu sei matto ... » «Voi non capite ... » Si guardarono; entrambi reciprocamente sdegnati e pietosi. Allora cominciarono a discutere e quasi a litigare. Anania voleva partire subito, o al più tardi la mattina dopo; la vedova proponeva di far venire Olì a Fonni senza dirle il perché. «Giacché ti ostini! Ma va là! io la lascerei tranquilla; come ha camminato sinora camminerà d'ora in avanti ... Lasciala stare ... Mandale qualche soccorso ... » «Nonna, pare che anche voi abbiate paura. Quanto siete semplice! Io non le torcerò un capello; io la prenderò con me; ella vivrà con me ed io lavorerò per lei: le voglio fare del bene, non del male, perché tale è il mio dovere ... » «Sì, questo è il tuo dovere; ma d'altronde, figlio, pensa, rifletti. Come vivrete voi? Come camperete?» «Non pensateci!» «Come, come farete?» «Non pensateci!» «Bene, allora! Ma ti ripeto che essa ha una folle paura di te, e se tu vai ad affrontarla così, improvvisamente, è capace di commettere qualche pazzia.» «Ed allora facciamola venir qui: ma subito, domani mattina.» «Sì, subito, sulle ali d'un corvo! Come sei impaziente, figlio delle mie viscere! Va e riposati, adesso, e non pensare a niente. Domani notte a quest'ora ella sarà qui, non dubitare. Dopo, tu farai quel che vorrai. Domani tu salirai sul Gennargentu: io direi anzi di rimanerci fino a posdomani ... » «Vedrò io!» «Ora va ... va a riposarti», ella ripeté, dolcemente spingendolo. Anche nella stanzetta ove egli aveva dormito con sua madre nulla era cambiato; vedendo il misero giaciglio, sotto cui c'era un mucchio di patate ancora odoranti di terra, egli ricordò il lettino di Maria Obinu e le illusioni ed i sogni che lo avevano per tanto tempo perseguitato. «Come ero bambino!», pensò amaramente. «E dicevo di esser uomo! Ah, soltanto adesso sono uomo! Ah, soltanto ora la vita mi ha spalancato le sue orribili porte! Sì, sono un uomo, ora, e voglio essere un uomo forte! No, vile vita, tu non mi vincerai; no, mostro, tu non mi abbatterai! Tu mi perseguiti, tu mi hai finora combattuto a viso coperto, vigliacca, miserabile, e solo oggi, in questo giorno lungo come un secolo, solo oggi hai svelato il tuo volto orrendo! Ma non mi vincerai, no, non mi vincerai!» Aprì le imposte tentennanti che davano su un balcone di legno, del quale rimanevano appena i sostegni; si afferrò a questi e si sporse fuori. La notte era limpidissima, fresca, chiara e diafana come sono in montagna le notti sul finir dell'estate. Nel silenzio indicibile che regnava, la visione delle montagne vicine e le linee vaghe delle montagne lontane sembravano più solenni e grandiose. Ad Anania, che vedeva quasi ai suoi piedi le valli profonde, pareva di star sospeso sopra un abisso: e mentre le linee delle montagne lontane gli destavano in cuore una dolcezza strana, e gli davan l'idea di versi immensi scritti dalla mano onnipotente d'un divino poeta sulla pagina celeste dell'orizzonte, il vicino colosso nero-turchiniccio di Monte Spada, protetto dalla formidabile muraglia del Gennargentu, lo opprimeva, gli sembrava l'ombra del mostro al quale poco prima aveva lanciato la sua sfida. E pensava a Margherita lontana, a Margherita sua, non più sua, che in quell'ora sognava certamente di lui guardando anch'essa l'orizzonte; e sentiva una grande pietà per lei, più che per se stesso, e lagrime soavi e amare come il miele amaro gli salivano agli occhi; ma egli le respingeva, queste lagrime, le respingeva come un nemico felino e sleale che tentasse vincerlo a tradimento. «Son forte!», ripeteva, fermo sul balcone senza ringhiera. «Mostro, sono io che ti vincerò, ora che mi stai davanti!» E non si accorgeva che il mostro gli stava alle spalle, inesorabile. VIII. Nella lunga notte insonne egli decise, o credette decidere, il proprio destino. «Io la costringerò a viver qui, presso zia Grathia, finché non avrò trovato la mia via. Parlerò francamente al signor Carboni e a Margherita. Ecco, dirò loro, le cose stanno così: io ho intenzione di far vivere mia madre presso di me, appena la mia posizione me lo permetterà: questo è il mio dovere, ed io lo compio, caschi l'universo. Essi mi scacceranno come si scaccia una bestia immonda; io non mi illudo. Allora io cercherò un impiego, e lo troverò bene, e prenderò con me la disgraziata, e vivremo assieme di miseria, ma pagherò i miei debiti, e sarò un uomo. Un uomo!» pensò amaramente. «O un cadavere vivente!» Gli pareva d'esser calmo, freddo, già morto alla gioia di vivere; ma in fondo al cuore sentiva una crudele ebbrezza d'orgoglio, una smania di stolto combattimento contro la fatalità, contro la società e contro se stesso. «L'ho voluto io, dopo tutto!», pensava. «Sapevo bene che doveva finir così: mi sono lasciato trascinare dalla fatalità. Guai a me! Devo espiare io: espierò.» Questa illusione di coraggio lo sostenne tutta la notte, ed anche il giorno dopo, durante l'ascensione al Gennargentu. La giornata era triste, annuvolata e nebbiosa, ma senza vento: egli volle partire egualmente, con la speranza, diceva, che il tempo si rasserenasse, ma in realtà per cominciare a dar a se stesso una prova di fermezza, di coraggio e di noncuranza. Che gli importava oramai delle montagne, degli orizzonti, del mondo intero? Ma egli voleva fare ciò che aveva stabilito di fare. Solo un momento, prima della partenza, esitò. «E se ella, avvertita della mia presenza, non venisse e fuggisse ancora? E io non prendo forse del tempo perché ciò avvenga?» La vedova lo rassicurò impegnandosi a far venire Olì al più presto possibile, ed egli partì. La guida, su un cavallino forte e paziente, precedeva per gli erti sentieri, talvolta dileguandosi fra la nebbia argentea delle lontananze silenziose, talvolta disegnandosi sullo sfondo del sentiero come una figura dipinta a guazzo sopra una tela grigia. Anania seguiva: tutto era nebbia intorno a lui, dentro di lui, ma egli distingueva attraverso quel velo fluttuante il profilo ciclopico del Monte Spada, e dentro di sé, fra le nebbie che gli avvolgevano l'anima, scorgeva quest'anima come scorgeva il monte, grande, immensa, dura, mostruosa. Un silenzio tragico circondava i viaggiatori, interrotto soltanto, a intervalli, dal grido degli avoltoi. Forme strane apparivano qua e là fra la nebbia, ai lati del sentiero roccioso, e il grido degli uccelli carnivori sembrava la voce selvaggia di quelle misteriose parvenze, disturbate dal passaggio dell'uomo. Anania credeva di camminare fra le nuvole, sentiva qualche volta il senso del vuoto, e per vincere la vertigine doveva guardare intensamente il sentiero, sotto i piedi del cavallo, fissando le lastre umide e lucenti dello schisto e i piccoli cespugli violetti del serpillo la cui acuta fragranza profumava la nebbia. Verso le nove, fortunatamente pei viaggiatori che in quell'ora percorrevano un sentiero strettissimo tagliato sul dorso immenso di Monte Spada, la nebbia diradò: Anania diede un grido di ammirazione, quasi strappatogli violentemente dalla bellezza magnifica del panorama. Tutto il monte apparve coperto da un manto violetto di serpillo fiorito; e al di là, la visione delle valli profondissime e delle alte cime verso cui si avvicinavano i viaggiatori, pareva, tra il velo squarciato della nebbia luminosa, fra giuochi di sole e d'ombra, sotto il cielo turchino dipinto di strane nuvole che si diradavano lentamente, un sogno d'artista impazzito, un quadro d'inverosimile bellezza. «Come la natura è grande, e come è bella e come è forte!», pensò Anania, intenerito. «Nel suo cuore immenso tutto è puro: ah, se ci trovassimo qui soli, tutti e tre, io, Margherita e lei, chi più penserebbe alle cose impure che ci separano?» Un soffio di speranza gli attraversò lo spirito: e se Margherita lo amasse davvero tanto quanto aveva dimostrato d'amarlo in quegli ultimi giorni, e se acconsentisse? ... Con questa folle speranza in cuore camminò lungo tratto, finché raggiunse il fondo del versante di Monte Spada per ricominciare la salita verso la più alta cima del Gennargentu. Un torrente passava in fondo alla valle, fra enormi roccie e boschi di ontani che un improvviso soffio di vento scuoteva. Nel silenzio profondo del luogo misterioso il mormorio degli ontani diede ad Anania una bizzarra impressione; gli parve che la sua speranza animasse le cose intorno, e che gli alberi tremassero, come sorpresi da una gioia arcana. Ma ad un tratto ricadde nelle sue cupe idee e un progetto stravagante gli attraversò la mente: farsi romito. «Se mi nascondessi su queste montagne e vivessi solo, cibandomi d'erbe e di uccelli? Perché l'uomo non può viver solo, perché non può spezzare i lacci che lo avvincono agli altri uomini e lo strangolano? Zarathustra? Sì, ma anch'Egli una volta scrisse: "Oh, quanto sono solo! Non ho più nessuno con cui possa ridere, nessuno che mi consoli dolcemente ... "» Per tre ore l'ascesa continuò, lenta e pericolosa. Il cielo si rasserenò completamente, il vento soffiò: le cime schistose brillarono al sole, profilate di argento sull'azzurro infinito; l'isola svolse i suoi cerulei panorami, disegnati di montagne chiare, di paesi grigi, di stagni lucenti, e qua e là sfumati nella linea vaporosa del mare. Ogni tanto Anania si distraeva, ammirava, seguiva con interesse le indicazioni della guida e guardava col binocolo; ma appena egli cercava di godere la dolcezza del panorama magnifico, il dolore gli dava come una zampata da tigre per riafferrarlo interamente a sé. Verso mezzogiorno arrivarono alla vetta Bruncu Spina. Appena smontato, Anania s'arrampicò fino al mucchio di lastre schistose del punto trigonometrico, e si gettò per terra onde sfuggire alla furia del vento che lo assaltava d'ogni parte. Sotto il suo sguardo irrequieto stendevasi quasi tutta l'isola, con le sue montagne azzurre e il suo mare argenteo, rischiarata dal sole allo zenit: sopra il suo capo brillava il cielo turchino, vuoto e infinito come il pensiero umano. Il vento rombava furiosamente nel vuoto, e le sue raffiche investivano Anania con rabbia pazza: pareva l'ira violenta d'una belva formidabile che cercasse di scacciare ogni altro essere dall'antro aereo dove voleva dominare sola. Anania resisté a lungo: la guida gli si trascinò accanto, gettandosi anch'essa carponi sulle lastre schistose, e cominciò a indicare le principali montagne ed i paesi ed i borghi dell'isola. Il vento rapiva le parole e mozzava il respiro ai due uomini. «Quella è Nuoro?», gridò Anania. «Sì: la collina di Sant'Onofrio la divide in due.» «Sì, è vero. Si vede distintamente.» «Peccato che questo vento sia così rabbioso! Va al diavolo, vento maledetto!», urlò la guida. «Altrimenti si poteva mandare un saluto a Nuoro, tanto oggi sembra vicina!» Anania ripensò alla promessa fatta a Margherita: « ... Dalla più alta cima sarda ti manderò un saluto; griderò ai cieli il tuo nome ed il mio amore, come vorrei gridarlo dalla più eccelsa cima del mondo affinché tutta la terra ne restasse attonita ... ». E gli sembrò che il vento gli portasse via il cuore, sbattendolo contro i colossi granitici del Gennargentu. Al ritorno egli credeva di trovare sua madre presso la vedova, e ansiosamente, dopo aver lasciato il cavallo presso la guida, attraversò il paese deserto e si fermò davanti alla porticina nera di zia Grathia. La sera scendeva triste, un vento gagliardo soffiava per le straducole erte, rocciose: il cielo era pallido: pareva d'autunno. Anania, fermo davanti alla porticina, ascoltava. Silenzio. Attraverso le fessure scorgevasi il chiarore rosso del fuoco. Silenzio. Anania entrò e vide soltanto la vecchia, che filava seduta sul solito sgabello, tranquilla come uno spettro. Sulle brage gorgogliava la caffettiera, e da un pezzo di carne di pecora, infilato in uno spiedo di legno, sgocciolava il grasso sulla cenere ardente. «E dunque? ... Nonna, dunque?» «Pazienza, gioiello d'oro! Non ho trovato una persona fidata che potesse andare laggiù. Mio figlio non è in paese.» «Ma il carrozziere?» «Pazienza, ti ho detto, oh!», esclamò la vedova, alzandosi e deponendo il fuso sullo sgabello. «Ho pregato appunto il carrozziere di dirle che venga assolutamente, domani. Gli dissi: "La pregherai a nome mio che venga, poiché ho da comunicarle cose importantissime che la riguardano. Non le dirai che qui c'è Anania Atonzu; va, figlio, che Dio ti ricompensi perché fai un'opera di carità".» «E lui? E lui?» «Lui ha promesso di condurla qui in vettura.» «Ella non verrà! Vedrete che non verrà», disse Anania, inquieto. «Purché non fugga ancora. Ho fatto male a non recarmi io stesso ... ma sono ancora a tempo ... » E voleva partire subito: ma poi si lasciò facilmente convincere a rimanere, e attese. Un'altra triste notte passò. Nonostante la stanchezza che gli fiaccava le membra, egli dormì pochissimo, - su quel duro giaciglio dove era tristamente nato e sul quale avrebbe voluto quella notte stessa morire. Il vento urlava sul tetto, con boati da mare in tempesta, e la sua voce rombante , ricordava ad Anania l'infanzia melanconica, i terrori lontani, le notti d'inverno, il contatto di sua madre che lo stringeva a sé più per paura che per amore. No, ella non lo aveva amato: perché illudersi? ella non lo aveva amato; ma forse questa era stata la più orrenda sventura e la perdita inesorabile di Olì. Egli lo sentiva, lo sapeva; e provava una tristezza mortale, un'improvvisa pietà per lei che era vittima del destino e degli uomini. S'ella fosse arrivata quella notte, mentre la voce del vento destava nel cuore di Anania impeti di terrore e di pietà, egli l'avrebbe accolta con tenerezza; ma la notte passò, e spuntò una giornata che il vento rendeva melanconica, ed egli trascorse ore che mise fra le più tristi e irrequiete della sua vita. Durante quelle ore egli girò per le viuzze, come spinto dal vento, andò in qualche casa, bevette molta acquavite, ritornò dalla vedova e sedette accanto al fuoco, assalito da brividi di febbre e da una acuta irritazione nervosa. Anche zia Grathia non trovava pace; vagava su e giù per la casa, e un'ora prima che arrivasse la corriera s'avviò per andare incontro ad Olì. Prima di uscire pregò Anania di tenersi calmo. «Bada che ella ha paura di te ... » «Andate, santa donna!», egli disse con disprezzo. «Non la guarderò neppure: le dirò soltanto poche parole.» Passò più di un'ora. Anania ricordava con amarezza la dolce ora passata nell'attendere zia Tatàna: e mentre anelava l'arrivo di Olì, il triste arrivo che doveva una buona volta porre fine ai suoi tormenti, si sentiva divorato da un cupo desiderio: che ella non arrivasse, che fosse di nuovo fuggita, scomparsa per sempre! «Ma è anche malata», pensava con triste conforto, «morrà ben presto!» La vedova rientrò, sola, frettolosa. «Zitto, non arrabbiarti!», disse a voce bassa, rapidamente. «Viene! Viene! È qui: io le ho detto tutto. Zitto! Ha una paura terribile. Non farle del male, figlio!» Uscì di nuovo, lasciando aperta la porticina che il vento cominciò a sbattere, spingendola, attirandola, quasi trastullandosi con essa. Anania attese, pallido, incosciente. Ogni volta che la porta si apriva il sole ed il vento penetravano nella cucina, illuminavano e scuotevano ogni cosa, e sparivano per ricomparire subito. Per uno o due minuti Anania seguì incoscientemente il gioco del sole e del vento, ma ad un tratto s'irritò contro la porta e mosse per chiuderla, nervoso e col volto cupo d'ira. Egli apparve così alla misera donna che si avanzava tremando, timida e lacera come una mendicante. Egli la guardò: ella lo guardò: lo spavento e la diffidenza era negli occhi d'entrambi. Né l'uno né l'altra pensarono neppure a stendersi la mano, neppure a salutarsi: tutto un mondo di dolore e di errore era fra loro e li divideva inesorabilmente, come due mortali nemici. Anania tenne ferma la porta, appoggiandovisi, tutto inondato di sole e di vento, e seguì con gli occhi la misera figura di Olì, mentre ella, quasi spinta da zia Grathia, si avanzava verso il focolare. Sì, era ben lei, la pallida e scarna apparizione intravveduta nella finestra nera della cantoniera; nel viso giallo- grigiastro i grandi occhi chiari, sbiaditi dalla debolezza e dalla paura, parevano gli occhi d'un gatto selvatico ammalato. Appena ella si fu seduta, la vedova ebbe una magnifica idea: lasciò soli i suoi ospiti! Ma Anania sbatté la porta e corse irritatissimo dietro zia Grathia. «Dove andate? Venite, tornate subito, altrimenti vado via anch'io!» disse aspramente, raggiungendo la vecchia su per la scaletta. Olì dovette sentire la minaccia, perché quando Anania e la vedova rientrarono in cucina ella piangeva presso la porta, pronta ad andarsene. Cieco di vergogna e di dolore, Anania le si slanciò sopra, l'afferrò per un braccio e la spinse contro il muro, poi chiuse a chiave la porta. «Nooo!», egli gridò, mentre la donna s'accoccolava per terra, restringendosi tutta come un riccio e piangendo convulsa. «Non partirete più! Non farete più un passo senza il mio consentimento. Rimanete, piangete finché volete, ma di qui non vi muoverete più. I tempi allegri son finiti.» Olì pianse più forte, tutta scossa da un fremito di spasimo; ma nello scoppio del suo pianto risuonò quasi una frenetica irrisione alle ultime parole di Anania; ed egli lo sentì, e la vergogna subitanea per le mostruose parole pronunziate accrebbe il suo furore. Ah, il pianto della donna lo irritava, invece di commuoverlo; tutti gli istinti dell'uomo primitivo, barbaro e feroce, vibravano nei suoi nervi frementi: ed egli lo sentiva, ma non sapeva dominarsi. Zia Grathia lo guardava atterrita, domandandosi se Olì non avesse ragione a temerlo; e scuoteva la testa, minacciava con ambe le mani, s'agitava, pronta a tutto pur d'impedire una scena violenta; ma non sapeva che dire, non poteva parlare. Ah, era indiavolato quel bel ragazzo ben vestito: era più terribile d'un pastore orgolese con la mastrucca, più terribile dei banditi che ella aveva conosciuti sulla montagna. Ella s'era immaginata una scena ben diversa da quella! «Sì», egli riprese, abbassando la voce, e fermandosi davanti a Olì, «i vostri viaggi son finiti. Ragioniamo un po': è inutile piangere, anzi dovete rallegrarvi perché avete ritrovato un buon figliuolo che vi restituirà bene per male: quindi dovete aspettarvi da lui molto bene. Di qui voi non vi muoverete più, finché non l'ordinerò io. Capite? capite?», ripeté, sollevando di nuovo la voce, e battendosi la mano sul petto. «Adesso sono io il padrone: non sono più il bimbo di sette anni, che voi avete vilmente ingannato e abbandonato; non sono più l'immondezza che voi avete buttato via; sono un uomo ora, capite? e saprò difendermi, sì, saprò difendermi, saprò, perché voi finora non avete fatto altro che offendermi, uccidermi giorno per giorno, sempre a tradimento, sempre! sempre! e rovinarmi, capite, rovinarmi sempre più, sempre più, come si rovina una casa, un muro, così, pietra per pietra, così ... » Egli faceva atto di buttar giù un muro; si curvava, sudava, quasi oppresso da una vera fatica fisica; ma d'un tratto, improvvisamente, guardando Olì che piangeva sempre, sentì la sua ira sbollire, svanire. Un senso di gelo lo invase. Chi era quella donna che egli ingiuriava? Quel mucchio di stracci, quella lurida lumaca, quella mendicante, quell'essere senza anima? Poteva ella capire ciò che egli le diceva? ciò che ella aveva fatto? E d'altronde che poteva esserci di comune fra lui e quella creatura immonda? Era poi davvero sua madre, quella? E se lo era, che significava, che importava? Madre non è la donna che dà materialmente alla luce una creatura, frutto d'un momento di piacere, e poi la butta nel mezzo della strada, in grembo al perfido Caso che l'ha fatta nascere. No, quella donna lì non era sua madre, non era una madre, sia pure incosciente: egli non le doveva nulla. Forse non aveva diritto di rimproverarle i suoi errori, ma non doveva neppure sacrificarsi per lei. Sua madre poteva essere zia Tatàna, poteva essere zia Grathia, e magari Maria Obinu, e magari zia Varvara o Nanna l'ubriacona; tutte, fuorché la miserabile creatura che gli stava davanti. «Avrei fatto bene a non occuparmene, davvero, come consigliava zia Grathia», pensò. «E forse è meglio che essa riprenda la sua via. Che può importarmi di lei? No, non me ne importa niente.» Olì continuava a piangere. «Finitela», diss'egli freddamente, ma non più irato; e siccome ella piangeva più forte, egli si volse alla vedova e le fece cenno di confortarla e farla tacere. «Non vedi che ha paura?», mormorò la vedova, passandogli vicina. «Su! su!», disse poi, battendo una mano sulle spalle di Olì. «Finiscila, figlia. Fatti coraggio, abbi pazienza. È inutile piangere; egli non ti divorerà, poi; è figlio delle tue viscere, dopo tutto. Su! su! Adesso prendi un po' di caffè, poi discorrerete meglio. Fammi il piacere, figlio, Anania, va un po' fuori: poi ragionerete meglio. Va fuori, gioiello d'oro.» Egli non si mosse, ma Olì si calmò alquanto, e quando zia Grathia le portò il caffè, ella prese tremando la tazza e bevette avidamente, guardandosi attorno con occhi ancora spaventati, diffidenti, eppure attraversati da balenii di piacere. Ella era avida del caffè, come quasi tutte le donnicciuole sarde, ed Anania, che aveva un po' ereditato questa passione, la guardava e la studiava, ridiventato perfettamente cosciente; e gli pareva di scorgere una bestia selvatica e timida, una lepre rosicchiante l'uva nella vigna, trepida per il piacere del pasto e per la paura di venir sorpresa. «Ne vuoi ancora?», domandò zia Grathia, chinandosi e parlando ad Olì come ad una bambina. «Sì? No? Se ne vuoi ancora dimmelo pure. Da' qui la chicchera, e alzati, su, lavati gli occhi, sta tranquilla! Hai sentito? Su, figlia!» Olì si alzò, aiutata dalla vecchia, e andò diritta alla tinozza dell'acqua dove usava lavarsi venti anni prima: volle pulire la chicchera, poi si lavò, e s'asciugò col grembiale bucherellato. Le sue labbra tremavano, qualche singhiozzo le gonfiava ancora il petto, i suoi occhi arrossati e cerchiati, enormi nel viso piccolo, sfuggivano lo sguardo freddo di Anania. Egli guardava il grembiale bucherellato e pensava: «Bisognerà subito farle una veste: è veramente lurida. Ho ancora sessanta lire delle lezioni date a Nuoro: ho fatto bene a fare quelle ripetizioni ... Ne troverò anche altre. Venderò anche i libri ... Sì, occorre subito vestirla e calzarla ... Avrà anche fame ... ». Quasi indovinando il suo pensiero, zia Grathia disse ad Olì: «Hai fame? Se hai fame dimmelo pure, subito: non star lì vergognosa; chi si vergogna patisce. Hai fame? No?». «No», rispose Olì con voce rauca. Anania si turbò nell'udire quella voce: era ancora la voce d'un tempo, sì, la voce lontana, la voce di lei. Sì, quella donna era lei, era lei, la madre, la sola, la vera, l'unica madre! Era la carne della sua carne, il membro malato, il viscere fracido che lo straziava, ma dal quale non poteva staccarsi senza lasciar la vita. «Ebbene, allora siedi qui», disse zia Grathia avvicinando due sgabelli al focolare, «siedi qui, figlia, e tu siedi qui, gioiello mio. Sedete qui entrambi e discorrete ... ». Fece sedere Olì, e pretendeva di fare altrettanto con Anania, ma egli si scosse bruscamente. «Lasciatemi dunque; non sono un bimbo, vi ho detto! D'altronde», egli riprese, camminando su e giù per la cucina, «c'è poco da discorrere. Ho già detto quanto dovevo dire. Ella rimarrà qui finché io non ordinerò altrimenti: voi ora le comprerete le scarpe e un vestito ... vi darò i danari ... , ma di questo parleremo poi ... Intanto», e alzò la voce, per significare che si rivolgeva ad Olì, «rispondete voi: che cosa rispondete dunque?» Credendo che egli parlasse con la vedova, Olì non rispose. «Hai sentito?», le disse zia Grathia, con voce dolce. «Che cosa rispondi?» «Io?», ella chiese a bassa voce. «Sì, tu.» «Io ... nulla.» «Avete debiti?», domandò Anania. «No.» «Verso il cantoniere, no?». «No. Si hanno tenuto tutto quanto avevo.» «Che cosa avevate?» «I bottoni d'argento della camicia, le scarpe nuove, dodici lire in argento.» «Che cosa possedete ora?» «Nulla. Come mi vedi, mi scrivi», diss'ella, toccandosi il grembiale. La sua voce era cupa, cavernosa. «Avete qualche carta?» «Cosa?» «Qualche carta», spiegò zia Grathia. «Sì, la fede di nascita?» «Sì, la fede di nascita», ella rispose toccandosi il petto. «L'ho qui.» «Fate vedere». Ella trasse una carta gialliccia, macchiata d'olio e di sudore, mentre Anania ripensava amaramente alle ricerche e alle indagini fatte per scoprire se Maria Obinu possedeva carte rivelatrici. Zia Grathia prese la carta e gliela diede; egli la svolse, la lesse, la restituì. «Perché ve la siete procurata?», domandò. «Per sposarmi con Celestino ... » «Il cieco», spiegò la vedova, e aggiunse borbottando: «quell'immondezza vile». Anania tacque, e continuò a camminare su e giù per la cucina: il vento sibilava incessantemente intorno alla casetta; dalle fessure del tetto piovevano alcune striscie di sole che disegnavano fantastiche monete d'oro sul pavimento nero. Anania camminava divertendosi automaticamente a mettere i piedi su quelle monete, come usava una volta, da bambino: si domandava che cosa gli restava da fare e gli sembrava d'aver già esaurito una parte del suo grave compito. «Io ora chiamerò di là zia Grathia», pensava, «e le consegnerò i danari perché le compri le vesti e le scarpe e le dia da mangiare, poi partirò e vedrò ... Qui non mi resta altro da fare: è tutto fatto ... È tutto fatto!», ripeté fra sé con infinita tristezza. «Tutto è finito.» Gli venne in mente di sedersi accanto a sua madre, di chiederle come aveva vissuto, di rivolgerle una sola parola di dolcezza e di perdono: ma non poteva, non poteva: il solo guardarla lo disgustava; gli pareva che ella puzzasse (e in realtà ella emanava quello sgradevole odore tutto speciale dei mendicanti), e non vedeva l'ora di andarsene, di fuggire, di togliersi dagli occhi quella vista dolorosa. Eppure qualche cosa lo tratteneva; egli sentiva che la scena non poteva terminare così, dopo poche frasi; pensava che Olì forse, fra la sua paura e la sua vergogna, gioiva d'aver un figlio bello, forte, civile; e nel suo disgusto, nel suo dolore anch'egli provava un meschino conforto dicendo a se stesso: «Almeno non è sfrontata: forse si può redimere ancora. È incosciente, ma non sfrontata. Non si ribellerà». Eppure ella si ribellò. «Ecco», egli ricominciò, dopo un lungo silenzio, «voi rimarrete qui finché non avrò aggiustato i miei affari. Zia Grathia comprerà le vesti e le scarpe ... » La voce rauca e dolente risuonò forte: «Io non voglio nulla. Io no ... ». «Come no?», egli chiese, fermandosi di botto davanti al focolare. «Io non resto.» «Che cosa?», egli gridò sporgendosi in avanti, coi pugni stretti e gli occhi spalancati. «Spiegatevi meglio.» Ah, dunque non era tutto finito? Ella osava? perché osava? Ah, ella dunque non capiva che suo figlio aveva sofferto e lottato durante tutta la sua vita per raggiungere uno scopo: quello di ritirarla dalla via della colpa e del vagabondaggio, anche sacrificandole tutto il suo avvenire? Perché ora ella osava ribellarglisi, perché voleva sfuggirgli ancora? Non capiva che egli le avrebbe impedito di far ciò, anche a costo d'un delitto? «Spiegatevi!», egli ripeté, dominando a stento la sua collera. E stette ad ascoltare, fremente, esaltato, ficcandosi le unghie puntute sulle palme delle mani, mentre il suo viso andava di momento in momento deformandosi sotto la pressione di un dolore senza nome. Zia Grathia lo fissava, pronta anch'essa a gettarglisi sopra se egli osava toccare Olì. Fra le tre creature selvagge, riunite intorno al focolare, la fiamma di un tizzo sorgeva azzurrognola e cigolava: pareva piangesse. «Ascoltami», disse Olì animandosi, «non adirarti, tanto oramai la tua collera è inutile. Il male è fatto e nulla più lo può rimediare: tu puoi uccidermi, ma non ne ritrarrai alcun benefizio. L'unica cosa che tu possa fare è di non occuparti di me. Io non posso restare qui: me ne andrò e tu non udrai più mie notizie. Figurati di non avermi mai incontrata ... » «Dove vuoi andare?», chiese la vedova. «Anch'io gli ho detto queste cose, ma egli non capisce la ragione: ci sarebbe però un mezzo ... Rimani qui egualmente, invece di andar per il mondo: non diremo chi tu sei ed egli vivrà tranquillo come se tu fossi lontana. Perché, povera te, se vai via di qui, dove andrai?» «Dove Dio vuole ... » «Dio?», proruppe Anania, dandosi forti pugni sul petto. «Dio ora vi comanda di obbedirmi. Non osate neppur più ripetere che non volete restare qui. Non osate», egli disse come in delirio. «Credete che io scherzi, forse? Non osate muovere un passo senza ordine mio; altrimenti sarò capace di tutto ... » «Per il tuo bene», ella insisté. «Ascoltami almeno: non essere feroce con me, mentre sei indulgente con tuo padre, con quel miserabile che fu la mia rovina.» «Ella ha ragione!», disse la vedova. «Tacete!», impose Anania. Olì prese ancor più coraggio. «Io non so parlare, Ananì ... io ora non so parlare perché le disgrazie mi hanno reso stupida; ma una sola cosa ti domando: non avrei tutto da guadagnare restando qui? Se voglio andar via non è per il tuo bene? Rispondi. Ah, egli neppure mi ascolta!», disse poi, rivolta alla vedova. Anania camminava nuovamente su e giù per la cucina, e pareva non udisse davvero le parole di Olì; ma a un tratto trasalì e gridò: «Ascolto!». Ella riprese umilmente: «Perché dunque vuoi che io rimanga qui? Lasciami andare per la mia via: come un giorno ti feci del male, lascia che ora possa farti del bene. Lasciami andare: io non voglio esserti d'impedimento: lasciami andare ... per il tuo bene ... ». «No!», egli ripeté. «Lasciami andare, te ne supplico: sono ancor buona a lavorare. Tu non saprai più nulla di me: sparirò come la foglia portata dal vento ... » Egli s'aggirò su se stesso; una terribile tentazione lo insidiò: lasciarla andare! Per un minuto secondo una folle gioia gli brillò nell'anima, al pensiero che tutto poteva considerarsi come un sogno maligno: una sola parola e il sogno svaniva e tornava la dolce realtà ... Ma subito ebbe vergogna di se stesso: la sua ira crebbe, il suo grido echeggiò nuovamente nella tetra cucina. «No!» «Tu sei una belva», mormorò Olì, «non sei un cristiano: sei una belva che morde le sue stesse carni. Lasciami andare, fanciullo di Dio, lasciami ... » «No!» «Una belva davvero!», confermò zia Grathia, mentre Olì taceva e pareva vinta. «C'è bisogno di urlare così? Nooo! Nooo! Nooo! Fuori, se sentono, crederanno che c'è un toro selvatico, chiuso qui dentro. Son queste le cose che ti hanno insegnato a scuola?» «A scuola mi hanno insegnato questa ed altre cose», egli disse, abbassando la voce che gli si era fatta rauca. «Mi hanno insegnato che l'uomo non deve lasciarsi disonorare, a costo di morirne ... Ma voi non potete capire certe cose! Infine, tagliamo corto, e state zitte tutt'e due ... » «Io non capisco? Io capisco benissimo», protestò la vecchia. «Nonna, voi capite davvero. Ricordatevi ... Ma basta, basta!», esclamò egli, agitando le mani, stanco, nauseato. Le parole della vecchia lo avevano colpito; egli ritornava cosciente, ricordava che si era sempre ritenuto un essere superiore, e voleva porre fine alla scena dolorosa e volgare. «Basta», ripeté a se stesso, lasciandosi cader seduto in un angolo della cucina e prendendosi la testa fra le mani. «Ho detto no e basta. Finitela ora», aggiunse con voce affranta. Ma Olì s'accorse benissimo che era invece il momento di combattere: ella non aveva più paura, e osò tutto. «Senti», disse con voce umile, sempre più umile, «perché vuoi rovinarti, "figlio mio?" (Sì, ella ebbe il coraggio di dir così, ed egli non protestò). Io so tutto ... Tu devi sposarti con una fanciulla ricca e bella: se ella viene a conoscere che tu non mi rinneghi, ti rifiuterà. Ed ha ragione: perché una rosa non può stare vicina ad una immondezza ... Fallo per lei; lasciami andare, ella crederà sempre che io non esista più. Ella è un'anima innocente; perché dovrebbe soffrire? Io andrò lontano, cambierò nome, sparirò portata via dal vento. Basta il male che ti feci involontariamente ... sì ... involontariamente; figlio mio, io non voglio farti più del male, no. Ah, come una madre può fare il male a suo figlio? Lasciami andare». Egli ebbe desiderio di gridare: «Eppure voi non mi avete fatto altro che del male», ma si vinse. A che serviva gridare? Era inutile e indecoroso; no, egli non voleva più gridare: solo, col capo sempre stretto fra le mani, con voce nello stesso tempo lamentosa e rabbiosa, continuò a rispondere: «No, no, no». In fondo sentiva che Olì aveva ragione, e capiva che ella veramente voleva andarsene per non renderlo infelice, ma appunto l'idea che in quel momento ella era più generosa e più cosciente di lui lo irritava e gliela rendeva odiosa. Ella si era trasformata: i suoi occhi illuminati lo guardavano supplichevoli e amorosi; quando ripeteva: «lasciami andare» la sua voce vibrava e tutto il suo volto esprimeva una tristezza senza nome. Forse un sogno soave, che giammai prima d'allora aveva rischiarato l'orrore della sua esistenza, le sfiorava l'anima: restare, vivere per lui, trovar finalmente pace. Ma dal profondo dell'anima primitiva un istinto di bene, - la scintilla che si cela anche nella selce, - la spingeva a non badare a quel sogno. Una sete di sacrifizio la divorava, ed Anania lo capiva, e sentiva finalmente che ella voleva a modo suo compiere il proprio dovere, come egli a modo suo voleva compiere il suo. Egli però era il più forte e voleva e doveva vincere con tutti i mezzi, anche con la violenza, anche con la necessaria crudeltà del medico che per guarire il malato gli apre la carne coi ferri. Ad un tratto ella si gettò per terra, ricominciò a piangere, supplicò, gridò. Anania rispose sempre no. «Che farò dunque io?», ella singhiozzò. «Nostra Signora mia, cosa farò io? Bisogna che ti abbandoni ancora con inganno, per farti il bene per forza? Sì, io ti lascerò, io me ne andrò. Tu non sei il mio padrone. Io non so chi tu sei ... Io sono libera ... e me ne andrò ... » Egli sollevò il volto e la guardò. Non era più irato; ma i suoi occhi freddi e il suo viso livido, improvvisamente invecchiato, incutevano spavento. «Sentite», disse con voce ferma, «finiamola. È deciso tutto, e non c'è da discutere oltre. Voi non muoverete un passo senza che io lo sappia. E badate bene, e tenete a mente le mie parole come se fossero le parole di un morto: se finora ho sopportato il disonore della vostra vita vergognosa era perché non potevo impedirlo, e perché speravo di por fine a tale obbrobrio. Ma d'ora in avanti sarà altra cosa. Se voi vi permettete di andar via di qui vi seguirò, vi ucciderò e mi ucciderò! Tanto non mi importa più nulla di vivere!» Olì lo guardava con terrore: in quel momento egli era rassomigliantissimo a zio Micheli, il padre, quando l'aveva cacciata via dalla cantoniera; gli stessi occhi freddi, lo stesso volto calmo e terribile, la stessa voce cavernosa, lo stesso accento inesorabile. Le parve di vedere il fantasma del vecchio, che risorgeva per castigarla, e sentì l'orrore della morte intorno a sé. Non disse più parola, e si accoccolò per terra, tutta tremante di spavento e di disperazione. Una triste notte cadde sul villaggio desolato dal vento. Anania, che non aveva potuto trovare un cavallo per ripartire subito, dovette passare la notte a Fonni, e dormì d'un sonno inquieto, simile al sonno di un condannato nella prima notte dopo la sentenza. Olì e la vedova vegliarono lungamente accanto al fuoco: Olì aveva il freddo foriero della febbre e batteva i denti, sbadigliava e gemeva. Come in una notte lontana, il vento rombava sopra la cucina vigilata dalla spoglia nera del bandito, e la vedova filava, alla luce giallognola del fuoco, impassibile e pallida come uno spettro: ma questa volta ella non narrava alla sua ospite le storie del marito, e non osava confortarla. Solo, di tanto in tanto, la supplicava inutilmente di andare a letto. «Andrò se mi fate una carità», disse finalmente Olì. «Parla.» «Chiedetegli se egli ha ancora la rezetta che gli diedi il giorno che siamo fuggiti di qui; e pregatelo di farmela vedere.» La vecchia promise, e Olì si alzò: tremava tutta, e sbadigliava tanto che le sue mascelle scricchiolavano. Tutta la notte vaneggiò, arsa dalla febbre; ogni tanto chiedeva la rezetta e si lamentava infantilmente perché zia Grathia, coricatale a fianco, non si alzava e non andava da Anania per chiedergliela. Un dubbio le attraversava la mente in delirio: che Anania non fosse suo figlio. No, egli era troppo crudele e spietato; ella, che era stata la vittima di tutti non poteva convincersi che suo figlio dovesse torturarla più degli altri. Nel delirio raccontò a zia Grathia che aveva attaccato al collo di Anania quel sacchettino per riconoscerlo quando sarebbe stato grande e ricco. «Io volevo andare a trovarlo un giorno, vecchia vecchia, col bastone. Dun! Dun! picchiavo alla sua porta. "Io sono Maria Santissima trasformata in mendicante!" I servi ridevano e chiamavano il padrone. "Vecchia, che cosa vuoi?" "Io so che tu hai un sacchettino così e così: io so chi te lo ha dato; se tu oggi hai tante tancas e servi e buoi lo devi a quella povera anima che ora è ridotta a sette once di polvere. Addio, dammi un po' di pane col miele. E perdona alla povera anima." "Servi, segnatevi, questa vecchia che indovina ogni cosa è Maria Santissima ... " Ah, ah, ah, la rezetta, la voglio ... Quel giovine non è ... lui! La rezetta ... la rezetta ... » All'alba zia Grathia entrò da Anania e gli raccontò ogni cosa. «Ah», diss'egli con un sorriso amaro, «ci voleva anche questa! che ella dubitasse! Gliela farò vedere io ... se sono io!» «Figlio, non essere snaturato: contentala almeno in questa piccola cosa ... », supplicò zia Grathia. «Ma io non l'ho più quel sacchettino; l'ho buttato via: se lo ritroverò ve lo manderò.» Zia Grathia insisté inoltre per sapere l'esito del colloquio che Anania avrebbe avuto con la fidanzata. «Se ella veramente ti vuol bene, si rallegrerà della tua buona azione», gli disse, per confortarlo. «No non ti rifiuterà, anche se tu le dici che non rinneghi tua madre. Ah, l'amore vero non bada ai pregiudizi del mondo: io amavo pazzamente mio marito quando tutto il resto del mondo lo disprezzava ... » «Vedremo», disse melanconicamente Anania, «vi scriverò ... » «Per carità, non scrivermi, gioiello d'oro! Io non so leggere, lo sai, e non voglio far sapere a nessuno i fatti tuoi. Piuttosto mandami un segno. Senti, se ella non ti rifiuta mandami la rezetta avvolta in un fazzoletto bianco; se ti rifiuta, mandala avvolta in un fazzoletto di colore ... » Egli promise di contentare la vecchia. «Ma tu quando tornerai?» «Non so; fra non molto certamente, appena avrò aggiustato i miei affari.» Egli partì senza aver riveduto Olì; un'angoscia infinita l'opprimeva; il viaggio gli sembrava eterno, e sebbene un tenue filo di speranza lo guidasse, non avrebbe voluto arrivare mai a Nuoro. «Ella mi ama», pensava, «forse mi ama come nonna amava suo marito. La sua famiglia mi disprezzerà, mi caccerà; ma ella mi dirà: "Ti aspetterò, ti amerò sempre ... ". Sì, ma che posso io prometterle? Oramai il mio avvenire è distrutto». Un'altra speranza inconfessabile, egli sentiva però in fondo al cuore: che Olì fuggisse ancora: egli non osava palesare a se stesso questa speranza, ma la sentiva, la sentiva; e se ne vergognava, e ne calcolava tutta la viltà, ma non poteva scacciarla ... Nel momento in cui aveva gridato: «Vi ucciderò e mi ucciderò», era stato sincero, ma ora gli pareva che tutto fosse stato un orribile sogno; e nel rivedere la strada e i paesaggi che tre giorni prima aveva attraversato con tanta gioia nell'anima, e nell'avvicinarsi a Nuoro, il senso della realtà lo stringeva acerbamente. Appena arrivato cercò il sacchettino, e per un'idea superstiziosa, - poiché egli credeva che le cose prevedute non avvengono, - lo avvolse in un fazzoletto di colore. Ma poi pensò che i tristi avvenimenti di quei giorni egli li aveva sempre attesi e preveduti, e si irritò contro la sua puerilità. «Del resto, perché debbo mandare il sacchettino? Perché debbo contentarla?», disse fra sé, sbattendo l'involto contro il muro. Ma subito lo raccattò, pensando: «Per zia Grathia. Alle quattro vado dal signor Carboni e gli dico tutto», decise poi. «Bisogna finirla oggi stesso. Bisogna esser uomini. Ed Ora dormiamo.» Si buttò sul letto e chiuse gli occhi. Eran circa le due; un meriggio caldissimo e silenzioso. Egli aveva ancora nelle orecchie il rombo del vento, ricordava il freddo della notte passata a Fonni, e provava una strana impressione. Gli pareva d'esser caduto in un abisso roccioso, fra montagne erte desolate che soffocavano il breve orizzonte; ricordi lontani gli risalivano dal profondo dell'anima: le notti di febbre a Roma, il fragore del vento su Bruncu Spina, una poesia del Lenau: I Masnadieri nella Taverna della landa, la canzone del mandriano che era passato nella straducola la sera in cui zia Tatàna aveva chiesto la mano di Margherita. Ma nello sfondo della sua immaginazione nereggiava sempre la cucina della vedova, col cappotto nero e vuoto come un simbolo, con la figura di Olì dai grandi occhi di gatto selvatico. Che dolore e che tristezza gli causavano ora quegli occhi! Così rimase a lungo, senza poter dormire, ma con gli occhi ostinatamente chiusi, immerso in un cupo torpore. A un tratto pensò alla morte, meravigliandosi che questo pensiero non gli fosse ancora balenato in mente. «Nessuna cosa è più certa della morte; eppure ci tormentiamo tanto per cose che passano inesorabilmente. Tutto passerà: tutti morremo: perché soffrire così? ... E se alle quattro mi suicidassi? Sì.» Per qualche momento l'impressione della fine lo gelò tutto. Passò, ma gli lasciò una oppressione così spaventosa che egli sentì il bisogno di scuotersi per liberarsene. Solo allora si accorse che, in fondo, mentre gli pareva d'esser in preda alla più cupa disperazione, egli sperava sempre. «Margherita! Margherita! Parlerò con lei stanotte; ella mi dirà di tacere ogni cosa a suo padre, di aspettare, di fingere. No, non voglio essere vile. Voglio essere uomo. Alle quattro sarò dal signor Carboni.» Alle quattro, infatti, egli passò davanti alla porta di Margherita, ma non poté fermarsi, non poté suonare. E passò oltre avvilito, pensando di ritornare più tardi, ma convinto, in fondo, che non sarebbe riuscito giammai di aver il colloquio col padrino. Due giorni e due notti trascorsero così in una vana battaglia di pensieri cangianti come onde agitate. Nulla pareva mutato nella sua vita e nelle sue abitudini; egli aveva ripreso a dar lezioni agli studentelli in vacanza, leggeva, mangiava, passava sotto le finestre di Margherita e vedendola la guardava ardentemente: ma durante la notte zia Tatàna lo udiva camminare per la camera, scendere nel cortile, uscire, rientrare, vagare: pareva un'anima in pena, e la buona vecchia lo credeva ammalato. Che aspettava egli? Che sperava? Il giorno dopo il suo ritorno, vedendo un uomo di Fonni attraversare la viuzza, impallidì mortalmente. Sì, egli aspettava qualche cosa ... qualche cosa d'orribile: la notizia che ella fosse scomparsa nuovamente; e si accorgeva benissimo della sua viltà, ma nello stesso tempo era pronto ad eseguire la sua minaccia: «vi seguirò, vi ucciderò, mi ucciderò». In certi momenti gli pareva che niente fosse vero; nella casa della vedova c'era soltanto la vecchia, col suo cappotto e le sue leggende: niente altro ... niente altro ... La seconda notte dopo il suo ritorno udì zia Tatàna raccontare una fiaba ad un bimbo del vicinato: « ... La donna fuggiva, fuggiva, gettando dei chiodi che si moltiplicavano, si moltiplicavano, coprivano tutta la pianura. Zio Orco la inseguiva, la inseguiva, ma non arrivava a prenderla perché i chiodi gli foravan i piedi ... ». Che piacere angoscioso aveva destato quella fiaba in Anania bambino, specialmente nei primi giorni dopo il suo abbandono! Quella notte egli sognò che l'uomo di Fonni gli aveva portato la novella: ella era fuggita ... egli la inseguiva, la inseguiva ... attraverso una pianura coperta di chiodi ... Eccola, ella è là, all'orizzonte: fra poco egli la raggiungerà e la ucciderà; ma egli ha paura, ha paura ... perché ella non è Olì, è il mandriano passato nella viuzza mentre zia Tatàna era dal signor Carboni ... Anania corre, corre; i chiodi non lo pungono, eppure egli vorrebbe che lo pungessero ... Olì, trasformata in mandriano, canta: canta i versi del Lenau: I Masnadieri nella Taverna della landa; ecco, egli sta per raggiungerla e ucciderla, e un gelo di morte lo agghiaccia tutto ... Si svegliò coperto da un sudore freddo, mortale; il cuore non gli batteva più, ed egli scoppiò in un pianto d'angoscia violenta. Il terzo giorno Margherita, meravigliata che egli non scrivesse, lo invitò al solito convegno. Egli andò, raccontò la gita, si abbandonò alle carezze di lei come un viandante stanco si abbandona alle carezze del vento, all'ombra d'un albero, sull'orlo della via; ma non poté dire una sola parola sul cupo segreto che lo divorava. 18 settembre, ore due di notte Margherita, Sono rientrato a casa adesso, dopo aver pazzamente errato per le strade. Mi pare d'impazzire da un momento all'altro ed è anche questa paura che mi spinge a confidarti, - dopo una lunga inenarrabile indecisione, - il dolore che mi uccide. Ma voglio esser breve. Margherita, tu sai chi io sono: figlio della colpa, abbandonato da una madre più disgraziata che colpevole, io sono nato sotto un astro terribile e devo espiare delitti non miei. Inconsapevole del mio triste destino, spinto dalla fatalità, io ho trascinato con me, nell'abisso dal quale io non potrò mai uscire, la creatura che ho amato sopra tutte le creature della terra. Te, Margherita ... Perdonami, perdonami! Questo è il mio più immenso dolore, il rimorso terribile che mi strazierà per tutto il resto della vita, se pure vivrò ... Senti. Mia madre è viva: dopo una esistenza di colpe e di dolori, ella è risorta davanti a me come un fantasma. Essa è miserabile, malata, invecchiata dal dolore e dalle privazioni. Il mio dovere, tu stessa lo dici a te stessa in questo momento, è di redimerla. Ho deciso di riunirmi con lei, di lavorare per sostenerla, di sacrificare la vita stessa, se occorre, per compiere il mio dovere. Margherita, che dirti altro? Mai come in questo momento ho sentito il bisogno di aprirti tutta l'anima mia, simile ad un mare in tempesta, e mai ho sentito mancarmi le parole come mi mancano in quest'ora decisiva della mia vita. La ragione stessa mi manca; ho ancora sulle labbra il profumo dei tuoi baci e tremo di passione e di angoscia ... Margherita, Margherita, la mia vita è nelle tue mani! Abbi pietà di me ed anche di te. Sii buona come io ti ho sempre sognata! Pensa che la vita è breve, e che la sola realtà della vita è l'amore, e che nessun uomo della terra ti amerà come ti amo e ti amerò io. Non calpestare la nostra felicità per i pregiudizi umani, i pregiudizi che gli uomini invidiosi inventarono per rendersi scambievolmente infelici. Tu sei buona, sei superiore: dimmi almeno una parola di speranza per l'avvenire. Ma che dico? Io divento pazzo; perdonami, e ricordati che, qualunque cosa accada, io sarò sempre tuo per l'eternità. Scrivimi subito ... A. 19 settembre Anania, La tua lettera mi sembra un orrendo sogno. Anch'io non trovo parole per esprimermi. Vieni stanotte, alla solita ora, e decideremo assieme il nostro destino. Sono io che devo dire: la mia vita è nelle tue mani. Vieni, ti aspetto ansiosamente ... M. 19 settembre Margherita, Il tuo bigliettino mi ha gelato il cuore; sento che il mio destino è già deciso, ma un filo di speranza mi guida ancora. No, non posso venire; anche volendolo non potrei venire. Non verrò se tu non mi dirai prima una parola di speranza. Allora correrò a te per inginocchiarmi ai tuoi piedi e per ringraziarti e adorarti come una santa. Ma ora no, non posso, e non voglio. Quanto ti scrissi la notte scorsa è la mia irrevocabile decisione; scrivimi, non farmi morire in questa attesa terribile. Il tuo infelicissimo A. 19 settembre, mezzanotte Anania, Nino mio, Ti ho aspettato fino a questo momento, palpitante di dolore e di amore, ma tu non sei venuto, tu forse non verrai mai più, ed io ti scrivo, in quest'ora soave dei nostri convegni, con la morte nel cuore e le lagrime negli occhi non ancora stanchi di piangere. La luna smorta cala sul cielo velato, la notte è melanconica e quasi lugubre e mi pare che tutto il creato si rattristi per la sventura che opprime il nostro amore. Anania, perché mi hai tu ingannato? Io sapevo sì, come tu dici, quello che tu sei, e ti amai appunto perché sono superiore ai pregiudizi umani, perché volevo ricompensarti delle ingiustizie che la sorte aveva tramato a tuo danno, e sopratutto perché credevo che anche tu, anche tu fossi superiore ai pregiudizi, e avessi riposto in me, come io avevo riposto in te, tutta la tua vita. Invece mi sono ingannata; o meglio sei stato tu ad ingannarmi, tacendomi i tuoi veri sentimenti. Ho sempre creduto che tu sapessi che tua madre viveva, e dove si trovava, e la vita che conduceva; ma ero certa che tu, vilmente abbandonato da lei, non facessi più caso d'una madre snaturata, tua sventura e disonore, e la ritenessi come morta per te e per tutti ... Non solo, ma ero certa che se ella osava presentarsi a te, come pur troppo é accaduto, tu non ti saresti degnato neppure di guardarla ... E invece, invece! Invece tu ora scacci chi ti ha lungamente amato e ti amerà sempre, per sacrificare la tua vita e il tuo onore a chi ti ha abbandonato, bambino inconsapevole; a chi ti avrebbe ucciso o lasciato in un bosco, in un deserto, pur di liberarsi di te. Ma è inutile che io ti scriva queste cose, perché tu certamente le capisci meglio di me; ed è inutile che tu continui ad illudermi e ad invocare sentimenti che io non posso avere dal momento che neppure tu li hai. Perché, vedi, io capisco benissimo che tu vuoi sacrificarti non per affetto, e neppure per generosità, - perché probabilmente tu odii giustamente la donna che fu la tua rovina, - ma spinto da quei pregiudizi umani inventati dagli uomini per rendersi scambievolmente infelici. Sì, sì: tu vuoi sacrificarti per il mondo; tu vuoi rovinarti e rovinare chi ti ama, solo per la vanità di sentir dire: "hai fatto il tuo dovere!". Tu sei un fanciullo, e il tuo è un sogno pericoloso ma anche, permettimi di dirtelo, anche ridicolo. La gente, sapendolo, ti loderà, sì, ma in fondo riderà della tua semplicità. Anania, torna in te, sii buono, con te e con me, come tu dici, e sopratutto sii uomo. No, io non dico di abbandonare tua madre, debole e infelice, come essa ti ha abbandonato: no, noi l'aiuteremo, noi lavoreremo per lei, se occorre, ma che essa stia lontana da noi, che essa non venga a mettersi fra noi, a turbare la nostra vita con la sua presenza. Mai! mai! Perché dovrei ingannarti, Anania? Io non posso neppure lontanamente ammettere la possibilità di vivere assieme con lei ... Ah, no! Sarebbe una vita orrenda, una continua tragedia; meglio morire una buona volta che morire lentamente di rancore e di disgusto. Io non ho mai amato quella disgraziata; ora ne sento pietà, ma non posso amarla; e ti scongiuro di non insistere nel tuo pazzo progetto, se non vuoi farmela nuovamente odiare mille volte più di prima. Questa la mia ultima decisione; sì, aiutarla, ma tenerla lontana, che io non la veda mai, che possibilmente il mondo dove vivremo noi ignori che ella esiste. Pensa che anche lei, forse, sarà più contenta di vivere lontana da te, la cui presenza le causerebbe un continuo rimorso. Tu dici che é invecchiata dal dolore, dalle privazioni, miserabile e malata; ma di chi la colpa se non sua? Per te, ed anche per lei, è meglio che ella si trovi in quello stato; così cesserà di vagabondare, e, non ti disonorerà più; ma che ella, dopo averti oltraggiato quando era sana e giovane, non si faccia un'arma della miseria e della debolezza per richiedere il sacrifizio della tua felicità! ... Ah, questo no, non devi permetterlo mai! No, non è possibile che tu compia una aberrazione fatale! A meno che tu non mi ami più e colga l'occasione per ... Ma no, no, no! Neppure voglio dubitare di te, della tua lealtà e del tuo amore! Anania, ritorna in te, ti ripeto, non essere malvagio e crudele con me, che ti diedi tutti i miei sogni, tutta la mia giovinezza, tutto il mio avvenire, mentre vuoi essere generoso verso chi ti ha odiato e rovinato. Abbi pietà ... vedi ... io piango, io ti imploro, anche per te, che vorrei veder felice come sempre sognai ... Ricordati tutto il nostro amore, il nostro primo bacio, i giuramenti, i sogni, i progetti, tutto, tutto ricorda! Fa che tutto non si risolva in un pugno di cenere; fa che io non muoia di dolore; fa che tu stesso non abbi a pentirti del tuo pazzo procedere. Se non vuoi dar retta ai miei consigli interroga persone serie, persone di Dio, e vedrai che tutti ti diranno qual è il tuo vero dovere, che tutti ti diranno di non essere ingrato, né malvagio. Ricorda, Anania, ricorda! Anche ieri notte mi dicevi che dalla vetta del Gennargentu gridasti il tuo amore, proclamandolo eterno. Dunque mentivi; anche ieri notte mentivi? E perché? ... Perché mi tratti così! Che ho fatto io per meritarmi tanto dolore? Possibile che tu non ricordi come ti ho sempre amato? Ricordi una sera che io stavo alla finestra e tu mi buttasti un fiore, dopo averlo baciato? Io conservo quel fiore per ornarne il mio vestito da sposa; e dico conservo perché son certa che tu sarai il mio sposo diletto, che tu non vorrai far morire la tua Margherita (e il tuo sonetto lo ricordi?), che saremo tanto felici, nella nostra casetta, soli soli col nostro amore ed il nostro dovere. Sono io che aspetto da te, subito, una parola di speranza. Dimmi che tutto fu un sogno tormentoso; dimmi che la ragione è ritornata in te, e che ti penti d'avermi fatto soffrire. Domani notte, o meglio stanotte, perché è già passata la una, ti aspetto; non mancare; vieni, adorato, vieni, diletto mio, mio amato sposo, vieni: io ti aspetterò come il fiore aspetta la rugiada dopo una giornata di sole ardente; vieni, fammi rivivere, fammi dimenticare; vieni, adorato, le mie labbra, ora bagnate d'amaro pianto, si poseranno sulla tua bocca amata come ... «No! no! no!», disse convulso Anania, torcendo la lettera senza leggerne le ultime righe. «Non verrò! Sei vile, vile, vile! Morrò ma non mi vedrai mai più.» Coi fogli stretti nel pugno si gettò sul letto, e nascose il viso sul guanciale, mordendolo, comprimendo i singhiozzi che gli gonfiavano la gola. Un fremito di passione lo percorreva tutto, dai piedi alla nuca; le invocazioni di Margherita gli davano un desiderio cupo dei baci di lei, e a lungo lottò acerbamente contro il folle bisogno di rileggere la lettera sino in fondo. Ma a poco a poco riprese coscienza di sé e di ciò che provava. Gli parve di aver veduto Margherita nuda, e di sentire per lei un amore delirante e un disgusto così profondo che annientava lo stesso amore. Come ella era vile! Vile sino alla spudoratezza. Vile e coscientemente vile. La Dea ammantata di maestà e di bontà aveva sciolto i suoi veli aurei ed appariva ignuda, impastata d'egoismo e di crudeltà; la Minerva taciturna apriva le labbra per bestemmiare; il simbolo s'apriva, si spaccava come un frutto, roseo al di fuori, nero e velenoso all'interno. Ella era la Donna, completa, con tutte le sue feroci astuzie. Ma il maggior tormento di Anania era il pensare che ella indovinava i suoi più segreti sentimenti e che aveva ragione: sopratutto ragione di rimproverargli l'inganno usatole, e di pretendere da lui il compimento dei suoi doveri di gratitudine e d'amore. «È finita!», pensò. «Doveva finire così.» Si rialzò e rilesse la lettera: ogni parola lo offendeva, lo disgustava e lo umiliava. Margherita dunque lo aveva amato per compassione, pur credendolo vile come era vile lei. Ella forse aveva sperato di farsi di lui un servo compiacente, un marito umile; o forse non aveva pensato a nulla di tutto questo; ma lo aveva amato solo per istinto, perché era stato il primo a baciarla, il solo a parlarle d'amore. «Ella non ha anima!», pensò il disgraziato. «Quando io deliravo, quando io salivo alle stelle e mi esaltavo per sentimenti sovrumani, ella taceva perché nella sua anima era il vuoto, ed io adoravo il suo silenzio che mi sembrava divino; ella ha parlato solo quando si destarono i suoi sensi, e parla ora che la minaccia il pericolo volgare del mio abbandono. Non ha anima né cuore. Non una parola di pietà: non il pudore di mascherare almeno il suo egoismo. Eppoi come è astuta! La sua lettera è copiata e ricopiata, sebbene riveli la grossolana ignoranza di lei: quanti "che", ci sono! Mi sembrano martelli, pronti a fracassarmi il cranio. Le ultime righe, poi, sono un capolavoro ... ella sapeva già, prima di scriverle, l'effetto che dovevano produrre ... ella è più vecchia di me ... ella mi conosce perfettamente, mentre io comincio appena adesso a conoscerla ... ella vuole attirarmi al convegno perché è sicura che se io ci vado mi inebrio e divento vile ... Inganno! inganno! inganno! Come la disprezzo ora! Non una parola buona, non uno slancio generoso, niente, niente! Ah, che rabbia!» (torse di nuovo la lettera) «Vi odio tutti; vi odierò sempre! Voglio essere cattivo anch'io; voglio farvi soffrire, schiantare, morire ... Cominciamo!» Prese il sacchettino ancora avvolto nel fazzoletto di colore, e poco dopo lo mandò a zia Grathia. «Tutto è finito!», ripeteva ogni momento. E gli pareva di camminare nel vuoto, fra nuvole fredde, come sul Gennargentu; ma adesso invano guardava sotto, intorno a sé: non via di scampo; tutto nebbia, vertigine, orrore. Durante la giornata pensò cento volte al suicidio; s'informò se poteva presentarsi subito agli esami per maestro elementare o per segretario comunale; andò nella bettola e presa fra le braccia la bella Agata (già fidanzata con Antonino), la baciò sulle labbra. Turbini di odio e di amore per Margherita gli attraversavano l'anima; più rileggeva la lettera più ella gli sembrava perfida; più sentiva d'allontanarsele più l'amava e la desiderava. Baciando Agata ricordava l'impressione violenta che il bacio della bella paesana gli aveva destato un giorno; anche allora Margherita era tanto lontana da lui, un mondo di poesia e di mistero li divideva; e questo stesso mondo, crollato, li divideva ancora. «Che hai?», gli chiese Agata, lasciandosi baciare. «Vi siete bisticciati, con lei? Perché mi baci?» «Perché mi piaci ... Perché sei puzzolente ... » «Tu hai bevuto», diss'ella, ridendo. «Se ti piacciono le donne così, puoi andare da Rebecca ... Se però Margherita viene a saperlo!» «Taci!», diss'egli, adirandosi. «Non pronunziar neppure il suo nome ... » «Perché?», chiese Agata, freddamente maligna. «Non diverrà mia cognata? È forse diversa da noi? È una donna come noi. Perché noi siamo povere? Chissà poi se anch'ella sarà ricca! Se fosse stata certa di ciò, forse ti avrebbe tenuto sempre a bada finché trovava un partito migliore di te!» «Se non la finisci ti batto ... », diss'egli furibondo. Ma l'insinuazione di Agata accrebbe i suoi sentimenti: oramai egli riteneva Margherita capace di tutto. Verso sera si mise a letto, con la febbre, deciso a non alzarsi, l'indomani, affinché Margherita venisse a sapere ch'egli era malato, e ne soffrisse. Giunse ad immaginarsi una segreta visita di lei; e pensando alla scena che ne sarebbe seguita, tremava di dolcezza. Ma ad un tratto questo sogno gli apparve qual era, puerilmente sentimentale, e ne provò vergogna. Si alzò ed uscì. Alla solita ora si trovò davanti al portone di Margherita. Ella stessa aprì. Si abbracciarono e si misero entrambi a piangere; ma appena Margherita cominciò a parlare, egli sentì un invincibile disgusto per lei, poi un senso di gelo. No, egli non l'amava più, non la desiderava più. Si alzò e andò via senza pronunziar parola. Giunto in fondo alla strada tornò indietro, s'appoggiò al portone e chiamò: «Margherita!». Ma il portone rimase chiuso.

