Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonare

Numero di risultati: 137 in 3 pagine

  • Pagina 2 di 3

La fatica

169203
Mosso, Angelo 4 occorrenze
  • 1892
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
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In questo stato egli erasi deciso di abbandonare gli studi e di darsi alla vita campestre, perchè riteneva che si trattasse di una malattia incurabile. Esaminatogli il naso, il professor Guye trovò un grosso tumore adenoide, lo estirpò, e dopo due mesi di cura, essendo bene guarita la cavità profonda del naso, questo studente potè ripigliare i suoi studi." Il professor Guye riferisce parecchi casi simili, dai quali risultò che una malattia della muccosa nasale, può dare un disturbo grave nella attività del cervello, caratterizzato da ciò che l'attenzione non può fissarsi più su nulla e che non può più obbligarsi il cervello ad una occupazione. Non può considerarsi questo stato di incapacità a pensare, come un fenomeno della fatica, perchè prima che si presenti l'incapacità a pensare non abbiamo fatto nulla di troppo. Certo vi è in tutti una aposexia prodotta dalla fatica, perchè lo strapazzo del cervello ci rende incapaci a pensare, ma essendo eguale il risultato, il meccanismo e l'origine può essere diversa. Il professor Guye per spiegare questo fenomeno pensa che il rigonfiamento della muccosa nasale produca un disturbo nella circolazione linfatica del cervello, e che questa sia la causa di un disturbo nella nutrizione del cervello, e della incapacità a pensare. Nelle scuole dei ragazzi osservò spesso l'aposexia per malattie del naso, e vedendo dei ragazzi svogliati che non studiavano più come prima, potè egli assicurarsi che alcune volte dormivano colla bocca aperta e che la causa era del naso. Basta pochissimo per interrompere il lavoro del pensiero e levarci la ragione. Di ciò si possono dare mile prove, ma una forse meno nota a chi non è medico, è quella della così detta pazzia circolare. Sono dei matti che hanno dei lucidi intervalli con una chiarezza di mente completa: e poche ore dopo ricadono in un delirio furioso. Gli accessi maniaci possono durare più d'un giorno, delle settimane, o dei mesi, ma quello che è straordinario, e che commove chiunque siasi trovato a vederlo, è l'interruzione improvvisa dell'accesso che scompare come per un incanto. L’ ammalato cessa di gridare e di agitarsi, l' occhio suo si rasserena, egli comprende ciò che è passato e si rivolge supplichevole a chi lo assiste, pregandolo che lo sleghi. Il periodo del lucido intervallo può durare anche solo un giorno, e vi furono dei pazzi che erano savi un giorno sì e l'altro no. Vi ha di quelli che diventano matti sul serio una volta l’anno: ed altri hanno dei lucidi intervalli anche più lunghi. Il celebre filologo Gherardini in seguito ad un terribile dramma domestico, fu scosso talmente nel sistema nervoso che cadde gravemente ammalato. Il professore A. Verga, il quale pubblicò la storia di questa malattiaANDREA VERGA;Della malattia che trasse a morte il dottor Giovanni Gherardini. Milano, 1861., dice: "Si era quasi abolita la sensibilità interna ed esterna; il dottor Gherardini non sentiva nè fame nè sete, nè caldo nè freddo, nè sapore, nè odori. Stupido, stitico, insonne, abbandonato di forze, egli sembrava destinato a morire di tabe. Ma una mattina, dopo aver finalmente dormito, sente desiderio di una presa di tabacco; si risveglia, si mette al tavolino: impugna la penna e scrive le Voci e maniere di dire additate ai futuri vocabolaristi. Ma se da questa malattia l'intelletto parve sortirne avvalorato, il fisico serbò amaro ricordo. " Dopo sette anni ebbe una ricaduta col medesimo sopore profondo, perdeva l'orina, e le fecce, bisognava nutrirlo artificialmente, non deglutiva più, gli colavano le bave, e dopo un anno e mezzo che dava di sè questo spettacolo straziante, tutto d'un tratto gli si riaperse la mente e comincio a scrivere un'altra opera, la Lessigrafia e il supplemento ai vocabolari. Dopo sette anni ebbe ancora un terzo accesso, ma questa volta il dottor Gherardini aveva 77 anni, e gli mancarono le forze per una terza risurrezione.