Mi disse che la Obinu ha un passato tenebroso, che ha abbandonato in Sardegna due suoi figliuoli, e che adesso continua ad avere qualche relazione equivoca ... Egli interruppe di nuovo la lettera, di cui aveva scritto le ultime righe sotto l'impulso d'un improvviso stordimento. «Sì», pensò, «io sono troppo vicino alle stelle ... e non vedo l'abisso dove ineluttabilmente devo cadere ... » «No, no, no!», disse poi a voce alta, disperatamente, scuotendo la testa. «Perché mi ostino? Essa può essere mia madre, e non si rivela a me per continuare a vivere nel vizio!» Egli singhiozzava senza lagrime, balbettando parole sconnesse e scuotendo follemente il capo; ma ad un tratto balzò in piedi, pallido, rigido, con gli occhi vitrei. «Bisogna uscirne, bisogna che io sappia. Ma perché questa lampada accesa, perché questi quadretti, perché le continue preghiere? Ebbene, appunto per ciò. Ma io ti saprò smascherare, anima perduta, io ti ucciderò!» I suoi occhi balenavano d'odio, ma all'improvviso tremò, si lasciò nuovamente cadere seduto e batté la fronte sul tavolo: oh, avrebbe voluto spaccarsi la testa, non pensare più, dimenticare, annullarsi ... Si sentì vile, gli parve d'essere viscido e nero; d'essere carne della carne venduta di sua madre, anch'egli delinquente, misero, abbietto. Ricordi tumultuosi gli passarono nella mente; rammentò i generosi propositi tante volte accarezzati, il sogno di cercarla e di redimerla, la pietà infinita per l'incoscienza e la irresponsabilità di lei, l'orgoglio che egli provava nel sentirsi così pietoso, la sete di sacrifizio ... Tutto menzogna. Basta un vago indizio, dato da una vecchia rimbambita, per ridestargli nell'anima una tempesta di fango, e suggerirgli l'idea del delitto! Tutto illusione, tutto sogno in «questa cosa strana» che è la vita. «E se fosse illusione anche ciò che penso adesso? Se io mi ingannassi? Se Maria non fosse lei? Ebbene, se non Maria è un'altra», concluse disperato; «vicina o lontana, ella esiste e mi chiama, ed io devo ritornare sui miei passi, ricominciare, ritrovarla, viva o morta. Oh, fosse morta!». Attese il ritorno della padrona, e per calmarsi cercò di analizzare la strana passione che lo tormentava, ripetendo a se stesso che la maggior sua pena proveniva dal crudele contrasto dei due esseri che formavano lo sdoppiamento del suo io. Uno di questi due esseri era un bambino fantastico, appassionato e triste, col sangue malato; era ancora lo stesso bambino che scendeva la montagna natìa sognando un mondo misterioso; lo stesso che nella casa del mugnaio aveva per lunghi anni meditato la fuga senza compierla mai; lo stesso che a Cagliari aveva pianto credendo che Maria Rosa potesse essere sua madre: l'altro essere, normale e cosciente, cresciuto accanto al bambino incurabile, vedeva la inconsistenza dei fantasmi e dei mostri che tormentavano il suo compagno, ma per quanto combattesse e gridasse non riusciva a liberarlo dalla sua ossessione, a guarirlo dalla sua follia. Una lotta continua, un crudele contrasto agitava notte e giorno i due esseri; e il bambino fantastico e illogico, vittima e tiranno, riusciva sempre vincitore. Egli voleva sapere, voleva scoprire, voleva raggiungere il suo intento; e soffriva della vanità della sua ricerca e della speranza di arrivare al suo scopo. Molte volte Anania si era chiesto se, libero dall'amore per Margherita, egli avrebbe sofferto egualmente in questa sua triste ricerca. E sempre s'era risposto di sì. La Obinu rientrò verso sera. «Signora Maria», disse Anania, aprendo l'uscio, «venga; devo dirle una cosa». Ella entrò e si buttò a sedere accanto a lui: ansava per le scale salite di corsa, era insolitamente rossa, con la fronte lucente di sudore. «Perché sta al buio? Che cosa ha da dirmi, signor Anania? Si sente male?» La sua voce era tranquilla: e di nuovo egli sentì cadere i suoi sospetti, e gli parve ridicolo fare una scena a quella donna stanca che doveva apparecchiare la tavola per i suoi pensionanti.

Ella mi ha abbandonato per il mio bene, perché altrimenti io non avrei avuto mai un nome, mai un posto nella società. Rimanendo con lei sarei andato a mendicare; sarei vissuto nella vergogna, forse; forse sarei diventato un ladro, un delinquente ... Sì ... e così come sono non è la stessa cosa? Non sono perduto lo stesso? ... No, no! Non è lo stesso! Così sono figlio delle mie azioni. Però Margherita non vorrà esser mia, perché ... Ma perché? ma perché? Perché non vorrà esser mia? Sono io forse disonorato? Che colpa ho io? Ella mi vuole, sì, ella mi vuole, appunto perché sono figlio delle mie azioni. Chi sa, del resto, che quella donna non sia morta? Ah, perché mi illudo? Essa non è morta, lo sento; è viva, è giovane ancora, quanti anni ha adesso? Trentatré anni, forse; ah, è ben giovane!» Quest'idea lo inteneriva alquanto. «Se ella avesse cinquant'anni non potrei perdonarle. Ma perché mi ha ella abbandonato? Se mi avesse tenuto con sé non sarebbe più caduta: io avrei lavorato, a quest'ora sarei un servo, un pastore, un operaio. Non conoscerei Margherita, non sarei infelice ... Mio Dio, mio Dio, fate che ella sia morta! Ma perché faccio questa stupida preghiera? No, ella non è morta. Ma perché dovrei io cercarla? Non mi ha ella abbandonato? Io sono un pazzo, e Margherita riderebbe se sapesse ch'io combatto una così stupida lotta. Ebbene, sono io forse il primo o l'ultimo figlio della colpa, che si innalza e si fa stimare? Sì, ma lei è l'ombra. Io devo cercarla e farla vivere con me, e una donna onesta non vorrà mai vivere con noi: io e lei saremo la stessa persona. Domani io devo scrivere a Margherita. Domani. Se ella mi volesse egualmente?» Questo pensiero lo colmò di dolcezza; ma subito dopo ne sentì tutta l'assurdità e ricadde nella disperazione. Né l'indomani né poi egli poté svelare a Margherita il segreto proposito che lo incalzava, lo sollevava e lo avviliva continuamente. «Glielo dirò a voce» pensava, ma sentiva che tanto meno a voce avrebbe avuto il coraggio di spiegarsi, e s'adirava per la sua viltà, ma nello stesso tempo si confortava nella vergognosa certezza che la sua viltà appunto gli avrebbe impedito di compiere quella che egli chiamava la sua missione. A volte, però, questa missione gli appariva così eroica che l'idea di rinunziarvi lo rattristava. «La mia vita sarebbe inutile, come per la maggior parte degli uomini, se io rinunziassi a ciò!» pensava. Ed in quei momenti di romanticismo non gli dispiaceva la lotta fra il suo dovere terribile e il suo amore ingrandito morbosamente dalla lotta. Dopo la sera della rissa non s'affacciò più al balcone sulla strada; la vista delle casette, dalle quali neppure i ricorsi alla questura riuscivano a snidare le triste inquiline, gli faceva male; tuttavia, rientrando a casa, egli vedeva spesso le due donne, o sul balcone, fra i garofani e gli stracci, o sedute sul limitare della porta. Una specialmente quella del Capo di Sopra alta e snella, coi capelli nerissimi e gli occhi d'un turchino vivo, attirava la sua attenzione. Si chiamava Maria Rosa; era quasi sempre ubriaca e a giorni vestiva miseramente e girava per le strade scarmigliata, scalza o in ciabatte rosse, a giorni usciva elegantemente vestita, in cappello, in mantellina di velluto viola guarnita di piume bianche, qualche volta si metteva sul balcone, fingendo di cucire, e cantava, con voce rauca, graziosi stornelli del suo paese, interrompendosi per gridare insolenze ai passanti che la molestavano coi loro scherzi, o alle vicine con le quali litigava continuamente perché ne seduceva i mariti ed i figli. La sua voce giungeva fino alla camera di Anania, ed egli l'ascoltava con dolore. Maria Rosa gli destava rabbia e pietà, e sebbene la sapesse del tal paese, della tale famiglia, qualche volta egli tornava nella folle supposizione che ella potesse essere sua madre. Sì, dovevano per lo meno rassomigliarsi ... Ah, che triste e terribile ossessione! Una sera poi, Maria Rosa e la compagna lo fermarono in mezzo alla strada, invitandolo a seguirle; egli fuggì, preso da un tremito di disgusto e d'orrore. Dio! Dio! Gli pareva fosse stata lei a fermarlo ... Egli studiava con ardore e scriveva lunghe lettere a Margherita. Il loro amore era perfettamente simile a centomila altri amori fra studenti poveri e signorine ricche: ma ad Anania pareva che nessuna coppia al mondo potesse amarsi come si amavano loro, e che nessun uomo avesse mai amato con l'ardore con cui egli amava. Nonostante il dubbio che Margherita potesse abbandonarlo se egli ritrovava sua madre, era felice del suo amore; la sola idea di riveder la fanciulla gli dava vertigini di gioia. Contava i giorni e le ore; in tutto il suo avvenire misterioso e velato non scorgeva che un punto luminoso: l'incontro con Margherita, al suo ritorno per Pasqua. Anche a Cagliari, durante il primo anno di liceo, egli non ebbe amici e neppure conoscenti; quando non studiava o non vagava solitario in riva al mare, sognava sul balcone, come una fanciulla. Un giorno, verso il tramonto, salì sulle colline di monte Urpino, al di là dei campi ove i mandorli fiorivano dal gennaio, e s'inoltrò nella pineta. Sul musco dei viali abbandonati il sole calante tra i pini rosei gettava riflessi delicati; a sinistra s'intravedevano prati verdi, mandorli in fiore, siepi rosse al tramonto; a destra boschetti di pini, e chine ombrose coperte di iris. Egli non sapeva dove fermarsi, tanto i posti erano deliziosi; colse un fascio d'iris, e infine salì sopra una cima verde di asfodeli, dalla quale si godeva la triplice visione della città rossa al tramonto, degli stagni azzurrognoli e del mare che pareva un immenso crogiuolo d'oro bollente. Il cielo ardeva; la terra esalava delicate fragranze; le nuvole azzurrastre, che disegnavano sull'orizzonte d'oro profili di cammelli e figure bronzee, davano l'idea d'una carovana e ricordavano l'Africa vicina. Anania si sentiva così felice che sventolò il fazzoletto e si mise a gridare salutando un essere invisibile, - che era l'anima del mare, del cielo, lo spirito dei sogni: Margherita. D'allora in poi le pinete di monte Urpino diventarono il regno dei suoi sogni: a poco a poco egli si considerò talmente padrone del luogo che si irritava quando incontrava qualche persona nei viali solitari: spesso rimaneva nella pineta fino al cader della sera, assisteva ai rossi tramonti riflessi dal mare, o seduto fra le iris guardava il sorgere della luna, grande e gialla, fra i pini immobili. Una sera, mentre stava seduto sull'erba di una china, al di là di un piccolo burrone, udì un tintinnio di greggie pascenti, e fu assalito da un impeto di nostalgia. Davanti a lui, al di là del burrone, il viale perdevasi in una lontananza misteriosa: i pini rosei sfumavano sul cielo puro, il musco aveva riflessi di velluto; Venere splendeva sull'orizzonte roseo, sola e ridente, quasi affacciatasi prima delle altre stelle per godersi la dolcezza della sera senza essere disturbata. A che pensava la solitaria stella? Aveva un amante lontano? Anania osò rassomigliarsi all'astro radioso, così solo nel cielo come egli era solo nella pineta. Forse in quell'ora Margherita guardava la stella della sera. E che faceva zia Tatàna? Il fuoco ardeva nel focolare, e la buona vecchia preparava melanconicamente il pasto della sera, pensando al suo caro fanciullo lontano. Ed egli, egli non pensava quasi mai a lei; egli era un ingrato, un egoista. Ah, ma che poteva farci? Se al posto di zia Tatàna ci fosse stata un'altra donna, il suo pensiero sarebbe volato costantemente a lei. Invece quella donna ... Dove era quella donna? Che faceva in quell'ora? Scorgevano anche i suoi occhi la stella della sera? Era morta? Era viva? Era ricca o mendicante? E se fosse in carcere? Egli si meravigliò di non arrossire a questo pensiero. Per la prima volta, dopo tanti anni, provò un senso di pietà, come quando, bambino, cercava di scaldare coi suoi piedini i piedi gelati di Olì ... Finalmente il giorno del ritorno arrivò. Egli partì, quasi oppresso dalla sua felicità: aveva paura di morire in viaggio, di non arrivare a rivedere le care montagne, la nota strada, il dolce orizzonte, il viso di Margherita ... «Se però io morissi ora», pensava, con la fronte appoggiata alla mano, «se morissi ora ella non mi dimenticherebbe mai più ... » Fortunatamente arrivò sano e salvo; rivide le care montagne, le valli selvaggie, il dolce orizzonte, il viso paonazzo di Nanna venuta ad incontrarlo alla stazione. Ella aspettava da più di un'ora; appena vide il bel volto di Anania aprì le braccia e cominciò a piangere. «Figliuolino mio! Figliuolino mio!» «Come la va? Prendi!», egli gridò, e per impedirle di abbracciarlo le gettò addosso la valigia, un involto, un cestino. «Avanti! Avanti! Va avanti, passa di qui; io devo passar di là. Andiamo.» Si mise quasi a correre, e sparve, lasciando la donna stupefatta. Ecco, ecco. Egli deve rivedere la nota strada: ella lo aspetta alla finestra, e non hanno bisogno di testimoni per rivedersi. Come le case di Nuoro sono piccole e le strade strette e deserte! Meglio! Fa quasi freddo, a Nuoro! La primavera c'è, ma è ancora pallida e delicata come una fanciulla convalescente. Ah, ecco alcune persone che s'avanzano: fra esse è Franziscu Carchide che, riconoscendo lo studente, comincia a far gesti di gioia. Che rabbia! «Ebbene, come stai? Ben tornato! Come ti sei fatto grande! Ed elegante, poi! E che scarpette da damerino! quanto le hai pagate?» Finalmente Anania è libero. Avanti, avanti! Il suo cuore batte, batte sempre più forte. Una donna s'affaccia al limitare di una porta, guardando curiosamente; ma Anania passa, fugge, e da lontano sente esclamare: «È lui, sì, proprio lui!». Ebbene, sì, è proprio lui, che vi importa? Ah, ecco, ecco; ecco la strada che conduce all'altra, alla nota, alla cara strada. Finalmente: non è un sogno? Anania sente dei passi e si stizzisce; è un bambino che attraversa di corsa la strada, lo urta, vola via. Egli vorrebbe correre così, ma non può, non deve. Prende anzi un aspetto rigido, composto, si accomoda la cravatta, si sbatte con due dita i risvolti del soprabito. Già; egli ha un soprabito lungo, chiaro, elegante che lei non ha ancora veduto. Lo riconoscerà subito con quel soprabito? Forse no. Ecco finalmente la nota strada! Ecco il portone rosso, ecco la casa bianca con le finestre verdi. Margherita non c'è! Perché? Perché, Dio mio? Egli si ferma, palpitando. Fortunatamente la strada è deserta: solo una gallina nera passeggia, alzando molto le zampe prima di posarle per terra, e si diverte a battere il becco sul muro ... Basta, bisogna passare oltre, a scanso di essere notato da qualche occhio curioso. Egli comincia a camminare lentamente come la gallina; e benché le finestre rimangano vuote egli non cessa di fissarle un istante, e si commuove e sente il cuore saltargli in gola. Ad un tratto gli parve di svenire. Margherita s'era affacciata, pallida di passione, e lo guardava con occhi ardenti. Egli impallidì e non pensò neppure a salutare, a sorridere; non pensò a nulla, e per parecchi istanti non vide che quegli occhi ardenti dai quali gli pioveva una voluttà ineffabile. Camminò automaticamente, voltandosi ad ogni passo, seguito da quegli occhi inebbrianti; e solo quando Nanna, con la valigia sul capo, l'involto in una mano e il cestino nell'altra, apparve ansante in fondo alla strada, egli trasecolò, sorpreso, e affrettò il passo. Parte Seconda I. Era nell'ora che volge il desìo ai naviganti ed a quelli che stanno per salpare verso ignoti lidi. Anania è fra questi. Il treno lo trasporta verso il mare; cade una limpida sera d'autunno, grave di melanconia; i dentellati monti della Gallura sfumano nelle lontananze violacee, l'aria odora di brughiere; un ultimo paesetto appare, grigio e nero su uno sfondo di cielo rossastro. Anania guarda gli strani profili dei monti, il cielo colorato, le macchie, le roccie, e solo il timore di apparire ridicolo agli altri due viaggiatori, un prete e uno studente già suo compagno di scuola, gli impedisce di piangere. Eppoi, ormai, egli è un uomo. È vero che egli si credeva un uomo fin da quando aveva quindici anni: ma allora si credeva un uomo giovane, mentre adesso si crede un giovine vecchio. Eppure la salute e la gioventù brillano nei suoi occhi; egli è alto, svelto, con due seducentissimi baffetti castanei dalle punte d'oro. La sera cadeva; già qualche stella appariva «sovra i monti di Gallura» e qualche fuoco rosseggiava tra il verde-nero delle brughiere. Addio dunque, terra natìa, isola triste, antica madre amata ma non abbastanza perché una voce potente d'oltre mare non strappi i tuoi figli migliori dal tuo grembo, incitandoli a disertare, come aquilotti, il nido materno, la roccia solitaria. Lo studente guardava l'orizzonte ed i suoi occhi si offuscavano a misura che s'offuscava il cielo. Da quanti anni egli aveva sentito la voce che lo attirava lontano! Ricordava l'avventura con Bustianeddu, il progetto della fuga infantile; poi i continui sogni, il desiderio mai spento di un viaggio verso la terre d'oltre mare: eppure sul punto di lasciar l'isola egli si sentiva triste, e si pentiva di non aver proseguito gli studi a Cagliari. Era stato così felice laggiù! Nell'ultimo maggio Margherita gli era apparsa tra lo splendore fantastico delle feste di Sant'Efes, e insieme con lei, fra allegre brigate di compaesani, egli aveva trascorso ore indimenticabili. Ella era elegante, molto alta e formosa; i suoi capelli splendenti e gli occhi turchini solcati dall'ombra delle lunghe ciglia nere attiravano l'attenzione dei passanti che si voltavano a guardarla. Anania, meno alto e più sottile di lei, le camminava al fianco, trepidante di piacere e di gelosia; gli pareva impossibile che la bella creatura regale e taciturna, nei cui occhi sdegnosi brillava tutta la fierezza d'una razza dominatrice, si abbassasse ad amarlo e neppure a guardarlo. Margherita parlava poco; non era civetta, non cambiava aspetto né voce, quando gli uomini le rivolgevano lo sguardo o la parola; e Anania l'amava anche per questo, e non vedeva che lei, non guardava altra donna che per paragonarla a lei e trovarla inferiore; e più egli diventava uomo e lei donna, e più la passione lo infiammava: spesso gli sembrava impossibile che anni ed anni dovessero ancora passare prima che ella diventasse sua. Durante le ultime vacanze si erano spesso trovati soli, nel cortile di Margherita, favoriti dalla serva che facilitava la loro corrispondenza. Di solito essi tacevano, ma mentre Margherita, o per paura o per pudore tremava, vigile e melanconica, Anania sorrideva completamente dimentico del tempo, dello spazio, delle cose e delle vicende umane. «Perché non mi ripeti le parole che mi scrivi?», le domandava. «Taci! ... Ho paura ... » «Di che? Se tuo padre ci sorprende io mi getterò per terra, gli dirò: "no, non facciamo del male; siamo già uniti per l'eternità ... ". Non aver paura; io sarò degno di te, io ho un avvenire davanti ... Io sarò qualche cosa!» Margherita non rispondeva, e vedendola così bella e gelida, con gli occhi illuminati dalla luna come gli occhi di perla d'un idolo, egli non osava baciarla, ma la fissava silenzioso e sussultava, non sapeva bene se di angoscia o di felicità. «Il mare è calmo. Dio sia lodato!», disse uno dei viaggiatori. Anania si scosse dai suoi ricordi e guardò la distesa verde- dorata del mare, che nel crepuscolo pareva una pianura illuminata dalla luna. Le rovine d'una chiesetta, un sentiero attraverso le macchie, perduto sull'estremo limite della costa, quasi tracciato da un sognatore che l'avesse condotto fin laggiù con la speranza di proseguirlo sul velluto marezzato delle onde, attirarono gli sguardi di Anania. Egli pensò a Renato del quale gli parve intravedere il triste profilo su una roccia guardante il mare ... No, non è lui, è un altro eroe di Chateaubriand, Eudoro, che sulle roccie marine della Gallia selvaggia sogna le rose dell'Ellade lontana ... Ebbene, no, non è neppure Eudoro ... è un poeta che si domanda: Questa roccia granitica erta sul mar che fa? ... Ma la roccia, la chiesetta ed il sentiero sono già spariti e con essi il profilo dell'incerto personaggio ... La tristezza dello studente aumentava: domande gravi e inutili gli attraversavano la mente, cadevano senza risposta, come pietre buttate nell'acqua. Perché non poteva egli fermarsi su quella costa selvaggia, dolcemente melanconica, e perché il profilo intraveduto sulla roccia non poteva essere il suo? Perché non poteva egli costrurre una casa sulle rovine della chiesetta? Perché pensava a queste stupide romanticherie, perché andava a Roma, perché studiava, perché studiava leggi? Chi era lui? Che cosa era la vita, la nostalgia, l'amore, la tristezza? Che cosa faceva Margherita? Perché egli l'amava? E perché suo padre era servo? E perché suo padre lo aveva replicatamente avvertito di visitare, appena giunto a Roma, quei luoghi dove si conservano monete d'oro ritrovate sotterra o nelle antiche rovine? Suo padre era o no un delinquente, o un pazzo affetto dall'idea fissa dei tesori? Che aveva egli ereditato da suo padre? L'idea fissa in forma diversa? Era dunque soltanto un'idea fissa, una malattia mentale, il pensiero costantemente rivolto a quella donna? Ma trovavasi ella veramente a Roma, e la ritroverebbe egli? «Anninia», disse con voce beffarda l'altro studente, dando ad Anania il nomignolo che i compagni gli avevano affibbiato, «fai la nanna? Su, via, non piangere, la vita è fatta così: un biglietto per viaggio circolare, con diritto di fermate più o meno lunghe. Consolati almeno che il mal di mare non verrà a interrompere i tuoi sogni d'amore ... » Infatti il mare era calmissimo e la traversata cominciò coi migliori auspici. La luna nuova calava illuminando fantasticamente le coste e la roccia enorme di Capo Figari, sentinella ciclopica vigilante il melanconico sonno dell'isola abbandonata. Addio, addio, terra d'esilio e di sogni! Anania rimase immobile, appoggiato al parapetto del piroscafo, finché l'ultima visione di Capo Figari e delle isolette, sorgenti azzurre dalle onde come nuvole pietrificate, svanirono tra i vapori dell'orizzonte; poi sedette sulla panchina, battendosi dispettosamente un pugno sulla fronte per ricacciar dentro le lagrime che gli velavano gli occhi; e rimase lì, pallido e sconvolto, intirizzito dalla brezza umida, finché vide la luna, rossa come un ferro rovente, calare in una lontananza sanguigna. Finalmente si ritirò, ma tardò ad assopirsi; gli pareva che il suo corpo s'allungasse e si restringesse incessantemente, e che una interminabile fila di carri passasse sopra il suo petto indolenzito; i più tristi ricordi della sua vita gli tornarono in mente: gli sembrava di udire, nello scroscio delle acque frante dal piroscafo, il rumore del vento sopra la casetta della vedova, a Fonni ... Oh, come, come la vita era triste, inutile e vana! Che cosa era la vita? Perché vivere? Così, tristemente, si assopì; ma svegliandosi si sentì un altro, agile, forte, felice. Si era addormentato in un tetro paese di dolore, fra onde livide vigilate da una luna sanguigna: si svegliava in mezzo ad un paese d'oro, in un paese di luce, - vicino a Roma. «Roma!», pensò, palpitando di gioia. «Roma, Roma! Patria eterna, abisso d'ogni male e fonte d'ogni bene!» Gli pareva di poterla abbracciare tutta, di muovere alla conquista del mondo intero. Già a Civitavecchia, attraversando la città umida e nera sotto il cielo mattutino, tutto gli sembrava bello, e diceva allo studente Daga: «Vedi, mi par d'essere nel vestibolo d'una grotta marina meravigliosa». Il Daga, che aveva già vissuto un anno a Roma, sorrideva beffardo, invidiando l'entusiasmo enfatico del suo compagno. L'arrivo rombante del diretto diede al giovane provinciale sardo un senso di terrore, la prima impressione vertiginosa d'una civiltà quasi violenta e distruggitrice. Gli parve che il mostro dagli occhi rossi lo portasse via, come il vento porta la foglia, lanciandolo nel turbine della vita. A Roma i due studenti andarono ad abitare al terzo piano di una casa in Piazza della Consolazione, presso una vedova, madre di due graziose ragazze telegrafiste, maestre, dattilografe, civette. I due studenti dormivano nella stessa camera, vasta, ma poco allegra, divisa da una specie di paravento formato con una coperta gialla; la loro finestra guardava su un cortile interno. La prima volta che Anania guardò da quella finestra provò un senso disperato di sgomento. Non vedeva che muri altissimi, d'un giallo sporco, bucati da lunghe finestre irregolari, e panni miseri, d'un candore equivoco, appesi a fili di ferro; uno di questi fili, con anelli scorrevoli, dai quali pendevano laccetti di spago attorcigliati, passava davanti alla finestra degli studenti. Mentre Anania guardava con disperata tristezza i muri perdentisi sul pallido cielo della sera, Battista Daga scosse il filo e cominciò a ridere: «Guarda, Anninia, guarda come gli anelli e i laccetti di spago ballano. Sembrano vivi. Così è la vita: un filo di ferro attraverso un cortile sporco: gli uomini si agitano, sospesi sopra un abisso di miserie». «Non rompermi le scatole», disse Anania, «sono abbastanza melanconico! Usciamo, mi par di soffocare.» Uscivano, camminavano, si stancavano, storditi dal rumore delle carrozze e dallo splendore dei lumi, dal passaggio violento e dal rauco urlo delle automobili. Anania si sentiva triste, tra la folla; gli pareva d'essere solo in un deserto, e pensava che se si fosse sentito male e avesse gridato nessuno lo avrebbe udito e soccorso. Ricordava Cagliari con nostalgia struggente; oh, balcone incantato, orizzonte marino, dolce occhio di Venere! qui non esistevano più né stelle, né luna, né orizzonte: solo un disgustoso ammasso di pietre, un pullulamento di uomini che allo studente barbaricino parevano d'una razza diversa e inferiore alla sua. Veduta attraverso lo sbalordimento, la stanchezza dei primi giorni, la suggestione melanconica del buio appartamentino di Piazza della Consolazione, Roma gli dava una tristezza quasi morbosa; nella città vecchia, dalle vie strette, dalle botteghe puzzolenti, dagli interni miserabili, dalle porte che parevano bocche di caverne, dalle scalette che sembrava si perdessero in un tenebroso luogo di dolore, egli ricordava i più miseri villaggi sardi; nella Roma nuova si sentiva smarrito, tutto gli appariva grande, le strade tracciate dai giganti per giganti, le case montagne, le piazze tancas sarde; anche il cielo era troppo alto e troppo profondo. Anche all'Università, dove egli cominciò a frequentare assiduamente i corsi di Diritto civile e penale e le lezioni di Enrico Ferri, lo aspettava una delusione. Gli studenti non facevano altro che rumoreggiare e ridere e beffarsi di tutto. Pareva si beffassero della vita stessa. Specialmente nell'aula IV, mentre si aspettava il Ferri, il chiasso e il divertimento oltrepassavano il limite; qualche studente saliva sulla cattedra e cominciava una parodia di lezione accolta da urli, fischi, applausi, grida di «Viva il Papa», «Viva Sant'Alfonso de' Liguori», «Viva Pio IX». Qualche volta lo studente, dalla cattedra, con una faccia tosta indescrivibile imitava il miagolar del gatto o il canto del gallo. Allora le grida e i fischi raddoppiavano; venivano lanciate pallottole di carta, pennine, fiammiferi accesi, finché l'arrivo del professore, accolto da applausi assordanti, metteva fine alla scena. Anania si sentiva solo, triste fra tanta gioia, e gli sembrava di appartenere ad un mondo diverso da quello ove era costretto a vivere. Solo quando il professore cominciava a parlare, egli provava una commozione profonda, quasi un senso di gioia. Fantasmi di delinquenti, di suicidi, di donne perdute, di maniaci, di parricidi, passavano, evocati dalla voce possente del professore, davanti al pensiero turbato di Anania. E fra tante figure egli ne distingueva una, che passava e ripassava davanti a lui, ad occhi bassi. Ma invece di fissarla con orrore egli la guardava con pietà, col desiderio di stenderle la mano. Una sera lui e il Daga attraversavano Via Nazionale: lo splendore delle lampade elettriche si fondeva col chiarore della luna: le finestre del palazzo della Banca erano tutte vivamente illuminate. «Sembra, che tutto l'oro racchiuso nella Banca brilli attraverso le finestre», disse Anania. «Ma bbraaavooo! Si vede che la mia compagnia ti dirozza.» «Sono più che mai romantico stasera. Andiamo al Colosseo!» Andarono. Si aggirarono a lungo nel divino mistero del luogo, guardando la luna attraverso ogni arco; poi sedettero su una colonna lucente e sospirarono entrambi. «Io sento una gioia simile al dolore,» disse Anania. Il Daga non rispose, ma dopo un lungo silenzio disse: «Mi sembra d'essere nella luna. Non ti pare che nella luna si debba provare ciò che si prova qui, in questo gran mondo morto?». «Sì», disse Anania, con voce flebile. «Questa è Roma.» Al ritorno passarono ancora per Via Nazionale. Chiacchieravano in dialetto. Era tardi, e su e giù, attraverso i marciapiedi quasi deserti vagavano molte farfalle notturne, così le chiamava il Daga. A un tratto una di esse passò accanto a loro e li salutò in dialetto sardo. «Bonas tardas, pizzoccheddos!» Era alta, bruna, con grandi occhi cerchiati: la luce elettrica dava al suo piccolo viso, emergente dal collo di pelo d'un soprabito chiaro, un pallore cadaverico. Come a Cagliari, la sera in cui Rosa e la compagna lo avevano fermato, Anania sussultò, preso da un senso d'orrore, e trascinò via il Daga che rispondeva insolentemente alla donna. Era lei? Poteva esser lei? Era una sarda ... poteva esser lei! II. Sdraiato sul suo lettuccio, dopo ore ed ore di amarezza, di dubbio, di opprimente melanconia, egli pensava: «È inutile illudermi: non sono pazzo, no; ma non posso più vivere così; bisogna ch'io sappia ... Oh, fosse morta! fosse morta! Bisogna che io cerchi. Non sono venuto a Roma per questo? Domani! domani! Dal giorno che arrivai ripeto questa parola, e l'indomani arriva ed io non faccio niente. Ma che posso fare? Dove devo andare? E se la trovo?». Ah, era di questo che egli aveva paura. Non voleva neppur pensare a quanto poteva accadere dopo ... Improvvisamente si domandò: «E se mi confidassi col Daga? Se io ora gli dicessi: "Battista, devo uscire, devo recarmi in questura per chiedere informazioni ... ". Ah, non ne posso più! Sono tanti e tanti anni che io trascino con me questo peso: ora vorrei liberarmene, gettarlo via come si getta un carico opprimente ... liberarmene, respirare ... Bisogna snidarlo questo verme roditore. Mi diranno che sono uno stupido, mi convinceranno che lo sono, mi diranno di smettere ... Ebbene, tanto meglio se mi convinceranno ... Che giornata triste! Il cielo si abbassa ... si abbassa sempre più ... Avrei sonno? Bisogna ch'io vada subito». Pioveva dirottamente. Anche il Daga sonnecchiava sul suo lettuccio, al di là del paravento. «Battista», disse Anania, sollevandosi, col gomito sul guanciale, «tu non esci?» «No.» «Mi presti il tuo ombrello?» Sperava che il compagno gli chiedesse dove voleva andare, con quel tempo orribile, ma il Daga disse: «Non potresti farmi il piacere di comprartene uno?» Anania sedette sul letto, rivolto al paravento, e mormorò: «Devo andare in questura ... ». E sperò ancora che una voce fraterna gli chiedesse il suo segreto ... Ecco, egli palpitava già pensando come cominciare ... Ma attraverso il paravento una voce beffarda chiese: «Vai a far arrestare la pioggia?». Il segreto gli ripiombò sul cuore, più amaro e grave di prima. Ah, non un paravento, ma una muraglia insuperabile lo divideva dalla confidenza e dalla carità del prossimo. Non doveva chiedere né aspettare aiuto da nessuno; doveva bastare a se stesso. S'alzò, si pettinò accuratamente e cercò nel cassetto la sua fede di nascita. «Prendilo pure, l'ombrello. Ma perché vai?», chiese l'altro, sbadigliando. Egli non rispose. Sulle scale buie si fermò un momento, ascoltando lo scroscio sonoro dell'acqua sull'invetriata del tetto: pareva il rombo d'una cascata, che dovesse di momento in momento precipitarsi entro la casa, già inondata dal fragore dell'imminente rovina. Una tristezza mortale gli strinse il cuore. Uscì e vagò lungamente per le strade lavate dalla pioggia: salì su per una viuzza deserta, passò sotto un arco nero, guardò con infinita tristezza i chiaroscuri umidi di certi interni, di certe piccole botteghe, nella cui penombra si disegnavano pallide figure di donne, di uomini volgari, di bimbi sudici: antri ove i carbonari assumevano aspetti diabolici, dove i cestini di erbaggi e di frutta imputridivano nell'oscurità fangosa, ed il fabbro e il ciabattino e la stiratrice si consumavano nei lavori forzati, in un luogo di pena più triste della galera stessa. Anania guardava: ricordava la catapecchia della vedova di Fonni, la casa del mugnaio, il molino, il misero vicinato e le melanconiche figure che lo animavano; e gli pareva d'esser condannato a viver sempre in luoghi di tristezza e tra immagini di dolore. Dopo un lungo ed inutile vagabondare rientrò a casa e si mise a scrivere a Margherita. «Sono mortalmente triste: ho sull'anima un peso che mi opprime e mi schiaccia. Da molti anni io volevo dirti ciò che ti scrivo adesso, in questo triste giorno di pioggia e di melanconia. Non so come tu accoglierai la rivelazione che sto per farti; ma qualunque cosa tu possa pensare, Margherita, non dimenticare che io sono trascinato da una fatalità inesorabile, da un dovere che è più terribile d'un delitto ... » Arrivato alla parola «delitto» si fermò e rilesse la lettera incominciata. Poi riprese la penna, ma non poté tracciare altra parola, vinto da un gelo improvviso. Chi era Margherita? Chi era lui? Chi era quella donna? Cosa era la vita? Ecco che le stupide domande ricominciavano. Guardò lungamente i vetri, il filo di ferro, gli anellini ed i lacci bagnati e saltellanti su uno sfondo giallastro, e pensò: «Se mi suicidassi?», Lacerò lentamente la lettera, prima in lunghe striscie, poi in quadrettini che dispose in colonna, e tornò a fissare i vetri, il filo di ferro, i laccetti che parevano marionette. Rimase così finché la pioggia cessò, finché il compagno lo invitò ad uscire. Il cielo si rasserenava; nell'aria molle vibravano i rumori della città rianimatasi, e l'arcobaleno s'incurvava, meravigliosa cornice, sul quadro umido del Foro Romano. Al solito, i due compagni salirono per Via Nazionale e il Daga si fermò a guardare i giornali davanti al Garroni, mentre Anania proseguiva distratto, andando incontro ad una fila ciangottante di chierici rossi, uno dei quali lo urtò lievemente. Allora egli parve destarsi da un sogno, si fermò e aspettò il compagno, mentre i chierici s'allontanavano, e il riflesso dei loro abiti scarlatti dava uno splendore sanguigno al lastrico bagnato. «Nella mia infanzia ho conosciuto il figliuolino d'un bandito famoso; il bimbo era già arso da passioni selvaggie, e si proponeva di vendicare suo padre. Ora invece ho saputo che si è fatto frate. Come tu spieghi questo fatto?», domandò Anania. «Quell'individuo è pazzo!», rispose il Daga con indifferenza. «Ebbene, no!», riprese Anania animandosi. «Noi spieghiamo o vogliamo spiegare molti misteri psicologici, dando il titolo di matto all'individuo che ne è soggetto.» «Per lo meno, però, è un monomaniaco. D'altronde anche la pazzia è un mistero psicologico complicato; un albero il cui ramo più potente è la monomania.» «Ebbene, ammetto. Ma l'individuo in questione aveva la monomania del banditismo; aggiungi, monomania atavica. Facendosi frate egli, sebbene uomo quasi primitivo, ha voluto liberarsi dal suo male ... » «E finirà con l'impazzire davvero, quel frate. Un uomo cosciente, colto dal malanno di un'idea fissa qualunque, deve liberarsene secondandola.» «Tu forse hai ragione», disse Anania, pensieroso. E non parlò più finché non arrivarono all'angolo di Via Agostino Depretis. Allora disse, svoltando strada: «Voglio prendere ... mi hanno incaricato di prendere l'indirizzo di una persona ... Devo andare in questura». Il compagno lo seguì, curioso. «Chi è questa persona? Chi ti ha incaricato? È del tuo paese?» Ma Anania non si spiegava. Arrivati davanti a Santa Maria Maggiore il Daga dichiarò che non sarebbe andato oltre. «Allora aspettami qui», disse Anania, senza fermarsi, «ti dirò poi ... » Messo in curiosità il Daga lo seguì per un tratto, poi lo aspettò sulla gradinata della chiesa. «Il dado è gettato?» chiese con enfasi, quando Anania ricomparve. Ma nonostante le sue domande e i suoi scherzi non riuscì a sapere che cosa il suo compagno era andato a fare in questura. Appoggiato al muro Anania guardava l'orizzonte e ricordava la sera in cui, bambino, era salito sulle falde del Gennargentu ed aveva veduto un pauroso cielo tutto rosso, animato da spiriti invisibili. Anche adesso sentiva un mistero aleggiargli intorno, e la città gli sembrava una foresta di pietra attraversata da fiumi pericolosi, e sentiva paura. III. Sì, come si legge nelle vecchie storie romantiche, il dado era gettato. La questura, dopo la domanda e le indicazioni di Anania, fece ricerca di Rosalia Derios, e verso la fine di marzo informò lo studente che al numero tale di Via del Seminario, all'ultimo piano, abitava una donna sarda, affitta-camere, il cui passato e i connotati corrispondevano a quelli di Olì. Questa signora si chiamava, o si faceva chiamare, Maria Obinu, nativa di Nuoro. Abitava in Roma da quattordici anni, e nei primi tempi aveva vissuto un po' irregolarmente. Da qualche anno, però, menava vita onesta - almeno in apparenza - affittando camere mobiliate e facendo pensione. Anania non si commosse troppo nel ricevere queste informazioni. I connotati combinavano; egli non ricordava precisamente la fisonomia di sua madre, ma ricordava che ella era alta, coi capelli neri e gli occhi chiari: e la Obinu era alta, coi capelli neri e gli occhi chiari. Inoltre egli sapeva che a Nuoro non esisteva alcuna famiglia Obinu, e che nessuna donna nuorese viveva e affittava camere a Roma. Evidentemente quindi la Obinu falsava il suo nome e la sua origine ... Tuttavia egli sentì che la donna indicatagli dalla questura non era, non poteva essere sua madre; questa non viveva a Roma dal momento che la questura non riusciva a scoprirla. Dopo giorni e mesi di attesa e di ansia, egli provò come un senso di liberazione. La primavera penetrava anche nel cortile melanconico di Piazza della Consolazione, in quell'enorme pozzo giallo esalante odori di vivande, animato dal canto delle serve e dal gorgheggio dei canarini prigionieri. L'aria era tiepida e dolce; sul cielo azzurro passavano nuvolette rosee, e il vento portava fragranze di rose e di viole. Affacciato alla finestra, Anania si abbandonava ai suoi sogni nostalgici. L'odore delle viole, le nuvole rosee, il tepore della primavera, tutto gli ricordava la terra natìa, i vasti orizzonti, le nuvole che dalla finestra della sua cameretta egli vedeva affacciarsi o tramontare fra gli elci dell'Orthobene. Poi ricordava la pineta di monte Urpino, il silenzio delle cime coperte d'asfodeli e di iris violette, il mistero dei viali vigilati dal puro sguardo delle stelle. E la figura diletta di Margherita dominava i freschi paesaggi natii, circondata di asfodeli e di gigli selvatici, coi capelli di rame sfumati nel fulgore del cielo metallico. La primavera romana non lo commoveva che per le rimembranze: gli sembrava una primavera artificiale, troppo ardente e luminosa, troppo abbondante di fiori e di profumi. Piazza di Spagna, ornata come un altare, con la scalinata coperta di petali di rose mosse dalla brezza, il Pincio con gli alberi avvolti di fiori violacei, le vie profumate dai cestini di narcisi e di ranuncoli che le fioraie, ferme sull'orlo dei marciapiedi, offrivano ai passanti, - tutta questa ostentazione, tutto questo mercato della primavera, dava allo studente l'idea di una festa banale, che a lungo andare rattristava e disgustava. La primavera palpitava al di là dell'orizzonte; giovinetta selvaggia e pura ella scorrazzava attraverso le tancas coperte d'erbe alte aromatiche, e cantava con gli uccelli palustri in riva ai torrenti, e scherzava coi mufloni e con le lepri, fra i ciclamini, sotto le immense quercie sacre ai vecchi pastori della Barbagia, e si addormentava all'ombra delle roccie fiorite di musco, nei voluttuosi meriggi, mentre intorno al suo letto di felci e di pervinche gli insetti dorati ronzavano amandosi, e le api suggevano le rose canine estraendone il miele amaro; amaro e dolce come l'anima sarda. Anania amava e viveva in questa primavera lontana; seduto accanto alla finestra guardava le nuvolette rosee, e s'immaginava di essere un prigioniero innamorato. Una sonnolenza piacevole gli velava lo spirito, togliendogli la forza e la volontà di pensare a determinate cose. Le idee venivano e passavano nella sua mente, - così come le persone passano per la via; lo interessavano per un attimo, ma non si fermavano ed egli le dimenticava subito. Più che mai amava la solitudine; e persino la presenza del compagno lo irritava, anche perché il Daga lo derideva continuamente. «Noi vediamo la vita sotto aspetti ben diversi», gli diceva, «cioè io la vedo e tu non la vedi. Io sono miope e vedo, attraverso lenti fortissime, le cose e le umane vicende, nitidamente, rimpicciolite; tu sei miope e non possiedi neppure un paio d'occhiali.» Talvolta infatti pareva ad Anania di aver un velo davanti agli occhi; egli viveva di diffidenza e di dolore. Anche la sua passione per Margherita, in fondo, era composta di tristezza e di paura. Un giorno, agli ultimi di maggio, egli sorprese il compagno stretto in tenero amplesso con la maggiore delle padroncine. «Sei un bruto», gli disse con disprezzo. «Non amoreggi anche con l'altra sorella? Perché ti burli di entrambe?» «Scusami, stupido: son loro che vengono a buttarmisi fra le braccia, le posso respingere?», chiese cinicamente il Daga. «Poiché il mondo è diventato un gambero, profittiamone. Ora son le donne che seducono gli uomini; ed io sarei più stupido di te se non mi lasciassi sedurre ... fino ad un certo punto ... » «Ma perché certe cose non accadono che a certi tipi? A me no, per esempio.» «Perché agli asini non può succedere ciò che succede agli uomini: eppoi le nostre soavi padroncine hanno, in fondo, l'onesto desiderio di trovarsi un marito e sanno che tu sei fidanzato.» «Io fidanzato? ... », gridò Anania, «chi lo ha detto?» «Chi lo sa? E di una Margherita, anche, che questa volta, meno male, va gettata ante asinos.» «Ti proibisco di ripetere quel nome!», proruppe Anania, andando addosso al Daga. «Capisci, te lo proibisco!» «Abbassa le dita, ché mi cavi gli occhi! Il tuo amore è feroce!» Fremente di collera Anania si mise a impacchettare i suoi libri e le sue carte. «Ah», diceva, a denti stretti, «me ne vado subito, subito. Io non so vivere fra gente curiosa e volgare.» «Addio, dunque!», disse Battista, gettandosi sul letto. «Ricordati almeno che nei primi giorni che siamo giunti, se non c'ero io rimanevi vilmente schiacciato da una carrozza.» Anania uscì, col cuore gonfio di fiele: si diresse automaticamente verso il Corso, e quasi senza avvedersene si trovò in Via del Seminario. Era un pomeriggio ardente; lo scirocco sbatteva le tende dei negozi: l'aria odorava di vernici, di droghe e di vivande. Anania sentiva i suoi nervi fremere come corde metalliche. In Via del Seminario passò in mezzo a uno stormo di chierici e di preti dalle mantelline svolazzanti e mormorò dispettosamente: «Corvi!», A un tratto, accanto a una piccola porta che dava su un andito buio, egli vide un numero, il numero della casa ove abitava Maria Obinu. Entrò, salì all'ultimo piano e suonò. Una donna alta e pallida, vestita di nero, aprì: egli si turbò, sembrandogli di aver veduto altra volta i grandi occhi verdastri di lei. «La signora Obinu?» «Sono io», rispose la donna con voce grave, «No», egli pensò, «non è lei; non è la sua voce.» Entrò. La Obinu gli fece attraversare un piccolo vestibolo buio e lo introdusse in un salottino grigio e triste; egli si guardò attorno, vide una testa di cervo e una pelle di muflone attaccate al muro, e immediatamente sentì i suoi dubbi rinascere. «Vorrei una camera; io sono sardo, studente», disse, esaminando la donna da capo a piedi. Ella era pallida e scarna, col collo lungo, il naso affilato quasi trasparente; ma i folti capelli neri, pettinati ancora alla sarda, cioè a trecce strette appuntate fortemente sulla nuca, le davano un'aria graziosa. «Lei è sardo? Ho piacere ... », rispose disinvolta. «Adesso non ho camere disponibili, ma se lei può pazientare una quindicina di giorni, ho una signorina inglese che deve partire ... » Egli chiese ed ottenne di veder la camera; il letto stava al centro, fra due cataste di libri vecchi e d'oggetti antichi; entro una vasca di gomma, ancora piena d'acqua insaponata, olezzava un fascio di gaggie; dalla finestra si scorgeva un giardinetto melanconico. Sul tavolino Anania vide, fra gli altri, un volumetto che egli amava con passione dolorosa. Erano i versi di Giovanni Cena: Madre. «Ho bisogno di andar subito via dalla casa dove sto; prenderò questa camera, ma intanto, non potrebbe darmene un'altra, fosse anche un buco? ... » Rientrarono nel salottino, ed egli si fermò a guardare la testa imbalsamata del cervo. «È un ricordo di mio padre, che era cacciatore», disse la donna, sorridendo con bontà. «È di Nuoro, lei?» «Sì, ma sono nata là per caso.» «Anch'io sono nato per caso nel villaggio di Fonni», egli disse, guardandola in viso. «Sì, sono nato a Fonni; mi chiamo Anania Atonzu Derios.» Ella non batté palpebra. «No, non è lei!», egli pensò, e si sentì felice. «Per questi quindici giorni le darò la mia camera», disse finalmente la Obinu, cedendo alle insistenze di lui, ed egli accettò. La cameretta pareva la cella d'una monaca; il lettino candido, odorante di spigo, ricordava i semplici giacigli di certe patriarcali abitazioni sarde. E come in quelle abitazioni, Maria Obinu aveva appeso lungo le pareti grigie della sua camera una fila di quadretti e di immagini sacre; tre ceri, poi, e tre crocefissi, un ramo d'olivo e un rosario che pareva di confetti, pendevano in capo al letto; in un angolo ardeva una lampadina davanti ad una immagine dove le Sante Anime del Purgatorio, tinte di livido da un lapis turchino, pregavano tra fiamme insanguinate da un lapis rosso. Anania prese possesso della camera, e ben presto fu riassalito dai suoi dubbi. Perché la Obinu gli cedeva la sua camera? perché si mostrava così premurosa con lui? Mentre egli metteva a posto i suoi libri, Maria bussò e, senza avanzare, gli domandò se desiderava che la lampadina delle «Sante Anime» venisse spenta. «No», egli rispose con voce forte, «venga avanti, anzi, che le faccio vedere una cosa.» Ella entrò, pallida, sorridente; pareva avesse sempre conosciuto il suo inquilino e gli volesse bene. Egli teneva fra le mani uno strano oggetto, un sacchettino di stoffa unta, attaccato ad una catenina annerita dal tempo. Disse, mettendosi l'amuleto al collo: «Veda, anche io sono devoto, questa è la ricetta di San Giovanni, che allontana le tentazioni.» La donna guardava. Improvvisamente cessò di sorridere, ed Anania sentì il suo cuore battere forte. «Lei non crede a queste cose?», domandò Maria. «Ebbene, se non ci crede, almeno non se ne burli. Sono cose sacrosante.» Steso sul lettino odorante di spigo, Anania pensava continuamente al suo segreto. ... E se Maria Obinu era Olì? Se era lei? Così vicina e così lontana! qual filo misterioso lo aveva condotto fino a lei, fino al guanciale su cui ella doveva qualche volta piangere ricordando il figliuolo abbandonato? Che strana cosa la vita! Egli era dunque giunto così al suo destino, solo per forza di una volontà misteriosa che lo aveva guidato quasi a sua insaputa. Ma non era pazzo, dunque? Che sciocchezze, che puerilità! No, non era lei, non poteva esser lei. Ma se lo era? Se ella già sapeva di essere vicina a suo figlio, mentre egli si dibatteva nel dubbio? No, non poteva essere lei. Una madre non può non tradirsi, non può non gridare nel rivedere suo figlio. Era assurdo. - Sciocchezze, idee convenzionali. Una donna sa dominarsi anche tra le più violente emozioni. Essa, poi, che aveva abbandonato e buttato via la sua creatura! Appunto per questo doveva tradirsi, gridare, sussultare. Una madre è sempre una madre. Eppoi Olì, una selvaggia, una semplice figlia della natura, non poteva aver assimilato la perfidia delle donne di città, tanto da fingere come una commediante, da sapersi dominare così! Impossibile. Era assurdo, Maria Obinu era Maria Obinu, simpatica donna, mite e incosciente, che aveva avuto la fortuna, più che la forza, di emendarsi. Non poteva esser lei. Ma intanto egli ricordava la prima notte passata a Nuoro e il bacio furtivo di suo padre, e di momento in momento aspettava che l'uscio s'aprisse, e un'ombra si avanzasse, nel chiarore della lampadina, e un bacio rivelatore gli sfiorasse la fronte! ... «E se ciò fosse ... che farei io?» si chiedeva trepidando. I rumori della città si affievolivano, s'allontanavano, quasi ritirandosi anch'essi, stanchi, verso un luogo di riposo. Anania sentì rientrare i tardivi inquilini, poi tutto fu silenzio, nella casa, nella via, nella città. Ed egli vegliava ancora! Ah, forse quella lampadina? ... «Ora la spengo ... » Si alzò. Un rumore, un fruscio ... È l'uscio che si apre? Oh, Dio! Egli si gettò nuovamente sul letto, chiuse gli occhi e attese. Il cuore e la gola gli pulsavano febbrilmente. Ma l'uscio rimase chiuso, ed egli si calmò e rise di sé. Però non spense la lampadina.

ARABELLA

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De Marchi, Emilio 3 occorrenze

Ogni giorno si faceva un onore e quasi un dovere di dividere cogli sposi il pranzo e un pezzetto di luna di miele: e fu atto d'uomo savio e avveduto per non lasciare Lorenzo abbandonato nei primi tempi alla forza delle abitudini. Dove il figliuolo per ignoranza o per materialità mancava di spirito e di delicatezza, suppliva il babbo con una continua e gelosa vigilanza, usando tutti i riguardi perché la sposina, mezza monaca e mezza bimba, non avesse a soffrire di nulla, si abituasse a capire, a compatire, a contentarsi del meno male, in attesa del bene e dell'ottimo. Lorenzo aveva veramente bisogno di grande compatimento. Cresciuto a caso, nella compagnia di giovani allegri, con un ingegno limitato, chiuso a tutte le sensazioni astratte e filosofiche, portava in casa insieme al puzzo del sigaro e del cognac le mosse del dilettante di cavalli, e le espressioni energiche, che rinforzano all'osteria le cattive partite di scopa. Eran vizi e modi esteriori, che lasciavan vedere, per dir così, come attraverso gli strappi di una camicia, una carnagione sana, un fondo non pervertito, un vecchio ragazzo male avvezzato, non privo di buone intenzioni e di sentimento, un bel matto allegro, se anche si vuole, che nella sua pecorile ignoranza spingeva l'ingenuità fino a lasciarsi corbellare credendo di corbellare. Capitato in mezzo a una compagnia di capi scarichi, tra cui Max Baratti e il marchesino di Brienne, fondatori del famoso Piccione club , si lasciò facilmente ubbriacare dalle adulazioni con cui quei bravi signori avariati nel credito cercarono d'interessarlo in una società per le corse di Senago, che non fece correre che cambiali. Lorenzo pagò per sé e per gli altri, fin che piacque a papà Tognino di pagare; poi ricorse al giuoco e al fido di suo zio Borrola; e infine si trovò immerso fino ai capelli nei debiti. Arabella gli ottenne il saldo: ma quantunque avesse rinunciato ai cavalli, alle donne e agli amici, peggiori delle donne e dei cavalli, il segretario del Piccione club non poteva di punto in bianco trasformarsi in un santo padre, per quanto Arabella e papà Tognino fossero egualmente interessati a salvare un'anima. Nelle prime settimane del suo matrimonio, quando si trovò nella piena balìa di quell'uomo giovane, robusto, impetuoso, Arabella provò la paura dell'agnellino caduto nelle zampe dell'orso. Man mano che imparava a conoscere suo marito e che scendeva a toccare la materialità di quella scorza vuota, un senso di compassione indefinita si mescolava ai suoi timori e fuggevolmente una voce del cuore domandava se essa avrebbe mai saputo compiere la santa opera di redenzione a cui Dio l'aveva chiamata. Nei momenti in cui era sicura di non esser vista, dal suo cuore umiliato e gonfio si sprigionavano delle lagrime, che ella sentiva affacciarsi alle palpebre non richieste, quasi non avvertite; ma poi un buon momento di Lorenzo (che non mancava di brio naturale) o le buone parole di suo suocero, che nutriva le stesse speranze, riconducevano giorni più sereni. Nelle sue fervide preghiere alla Madonna essa poté illudersi di amare suo marito, verso il quale slanciavasi qualche volta con impeti veramente generosi, che non trovavano che una sola corrispondenza... sempre quella, la più semplice, quella che l'avviliva di più. Ma verso la metà di novembre avvenne un caso che produsse nel suo cuore il miracolo. La luce dissipò il freddo e le tenebre, e la vita che prima conduceva a caso, a balzelloni, per un terreno rotto, seminato di sassi, si trovò aperta una bella strada maestra davanti. Il dottor Taruzzi assicurò che c'era un erede. Essa era madre! L'avvenimento produsse un vivo piacere anche a Lorenzo che da qualche tempo, dominato senza avvedersene dalla dolcezza di Arabella, sforzavasi di far l'uomo serio. Ma chi toccò il cielo col dito fu il nonnetto. Quel sentimento di paternità che l'aveva condotto alle Cascine a cercare una moglie per il figliuolo, provò una scossa elettrica alla notizia che sua nuora gli preparava un erede. I preti e gli avvocati non gli avevano ancora giocato dei tiri birboni, e gli affari da qualche tempo eran passati in seconda linea. Era per il vecchio affarista un momento di tregua, quasi di luna di miele, che preludiava serenamente ai giorni del suo riposo. A ragione gli amici del caffè Martini, dove passava verso sera a leggere i telegrammi di Borsa, vedendolo così alacre, così ringalluzzito e contento, gli domandavano se l'aveva presa lui la sposa. Quanto v'era in lui di meno vecchio, di meno logoro, di meno stanco e di meno ostinato, conveniva come a un banchetto a questa nuova festa della paternità, in cui insieme al sentimento naturale di famiglia, così vivo negli uomini sani, si confondevano, in un misterioso amplesso di indulgenza, il rispetto, la riverenza, la compassione, la tenerezza per le due tenere creature, che eran venute da poco tempo a popolare la sua casa. In attesa che una di queste si rivelasse, concentrava i suoi riguardi verso quella che ne aveva più bisogno. Siccome la gravidanza si presentava con qualche malinconia, come capita spesso alle creature un po' delicate, il nonno fu tutto occhi e tutto orecchi perché alla nuora non avesse a mancar nulla. Tolse in casa una cuoca, fece collocare una stufa americana in modo che nell'appartamento il caldo fosse diffuso uguale e mite in tutte le stanze; e al venire delle prime nebbie, quando Lorenzo usciva la sera a fumare una pipa (il vecchio non aveva mai fumato in vita sua), veniva a tener compagnia alla sposina, attizzava il fuoco sul caminetto; e mentre Arabella sedeva presso la lampada a lavorare all'uncinetto in una babbuccietta di lana rosa, il nonno dava un'occhiata al Corriere della Sera , si faceva contare i casi della giornata, contava egli i suoi, qualche volta pregava sua nuora di mettersi al piano... Una volta, prima dei quarant'anni, anche lui aveva frequentato la Scala con passione. Allora non era ancora inventata la musica difficile. Da orecchiante il suo Verdi lo gustava ancora. Arabella preferiva invece sonar della musica da collegio, del Mozart, del Beethoven, cosette graziose, in cui il vecchio abbonato della Scala sentiva un gusto nuovo, con in mezzo alle note quasi dei ragionamenti che lo facevano pensare. Stava a sentire in silenzio, poi andava a dormire col capo pieno di quella musica, che ragionava a lungo, con dolcezza, in mezzo ai sogni; e gli capitava di risvegliarsi di soprassalto, meravigliato egli stesso, come chi si desta a un tratto e vede la camera rischiarata dall'insolito chiarore di una festa che si celebra di fuori. Di interessi e di affari non parlava mai colla nuora. A che pro? gli affari son maschi e le donne son femmine. Arabella non sapeva nemmeno che ci fosse uno studio Maccagno nella casa: non ci avrebbe capito nulla lo stesso. Era contenta che il matrimonio avesse accomodate molte partite, ma sforzavasi a tenersi fuori dagli affari, anche per resistere alle insistenze della mamma, che faceva i conti sopra una figliuola maritata come sopra una miniera. In quanto al vecchio affarista sentiva istintivamente che una cosa sono gli affaracci della strada e un'altra cosa è l'affezione di famiglia: proponevasi di tener nettamente separate le due amministrazioni, se si può dire così, quella dei numeri e quella del cuore. Quando la cugina Ratta avesse chiusi gli occhi per sempre, era sua intenzione di realizzare il patrimonio, di dare un calcio a tutte le brighe che aveva in Milano, di semplificare la vita, di ritirarsi a sorvegliare i suoi fondi, e a fare il nonnetto di campagna, beato come un papa; e non immaginava che gli affari son come le donne brutte. Si attaccano di più quando temono d'essere abbandonate.

Durante la lunga malattia di sua moglie, Lorenzo, abbandonato a se stesso, precipitò nelle vecchie abitudini, da cui non era uscito se non come un soldato ubriaco, che fa degli sforzi enormi per star diritto innanzi al caporale. Ogni cosa intorno a lui parlava di un uomo incapace di un pensiero d'ordine e di un'elevata aspirazione. Arabella si arrestò un minuto a contemplare quel gran disordine con un senso di scoraggiamento. La vista di un vecchio mazzo di carte, abbandonato sul camino, richiamò ciò che più volte si era presentato al suo pensiero, vale a dire la possibilità che Lorenzo fosse tornato al vizio di prima. Il giuoco è una passione terribile, che non perdona, secondo essa aveva udito dire: e forse la sua bella fornitura di vecchio corallo era andata a pagare un nuovo debito... La mente correva ancora dietro a questi presentimenti quando, in un cassettino a destra, la mano, frugando, cadde sull'astuccio. Fu un attimo di gioia; un attimo. L'astuccio era vuoto. Vuoto! - Questa parola rimbombò nella testa per un istante e rese ottusi i suoi sensi. La prima idea fu di parlarne a suo suocero, che rappresentava il giudice della casa; ma un secondo riflesso fece presente quel che la gente diceva e scriveva anche di lui. Qual giudice? Essa era in mano ai ladri... Questa volgarità di parola scattò, quasi con dispetto, dal fondo amareggiato della sua coscienza, l'avvilì, come se per la prima volta sentisse e vedesse la volgarità della sua casa insudiciare la dignità di una donna onesta. Era una casa di ladri! Come pretendere che questi ladri restituissero la roba sua? che cosa scrivere allo zio Demetrio, che a riscattare quel tesoro di famiglia aveva consacrato tutti i risparmi di una vita sobria e solitaria? E un vagabondo gliel'aveva carpito, approfittando d'un istante di delirio o di debolezza, forse penetrando di notte, come un ladro volgare, nella sua camera... C'era ben motivo di piangere; ma con suo stupore gli occhi non davan lagrime: qualche cosa di forte e di ribelle vi si opponeva. Dai cassettini uscirono dei vecchi ritratti di donne. Eran le antiche simpatie di suo marito, il suo genere, come soleva esprimersi egli stesso, parlando delle avventure galanti degli amici. Eran forse le memorie non distrutte di un passato allegro, forse non dimenticato, forse rimpianto... chi sa? forse ricercato. Anche quelle care creature dalle gonnelle corte, dalle pose arrischiate avevano preso col tempo una forte tinta di tabacco. Le buttò via con schifo. Essa non poteva essere gelosa di questo passato, per quanto ripugni a una donna onesta di vedere attraverso a quali viottoli suo marito è arrivato fino a lei. C'era anche un libro in quel tritume di carta che rappresentava gli affari del signor agente di cambio, un logoro romanzo tradotto, dalla copertina gialla, che portava scritto in un angolo un nome di donna. E dal libro uscì un ritratto, lucido e fresco, che pareva fatto ieri. Era una donna non molto giovine ma di una bellezza maestosa e teatrale. Mentre la moglie onesta sforzavasi di trovare dei sensi logici nella torbida violenza da cui fu assalita, il suono di un passo, e uno sbattere di usci nella stanza vicina, la strappò repentinamente al suo dolore. Richiuse i cassetti, dopo avere deposto il libro, ma nascose l'astuccio e il ritratto nell'ampia manica della vestaglia. Si sforzò di alzarsi, ma non poté, come se a un tratto le venisse meno la forza nelle gambe. Coi gomiti appoggiati alla scrivania, strinse nelle mani la testa che mandava vampe di fuoco, mentre un brivido le corse per tutto il corpo, le parve che tornasse la febbre terribile dei primi giorni. Lasciò passare una lunga visione di mali, come un ingenuo che giunto alla riva di un gran fiume si ferma ad aspettare che l'acqua passi tutta, prima di tentare il guado. Quando la prima tempesta fu alquanto sedata, trovò che in fondo al suo cuore non c'era soltanto del dolore... Non avrebbe osato sperare di trovarci tanto orgoglio! Ed era un orgoglio amaro ed aspro, che dava un vigore insolito alla sua natura, come certe medicine ripugnanti al palato che rinforzano la fibra. Se non le fosse sembrato un assurdo, avrebbe osato dire che dal mezzo di questo suo dolore scaturiva una vena di acre piacere, o, se piacere è dir troppo, di soddisfazione selvaggia, qualche cosa insomma di ancora indecifrabile, che si sarebbe potuto paragonare al sentimento che prova una schiava affranta dalle verghe quando vede il furore del suo padrone scagliarsi su un altro corpo ignudo. Quando aveva essa amato codesto suo padrone, perché dovesse fargli l'onore d'essere gelosa? E perché avrebbe odiata a morte la donna che, frammettendosi, qualche poco glielo contrastava? Era sorpresa di sentirsi così calma e così ragionevole davanti al testimonio della sua umiliazione; ma capì ben presto che da quell'uomo non poteva venire a lei nessuna umiliazione, che quella donna poteva aver nome anche liberazione. L'enorme mare di ribrezzo, che l'anima e il corpo avevano assaporato a goccia a goccia in quattro mesi di matrimonio, soverchiava già i limiti della sua pazienza e del suo dovere. Qualcuno finalmente gettava una fune alla vittima vicina ad affogare. Prese con sé il ritratto di Olimpia come un documento, e pensò di chiedere alla zia Sidonia, già così disposta a compatirla, delle spiegazioni che la buona zia era smaniosa di dare colla speranza di avere nella nipotina una forte alleata nella gran guerra che i parenti e gli offesi facevano ai Maccagno. Per alcuni giorni non si mostrò diversa in casa; anzi cercò di essere lieta e disinvolta. Guardandosi nello specchio si trovò per la prima volta meno pallida. Anche la voce, se doveva giudicare da ciò che ne sentiva, aveva acquistato un tono più vibrato e sicuro. Qualche cosa di forte e d'individuale nasceva in lei. Forse la monachella di Cremenno aveva finito di patire... Dio, la ragione, la giustizia, l'opinione pubblica erano con lei e per lei. Ecco perché, quando l'Augusta venne ad annunciare in ora così insolita che Ferruccio desiderava parlarle, corse in sala, col passo ardito di chi si muove al primo segnale della battaglia.

La zia Colomba nel suo dormire fitto e pesante aveva dimenticata interamente la povera creatura che era venuta a cercare ospitalità in casa sua e fu per trasalire di paura, quando vide un corpo mezzo abbandonato sul tavolino nella luce crepuscolare. Si accostò, posò la mano sulla testina fredda, e presa da quell'impeto di carità umana, che nel cuore della povera gente non è ancora guasto dalle definizioni, si abbassò su quel corpo irrigidito, strinse la testina nelle mani, vi accostò il viso per riscaldarla e seguendo i suggerimenti della buona madre natura, prese a dire sommessamente: "O la mia povera figliuola, o il mio caro angelo, che ho abbandonato qui solo a patire. O il mio povero faccino freddo, le mie povere manine... Il sonno ha tradito anche me..." A questa voce che la compassionava, come se in lei si spezzasse un edificio di ghiaccio che l'aveva sorretta nella sua rigida lotta contro gli uomini, nella debolezza in cui è sempre la coscienza mescolata alle ombre dei sogni, Arabella fu presa da un tal delirio di pianto, che una bambina schiacciata dalle ruote di un carro non avrebbe potuto gridare di più. Quel gran mucchio di mali, che da otto mesi era andato accumulandosi a fuscellini, divampava in una fiammata. Oh avete un bel dire che la donna è nata pel sacrificio, che può colla grazia e colla sua forza morale vincere e abbellire la tristezza d'ogni destino, assurgere al disopra del fango che la circonda, compiere anche in mezzo alle abbiezioni la sua missione d'amore e di pazienza! Avete un bel dire che a lei la fede è sostegno incrollabile: non è vero. La donna ha bisogno d'amare e d'essere amata, come il fiore ha bisogno d'aria e di luce. Quando la violenza delle cose, la debolezza dei giusti, la tirannia dei tristi costringono una debole creatura a respirare aria corrotta, e voi non date a una povera donna che amarezze, oltraggi e fango, null'altro che fango, lasciate almeno che essa gridi del male che le fate... Coi pugni dentro i capelli scarmigliati dalla veglia, Arabella Pianelli gridava veramente in un pianto lamentoso senza lagrime, dilaniata dalla coscienza del suo stato, avvilita dopo una notte di falsa e morbosa resistenza, assiderata dal freddo della febbre e della notte. "Non così, non così la mia creatura...." prese a dirle all'orecchio la Colomba, serrandola alla vita colle braccia e posando la sua testa grigia sui capelli morbidi e biondi della tribolata. "Non così, per amor di Dio. Ciò può far male anche a questo figliuolo malato. Crede che non ci sia un Signore anche per noi? Io capisco e compatisco, angeli custodi, ma non bisogna mai disperare della Provvidenza. Questo è un piangere che rompe il cuore e del nostro cuore dobbiamo rendere conto come di un vasetto d'oro che Dio ci ha dato in custodia. Ti hanno maltrattata, il mio angelo; ti hanno venduto, avvilito, insultato nel tuo sentimento di sposa e di madre, e so che certi mali fan perdere la testa. Tu non hai meritato questi castighi, è vero; ma sappiamo noi se non soffriamo per il bene di qualcuno? Nostro Signore aveva meritata la sua passione? E tante povere mamme che non han da dare da mangiare ai loro figliuoli, meritano di soffrir tanto? Noi non sappiamo nulla dei misteri del mondo, cara Arabella; ma dobbiamo tener dacconto il nostro cuore, perché gli è come il tabernacolo del Santissimo. Se non ci vorranno bene gli uomini, ci vorranno bene gli angeli, ma noi dobbiamo aver sempre pronto il cuore a ricevere il bene che ci vorranno dare o presto o tardi. Su dunque, alza la testa, mio caro angiolo, e vieni fuori con me, un momento. C'è qui la chiesa vicina: noi abbiamo bisogno di essere aiutate a patire..." La Colomba ricondusse la figliuola di nuovo nell'altra stanza. Le ravviò un poco le vesti; fece un po' di fuoco ancora e versò quel resto di caffè che era rimasto in fondo al bricco. La persuase a non mandare per ora la lettera allo zio Demetrio e a cercar invece di quella sua amica di collegio, l'Arundelli, a cui poteva confidare il suo segreto. Meglio di tutto poi sarebbe stato di andare alle Cascine in cerca della mamma. La mamma è il miglior dottore per certi mali...

Il cappello del prete

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Il palazzotto dei Santafusca, d'un grosso e pesante stile seicento, da molti anni abbandonato alle eriche, all'edera e alle ortiche, presentava in mezzo alla sua grande decadenza ancora qualche vestigio dell'antica suntuosità. Un lungo viale di platani secolari menava alla casa attraverso a un parco chiuso, dove il tempo e la negligenza avevano seminato ogni sorta dì erbe e di lappoli, fin sui gradini stessi della doppia scalea, che un gonfio stile rococò portava al terrazzo della casa. Né qui finiva l'invasione del verde. Edere e glicini e viti silvestri si arrampicavano avviluppate anche alle pareti della casa, fin quasi al tetto, stendendo dei larghi tappeti lungo i muri, entrando fra le fessure delle persiane, stringendosi ai ferri delle finestre, ingombrando l'ingresso delle porte. Dei vecchi mozziconi di statue, che una volta rappresentavano Giove o Mercurio, non erano, oggi che un ammasso informe di frasche o di vilucchi, in cui il sasso nero giaceva morto e sepolto e vedevi l'erba uscire fin dalle corrose ardesie del terrazzo, a far beate le lucertole. L'interno era piú squallido. Tutte le vecchie suppellettili, i vasi, gli stemmi, i candelabri, i quadri preziosi avevano emigrato da un pezzo, non a pagare i debiti del padrone, ma a riempire qualche buco della vecchia nave che faceva acqua da tutte le parti. Erano molti anni che il silenzio e la miseria intristivano una casa dove quarant'anni prima aveva regnato il chiasso, il fasto e l'orgoglio d'una grande famiglia dei reame. Non parlo delle feste del principio del secolo e dei trionfi dell'altro secolo, quando i Santafusca comandavano né pìú né meno dei Borboni a Napoli. In quei tempi i vecchi contadini avevano udito dire delle caccie rumorose e principesche del barone Nicola, che andava attorno sempre armato di pistolotto, e si raccontavano avventure tremende di rapimenti, di voluttà, di orgie, di delitti. Che cosa era rimasto di tutta questa potenza? Nulla, anzi meno che nulla, perché "u barone" Coriolano oggi valeva meno di un tronco di statua. Non solo egli era debitore dell'aria che respirava, ma la prigione era sua creditrice. Queste cose rivolgeva egli stesso nella mente la mattina del famoso giovedì, mentre, passeggiando in su ed in giú per la fredda e nuda galleria che dava sul terrazzo, stava aspettando il suo prete. Di tutto l'antico fasto non rimanevano oggi che lembi di broccato sospesi ai muri, brandelli dì cornicioni dorati, le vólte dipinte, qualche buon mosaico; ma la tristezza, il deserto, la rovina erano maggiori. Tranne un paio di cameruccie a pian terreno, dove Santafusca aveva nascosto un letto e quattro sedie per sé, piú come una tana di rifugio che per un luogo di riposo, il resto della casa era interamente vuoto. Chiuse tutte le persiane, chiuse tutte le porte, l'umido e il freddo davano a quelle vaste sale un'aria di grandi sotterranei, in cui risuonava l'eco dei passi e svolazzavano ombre misteriose. Dove la tenebra era piú fitta, per la grande quantità delle frasche, che avevano stesa una tenda sulle gelosie, i pipistrelli avevan fatto il loro sordido nido, ed "u barone" non osava accostarsi per paura di risvegliarne l'immonda tregenda. Alla villa capitava di tempo in tempo, come un fantasma anche lui, quando era piú nero e piú in collera colla fortuna; ma non si fermava mai piú di un giorno o due, il tempo cioè di togliere ciò che si poteva ancora scassinare della vecchia magnificenza; e se ne andava come era venuto, senza vedere nessuno, dopo aver diviso con Salvatore un pranzo alla cacciatora. Salvatore, già avvilito da un colpo di apoplessia, vecchio di settant'anni, mezzo orbo e mezzo scemo, passava il suo tempo in quel deserto, in compagnia del suo cane nero e di alcune capre ch'egli lasciava pascolare nel parco. Viveva anche lui di qualche detrito, come un vecchio sorcio, vendendo l'erba che non mangiavano le capre, coltivando quattro frasche di insalata, e raccogliendo i fichi e le mandorle che cadevano dalle piante. Le capre ed alcune galline provvedevano al suo pranzo e alla sua cena. Nella sua decadenza non riconosceva "u barone" che al suono imperioso della sua voce e al colore nero della barba. Allora un'antica forza svegliavasi in quel vecchio, che dormiva le sue giornate al sole, e, bene o male, Salvatore moveva le gambe e le braccia nel senso delle antiche abitudini di obbedienza e di rispetto, come un vecchio telaio guasto che conserva ancora l'ossatura del suo buon tempo. Il barone arrivò, come dicemmo, il mercoledí, e rimase a dormire la notte alla villa. Dormire non sarebbe la parola giusta, perché troppe cose egli doveva pensare per poter chiudere gli occhi al sonno. Ma non fu nemmeno un vegliare ad occhi aperti. Quel trovarsi solo in un luogo cosí grande e deserto, alla vigilia di un fatto tanto importante, aizzato da una parte dalla paura e dai debiti, aizzato dall'altra da diaboliche suggestioni, disposto a tentare un gran colpo, ma ancora in sospetto di non aver provveduto abbastanza; quel silenzio profondo, quelle ore eterne, quel letto duro imbottito di stecchi, tutto ciò non doveva lasciarlo dormire. Ma d'altra parte la mente si sprofondava in sogni che non avevano nulla a che fare colla realtà. Il prete era ricco e pauroso; minacciato, tormentato, avrebbe comperata la sua salvezza col suo sangue, cioè col suo denaro. Ma come si doveva fare? e poi? e se il prete l'avesse denunciato? Non rimaneva di sicuro che di ammazzarlo. E come si doveva fare? dove tirarlo? Il vecchio era sospettoso. Non trovando il notaio, come era stato convenuto, non avrebbe messo fuori i denari, forse egli veniva senza denari o con titoli legati al suo nome. Bisognava anche su questo punto operare con prudenza, con spirito, fargli una lieta accoglienza, indurlo a parlare, fargli vedere il palazzo, il gran salone di sopra, le cucine, le stalle, le cantine..., ripeteva il suo pensiero, sottolineando, sto per dire, questa parola..., le cantine. Se egli poteva persuadere il prete a discendere una dozzina di gradini, fin dopo il primo portone di legno, una volta rinchiuso là sotto, non c'era né Dio, né Cristo, né Belzebú, che avrebbero potuto aiutarlo. E una volta rinchiuso il battente, addio!... - C'erano dei labirinti spaventosi laggiú, avanzi ancora d'un vecchio castello medioevale, sul quale era sorta la nuova villa, e nessuno osava per paura metterci il piede. Era proprio il paese del nulla e di nessuno, dove le cose compiute non esistono piú. Ma bisognava persuadere il vecchio a discendere... e prima bisognava sincerarsi che avesse i denari indosso, oppure bisognava strappargli dalle unghie una procura, una cambiale, qualche cosa... "U barone" sospirava forte e si rotolava nel letto. Qui cominciavano i sogni. Luoghi bui, antri, caverne, stalle, scuderie, grotte, bassifondi, tinaie, legnaie, pozzi, androni, solai, sotterranei neri, scale nere e umide, e molte ragnatele, grandi, forti, che lo invischiavano, lo avviluppavano, gli impedivano il passo e il movimento delle braccia, e una lotta grottesca tra lui e un grosso ragno nero, che non era in fondo che il suo prete. - Oh! - gridò una volta, mettendosi a sedere sul letto. Albeggiava. Nel giardino e nella selva cinguettavano gli uccelli. Una dolce memoria della sua infanzia, come se passando vicino gli ventilasse il viso coll'ala, ringiovaní e rinfrescò per un istante il suo pensiero. Oh le belle mattine, quando scendeva dal letto e correva a respirare l'aria pura, a rinfrescarsi nella rugiada che sgocciolava dalle rose fiorite! e quando usciva colla civetta a caccia, e quando s'inginocchiava al suono vivo dell'Avemaria! Era ancora la stessa campana che sonava al chiarore dell'alba. Era ancora don Antonio, il prete che lo aveva battezzato... Ma allora era facile il problema della vita. Non c'erano i carabinieri in agguato dietro l'uscio, e non si sapeva ancora che cosa fosse un procuratore del re. Oggi era tutto cambiato. Se il prete non gli portava i denari, tra due giorni un Santafusca sarebbe stato denunciato alla procura. Questo era certo, e per un gentiluomo l'infamia è peggio della morte. Perché non si ammazzava? perché non usciva da questi imbrogli feroci? Certo meglio ammazzarsi, che farsi legare dai questurini. A questa idea,il sangue dei vecchi Santafusca ribolliva nelle sue vene, mandava un grido, saliva alla testa in un fiotto, le livide pareti si tingevano di rosso, e rosse apparivano tutte le piante del giardino.

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

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Ghislanzoni, Antonio 2 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Poi, ricurvando la testa, ruggì coll'accento della disperazione: «Tutti dunque mi hanno abbandonato!» - Non tutti! - rispose una voce melodiosa e soave come la voce di un angelo. - Non tutti! Gli uomini hanno sentenziato nella giustizia, ma Dio viene a te nella misericordia! E l'uomo che parlava di tal guisa, posò la mano sulla spalla del condannato: e questi rianimandosi, levò di nuovo lo sguardo, e vide un giovane levita, coperto di bianche vesti, che con affettuosa pazienza si adoperava a rimuovergli le catene. - Coraggio, fratello mio! - proseguì il sacerdote ... - Voi mi chiamate fratello? - mormorò l'Albani ricurvando la testa. - Io solo ho questo diritto; è un santo diritto, che mi accorda l'altare, che il tribunale degli uomini non potrebbe contendermi. Al condannato, al reietto dalla umana famiglia, la Chiesa accorda un fratello, un compagno di pellegrinaggio, perchè sostenga il paziente sul cammino della espiazione. Questo incarico di sublime pietà venne a me accordato dal grande Levita, ed io gli resi grazie - e il mio cuore esulta di trovarmi teco. - Sorgi dunque! sorgi, cristiano fratello, appoggiati al mio braccio - noi procederemo insieme o insieme cadremo. L'Albani si levò macchinalmente, e discese i gradini del palco sorreggendosi al braccio del giovane sacerdote. Attraversarono a lenti passi la Via della Misericordia Il bianco levita, colla bisaccia sulle spalle, un largo cappello in testa, e un bastone di giunco alla mano, era costretto di soffermarsi ad ogni tratto perchè il compagno riprendesse lena. La lunga via era affatto deserta, le finestre e le porte serrate, la solitudine resa più tetra dalle ombre crepuscolari. Dopo un'ora di cammino, i due pellegrini si trovarono lunge dalle case, all'aperta campagna. Le ombre si eran fatte più dense - la Stella d'Amore spuntava nel firmamento. I due viandanti udirono uno squillo lontano - entrambi si fermarono. - Fratello! - disse il levita - è l'ora di benedizione! Questo suono tu devi conoscerlo. In questo punto tutti i tuoi fratelli piegano il ginocchio, e ringraziano Dio colla preghiera del cuore che in parole non si traduce. Il gran levita dalla torre del tempio inaccessibile, stende la mano a benedire tutti i figli della terra ... Inginocchiati, o fratello! L'Albani piegò le ginocchia - un tremito convulso gli scosse le membra - indi proruppe in uno sfogo di lacrime. Quand'egli levossi per riprendere il cammino: - Ho sentito la voce di Dio! - esclamò l'Albani con accento rassegnato: - io avrò forza per compiere il duro pellegrinaggio ... Espierò la mia colpa ... rivivrò nella stima e nell'amore dei fratelli ... purchè voi non mi abbandoniate! - Abbandonarti! - esclamò il levita colla sua voce d'angelo - qual altra missione può avere il sacerdote di Cristo fuori quella di portare la croce degli infelici, di perdonare e di redimere? I due viandanti si abbracciarono, e di nuovo si posero in cammino. FINE DEL PROLOGO.