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Molti professori prima di entrare nella scuola sono già decisi di abbandonare qualunque esperimento, appena temono che qualche inconveniente possa rendere meno sicuro il risultato. Quelli che si provano a rifare un esperimento non andato bene, per poco che siano nervosi, sentono subito che le mani tremano, e che non hanno più la calma nè la sicurezza dei movimenti, nè l'acutezza della vista, che avevano ripetendo la medesima esperienza, prima che penetrasse il pubblico nella scuola. La fatica maggiore del far lezione, non dipende tanto dal modo con cui uno si è preparato, ma dalla materia della lezione, e dalla intonazione sua. Si stancano di più i professori che tengono ad una forma elevata, al lusso delle citazioni, dei nomi, delle date, ecc. Quanto più è solenne una lezione, altrettanto più l' elemento emozionale prende il sopravvento. I professori che si esauriscono meno, sono quelli che seguono il metodo familiare e che si mantengono più in contatto coi giovani. Ho studiato sopra di me i cambiamenti dell'organismo per effetto delle lezioni, ma ne ebbi dei risultati meno evidenti che in altri miei colleghi. Questo dipende in parte dalla mia costituzione, e più che tutto perchè io faccio scuola alla buona. Nel principio del mio libro sulla Paura, ho già descritto gli effetti gravi che però provo anch’ io nelle lezioni solenni. Mi ricordo di notti insonni passate dopo aver pronunziato un discorso o fatto una conferenza e conosco quanto sia tormentosa questa agitazione. Qualche volta mi accorgo,se devo scrivere appena finita la lezione, che il carattere mio è un po' diverso; e si riconosce dalle lettere più grosse e dalle linee meno sicure, che non è la mia scrittura ordinaria. Lungo l' anno, eccetto una leggera debolezza alle gambe, quando esco dalla lezione che faccio stando in piedi, non mi accorgo di altri fenomeni di stanchezza. Solo nella prima lezione e qualche volta nell'ultima di chiusura, provo dei fenomeni di eccitazione, e mi sento caldo al volto e mi trema la voce o vengo preso dopo da mal di capo. Intorno all'influenza che l'attività del sistema nervoso esercita sulla temperatura del corpo vi sono molte osservazioni. Le più note sono quelle di John Davy e quelle più recenti di Speck SPECK, Untersuchungen über die Beziehungen der geistigen Thätigkeit zum Stoffwechsel. Archiv. für exp. Pathologie und Pharmak. XV, 1882, pag. 88., ma in nessuno degli autori che trattarono questo argomento si trovano registrati degli aumenti così forti di temperatura come osservai sopra di me e sopra i miei assistenti. Ho misurato parecchie volte la temperatura del mio corpo in circostanze eccezionali, prima e dopo la lezione, e sempre vi ho trovato la differenza di circa mezzo grado. Una volta, dopo una conferenza che mi aveva affaticato molto per la emozione prodotta da un pubblico scelto e molto numeroso, trovai una temperatura rettale di 38,2. Era dunque una leggera febbre che mi ero procurato, semplicemente col far lezione e che cessò dopo la mezzanotte. Fu però nei miei assistenti dove ebbi occasione di osservare le più alte temperature per l' emozione e la fatica del far scuola. Tutte le volte che per malattia o per ragioni di ufficio dovevo assentarmi dalla scuola, pregavo uno dei miei assistenti di supplirmi. Così ho potuto raccogliere poco per volta un materiale importante di osservazioni per questo studio e vedere che gli aumenti febbrili della temperatura per azione nervosa sono molto più alti di ciò che non si credesse. Riferisco uno di questi sperimenti, quello del dottor Mariano Patrizi quando fece la sua prima lezione dalla mia cattedra. Egli era avviato in una ricerca, nella quale da più di una settimana studiava con grande attenzione i cambiamenti della sua temperatura interna nello stato normale, quando improvvisamente lo pregai di fare la sua prima lezione in vece mia, perchè io dovevo andare a Roma. Siccome si trattava di un argomento, che egli conosceva bene, accettò, benchè gli rimanessero solo tre giorni di tempo per prepararsi al suo debutto. II dottor Patrizi era laureato appena da un anno, ma egli è tanto capace che io non ho temuto di metterlo a questo cimento dinanzi ad un pubblico numeroso. Per testimonianza di colleghi che assistettero a questa sua prima lezione posso dire che le mie speranze furono pienamente soddisfatte e che egli fece una bella lezione. Per dare un documento esatto in questo studio psicologico, riferisco un frammento della lettera che il dottor Patrizi mi scrisse a Roma, dopo aver fatto la sua prima lezione. "Mi avvidi di non essere, pur troppo, tra quei privilegiati che dormono profondamente alla vigilia d' una battaglia: nella notte avanti il 3 giugno sentii la necessità di chiamare a raccolta gli argomenti che avrei esposti in iscuola e non mi coricai che a un'ora del mattino. Alle cinque ero già desto e la brevità del riposo non fu compensate da un sonno calmo e continuo. Il termometro tradì la mia agitazione, segnando alle sei antimeridiane 37°,8 della mia temperatura rettale, che in circostanze ordinarie, alla stessa ora, non supera mai i 36°,9. "Mi levai e cercai nascondere a me stesso la emozione crescente, e di ingannare le interminabili quattro ore che mi separavano dal momento solenne, col dar gli ultimi tocchi ad alcuni disegni, i quali dovevano servire per mostrare agli studenti lo sviluppo e le localizzazioni dei centri della parola. Ma io mi sforzava indarno di dominare il tremore della mano, e il pennello lasciava sulla carta, linee ineguali e ondulate. Potei però con forte volere, vincere lo stimolo del mingere che assiduamente mi tormentava. " Alle 10 la temperatura non aveva cangiato 37°.8. I movimenti respiratori erano 18 al minuto: uno sopra la media della stessa ora. Scrivo il polso dell'antibraccio destro coll'idrosfigmografo. Confrontando il tracciato con quello normale, registrato alla medesima ora di altra giornata, noto non solo la maggior frequenza (103 pulsazioni invece di 78), ma ancora la verticalità più distinta, dell' ascensione sistolica, la ripida discesa della diastole, e il dicrotismo più manifesto. Questi caratteri differenziali rispetto al polso normale apparvero maggiormente accentuati nel polso dopo la lezione, poichè era fortissimo il dicrotismo; indizio certo del rilasciamento delle pareti dei vasi sanguigni. "Alle. 10. 27. pochi istanti prima di entrare nell'aula, il numero dei battiti cardiaci s'era vieppiù accresciuto. Erano 136 in un minuto.Respiravo nello stesso tempo 34 volte. Provavo un senso di pressione e di stringimento all'epigastrio, e notai un aumento della salivazione che mi obbligava a sputare ad ogni poco. "Entrai. Dopo aver parlato 70 minuti, camminando e gesticolando vivacemente, anche per dissimulare l'imbarazzo, uscii dall'aula tutto sudato alle 11.40 e tirai un grande sospiro che mi sollevò. Scrissi nuovamente, come ho detto, il polso coll' idrosfigmografo. Aggiungo qui che il polso era tornato a battere 106 volte al minuto. "La temperatura era salita a 38°,7 mentre vicino a mezzogiorno essa suole in me oscillare tra i 37°,2 e 37°,3. "Scrissi coll'ergografo la curva della fatica sollevando tre chilogrammi ogni due secondi, col dito medio della mano destra. Eseguii un lavoro meccanico di chilogrammetri 4,50. Due ore prima quando l'agitazione era al massimo, avevo fatto un lavoro di chilogrammetri 5,95. Si vede che non ero ancora entrato nella fase della depressione delle forze, perchè il lavoro compiuto dopo la lezione riuscì superiore al lavoro normale della stessa ora, che è di chilogrammetri 4,35. Subbiettivamente avvertivo che l'eccitamento stava per dileguarsi e per far posto alla prostrazione. Trascinavo le gambe come se avessi fatto una lunga marcia; e nel pomeriggio, distesomi sul letto per leggere un po' più comodamente dell' usato, mi addormentai in un sonno grosso e filato di due ore che mi ristorò".