In una delle più intime stanze della Villa Paradiso, disteso sovra un candido letto, il pallido volto abbandonato ai guanciali, giace l'amante di Fidelia assopito da un letargo affannoso. Al lato dell'infermo, in atteggiamento di profonda mestizia, sta assiso il Levita che porta il nome di fratello Consolatore. Il suo sguardo e il suo pensiero sembrano assorti in un fascicolo di carte manoscritte. Un lieve rumore di passi ha riscosso il Levita. La porta si apre, e il vecchio custode della villa introduce nella stanza l'illustre primate di medicina Secondo Virey, seguito da due praticanti specialisti, incaricati di esercitare l'azione magnetica sull'infermo. Fratello Consolatore ha ceduto il posto al Primate. I due praticanti distendono le braccia, e il Virey non tarda un istante ad iniziare l'esplorazione. - Sei tu in grado di osservare? - Lo sono - risponde il malato agitando lievemente la testa. - Hai tu compiuto il tuo corso di scienza medica? ... - Io dovetti interromperlo per forza di legge, ma non vi è arcano della scienza che a me sia sconosciuto, - Vedi tu nulla di anormale nel colore del tuo sangue arterioso? - Nulla, - Al cuore? ... - Una leggiera enfiagione al lato destro. - Al cervello? - Delle parziali alterazioni negli organi inferiori; disparizione quasi completa della stearina, e prevalenza di fosforo. - Sei tu ben sicuro di quanto asserisci circa la prevalenza del fosforo? Il malato chiude gli occhi, e dopo breve silenzio risponde affermativamente. Ad un cenno del Virey, i due praticanti magnetisti abbassarono le braccia, e la testa del malato, abbandonata dal fluido possente, ricadde assopita sui guanciali. Il Virey rivolse la parola al fratello Consolatore. - Credo esser nel vero affermando che l'illustre infermo rappresenta una delle tante vittime dello spiritualismo esagerato dell'epoca nostro. Porgetemi la biografia di questo sventurato ... Fratello Consolatore si fece innanzi e consegnò il manoscritto al Primate. - Le alterazioni del sistema arterioso - riprese quest'ultimo con calma solenne - derivano da grandi sofferenze morali accoppiate ad una violenta attività del cervello. Questa attività ha potuto assorbire, distraendola dal cuore, una delle grandi cause efficienti della malattia. Senza questa circostanza, l'aneurisma avrebbe già prodotto le sue conseguenze mortali. Ma la biografia del malato chiarirà meglio la mia diagnosi. Potete voi giurare, o fratello Levita, che in queste pagine non vi abbia parola la quale non sia ispirata dalla verità?. Fratello Consolatore portò la mano al petto e rispose: - Pel corso di cinque anni ho diviso tutte le angosce dell'uomo che ci sta dinanzi: la sua anima si è completamente rivelata alla mia e voi la vedrete riflessa in quelle carte ... - Voi fortunati! - esclamò il Virey con un sorriso di sdegnosa ironia - voi che avete il privilegio di scorgere l'anima attraverso le molecole organiche dalle quali risulta la vitalità ... La scienza di noi profani non giunge a tanto. Vedete voi la vostra anima, fratello Levita? - Non la vedo, ma la sento - rispose fratello Consolatore con umile voce. - E siete proprio persuaso che il battito delle arterie, il respiro dei polmoni, la facoltà di pensare e di agire dipendano da una potenza misteriosa che non ha da fare colla materia? - Il giorno in cui in me cessasse una tale convinzione, arrossirei di esser uomo e invocherei di morire. - Mentre io mi occuperò a leggere queste note biografiche - disse il Virey allontanandosi - voi potrete, o fratello, esercitare le vostre pratiche salutari sull'anima dell'infermo. Più tardi, se i vostri rimedi non avranno giovato, io mi permetterò di tentare qualche prova sulla massa corporea. Vi prometto che il vostro metodo di cura non ne rimarrà pregiudicato. Così parlando, il Virey si ritirò nel vicino gabinetto. Fratello Consolatore cadde in ginocchio presso il letto dell'infermo mormorando una preghiera. Trascorsa un'ora, il Primate di medicina rientrò nella stanza. Ai due praticanti magnetisti che lo accompagnavano si era aggiunto un numeroso drappello di giovani studenti, intervenuti spontaneamente al consulto per erudirsi nella dotta e faconda parola dell'illustre scienziato. Il Virey da più mesi non era venuto a Milano; tutti si attendevano che al letto degli infermi egli avrebbe solennemente proclamate e spiegate le sue grandi teorie innovatrici. L'aspettativa non fu delusa. I giovani si schierarono silenziosi intorno al letto, e il Primate con accento solenne prese a parlare: «L'esplorazione magnetica non mi aveva ingannato; la biografia dell'infermo, e più che altro la storia delle sue ultime peripezie ha confermato i miei criterii sulla natura del male che reclama i nostri soccorsi. «La scienza medica ha fatto, nella prima metà del corrente secolo, dei progressi meravigliosi. Oggimai non vi è legge dell'organismo umano che a noi sia ignota, non vi è forza della natura che abbia potuto sottrarsi alle nostre investigazioni ed al dominio delle nostre esperienze. Ogni mistero si è rivelato; l'organismo umano non ha più segreti per noi; la chimica ha messo a nostra disposizione tutte le sostanze vitali disperse negli elementi, tutti i reagenti salutari che rispondono alle umane fralezze. «Possiamo noi inorgoglirci degli stupendi risultati? «Possiamo noi esultare dei nostri trionfi, mentre gettando uno sguardo sulla umanità ci è forza di constatare il suo incessante deperimento? «I nostri legislatori si mostrano sgomentati della frequenza, per verità spaventevole, dei suicidii individuali; eppure - strano a pensarsi - assistono spettatori indifferenti ed improvvidi al suicidio di tutta la specie umana! «Se fosse lecito dubitare della perfezione matematica dell'universo, che implica necessariamente la perfezione dei singoli elementi cosmici, in verità noi dovremmo chiamare assurda ed improvvida questa grande sproporzione che si manifesta tra la facoltà immaginativa e la forza puramente meccanica dell'uomo. Tutte le malattie, tutte le passioni e le ansie che ci contristano la vita ripetono la loro origine e la loro causa efficiente da questo fenomeno implacabile. Il progressivo sviluppo e la conseguente attività delle forze morali segna nell'organismo dell'uomo le fasi del deperimento che conduce alla morte. Questo attrito incessante fra l'uomo intelligente e l'uomo bruto risponderebbe per avventura ad una misteriosa esigenza dell'ordine universale? Questa legge, così assurda nelle apparenze, costituirebbe forse il principio demolitore, o meglio, la potenza trasformatrice della umanità? La razza umana sarebbe mai destinata a scomparire dopo un lasso di secoli, per vivere e riprendere sotto nuovi aspetti la sua attività cooperativa in un mondo ringiovanito? Ammessa una tale ipotesi, per la quale verrebbero ad eliminarsi molti assurdi concetti, volgendo uno sguardo alle condizioni attuali della umanità, ed ai gravissimi indizi di prostrazione che in ogni parte si manifestano, non possiamo astenerci dall'emettere un grido di allarme - l'agonia della nostra specie è cominciata. Il fuoco della nostra intelligenza ha raggiunto il massimo grado della incandescenza; questo fuoco sta per estinguersi. «Noi siamo all'ultimo atto della grande tragedia umana. Il Titano intelligente si elevò ad una altezza non mai raggiunta, ma la sua caduta sarà irreparabile. «Abbiamo spogliate le foreste, abbiamo traforate e abbattute le montagne, abbiamo aperte delle voragini per rapire alla terra le materie combustibili e gazose; abbiamo deviate le correnti elettriche; dapertutto la mano dell'uomo ha portato lo scompiglio e lo sfacelo. «Che più ci resta a tentare? Dopo aver dominato la terra e le acque, ecco le nostre locomotive ci sollevano ai cieli ... Non basta? Fourrier, coll'innesto delle ali, ci comunica una nuova facoltà, ci promette una trasformazione ... «Affrettiamoci, signori! Ciò che abbiamo fatto per suicidarci è poca cosa ... Voliamo alle regioni dove spaziano le aquile! ... Voliamo colà dove per l'uomo si respira la morte ... «E i sintomi mortali si scorgono dapertutto. L'attività febbrile che nello scorso decennio ha operato dei prodigi, oggi accenna ad estenuarsi; la luce della intelligenza umana è quella del lucignolo prossimo a spegnersi. «E frattanto, qual forza ci soccorre? La terra, nostra madre, e nudrice, è ormai stanca delle nostre violenze. Essa comincia a ribellarsi. I cereali intisichiscono, la vite non dà più grappoli; gli animali che più abbondante e vigoroso ci fornivano l'alimento, si ammorbano e periscono sui pascoli insteriliti. «E già i governi mandano un grido di allarme; e il diritto alla esistenza sancito dalle nuove leggi diverrà fra poco una derisione ... Ma a ciò provveda chi deve. «Il nostro compito, o signori, è quello di affermare, per quanto è da noi, la vita individuale, mentre le masse precipitano nella morte. «L'umanità è colpita là dove ha molto peccato. La prevalenza del succo nerveo ha paralizzato le forze del sangue; l'equilibrio degli elementi vitali è cessato; l'uomo vegetale, l'uomo bruto fu invaso dell'uomo pensante. «Dalle cattedre, dai libri, dai giornali noi abbiamo reagito costantemente contro l'invadenza di uno spiritualismo micidiale. Ma la superbia umana ha sordo l'orecchio alle verità che la umiliano. «La religione riformata, accarezzando l'orgoglio dell'uomo e l'idealismo irrazionale della donna, ha messo il colino alla esaltazione. In ogni paese, in ogni tempo, l'ascetismo fu nemico della nostra scienza; ma a nessuna epoca mai come alla nostra, il prete ed il poeta, questi eterni falsarii della legge naturale, questi allucinati o coscienti mistificatori delle plebi umane, esercitarono più micidiale il loro predominio. I fanatici del nuovo culto impazziscono a migliaia. Parigi, la superba città che era nello scorso secolo denominata il cervello del mondo Parigi non rappresenta oggigiorno che un vasto manicomio. «Ma questi signori vi diranno: ciò che a noi importa è la salute delle anime! Orbene! (e così parlando il Virey si volse a fratello Consolatore) non vi par tempo che noi interveniamo? «Vorrete poi permetterci di tentare qualche esperienza profana sugli atomi vitali che per avventura serpeggiano tuttavia in questo corpo estenuato? ... » Fratello Consolatore non rispose e chinò la testa mestamente. Il Virey, per un istante disarmato dall'umile atteggiamento del Levita, riprese la parola con intonazione più dimessa: «La malattia che ha colpito quest'uomo è una delle più comuni oggidì: la lassitudine nervosa complicata e aggravata da un chiodo fantastico «Lo sfinimento dell'apparato nervoso ripete la sua origine da troppo intense e prolungate esercitazioni della macchina cerebrale; il chiodo fantastico è frutto di una troppo costante e inesaudita surreccitazione dei globuli simpatici. Il bagno fosforico e le fasciature elettro-magnetiche applicate con prudente moderazione potrebbero in breve tempo rinvigorire il sistema pregiudicato; ma un tal metodo di cura aggraverebbe la crisi dell'organo più compromesso. «Signori! ... occhio al cervello! ... occhio al padrone, al governatore, al tiranno della casa vitale! Abbiate per fermo che nessuna malattia è mortale quando l'organo tiranno che siede là dentro conservi piena ed intatta la sua forza di volere. «Affrettiamoci dunque! Il nostro primo compito sia quello di ristabilire l'equilibrio fra i globi cerebrali. Ottenuto l'equilibrio, quando il malato sarà in grado di pensare e di volere, in pochi giorni la resurrezione delle fibre sarà completa. «Riassumiamoci. La biografia del paziente ci ha rivelato che un intenso desiderio di possessione riportato sovra una donna fu causa della anomalia. L'idealismo! sempre l'idealismo! fomite di ogni follia, di ogni disordine, per non dire di ogni umana scelleratezza. Questo uomo, credendo di amare ha fatto violenza alle leggi della natura e si è reso impotente. Io vorrei bene, o signori (e qui la parola del medico riprese una intonazione più vibrata), io vorrei bene, se la situazione del malato non esigesse tutte le nostre sollecitudini, sbizzarrirmi alcun poco nella diagnosi di questa vacuità a cui le moltitudini danno il nome di amore! ... Oh! chi scriverà la storia dell'amore? Chi vorrà riprodurre nella sua spaventevole ampiezza la cronaca delle follie e dei delitti derivati da questo equivoco, da questa fatale illusione della superbia umana? E fino a quando proseguiremo noi ad insultare la natura, a pervertirci, a suicidarci, per la mania di idealizzare a mezzo di una insensata parola l'attrazione simpatica dei sessi, comune a tutti gli enti, a tutte le molecole della creazione? «Ma torniamo al malato. La prevalenza del fosforo, rivelata dalla esplorazione, mi è di buon augurio; l'assenza della febbre mi allarma. Provochiamo la febbre! provochiamo questa benefica agitazione del sangue che tende ad espellere dall'organismo gli atomi eterogenei, «Soffiamo in questa bonaccia! suscitiamo la tempesta riparatrice! ... «E non perdiamo un istante (proseguì il medico, ritraendo la mano dalla fronte del malato); si chiami tosto ... Ma, no! ... io stesso sceglierò l'individuo da applicarsi ... «Vi è qui alcuno che possegga un ritratto della donna che questo infelice ha creduto di amare? ... » Fratello Consolatore si levò in piedi, levò dal portafoglio una fotografia e la porse al primato. - Sta bene! ... Conducetemi tosto ad una casa di Immolate ... Là troveremo l'individuo simpatico che ci abbisogna. E volgendosi ai giovani studenti che in silenzio lo avevano ascoltato: - Spero - disse - che mi avete compreso. L'estirpazione del chiodo fantastico allora si effettuerà spontaneamente, quando si ottenga che quest'uomo abbia a credere in un'altra forma di donna ... Se a tanto può giungere il talento e la volontà di una Immolata, è indubitabile che lo sviluppo istantaneo della febbre ricondurrà l'equilibrio nelle forze mentali, e allora il cervello potrà gridare a' suoi satelliti: sorgete e obbeditemi!» Ciò detto, il Virey riconsegnò a fratello Consolatore la fotografia dell'Albani, dopo averne spiccato uno dei tanti ritratti fotografici che vi erano intercalati. - Levita! - riprese il Primate nell'atto di congedarsi - voi perdonerete alla vivacità di alcune mie espressioni che per avventura possono aver irritate le vostre suscettibilità - la scienza medica non fu mai troppo scrupolosa nella pratica del galateo. - Dopo tutto, se i nostri principii e le nostre credenze si avversano, ciò non impedisce che noi ci chiamiamo fratelli. - Fratelli! - ripetè il Levita stringendo al cuore la mano che aveva cercato la sua - è pur consolante l'udir profferire questa parola da un uomo che nega l'amore e non crede all'esistenza dell'anima ... Il Virey, irritabile come tutti gli scienziati, stava per riprendere la sua polemica, ma un sospiro affannoso del malato gli ricordò che i minuti erano contati. Egli volse al Levita un'ultima occhiata piena di ironia e uscì dalla stanza seguito dagli alunni. Giunto nella via, il Virey fece salire nella sua volante il custode della Villa, e scambiate sommessamente alcune parole con lui, ordinò al conduttore di dirigersi alla piazza dell'antica cattedrale.

I sogni dell'anarchico

678234
Mioni, Ugo 1 occorrenze

Malediva al suo dio serpente che lo aveva abbandonato, ai romani, alla cometa, a se stesso, che non aveva messo fine alla propria sventura; che aveva avuto il pugnale e non lo aveva piantato nel proprio cuore, ne messa, così, rapida fine alla propria vita. Quella sera la cometa apparve di nuovo. Essa destò in lui una lieta speranza. Non era apparsa dunque per lui, per annunziare la sua sventura, che questa era compiuta. Annunziava la rovina dei romani? Venisse! Non l'anelava per la propria liberazione, ma perché li odiava tanto. La marcia continua. Non ne può più, e riceve dal centurione un colpo d'i sferza sul dorso; il primo colpo, che sfiora le sue vergini spalle. Urla più che dal dolore dalla rabbia, dallo sdegno, dall'infinita vergogna; lui, un principe, battuto di verga! stringe i pugni, vuole gettarsi, colle mani legate, contro l'audace che lo ha battuto, ma viene ricevuto a colpi di verga, abbondanti ... Hanno passato il deserto e sono arrivati su territori fertili, ben coltivati, fittamente abitati, dove il suo paesaggio viene accolto ora da parole di scherno, di beffe, ed ora di meraviglia, di stupore. Nessuno ha compassione di lui. Egli muore dalla vergogna nel vedersi meta di quello stupore, di quello scherno, nell'accorgersi che nessuno lo compiange. Giunge finalmente a Cartagine, dove viene trascinato dal proconsole. Ode parole di scherno. Viene considerato prigioniero di guerra e condannato alla schiavitù imperiale. Verrà mandato a Roma. Protesta. E' africano, è principe. La guerra fu ingiusta; esige la libertà; si dichiara pronto di venire a patti, di assoggettare la sua tribù ai romani, di riconoscere l'imperatore, di pagare un annuo tributo. Le sue parole vengono accolte con un riso di scherno. La sua tribù più non esiste; è stata annientata; tutti gli uomini sono morti e le donne trascinate sui mercati; la sua oasi è diventata proprietà del fisco. Lo conducono allo stabulum, fra gli schiavi, dove la verga lo costringe all'ubbidienza, al lavoro. Il cibo è scarso. le piaghe molte, il lavoro faticoso. E' incatenato assieme a prigionieri di guerra, frementi di libertà; a delinquenti, condannati per volgari delitti, a schiavi, nati tra le catene, che non hanno mai gustato la libertà, che hanno cambiato di spesso padrone e furono acquistati dallo stato per venire inviati a Roma. Fra gli ischiavi vi sono parecchi suoi antichi sudditi, catturati nella battaglia o nella sua oasi e parecchi suoi antichi schiavi, lieti quest'ultimi che il loro antico padrone sia pure schiavo. Egli è stato sempre un padrone molto crudele; non ha mai avuto compassione di loro; non può chiedere, che essi abbiano ora compassione di lui.

Pagina 23

Teresa

678448
Neera 1 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Uno solo restava abbandonato nella tristezza della vedovanza, nella irreparabile tristezza dei giorni che non sono piú. Dopo il portico, si stendeva fuori irregolare uno spazio di terreno, chiamato abusivamente giardino. In realtà aveva sul davanti qualche aiuola che poteva, a prima vista, confermare l'illusione; specie in quel tempo dell'anno, poiché tutte le viole del pensiero erano fiorite, nelle loro infinite gradazioni, nel velluto intenso delle foglie scure, nel raso luminoso delle foglie pallide; e al di sopra di esse ondeggiavano, tremolanti, due arbusti di quel fiore che somiglia ad una nevicata. Pochi metri dopo incominciava un tentativo di orticello domestico e di frutteto; rimasti e l'uno e l'altro all'esposizione rudimentale di un solco d'insalata, tra masse di salvia, di rosmarino e di finocchio, colla compagnia di un gracile pesco coperto di scarsi fiorellini rosei. Oltre non c'era piú nulla. Il terreno ghiaioso, ingombro di calcinacci, si rifiutava alla vegetazione. Solamente in un angolo, un fico, l'albero delle terre sterili, innalzava le sue ramificazioni nodose fin oltre il muro di cinta.

Pagina 46

Le Fate d'Oro

678989
Perodi, Emma 2 occorrenze

La morente Regina in quello stesso istante si alzò, aprì le ali e volò all’alveare abbandonato, seguìta dalle suddite meravi- gliate. - Ho avuto il saluto dall’alto! - esclamò ella. - Mi è giunto dal cielo, dove stanno i veri felici! -

Pagina 105

In città tutti avevano abbandonato le case, i lavori; i vecchi, i malati, si face- vano trascinare in piazza per vedere quella gran meraviglia. Le donne regalavano gli orecchini, gli uomini le catene e gli anelli d'oro e d'argento al fortunato suonatore, il quale, a sera, aveva già fatto un sacco di quattrini. Le cose andarono bene per un mese. Tutti i giorni il Conte suonava e il Toro ballava; ma dopo un mese il Conte era stufo e ristufo di quella vita da zingaro che faceva, non accarezzava più il Toro come da principio, e non sognava altro che di comprare un castello coi quattrini che aveva fatti, per poi ritornare a far la vita da signore. Difatti un giorno, invece di farsi insegnare la strada dal Toro, si avviò da sé verso il luogo dove era la ca- sina, e per la strada pensava: - Domani rimetto il Toro nella stalla e vado a vedere se nei dintorni trovo un castello da comprare. Che bella cosa tor- nare come prima! E poi chi m'ha visto m'ha visto! - Mentre rimuginava questi pensieri nel- la mente non s'accorgeva che il Toro lo guardava fissamente e leggeva sul suo volto tutto ciò che pensava, come se fosse scritto in un libro. Cammina, cammina e cammina, arri- varono finalmente alla Casina del Toro; il Conte si spogliò del vestito da zampognaro; il Toro si spogliò delle vesti da donna, e buona notte signori, uno di qua, uno di là, andarono a riposare. Quando il Conte dormiva saporita- mente, il Toro, che aveva chiuso un occhio solo e vedeva sempre come scritti in un libro i pensieri del Conte, scavò prima una buca fonda dove sotterrò tutti i quattrini; poi salì piano piano nel fienile della casina, e colle corna sfondò il tetto. Quindi prese il volo e attraversò mari e monti, fuggendo quell'ingrato padrone. La luna, che lo vide, si mise a ridere sgangheratamente; le stelle ridevano an- che loro; due spiriti folletti che passavano di lì si presero per la mano e fecero una corsa in segno di gioia; e un vecchio gatto burlone accordò il violino e fece una suo- natina, che valeva un tesoro, poi mandò il suo amico, un cane ringhioso, nei pressi della casina perché gli raccontasse per filo e per segno come era rimasto il Conte de- standosi. Il cane tornò tutto allegro la mattina e glielo disse. Il Conte, destandosi, gira e gira, non trovando più i quattrini, non tro- vando più il Toro, era rimasto con un palmo di naso.

Pagina 221

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679047
Perodi, Emma 3 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Per buona sorte sua, il punto ove egli cadde venne presto abbandonato, perché fiorentini e aretini accorsero in massa: quelli ad assalire il vescovo Ubertini; questi a difenderlo; in caso diverso, Lapo sarebbe stato schiacciato da' cavalli e dai pedoni, e il suo corpo sarebbe diventato una frittata. Ma se da un lato fu bene per lui di restar solo in quel punto, senz'altra compagnia che i morti, da un altro lato fu male perché nessuno lo udiva gemere e niuno poteva soccorrerlo. Dalla ferita gli usciva il sangue, non a gocce, ma a bocca di barile, e Lapo, che si sentiva mancare il fiato, si raccomandava alla Madonna e a tutti i santi del Paradiso. Intanto annottava, ed egli, vedendo che nessuno veniva a soccorrerlo, cessò di pregare e incominciò a dire: - Ma non c'è neppur un cane che abbia pietà di me! Queste parole furon da lui ripetute tre volte; alla terza giunse di corsa un can da pastori, scodinzolò, e poi, accucciatosi accanto al ferito, si diede a leccargli la ferita. - Saremo amici, e, se campo, ti prometto che non soffrirai mai fame e non annuserai mai bastone, - disse Lapo, che sentiva rallentare il fiotto del sangue sotto quella continua medicatura. Il soldato passò così buona parte della notte, ma si sentiva ardere dalla sete e provava allo stomaco un certo stringimento, che gli rammentava di non aver mangiato da più ore. - Mi hai salvato dalla morte, - disse Lapo, - ma dovrò forse crepar di sete o di fame? Non aveva finito di parlare che il cane si alzò e, scodinzolando, batté la coda sulla mano destra del soldato, il quale, afferratala come se fosse un canapo, si mise l'altra mano sotto la gamba ferita e si lasciò trascinare attraverso il campo pieno di soldati e di cavalli morti, in cui i predoni si aggiravano a frotte per ispogliare i cadaveri. Il cane tirava, e Lapo si strascicava dietro a lui, lasciandosi condurre come fanno i ciechi dalle loro guide. Giunti che furono in prossimità di un fosso, nel quale scorreva acqua chiara e abbondante, il cane si fermò, e il ferito poté chinarsi sulla sponda e attinger acqua per dissetarsi. Il cane bevve pure e poi batté di nuovo la coda nella palma della mano destra di Lapo, e questi, afferratala, riprese la via col suo curioso compagno; ma non andaron molto oltre perché il cane si fermò accanto a un carro che pareva abbandonato e sotto al quale giaceva morta una mula. Lapo non ne poteva più e non avea più forza d'alzare un dito, perciò si lasciò cadere supino e disse: - Corri pure, cane mio, ma io non mi muovo più! Se è destinato che muoia qui, tu mi farai da becchino. Il cane pareva che intendesse non soltanto quel che Lapo diceva, ma anche quello che pensava, perché fatto un lancio entrò nel carro abbandonato e si diede ad annusare, frugando da un lato e dall'altro. Dopo aver armeggiato un pezzo, fece un altro lancio e depose a portata di mano del ferito una fiaschetta, scodinzolando dall'allegria. Quella fiaschetta conteneva del vino generoso, e dopo che Lapo ne ebbe bevuto alquanto si sentì ristorato. Il cane era tornato sul carro, e ogni volta che ne usciva portava accanto al soldato pane, formaggio, salame e ogni grazia di Dio, senza addentare nulla per satollarsi. - Sei una vera provvidenza, - diceva Lapo, - e se guarisco ti voglio fare un collare d'argento. Il sonno chiuse ben presto le palpebre di Lapo di Signa, e il cane, accucciatoglisi accanto, tenne a distanza da lui i predoni, che, vedendolo inetto a difendersi, gli avrebbero tolto anche le calze, che allora era uso portare affibbiate alla cintola. Però Lapo non dormì di un sonno tranquillo. Gli pareva di essere in un bosco foltissimo e di vedersi sulla testa un uccello smisurato e nero come la pece, che faceva larghi giri per carpirlo. Vide in questo mentre un altro uccello, tutto bianco, piombare dal cielo, dare una beccata nel cervello all'altro e farlo cader morto. Lapo si destò spaventato, mentre albeggiava, e disse: - Si vuole che i sogni che si fanno verso la mattina, sien veri. Cerchiamo di spiegare questo. L'uccello nero non può esser altri che il Diavolo, che mi vuol portare all'inferno; e quello bianco che mi salva, qualche santo; ma son tanti i santi che ho pregati di aiutarmi, che non so davvero chi si sia rammentato di me. Sia forse san Rocco che m'abbia mandato il suo cane? Appena egli ebbe nominato quel santo, il cane fece un lancio di gioia e si diede ad abbaiare festosamente come soglion fare i cani quando odono mentovare il padrone. Intanto s'era fatto giorno, e Lapo incominciava a perdersi di animo vedendo intorno a sé tutta quella caterva di morti e sentendo i lamenti di quei feriti che nessuno soccorreva. Prima si mise le mani agli orecchi, poi chiuse gli occhi, ma se per disavvedutezza gli veniva fatto di lasciare entrare il suono nel timpano o di alzar le palpebre, di nuovo lo colpivano quelle voci dolorose o quello spettacolo che gli metteva i brividi addosso. - Bisogna che cerchi di sloggiare di qui; - disse Lapo, - ma con questa gamba così rovinata, come farò mai! Il cane gli leccò le mani, come se volesse dirgli di aspettare un momento e poi corse via. - La morte è brutta quando la viene fra i piedi, - diceva Lapo che aveva l'uso di dire a voce alta tutti i pensieri che gli passavano per la mente. - Finché si vede da lontano, ci si scherza; ma ora gli è un'altra faccenda. Se non c'è qualcuno che mi soccorra, son bell'e fritto, perché di peccatucci non ne ho pochi sulla coscienza, e il Diavolo mi porterà all'inferno dritto dritto! Povero Lapo, ieri tanto arzillo e oggi mogio mogio! Si dice che dopo la burrasca viene il sereno, ma per me non verrà più e non rivedrò neppure la mi' Signa! Così lamentandosi sulla propria sorte egli s'era intenerito, e ora piangeva a calde lacrime. - San Rocco benedetto, - aggiunse col viso nero e polveroso tutto solcato di lacrime, - se siete proprio voi che mi avete mandato quel cane, non mi abbandonate così. Se mi aiutate, non vi posso promettere né una tavola d'altare, né qualche voto di argento o d'oro; ma vi prometto di far, per devozione, un pellegrinaggio alla Verna, magari con una gamba sola, perché quell'altra ormai è ita, e vi prometto anche di mordermi le dita tutte le volte che una di quelle maledette bestemmie mi corra alle labbra. Intanto che si lamentava a quel modo, impetrando l'aiuto di san Rocco, ecco che la gamba gl'incomincia a dolere terribilmente e, riscaldata dal sole ardente di giugno, gli scottava come un tizzo di fuoco. - San Rocco è sordo come tutti gli altri santi, - disse Lapo, - e son bell'e fritto! Frattanto egli stava per coricarsi sulla nuda terra, spossato e scoraggiato, quando vide tornare di corsa il cane e non fece a tempo a difendere la gamba ferita, che già quello aveva addentato la calza che gliela copriva, e la stracciava furiosamente con le zanne. Lapo, anche in quel momento, espresse a voce alta i suoi pensieri: - Morte, come sei brutta; se mi vuoi davvero, pigliami subito, e non mi fare sbrandellare così da un cane da pastore! Ma il cane, appena ebbe strappato la calza, andò a tuffare il muso in un rivo e ne bagnò la ferita. E tante volte tornò all'acqua, finché non ebbe tolto dalla piaga tutto il sangue che v'era rimasto aggrumato; poi raccolse di terra certe erbe che aveva recato in bocca giungendo, e le stese sulla gamba. - Che cane! - esclamò Lapo sentendosi sollevato dal dolore dopo quella medicatura. - Io scommetto, sapiente animale, che tu hai imparato a curar le piaghe stando al servizio di san Rocco? Il ferito s'aspettava una risposta, perché ormai da quella bestia nulla più lo meravigliava; ma il cane non fece altro che scodinzolare, poscia fuggì, e Lapo rimase di nuovo solo, ma per poco, ché di lì a un momento l'animale tornò strascinando un lenzuolo. Rise il soldato a quella vista, e non capì lì per lì per qual ragione glielo recasse; ma quando osservò che il cane, tirandolo con i denti e reggendolo con le zampe, come se volesse spolpare un osso, lo stracciava in tante strisce, fece un lancio di meraviglia e gridò: - Evviva il cane cerusico ed il suo santo protettore! - e buttò all'aria l'elmo in segno di gioia. Raccolse infatti le sottili bende, con quelle si fasciò la ferita, e dopo essersi ristorato con le vivande che il cane avea prese nel carro, disse all'animale: - Vogliamo andarcene da questo campo di morte prima che cali la sera? Se te lo devo dire, la vicinanza di questi ceffi di morti e i lamenti dei feriti non mi vanno a genio. Aiutami, e io ti vorrò più bene che a tutte le creature della terra e dell'aria. Il cane non si fece ripetere due volte l'invito, e, alzatosi sulle gambe di dietro, infilò una delle zampe davanti sotto l'ascella di Lapo, il quale, appoggiandosi sopra un troncone di asta raccolto in terra e camminando a piè zoppo, poté allontanarsi da Campaldino e cercar rifugio in una casa di contadini verso Soci, dove per compassione lo misero in un fienile. Lapo, appena coricato su quel letto di fieno, dormì come un ghiro senza pensare a nulla, e così, ben nutrito dal cane e ben riposato, non stette molto a rimettersi in salute; ma la prima volta che si provò a posare il piede in terra, s'accòrse che la gamba non la poteva più raddrizzare e che doveva camminare a piè zoppo. - Sono un uomo rovinato, sono un uomo perduto! - diceva. - Era meglio, cane mio, che tu mi avessi lasciato morire dove ero, piuttosto che farmi tanta assistenza per poi avere questo bel risultato! Lapo senza una gamba è un uomo morto! Il cane gli leccava le mani e guaiva. - Lo capisci anche tu, - continuava Lapo, - che per me non v'è più salvezza? Che cosa vuoi che faccia a questo mondo con una gamba di meno? E senza rammentarsi la promessa fatta a san Rocco, snocciolò una filastrocca di bestemmie degne di un turco. Il cane corse a rintanare il muso fra il fieno, e Lapo, accorgendosi di aver mancato di parola al suo santo protettore, si morse le dita a sangue. La sera di quel giorno, Lapo, appoggiandosi sul troncone d'asta, scese dal fienile e, ringraziati i contadini, stava per andarsene tutto sconsolato, quando il vecchio capoccia gli disse: - Ma come farai a tornartene a casa tua con una gamba sola? - Non ci penso neppure a tornare a casa! Signa è lontana, e poi così mutilato non avrei faccia di presentarmi a nessuno. - E che vuoi fare allora? - Quel che vorrà san Rocco; è lui che m'ha tenuto in vita e che m'ha mandato questo cane; mi figuro che per qualche cosa egli abbia voluto che non crepassi. - Aspetta, - rispose il capoccia, - ho visto una volta uno storpiato come te che si serviva di un certo armeggio per poter camminare; guardiamo se mi riesce di fartene uno. E preso dalla legnaia un ceppo di lecciolo, lo misurò al ginocchio dello storpio per vedere se era largo abbastanza per potervelo appoggiare; poi, lo assottigliò da un lato con l'accetta, vi fece con lo scalpello una specie di buco dal lato opposto, e, fasciato quell'armeggio con alcune cinghie di cuoio che tolse da una sua bisaccia, lo affibbiò alla gamba inferma. - Cammina, - ordinò il contadino a Lapo. Lo storpiato non se lo fece dir due volte e incominciò a battere in terra, gridando: - Ora il mio passo è accompagnato dalla musica: bim, bum; bim, bum! Nella sua allegria di potersi movere, Lapo aveva dimenticato la promessa fatta a san Rocco, e appena fu sulla strada maestra, invece di domandare al primo che incontrava quale via avrebbe dovuto seguire per giungere al gran sasso della Verna, domandò dove poteva trovare un'osteria, e, saputolo, si diresse a quella volta. Sotto una pergola v'erano alcuni soldati della sua compagnia che bevevano e giuocavano ai tarocchi. Appena lo videro gli corsero incontro dicendogli che lo avevan creduto morto, e domandandogli come aveva fatto a scampar dalla ferita. Lapo si mise a raccontare per filo e per segno quello che gli era occorso, ma quando chiamò il cane per mostrare agli amici il suo salvatore, chiama che ti chiamo, il cane non c'era più. Lo storpio non ci fece caso, perché era assuefatto a vederlo sparire ogni momento, e una volta imbrancato con gli antichi compagni bevve e giuocò tutto quanto aveva in tasca, finché, disperato di trovarsi senza un soldo, bestemmiò tutti i santi del Paradiso, compreso san Rocco, per non far parzialità. L'oste, sapendo che era al verde, non volle dargli da dormire, e Lapo dovette passare la notte allo scoperto. Ma trovandosi così abbandonato, gli venne il pentimento per quello che aveva fatto, e pianse e si raccomandò come un bambino, non solo a san Rocco, ma anche agli altri santi, che non gli levassero la loro protezione. Peraltro il cane non ricomparve, ed egli rimase tutta la notte con le spalle appoggiate ad un albero a pensare alla sua sorte. La mattina dopo, all'albeggiare, appoggiandosi sul troncone dell'asta e zoppicando, si avviò sulla via maestra chiedendo l'elemosina a quanti incontrava; ma tutti gli rispondevano: - Ben ti sta del tuo malanno, can d'un fiorentino! - Ma che si son dati l'intesa, che tutti mi rispondono a un modo? - esclamò Lapo, che sempre parlava a voce alta con se stesso. - Forse mi riconoscono a questo giglio che mi feci rapportare sul giustacore; ma se arrivo alla Verna voglio vestire il saio, e allora il giglio non mi farà più inviso a nessuno. E senza sgomentarsi per l'erta via, passa sotto Bibbiena e si inerpica sull'aspro monte. Quella salita si fa male con due gambe; figuriamoci quel che sia il farla con una gamba sola ed a stomaco vuoto! Lapo doveva fermarsi ogni momento, e quando si sedeva sopra un sasso, si lamentava più della notte dopo la battaglia, quando era in mezzo ai morti e ai feriti. Mentre era colà in preda alla disperazione, vide salire per l'erta un frate cercatore, che guidava un asino carico di bisacce. - Frate benedetto, - gli disse con voce piagnucolosa, - ho promesso al mio santo protettore, a san Rocco, di compiere il pellegrinaggio della Verna; ma con una gamba sola mi è assai disagevole il far la salita; mi faresti portar dal tuo asino? - Non vedi, - rispose il Frate, - che egli già s'inginocchia sotto il peso? - Ma di quello lo libererò io, - replicò Lapo, - e lo caricherò sulle mie spalle. Il Frate, che era un semplicione e al convento non lo impiegavano altro che alla cerca, non s'accòrse che l'asino avrebbe portato lo stesso il carico, ed aiutò Lapo a salire sul ciuco. Ma questi, a forza di frusta mosse due passi e poi fece una genuflessione come se si fosse veduto davanti san Francesco in carne e ossa, che aveva virtù di comandare agli uccelli, ai pesci e persino ai lupi. - Il tuo asino è stanco, - disse Lapo cui era tornato l'umor faceto. - Fa' una cosa: caricati sulle spalle queste bisacce e tu guadagnerai il Paradiso, perché avrai sudato per portare al convento l'elemosina per i poveri. Il Frate, assuefatto all'ubbidienza, si mise le bisacce sul groppone e arrivò al convento, rosso e trafelato, mentre Lapo vi giunse comodamente. Lassù, come avviene a tutti i pellegrini, egli fu refocillato e ospitato. - Ora che ci sono e che ho compiuta la penitenza, - disse Lapo, - è bravo chi mi manda via. Per fare il soldato non son più buono, ma per vestire il saio, sì. Per molti giorni Lapo rimase alla Verna, e gli pareva d'essere in Paradiso in mezzo a quella frescura, fra quella gente che gli diceva buone parole. Dipingeva allora una cappelletta detta degli Angeli, un certo frate Bigio fiorentino, il quale, attaccato discorso con lo zoppo, si fece narrare come era rimasto impedito nella gamba nonché tutte le avventure capitategli dopo, e financo il sogno. Lapo non aveva la lingua punto legata, sicché frate Bigio, dopo esserlo stato a sentire una mezz'ora, sapeva vita, morte e miracoli di lui, ed essendo persuaso che il sogno e l'aiuto miracoloso del cane significassero che lo storpiato aveva in Cielo qualche santo protettore, volle acquistarlo al convento, affinché la protezione si estendesse anche su questo. Così con bei modi prese a dimostrargli come il mestiere del soldato portava gli uomini alla eterna perdizione, perché oltre i vizî che in quella vita randagia s'incontrano e l'uso del mal parlare, avviene sovente che sieno colpiti improvvisamente dalla morte, senza che abbiano tempo di raccomandar neppure l'anima a Dio. - Frate Bigio, lo so anch'io, - rispondeva Lapo, - e anche prima di esser ferito, avrei voluto campare altrimenti; ma non sono atto a far nulla. - Vedremo, vedremo, - replicava il Frate. - Ti contenteresti, per esempio, d'indossar l'abito e andare in giro per la cerca? - Magari mi contenterei; ma come volete che me ne vada per le salite e per le scese con questa gamba unica? - C'è il somaro che ne ha quattro e che ti potrebbe portare. - Allora dico di sì subito, e se mi fate presto toglier da dosso quest'abito e questo elmetto, che mi rivelano per fiorentino in questo paese dove i fiorentini sono discacciati come se fossero diavoli, io vi prometto, frate Bigio, che dirò per voi tutti i giorni la coroncina a san Rocco, mio protettore. - Io te ne sarò grato, e avrò caro che tu resti fra noi, poiché ciò che m'hai narrato è così strano che io voglio raffigurarti, mentre ricevi la visione di san Rocco in qualcuno degli affreschi di cui vado ornando il refettorio. Perciò conserva codesti abiti anche quando avrai vestito il saio, affinché io possa farteli riprendere al momento in cui mi occorrerà di ritrarti. Lapo non tardò ad ascriversi all'Ordine, ma senza aspirar però né a dir messa né a confessare, poiché non conosceva l'a dalla zeta e anche il pater noster lo seminava di una ventina di strambotti. Appena ebbe vestito il saio se ne andò alla cerca, e nessuno degli altri cercatori riportava al convento tanti donativi quanti egli ne recava. - Come fai? - gli domandavano gli altri frati. - San Rocco mi aiuta, - rispondeva egli. Ma non era, davvero, mercé l'aiuto di san Rocco, che Lapo mangiava e beveva a crepapelle e poi riportava tanta roba su alla Verna. Tutta quella grazia di Dio la doveva alle sue ladre fatiche, perché è d'uopo sapere che sebbene egli avesse vestito l'abito di san Francesco, era più ribaldo che mai. Ecco che cosa aveva fatto. Prima di tutto aveva pregato frate Bigio che gli facesse un quadretto da appendersi nella chiesa del convento, nel quale egli fosse raffigurato mentre san Rocco gli mandava il cane a leccargli la ferita; e, non contento di questo, aveva ottenuto dal buon Frate che da un lato della tavola dipingesse il sogno, poi la sua conversione, e che sotto al quadro scrivesse il racconto di quel periodo della sua vita. Poi, dallo stesso Frate si fece fare un buon numero di abitini di tela da portarsi al collo, con l'immagine di san Rocco e il cane. Naturalmente ogni giorno una gran quantità di gente saliva per devozione alla Verna, vedeva il quadro di frate Bigio, era informato del miracolo, e quando quella gente tornava a casa, spargeva in tutto il contado la notizia. Così, quando fra' Lapo si presentava a chieder la carità con la gamba di legno e il saio, tutti lo pregavano d'intercedere per loro san Rocco, e non lesinavano nel dare al Frate ogni ben di Dio. Lapo ringraziava umilmente, e ai donatori più generosi lasciava l'abitino. A pregare per gli oblatori non ci pensava neppure, anzi, se aveva alzato il gomito più del consueto, snocciolava a voce alta per la via una litania di bestemmie da far venir la pelle d'oca. Così durò il Frate alcun tempo, e più grande si faceva nel contado la sua nomea di sant'uomo, e più prendeva baldanza. Né si limitava a regalare soltanto gli abitini, ma se era richiesto da qualche malato per ottenere da san Rocco la guarigione, portava delle erbe che diceva gli erano state additate dal Santo come salutari, e pronunziava parole che non appartenevano a nessuna lingua. E di questi inganni fra' Lapo non provava nessun rimorso. Egli non si dava cura altro che di mangiare e bere. Una sera, mentre tornava sull'imbrunire al convento, egli diceva fra sé: - Con queste erbe e con questi esorcismi ho trovato un tesoro. Oltre il grano, il vino e i polli, mi dànno anche elemosine in denari. Quando ne avrò raggruzzolati abbastanza, butto il saio in un burrone e mi metto la via fra le gambe per tornare a Signa. E allora, Lapo mio, che baldorie! Mentre così diceva, era giunto a un bosco molto folto, e il somaro s'impuntò senza voler fare un passo avanti. Lapo gli dette un paio di frustate, ma l'asino tenne duro. Allora a un tratto uscì dal bosco il solito can da pastori, che un tempo aveva soccorso Lapo, e con un morso gli staccò tre dita della mano destra; poi fuggì di nuovo a rintanarsi fra gli alberi. Fra il dolore e la paura, Lapo credé di morire, e non trovava neppur la forza di spronare il somaro per uscire da quel luogo cupo e solitario. Prima che il somaro si rimettesse in moto, tal quale come nel sogno, Lapo vide scendere dalla vetta altissima di un poggio un'aquila con le ali spiegate, che si mise a fare cerchi sulla testa di lui. - È finita! San Rocco pietoso aiutatemi, mi pento, salvatemi! E si buttò di sotto dal somaro. Alla invocazione di san Rocco il cane era tornato accanto a Lapo e lo aveva afferrato per la gamba sana, mentre l'aquila s'era attaccata con gli artigli a quella di legno e tirava anch'essa. Tira tira, le cinghie cederono, e l'aquila scappò via scorbacchiata con quell'armeggio fra le zampe; anche il cane lasciò la presa, e, come aveva stagnato a Lapo il sangue della gamba sul campo di battaglia, così questa volta gli stagnò quello che gli usciva dalle dita mozzate. Come Dio volle fra' Lapo risalì sul ciuco e si diresse al convento. - Torno in un bello stato, - disse al frate portinaio, - mi mancano tre dita e la gamba. - Foste forse assalito dai predoni? - domandò l'altro. - Così m'hanno ridotto il Cielo e l'Inferno, - rispose fra' Lapo. - Fratello, qui non si scherza, bisogna prepararsi a morire! - Noi ci prepariamo ogni giorno e ad ogni ora al gran passo. Per questo la morte non ci coglie mai alla sprovvista. - Così potessi dir io! - esclamò Lapo tutto afflitto, - ma sono ancora un gran peccatore. - Fate pubblica confessione. - La farò domattina. Infatti la mattina dopo, Lapo si fece portare nella chiesina degli Angeli, perché non poteva più camminare senza l'armeggio di legno; ma quando a voce alta si mise a narrare tutti i suoi inganni, i frati incominciarono a gridare: - È maledetto! È maledetto! E lo fecero portare fuori del recinto della Verna. - Ieri l'Inferno e il Paradiso si disputavano l'anima mia; oggi non mi vuole né Cristo né il Diavolo. Aspettiamo per veder quello che succede, - disse Lapo. E tanto per consolarsi, trasse fuori dalla scarsella i quattrini accumulati con frode e con inganni e si diede a contarli; ma eccoti che mentre contava gli vola in grembo una gazza, piglia i fiorini nel becco e fugge. - Ora son bell'e spacciato! - disse, - mi pigli anche il Diavolo non me ne importa più nulla! E difatti, nel colmo della notte scese il Diavolo, e, afferratolo, se lo portò all'Inferno. I ragazzi capirono che la novella era finita e ringraziarono la vecchia, la quale trattenne i piccoli invitati, dicendo loro: - O che la pattona non la volete? - Orsù, servitevi! - disse la Carola. Nessuno si fece pregare. E ne mangiarono anche i grandi, specialmente Cecco, che al reggimento non l'aveva mai neppur veduta. - Ora andate a casa, - diss'egli agli amici dei nipoti, - e se la novella e la pattona vi son piaciute, tornate la vigilia di Capo d'anno. - Verremo! - risposero i bambini uscendo tutt'allegri.

Ubaldo sentì dire che il cadavere abbandonato era quello di un mendicante, spirato la sera prima. - Era forse un miscredente o un assassino? - domandò il ragazzo. - No, era anzi un sant'uomo; - risposero le persone presenti, - e anche se la fame lo avesse straziato, non si sarebbe attentato a rubare un pezzo di pane dal fornaio, né una mela da un albero. - Perché dunque gli negano di esser sepolto in terra santa? - domandò Ubaldo. - Perché il povero Marco non ha da pagare le spese del funerale, - risposero i circostanti. - Santa Vergine, come sono interessati i preti di questo paese, che tengon la chiesa aperta ai vivi e ricusano di aprirla ai morti! Se occorre del denaro, ecco tre scudi; non ho altro, ma li do volentieri per mettere un cristiano sottoterra. Il proposto fu avvertito; prese i tre scudi, recitò alla lesta le preghiere dei defunti, fece calare il povero Marco in una fossa e poi se ne andò a cena. Ubaldo prese due pezzi di legno, ne formò una croce, che mise sulla fossa del mendicante, e dopo aver recitato devotamente il De profundis prese la via d'Ancona. Ma dopo poco fu sopraggiunto dalla notte, e sentendosi lo stomaco vuoto si rammentò che non aveva di che comprarsi un pezzo di pane. Si mise dunque a cogliere le more sulle siepi e, cogliendole, guardava gli uccelli che raggiungevano il nido, e pensava: "Quegli uccellini son più felici dei cristiani; non hanno bisogno né d'alberghi, né di fornai, né di macellari; sono padroni del cielo, e la terra del buon Dio si stende sotto di loro come una tavola sempre apparecchiata; i moscerini sono la loro caccia; i granellini il loro pane; i fiori del biancospino, dei rosai salvatici, le bacche di ginepro, le ulive, sono le loro frutta; hanno diritto di prender tutto senza pagare. Per questo gli uccellini sono allegri e cantano tutto il santo giorno!". Volgendo nella mente questi pensieri, Ubaldo rallentava il passo, e alla fine si sedé appiè di una quercia e si addormentò. Ma mentre dormiva placidamente, gli apparì un santo, vestito di stoffa a ricami d'oro e con l'aureola intorno alla testa. Quel santo gli disse: - Sono Marco, il mendicante cui tu hai spalancato le porte del paradiso comprando per il suo corpo un pezzo di terra benedetta. Nostra Signora, di cui ero tanto devoto in terra, mi ha collocato fra i Santi e mi ha concesso di discendere a te, apportatore di lieta novella. Non credere che gli uccelli del cielo sien più felici de' cristiani, perché il figlio di Dio ha sparso per questi il suo sangue e gli uomini sono i preferiti della SS. Trinità. Ascolta dunque ciò che hanno fatto le Tre Persone per ricompensare la tua pietà. Vi è là su quel colle un castello, che tu riconoscerai facilmente alle quattro torri che lo circondano; ne è padrone un cavaliere, chiamato Federico, il quale sta per morire. Egli ha una nipotina bella come il sole e docile come un agnellino. Va' stamani al castello e fai dire al signore che "tu vai per quella cosa che lui sa". Federico ti riceverà bene e tu capirai il resto. Ricordati però che se hai bisogno d'aiuto, dovrai dire: O morto mendicante, presto accorri; Chi la tomba ti die', tosto soccorri! Dette queste parole, il Santo scomparve e Ubaldo si destò. Prima di tutto, appena ebbe liberati gli occhi dal sonno, ringraziò Iddio della protezione che gli concedeva; poi si diresse verso i colli per cercare con l'occhio il castello. Albeggiava appena e la nebbia gl'impediva di scorgere gli oggetti a venti passi di distanza; ma udì sulla sua testa un volar di piccioni e si figurò che essi tornassero al castello dopo un primo giro mattutino. Seguì la direzione che essi avevano tenuta, e quando il sole ebbe diradato la nebbia, vide dinanzi a sé un superbo castello con quattro potenti torri ai fianchi. Ubaldo varcò il ponte levatoio. - Chi sei? - gli domandò la sentinella. - Avvertite il barone Federico che "io vengo per quella cosa che lui sa", - rispose Ubaldo. Il signore fu subito avvertito dell'arrivo del giovinetto e gli mosse incontro tentennando la testa, perché era vecchio e malato, e appoggiandosi al braccio della nipotina, che era invece bella come il sole e fresca come una rosa, tanto che a vederli parevano, lui, la quaresima, e lei, il carnevale. Tutti e due fecero mille garbatezze a Ubaldo e, introdottolo nella grande sala d'onore, lo fecero sedere sopra uno sgabello riccamente trapunto, a poca distanza dal seggiolone del vecchio, il quale, in attesa del desinare, ordinò gli fossero serviti dei rinfreschi. A dir la verità Ubaldo non capiva il perché lo avevan ricevuto a quel modo, ma era così felice di veder la ragazza andare e venire per la sala, cinguettando come una capinera, che non chiedeva spiegazioni. Ogni volta che la guardava, gli appariva più bella e più gentile, e si sentiva battere il cuore. "L'uomo che se la potrà condurre a casa sua, sarà felice davvero!" pensava Ubaldo. Finalmente fu servito il pranzo, e il vecchio si sedé in capo tavola, mentre aveva Ubaldo a dritta e Imelda a sinistra. Allorché le mense furono tolte e nella sala non vi rimase altri che il barone Federico, la nipote e il giovine viandante, il signore prese a dire: - Ospite mio, io ti ho trattato degnamente, ma l'accoglienza che ti ho fatto non è stata come avrei voluto, perché la mia casa è colpita da lungo tempo da una grave sciagura. Prima che questo flagello piombasse su di me, nelle mie scuderie avresti veduto cento cavalli e un numero quattro volte maggiore di buoi; ma il Diavolo s'è insediato nelle scuderie e nelle stalle, e cavalli e buoi sono spariti a venti e trenta alla volta. Tutti i risparmi, pazientemente ammassati, sono stati inghiottiti dall'acquisto di nuovi cavalli e di nuovi buoi, i quali sono periti come i primi. Ora io sono rovinato, né tutte le preghiere né i pellegrinaggi hanno potuto stornar da me il terribile flagello. Se domani un signore mi facesse offesa, io non potrei spedire un drappello di cavalieri a punirlo. Tutte le mie terre sono incolte per mancanza di bestiame ... Guarda! E lo condusse a una finestra della sala, dalla quale, a perdita d'occhio, si vedevano infatti campi coperti di sterpi, invece che di mèssi biondeggianti al sole di luglio. Il vecchio continuò: - Avevo sperato nell'aiuto di mio nipote Corrado, il quale è andato a Venezia per fare la guerra ai turchi; ma egli non torna, e io ho fatto bandire nel contado e ovunque, che l'uomo il quale mi libererà dal flagello, avrà in moglie la mia Imelda ed erediterà i miei feudi. Molti giovani baldi e prodi son già venuti; ma dopo aver vegliato nella scuderia, sono spariti come i cavalli e i buoi. Io pregherò il Signore affinché tu sia più avventurato degli altri. Ubaldo, il quale aveva l'anima rinfrancata dalla recente visione, rispose che con l'aiuto di Nostra Signora di Loreto, sperava di trionfare sul demonio nascosto. E per ottenere quell'aiuto rimase in preghiera tutto il giorno. Giunta la sera, prese il suo bastone e supplicò Imelda di pregare anche lei per la sua vittoria su lo spirito maligno. Il vecchio signore lo condusse da sé nella stalla, che era immensa e, quasi alla metà, era divisa, per mezzo di un impalancato, dalla scuderia; ma tutto era vuoto e i ragni avevano tessuto le loro tele sulle mangiatoie. Quando Ubaldo fu rimasto solo, accese un fuoco di sterpi sul pavimento di pietra, e, inginocchiatosi, pregò fervidamente. Passò la prima ora e Ubaldo non udì altro che lo schioppettìo della fiamma; passò la seconda e non sentì altro che il mugolìo del vento attraverso la porta sconnessa; passò la terza e non sentì altro che il rumore che facevano i tarli nel legname; ma alla quarta, un rumore sordo si fece udire sotto il pavimento, e all'estremità della stalla, nell'angolo più scuro, Ubaldo vide alzarsi lentamente una pietra e uscir dalla terra la testa di un drago. Quella testa del mostro era più grossa di quella di un bove, schiacciata come il capo delle vipere, e torno torno aveva una corona di occhi luminosi di varî colori. Il drago posò le due zampe, armate di artigli rossi, sull'orlo del pavimento, fissò Ubaldo, e quindi lasciò il suo antro sibilando. A mano a mano che ne usciva, si vedeva svolgersi il corpo enorme, coperto di squame. Benché Ubaldo fosse coraggioso, pure sudò freddo a quella vista, e quando sentì l'alito ardente del mostro, gridò: O morto mendicante, presto accorri; Chi la tomba ti die', tosto soccorri! In quel momento stesso la figura luminosa del mendicante fatto Santo gli apparve a fianco. - Non temere, - gli disse. - I protetti dalla Madre del Signore schiacceranno sempre i mostri della terra. Marco, ciò detto, stese la mano e disse alcune parole note solo agli eletti del Cielo. In quell'istante il mostro cadde su un lato colpito dalla morte. La mattina dopo, quando il sole fu alzato, Ubaldo andò a destare la gente del castello e la condusse nelle stalle. Alla vista del drago morto, i più arditi indietreggiarono. - Non abbiate timore, - disse il giovane. - Nostra Signora di Loreto mi ha assistito; il mostro che divorava il bestiame e i cavalli, è esanime. Cercate delle corde e trascinatelo sul ciglio di qualche burrone dove lo precipiterete. Egli non può più nuocere ad alcuno. Fu fatto ciò che Ubaldo aveva ordinato, e quando s'andò a misurare la lunghezza del drago, si vide che era più di cento braccia. Il vecchio signore esultava di esser liberato da tanto nemico e mantenne la promessa fatta a Ubaldo, dandogli Imelda in isposa. Il giovane, una volta marito della bellissima fanciulla, ricomprò bestiame e cavalli, fece lavorar le terre, armò uomini forti per difenderle; e il barone Federico, prima di morire, ebbe la felicità di sapersi di nuovo possessore di molte ricchezze. I due sposi erano così felici che non sapevano, nelle loro preghiere, che cosa domandare a Dio e non potevano altro che ringraziarlo; ma una sera che stavano per mettersi a tavola, ecco che fu introdotto un cavaliere così alto che con la testa toccava le travi del soffitto. In quel cavaliere Imelda riconobbe il cugino Corrado. Egli giungeva dalla guerra contro i turchi per sposare la cugina, e sapendo ciò che era accaduto nella sua assenza, aveva provato una rabbia sorda, che tuttavia seppe celare ai due sposi, poiché era assuefatto a fingere. Ubaldo, che non aveva alcun sospetto, lo accolse con ogni sorta di cortesie, e gli assegnò la più bella camera del castello. Il giorno dopo condusse Corrado a fare un giro nelle sue terre, che in quel tempo erano coperte di mèssi. Ma Corrado, vedendo tutto quel ben di Dio, s'arrabbiava sempre più e odiava quell'intruso, che non solo era padrone di tante e ricche terre, ma che aveva anche sposato sua cugina Imelda. Un giorno il perfido Corrado invitò Ubaldo ad andare a caccia insieme con lui in prossimità del mare, e lo condusse in un bosco folto sul cui limitare v'era un mulino a vento abbandonato. Il Gigante aveva ammucchiato sotto il mulino molte fascine. Quando furono giunti in quel luogo, Corrado si volse verso il castello e disse a un tratto al cugino: - Corpo di Satanasso! io scorgo di qui il castello e anche il cortile. - Dove? - domandò Ubaldo. - Dietro quel boschetto di lecci. Non vedi le finestre della sala d'onore? Eppure sono visibili a occhio nudo! - Sono troppo basso di statura, - replicò Ubaldo. - Corpo di Satanasso! - esclamò Corrado, - eppure a quelle finestre vedo mia cugina, che parla con alcuni cavalieri ai quali dispensa le rose che portava in petto. Ubaldo si alzò in punta di piedi. - Quanto desidero di vederla! - disse. - Sangue di Satanasso! ci vuol poco. Sali sul mulino e sarai più alto di me. Ubaldo seguì il consiglio e salì la scaletta tarlata. Quando fu giunto in cima, il cugino gli domandò che cosa vedeva. - Non vedo altro che gli alberi, che mi paiono piccini, - rispose, - e delle case che non sono più grandi delle conchiglie che la burrasca getta sulla spiaggia del mare. - Guarda più vicino, - disse Corrado. - Più vicino non vedo altro che la pianura verdeggiante. - Anche più vicino, - replicò il Gigante. - Più vicino ancora non scorgo se non prati fioriti. - Ma guarda sotto a te! - Sotto a me! - gridò Ubaldo spaventato. - Invece della scala per discendere, vedo le fiamme che salgono! Ed era vero, perché Corrado aveva portato via la scala e dato fuoco alle fascine ammucchiate; e il vecchio mulino era circondato da una fornace ardente. Ubaldo si raccomandò al Gigante di non lasciarlo morire di una morte così tremenda. Corrado invece gli voltò le spalle e si allontanò fischiando. Allora il giovane, sentendosi soffocare, ripeté l'invocazione: O morto mendicante, presto accorri; Chi la tomba ti die', tosto soccorri! In quel momento comparve il Santo, tenendo nella destra un arcobaleno di cui l'estremità opposta era immersa in mare e spargeva rugiada fitta fitta; e dall'altra teneva la scala di Giacobbe, che riunisce la terra al cielo. L'arcobaleno spense l'incendio, quindi Ubaldo si servì della scala per discendere e tornò al castello sano e salvo. Corrado, nel vederlo, rimase a bocca aperta, e incominciò a tremare come una canna; quindi, per evitare che il cugino lo punisse della sua ribalderia, corse a prender le armi e fece sellare il cavallo; ma mentre stava per uscire dal cortile e imboccare il ponte levatoio, Ubaldo posò una mano sulla groppa del cavallo e disse: - Non temere, cugino; nessun essere vivente saprà quello che è successo fra noi. Tu sei angosciato perché Iddio mi ha dato prosperità maggiore che a te. Io voglio però guarirti dal male dell'invidia, che ti dilania il cuore. Da oggi fino al giorno della mia morte, tu avrai la metà di tutto quello che mi appartiene, meno mia moglie. Va' dunque, e non ruminare contro di me pensieri malvagi. L'atto di questa cessione fu rogato da un notaro in tutte le regole, e Corrado ebbe ogni anno la metà del prodotto dei campi e del bestiame. Ma questa generosità di Ubaldo non aveva fatto altro che invelenire maggiormente il cugino, perché i benefizî immeritati non procurano né soddisfazione né vantaggio. Egli non voleva più assassinare Ubaldo, perché morto lui perdeva la metà delle rendite de' feudi; ma lo odiava, come lo schiavo oppresso e bastonato odia la mano che lo schiaccia e percuote. Un'altra cosa poi aumentava la rabbia dell'invidioso, ed era il vedere che tutto prosperava intorno ad Ubaldo. Non gli mancava altro che un figlio per essere perfettamente felice, e Imelda mise al mondo un maschietto, bello e forte, che nacque senza piangere. Ubaldo mandò inviti a tutti i signori dei castelli vicini pregandoli di assistere al banchetto del battesimo, e i convitati giunsero da Ancona, da Loreto, da Fermo, da Camerino e da Recanati, tutti accompagnati da nobili dame e con seguito numeroso. Il battesimo del figlio dell'Imperatore non avrebbe richiamato maggior numero di cavalieri né di dame. Tutti erano già riuniti nella sala d'onore, e Ubaldo, insieme con la comare e il compare, era andato in camera d'Imelda per prendere il neonato e portarlo nella cappella, quando sulla porta della stanza comparve pure Corrado, con un sogghigno sul viso di traditore. Imelda, nel vederlo, gettò un grido, poiché sul volto del cugino ella aveva letto delle sinistre intenzioni, e il suo cuore di madre non l'ingannava. Corrado entrò in camera curvandosi e facendo inchini, e, dopo averle fatto i mirallegri, la ringraziò del dono. - Di qual dono intendi parlare, cugino Corrado? - domandò la povera donna mostrandosi oltre ogni dire meravigliata. - Me lo domandi? Non hai forse unito un figlio alle ricchezze di Ubaldo? - disse il Gigante. - È vero, - rispose Imelda. - Ebbene, sappi che un atto legalmente rogato mi dà diritto alla metà di tutto ciò che appartiene ad Ubaldo, meno la tua gentil persona. Mi scuserai dunque se vengo a richiedere la metà del bambino nato da poco. Tutti coloro che erano in camera mandarono un grido; ma Corrado rispose che voleva la sua parte del bambino, aggiungendo che, se gliela ricusavano, la prenderebbe da sé; e fece vedere un coltello da caccia che teneva infilato alla cintura. Vi fu un momento di terrore, e il Gigante ne approfittò per stendere le braccia fino alla culla, afferrare il piccino e darsela a gambe. Prima che Ubaldo pensasse a inseguirlo, egli era già fuori del castello, e col piccino in collo montava un cavallo già sellato, che pareva attenderlo, e via di carriera. Figuriamoci come rimanesse Imelda a vedersi portare via il bambino, e qual dolore ne risentisse Ubaldo! Egli però non si smarrì d'animo e disse: O morto mendicante, presto accorri; Chi la tomba ti die', tosto soccorri! Apparì infatti il Santo, con la ricca veste e l'aureola intorno al capo, e disse: - Ubaldo, Nostra Signora di Loreto ti salverà. Guarda nella direzione in cui è fuggito Corrado; vedrai che tu non scorgi più il fuggiasco, ma vedi una casa nuova. Ebbene, in quella casa senza uscite, che la Madre di Dio ha fatto sorgere a un tratto per custodire il ribaldo, è imprigionato il tuo bambino. Corri a liberarlo da Corrado, che lo vuole uccidere. Ubaldo corse fuori, seguìto da gran parte d'invitati e di servi, e giunto alla casa vide, dalle solide inferriate, che il cugino affilava sopra una pietra la lama del coltellaccio che prima portava alla cintola, dicendo: - Se Ubaldo non mi dona l'altra metà della rendita de' suoi beni in cambio della vita del figliuol suo, è un padre snaturato. Non vedo il momento che egli torni a ramingare, e che io possa insediarmi nel castello. E arrotava sempre il coltellaccio. - Rendimi mio figlio! - urlò Ubaldo attraverso le inferriate. - Non son così pazzo; cedimi tutto quello che possiedi e lo avrai. Ubaldo esitò. Non poteva ridurre la moglie e il bambino alla miseria. Invece di rispondere, egli invocò il vecchio Santo: O morto mendicante, presto accorri; Chi la tomba ti die', tosto soccorri! In quel momento cento mani invisibili legarono strettamente il Gigante, la casa sparì come per incanto, e il ribaldo fu sollevato di peso e ricondotto in camera di Imelda, dove lo seguì Ubaldo col bambino fra le braccia. Appena tutti vi furono penetrati, quella stanza venne illuminata da un chiarore celeste, e il Santo comparve sopra una nube a fianco della Vergine Maria. - Eccomi fra voi, o miei fedeli, - disse la Madre di Dio. - Marco, il mio buon servo, mi ha fatto abbandonare il Paradiso per venire fra voi a risolvere una controversia. - Se siete la Madre del Signore, non permettete che mi si tolga il figlio che mi avete dato. - Se siete la Regina del Cielo, fatemi rendere ciò che mi è legalmente dovuto, - aggiunse Corrado sfrontatamente. - Ascoltatemi, - ordinò Maria. - Tu, Ubaldo, e tu, Imelda, avvicinatevi a me; fin qui io non vi diedi altro che le gioie della vita; ora voglio far di più per voi due: voglio darvi le gioie della morte. Voi mi seguirete nel Paradiso del Figlio mio, ove non penetrano altro che gli eletti, ove i dolori, i tradimenti, le malattie sono ignoti; in quanto a te, Corrado, sei nel pieno diritto, se vuoi, di dividere la nuova proprietà che è stata concessa ai tuoi cugini, e morrai come loro; ma per discendere bensì nelle profondità dell'Inferno, dove sei atteso per i gravi peccati commessi. Il Demonio ti farà lieta accoglienza nel suo regno dei dannati. Nel terminare queste parole, la Vergine stese la mano, e il Gigante scomparve in una voragine, mentre i due sposi e il bambino s'inchinavano uno sull'altro come una famiglia addormentata e sparivano nell'azzurro del cielo, trasportati da una nuvoletta vaporosa. Nel luogo ove avvenne il miracolo, la gente del paese costruì un santuario, e gli afflitti e i devoti vi recarono copiose offerte di monili d'oro e di gemme. Una notte i saraceni sbarcarono, non visti, sulla spiaggia vicina, e dopo aver saccheggiato il castello, che era guardato da pochi monaci, ritornarono ai loro bastimenti, portando seco tutti i voti ricchissimi e dando fuoco al castello. Però la memoria del miracolo è viva ancora negli abitanti del contado, e nessuno passa dinanzi al luogo dove sorgeva il castello del barone Federico, senza dire: - Vergine benedetta, fatemi morire come Ubaldo, Imelda e il loro bambino! La vecchia aveva appena cessato di parlare, quando Beppe tornò col mulo sull'aia. - Se sapeste, babbo, quante domande mi hanno fatto quei due signori che ho accompagnati! Volevano sapere quanti si era, che cosa si faceva tutti radunati sull'aia, e chi era quella bella sposina che li aveva invitati a rinfrescarsi. Hai capito, zia Vezzosa? - Spero che tu avrai risposto garbatamente, - disse la Carola, mentre la cognatina arrossiva. - Lasciate fare a me, che a parlare non mi vergogno. E volete un po' sapere chi è quel signore? - Sicuro che lo vogliamo sapere. - Ebbene, è il nuovo ispettore forestale. Il sor Paolo, che è stato a Camaldoli fino a ora, va in Piemonte, e questo è venuto a far vedere alla moglie se le piace il posto prima di condurla lassù. Lui c'era già stato, perché ha fatto gli studî a Vallombrosa, ma la moglie no. A proposito, il sor Paolo, che era venuto incontro ai forestieri, quando li ha visti ed ha sentito che volevan ripartire domani, s'è subito opposto. Vuole che restino da lui qualche giorno. Perciò la signora mi ha detto di avvertire la garbata sposina che domani non ripasseranno, e fino a domenica non scenderanno a Camaldoli. - Proprio il giorno di Pentecoste! - esclamò Vezzosa. - Tanto meglio, così ci troveranno tutti in casa e non interromperemo le nostre faccende per riceverli. - Sapete che cosa diceva il nuovo ispettore? - disse Beppe rivolto al babbo suo. - Che quassù vi è bisogno di rimboscare, e che egli vuole in pochi anni coprire le nostre piagge di abeti, come c'erano al tempo antico. - Tanto meglio, - disse il capoccia, - il legname è la ricchezza di questi posti. Mi contenterei che ci distribuissero degli alberi giovani da piantare. - E li distribuiranno! - rispose Beppe con tono sicuro. - Con quel signore non mi perito a parlare, e glielo dirò. - Via, ciarlone, va' a letto! - ordinò la Carola, - domattina bisogna esser desti all'alba, che il da fare non manca. Beppe si alzò a malincuore, perché aveva voglia di raccontare dell'altro; ma prima di andare a letto consegnò a Maso le due lire che aveva avuto dai signori, e mormorò nell'orecchio alla Regina: - Dite, nonna, la novella che non ho udito, me la raccontate domani? - Sì, - rispose la vecchia sorridendo a quel suo nipotino, nel quale le pareva di riveder Maso, - domani avrai la novella e parleremo dei signori. - Se volete ve ne parlo subito, - rispose Beppe. - Lei è una donnina garbatissima, ma che parla poco; il marito è un uomo gioviale e vuol bene alla moglie quanto ... indovinate un po', nonna, quanto? - Ci vuol poco: quanto Cecco a Vezzosa. - Per l'appunto! - Senti che confronti fa quel monello! - esclamò Cecco. - E che ne sai tu del bene che voglio alla mi' moglie? - Dovrei esser cieco per non accorgermi che gliene vuoi tanto, tanto; ma anche la Vezzosa te ne vuole, e di molto. - Via, a letto! - ordinò la Carola. E il ragazzo non se lo fece ripetere, perché con la mamma non si scherzava.

Il velo rimaneva in terra abbandonato. Il Conte e la Contessa, dopo avere atteso per un certo tempo Lisa, mandarono in cerca di lei, ma i valletti non riportarono altro che il velo lacerato e la notizia che l'infermo e i due uomini erano spariti. La Contessa scoppiò in lacrime, il Conte ordinò che fossero sellati i cavalli, e, partendo con una numerosa comitiva, la sparpagliò per tutte le vie, con ordine ai suoi uomini di cercare ovunque la carissima nipote. Questa, invece, traversava lo spazio, stretta fra le granfie di un Demone alato, il quale la depose in una grotta presso l'Alpe di Catenaia. Appena però l'ebbe posata in terra, Lisa si accòrse che, attaccato ai capelli, le restava un pezzetto del velo miracoloso, e, rinfrancatasi, si diede a pregare con fervore la Madonna. Intanto il velo si allungò per modo da coprirla tutta. Appena ella si sentì riparata da quel miracoloso vestito tessuto dagli angioli, non ebbe più paura del Diavolo, che la guardava a vista, e camminò arditamente fino all'imboccatura della caverna, chiusa da un macigno. Toccato che ebbe il sasso col velo, quello rotolò lontano ed ella poté uscire libera, mentre il Diavolo rimaneva inchiodato al suolo. Lisa non conosceva quei luoghi, ed errò tutta la notte per il monte, fermandosi ogni tanto per rivolgere una fervida preghiera alla sua Protettrice. Ella pregava fervorosamente non solo per ottenere la grazia di essere ricondotta all'ospitale castello di Poppi, ma ancora per implorare dal Cielo la liberazione di suo padre dalla schiavitù del Demonio. A giorno ella scòrse la grande torre di Poppi, illuminata dal sole nascente, e camminò con più lena. Finalmente, giungendo al piano, incontrò alcuni uomini del Conte, che l'avevan cercata tutta la notte, e mandarono grida di gioia vedendola sana e salva. Ella salì in groppa a un cavallo, e non si può dire quali accoglienze le facessero il Conte e la Contessa e con quanta devozione assistessero al Te Deum cantato come rendimento di grazia per la liberazione della giovinetta. Essi non vollero più che ella si esponesse fuori delle mura del castello, e le chiesero di fissare la data delle nozze con l'unico figlio loro, affinché il marito potesse proteggerla giorno e notte dalle insidie del Demonio. Lisa, confusa da tanto onore e da tanta bontà, stabilì che il matrimonio si conchiudesse fra quattro settimane, ma aggiunse che prima di accettare la mano del giovane Conte, aveva una missione da compiere: quella di adoprarsi per la salvezza del padre, che voleva assistesse alle nozze. Il Conte mandò subito alcuni uomini a Firenze per invitare messer Buonaccorso alle nozze della figlia, ma quando giunsero lo trovarono morto. Lisa, a quella notizia, pianse amaramente, ma non cessava di pregare per lui. Una notte però le apparve la Madonna e le disse: - Figlia diletta, le tue preghiere sono inutili; il padre tuo è fra i dannati. Non potendo liberarsi dai tormenti che gl'imponeva il Demonio per averti in corpo ed anima, s'è tolto la vita, e ora è all'Inferno con i reprobi. Lisa, accorgendosi che non poteva più nulla per lui, pregò per la famiglia che l'aveva raccolta, e su di essa attrasse le benedizioni del Cielo. Le nozze furono celebrate di lì a poco, e per lunghi anni la contessa di Poppi fu l'angiolo della casa. - Nonna, - disse Carlo appena la vecchia ebbe terminato, - so che questa è l'ultima novella che raccontate quest'anno; ma io mi auguro che possiate divertire anche i miei figliuoli e quelli di Vezzosa. La vecchia sorrise di compiacenza a quell'augurio, e dopo fu stabilito il giorno delle nozze, con molta gioia dei bambini, ai quali Carlo promise un sacchettino di confetti per ciascuno.

Al tempo dei tempi. Fiabe e leggende delle Città  di Sicilia

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Perodi, Emma 1 occorrenze

- Così il piccino crebbe, ed appena potè zampettare dovette lavorare dalla mattina alla sera a coltivar la terra, ed ebbe appena da sfamarsi : sempre e poi sempre marito e moglie gli ripetevano : - Ti teniamo per carità ; meritavi che ti si fosse abbandonato in un bosco. - Una sera il Principino, poteva avere un dieci anni, chiedeva al figlio del mugnaio un'arancia. - Dammela, fratuzzu dammela! - Ma tu non sei fratello mio ! - rispose l'altro. - Se tu fossi mio fratello te la darei, a te non te la do. Tu sei figlio di un'altra madre. Va'-e cercala tua madre in Palermo. La conosci tu? L'hai mai veduta? Che bella madre ! Come si cura del figliuolo ! - Queste stesse parole il Principino se l'era sentite dire tante volte, ma non ci s'era potuto assuefare e gli facevano sempre una gran pena. Zitto zitto se ne andò a piangere nello stanzino buio e fra le lacrime diceva : - È mai possibile che il mio babbo e la mia mamma non si rammentino di me? Che mi abbiano abbandonato in questo modo per farmi patire tanto ? Ma non ha cuore di madre la mia? - Aveva appena terminato di proferire questa domanda, che lo stanzino fu illuminato da un debole chiarore e in mezzo a quel chiarore comparve una donna pallida pallida, scarna scarna e avvolta in un gran lenzuolo bianco. - Che possono fare i morti per i vivi ? - disse la donna con un fil di voce. - Io morii quando tu nascesti, figlio mio, e su te non ho potuto vegliare. Tuo padre, il principe di Cattolica, ti affidò a un abate nel quale riponeva piena fiducia. Quel perfido, invece, si é impossessato del tuo. Va' a Palermo, istruisciti e quando sarai in età, chiedi che giustizia sia fatta. Io pregherò per te ! - Mentre il Principino sbalordito dall'apparizione e tutto tremante stava per rivolgerle una domanda, i contorni della figura si dileguarono, il chiarore svanì, ed egli si trovò di nuovo al buio, sulla paglia, ma meno afflitto, meno desolato di prima perché sapeva che sua madre vegliava su di lui. Glielo aveva detto dove doveva andare, ed egli subito le obbedì. Del resto glielo aveva detto anche il figlio della mugnaia che se ne andasse perché in quella casa era un intruso. Non appena fece giorno il Principino s'alzò dal suo giaciglio di paglia, uscì, e invece d' andare nel campo a lavorare, prese la via che conduceva a Palermo. Era digiuno, non aveva scarpe in piedi, eppure camminava senza sentir la fame nè i sassi della via: camminava pieno di speranza e di letizia. Giunse così a Porta Nuova, sotto il palazzo del Vicerè, ma era sfinito e si lasciò cadere in terra. Venne una ronda di guardie e il capo gli dette un calcio, dicendogli : - Alzati, mendicante ; qui non sono tollerati gli accattoni! - Si alzò e andò oltre, giù per il Cassaro, fino a Piazza Vigliena. Ma qui era l' ora della passeggiata e le dame passavano nei magnifici cocchi a quattro e sei cavalli, i cavalieri cavalcavano su focosi destrieri con ricche gualdrappe, ed altre guardie scacciarono il Principino, dicendogli : - Va' oltre, pezzente ! - E andò oltre, finché non giunse all'angolo di Via dei Chiavettieri, dove allora non c'erano altro che botteghe di fabbro, e appunto in una di quelle botteghe entrò il Principino, che aveva fame, e disse al padrone : - Mi prenda come garzone ; ho voglia di lavorare e sono forte. Domani e nei giorni seguenti mi guadagnerò il pezzo di pane che ora le chiedo per non morir di fame. - Questa domanda d'imprestito e non di elemosina, il tono con cui era fatta e l' aspetto dignitoso del fanciullo, coperto di pochi stracci, commossero il capo mastro, che subito lo fece ristorare, se lo prese in casa e lo mise a tirare il mantice. Il ragazzo lavorò sempre con zelo; non c'era caso che si imbrancasse con i monelli di strada; se lo mandava a riportare il lavoro o a comprar qualcosa, tornava subito, non parlava, non chiedeva nulla e si contentava del cibo che era abbondante e buono in confronto di quello che gli dava con tanto mal garbo il mugnaio; e se la moglie del fabbro gli dava qualche oggetto di vestiario, ringraziava con effusione e aggiungeva : - Mia madre, che è in Paradiso, pregherà per lei e per la sua famiglia! - Così di giorno in giorno il garzone si faceva voler più bene e ormai era come uno di casa. Appunto per la confidenza che aveva con lui, il fabbro una volta gli domandò : - Ma insomma, si può saper di chi sei figlio e come si chiamano i tuoi genitori ? - Non li ho mai conosciuti. Fui messo a balia da una mugnaia, un abate mi portò al mulino quando avevo pochi mesi, pagò per un po' di tempo il baliatico e poi non si fece più vivo, e allora il mugnaio e la moglie presero a maltrattarmi e a rinfacciarmi il pane che mi davano. Non rammento che maltrattamenti, rimproveri e fatiche, - aggiunse il ragazzo con un sospiro. - Ma non hai proprio nessun indizio de' tuoi genitori? - II poverino non voleva narrare l' apparizione della madre perché quel segreto era la sua sola gioia e la sua sola ricchezza. Per questo alla domanda del fabbro rispose : - Che so? m' hanno detto che sono figlio del principe di Cattolica e che quel perfido abate s'è impossessato di tutti i miei beni. - Era presente al discorso la moglie del fabbro, la quale provò un senso di pietà sentendo che quel ragazzo, figlio di principi, nato in un palazzo, in mezzo all'oro, dovesse fare tutte le faticacce. - Senti, - disse al marito - io non posso vedere che questo ragazzo fatichi a questo modo. Non sarebbe meglio farlo studiare, invece che lavorare ? Anche se non ricupererà i suoi beni, una volta istruito ci darà sempre aiuto, perché è tanto buono e riconoscente ! Del resto la figlia nostra non potrebbe tirare avanti la bottega ! e lui lo farà bene, avendo un po' d'istruzione. - Il fabbro si lasciò convincere dalle parole della moglie e tolse il Principino di bottega a tirare il mantice, lo mise a scuola e spese di bei quattrini per fargli insegnare prima a leggere e scrivere e fare di conto, e poi il latino, le scienze e tutto quello che si insegnava allora. Intanto il Principino raggiunse l'età maggiore e il fabbro fece fare l'albero genealogico della famiglia di Cattolica, cavò tutti gl'incartamenti e gli atti per intentar lite all'abate e provare che non lui, ma il giovinetto era l'erede dei titoli e delle ricchezze. Incominciò il processo, e l'abate, che sapeva d'aver torto marcio, non si stancava di mandar rotoli di doppie d'oro, ora ai giudici, ora al presidente del tribunale. E via via che il tempo passava e che si avvicinava il momento della sentenza, quei rotoli aumentavano di volume. Il fabbro, poveretto, si limitava a pagar gli avvocati e faceva già un gran sacrifizio, ma non aveva mezzi per battersi con l'abate a rotoli di belle doppie di Spagna. E quando dopo due anni venne pronunziata la sentenza, fu, naturalmente, favorevole all'abate. S'appellarono, e il fabbro, che non voleva darsi per vinto, vendette diverse case per sostener le spese e non badava a spendere; ma l'altro ungeva sempre le ruote, e ogni momento rinfrescava la memoria dei giudici e del presidente a forza di rotoli di belle doppie d'oro sonanti e, naturalmente, vinse. Il Principino, vedendo i gran sacrifizi fatti dal fabbro per lui, lo pregò e lo supplicò di non continuare la causa. - Lasci che mi metta a lavorare in qualche modo per rifarla delle spese incontrate per me, - gli diceva - ma rinunzi a far valere i miei diritti. Io non posso permettere che lei vada in rovina, continuando una lite che l'abate saprà sempre vincere perché dispone di tanti mezzi. - In queste cose non t'ingerire. Io ho una figlia sola e la sua dote è assicurata. Di quel che ho guadagnato con le mie braccia sono padrone di fare quel che voglio, e intendo di continuare la lite, dovessi rimetterci anche la camicia. Lasciami pensare al mezzo di richiamare al dovere questi giudici comprati dall'abate, e poi.... - II Principino intanto si struggeva dalla pena, non perché desiderasse le ricchezze, ma perché, andandone al possesso avrebbe potuto rendere al fabbro tutto quello che aveva speso nella lite. S'accorgeva bene che in casa avevano limitato le spese, che la moglie aveva impegnato l'oro, che nessuno si faceva più un vestito nuovo. E tutto perché ? Per quel processo che non finiva mai. Una notte il Principino non poteva dormire, agitato da mille pensieri, uno più doloroso dell'altro. A un tratto esclamò : - Madre mia, aiutami tu, non permettere che il tuo figlio non possa sdebitarsi con questa brava gente che lo ha raccolto povero, estenuato dalla fame e che per lui ha fatto tanto ; madre mia, aiutami ! - II giovane Principe, dopo questa invocazione, sentì una manina delicata accarezzargli la fronte e una voce debole debole e lontana lontana, disse : - Figlio mio, nessuno ti può aiutare, se non il re di Spagna. Lui solo ti può far rendere giustizia. Figlio mio, abbi dunque pazienza, costanza e fermezza ! - La voce tacque, ma, il giovane Principe si sentì consolato, e ogni volta che parlava col fabbro (sempre parlavano della lite, perché, si sa, la lingua batte dove il dente duole) gli ripeteva : - Nessuno ci può aiutare, se non il re di Spagna. Lui solo ci può far rendere giustizia. Ci vuoi pazienza, costanza e fermezza ! - II fabbro, a forza di sentir questo, si convinse che, di fatto, il Re solo poteva far rinsavire i giudici e, zitto zitto, di nascosto anche alla moglie, vende un' altra casa e le annunzia che deve partire per certi suoi affari. Invece s'imbarca per la Spagna, sbarca a Barcellona, piglia pratica alla Sanità e se ne parte per Madrid. A palazzo non conosceva nessuno e non era vestito come le persone di Corte ; per questo tutti lo sbirciavano con disprezzo, ma egli non ci badava. Era giorno di udienza e il Re riceveva tutti. Dopo lungo aspettare il fabbro fece passare l' ambasciata al Re, disse che veniva da Palermo e fu ricevuto. Appena alla presenza del Re, che era nientemeno che Carlo V, disse, gettandosi in ginocchio : - Maestà, grazia per il principe di Cattolica ! - Il Re lo guardò maravigliato perché non pareva davvero un Principe, e lo invitò a rialzarsi ed a parlare. Il fabbro allora cavò fuori tutte le carte che comprovavano le ragioni del Principino e le copie delle sentenze. Il Re, senza indugio, le esaminò, chiamò un suo giureconsulto a esaminarle, poi un altro ancora, e vedendo che si commetteva a Palermo certe nefandezze, esclamò : - Povero me, come sono ben servito ! Così si amministra in Sicilia la giustizia in mio nome ? - Proprio così, Maestà, - rispose il fabbro - soltanto chi ha quattrini ha ragione, anche quando commette una sfacciata usurpazione. - Ma questo non accadrà più, - assicurò il Re, e preso penna, carta e calamaio, scrisse una lettera per il Vicerè che doveva esser comunicata ai giudici, la munì del suo reale suggello e consegnandola al fabbro, disse: - Tenete, andate in Sicilia e abbiate fiducia che nessuno oserà più trasgredire agli ordini miei. - II fabbro, tutto consolato e pieno di speranza tornò a Palermo, consegnò la lettera del Re al Viceré, fece riaprire la causa, ebbe di nuovo una sentenza contraria e non se ne curò. Però il Principino se ne afflisse molto, e la notte dopo che fu pronunziata la sentenza, non riuscì mai a dormire. Sempre invocava la madre ed esclamava : - Madre mia, ma la giustizia è proprio morta a Palermo ? Come, non è rispettata neppure la volontà del Re ? Come, dovrò vedere quel perfido abate godersi i beni della mia famiglia e non potrò neppure rimborsare quest'eccellente popolano dei sacrifizi che fa per me? Non vedi, madre mia, che s'è disfatto di tutto quel che possedeva , non vedi che stenta per mantenere tuo figlio ? Non credi che questo sia uno strazio per me ? - L'infelice, dopo questa invocazione sentì un alito freddo sfiorargli il viso e due labbra gelate si posarono sulle sue, e quindi la solita voce affettuosa pronunziò lentamente queste parole : - Figlio mio, abbi pazienza, costanza e fermezza. Io pregherò per te. - E suggellando la promessa con un lungo bacio, si allontanò. Il fabbro sbraitava per la sentenza dei giudici, e tante ne disse che stavano per arrestarlo; ma il Vicerè non lo permise perché aveva nelle mani la lettera del Re e temeva qualche guaio serio. Il Principino, intanto, a tutti gli sfoghi del suo benefattore, rispondeva invariabilmente con le parole della madre : - Ci vuol pazienza, costanza e fermezza ! - Ma che pazienza ! - gridò una volta il fabbro. - Te lo faccio vedere io che cosa ci vuole! - E vende l'ultima casetta che possedeva con la bottega e tutto, e se ne va in Ispagna di nuovo. La moglie, che fino a quel momento non s'era lagnata e le era parso tutto giusto quel che il marito aveva fatto per il Principino, quando vide chiuder la bottega e dovette lasciar la casa, divenne una vipera. - Mio marito è pazzo ! - diceva a chi non voleva sentirla - è pazzo da legare! S'è mai veduto che un padre dia fondo a tutto quello che ha, riducendo la famiglia alla miseria, per far valere i diritti di uno che non è neppur suo parente ? Ecco qui, la nostra Angelina, non per vantarmi, era la ragazza più ricca di tutto il rione, e ora ha appena la camicia ! Chi se la piglierà così nuda bruca ? Nessuno. Ed ella ci rimprovererà sempre di averla sacrificata. - Non lo farò mai, mamma, - disse la fanciulla. - Io sono felice e non mi dispiace punto di non trovar marito. Sto bene così. Non vi pentite di quel che avete fatto per il Principino; io vorrei col mio lavoro, aiutarlo.- Angelina era abilissima nel fare ricami sulla tela, riproducendovi cacce, cortei reali e tante altre cose, che davano un pregio singolare alla biancheria. Ella si mise a lavorare e lavorava per le nobili dame e guadagnava tanto da campare sè e la madre mentre il fabbro viaggiava per la Spagna. Il Principino s'era rimesso a lavorare pure, e così la moglie del fabbro non mancava di nulla. Ecco che il fabbro sbarca a Barcellona, giunge a Madrid e si presenta al Re. - Maestà, il Vicerè di Sicilia ne fece un bel conto della vostra lettera ! - II Re si turbò. - Che sentenza hanno pronunziato i giudici ? - domandò. - Una bella sentenza ! Hanno dichiarato che l' abate ha tutto il diritto di valersi dei beni del principe di Cattolica e che il Principino è un truffatore. E l' abate se la gode nel palazzo e il Principino tira il mantice e suda a battere da mane a sera il ferro sull'incudine ! - Al Re vennero i brividi nel sentir questo. Poi incominciò a gridare e a battere i piedi. Prese la corona e la scaraventò contro il muro dicendo : - Che mi vale questa corona se non sono Re in Palermo ? - Poi prese lo scettro e lo scaraventò in terra dicendo : - A che mi vale questo scettro se non comando nulla in Sicilia e i giudici comandano più di me? - Poi prese il manto d'ermellino e lo strappò tutto, dicendo : - A che mi vale questo manto mentre nel mio Regno mi contano quanto Pulcinella ? - II fabbro, nel vederlo così infuriato, credeva che se la sarebbe presa anche con lui e l'avrebbe mandato a marcire in qualche prigione o a remare su qualche galera. Invece il Re, tutto buono si volse a lui e, mettendogli in mano una borsa piena di doppie d'oro, gli disse : - Andate a Palermo e udrete di gran notizie! - Il pover uomo ringraziò ed uscì lesto lesto. Più presto che potè s'imbarcò su una nave che faceva vela per la Sicilia e con quelle doppie d'oro rabbonì la moglie e levò il Principino da battere il ferro sull'incudine e da limare chiavi e toppe. Ma torniamo al Re. Subito subito fece chiamare un suo fido servitore. - Don Josè, - gli disse - io debbo partire per un lungo viaggio, ma non voglio partire da Re. Qui farete credere che sono all'Escurial a far gli esercizi religiosi e che non voglio esser disturbato, avete capito ? - Maestà, sì. - Procuratemi un vestito da abate, ma vecchio e bisunto, tagliatemi i baffi, fatemi la chierica.... - Don Josè credeva che il Re fosse impazzito. - Presto, don Josè, andate e stasera portatemi il vestito che v'ho chiesto. Non vi movete? Sono o non sono il rè di Spagna, d'Aragona, di Castiglia, di Leone, di Sicilia e del Nuovo Mondo ? Il discendente di Ferdinando e d'Isabella di Castiglia, sono o non sono Carlo V re e imperatore ? - Sì, Maestà, siete il più potente sovrano del mondo e sui vostri domini non tramonta mai il sole; ma appunto per questo, mi pare che l' etichetta richieda che il Re ne' suoi viaggi sia accompagnato.... - Al diavolo l' etichetta e tutto il resto, obbedite ! - E don Josè obbedì e la sera stessa portò il vestito da abate al suo Sovrano e dovette tagliargli i fieri baffi, la barbetta prepotente e col rasoio fargli una bella chierica nel centro della testa. Così trasformato il Re uscì dal Palazzo Reale di Madrid senza esser riconosciuto da nessuno, montò un ronzino, procurategli pure da don Josè e su quello pian piano percorse solo le strade maestre del suo Regno, accorgendosi che molte cose andavano male, che molte altre non erano come gli davano ad intendere ministri e cortigiani, e s' imbarcò finalmente a Barcellona. Una burrasca gettò la nave sulle coste di Trapani, dove il Re comprò un mulo e su quello si avviò alla capitale dell' isola. Ma se le cose andavano male in Ispagna, andavan peggio in Sicilia. Strade non ce n'erano, le campagne erano incolte e deserte, e il Re fu fermato tre volte nel viaggio dai malandrini. I primi gli presero la borsa con le monete d'oro, i secondi il mulo, i terzi, non potendo prendergli altro, gli levarono le scarpe con le fibbie d' argento, il mantello e l'abito talare, cosicché dovette fare il viaggio a piedi e scalzo e senza nulla che lo riparasse dal freddo e dalla pioggia. Figuriamoci che umore avesse quando pose finalmente il piede nella sua fedele città di Palermo. Se gli fosse capitato davanti il Vicerè che governava in suo nome, lo avrebbe per lo meno mandato alla forca. Fortuna che sapeva l' indirizzo del fabbro e andò a trovarlo! Il brav'uomo lo riconobbe subito e lo ristorò, lo calzò e lo vestì, altrimenti il Re sarebbe morto di fame ne' suoi felicissimi Stati. Il fabbro tempestò, fece l'ira di Dio perché di nuovo il Tribunale discutesse la causa e la discusse. Il Re quel giorno era nell'aula vestito da misero abate. A. un certo momento s'accorse che un giudice faceva una soperchieria, e pian piano disse : - Ma perché, signor giudice, non usate giustizia? - Ah, padre abate, occupatevi dei fatti vostri ! Se non ve ne andate, vi tiro il calamaio ! - II Re non voleva altro. Si sbottona la tonaca, si apre il colletto della camicia e fa vedere il Toson d'oro. I giudici rimasero come morti. - Giudici infami, - esclamò il Re drizzandosi - così vendete la giustizia ? Ordino e comando che subito questi cinque furfanti siano legati alle code dei cavalli e trascinati per la città. Voglio che il popolo veda che le loro ingiustizie, le loro infamie non sono approvate dal Re. - Subito questi giudici furono presi, legati alle code di focosi cavalli, trascinati per le strade e in un battibaleno erano bell'e morti. Poi furono squartati, scorticati e con la pelle dei giudici il Re fece fare tanti seggi e su questi seggi ordinò che sedessero sempre i giudici quando dovevano giudicare e condannare, perché non dimenticassero quel che era capitato ai loro predecessori. Il perfido abate perdette la causa e finì la vita in una prigione, e il Principino fu reintegrato nei suoi titoli e nei suoi beni e per riconoscenza sposò Angelina, la figlia del fabbro. Il Re fece alla sposa doni sontuosi e volle che le nozze fossero celebrate nella cappella Palatina, nel Palazzo Reale. Il Vicerè, poveretto, la passò brutta e così tutti i funzionari che governavano l' isola a nome del Re, il quale, facendo giustizia, si acquistò l' amore e la riconoscenza dei Siciliani. Il principe di Cattolica gli fece fare una statua che fu messa di fronte alla casa del presidente Airoldi nel Vicolo degli Agonizzanti. Il vicolo prese il nome di Cortile del Re, e la strada per la quale furon trascinati i giudici rei, fu chiamata la Calata dei Giudici e così si chiama ancora. Angelina e il Principe furono felici e contenti e lei fu Viceregina e il Principe Vicerè dell'isola per anni e anni.

Pagina 205

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679349
Praga, Emilio 2 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Ma il sindaco pretendeva rivendicarlo per antico dritto di proprietà non mai abbandonato che precariamente dal comune, - e coonestava l'animosità col progetto di farvi passare una viottola assai incomoda del resto che dalla strada provinciale, che saliva al di là della Strema, mettesse direttamente senza passar in paese alla frazione di Fontanile, le cui case si vedevano in fondo accovacciate in una piega del monte e non giustificavano davvero colla loro importanza quella singolare premura sindacale. Inoltrandomi fra le macchie, scoprii don Luigi. Era seduto dietro la casupola sopra un grosso ceppo di castagno coverto di muschio; teneva la fronte bassa appoggiata al dosso della mano e aveva le guancie rigate di lagrime. Non si accorse di me. Ebbi rimorso di averlo spiato. Per salvare almeno le apparenze, mi rivolsi indietro pian piano e, quando mi fui allontanato convenientemente, mi posi a cantarellare ad alta voce per metterlo sull'avviso della mia presenza. Egli mi richiamò per nome. Quando tornai da lui, s'era ricomposto, ma senza ombra di dissimulazione. Mi diè uno sguardo di amichevole confidenza, mi prese la mano e la tenne alcuni minuti nelle sue senza far motto. - Figliuolo, mi disse poi, ho pensato alle idee ieri manifestate dal dottore .... e, posso errare, ma quello mi pare materialismo nè più, nè meno. - È un argomento che prova troppo .... e nulla. Coll'ammettere l'irresponsabilità delle inclinazioni, si esclude la colpa, e il male; si esclude la pena, la sanzione e il giudice .... È tutto una conseguenza. Quanto a me, dinanzi a questo cielo e a questi luoghi, testimoni di tutti i miei pensieri .... e dei miei errori, - vi assicuro, - del male che ho fatto preferisco sentirmene responsabile e accusarmene, - perchè ciò mi da la speranza di ottenere perdono per me e la consolante certezza che sarà riparato per gli altri. Che ne dite? Che potevo dire? Il materialismo allora mi dava assai meno fastidio di adesso. Non lo conoscevo che da lontano, e mi seduceva coll'apparenza di una generosa, eroica ribellione contro la più assoluta autorità dell'universo. Pure ammiravo l'ingenua bontà di quell'animo che s'adombrava al pensiero di esser liberato da una obbligazione e protestava contro l'assoluzione offertagli, con una logica che veniva dal sentimento più che dal raziocinio. Esternai la convinzione che le sue parole non avessero altro movente che una eccessiva austerità di coscienza. - Il male che avete fatto è un modo di dire, soggiunsi, ma non è di tal natura da rimordervi troppo .... e quanto alla riparazione ella è bella e fatta a quest'ora .... - Zitto, vi prego, - m'interruppe subitamente turbato, - zitto, voi non sapete nulla. Volevo replicare, ma egli ripetè: - Non sapete nulla, non sapete nulla. Poi dopo alcuni minuti di silenzio, con maggior calma e una malinconica intonazione di voce: - No davvero, figliolo, non posso scroccarvi un giudizio tanto indulgente. La santità di ser Ciappelletto mi ripugna. La sua modestia era tanto sincera e tanto viva che non ardii combatterla, tacqui. Don Luigi si alzò, passò il braccio sotto il mio e mi trasse con sè in gran fretta. Al principio del sentiero si volse, abbracciò con uno sguardo di ineffabile tenerezza quel suo prediletto ricovero. - È forse l'ultima volta ch'io vengo quassù, mormorò; - oh i decreti di Dio colpiscono giusto .... Cominciammo a scendere la china in silenzio. Don Luigi era triste, accasciato come non l'avevo mai visto. Mi parve allora assai più vecchio del solito; si appoggiava al mio braccio e camminava a stento. Appressandosi al villaggio si rinfrancò un poco; ma non tanto che Baccio non s'accorgesse della sua tristezza. E mi disse con sincera schiettezza: - Vossignoria è andato a disturbare il curato; ha fatto male, ha fatto male. Egli aveva bisogno di restar solo. - Perchè? domandai sorridendo a fior di labbra. - Perchè, quando nessuno l'inquieta, egli trova colà nella solitudine il rimedio di tutti i suoi fastidi. E mi contò i mirabili effetti di quel luogo sull'animo del curato, ch'io sapevo già dallo speziale. - Ma cosa ci trova lassù? - Dicono, rispose esitando il sacrestano e abbassando la voce, dicono che venga un angelo a visitarlo. - Un angelo, chi l'ha veduto? - Saranno quasi vent'anni, un giorno tornando dalla Valsesia, scendevo per il Mongrigio. Arrivato a un certo punto dove il sentiero sovrasta al piano della Carbonaia guardo in giù e scorgo qualcosa di bianco fra i castagni: era una figura di donna ravvolta in un velo lungo fino a terra sotto al quale traspariva una veste azzurra. La visione passò lentamente fra gli alberi e scomparve dietro il muro dei carbonai. Non la vidi che un minuto, ma ne fui abbagliato. Splendeva più del cielo!, - andava cauta ma tanto leggiera che non pareva toccasse la terra. Dopo il primo stupore calai giù, passai il ponte dello Strona e, girando intorno alla collina, passai la strada di Sulzena. Allo sbocco del sentiero della Carbonaia incontrai don Luigi. Allora aveva dei dispiaceri ed era triste, afflitto più di adesso. Ma quel dì mi sembrò tutt'altro: mi passò vicino senza vedermi, incantato come uno che viene dal paradiso. Il paragone di Baccio non mi sembrò punto strano: il suo racconto in cui altri più positivo di me non avrebbe visto che una fiaba grossolana, mi interessava grandemente. Lo ascoltai come la più seria cosa del mondo. Egli era certo in buona fede. Eravamo in sacristia dove don Luigi ci aveva lasciati soli per entrare in chiesa a parare l'altare per la benedizione. Il sacrestano mi fece la sua confidenza agitando il turibolo a ravvivarne le brace. Il barlume del crepuscolo cadeva dall'alte e strette finestrello su certi visi pallidi di madonne e di sante; il bisbiglio sommesso dei devoti che entravano in chiesa, certi echi profondi, un acuto profumo d'incenso, - la maestà del luogo disponevano l'animo al meraviglioso. Un po' di prodigio cresceva attrattive alla misteriosa figura del curato.

Mi fissò nuovamente, parve riflettere, poi prendendo una rosa che pendeva lì vicino e fiutandola: - Che lusso di fiori, disse sbadatamente, e, abbandonato il ramo che rimbalzò a raggiungere il cespo, continuò: - Che taccola quel sindaco; uh! quando comincia a far danzare la lingua, non smetterebbe più; è una pioggia d'ottobre; è la mia morte quell'uomo. Alla messa, in piazza, nella farmacia, dappertutto, la sente la sua voce. E dover far finta di prenderci gusto! Chè, altrimenti guai! Ha un carattere ..... basta .... le sono seccaggini; pene e tormenti, inerenti alla vita di campagna. - Pare, interruppi, che oggi avesse qualche grave affare pel capo. - Lo so io? rispose Bazzetta animandosi; lo so io? Mi colga malanno se ho capito una parola di tutto il suo discorso. Non ha veduto? Dondolavo il capo, tanto per dargli ad intendere che la ascoltavo, e più di qualche monosillabo così pro forma come si suol dire, non ho risposto nè bianco nè nero. - Gli consigliaste la prudenza, se non ho male inteso. Trattasi dunque di cosa in cui è presumibile ch'egli possa dimenticarla, la prudenza? - È un affare che s'agita da un gran pezzo. Il curato possiede un campicello; un prato, per dir meglio, ombreggiato da una gran quercia. Son pochi metri di terra che non valgono due scudi, tanto più che il curato li lascia incolti, permettendo che vi raccolgano l'erba e le ghiande gli accattoni delle montagne. Però, il perchè lo ignoro, predilige quel luogo stranamente. Ci va, benchè la salita sia molto erta, quasi tutti i giorni, al tramonto, e vi resta a leggere un libro, sempre quello, da venti anni in qua. Or son pochi mesi, essendo obligato da tempo a star a letto per una febbre ostinata, un bel giorno, dopo aver molto e molto sospirato, gli venne la fantasia di farsi vestire e trasportar da Baccio fino lassù, sotto la sua quercia. Il giorno dopo era guarito. Ebbene, il Sindaco, col pretesto che quella poca terra è necessaria per farvi passare una viuzza, secondo lui indispensabile, vuole e pretende che Don Luigi la ceda al Comune, vantando non so quali diritti. Per me, ripeto, amico di tutti e farmacista di tutto il mondo, e così messer Iddio lo volesse. - Che ne dice? - E credete che il sindaco riescirà? - Eh! se ci si mette .... ha le autorità dalla sua .... ha influenze .... acqua in bocca ..... ecco don Luigi; facciamo sembiante di nulla. Il curato infatti ci veniva incontro pel viale di mezzo, tutto sorridente, e spalancando le braccia. Avute le mie congratulazioni per la cameretta, pel giardino e per la chiesa, don Luigi si rivolse al farmacista che accendeva una lunga pipa di schiuma e: - Caro Bazzetta, gli disse amichevolmente, avete data un'occhiata in cucina? Come vedete, oggi il pranzo è proprio di gala; bisogna farsi onore. - Non dubitate, reverendo, rispose l'altro toccandosi il cappello e inchinandosi burlescamente: ho già impartite le ordinazioncine; ora tocca alla Mansueta ed a Baccio; però un'altra occhiatinina può giovare. Ci vado. Quando il farmacista fu partito, don Luigi mi stese nuovamente la mano, e stringendo con effusione la mia, mi invitò a sedere sul banco di pietra. - Mi sembrate preoccupato, disse guardandomi in faccia dopo uno scambio di parole che era durato una diecina di minuti. Ditemi, per carità, che cosa vi ha tolto la ciera contenta di ieri sera? avete dormito male? vi è nata qualche contrarietà? parlatemi come a un vecchio amico, mio caro, giacchè voi siete già tale per me ... - Preoccupato, risposi, oh! no, davvero! È questa lieta novità di spettacolo che mi distrae: ho dormito a meraviglia, ho visto dei soggetti di pittura magnifici, tutto mi sorride e mi piace, sono vostro in corpo ed anima, e vi avverto, don Luigi, che il giorno di lasciar questa casa non è molto vicino. - E se occorresse barricarla, per allontanarlo di più, son io quello che la muterei in fortezza, sclamò il curato, a cui il lettore s'accorgerà che io non avevo detta tutta intiera la verità. I miei occhi non potevano togliersi da una macchia di castagni sovrastante al giardino, sotto la quale, da cinque minuti, era venuto a sedersi il terribile sindaco, armato di un grosso volume nero nero, e seguito da un figuro che la lontananza non mi permetteva di ben definire. Nella posa di quei due uomini raggomitolati sotto quelle fronde, v'era un non so che di truce, di misterioso, che mi sgomentava. La testa del sindaco, china sul libro, seguiva affannosamente la mano dell'altro che pareva leggesse; e di tanto in tanto si alzava verso il presbiterio, ed erano allora due pugni chiusi che si appuntavano nella stessa direzione. Per quanto mi fosse doloroso il togliere don Luigi alla sua calma allegria, non potei resistere al bisogno, che mi pareva dovere, di additargli quello strano gruppo, pur tacendo delle cose udite in cantoria. - Don Luigi, gli dissi, studiano molto le vostre pecorelle. Guardate lassù quelle due: si direbbero studenti di Università alla vigilia degli esami. Il povero vecchio alzò gli occhi, guardò, ravvisò, e un tremito gli corse sulle labbra, e un pallore, non so se di collera o di paura, gli coperse la faccia. Balbettò, per rispondermi, poche parole ch'io non compresi, e si alzò. - Entriamo in casa; oggi conoscerete tutti i notabili del villaggio. E mi precedette passandosi a più riprese la mano sulla fronte. Io mi sentiva l'anima oppressa.

L'altrui mestiere

680196
Levi, Primo 2 occorrenze

La competenza non ha surrogati: lo si è visto di recente nell' episodio terribile del bambino precipitato in un pozzo abbandonato, e morto dopo due giorni di tentativi generosi ma sbagliati. La buona volontà, il coraggio, lo spirito di sacrificio, l' ingegno estemporaneo non servono molto, anzi, in mancanza di competenza possono essere nocivi. Agli uomini di buona volontà è promessa la pace sulla terra, ma, nelle situazioni di emergenza, guai a chi si fida dei soccorritori che dispongono solo di buona volontà.

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Io credo che, in primo luogo, avrebbe abbandonato ogni tentativo di comparare gli uccelli con gli uomini. Attribuire agli animali (escluso forse il cane ed alcune scimmie) sentimenti quali la gaiezza, la noia, la felicità, è ammissibile solo in sede poetica, altrimenti è arbitrario ed altamente fuorviante. Altrettanto si può dire sull' interpretazione del canto degli uccelli: gli etologi ci spiegano che esso, specialmente se solitario e melodico (e quindi a noi più gradito), ha un significato ben preciso, di difesa territoriale e di ammonimento a possibili rivali o invasori. Assai più che al riso dell' uomo, sarebbe quindi paragonabile a manufatti umani poco amichevoli, quali le recinzioni e le cancellate con cui i proprietari circondano i loro possedimenti, o le insopportabili sirene elettroniche destinate ad allontanare i ladri dagli appartamenti. Quanto alla vivacità degli uccelli (di alcuni: altri, ad esempio i trampolieri, sono piuttosto tranquilli), si tratta di una soluzione obbligata a un problema di sopravvivenza: la si osserva soprattutto negli uccelli che si nutrono di semi o di insetti, e che quindi sono costretti ad un' attività frenetica per la ricerca del cibo, che è sparpagliato su vaste aree e spesso poco visibile; e d' altra parte l' alta temperatura del corpo e la fatica del volo obbligano questi uccelli a mangiare molto. Come si vede, è un circolo vizioso: faticare per procurarsi il cibo, mangiare molto per riparare i danni della fatica; un circuito chiuso non sconosciuto a buona parte del genere umano. Con queste osservazioni riduttive non ho affatto cercato di dimostrare che l' ammirazione per gli uccelli non sia giustificata. Lo è pienamente, anche se si accettano le spiegazioni che gli scienziati (non senza polemiche fra loro) ci vanno fornendo: anzi, soprattutto se le si accettano; ma si sposta su virtù diverse e più sottili. Come non ammirare, ad esempio, l' adattabilità degli storni? Fortemente gregari, abitavano da sempre le campagne coltivate, dove talvolta depredavano in misura massiccia le vigne e gli uliveti. Da non molti decenni hanno scoperto le città: pare che si siano installati a Londra nel 1914, e da pochi anni sono arrivati a Torino. Qui hanno scelto come dormitori invernali alcuni grandi alberi, in piazza Carlo Felice, in corso Turati e altrove, i cui rami, quando d' inverno sono spogli, a sera sembrano sovraccarichi di strani frutti nerastri. All' alba partono in reggimenti serrati "per il lavoro", cioè per i campi al di là della cintura industriale; rincasano al tramonto, in stormi giganteschi, di migliaia di individui, seguiti da ritardatari sparsi. Visti da lontano, questi voli sembrano nuvole di fumo: ma poi, a un tratto, si esibiscono in evoluzioni stupefacenti, la nuvola diventa un lungo nastro, poi un cono, poi una sfera; infine si ridistende, e come una enorme freccia punta sicura verso il ricovero notturno. Chi comanda l' esercito? E come trasmette i suoi comandi? I rapaci notturni sono straordinarie macchine da preda. Il loro aspetto inconsueto, ed un po' goffo quando sono a riposo, ha sempre destato curiosità, e qualche volta avversione. Hanno volo silenzioso, artigli potenti e grandi occhi frontali, che conferiscono loro un aspetto vagamente umano; ma anche gli occhi più grandi e sensibili sono ciechi quando l' oscurità è completa. Eppure, è stato osservato in esperimenti rigorosi che un gufo è capace di ghermire fulmineamente un sorcio, anche nel buio totale, purché questo produca un minimo rumore. Certamente la localizzazione avviene attraverso l' udito, e probabilmente entra in gioco l' asimmetria degli orecchi dell' uccello che da tempo era stata osservata: ma come i segnali acustici vengano elaborati è per ora un mistero. Anche più fitto è il mistero sull' orientamento degli uccelli. Si sa che non tutti gli uccelli migratori si orientano allo stesso modo, e che molti dispongono allo stesso tempo di strategie diverse, e si servono dell' una o dell' altra a seconda delle condizioni ambientali; certamente entrano in gioco i riferimenti geografici a terra e la posizione del sole; probabilmente anche il campo magnetico terrestre e il senso dell' olfatto. Ma si rimane attoniti, e percossi da una meraviglia quasi religiosa, nel leggere che alcuni migratori, che volano solo nelle notti serene, non solo orientano il loro volo sulle stelle, ma dalla configurazione del cielo ricavano con precisione il punto in cui si trovano, o in cui sono stati trasportati in sede di esperimento; e che sono capaci di tanto non solo gli uccelli che già hanno seguito lo stormo in precedenti migrazioni, ma anche individui giovani al loro primo volo. Tutto va insomma come se nascessero già in possesso di una mappa celeste e di un orologio interno indipendente dall' ora locale, stipati in un cervello che pesa meno di un grammo. Non minore è la meraviglia davanti al comportamento del cuculo, che alla luce della nostra morale umana appare dettato da un' astuzia perversa. Invece di costruire un nido, la femmina depone l' uovo nel nido di un uccello più piccolo; la coppia titolare del nido spesso (non sempre) non si accorge dell' intrusione, cova l' uovo estraneo insieme con i propri e il piccolo cuculo schiude. Appena nato, ancora implume e cieco, possiede già una sensibilità e intolleranza specifiche: non sopporta altre uova accanto a sé. Si rigira, si sforza, spinge, finché non ha fatto cadere a terra tutte le uova dei suoi fratelli putativi. I due "genitori" lo imboccheranno affannosamente per giorni e giorni, finché il pulcino sarà assai più grande di loro. Sembra di leggere un cattivo feuilleton, e non si sa se stupirsi di più per la perfezione degli istinti del cuculo, o per la mancanza di tali istinti nei suoi ospiti involontari: ma anche nei giochi della natura ci deve pur essere un vincente e un perdente. Gli uccelli, insomma, come altri animali, non sanno fare tutte le cose che facciamo noi, ma sanno farne altre che noi non sappiamo fare, o non altrettanto bene, o solo se aiutati da strumenti. Se l' esperimento che Leopardi sognava potesse essere realizzato, rientreremmo nelle nostre spoglie umane con parecchie frecce in più al nostro arco.

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ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

682188
Salgari, Emilio 2 occorrenze

Aveva quindi abbandonato quegli attrezzi, più di peso che di utilità, e si diceva che si fosse dato allo studio delle correnti aeree, volendo tentare un grande viaggio. Si sapeva che da parecchi mesi faceva delle ascensioni sulle coste della Nuova Scozia e dell'Isola Brettone con un pallone frenato; poi egli era improvvisamente partito per New York, assentandosi per varie settimane. Nei primi di aprile del 1878 il telegrafo annunciava che Ned Kelly avrebbe tentato la traversata dell'Oceano Atlantico, con un pallone di nuovo modello. Quella notizia commosse profondamente americani e canadesi. Gli scienziati dei due paesi s'affrettarono a chiamare quell'audace impresa un suicidio; i giornali si divisero in due campi, l'uno a favore dell'ingegnere, l'altro contro; il pubblico, salvo poche eccezioni, chiamò quel tentativo una pazzia! ... Pazzia, o suicidio, o buona riuscita, le persone meglio munite di denaro s'imbarcarono in massa chi sui piroscafi, chi sui velieri, chi sulle lance, e si portarono all'Isola Brettone. Tutti volevano assistere alla partenza della spedizione, quantunque i più fossero convinti di veder scoppiare quel nuovo pallone appena si fosse alzato e altri di assistere all'agonia dell'aeronauta e dei suoi compagni, se ne avesse trovati, perché non dubitavano che si sarebbero tutti annegati in mezzo all'ampio oceano. Mentre gli aiutanti dell'ingegnere si preparavano a gonfiare l'aerostato, la cui enorme massa occupava una gran parte dell'immenso recinto costruito sulla spiaggia, a tre miglia da Sidney, e a disporre i sacchi di zavorra, le casse dei viveri, i barili d'acqua, le gomene, le ancore, ecc., gli americani, gli inglesi e i canadesi, seguendo la loro passione, scommettevano con furore. I più giocavano contro la riuscita dell'impresa: ma taluni, che forse avevano una grande fiducia nell'ingegnere o nel suo pallone, puntavano in suo favore, eccitando la più alta sorpresa o la più clamorosa ilarità. A un tratto un grido echeggia: "Silenzio! ... " Le urla, le risa, le discussioni cessano come per incanto, gli occhi di quei tremila spettatori si fissano in mezzo al vasto recinto, dove si stendono due enormi tubi, le cui estremità si prolungano da una parte verso un caseggiato, dove si fabbrica l'idrogeno, e dall'altra scompaiono sotto due enormi cumuli di seta, che cominciano ad agitarsi, come se sotto di loro s'introducesse una rapida corrente d'aria. Un grido immenso scoppia da ogni parte: è un grido di stupore, che si converte subito in esclamazioni d'ogni genere e in discussioni animate. I dialoghi s'incrociano ancora da ogni parte. "Chi ha mai visto un pallone di quel genere? ... " "Un pallone! ... Ma sono due i palloni! ... " "A me sembrano due pelli di balena!" "Che Kelly abbia trovato il modo di dirigere gli aerostati? ... " "L'ingegnere ci farà perdere le scommesse." "A vantaggio nostro che abbiamo scommesso per lui! ... " "By God!" "Sapristi!" "Hurrah!, Hurrah!" Un alto grido scoppia da tutte le parti, e una carica di applausi frenetici rimbomba, coprendo i muggiti delle onde, che si frangono con furore contro la spiaggia, e le grida degli aiutanti. Quei due ammassi di seta si sono distesi sotto la spinta dell'idrogeno che s'ingolfa attraverso i tubi, e le forme che assumono strappano a tutti grida di meraviglia. Non sono i soliti palloni, che sembrano fiaschi rovesciati: sono due fusi immensi, lunghi quasi quaranta metri, con un diametro di quindici al centro, che si alzano lentamente con un leggero ondeggiamento, tendendo le corde che gli aiutanti, in numero di trenta, tengono con mani robuste. Al di sotto di quei due fusi, che rammentano le forme dei sigari avana, appeso a una lunga asta che occupa il centro dello spazio lasciato dai due aerostati, ma a una distanza di tre metri dal loro lato inferiore, si agita una specie di battello, lungo trenta piedi, già carico d'una infinità di oggetti, di pacchi, di sacchetti, di botti, di casse, ma costruito d'un metallo leggero e che si direbbe argento. Ancora pochi minuti e quell'immensa macchina spiccherà il volo sopra i flutti muggenti dell'Atlantico. L'emozione degli spettatori è al colmo. Ognuno dimentica le scommesse e tiene gli occhi fissi su quei due palloni, che sempre più si gonfiano, mentre gli aiutanti eseguono delle manovre misteriose con certe pompe. Si direbbe che iniettino, nell'interno dei due aerostati, un gas speciale o qualche cosa di simile. Ma quell'emozione prende enormi proporzioni quando si vede apparire l'ardito aeronauta, uscito allora dal caseggiato dove si fabbrica l'idrogeno. E un bell'uomo sui trentacinque anni, di statura alta, slanciato, con la fronte spaziosa, gli occhi neri e lampeggianti, i lineamenti energici. Indossa un semplice costume di lana bianca ed è seguito da un giovane negro di diciotto o vent'anni, vestito come lui. Un "hurrah" immenso scoppia: gli spettatori agitano pazzamente i berretti, i cappelli, i fazzoletti. "Viva Kelly!" "Viva il Washington!" "Hurrah ... Hurrah! ... " L'ingegnere, giunto in mezzo al recinto, fa spiegare sulla poppa di quell'imbarcazione argentea che deve servirgli da navicella, la bandiera stellata degli Stati dell'Unione, provocando da parte dei suoi compatrioti entusiastici evviva, poi con rapido sguardo esamina il suo magnifico apparecchio aereo, e volgendosi verso il pubblico, dopo aver reclamato con un gesto energico il più assoluto silenzio, dice: "Ho cercato, ma invano, un terzo compagno che mi segua in questo grande viaggio aereo attraverso l'oceano. Se qualcuno di voi si sente il coraggio di salire sul mio Washington, offro un posto." Un silenzio glaciale accoglie le parole dell'aeronauta: l'entusiasmo s'è estinto ad un tratto. Gli spettatori si guardano in viso l'un l'altro; ma nessuno emette un sì. Applaudire quel coraggioso, sta bene; ma accompagnarlo, seguirlo sull'oceano su quella macchina capricciosa in balia del vento, per perire forse nei flutti, è un altro affare! Nessuno si sente in vena di morire per la scienza. Kelly attende un minuto, poi balza nella navicella, seguito dal giovane negro, gridando: "Pronti al comando! ... " Ad un tratto un uomo si slancia attraverso la massa del pubblico, aprendosi il passo con spinte irresistibili, balza sopra il recinto e si precipita verso l'ingegnere, gridando: "Cercate un compagno: eccomi!" La folla per un momento raffreddata, si riscalda come per incanto chi è quel giovanotto che osa affrontare la morte? Nessuno lo sa; ma deve essere un coraggioso, e gli audaci sono e devono essere ammirati. Gli "hurrah" prendono proporzioni tali da assordare; gli applausi scoppiano dovunque, tutti agitano i cappelli e i fazzoletti, tutti urlano, si agitano, si dimenano come ossessi. Ma d'improvviso, mentre l'ingegnere sta per dare il comando di "Via tutti!" e i suoi trenta aiutanti stanno per abbandonare le funi, si odono delle grida di rabbia: "È lui!", "Addosso, policemen," "Prendiamolo!", "Fermate! ... Fermate!" Quindici o venti policemen, guidati da alcuni capi, si precipitano nel recinto, correndo verso il pallone, ma ormai è troppo tardi. Il vascello aereo, libero, s'innalza maestosamente, trasportando con sé l'ingegnere, il suo negro e quello sconosciuto, giunto all'ultimo momento. "Scendete!" gridano i policemen, che sembrano furiosi. Uno di loro con un salto si aggrappa a una fune pendente dalla navicella; ma il vascello aereo, che deve avere una potenza ascensionale immensa, lo trascina con sé. Il pubblico scoppia in una clamorosa risata. Lo sconosciuto però, che pare si aspettasse un simile colpo di scena, si curva sul bordo della navicella e taglia la fune con un rapido colpo di coltello, facendo capitombolare sconciamente l'agente di polizia, e rovescia sul capo degli altri un sacco di zavorra, accecandoli. Una guardia estrae il revolver e lo punta in alto; ma il pubblico, che s'è riversato nel recinto come una fiumana, glielo strappa di mano, per tema che guasti quella meravigliosa nave aerea. Un ultimo immenso grido riecheggia: "Hurrah! Hurrah per Kelly! Viva il Washington!" I due palloni erano allora tanto alti che già parevano due sigari: si videro per alcuni istanti rasentare un grande nuvolone che si estendeva sopra l'oceano, poi sparire verso il nord, in direzione di Terranova. Quasi contemporaneamente una rapida nave a vapore, un incrociatore della Real Marina, usciva precipitosamente da Sidney e si slanciava sulle tracce degli aeronauti.

Mentre così discorrevano, la notte era calata e l'aerostato aveva ripreso la sua discesa con una certa rapidità, trovandosi nel mezzo di una corrente di aria piuttosto fredda, quantunque non avesse abbandonato gli ardenti paraggi del tropico. Alle nove aveva già toccato i mille metri e non accennava ad arrestarsi; alle dieci, solo seicento metri lo dividevano dall'oceano. O'Donnell, che era assai stanco si coricò a poppa, mentre l'ingegnere si sedeva a prua fumando una sigaretta, in attesa che trascorresse il suo quarto di guardia. Il vento si manteneva sempre fresco, trasportando il Washington con la velocità di sedici miglia all'ora, ma aveva subito una notevole modificazione nella direzione poiché ora soffiava verso il nord. Mister Kelly non si inquietava però, anzi si rallegrava quantunque non si avvicinasse alle coste africane. Egli sperava di raggiungere i paralleli europei e di trovare, più tardi, una corrente che lo spingesse verso la Spaglia o il Portogallo. Verso le undici, volendo guardare i suoi strumenti per accertarsi dell'altitudine e della velocità del vento, accese una candela. Si era appena alzato per accostarsi alla murata di babordo, alla quale erano appesi gli strumenti, quando gli parve di udire echeggiare un grido. Sorpreso al massimo grado, guardò in alto, credendo che lo avesse emesso qualche grosso uccello marino, ma non vide nulla traversare il cielo stellato: guardò giù, ma nulla distinse sulla nera superficie dell'oceano. "È strano," esclamò. "Che qualche nave passi sotto di noi? Una nave! Ma si vedrebbero i fanali di posizione, mentre sull'oceano non scorgo alcun punto luminoso." Ascoltò alcuni minuti, tendendo gli orecchi e questa volta udì distintamente una voce umana che sbalzava dall'oceano. "O'Donnell!" gridò. L'irlandese che aveva il sonno leggero si svegliò bruscamente. "Tocca il quarto?" chiese. "Non ancora, ma volevo chiedervi se avete udito un grido." "No, Mister Kelly: dormivo come un ghiro." "Udite ... " Un grido come una chiamata disperata, era giunto ai loro orecchi. Pareva che venisse dal nord, cioè nella direzione in cui l'aerostato veniva spinto. O'Donnell benché non fosse superstizioso mormorò: "Che sia la voce del negro? ... Si dice che i morti sull'oceano riappaiono." "Fole di marinai," disse l'ingegnere. "Ma chi supponete che sia? Qualche grosso pesce forse?" "No: era un grido umano." "Zitto ... " "Ancora?" Nelle tenebre si udì distintamente una voce argentina, una voce quasi da fanciullo, a gridare: "Help! ... Help!" Kelly e l'irlandese si curvarono sul bordo della scialuppa e scrutarono avidamente la nera distesa dell'Atlantico, sperando di scorgere qualche cosa, ma l'oscurità era troppo intensa. "È un inglese!" esclamò O'Donnell. "O un americano," disse l'ingegnere. "E mi parve la voce di un fanciullo." "Forse è un naufrago." "E lo lasceremo perire, Mister Kelly?" "Ah no!" Fece con le mani una specie di portavoce e gridò con voce tonante: "Chi siete?" "Un naufrago," rispose la voce di prima. "Siete solo?" "Solo." "Potete mantenervi a galla fino all'alba?" "Monto un canotto." "Siete un ragazzo?" "Un mozzo." "Vi salveremo." "Grazie, buon signore!" "Non perdiamo tempo, O'Donnell," disse l'ingegnere. "Il vento ci trasporta con notevole difficoltà e non bisogna scendere fuori di vista." "Sacrificheremo dell'altro gas?" "È necessario, O'Donnell. Fortunatamente l'idrogeno è condensato, e non ne perderemo molto per abbassarci di cinque o di seicento metri." Impugnò le due funicelle che pendevano dai due fusi e con uno strappo aprì le due valvole di sfogo. Tosto in alto udirono dei leggeri scoppiettii e si sparse intorno alla navicella un acuto odore d'idrogeno. "Spegnete la candela," disse l'ingegnere. O'Donnell obbedì, poi calò le due àncore a cono per rallentare la discesa e frenare il pallone. Il Washington si abbassava con un largo dondolio, descrivendo di quando in quando dei giri concentrici. "Basta," disse l'ingegnere, lasciando andare le due funicelle. Le due valvole si chiusero, ma l'aerostato continuò ad abbassarsi con notevole rapidità. I due coni e la guide-rope sommersero e tosto rallentarono la sua marcia discendente, mantenendolo a sessanta metri dalla superfìcie dell'oceano. "Vedete nulla?" chiese O'Donnell all'ingegnere che aveva puntato un canocchiale da notte. "Sì, mi pare di scorgere una piccola striscia nera scivolare sull'oceano." "È lontana?" "Tre o quattro chilometri." "Allora fra poco il naufrago sarà qui. Come mai un ragazzo si trova perduto in mezzo all'Atlantico e solo?" "Lo sapremo più tardi. Udite lo sbattere dei remi?" "Mi pare di udire un lontano rumore. Ci vedrà quel mozzo ?" "Accendete una torcia: gli servirà da faro." La sottile striscia nera avanzava sempre verso il pallone e si distingueva ormai senza bisogno di cannocchiale e si udiva anche nettamente lo sbattere dei remi. In capo a mezz'ora era lontana poche centinaia di metri, su di essa si scorgeva una forma umana di piccole dimensioni, la quale manovrava i remi con grande energia. "Coraggio, giovanotto!" gridò Mister Kelly. "Grazie signore," rispose il naufrago. In pochi minuti superò la distanza, abbandonò il canotto, si fermò alcuni istanti sul primo nodo della guide-rope per riposarsi, poi si arrampicò con l'agilità di un gatto e raggiunse la navicella. O'Donnell lo afferrò per le braccia e lo depose nella scialuppa. "Grazie," ripeté il naufrago. Poi, dopo aver girato lo sguardo ardente sulle casse e sui barili che ingombravano la scialuppa, mormorò: "Da bere! ... Da bere, signori! ... Muoio di sete!"

IL RE DEL MARE

682248
Salgari, Emilio 2 occorrenze

Con una scarica fulminarono i cinque o sei dayaki che avevano abbandonato precipitosamente il falò attorno a cui bivaccavano, poi attraversarono come un lampo la debole linea d'assedio, continuando a sparare e urlando a squarciagola: - Viva Mompracem! I tagliatori di teste, sorpresi da quell'improvviso assalto, che erano ben lungi dall'aspettarsi, non avevano nemmeno tentato di opporre resistenza, sicchè l'animoso drappello potè gettarsi dentro il boschetto spinoso che copriva la cinta. Degli uomini erano comparsi sulle difese interne armati di fucili. Pareva che si preparassero a far fuoco, quando una voce imperiosa gridò: - Fermi! Sono amici! Aprite la porta! - Ohe, amico Tremal-Naik, - gridò Yanez con voce giuliva. - Non abbiamo affatto bisogno del piombo noi. Ne abbiamo avuto già abbastanza di quello dei dayaki. - Yanez! - esclamò l'indiano, con una vera esplosione di gioia. - Chi credevi che fosse dunque? - Alzate la saracinesca! Lesti! I dayaki tornano alla riscossa! Una enorme tavola di legno di tek, pesante come fosse di ferro, fu innalzata da parecchi uomini mediante funi sospese a grosse carrucole e le tigri di Mompracem col pilota ed il meticcio, si precipitarono entro il kampong, mentre i difensori della cinta salutavano gli assedianti con due colpi di spingarda e un violentissimo fuoco di fucileria. Un uomo di statura piuttosto alta, un po' attempato, avendo i baffi ed i capelli brizzolati, di taglia però ancora elegante ed insieme vigorosa, dai lineamenti fini, la pelle un po' abbronzata e gli occhi nerissimi, aveva aperte le braccia per stringere il portoghese. Non indossava il costume dei ricchi bornesi, bensì quello degli indiani modernizzati i quali hanno ormai rinunciato al doote e alla dubgah pel costume anglo-indù, più semplice e più comodo, consistente in una giacca di tela bianca con alamari di seta rossa, fascia larghissima ricamata in oro e calzoni strettissimi pure bianchi e turbantino. - Qui, sul mio petto, amico Yanez! - aveva esclamato, abbracciandolo strettamente. - È destinato che debba sempre ricorrere alla generosità ed al valore delle invincibili tigri di Mompracem. Come sta la Tigre della Malesia? - Muore di salute. - E la tua Surama? - Mi ama sempre intensamente. E Darma dov'è che non la vedo? - La tigre o mia figlia? - L'una e l'altra, giacchè mi scordavo della tua brava bestia. - Mia figlia dorme in questo momento e la tigre marcia verso la costa con Kammamuri. - Come! il maharatto non è qui? - esclamò Yanez. - Temendo che Tangusa non avesse potuto raggiungervi o guidarvi qui, egli è partito nonostante i miei consigli, con una piccola scorta e forse a quest'ora, se è riuscito a sfuggire ai dayaki, si è imbarcato per Mompracem. - Lo ritroveremo più tardi. - Vieni, amico, - disse Tremal-Naik. - Non è questo il luogo per scambiarci le nostre confidenze. Olà, Tangusa, fa' gli onori di casa e prepara da mangiare e da bere alle tigri di Mompracem. S'avviò verso il bengalow che s'alzava fra alcune immense tettoie piene di prodotti agricoli ed una doppia linea di capanne ed introdusse l'amico in una stanza pianterrena che era illuminata da una bella lampada indiana, i cui vetri azzurrognoli attenuavano la luce. Tremal-Naik non aveva rinunciato ai suoi gusti di bengalese. Ed infatti la stanza era arredata con mobili indiani, leggeri sì, ma elegantissimi e tutto all'intorno aveva quei bassi e comodi divani che si vedono in tutte le ricche abitazioni degli adoratori di Brahma, di Siva o di Visnù. - Un buon bicchiere di bram innanzi tutto, - disse l'indiano, empiendo due bicchieri con quell'eccellente liquore composto con riso fermentato, zucchero e succhi di varie palme che lo profumano. - Arresta il sudore. - Ed io sono inzuppato, come un cavallo che ha percorse dodici leghe tutte d'un fiato. Non sono più giovane, amico mio, - disse Yanez, vuotando poi d'un fiato il bicchiere. - Ed ora spiegami questo mistero. - Una domanda prima di tutto, se me lo permetti. Come sei giunto? - Colla Marianna e dopo d'aver forzata la foce del fiume. Più tardi ti narrerò i particolari di quella lotta. - Dove l'hai lasciata? - All'imbarcadero. - È numeroso l'equipaggio? - Ha forze uguali alle mie. Tremal-Naik era diventato meditabondo ed inquieto. - Sono uomini capaci di difendere il mio veliero, - disse Yanez che se n'era accorto. - Sono molti i dayaki, più di quanti credevo e soprattutto ben armati e anche bene esercitati. - Dal pellegrino? - Sì, Yanez. - L'avrai veduto, tu, quel briccone. - Io? Mai! - Non sai nemmeno tu chi è? - chiese Yanez al colmo dello stupore. - No, - rispose Tremal-Naik. - Io gli ho mandato un messo due settimane or sono, pregandolo di presentarsi da me per spiegarmi i motivi del suo odio, promettendogli salva la vita. - E lui si è guardato bene dall'obbedire? - Mi ha fatto rispondere invece che andassi io da lui onde consegnargli la mia testa unitamente a quella di mia figlia. - Tanta audacia ha avuto quel miserabile! - esclamò Yanez, indignato. - Udiamo: hai mai offeso qualche capo dayako? Quei tagliatori di teste sono ferocemente vendicativi. - Io non ho mai fatto male a nessuno, e poi quell'uomo non è un dayako, - rispose l'indiano. - Chi è dunque? - Alcuni affermano che sia un vecchio arabo fanatico, altri un negro e altri ancora un indiano. - Eppure ci deve essere un gran motivo per odiarti tanto. - Certo, ma più ci penso meno riesco a scoprirlo, ed invano tormento il mio cervello. Mi è venuto perfino un sospetto. - Quale? - È così assurdo che rideresti se te lo dicessi. - disse Tremal-Naik. - Gettalo fuori. - Che potesse essere qualche thug. Yanez invece di accogliere quelle parole con un sorriso, come l'indiano s'aspettava, era diventato lievemente pallido. - Sei ben certo, Tremal-Naik, - disse poi con voce grave, - che tutti i luogotenenti di Suyodhana, il capo degli strangolatori, siano stati uccisi da noi nelle caverne di Raimangal o dagli inglesi nelle stragi di Delhi? Chi ce lo assicura? - E tu vorresti che quel qualcuno avesse pensato a vendicare Suyodhana dopo undici anni? - Tu hai provata la tenacia ed hai pure provato l'odio implacabile di quegli assassini. Tu sei stato la causa della loro fine. Tremal-Naik era tornato a diventare pensieroso ed il suo viso tradiva una profonda angoscia. Ad un tratto, fece un gesto come per cacciare via qualche visione, poi disse: - No, è impossibile, è assurdo. I thugs, ammesso che ve ne siano ancora in India, non avrebbero atteso tanto. Quel pellegrino deve essere qualche furfante che cerca d'imporsi ai dayaki per fondarsi qualche sultania e che finge di odiarmi. Avrà fatto spargere la voce che io non sono un mussulmano, che io sono forse un nemico dei dayaki, una creatura inglese incaricata di soggiogarli o qualche cosa d'altro per mandarmi via di qui. Sarà tutto quello che vorrai, anche un vero fanatico, ma non un thug. - Sia come vuoi tu, ma mi pare che tu ti trovi in una non bella condizione. Hai perdute tutte le fattorie? - Le hanno saccheggiate e poi arse. - Sarebbe stato meglio che tu fossi rimasto con noi a Mompracem. - Volevo tentare di colonizzare queste coste e incivilire questi barbari. - E hai fatto un buco nell'acqua, - disse Yanez, ridendo. - Purtroppo. - E ci rimetterai qualche centinaio di migliaia di rupie. Meno male che le tue fattorie del Bengala possono pagare le spese. Quando sgombreremo? - Ti chiedo solo ventiquattro ore, - rispose Tremal-Naik, - per poter raccogliere il meglio che posseggo, poi daremo fuoco a tutto e raggiungeremo la tua nave. - E correremo al più presto verso Mompracem, - disse Yanez. - La nostra presenza è necessaria laggiù. Aveva pronunciate quelle parole con un tono così grave, che l'indiano ne fu colpito. - C'è qualche cosa in aria? - chiese. - Ma ... non si sa ancora. Corrono delle voci che inquietano la Tigre della Malesia. - E quali? - Che gli inglesi abbiano intenzione di farci sloggiare da Mompracem. È un po' di tempo che tutti gli atti di pirateria che succedono lungo le coste occidentali dell'isola li addebitano a noi, quantunque da molti anni i nostri prahos dormano sulle loro àncore. Dicono che la nostra presenza incoraggia i pirati costieri e che noi direttamente o indirettamente li aizziamo contro le navi che si recano a Labuan. Frottole, ma già tu conosci la doppiezza del leopardo inglese. - E anche la sua ingratitudine, - disse l'indiano. - Ecco come vorrebbero compensarci d'aver liberata l'India dalla setta dei thugs. E Sandokan cederebbe? - Lui! Ah! Quell'uomo è capace di gettare il guanto di sfida contro tutta l'Inghilterra e di ... Un lontano colpo di cannone gli aveva interrotta la frase. - Hai udito? - esclamò, balzando in piedi in preda ad una vivissima agitazione. - Sì, il cannone tuona verso il sud. - I dayaki attaccano la Marianna! - Seguimi sull'osservatorio, Yanez, - disse Tremal-Naik. - Di lassù potremo udire meglio da quale parte giungono gli spari.

Il comandante, attorniato dai suoi ufficiali, non aveva abbandonato il ponte. Yanez fu il primo a salire a bordo. Attraversò la folla e si fece sotto il ponte di comando, dicendo al capitano dello steamer, che non si era mosso per incontrarlo: - Non siete troppo cortese, signore, verso un uomo che avrebbe potuto cannoneggiarvi. - Fatelo, se così vi piace, - rispose freddamente il comandante. - Io non mi oppongo. Pensate però che a bordo della mia nave vi sono cinquecento e più donne, molti fanciulli e molti uomini che non sono inglesi. - Avete scialuppe sufficienti per contenerli tutti, compreso l'equipaggio? - Sì. - La costa bornese non è lontana e il mare per ora non ha alcuna intenzione di guastarsi. Fate imbarcare tutti e andatevene, perchè il piroscafo non appartiene ora che a me. - I miei marinai ed i passeggeri sono liberi di abbandonare la nave, io resterò qui, qualunque cosa debba accadere, - disse l'inglese. - Io non cedo ai pirati di Mompracem. - Ah! ... Sapete chi noi siamo? Bravissimo: vi affonderò colla vostra nave. - Voi l'affonderete? ... - Ci appartiene per diritto di guerra e, non avendo alcun interesse per conservarla, la offriremo ai pesci. Vi accordo due ore e aspetto coll'orologio alla mano. - Vi ripeto che io non lascerò la nave, - rispose l'inglese con ostinazione. - Desidero affondare insieme ad essa. - Se non vi strapperemo colla forza dal ponte di comando, - rispose Yanez, impazientito. Il portoghese stava per ritornare verso i suoi uomini che aiutavano i marinai del piroscafo a mettere in acqua le scialuppe, quando si vide venire incontro un uomo piccolo, tozzo, col mento accuratamente rasato e che celava gli occhi sotto due occhiali affumicati. - Comandante, - gli disse lo sconosciuto, levandosi vivacemente il cappello e sbottonandosi una lunga zimarra di panno oscuro che pareva non gli desse alcun fastidio, nonostante il caldo intenso. - Voi siete uno di quei famosi pirati della Malesia? - Uno dei capi, - rispose Yanez, guardando con curiosità quell'omiciattolo panciuto e paffuto. - Allora mi prenderete con voi, perchè io stavo appunto cercando una nave che mi sbarcasse a Mompracem. - Noi non andammo in quell'isola, che d'altronde non è più in nostro possesso e non imbarchiamo altro che uomini di mare e di guerra. - Io volevo venire con voi per combattere gli inglesi, signore. Io conosco tutte le vostre meravigliose imprese. - Voi! - esclamò Yanez, con accento beffardo. - Voi non sapete chi sono io. - No di certo. - Il demonio della guerra, o meglio, se vi piace, il dottor Paddy O'Brien di Filadelfia, infine un uomo che potrà causare danni immensi agli inglesi. Ecco perchè, signore, voi non rifiuterete d'imbarcarmi sulla vostra nave assieme ai miei bagagli. Vi renderò dei preziosi servigi, tali da far stupire e anche tremare il mondo! ...

I CORSARI DELLE BERMUDE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Sir William non aveva abbandonato il ponte di comando un solo istante. Spiava attentamente il nemico, che navigava certamente di là dalla linea visiva dell'orizzonte. Al cadere del sole la brezza si era tramutata in un vento così forte, che il Corsaro era stato costretto a far ritirare gli scopamari e i coltellacci e raccogliere i pappafichi ed i contrapappafichi Anche l'Atlantico era diventato irrequieto. Le onde si alzavano a poco a poco e si distendevano, rumoreggiando e rompendosi fragorosamente contro la poppa. Alle nove una profonda oscurità avvolgeva mare e cielo. Solo poche meduse, naviganti quasi a fior d'acqua e che si lasciavano trasportare dal Gulf Stream, scintillavano come globi elettrici. Tutti erano ai loro posti, pronti a impegnare risolutamente la lotta e tutti sentivano ormai il nemico che cercava di sorprendere la corvetta. Sir William era sempre sul ponte a fianco di Howard. Aveva riacquistato il suo sangue freddo e pareva che, per un momento, avesse dimenticato Mary di Wentwort ed il marchese d'Halifax. Il suo sguardo solo era irrequieto e spaziava continuamente sull'orizzonte ormai tenebroso. Una altra ora era trascorsa, quando la voce di Piccolo Flocco, il quale non viveva che fra le coffe e le crocette, gridò: - Badate! ... Corriamo fra due ombre! Sono le navi d'alto bordo! Dopo un breve silenzio, il Corsaro interrogò: - A dritta l'una ed a sinistra l'altra? - Si, capitano. - Per San Patrick, - esclamò sir William, - Che occhi hanno i due comandanti inglesi! Come hanno fatto a scoprirci con questa oscurità? Ah! ci vogliono prendere? La vedremo, signori miei! - Poi, alzando la voce gridò: - Dieci uomini nella stiva a guardia degli stoppacci. Se ci foreranno, chiudere subito le ferite. Si volse verso il luogotenente: - Vi affido il servizio dei pezzi del cassero. Per quelli del castello ci penserà Testa di Pietra. In quel momento un lampo ruppe la profonda oscurità a meno di sei gomere da sinistra, seguito da un rombo non intimavano più il "ferma" con un colpo in bianco, bensì con una palla di cannone e probabilmente di buon calibro. Il Corsaro si era curvato tendendo l'orecchio. Si udì come un laceramento. - Strappo alla gabbia di trinchetto - disse. - Che pessimi artiglieri! Ci volevano due palle incatenate, miei cari, per prendere in mezzo l'albero. Fra il silenzio che regnava sulla corvetta, si udì la voce del luogotenente prima e poi quella di Testa di Pietra. - Dobbiamo rispondere. - No - rispose sir William, il quale aveva imboccato il portavoce. - Non c'è premura. Timonieri! - Signore! - Poggia sempre al nord. Vedi quell'ombra enorme? - Sì, capitano. - Attacca su quella. Pronti i gabbieri! Fuori i grappini d'abbordaggio! Un altro lampo balenò e questa volta a dritta, alla medesima distanza, ed un altro proiettile fischiò sulla coperta della corvetta, colpendo la testa di un gabbiere che stava salendo le griselle di trinchetto con un carico di grappini d'abbordaggio. Il disgraziato non ebbe nemmeno il tempo di mandare un ah! e precipitò in mare. - Per San Patrik! - esclamò il Corsaro. - Si massacra la mia gente! Ecco il buon momento per passare a colpi di bordate. Imboccò di nuovo il portavoce e gridò con voce tonante: - Non vi trattengo più, ragazzi! Coprite le inglesi di ferro e di piombo! La corvetta che, più rapida delle due pesantissime navi d'alto bordo ed infinitamente più maneggevole, stava per oltrepassare le due poderose avversarie, si coprì di fiamma e di fumo. Sparavano le batterie di dritta e di sinistra ed i quattro grossi pezzi da caccia. Appena cessato quel frastuono, seguì una terribile scarica di moschetteria. I cinquanta americani della giunca, ammassati sul castello di prora saettavano con una tempesta di palle le due navi inglesi, spazzandone gli altissimi ponti. Le due navi d'alto bordo non indugiarono a rispondere. Quella che si trovava sopravvento fu la prima a scatenare tutti i suoi pezzi di dritta; ma sia che in quel momento gli artiglieri si fossero ingannati sulla velocità della corvetta, o che qualche improvvisa ondata avesse fatto perdere loro le mire, la bordata passò a venti passi dalla poppa della fuggitiva senza recarle nessun danno. L'altra però, che si trovava a miglior portata, essendo più avanti, fu pronta ad imitare la consorella. Un uragano di ferro e di ghisa passò sulla tolda della corvetta, massacrando o storpiando una diecina d'uomini. Una palla passò vicinissima al viso del Corsaro, mozzandogli per un istante il respiro. L'alberatura per altro non aveva subito danno alcuno, sicché la nave aveva potuto continuare la sua velocissima marcia. - Per San Patrick! - esclamò il Corsaro. - Tirano come novizi! Signor Howard! Testa di Pietra! Sotto, a palle incatenate! Per la seconda volta la corvetta si coprì di fuoco e di fumo. Per cinque o sei minuti un frastuono orrendo coprì i muggiti delle onde. Le tre navi si scambiavano, incessantemente, palle incatenate, bordate di mitraglia, nembi di piombo, sparati però alla cieca, poiché la notte era oscurissima e la corvetta filava rapida, cambiando spesso di rotta con brevi bordate, per far perdere agli avversari il punto di mira. I ventotto pezzi della corvetta, manovrati da abili artiglieri che stavano fermi dietro ai sabordi, tiravano meravigliosamente, aspettando il momento opportuno per tempestare le navi nemiche. Alternavano palle e mitraglia, fracassando pennoni e rompendo manovre; ma forse il maggior danno lo recavano i cinquanta americani. Dietro le murate del castello di prora sparavano senza posa colle loro lunghe e pesanti carabine colpendo, ad ogni scarica, con precisione incredibile. Già la corvetta si credeva fuori di portata delle artiglierie avversarie, quando il treponti che veleggiava sottovento, con una manovra rapidissima le attraversò il passo. Sir William soffocò una bestemmia, poi imboccò il portavoce e gridò: - Timone all'orza! ... Cazza la randa! Contrabbraccio a sinistra! Pronti per l'abbordaggio! Tuoni per San Patrik! Prenderemo il treponti, se non lo caleremo a fondo. Testa di Pietra! Signor Howard! Palle incatenate dentro l'alberatura. Rasatemi quel colosso come una ciabatta. La risposta fu pronta. La corvetta virò sulla sinistra e scaricò i suoi dodici pezzi contro i treponti, poi virò sulla dritta e sparò una fianconata terribile. Nel medesimo istante i quattro pezzi da caccia scagliavano le loro palle incatenate attraverso l'alberatura dell'avversario. Fra il tuonare delle artiglierie si udì un crac secco, poi una voce alzarsi sul castello di prora. - Per il borgo di Batz! L'ho preso il volteggiatore maledetto. Era tempo! La catena ha segato o tagliato la maestra. Ala ferita non vola! Ci corra dietro, l'uccellaccio! Un urrà fragoroso salutò quel colpo maestro del vecchio. - All'abbordaggio! All'abbordaggio! - urlano centocinquanta e più voci. Il treponti si è inclinato sulla dritta, oppresso dal peso dell'altissimo albero che, troncato quasi alla base da due palle incatenate, bagna il suo mostravento in acqua. La gran nave è immobile. Non può più bordare e si presenta magnificamente per una grande bordata. Fra le urla della ciurma e degli americani che domandano di correre all'abbordaggio, la voce metallica del Corsaro si fa udire: - Fuoco di bordate e filate all'ovest! Passiamo! La corvetta, abilmente guidata, sfugge ancora una volta alla fiancata del secondo treponti che giunge troppo in ritardo, scaglia quattordici palle nel ventre della immobilizzata e con una magnifica bordata sfugge alla stretta, scaricando i suoi due pezzi da caccia di poppa, carichi a mitraglia. Qualche palla passa, ronzando sordamente, attraverso alla sua attrezzatura, ma ormai è troppo tardi. Fugge con pieno vento in poppa, ridendosi ormai del fuoco di quei centoventi pezzi. Howard continua a sparare i due pezzi da caccia poppieri, per proteggere la ritirata. Testa di Pietra invece ha fatto gettare in mare i morti, trasportare i feriti all'infermeria, poi ha caricato tranquillamente la sua pipa, l'ha accesa ed è salito sul ponte di comando, dicendo al Corsaro: - È finita. Gliel'abbiamo fatta a quei signori dalle giacche rosse e dalle calottine minuscole ... La rotta capitano? - Diritti su Boston - rispose William. - Quanti morti? - Ne ho fatti gettare quattordici nella grande tazza - rispose il bretone con un sospiro. - E feriti? - Ve ne sono sette all'infermeria e disgraziatamente uno rimarrà storpio per tutta la sua vita. - Mille sterline a sua disposizione. - Per il borgo di Batz! Mi sarei lasciato portare via anch'io una gamba per guadagnare una tal somma. Anche zoppo avrei potuto comprarmi una grossa barca da pesca e guidarla attraverso la Manica. - Fa' sfondare quattro barilotti di rhum, e dà da bere ai miei bravi. Bada che non si ubriachino. Boston non è lontana e chissà che cosa ci attende dinanzi alla sua baia. Non sarà facile forzare il blocco; tuttavia non dispero. Le cannonate erano cessate e le due navi di alto bordo erano scomparse nel tenebroso orizzonte. Solamente il vento sibilava attraverso l'attrezzatura. E la corvetta filava sull'Atlantico colla prora verso la costa americana

Sir William, che non si fidava che di se stesso, non aveva abbandonato un solo momento il ponte. Disposti i suoi uomini nelle posizioni dì combattimento, poiché non era improbabile che qualche nave inglese piombasse addosso alla sua appena entrato in porto, fece chiamare il colonnello americano che conosceva a menadito tutti i porti delle coste orientali dell'America. - Signor Moultrie, - gli disse nel momento in cui la corvetta tirava una lunga bordata dinanzi al porto - affido a voi il timone. Quali segnali dobbiamo fare per non farci bombardare dai vostri compatrioti? Tutt'oggi il cannone ha tuonato e può darsi che siano collocate batterie sulla penisola. - Alzate sugli alberi due fanali rossi - rispose l'americano - e teneteveli per cinque minuti. I nostri hanno uomini lungo le spiagge, incaricati appunto di segnalare le navi corsare e di guidarle. Vedrete che qualcuno giungerà. - Se potessi sapere dove incrociano le navi inglesi! ... - Si spostano continuamente e nessuno, che venga dal di fuori, potrebbe indovinare dove si trovano in questo momento. Desiderate altro? - No: al timone, colonnello, e badate di non mandare il mio Tuonante su qualche secca. - Conosco la baia come le mie tasche, quindi potete essere tranquillo. Il Corsaro lo accomiatò con un cenno della mano, poi scese sulla tolda e passò rapidamente in rivista i suoi uomini. Tutti erano ai loro posti di combattimento. Raggiunto il castello di prora chiamò Testa di Pietra il quale stava confabulando su uno dei due pezzi da caccia. - Vieni - gli disse. - Mi fido del colonnello americano ma ancora più di te. Conosci Boston? - Ci sono stato una decina di volte, capitano - rispose il bretone. - Sono trascorsi molti anni, tuttavia saprei condurre la corvetta a sicura destinazione. - È sulla Mistica che dovremo affondare le nostre àncore. Gli americani devono esser là! - E noi andremo a trovarli, comandante. Conosco quel fiume e so che il fondo è buono anche per le grosse fregate. - Fa' alzare sui due alberi fanali a luce rossa; poi mi raggiungerai sul ponte. Tornò sul ponte di comando, dopo aver scambiato alcune parole col suo luogotenente che, come sempre, aveva assunto il comando dei due pezzi da caccia poppieri e diede l'ordine: - Imboccate! La corvetta aveva terminata la sua bordata e si trovava dinanzi all'ampia baia di Boston, percorsa dalle grosse onde dell'Atlantico Nessun luce brillava dentro la baia, né sulla città. Pareva che assedianti ed assediati si fossero finalmente decisi a prendere un po' di riposo. Ma il Corsaro non si fidava affatto di quella gran calma, la quale poteva essere più apparente che reale. I suoi occhi interrogavano ansiosamente le tenebre e le sue orecchie ascoltavano attentamente. I fanali erano stati innalzati nel momento in cui la corvetta superava l'estremità della penisola occupata, la notte prima, dagli americani. Il mare era pessimo anche contro la baia e le ondate si succedevano senza tregua. Erano appena trascorsi i cinque minuti d'obbligo ed i fanali erano stati riabbassati quando una voce si fece udire sotto la sinistra della nave. - How! Gettate una scala! Testa di Pietra che si trovava ancora sulla coperta, fece eseguire prontamente l'ordine. Pochi momenti dopo un uomo coperto da un ampio mantello d'incerato e barbuto come un miass del Borneo, montava a bordo chiedendo: - Il comandante? Testa di Pietra munito d'una lanterna e accompagnato da due fucilieri guardò attentamente lo sconosciuto, il cui mantello grondava. - Chi siete? - domandò, puntandogli contro il petto la pistola. - Un pilota americano: ho scorto i vostri segnali e sono accorso per mettermi ai vostri ordini. - E la scialuppa che vi ha condotto? - Ha già preso il largo. È stato un vero miracolo se ho potuto prendere al volo la vostra scala. - Vi nomino gabbiere di prima classe - rispose il bretone. L'americano rispose con un "grazie" ed una risata. - Seguitemi - riprese Testa di Pietra. - Il comandante è sul ponte. - Sono ai vostri ordini. Portate polveri? - Un carico completo. - Era tempo. Aspettavamo il colonnello Moultrie che avevamo mandato alle Bermude con una giunca. - È qui il vostro compatriota, ma il piccolo veliero lo abbiamo mandato a tenere compagnia ai pesci. Attraversarono la tolda e salirono sul ponte di comando, dove il Corsaro attendeva in preda ad una viva impazienza.. - Ecco il pilota che gli americani hanno mandato - disse Testa di Pietra. Sir William gli chiese: - Dove possiamo affondare le nostre àncore, al sicuro dalle navi inglesi? - Alla foce della Mistica. Le batterie del ridotto di Breed's Hill saranno sempre pronte a difendervi. - Andremo contro le inglesi? - La notte è pessima, comandante, e credo che le navi da guerra non lasceranno i loro ancoraggi prima che spunti l'alba. - Non faranno fuoco su di noi i vostri compatrioti? - A quest'ora la scialuppa che mi ha portato qui deve essere giunta a terra e l'ordine di non sparare non tarderà a giungere sull'altura di Breed's Hill. Potete passare. - Raggiungete sul cassero il colonnello Moultrie e guidateci all'ancoraggio. Io penso alla difesa. La corvetta s'avanzava cautamente, correndo lievissime bordate. L'oscurità profonda la proteggeva, tuttavia non vi era che da fidarsi. Gli inglesi avevano conservato, dentro la baia, buon numero di fregate e di batterie galleggianti, le quali potevano, da un momento all'altro, scatenare un fuoco infernale ed impedire il passo. - Aguzza gli occhi, Testa di Pietra, - diceva di quando in quando sir William. - Sono tutti e due fuori dalle orbite, rispondeva il bretone - eppure non riesco a distinguer nulla. - La notte non poteva essere più tenebrosa. - Poche volte l'ho veduta così. - Guarda! - Guardo, comandante, e riesco a malapena a distinguere i fiocchi, e ciò è già molto. Scommetterei la mia pipa che un gatto non riuscirebbe a vederli. Ad un tratto il bretone si curvò in avanti e si mise in ascolto. - Che cosa senti? - chiese sir William. - Ma ... non so ... In quell'istante la corvetta piegò rapidamente sulla sinistra sotto un vigoroso colpo di timone. Che cosa avevano scorto i due piccoli americani? La risposta fu pronta. Una gigantesca ombra, che navigava senza fanale era comparsa improvvisamente sulla diritta a pochi metri di distanza. - Chi vive? - gridò una voce. - Inglesi - rispose prontamente sir William col portavoce. - Poggiate verso la gettata per la verifica o vi coliamo a fondo. - Obbediamo. Si slanciò dal ponte e percorse a gran passi la tolda dicendo agli uomini che stavano a guardia dei bracci delle manovre: - Bordate a sinistra! Lesti! Abbiamo una fregata addosso. Poi raggiunse il colonnello ed il pilota americano e diede loro alcuni ordini. La corvetta, pochi istanti dopo, invece di eseguire il comando ricevuto dagli inglesi, con una improvvisa bordata s'allontana in senso inverso, puntando sulla foce della Mistica. Quasi nello stesso momento il Corsaro, che era ritornato sul ponte di comando, lanciava il ben noto grido: - Fuoco di bordata!

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Cinque o sei esseri umani, che parevano già agonizzanti, cogli occhi schizzanti dalle orbite, pallidi come se tutto il sangue avesse abbandonato i loro corpi, si contorcevano disperatamente, mandando lugubri lamenti. Non si vedevano che i loro tronchi, avendo le gambe, fino alle cosce nascoste entro il tavolato, in quei buchi che già Fedoro aveva notati. Alcuni aguzzini seminudi, veri tipi di carnefici, si sforzavano di far inghiottire ai martirizzati un po' di riso e qualche sorso di sciam-sciù, specie di acquavite estratta dal miglio. - Ah! Infami! - esclamò Fedoro, rabbrividendo. - Quale spaventevole tortura! ... Uccideteli piuttosto di tormentare così quei disgraziati. - Che cosa stanno facendo quei mostri? - chiese Rokoff, additando gli aguzzini. - Cercano di prolungare l'agonia alle loro vittime. - E quale spaventevole supplizio subiscono quei miseri? Forse che stritolano lentamente le loro gambe? - Peggio ancora, Rokoff. Io ho udito parlare di questa atroce tortura e non vi avevo creduto, tanto mi pareva inverosimile. - Spiegati, Fedoro, sono un uomo di guerra. - Sotto quell'assito esiste un fossato ... - E poi? - Pullulante di topi, di vermi, d'insetti d'ogni specie. - Ah! Comprendo! - esclamò Rokoff, con orrore. - Essi divorano lentamente le gambe di quei miseri. - Sì, amico. - Canaglie! Potevano inventare un supplizio più atroce! E non poter far nulla! Se fossi libero accopperei a calci quei carnefici! Questi cinesi hanno il cuore delle tigri! Andiamocene, Fedoro! Quei lamenti mi straziano l'anima! - E dove andarcene? Sarei ben lieto di poter uscire; invece, come vedi, la porta è chiusa e solida. - Ti dico che non voglio rimanere più qui, dovessi spezzarmi le ossa contro queste pareti. Il bollente cosacco, senza attendere la risposta dell'amico, fidando d'altronde nella sua erculea forza, si scagliò come una catapulta contro la porta, facendola traballare. - La scardineremo! - gridò. - E allora guai a chi vorrà chiudermi il passo. Stava per slanciarsi una seconda volta, quando i due battenti s'aprirono violentemente, mostrando il magistrato seguito da quattro soldati armati di fucili colle baionette inastate. Fedoro ebbe appena il tempo di gettarsi dinanzi all'amico, il quale, reso maggiormente furioso, stava per scagliarsi contro tutti, risoluto ad impegnare una lotta disperata. - No, Rokoff - disse. - Sarebbero troppo contenti di ucciderci! - Che cosa fate? - chiese il magistrato. - Ancora una ribellione? Questi europei cominciano a diventare troppo importuni. - Levateci di qui - disse Fedoro. - Noi non siamo dei cinesi per assistere alle vostre barbarie. Nella vicina tettoia si tormenta e si uccide. - Sì, dei ribelli che avevano cospirato contro l'impero - rispose il giudice. - Sono cose d'altronde che riguardano noi e non voi. - Non possiamo resistere a simili infamie. Il giudice alzò le spalle, poi disse: - Siete aspettati. - Da chi? Da qualche membro dell'ambasciata? - chiese Fedoro, che aveva avuto un lampo di speranza. - Non siamo così schiocchi da avvertire il vostro ambasciatore. È il tribunale che vi aspetta per giudicarvi. Abbiamo fretta di vendicare Sing-Sing. - E di ucciderci, è vero? - chiese Fedoro, sdegnosamente. - Sì, se siete colpevoli. - Tu sai meglio di noi che noi non abbiamo commesso quell'abominevole delitto. - Il tribunale giudicherà. Venite e non opponete resistenza perché i soldati hanno ricevuto l'ordine di fare fuoco su di voi. - Andiamo - disse Fedoro a Rokoff, dopo avergli tradotto quanto aveva detto il giudice. - Vedremo se il tribunale oserà condannare degli europei senza l'intervento d'un membro dell'ambasciata russa. Ritenendo inutile ogni protesta e troppo pericolosa una nuova resistenza, seguirono il giudice, attraversando parecchi androni quasi bui, dove non si vedevano altro che gabbie destinate ai prigionieri più ricalcitranti, ed entrarono in una saletta quadrata e bassa, ammobiliata con un lurido tavolo sopra cui si vedeva un tappeto ancor più lurido. Due giudici, appartenenti probabilmente all'alta magistratura, avendo sui loro conici cappelli di feltro il bottone di corallo con fibbia d'oro, insegna dei mandarini di seconda classe, stavano seduti dinanzi al tavolo. Erano due panciuti cinesi, dalle facce color del limone, con grandi occhiali di quarzo, vestiti di seta a enormi fiori gialli, rossi e azzurrini. Presso di loro un cancelliere magro e sparuto, stava sciogliendo un bastoncino d'inchiostro di Cina e preparando dei pennelli, non conoscendo ancora i cinesi la penna o reputandola per lo meno inutile per le loro calligrafie veramente mostruose. In un angolo invece si tenevano ritti due individui d'aspetto sinistro, che portavano alla cintura certi coltellacci da far rabbrividire. Erano due esecutori della giustizia, pronti a far subire ai condannati i più atroci tormenti, anche lo spaventoso ling-cih o taglio dei diecimila pezzi, riservato ai traditori e ai più pericolosi delinquenti. Nel vederli, Fedoro aveva provato un lungo brivido. I due mandarini si sussurrarono alcune parole, guardando di traverso i due europei, poi il più anziano si volse verso Fedoro, chiedendogli: - Voi comprendete il cinese? - Sì, ma il mio compagno non parla che il russo, quindi domando che vi sia un interprete dell'ambasciata russa. - Tradurrete voi; noi non vogliamo stranieri qui, all'infuori dei colpevoli. - Noi non siamo sudditi cinesi, quindi voi non avete alcun diritto di giudicarci senza la presenza d'un rappresentante del nostro paese. - Per far intervenire l'ambasciatore e levarvi dalle nostre mani? Oh! Le conosciamo queste cose. - Io protesto. - Lo farete poi - disse il mandarino. - Voi siete accusati di aver assassinato Sing-Sing, un fedele suddito dell'Impero. - Chi lo afferma? - Tutta la servitù di Sing-Sing ha deposto contro di voi. - Sono dei miserabili, degli affiliati alla società segreta della "Campana d'argento", che per salvare i veri assassini incolpa noi. - Sì, sì, la vedremo. Da dove venite voi? - Io ed il mio amico Rokoff, ufficiale dell'armata russa, siamo sbarcati a Taku sette giorni or sono per venire qui ad acquistare cinquecento tonnellate di tè. - Siete un negoziante di tè, voi? - Sì, e la mia casa si trova a Odessa. - Siete venuto altre volte in Cina? - Tutti gli anni ci torno. - E conoscevate Sing-Sing? - Da molto tempo ed ero suo amico. Quale scopo dovevo dunque avere io per assassinarlo? - L'odio che tutti gli europei nutrono verso di noi e ... - Mentite! - E poi quello di derubarlo, perché il suo forziere è stato trovato vuoto. - E dove volete che noi abbiamo nascosto il suo denaro? - Chi mi assicura che non abbiate avuto dei complici? - chiese il mandarino. - Il maggiordomo di Sing-Sing ha affermato d'aver veduto delle persone sospette aggirarsi intorno al palazzo, anche dopo che tutte le lanterne erano state spente. - Allora è lui il colpevole! È lui il ladro! È lui che ha protetto gli affiliati della "Campana d'argento". - Il maggiordomo era affezionato al suo padrone; tutta la servitù lo ha confermato. - Sicché voi siete convinto che Sing-Sing sia stato assassinato da noi? Il mandarino alzò le braccia, poi le lasciò ricadere con un gesto di scoraggiamento, più simulato però che reale. Fedoro fu preso da un impeto di furore. - Voi non ci ucciderete, canaglie! - urlò, battendo furiosamente il pugno sul tavolo. - Noi siamo innocenti e per di più europei. - Se siete innocenti, provatelo - rispose il mandarino con calma. - Cominciate coll'arrestare il maggiordomo e costringerlo a confessare la verità. A voi i mezzi non mancano per strappargli quanto egli sa e che non vuol dire. - Non abbiamo alcun motivo per tradurlo qui e sottoporlo alla tortura. Non è già nella sua stanza che fu trovato il pugnale che servì agli assassini per trucidare Sing-Sing. - Siete dei banditi! ... - Dei giudici. - No, delle canaglie, che per odio di razza volete sopprimerci, ma le ambasciate europee non vi permetteranno di compiere una simile infamia. Il mandarino alzò le spalle, poi fece un gesto. Prima che Fedoro e Rokoff potessero sospettare ciò che significava, si sentirono afferrare per le spalle e per le braccia da dieci mani vigorose ed atterrare. Una banda di carnefici o di carcerieri, tutti di statura gigantesca, era entrata silenziosamente nella sala ed al cenno del mandarino si era scagliata improvvisamente sui due europei, prendendoli di sorpresa. Né Fedoro, né Rokoff avevano avuto il tempo di opporre la menoma resistenza, tanto quell'assalto era stato fulmineo. Mentre i giudici si ritiravano per deliberare sulla pena da infliggersi ai due colpevoli, i carcerieri ed i carnefici, aiutati anche dai soldati, strappavano di dosso ai due russi le loro vesti, costringendoli ad indossare una ruvida keu- ku, specie di casacca fornita d'ampie maniche ed un paio di keu-ku, sorta di calzoni molto ampi che formano sul ventre una doppia piega e che usano portare i barcaioli ed i contadini. Levarono quindi loro gli stivali, surrogandoli invece con le ha-tz, ossia scarpe grosse, a punta quadra e un po' rialzata, con suola di feltro bianco, poi con pochi colpi di rasoio fecero cadere le loro capigliature, non lasciando coperta che parte della nuca. Era una trasformazione completa: i due europei erano diventati due cinesi e per di più dell'ultima classe. Quando quei manigoldi ebbero finito, sollevarono violentemente Fedoro e Rokoff e li cacciarono a forza entro una gabbia di bambù, d'una solidità a tutta prova e così stretta da contenerli a malapena. Quando Rokoff si sentì libero, mandò un vero ruggito. S'aggrappò alle sbarre e le scosse con furore, mentre dalle sue labbra contratte uscivano urla feroci. - Banditi! Canaglie! Vi mangerò il cuore! Siamo europei! Aprite o vi uccido tutti! Erano vani sforzi. I bambù non si piegavano nemmeno, quantunque l'ufficiale, come abbiamo detto, fosse dotato d'una forza più che straordinaria. Fedoro invece, accasciato da quell'ultimo colpo, si era lasciato cadere in fondo alla gabbia girando intorno sguardi inebetiti. Intanto il cancelliere era rientrato tenendo in mano un cartello su cui si vedevano dipinte delle lettere contornate da geroglifici superbi. Lo mostrò per un momento ai due prigionieri, poi lo appese sotto la gabbia. Fedoro era diventato orribilmente pallido e si era avventato contro le traverse come se avesse voluto strappare al cancelliere quel cartello che annunciava la loro pena. Ed infatti aveva potuto leggere: Condannati a morte perché assassini. Subito otto uomini avevano alzato la gabbia ed erano entrati in un'altra sala dove se ne vedevano parecchie altre contenenti ciascuna due prigionieri, ma molto più piccole, tanto anzi, che i disgraziati che vi erano rinchiusi non potevano fare il più piccolo movimento senza mandare urla spaventose. - Fedoro - disse Rokoff, che aveva gli occhi schizzanti dalle orbite. - È finita, è vero? - Sì, se non interviene l'ambasciatore russo. - E oseranno ucciderci? - Come cinesi. - Perché ci hanno vestiti così? - Onde nessuno possa sospettare che noi siamo europei. - E come ci faranno morire? - Non so ... ma ho paura e sento che divento pazzo! ...

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Sull'albero che aveva allora allora abbandonato, scorse la tigre aggrappata ad uno dei rami; i suoi occhi scintillavano come quelli di un gatto e i suoi artigli strappavano la corteccia della pianta. Puntò rapidamente il fucile verso la fiera, la quale, sgomentata, si slanciò giù per guadagnare la jungla, ma si trovò dinanzi al rinoceronte. I due formidabili animali si guardarono reciprocamente per qualche istante. La tigre, che forse sapeva di nulla avere da guadagnare in una lotta col brutale colosso, cercò di fuggire, ma non ne ebbe il tempo. Il rinoceronte aveva fatto udire il suo grido. Abbassò la testaccia mostrando l'aguzzo suo corno e si slanciò furiosamente sulla belva, dimenando rabbiosamente la corta sua coda. L'urto fu terribile. La tigre aveva fatto un salto immenso, cadendo sulla groppa del colosso, il quale, fatti trenta o quaranta passi, si gettò a terra costringendola a lasciarlo. - Bravo rinoceronte! - mormorò Kammamuri. I due nemici s'erano entrambi risollevati, con rapidità fulminea, precipitandosi l'un sull'altro. Il secondo assalto non fu fortunato per la tigre. Il corno del rinoceronte le fracassò il petto lanciandola di poi in aria per più di quaranta metri. Ricadde, cercò di risollevarsi mugolando di dolore e di rabbia e tornò a volare ancor più in alto perdendo torrenti di sangue. Il rinoceronte non attese nemmeno che ricadesse. Con un terzo colpo della sua terribile arma la sventrò, poi rivoltandola contro terra la schiacciò coi suoi larghi piedi riducendola in un ammasso di carni sanguinolente e di ossa infrante. Tutto ciò era successo in pochi secondi. Il colosso, soddisfatto, emise due o tre volte il suo sordo fischio, indi rientrò nella jungla a devastare i bambù, senza però allontanarsi dallo stagno. La sua ritirata giungeva in buon punto, poiché Tremal-Naik, in preda al delirio e ad una violentissima febbre, s'era risvegliato chiamando Kammamuri. Ciò rendeva la situazione dei due indiani estremamente pericolosa, poiché l'intrattabile animale poteva udire le loro voci e comparire improvvisamente fra gli alberi. Il maharatto sapeva bene che non vi era da illudersi sulle probabilità di salvare la vita, nemmeno colla fuga, poiché tutte le specie di rinoceronti superano nella corsa l'uomo più agile. S'affrettò a raggiungere il padrone ed a liberarlo dalle erbe che lo coprivano. - Silenzio, - diss'egli, ponendogli un dito sulle labbra. - Se ci ode, siamo irremissibilmente perduti. Ma Tremal-Naik, in preda al delirio, agitava pazzamente le braccia e dalle labbra gli uscivano parole insensate: - Ada ... Ada! ... - gridava egli, sbarrando spaventosamente gli occhi - dove se' tu, vergine della pagoda? ... Ah! ah! mi ricordo ... Sì, mezzanotte! mezzanotte! ... Ed essi sono venuti, tutti armati, molti contro uno, ma non ho paura no, io, non tremo, sai, Ada, sono il cacciatore di serpenti ... forte! molto forte! L'ho visto sai quell'uomo, quello che ti ha condannata. Era brutto, molto brutto e voleva strangolarmi. Perché quegli uomini hanno dei lacci? Perché hanno anche loro il serpente sul petto? Quanti serpenti, quante teste di donna. Ma non mi fan paura. Che? io aver paura di loro? Io, Tremal-Naik? ... Ah! ... Ah! ... Tremal-Naik diede in uno scroscio di risa, che fece fremere il maharatto fino in fondo all'anima. - Ma padrone, sta' zitto! - supplicò Kammamuri, che udiva il maledetto animale saltare furiosamente sul limite della jungla. Il delirante lo guardò con occhi semi-chiusi e proseguì a voce più alta: - Era notte, notte molto buia, io scendevo dall'alto e sotto di me vagava la visione. L'ho udito il profumo cadere sulle pietre. Perché, crudele, adorare quella divinità? Non mi ami tu adunque? ... Tu sorridi, ma io fremo. Tu sai quanto ti ama il cacciatore di serpenti. Avrei forse un rivale? Guai a lui! ... Guarda che si avvicinano i maledetti ... ridono, sghignazzano e mi minacciano ... via di qui, via, assassini, via, via! ... Hanno ancora i lacci, li gettano ... aspettate che io vengo ... La vendicherò, assassini, eccomi! ... Kammamuri! Kammamuri! mi strangolano! Il delirante si alzò a sedere cogli occhi stralunati e la schiuma alle labbra e tendendo il pugno chiuso verso il maharatto gridò: - Sei tu che vuoi strangolarmi? Kammamuri, dammi le pistole che lo accoppi. - Padrone, padrone, - balbettò il maharatto. - Ah tu ... non sai chi sono? Kammamuri, mi strangolano! ... Aiuto! ... aiu ... Il maharatto gli soffocò le grida, mettendogli rapidamente una mano sulla bocca e rovesciandolo a terra. Il ferito si dibatteva furiosamente ruggendo come una fiera. - Aiuto! ... - tornò ad urlare. Dalla parte degli alberi si udì un potente grugnito. Il maharatto, tremante di spavento, vide il muso triangolare del rinoceronte far capolino fra le fronde. Si tenne per perduto. - Grande Siva! - esclamò, raccogliendo in furia la carabina. Il rinoceronte guardò il gruppo coi suoi occhietti piccoli e brillanti, ma più con sorpresa che con collera. Non vi era un istante da perdere. Quella sorpresa non doveva durare molto, per quel brutale colosso, che tanto facilmente si irrita. Il maharatto, reso ardito dall'imminenza del pericolo, puntò freddamente la carabina, mirò uno degli occhi e lasciò partire la scarica, ma la palla mal diretta si schiacciò sulla fronte del rinoceronte, il quale tese orizzontalmente il corno preparandosi ad assalire. La perdita dei due indiani era ormai quasi certa. Ancora pochi minuti e avrebbero subìta la medesima sorte della tigre. Fortunatamente Kammamuri non aveva perduto il suo sangue freddo. Visto l'animale ancora in piedi, lasciò cadere l'arma diventata inutile, si precipitò sopra Tremal-Naik, lo sollevò fra le sue braccia, corse allo stagno e saltò dentro, sprofondando fino alle spalle. Il rinoceronte caricava allora con furia irresistibile. In quattro salti varcò la distanza e piombò pesantemente nell'acqua, sollevando uno sprazzo di fango e di spuma. Kammamuri, atterrito, cercò di fuggire, ma non lo poté. Le sue gambe si erano affondate in una sabbia tenacissima e in modo tale, che ogni sforzo riusciva inutile. Il poveretto, mezzo asfissiato, tremante, pallido, gettò un urlo straziante: - Aiuto! Son morto! ... Udendo dietro di sé sordi fischi, si volse e vide il rinoceronte dibattersi furiosamente e avventare a destra e a sinistra tremendi colpi di corno. Il colosso, trascinato dall'enorme peso, era affondato fino al ventre e continuava ad affondare nelle sabbie mobili. - Aiuto! ... - ripeté il maharatto, sforzandosi di mantenere fuori dall'acqua il padrone. Un lontano latrato rispose alla disperata chiamata. Kammamuri trasalì: quel latrato l'aveva udito ancora e non una, ma mille volte. Una pazza speranza gli balenò in mente. - Punthy! ... - gridò. Un cane nero, vigoroso, grosso, sbucò dalla fitta massa di bambù e corse verso lo stagno latrando con furore. Quel cane che arrivava in così buon punto, era proprio il fedele Punthy, il quale lanciossi contro il rinoceronte tentando di azzannargli un orecchio. Quasi nel medesimo istante si udì la voce di Aghur. - Tieni fermo, Kammamuri! - gridava il bravo giovanotto. - Ci sono! ... Il bengalese con un salto varcò una fitta macchia, scomparve fra i bambù e riapparve sulla riva dello stagno. Armò rapidamente il fucile, si mise in ginocchio e sparò contro il rinoceronte, il quale, colpito nel cervello, cadde su di un fianco, scomparendo più che mezzo sott'acqua. - Non muoverti, Kammamuri, - proseguì il destro cacciatore. - Ora compiremo il salvataggio; ma ... Cos'ha il padrone? ... È forse ferito? - Taci e spicciati, Aghur, - disse il maharatto, che tremava ancora. - Nella jungla vagano dei nemici. Il bengalese sciolse in fretta la corda che cingevagli il dubgah e gettò un capo a Kammamuri che l'afferrò solidamente. - Tieni fermo, - disse Aghur. Radunò tutte le sue forze e cominciò a tirare. Kammamuri si sentì strappare da quelle tenaci sabbie e trascinare verso la riva, sulla quale frettolosamente si arrampicò. - Ebbene, - chiese Aghur con ansietà, mirando con occhio atterrito il padrone. - Cosa gli è accaduto? - L'hanno pugnalato. - Ah! ... E chi mai? - Gli stessi che assassinarono Hurti. - Quando? ... Come? ... - Te lo dirò più tardi. Sbrigati, costruisci una barella e partiamo; siamo inseguiti. Aghur non volle saperne di più. Snudò il coltellaccio, tagliò sei o sette rami, lì legò con solide corde e sopra quella rozza barella ammonticchiò alcune bracciate di foglie. Kammamuri sollevò lentamente il padrone che non era ancora tornato in sé, e ve lo stese sopra. - Andiamo e silenzio, - comandò Kammamuri. - Hai il canotto? - Sì, è arenato sulla sabbia, - rispose Aghur. - Hai le pistole cariche? - Tutt'e due. - Avanti allora e tieni gli occhi aperti. - Siamo forse spiati? - Forse sì. I due indiani sollevarono la barella e si misero in marcia preceduti dal cane, seguendo uno stretto sentiero aperto nel mezzo della jungla. In quindici minuti giunsero al fiume, sul quale galleggiava il canotto. Nel momento che s'imbarcavano, Punthy abbaiò. - Zitto, Punthy, - disse Kammamuri, prendendo i remi. Il cane, anziché ubbidire, mise le zampe sul bordo del canotto e raddoppiò i suoi abbaiamenti. Pareva in preda ad una forte eccitazione. I due indiani guardarono verso la jungla, ma non videro alcuno. Eppure Punthy doveva aver udito qualche rumore. Misero le pistole sui banchi, afferrarono i remi e si spinsero al largo rimontando il fiume. Non avevano ancora percorso trecento braccia, che il cane ricominciò ad abbaiare rabbiosamente. - Alto là! - gridò una voce imperiosa. Kammamuri si volse indietro stringendo nella dritta una delle pistole. Sulla riva, sul luogo da essi abbandonato, si teneva ritto un colossale indiano col laccio nella dritta e il pugnale nella sinistra. - Alto là! - ripeté egli. Kammamuri invece di ubbidire sparò. L'indiano si accasciò su se stesso agitando le braccia, indi scomparve fra i cespugli. - Arranca! Arranca, Aghur! - gridò il maharatto. Il canotto fendette rapidamente le acque dirigendosi verso il cimitero galleggiante, nel mentre che una voce tonante, ripiena di minaccia, gridava dalle coste dell'isola maledetta: - Ci rivedremo! ...

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

Koninson per primo aveva abbandonato il suo domicilio per arrampicarsi sulla gran gabbia e parecchi altri marinai l'avevano seguito, anzi alcuni si erano spinti più in alto, fino alle crocette. Persino il flemmatico tenente si era arrampicato sul trinchetto e dalla coffa esplorava il mare con un forte cannocchiale. Alle 10 del mattino il "Danebrog" girava il capo Rumjänzow ed entrava nella baia di Chactoole, assai aperta e poco sicura, a nord-est della quale, fra il 64o e il 65o di latitudine nord e il 163o e il 164o di longitudine ovest, si apre la baia di Norton, scoperta dal celebre capitano Cook nel 1778. Le coste apparivano dirupate e altissime, frastagliate, minate, sventrate dall'eterna azione del mare e con piccolissimi "fiords" entro i quali si ingolfavano le onde con grande fragore. Qua e là si vedeva qualche abete, qualche betulla nana, qualche cespuglio e delle cascate d'acqua che balzavano di roccia in roccia con bellissimo effetto. Il "Danebrog" per qualche tratto navigò in prossimità delle coste, indi mise la prua verso la baia di Norton che raggiunse verso le 4 del pomeriggio dopo aver girato un capo dirupatissimo che cadeva quasi a piombo sul mare. Quasi subito si udì Koninson dall'alto della gran gabbia gridare: - Il capodolio a prua! Tutti gli occhi si volsero verso la direzione accennata. A cinque sole gomene dal "Danebrog", vicinissimo alla costa, galleggiava coi ventre in aria il cetaceo circondato da migliaia e migliaia di uccelli marini che formavano, colle loro discordi grida, un baccano indiavolato.

. - Ebbene, che mangi anche il mio rampone - gridò Koninson che aveva abbandonato precipitosamente la rete. - Mille milioni di fulmini! Era tempo che se ne incontrasse una! Olà! Ragazzi, sangue freddo e audacia, e io rispondo della vittoria! - Il capitano diede ordine al timoniere di dirigere il "Danebrog" verso il gigante, mentre Koninson e i marinai calavano a fior d'acqua le due più solide e più svelte baleniere, mettendovi dentro tutti gli attrezzi necessari: remi, ramponi, lancie, lenze e le "droghe". - A un chilometro di distanza il "Danebrog" si mise in panna. Avvicinarsi troppo ad una balena che si caccia non è prudente, perchè essa quando è ferita perde completamente la testa e si getta contro qualunque cosa. Il capitano Weimar ben si ricordava del brutto caso toccato alla nave "Essex" nel 1820, quando, investita da una balena resa pazza dal dolore cagionatole da una ferita, era andata a picco. Subito il tenente Hostrup, Koninson e quattro marinai presero posto nella maggiore baleniera e mastro Widdeak, Harwey e altri quattro remiganti nell'altra. - Badate che non ci sfugga - disse il capitano che era rimasto a bordo. - Vi, giuro, signore, che non si ripeterà il caso del capodolio - disse Koninson. - Mi sento indosso un coraggio da non temere venti balene. - Al largo, dunque! Le due baleniere si staccarono dal "Danebrog" e si diressero, rapidamente, ma senza far rumore, verso il cetaceo. Quella del tenente precedeva di una gomena quella di mastro Widdeak. Ben presto i cacciatori giunsero a sole trecento braccia dalla preda, la quale non aveva ancor dato il più piccolo segno di inquietudine. Era una superba balena franca, lunga più di venti metri, del peso di ottanta o novanta tonnellate, con una testa voluminosissima, convessa superiormente e fornita di una bocca enorme, lunga più di tre metri e alta più di quattro. La pelle del gigante, nera, liscia, untuosa, sotto ai raggi del sole brillava così vivamente da offendere gli occhi di chi la guardava. - Cosa fa? - chiese sottovoce il tenente a Koninson che la fissava con occhi fiammeggianti. - Pascola in mezzo al banco di "boete". - rispose il fiociniere. - Se si potesse sorprenderla.. - Lo dubito, tenente. Ecco che comincia a dar segni d'inquietudine. La balena infatti, che fino allora aveva conservato una immobilità quasi perfetta, aveva alzato la sua potente coda terminante in una pinna orizzontale, triangolare e larga sei o sette metri. Con un colpo vigoroso lanciò a destra ed a sinistra due altissime onde, poi agitò le pinne pettorali che sono lunghe ben tre metri, causando nuove onde e si mise a filare fra il banco di "boete", cacciando fuori dagli sfiatatoi due colonne di vapore, il quale ricadeva sotto forma di goccioline che formavano sull'acqua macchie oleose. - Attento, Koninson! - disse il tenente, facendo segno ai remiganti di raddoppiare la battuta. - Spingete innanzi la baleniera senza tema, signore, - rispose il fiociniere che aveva afferrato il suo terribile rampone. - Sono pronto! - Ad un tratto la balena si tuffò lasciando dietro di sè un piccolo vortice. Il tenente guardò attentamente da qual parte aveva piegata la coda per indovinarne la direzione presa, poi comandò ai remiganti di avanzare lentamente e senza far rumore. Passarono alcuni minuti che parvero lunghissimi, poi si udì un rumore simile ad un tuono lontanissimo e sulla tranquilla superficie del mare si scorse un largo tremolio. - Attenti! - disse il tenente. - La balena sta per mostrarsi. Sei pronto, Koninson? - Sempre! - rispose il fiociniere. Il rumore si faceva sempre più distinto, poi a quattrocento passi dalla baleniera, verso prua, apparve un punto nero, l'estremità del muso del cetaceo, indi gli sfiatatoi, il dorso e finalmente la formidabile coda, la quale battè violentemente il mare. - Il gigante è inquieto - disse il tenente. - Ci ha sentiti. Allungate la battuta, ragazzi. Tornata a galla, la balena aveva lanciato in aria, a parecchi metri d'altezza due colonne di bianco vapore, poi si era un po' immersa. Per trenta o quaranta secondi scivolò mostrando solamente il dorso, e a intervalli la coda; indi rialzò la testa e gettò due altre colonne di vapore. Tornò a immergere la testa e per parecchi minuti ancora ripetè quella manovra gettando, di quando in quando, colonne di vapore che diventava però sempre meno denso, e agitando la coda innanzi e indietro. - La briccona scandaglia - mormorò Hostrup,. Le due baleniere avanzavano lentamente e con prudenza. I due fiocinieri in piedi, colla coscia cacciata nella scanalatura di prua, il rampone in aria un po' pallidi, lanciavano sguardi di fuoco sulla preda. Il cetaceo non fuggiva, ma dava sempre segni di inquietudine. Il suo respiro, che si ode a una non breve distanza, era più frequente, la sua coda si alzava e si abbassava con molta violenza; e spesso sollevava la testa fuori dell'acqua come se cercasse di vedere i nemici che la seguivano. - Arranca a tutta lena! - gridò ad un tratto il tenente. La baleniera partì rapida come una saetta. In brevi istanti si trovò a sole venti braccia dal cetaceo. - Koninson! - gridò il tenente. - Pronto, signore! rispose il fiociniere. - Getta! ... Koninson alzò il rampone, lo fece oscillare innanzi e indietro e lo lanciò con tutta la forza del suo braccio, piantandolo profondamente nel fianco destro della balena in un punto ricco di tendini e di carne. Parve che il cetaceo subito non si accorgesse di essere stato ferito, ma dopo alcuni secondi agitò furiosamente la coda lanciando contemporaneamente una nota così acuta da udirsi a parecchi chilometri di distanza. - Attenti ragazzi! - gridò il tenente, mentre Koninson afferrava una lancia munita di una specie di palla taglientissima. La baleniera si spinse innanzi a tutta velocità, ma il cetaceo si rovesciò bruscamente sul fianco ferito sforzandosi di strapparsi l'arma, che doveva farlo soffrire atrocemente; indi si tuffò con grande fracasso, dopo aver lanciato un'altra e più formidabile nota. - Maledetto! - gridò Koninson - Se aspettava due secondi ancora, gli tagliavo i tendini e l'arteria della coda. La lenza filava rapidissimamente, anzi tanto che si dovette bagnare il bordo della baleniera affinchè per il continuo strofinio non si accendesse. Ben presto fu quasi tutta finita; Koninson ne aggiunse un'altra. - Per mille, boccaporti! - gridò il fiociniere. - Vuol scendere all'inferno? - Pazienza, - Koninson - disse il tenente. Ricomparirà, te lo dico io. Mezzo minuto dopo la lenza cessò di filare. - Ehi, mastro Widdeak, sta bene attento! - gridò il tenente. - Il cetaceo apparirà vicino alla tua baleniera. - Lo riceveremo, come si deve! - rispose il mastro. - Eccolo! Eccolo! - gridarono ad un tratto alcuni marinai. Sulla tranquilla superficie del mare, a una sola gomena dalla prua della baleniera di Widdeak, era stato scorto il tremolio. Harwey, che era ansioso di lanciare la sua arma si alzò di colpo. Poco dopo il gigante apparve. Aveva il rampone ancora piantato nel fianco e manifestava il suo dolore con sordi brontolii e con un continuo eruttare di densi vapori dai due sfiatatoi. Mastro Widdeak diresse verso di lui la sua baleniera. Harwey alzò il rampone e lo lanciò con grande forza. Il cetaceo, nuovamente ferito, emise una formidabile nota che durò otto o dieci secondi. Si sarebbe detto che quella nota era prodotta da una impetuosissima corrente d'aria spinta dentro un largo tubo di bronzo. Subito dopo il mostro si mise a guizzare qua e là, ora avvicinandosi alle baleniere e ora allontanandosi come se avesse completamente perduto la testa. La sua possente coda e le sue grandi pinne pettorali battevano furiosamente l'acqua sollevando delle ondate. Sordi brontolii gli uscivano dalla gola e fischi acuti, dagli sfiatatoi i quali lanciavano senza posa bianchissime e molto dense nubi di vapore. - Avanti! Avanti! - gridò Koninson. Il tenente, punto curandosi dei colpi di mare e punto spaventato dai tremendi colpi di coda che il mostro avventava, fece avanzare la baleniera mentre mastro Widdeak girava al largo per non imbrogliare le due lenze. I cacciatori con pochi colpi di remo si trovarono a breve distanza dal cetaceo. Koninson che era diventato frenetico, appena lo vide alzare la coda gli lanciò il rampone dalla punta rotonda, colpendolo nelle ultime vertebre caudali. Dalla larga ferita uscì subito un grosso rivo di sangue, il quale arrossò per un largo tratto le acque. - Urrah! Urrah! - urlò il fiociniere balena è nostra! Infatti per il cetaceo era ormai finita. Colpito ai fianchi dai due ramponi e poi sotto la coda da quella larga palla tagliente che gli aveva recisi i tendini e l'arteria, non poteva più fuggire. Era questione di ore, forse di soli minuti, poichè le baleniere tornavano alla carica per gettare le lancie. In meno di quindici secondi altre ferite gli furono aperte sui fianchi dai due fiocinieri, e tutte mortali. Allora cominciò l'agonia, ma un'agonia terribile e pericolosissima, non solo per le baleniere, ma per il "Danebrog". Il gigante diventato pazzo per il dolore e anche cieco si precipitava in tutte le direzioni con impeto irresistibile. Usciva più di mezzo dall'acqua, si tuffava, tornava a galla, si rovesciava sui fianchi, ora filava colla rapidità di una freccia, ora si arrestava mandando suoni rauchi, metallici o note potenti, ora descriveva delle curve o dei bruschi angoli. Il "Danebrog" si era messo nuovamente alla vela per non venire investito e si teneva ad una grande distanza e le due baleniere avevano un gran da fare per non venire subissate dalle onde che il gigante sollevava, o sfasciate dalla coda. Ad un tratto però la balena si arrestò. Dai suoi sfiatatoi uscirono con sinistro rumore due getti di sangue che arrossarono una grande zona di mare, poi un fremito agitò l'intera massa. Mandò un'ultima e più acuta nota, indi sollevò la testa mostrando la sua immensa bocca, poi si rovesciò sul dorso e rimase immobile col ventre a fior d'acqua. Era morta!

Koninson e i marinai abbandonato il rampone e i remi si videro costretti a vuotare l'acqua imbarcata che minacciava di mandarli a picco, mentre il cetaceo, preso da un subitaneo accesso di collera, correva qua e là come fosse impazzito gettando sordi brontolii che somigliavano al tuono udito a grande distanza e lanciando ovunque colpi di mare. Pareva che cercasse i nemici per frantumarli a colpi di coda ma, male servito dai suoi occhietti che, sono debolissimi, non riusciva a scorgerli. Mastro Widdeak, che fino allora si era tenuto un po' indietro, spinse la baleniera contro di lui. In tre minuti giunse ad una distanza di sole venti braccia. - Coraggio, Harwey! - gridò Koninson. Il giovane fiociniere, quantunque pallidissimo e in preda ad un forte tremito che paralizzava in parte le sue forze, alzò il rampone cercando un buon punto per lanciarlo. - Getta! - urlò il mastro. Il rampone ondeggiò innanzi ed indietro e partì. Forò due onde, sfiorò una terza e si piantò nel fianco destro del capodolio in una parte carnosa e ricca di tendini. Subito la baleniera si mise a indietreggiare rapidamente lasciando scorrere la lenza. Il mostro, ferito forse pericolosamente fece un balzo innanzi gettando un urlo così acuto da poter essere udito a parecchi chilometri di distanza, indi si tuffò. Ma non rimase sott'acqua che brevissimi istanti e riapparve cento braccia più innanzi gettando un secondo e più forte urlo, battendo furiosamente la coda e rovesciandosi sul fianco ferito come se cercasse di strapparsi l'arma che lo tormentava. Mastro Widdeak diresse l'imbarcazione verso di lui, mentre Harwey afferrava una lancia munita all'estremità di una specie di palla tagliente, aspettando il momento che alzasse la coda per lanciargliela sotto le ultime vertebre caudali. Il tenente spinse pure innanzi la sua baleniera, ma il cetaceo, che senza dubbio non era stato ferito molto gravemente dopo aver descritto un semicerchio, si mise a filare con estrema rapidità verso nord-nord-est. In breve la lenza del rampone fu tutta consumata senza che il capodolio scemasse la sua velocità. Harwey attaccò una seconda la lenza, ma anche questa in pochissimo tempo fu tutta fuori. - Cerchiamo di affaticarlo! - disse mastro Widdeak. - Lega la lenza! - gridò Koninson, che era ancora lontano, quantunque i remiganti arrancassero disperatamente. Harwey legò la lenza e la baleniera fu trascinata dal cetaceo che continuava a nuotare verso nord-nord-est, senza tuffarsi e senza fermarsi un solo istante. Ma anche questo tentativo non riuscì a scemare la corsa del mostro, anzi si accrebbe tanto che c'era da temere che le onde invadessero la baleniera. Mastro Widdeak fece legare la "droga" alla lenza e lasciò andare il capodolio, certo di ritrovarlo ben presto senza vita. - A bordo! - disse egli. - Quel brigante si di stancherà di correre e allora lo troveremo. La scialuppa virò di bordo e si diresse verso il "Danebrog" che avanzava a tutte vele spiegate verso la baleniera del tenente, sulla quale bestemmiava su tutti i toni e in tutte le lingue della terra il fiociniere Koninson. Pochi minuti dopo i dodici cacciatori salivano sul "Danebrog". - Mille tuoni! - esclamò Koninson, mettendo piede sulla tolda. - Non mi aspettavo quest'oggi un tiro così birbone. Brigante d'un capodolio, sfuggire così al mio rampone! Ma se lo incontro ancora gli farò passare un gran brutto quarto d'ora. - Non pigliartela tanto a cuore, fiociniere! - disse il tenente. - Lo raggiungeremo e ben presto, è vero, capitano? - Lo spero - rispose Weimar. - Lo spero anch'io - disse Koninson. - Ma se il mio rampone l'avesse toccato! ... Quel briccone di Harwey ha sempre più fortuna di me. - Saresti geloso? - chiese il capitano, ridendo. - Io! Mai più! Ma se l'avessi ramponato io! ... Mille tuoni, non sarebbe corso tanto. - Ti ripeto che lo raggiungeremo. - Ma dove sarà fuggito? - Scommetterei una botte di "wisky" contro una tazza di "gin" che si è diretto verso lo stretto di Isanotzkoi. - Ci dirigeremo adunque verso quello stretto. - Subito, fiociniere A bordo le baleniere, giovanotti. Le due imbarcazioni in brevi istanti furono issate alle gru, dopo di che il "Danebrog" si rimise in marcia dirigendosi verso la penisola di Alaska che coll'isola di Uminak forma lo stretto accennato di Isanotzkoi L'equipaggio a cui premeva assai ritrovare il cetaceo per non perdere la famosa scommessa impegnata col norvegese, erasi già quasi tutto installato sulle coffe e sulle crocette, tenendo gli occhi fissi verso nord - nord - est. Il capitano aveva promesso una bottiglia di "wisky" al primo che lo scopriva, e quel premio era da tutti agognato. Ben presto però dovette rinunciare a quella guardia che stancava assai, tanto più che non scorgeva alcuna traccia del fuggitivo nè una macchia rossastra che indicasse del sangue, nè quelle materie grasse che si lasciano ordinariamente dietro i cetacei in genere. Per quattro lunghe ore il bravo veliero, spinto da un fresco vento di sud-ovest, filò con una velocità superiore al sette nodi senza deviare dalla sua rotta, poi piegò un po' verso nord-est colla speranza di ritrovare su quella nuova via le tracce. - Nulla! - esclamò il capitano che scrutava l'oceano con un cannocchiale. - Bisogna che sia ben forte per camminare tanto. - Io temo che non sia gravemente ferito, signore - disse il tenente che fumava pacificamente la sua pipa, seduto sulla murata di babordo. - Ha lanciato forse male il rampone Harwey? - Bene no di certo, capitano; nè del resto, lo poteva. Il capodolio aveva sconvolto il mare in siffatta guisa, che nelle baleniere non era possibile tenersi in piedi. - Diavolo! Che lo si perda? - Non lo credo. Camminerà molto, è cosa certa, forse fino allo stretto di Behring, ma poi si fermerà e morrà. - Ma lo ritroveremo noi? - E perchè no? C'è la "droga" attaccata alla lenza. - Lo so ma io so pure che vi sono dei balenieri che non si fanno scrupolo di impadronirsi dei cetacei ramponati dagli altri. E questi pirati di nuova specie non sono pochi. - Aggiungo qualche cosa d'altro, ora che ci penso - disse il tenente. - Che cosa, signor Hostrup? - Che se il nostro capodolio va a morire su qualche isola o su qualche costa per noi è perduto. Gli abitanti se lo prenderanno senza curarsi della "droga". - Non ci mancherebbe che questa disgrazia! Sapete, tenente, che noi siamo molto sfortunati? E proprio quest'anno che abbiamo impegnato la scommessa con quel briccone di norvegese. Fortunatamente ho un equipaggio forte e coraggioso e una nave che non teme i ghiacci del polo. - Siete risoluto a salire molto al nord? - Sì, signor Hostrup - rispose il capitano con voce grave. - Salirò fin oltre lo stretto di Behring, e andrò a visitare le coste della Giorgia. Se non troverò colà tante balene da completare il carico, salirò ancora più al nord verso la terra di Wrangel. - Siate prudente, capitano. - Avete paura dei ghiacci, voi? - Io! ... Quando ho una borsa di tabacco e una bottiglia di "gin" o di "brandy", vado dritto fino al polo. - Lo so, tenente, che voi non avete paura di nulla. Sta bene, saliremo fino a incontrare i grandi banchi di ghiaccio. Bisogna che i danesi vincano i norvegesi. Due ore dopo il "Danebrog" avvistava le isole Aleutine.

I PIRATI DELLA MALESIA

682416
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Alle cinque del mattino, senza che avessero incontrato alcun indiano od alcun dayaco, giungevano al villaggio abbandonato, difeso da solide palizzate e da terrapieni. Sandokan lanciò alcuni uomini in tutte le direzioni, per non venire improvvisamente attaccato dalle truppe di Sarawak, poi fece slegare il rajah, il quale durante il viaggio non aveva mai tentato di pronunciare una parola. - Se non vi dispiace, scrivete, James Brooke - gli disse Sandokan presentandogli un foglietto di carta e una matita. - Cosa devo scrivere? - chiese il rajah che sembrava assai calmo. - Che siete prigioniero della Tigre della Malesia e che per salvarvi bisogna porre immediatamente in libertà Yanez, o meglio lord Welker. Il rajah prese il foglietto, se lo mise sulle ginocchia e si accinse a scrivere. - Un momento - disse Sandokan. - C'è qualcosa d'altro? - chiese l'inglese inarcando le ciglia.- Aggiungete che se fra quattro ore Yanez non è qui, io vi impiccherò al più grosso albero della foresta. - Sta bene. - Un'altra cosa aggiungete - disse Sandokan. - Ed è? ... - Che non tentino di liberarvi con la forza, perché al primo drappello armato che scorgo vi faccio egualmente appiccare. - Pare che vi prema assai di vedermi appiccato - disse il rajah con ironia. - Non lo nego, James Brooke - rispose Sandokan dardeggiando su di lui uno sguardo feroce. - Scrivete. Il rajah prese la matita e scrisse la lettera che poi passò a Sandokan. - Va bene - rispose questi dopo averla letta. - Sambigliong! Il pirata accorse. - Porterai questa lettera a Sarawak - disse la Tigre. - La consegnerai a lord James Guillonk. - Devo prendere le mie armi? - Nemmeno il tuo kriss. Va' e torna presto. - Correrò come un cavallo, capitano. Il pirata nascose la lettera sotto la cintura, gettò a terra la scimitarra, la scure ed il kriss e partì di corsa. - Aïer-Duk - disse Sandokan, rivolgendosi al pirata che gli stava vicino. - Sorveglierai attentamente questo inglese. Bada che se fugge ti faccio fucilare. - Fidatevi di me, capitano - rispose il tigrotto. Sandokan armò la sua carabina, chiamò Kammamuri che si era accoccolato presso il suo padrone addormentato e lasciò il villaggio dirigendosi verso un'altura dalla quale, in lontananza, si vedeva la città di Sarawak. - Lo salveremo, dunque, il capitano Yanez? - chiese il maharatto che lo seguiva. - Sì - rispose Sandokan. - Fra due ore sarà qui. - Siete certo? - Certissimo. Il rajah vale quanto Yanez. - State in guardia, però, capitano - disse il maharatto. - Gli indiani,m e a Sarawak ve ne sono parecchi, sono capaci di attraversare un bosco senza produrre il più piccolo rumore. - Non temere, Kammamuri. I miei pirati sono più astuti degli indiani e nessun nemico si avvicinerà al nostro villaggio senz'essere scoperto. - Ci inseguirà poi il rajah? - Certamente, Kammamuri. Appena sarà tornato a Sarawak raccoglierà le sue guardie e i dayachi e si lancerà sulle nostre tracce. - Avremo quindi una seconda battaglia. - No, perché partiremo subito. - Per dove? - Per la baia ove trovasi Ada Corishant. - E dopo? - Acquisteremo un praho e lasceremo per sempre queste coste, ti ho detto. - E dove condurrete il mio padrone? - Dove egli vorrà andare. - Erano allora giunti sulla cima dell'altura che si alzava di parecchi metri sopra i più alti alberi della boscaglia. Sandokan accostò le mani agli occhi per difenderli dai raggi solari e guardò attentamente il paese circostante. A dieci miglia era Sarawak. Il fiume che passava vicino alla città spiccava chiaramente fra il verde delle piantagioni e dei boschi, come un gran nastro d'argento. - Guarda laggiù - disse Sandokan additando al maharatto un uomo che correva come un cervo verso la città. - Sambigliong! - esclamò Kammamuri. - Se mantiene quel trotto sarà qui fra due ore. - Lo spero. Si sedette ai piedi di un albero e si mise a fumare, guardando attentamente la città. Kammamuri lo imitò. Trascorse un'ora, lunga quanto un secolo, senza che nulla accadesse; poi ne passò una seconda, più lunga per i due pirati della prima. Finalmente, verso le 10, un drappello di persone apparve vicino a un boschetto di ippocastani. Sandokan balzò in piedi. Sul suo viso, di solito impassibile, era dipinta una viva ansietà. Quell'uomo, quel pirata sanguinario, lo si capiva, amava straordinariamente il suo fido compagno, il coraggioso Yanez. - Dov'è? Dov'è? ... - lo udì mormorare Kammamuri. - Vedo una veste bianca in mezzo al drappello. Guardate! - disse Kammamuri. - Sì, sì, la vedo! - esclamò Sandokan con indescrivibile gioia.- È lui, il mio buon Yanez. Presto, fratello mio, fa' presto! Stette lì, immobile, curvo, con gli occhi fissi su quel vestito bianco, poi quando vide il drappello scomparire sotto la grande foresta si slanciò precipitosamente giù dall'altura correndo verso il campo. Due pirati che guardavano il bosco giungevano nel medesimo istante. - Capitano - gridarono, - essi vengono col signor Yanez. - Quanti sono? - chiese Sandokan, che si dominava a stento. - Dodici con Sambigliong. - Armati? - Senz'armi. Sandokan accostò il fischietto alle labbra e ne cavò tre note acute. In pochi istanti tutti i pirati si trovarono attorno a lui. - Preparate le armi - disse la Tigre. - Signore! - gridò James Brooke, che stava seduto ai piedi di un albero, attentamente guardato da Aïer-Duk. - Volete assassinare i miei uomini? La Tigre si volse verso l'inglese. - James Brooke - rispose con voce grave, - la Tigre della Malesia mantiene la sua parola. Fra cinque minuti voi sarete libero. - Chi va là? - gridò in quell'istante una sentinella appostata a duecento metri dalle trincee. - Amici - rispose la voce ben nota di Sambigliong. - Abbasso il fucile.

I PREDONI DEL SAHARA

682440
Salgari, Emilio 3 occorrenze

I due leoni avevano abbandonato la duna e si erano messi a girare attorno al piccolo gruppo, ruggendo spaventosamente e mostrando i formidabili denti. Il maschio soprattutto faceva paura, con quella criniera irta che lo faceva parere due volte più grosso. "Stringetevi a me," disse il marchese a El-Haggar e alla giovane. "Tenetevi pronti a fare una scarica. Io mi occupo del maschio; voi della femmina." Egli era sicuro del proprio colpo, ma dubitava molto di El-Haggar, il quale pareva che avesse perduto completamente la testa. Il povero diavolo tremava come se avesse la febbre ed il fucile ballava fra le sue mani malferme. "Esther," disse, "conto su di voi. Mirate con calma." "Lo farò, marchese," rispose la giovane la cui voce però era malferma. In quel momento verso la cima dell'ammasso di sabbia udirono echeggiare due urla di terrore. Rocco e Ben Nartico erano comparsi sul margine della caverna, entrambi inermi. "Fuggite!" gridò il marchese. I due leoni, udendo le grida dei loro prigionieri, si erano arrestati, guardandoli, come se fossero indecisi sulla scelta delle loro vittime. L'occasione era propizia per colpirli. Il marchese mirò il leone e fece fuoco. La belva mandò un ruggito spaventevole, girò due volte su se stessa volteggiando sulle zampe deretane, cadde, poi si rialzò tentando di riprendere lo slancio, ma stramazzò giù dalla duna. La leonessa, vedendo cadere il suo compagno, s'avventò furiosamente contro il marchese e lo atterrò di colpo, posandogli una zampa sul petto. Nel tempo stesso le palle di El-Haggar e di Esther la colpivano alla gola e alla testa. Non ebbe nemmeno il tempo di mandare un ruggito e cadde addosso al marchese, fulminata. Esther, pallida, coll'angoscia ed il terrore scolpiti sul viso, si era precipitata verso il signor di Sartena, credendo che fosse stato ferito. "Marchese! Marchese!" esclamò con voce rotta. Il corso con una violenta scossa si era sbarazzato della fiera e si era alzato sorridente e tranquillo. "Grazie, Esther," disse con voce commossa. "Se foste morto ... " "Vi sarebbe rincresciuto, Esther?" "Vi avrei pianto per sempre," mormorò la giovane abbassando gli occhi.

Il sahariano alzò l'arma e colpì il petto del misero, che si distese sulle pietre come se la vita lo avesse bruscamente abbandonato. L'assassino gettò sulla vittima uno sguardo smarrito, poi si slanciò verso l'interno della casa, tenendo sempre in mano il pugnale ancora grondante di sangue. In quel momento una porta si era aperta ed Esther era comparsa. Aveva ancora i capelli sciolti sulle spalle e le braccia nude come se il rumore della lotta l'avesse sorpresa nel momento in cui stava facendo la sua toeletta. Vedendo El-Melah solo, col viso sconvolto, gli occhi fiammeggianti e armato d'un pugnale sanguinante, intuì subito che qualche cosa di grave doveva essere avvenuto e che ella stessa correva un serio pericolo. "Cos'hai?" chiese, retrocedendo verso la stanza. "Perché quel viso alterato e quel pugnale? Dov'è mio fratello? Ed il marchese?" Il sahariano rimase muto dardeggiando sulla giovane uno sguardo ardente. Accortosi d'aver ancora in mano l'arma, la gettò lungi da sé, facendo un gesto d'orrore. "Cosa vuoi, El-Melah?" chiese Esther, con voce imperiosa. "Mi ha mandato qui vostro fratello per condurvi da lui," rispose finalmente il miserabile. "Dove si trova?" "Nascosto in un luogo sicuro." "Tu menti!" "E perché?" "Tu hai ucciso qualcuno. Dov'è Tasili? Dove sono i beduini?" "Tutti partiti e noi, mi capite, siamo soli," rispose El-Melah, facendo un passo innanzi. "Sola!" esclamò Esther. "Sola! El-Melah, cos'è avvenuto? In nome di Dio, parla! ... Hanno salvato il colonnello?" "Chi? ... Flatters? Ah! Ah! Voi avete creduto a quella storia? Sapete dove si trova ora la testa disseccata di quel francese? Orna la tenda del capo Tuareg Amr-el-Bekr, quello che abbiamo incontrato ai pozzi di Marabuti." "Tu m'inganni." "No, signora, e vi dirò ancora che chi ha ucciso il colonnello ed il capitano Masson e che ha tradito la spedizione per farla massacrare è stata una delle sue guide che allora si chiamava El-Aboid, poi Scebbi ed ora El-Melah. Il mio complice, Bascir, è stato avvelenato da me nelle carceri dei Biskra onde non parlasse, ma io e Amr-el-Bekr siamo ancora vivi." Dinanzi a quell'inaspettata confessione, Esther non aveva saputo frenare un grido d'orrore. El-Melah, il carovaniere salvato miracolosamente dal marchese, era quel Scebbi che avevano sperato di raggiungere nel deserto ed era pure quell'El-Aboid che assieme a Bascir aveva ordito ed effettuato la strage della missione Flatters! ... "Allora tu hai tradito anche mio fratello ed il marchese!" gridò Esther, con uno scoppio di pianto. "Non io, signora; è stato il capo dei Tuareg, quell'eccellente Amr-el-Bekr." "Miserabile, esci di qui! Tasili, aiuto! ... " "Tasili non può rispondere alla vostra chiamata, bella fanciulla." disse El- Melah, ghignando. "L'hai ucciso!" gridò Esther, indietreggiando fino alla parete. "Mi pare, ma non ne sono certo." La giovane fece velocemente il giro della stanza cercando un'arma per punire il miserabile. Vedendo a terra il pugnale lo raccolse, mandando un urlo selvaggio. El-Aboid però, con una mossa fulminea, l'aveva abbrancata a mezza vita, cercando di trascinarla verso la porta. "Aiuto!" urlò la giovane dibattendosi disperatamente. "Nessuno vi udrà," disse El-Melah, stringendola sempre più, onde impedirle di far uso del pugnale. "Venite, siete una preda destinata al sultano ... e la pagherà cara ... sì, molto cara! ... " "Aiuto!" ripeté Esther, mordendolo al collo. "Per la morte di Maometto!" urlò El-Melah, sentendosi bagnare di sangue. "Sei una vipera tu? A me, Tuareg! ... " Ad un tratto un uomo entrò precipitosamente, rovinandogli addosso. Un lampo balenò in aria e scomparve fra le spalle del sahariano. "Ecco il prezzo del tuo tradimento!" gridò una voce. El-Melah aprì le braccia lasciandosi sfuggire la giovane ebrea, fece tre passi battendo l'aria colle mani, stralunò gli occhi, poi un fiotto di sangue gli sgorgò dalle labbra ed egli cadde sul pavimento mandando un sordo rantolo.

Disgraziatamente la carovana alla quale si era unito era partita senza svegliarlo, ed il disgraziato, abbandonato fra le sabbie, senza viveri e senza animali, era stato ad un pelo di trovare la sua tomba negl'intestini della famelica pantera. Dopo però un'abbondante scorpacciata di miglio ed un riposo d'un paio d'ore, quel diavolo d'uomo si era risvegliato come uno che avesse preso regolarmente i suoi pasti. Era il momento di farlo parlare, avendo il marchese molta premura di giungere a Beramet, prima che la carovana si allontanasse troppo verso il sud. Dopo avergli offerta una pipa colma di eccellente tabacco, gli chiese a bruciapelo "Voi avete assistito certamente alla distruzione della colonna francese guidata da Flatters!" Udendo quelle parole, il santone aveva levato dalle labbra la pipa, guardando il marchese con profondo stupore. "Cosa ne sapete voi?" chiese finalmente, non senza una certa inquietudine. Poi, dopo esserglisi accostato e averlo guardato attentamente, aggiunse "Ah! Voi non siete un marocchino, bensì un europeo nelle vesti di un arabo. Mi sono ingannato?" "No," rispose il marchese, francamente. "Forse un francese." "Quasi, perché sono un algerino." "E che cosa fate qui, nel deserto?" "Vado al Senegal e attraverso il Sahara per scopi commerciali." "Mi era venuto il sospetto che vi recaste presso i Tuareg." "A che fare, se tutti i componenti la spedizione sono stati uccisi?" "Tutti! ... " "Forse che voi ne sapete qualche cosa? Forse che qualcuno di quei disgraziati è ancora vivo?" Il marabutto non rispose. Guardava ora il marchese, ora Rocco ed ora i due ebrei con una certa inquietudine che non sfuggi al suo interrogatore. "Ascoltatemi," disse questi. "Se voi mi narrate quanto sapete su quella tragedia, io vi regalo un cammello per tornarvene al Marocco e anche un bel fucile per difendervi." "Non mi tratterrete con voi?" chiese il marabutto. "A quale scopo? Noi dobbiamo andare al sud, mentre la vostra destinazione è al nord." "È molto tempo che mancate dall'Algeria?" "Sono due mesi." "Allora non avete saputo che una delle guide è stata arrestata e anche avvelenata?" "Non so nulla affatto. Quando lasciai l'Algeria non erano giunte che le prime voci sull'atroce massacro della spedizione. "Orsù, parlate; io ormai ho indovinato che sapete molte cose su quel dramma." Il marabutto esitò ancora qualche istante, poi disse con un certo tremito nella voce: "Suppongo che non mi crederete un complice dei Tuareg." "Non abbiate alcun timore intorno a ciò. I marabutti sono uomini santi e non già guerrieri," disse il marchese. "E quando avrò parlato mi lascerete andare?" insistette ancora il marabutto. "Ve lo prometto." "Questo santone non deve avere la coscienza tranquilla," mormorò Rocco. "Forse è stato lui ad aizzare i Tuareg contro gl'infedeli." Il marabutto stette alcuni istanti in silenzio come per raccogliere meglio i suoi ricordi, poi tranquillamente disse "Io mi trovavo nell'oasi di Rhat che è, si può dire, la cittadella dei Tuareg Azghar, quando avvenne il massacro della spedizione; trovandomi a poche miglia dal luogo ove i francesi vennero assaliti, nessun particolare mi è sfuggito. "Come voi avrete saputo, il colonnello, oltre al capitano Masson e a parecchi ingegneri, aveva preso con sé una forte scorta di cacciatori algerini del 1o Reggimento, fra i quali si trovavano due uomini che dovevano più tardi tradirlo: Belkasmer Ben Ahmed, che si era arruolato sotto il nome di Bascir, ed El-Aboid- Ben-Alì." "Lo sapevo," disse il marchese. "Quei due soldati non erano algerini, come si era creduto, bensì entrambi originari del paese dei Tuareg. "Giunta la spedizione nel cuore del deserto, Bascir, d'accordo col compagno, ordì il tradimento per impossessarsi delle armi e dei viveri, nonché dei denari e dei regali che supponeva nascosti nei bagagli. "Col pretesto di condurre il colonnello a visitare una miniera d'oro, trascinò la colonna a Uep-Dam, poi disertò assieme a El-Aboid e corse ad avvertire i Tuareg. Il giorno dopo milleduecento pirati del deserto piombavano sulla spedizione, opprimendola col loro numero. "Flatters, il capitano Masson ed un sottufficiale caddero vivi nelle mani dei nemici; altri, guidati da un sergente, riuscirono ad aprirsi un passaggio attraverso le file degli assalitori, fuggendo poi verso il nord, ma i più rimasero sul terreno, falciati dalle larghe sciabolate dei fanatici. "Devo aggiungere che alcuni giorni innanzi i Tuareg avevano già tentato di distruggere la colonna, vendendo ai suoi membri dei datteri avvelenati, i quali avevano prodotto coliche spaventose. Solo alcuni soldati erano spirati sulle sabbie infuocate e dopo atroci tormenti. "I superstiti intanto avevano continuato la loro fuga verso il settentrione, tormentati incessantemente dai Tuareg, che non lasciavano loro un istante di tregua. "Quei disgraziati, morenti di fame e di sete, che si assassinavano reciprocamente durante veri accessi di follia furiosa, sono caduti quasi tutti mordendo le sabbie negli ultimi spasimi dell'agonia." "Cos'è successo poi del colonnello Flatters e di Masson?" domandò il marchese. "Del colonnello io ignoro se sia stato risparmiato o ucciso. Ho udito però raccontare che i Tuareg lo avevano condotto verso Tombuctu, non so se per finirlo lontano dagli sguardi di tutti, o se per renderlo schiavo di quel sultano." "Allora voi non escludete la supposizione che possa essere ancora vivo?" chiese il marchese. "Anch'io ho udito raccontare che è stato condotto a Tombuctu." "Ignoro la sua sorte," rispose il marabutto. "Giuratelo." "Lo giuro sul Corano." "E il capitano Masson?" "Ho veduto la sua testa piantata in cima ad una picca e anche quella del sergente." "Infami!" gridò Rocco. "Mi avete detto che uno dei traditori è stato arrestato," riprese il marchese. "Sì, Bascir, il quale aveva avuto l'audacia di recarsi a Biskra con la speranza d'indurre il governatore dell'Algeria ad organizzare una spedizione di soccorso per farla poi massacrare dai Tuareg. "Riconosciuto da uno dei pochi superstiti, venne arrestato e, dopo essere stato ubbriacato, fu sottoposto a lunghi interrogatori." "Ed ha confessato tutto?" "Sì, aggiungendo anzi che il colonnello Flatters era stato ucciso perché si era rifiutato di scrivere una lettera colla quale doveva chiedere una colonna di soccorso." "Che Bascir abbia detto il vero?" "Uhm! Ne dubito, signore." "È ancora vivo quell'uomo?" "Ho saputo che è stato avvelenato l'8 agosto nelle carceri di Biskra per opera di alcuni amici dei Tuareg e coll'aiuto del trattore arabo incaricato di fornire i cibi ai prigionieri. Probabilmente temevano che, minacciato di morte e colle promesse di laute ricompense, potessero indurlo a servire di guida ad una spedizione vendicatrice." "Ed il compagno di Bascir, quell'El-Aboid, sapete dove si trovi ora?" chiese Ben Nartico. "Mi hanno detto che è cammelliere in una carovana che si dirige verso Tombuctu." "È l'uomo che cerchiamo e che ci fu segnalato dal vecchio Hassan," disse l'ebreo al corso, parlando in lingua francese. "Sì," rispose il signor di Sartena, il quale era diventato meditabondo. "Egli deve ora nascondersi sotto il nome di Scebbi, ma noi lo ritroveremo egualmente." Fece sciogliere uno dei migliori cammelli, e lo condusse dinanzi al marabutto, a cui Rocco aveva già dato un fucile e delle munizioni. "È vostro," gli disse. "Vi auguro buon viaggio." "Grazie del dono e d'avermi salvato la vita," rispose il marabutto. "Che Dio sia con voi." Salì in sella, fece alzare il cammello e poi aggiunse "Badate, i Tuareg vegliano onde nessun europeo s'addentri nel deserto. Temono la vendetta dei francesi." Così dicendo si allontanò. "Signore, che cosa ne dite di quel santone?" chiese Rocco, guardando il marabutto che stava per scomparire dietro alle dune. "Che quell'uomo non deve essere stato estraneo al massacro della spedizione," rispose il marchese. "E colle sue parole deve aver aizzato i Tuareg a dare addosso agl'infedeli," aggiunse Ben Nartico. "Questi santoni sono dei pericolosi bricconi." Mezz'ora dopo la carovana riprendeva le mosse, dirigendosi verso le pianure sabbiose del sud.

LEGGENDE NAPOLETANE

682478
Serao, Matilde 2 occorrenze

Messer Diomede Carafa sapeva amare: la sua anima nobile ed eletta era aperta a tutte le squisite sensibilità dell'affetto, la sua forte anima comprendeva tutti gli slanci di una passione umana e potente; le orgogliose dame spagnole della Corte vicereale avrebbero volentieri abbandonato la loro fierezza castigliana per esser amate da lui e per amarlo; le fanciulle dell'aristocrazia napoletana, brune fanciulle dagli occhi azzurri, lo avrebbero amato se egli avesse voluto amarle. Ma messer Diomede non amava che madonna Isabella che aveva fama di donna crudele e disamorata; difatti ella non fece che sorridere appena alle frasi amorose che messer Diomede le scriveva. Nel grande salone del suo palazzo, madonna Isabella, vestita di broccato rosso che faceva risaltare il pallore del volto, con una reticella di perle sulle fulve trecce, sedeva a conversazione con messer Diomede. Il giovane innamorato era seduto alquanto discosto dalla sua donna, ma la fissava con l'occhio intento e cupido, senza mai distogliere lo sguardo da quella figura; a seconda che la donna parlava, sul viso del giovane passavano onde di sangue che lo coloravano, o un terreo pallore vi si diffondeva; come il giovane si lasciava trasportare dall'amore, la sua voce tremava, ed in essa passava la nota tenera e grave dell'affetto, la vibrazione profonda della gelosia, l'ondulazione indefinita della mestizia, la nota stridula dell'ironia, tutte le variazioni che ha l'amore. La dama, placida, tranquilla, sorridente, agitando il leggiero ventaglio di piume, giocherellava amabilmente e ferocemente col cuore del giovane. Ella, a sua posta, creava in lui lo sconforto desolato o l'inesauribile speranza, la cupa gelosia o l'estrema fiducia, la collera senza nome e senza limiti o la gioia senza confine. Abituata a questi sottili e malvagi godimenti, ella si compiaceva stringere quel cuore innamorato in una mano di ferro che lo soffocava a poco a poco e poi ridonargli la vita, carezzandolo con una mano leggiera e vellutata; si dilettava far sussultare di dolore quell'anima, gittandola bruscamente nella disperazione; gioiva facendola esaltare grado a grado, sempre più, fino a farla impazzire nella vertigine dell'altissimo pinnacolo. Furono tali donne, sono e saranno. Il mondo le maledice, le disprezza, paiono fatte estranee alla soave comunanza femminile, paiono odiate, esecrate. Ma il mondo le ama, ma l'uomo le ama. Così è sempre, così sempre sarà. Pace a voi, giovanette gentili, dalle anime buone che rischiarano come luce di lampada familiare il corpo delicato; pace a voi, donne il cui destino unico è l'amore, è il sagrifizio: giammai sarete amate come quelle donne lo saranno. Virtù, dolcezza, abnegazione, serenità, calma, felicità sono vani nomi: l'acre e malsano desiderio dell'uomo corre verso la misteriosa e temuta sirena. Pace a voi; amate, soffrite, morite: giammai sarete amate come quelle donne lo saranno. Eppure fu un giorno in cui Diomede Carafa credette di arrivare al culmine inaccessibile della sua vita, al momento fatale in cui ogni facoltà, ogni potenza fisica, ogni luce di ragione, ogni festa di fantasia, ogni robustezza di fibra, si riuniscono in una sola, profonda, alta armonia che è l'amore. Fu il giorno in cui madonna Isabella, all'impensata, dopo una lotta d'un anno in cui essa non aveva ceduto di una linea sola, presa da un subitaneo abbandono e dominata da una strana causa, disse d'amarlo. Oh! chi ha amato la conosce questa stagione calda ed esuberante, colorita dal sole, nell'azzurro sconfinato, nell'infiammato meriggio dove tutto arde e si consuma in una grande voluttà, quando i fiori nascono presto, vivono una vita rapida e soverchiante, esalano profumi grevi e violenti e muoiono per aver troppo vissuto; la stagione fremente dove tutto è luce, tutto è fulgore, tutto è febbre che precipita il sangue; la benedetta stagione, la eccelsa stagione dopo la quale tutto è cenere e fango. Chi ha amato sa la stagione d'amore di Diomede Carafa e non aspetta dalla scialba parola del freddo e disanimato cronista una descrizione. Chi ha amato evochi tutti, tutti suoi ricordi di amore, riviva in quel passato pieno di una gioia e di un dolore che non hanno l'eguale, palpiti, s'agiti, abbia la convulsione ed il delirio di quell'amore e saprà di Diomede Carafa. Le storie d'amore non si raccontano, non si descrivono che miseramente: l'arte istessa, la divina arte che tutto scopre, tutto rivela, non può che dare una sola e fuggevole immaginazione del proteiforme amore. Breve stagione. Se durasse, il cuore morirebbe nella esagerazione di un sentimento che è la follia. A poco a poco, con gradazioni impercettibili, madonna Isabella fu meno felice, meno innamorata; il sorriso fu più scarso sulla bocca, le braccia più fiacche nell'abbraccio, le labbra più gelide nel bacio, il palpito meno frequente nell'arrivo e nel distacco. Diomede Carafa, cieco, pazzo d'amore, non vedeva, non comprendeva. Madonna Isabella discendeva sempre più verso l'indifferenza che poi era il suo stato abituale e la sua naturale ferocia rinasceva per la tortura di quell'uomo. Ma Diomede Carafa soffriva e s'inebriava di quella sofferenza, piangeva e s'ubriacava di quelle lagrime, era ammalato e si consolava di quel morbo ora gelido, ora infuocato che gli consumava la vita; era tormentato, oppresso, disperato. ma si estasiava di ciò come i martiri cristiani del sangue che usciva dalle loro vene esauste. Isabella si mostrava con lui chiusa, dura, sprezzante e lui l'amava anche così, massimamente così; Isabella si faceva volubile, leggiera, accogliendo in casa i più bei cavalieri napoletani e lui, morendo di gelosia, amava Isabella per la gelosia che aveva di lei. Egli gettava pazzamente i suoi averi, obliava le prerogative della sua nobiltà, non conosceva più amici, non conosceva più parentado, non sapeva più nulla di obblighi o di diritti: Isabella, Isabella, amare Isabella. Fino a che un giorno tutta la verità gli fu palese come parola di Dio e seppe del proprio avvilimento, seppe del tradimento di Isabella con Giovanni Verrusio, amico suo e suo compagno d'infanzia. Egli nascose a tutti il dramma del suo spirito, sdegnoso di compianto. Il crollo immenso della sua felicità, la rovina tragica e nera dello splendido edificio non ebbero testimonio. Meglio così. Che vale il rimpianto? Che cosa è la parola compassionevole e glaciale? Foglie morte che il vento si porta via, ed il dolore rimane eterno. Invano egli errò, viaggiatore solitario e noncurante, per fiorenti paesi, invano chiese alle ricchezze, al lusso, ad altri amori, a feste stupende, l'oblio; invano egli volle innamorarsi delle vaghe creazioni dell'arte per ritrovare la pace. Dappertutto, in ogni paese, in ogni donna, in ogni fiore, al fondo dei vini generosi, nelle figure dei quadri, nelle figure delle statue, negli ondeggiamenti della musica, egli ritrovava Isabella. Il suo dolore non era più acuto e straziante, ma lento, lungo, stupefacente. egli sentiva la sua anima gonfiarsi di affetto ed i suoi occhi gonfiarsi di lagrime; egli provava il bisogno del sagrificio, del culto, dell'estasi ... - Dio, Dio - ripetette un giorno la stanca amica sua. Diomede Carafa fu vescovo di Ariano, prelato esemplare e amatore dell'arte. Leonardo da Pistoia, pittore, fu suo amico. Per sua ordinazione e per la chiesa di Piedigrotta dove giace il Sannazaro, il Leonardo fece il quadro bellissimo di S. Michele che atterra Lucifero. Lucifero vinto e bello e ancor folgorante, ha il volto di madonna Isabella. Ed è una donna il diavolo di Mergellina.

Giace lungo disteso, abbandonato, i piedi diritti, rigidi, uniti, le ginocchia sollevate lievemente, le reni sprofondate, il petto gonfio il collo stecchito, la testa sollevata sui cuscini, ma piegata, sul lato diritto, le mani prosciolte. I capelli sono arruffati, quasi madidi del sudore dell'agonia. Gli occhi socchiusi, alle cui palpebre tremolano ancora le ultime e più dolorose lagrime. In fondo, sul materasso, sono gettati, con una spezzatura artistica, gli attributi della Passione, la corona di spine, i chiodi, la spugna imbevuta di fiele, il martello. Sul piedistallo, sotto i cuscini, questa iscrizione: Joseph Sammartino, Neap., fecit, 1753 E più nulla. Cioè no: sul Cristo morto, su quel corpo bello ma straziato, una religiosa e delicata pietà ha gettato un lenzuolo dalle pieghe morbide e trasparenti, che vela senza nascondere, che non cela la piaga ma la molce, che non copre lo spasimo ma lo addolcisce. Sopra un corpo di marmo, che sembra di carne, un lenzuolo di marmo che la mano quasi vorrebbe togliere. Niente manca, dunque, in questa profonda creazione artistica: e vi è il sentimento che fa palpitare la pietra, turbando il nostro cuore, e v'è l'audacia del creatore che rompe ogni regola, e v'è il magistero di una forma eletta, pura, squisita. Quel corpo morto era poc'anzi vivo, si contorceva nelle angosce di un'agonia spaventosa, giovane e robusto si ribellava al male, si ribellava alla morte. Non vi era sfinimento, non vi era abbattimento: le fibre non volevano morire, il corpo non voleva morire. Ma sotto le pieghe del lenzuolo la testa ha un carattere stupendo: la fronte liscia ha un vasto pensiero; piangono gli occhi, è vero, pel cruccio fisico, ma le labbra schiuse hanno una traccia di sorriso che è una indefinita speranza. È vero. è vero, il dolore è passato dal corpo all'anima; è vero, l'anima è contristata, ma non è disperazione, ma non è desolazione. L'anima come la bocca è abbeverata di fiele, ma una goccia di consolazione vi è stata. Tutto quel Cristo è un dolore supremo, ma è anche una suprema speranza; ma il mistero di quella testa divina è così grandioso, ma l'ammirazione per la meravigliosa opera d'arte è così sconfinata, ma la pietà del bellissimo estinto è così invadente che il pensatore si scuote e non frena più le acute indagini dalla sua mente, l'artista s'inchina nella esaltazione del suo spirito ed il credente non può che abbandonarsi, piangendo, sui piedi del morto, cospargendoli di lagrime e di baci. Singolare anima d'artista doveva esser quella dello scultore che ha dato all'arte questo Cristo morto. Nell'opera sua vi è tutto il suo spirito. Uno spirito dove sorgevano uguali, immensi, due amori: quello per una donna, quello per l'arte. Infelicissimo, terribilmente doloroso il primo. Solamente chi ha conosciuto il furore acuto di una sofferenza senza nome può far passare tutta la poesia di questa sofferenza nel marmo senza vita; solamente chi è vissuto nelle lagrime, nell'angoscia, nella esaltazione di un'anima innamorata e solitaria, può infondere nel marmo il solitario e cupo dolore di questo Cristo. Lo scultore ha saputo, ha sentito. Ha saputo, ha sentito che cosa fosse il tormento sottile che stride come una sega piccina ed inesorabile; la desolazione grigia, lunga, monotona, dove tutto è cenere, tutto è nausea, tutto è disgusto: la disperazione larga e vasta e lenta come una fiumana di pianto; la disperazione fragorosa e tumultuante come un torrente che tutto trascina. Chi ha fatto quel Cristo ha spasimato d'amore; ha amato ed ha pianto; ha amato ed un fremito mortale gli ha travolto le fibre; ha amato ed una convulsione ha contorta e spezzata la sua vita; ha amato senza speranza, senza gioia, senza diletto, abbruciando la propria esistenza nella tormentosa voluttà del dolore. Solo un uomo che ama può creare quel Cristo morto; solo colui che soffre col trasporto, con la passione delle sofferenze, può mettere in una statua tutta la sublime epopea del dolore. Ogni colpo di scalpello che scheggiava, rompeva, carezzava, curvava, ammorbidiva il marmo, era una parola, un gemito, un lamento, un grido, uno scoppio furente di questo amore. La passione dell'uomo vivo creava la passione del Cristo morto. E ne veniva fuori un'anima d'artista che imprimeva il suo carattere in un capolavoro dell'arte. - Perché quella tomba non ha ritratto? - chiesi di nuovo uscendo dalla chiesa, mentre il custode faceva tintinnire le chiavi. - Lo scultore non ebbe tempo di finirlo ... - Quale scultore? - Il Sammartino. - Ah!... - ... Morì prima di finirlo. Fu trovato in una straduccia buia, di notte, con un pugnale nel petto. - Fu ucciso o s'uccise? - Si crede che si fosse ucciso. Come nello strazio dell'ignota agonia, la testa del morto scultore doveva rassomigliare a quella del Cristo morto!

IL VENTRE DI NAPOLI (VENTI ANNI FA - ADESSO - L'ANIMA DI NAPOLI)

682533
Serao, Matilde 2 occorrenze
  • 1906
  • FRANCESCO PERRELLA EDITORE
  • prosa letteraria
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Mille volte, questo popolo di Vicaria obbliato, abbandonato, tradito, ha trovato in Ettore Ciccotti non l'ipocrita che mette mano al portafogli e dà due lire, e compera due lire di tranquillità di coscienza, ma un cuore paterno, pieno di quella celestiale indulgenza che è la forza dei soggiogatori del popolo, ma un'anima virile che, nell'istesso tempo, ha detto la parola che solleva e ha prestato l'opera che redime, che ha consolato il dolore e ha aperto gli spiriti alla speranza di una vita più cosciente e più civile. Non vi stupite se le donne violenti di Porta Capuana e le male donne di via Martiri d'Otranto lo adorino! Così la Maddalena adorò Cristo: così la Maslova, perduta e criminale, adorò Tolstoi. Il vincolo sociale è fondato sull'alta e nobile e riabilitante carità fraterna: il miracolo sociale, è creato solo da un sublime e ardente sentimento di pietà e di amore. E che gli importa di esser deputato di Vicaria. a Ettore Ciccotti? L'uomo, in lui, è superiore a questa carica tenuta, spesso da gente vile o sciocca. La beltà della sua anima non soffre miscela di ambizione puerile: egli non è un arrivista: il socialismo non gli è servito per emergere: per cento altre forze intellettuali e morali, che sono in lui, egli sarebbe emerso. E non fu sempre socialista: e la sua storia della sua via di Damasco, tutta a onor, suo, è il romanzo di uno spirito retto e puro che si ribella, d'un colpo solo, alla infamia sociale, in tutti i ceti, infamia che non colpisce lui, ma chi sta intorno a lui: è la ribellione oscura e impetuosa di un altruista. Sia, sia, sempre il padre del popolo di Vicaria, Ettore Ciccotti! Non dimentichi questo popolo che egli ha amato, che lo ama: non lo abbandoni, di nuovo alla sua sorte tetra e truce: apporti, egli la luce della parola, la bellezza dell'esempio, la efficacia dell'azione a quella gente sventurata che, pure, è umana, è cristiana, ha i segni della intelligenza e del sentimento, nella persona. A ciò, non serve esser deputato. E, forse, domani, Ettore Ciccotti lo sarà di nuovo, se il giovine patrizio che ne prese il posto, non si decida, e forse è capace di farlo, a diventare, di Ettore Ciccotti, scolaro, cooperatore, fratello, in quartiere Vicaria. Il titolo di padre, è così bello, è così degno! Niuno che lo pronunzi, senza esserne commosso: ed in bocca a un popolo, esso significa preghiera e benedizione. Napoli, Novembre del 1904

Per via Roma, la più importante strada della città, il tratto da San Nicola alla Carità, fino alle Chianche della Carità, vale a dire, due piazze, due lunghi marciapiedi, sino alle otto della mattina, è abbandonato ai rivenditori di frutta, di erbaggi, di legumi: un contrasto di fichi e di fave, di uva e di cicoria, di pomidori e di peperoni; e un buttar acqua, sempre, uno spruzzare, uno scartare la roba fradicia; dopo le otto, quel tratto è un campo di battaglia di acque fetenti, di buccie, di foglie di cavolo, di frutta marcite, di pomidori crepati, tanto che, come la mano fatale di lady Macbeth, che tutte le acque dell'Oceano non potevano lavare, quel tratto di strada, via Roma, malgrado le premure degli spazzini, non arriva mai a detergersi. Intanto il grande mercato di Monteoliveto lì presso, resta semi-vuoto, con la malinconia dei grandi fabbricati inutili; quello di San Pasquale a Chiaia, è addirittura chiuso; il venditore napoletano non vuole andarci, vuol vendere nelle strade. Tutto il quartiere della Pignasecca, dal largo della Carità, sino ai Ventaglieri, passando per Montesanto, è ostruito da un mercato continuo. Vi sono le botteghe, ma tutto si vende nella via; i marciapiedi sono scomparsi, chi li ha mai visti? I maccheroni, gli erbaggi, i generi coloniali, le frutta, i salami ed i formaggi, tutto, tutto nella strada, al sole, alle nuvole, alla pioggia; le casse, il banco, le bilancie, le vetrine, tutto, tutto nella via; vi si frigge, essendovi una famosa friggitrice; vi si vendono i melloni, essendovi un mellonaro famoso per dar la voce ; vanno e vengono gli asini carichi di frutta; l'asino è il padrone tranquillo e potente della Pignasecca. Qui il romanzo sperimentale potrebbe anche applicare la sua tradizionale sinfonia degli odori, poichè si subiscono musiche inconcepibili: l'olio fritto, il salame rancido, il formaggio forte, il pepe pestato nel mortaio, l'aceto acuto, il baccalà in molle. Nel mezzo della sinfonia della Pignasecca, vi è il gran motivo profondo e che turba; la vendita del pesce, specialmente del tonno, in pieno sole, su certi banchi inclinati, di marmo. Alla mattina il tonno va a ventisei soldi e il pescivendolo grida il prezzo con orgoglio: ma, come la sera arriva, per il declinare dell'ora e della merce, il tonno scende a ventiquattro, a una lira, a diciotto soldi; quando arriva a dodici soldi, la gran nota sinfonica del puzzo ha raggiunto il suo apogeo. La Pignasecca non può mai essere pulita; nessun Municipio ha mai osato dichiararla via di sbarazzo . Il quartiere del Sangue di Cristo, detto piuttosto 'o sanghe d'e galline , per rispetto al nome del Redentore, se ne ride del Municipio. Del resto, tutto questo è bellissimo, pel pittore e pel novelliere. Nulla di più pittoresco che la strada di santa Lucia, di esclusiva proprietà dei signori pescatori e marinai, intrecciatori di nasse e venditori di ostriche; nonchè delle loro signore mogli, venditrici di acqua sulfurea e di ciambellette, cucinatrici di polipi e friggitrici di peperoni; nonchè dei loro signori figliuoli, in numero indefinito, nudi e bruni come il bronzo. In quella strada, all'aria aperta, tutto si fa: il bucato e la conserva di pomidoro, la pettinatura delle donne e la spulciatura dei gatti, la cucina e l'amoreggiamento, la partita a carte e la partita alla morra. La strada di santa Lucia appartiene ai luciani , che fanno il loro comodo. Le quattro viottole cieche che salgono da santa Lucia verso la collina, valgono i fondaci del quartiere Mercato, per il luridume: i cavalcavia uniscono le case pencolanti e sbuzzanti, le cordicelle vanno da un balcone all'altro, un lumicino innanzi a una Madonnina nera illumina soltanto la viottola, dove va a cadere tutto il sudiciume di quella gente. Non vi è più marciapiede, verso il mare: i luciani se lo pigliano tutto, per le nasse, e per le fiasche dell'acqua sulfurea. Nell'estate, anzi, dormono sul marciapiede o sul parapetto e brontolano contro colui che osa passare e svegliarli. Verso le case, non vi si accosta nessuno: lì per scherzo, volano i torsi di spighe e le buccie di fichi e le cantine mettono le tavolelle dei bevitori, nella via. I luciani sopportano che il tram passi per la loro via, ma vi bestemmiano contro, spesso e volentieri, poichè è una usurpazione della loro strada: le venditrici di acqua sulfurea paiono tanti uomini vestiti da donne, con gli zoccoli dal tacco alto, la gonna corta legata sullo stomaco, le rosette di perle sostenute con un filo all'orecchio, perchè non si spezzi il lobo, pel peso. Sono naturalmente rissose e brutali: vi dànno a bere l'acqua per forza, litigano fra loro, rubandosi gli avventori. Sono indomabili: per poterle governare, il delegato del quartiere deve essere anche un luciano , che le pigli a male parole. Una volta, due di esse, bastonarono fino all'estenuazione, una guardia municipale che voleva loro assegnare una contravvenzione: è vero, però, che il giorno seguente si quotarono per aiutarne la vecchia madre, mentre il figlio era all'ospedale. Ma santa Lucia, tutta pittoresca, resta sempre fuori delle leggi dell'edilizia e d'igiene: è un borgo fortificato. Forse il colera non vi avrà fatto strage; vi è il mare e vi è il sole. Ma che mare nero, untuoso! Ma qual putrefazione, non illumina quel sole! È pittoresco, per un amante del colore, veder girare, di sera, per via Roma, un carretto disposto a mensa, su cui, in tanti piattelli, vedi dei castelletti di fichi d'India, sbucciati: un uomo spinge il carretto, una lampada a petrolio vi fumiga, il carretto si ferma ogni tanto. Riparte, lasciando dietro di sè le bucce spinose e sdrucciolevoli. È pittoresco, assai, per un novelliere, girare dopo mezzanotte: e trovare degli uomini che dormono sotto il porticato di san Francesco di Paola, col capo appoggiato alle basi delle colonne: degli uomini che dormono sui banchi dei giardinetti, in piazza Municipio; dei bimbi e delle bimbe, che dormono sugli scalini delle chiese di san Ferdinando, santa Brigida, la Madonna delle Grazie, specialmente quest'ultima, che ha una larga scala e certi poggiuoli ampli, nel centro di via Roma. Può piacere all'uno e all'altro, che giusto a due passi da via Roma, vi sia il Chiostro di San Tommaso d'Aquino, dove non vi sono più monaci, ma che è un piccolo fondaco , una piccola Corte dei Miracoli, con le sue vanelle , e le sue botteghe brulicanti di ombre e le case brulicanti di poveri e d'infelici. Ma in realtà è molto, molto crudele che tutto questo esista ancora, e che creature umane lo subiscano, e che uomini di cuore sopportino che questo sia.

IL GIORNALINO DI GIANBURRASCA

683076
Bertelli, Luigi - Vamba 1 occorrenze
  • 1912
  • MARZOCCO Sessantunesima edizione
  • prosa letteraria
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In verità la mia coscienza non poteva rimproverarmi di essermi abbandonato all'ozio che è il padre dei vizii... e io mi addormentai placidamente pregustando già in sogno le grandi sorprese che mi riserba questo mio osservatorio che mi costa tanti sudori e per il quale ho perduto tanti sonni... Non mi par vero d'arrivare a stasera! * * * Evviva, evviva!... Oggi a desinare si è finalmente cambiato minestra!... Abbiamo avuto una eccellente pappa col pomodoro alla quale le ventisei bocche dei convittori dei collegio Pierpaoli han rivolto con ventisei sorrisi il più caldo e unanime saluto... Noi della Società segreta ci si guardava ogni tanto con un sorriso diverso da tutti gli altri perché sapevamo il mistero di questo improvviso cambiamento. Chi sa che tragedia era successa in cucina!... La signora Geltrude girava attorno alla tavola con gli occhi iniettati di sangue che pareva una belva, volgendo lo sguardo qua e là sospettosamente... Per me e per Mario Michelozzi è stata una grande soddisfazione quella di aver fatto cambiar regime ai nostri pasti, e ripensando alla nostra audace spedizione di stanotte, ai pericoli affrontati con tanto sangue freddo, mi par d'essere uno degli eroi di quelle imprese gloriose che si trovano in tutto le storie di tutti i popoli e che a farle devono essere state molto divertenti per chi le ha fatte, quanto sono noiose a leggerle per i poveri scolari perché devono poi impararle a mente con tutte le date... E alla fin dei conti non si tratta forse, sia pure in un campo più ristretto, delle medesime cause e dei medesimi fatti nei quali chi ha più core e più coraggio si sacrifica per il bene comune? Anche nelle storie delle nazioni ci sono i popoli che ogni tanto si stancano d'aver sempre minestra di riso, e allora avvengono le congiure, i complotti, e saltan fuori i Michelozzi e gli Stoppani che affrontano i pericoli finché per la loro abnegazione, non si passa alla pappa al pomodoro... Che fa se il popolo ignora chi è stato che ha fatto cambiar minestra? A noi ci basta la coscienza d'aver fatto quel che abbiamo fatto per la felicità di tutti. Però gli altri soci della nostra Società segreta ci han fatto molta festa, a me e al Michelozzi, per la riuscita dell'impresa, e Tito Barozzo stringendoci la mano ci ha detto: - Bravi! Vi nomineremo i nostri petrolieri d'onore!... - Intanto Maurizio Del Ponte ci ha fatto una comunicazione molto importante. - Ho visto la stanza sulla quale il nostro bravo Stoppani ha aperto il suo finestrino che ci sarà di una utilità incalcolabile. Ho potuto penetrarvi perché in questi giorni i muratori stanno rifacendovi un pezzo d'impiantito. È la sala particolare della direzione, quella dove il signor Stanislao e la signora Geltrude ricevono le persone più intime e di riguardo. Questa stanza a destra comunica con l'ufficio di direzione e a sinistra con la camera da letto dei coniugi direttori. In quanto al quadro che impedisce al nostro Stoppani di spingere lo sguardo su questa importante piazza nemica, è il grande ritratto a olio del professor Pierpaolo Pierpaoli, benemerito fondatore di questo collegio, zio della signora Geltrude alla quale passò in eredità... - Benissimo! Stasera mi godrò dunque lo spettacolo nella sala riservata di Pierpaolo Pierpaoli buonanima, dal mio palchetto su all'ultimo ordine stando comodamente sdraiato nel mio armadietto. - Come vorremmo essere al tuo posto! - mi hanno detto i compagni della Società Uno per tutti e tutti per uno

Il maleficio occulto

684168
Zuccoli, Luciano 1 occorrenze

- domandai sottovoce, accarezzando lievemente la mano, che Clara aveva abbandonato lungo il fianco. - No, hai fatto bene: devo sapere, fino in ultimo, - ella rispose con impeto. E guardando un piccolo orologio, che stava in un angolo, sopra una mensoletta, aggiunse: - Sono appena le due. Abbiamo tempo....

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