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Tornato da un viaggio di circumnavigazione, andò cosi rapidamente peggiorando la sua salute, che egli, essendo ancora giovane, si decise di abbandonare Londra, per vivere nella solitudine di un piccolo villaggio. Carlo Darwin ci lasciò dei documenti interessantissimi intorno alle sue facoltà mentali e al modo come lavorava. Nella sua autobiografia, dice: La Vie et la corrispondence de Charles Darwin publiées par son fils M Francis Darwin. - Paris, 1888."La scuola come mezzo di educazione fu per me un semplice zero. Io fui incapace durante tutta la vita di vincere le difficoltà per apprendere una lingua qualunque. "Non ho la grande rapidità di concepimento o di spirito, tanto notevoli in qualcuno degli uomini intelligenti. Sono un critico mediocre. La facoltà che permette di seguire una serie lunga e astratta di pensieri è molto limitata in me, e non sarei mai riuscito nelle matematiche e nella metafisica. "La mia memoria è estesa, ma confusa, e basta appena per avvertirmi vagamente che ho letto od osservato qualche cosa di opposto o di favorevole alle conclusioni che tiro. La mia memoria lascia talmente a desiderare, che non ho mai potuto ricordarmi più di qualche giorno, una semplice data o un verso di poesia. "Ho tanto spirito d'invenzione, di senso comune, e di giudizio, quanto ne ha un avvocato od un medico di forza comune, a quanto io credo, ma non di più". Un uomo che si credeva in così scarsa misura fornito dei doni dell' ingegno, in quarant' anni di assiduo lavoro, è riuscito a far cambiare la faccia alla scienza. Egli era così debole e sofferente che non poteva neppure ricevere gli amici nella rustica e silenziosa sua casetta, perchè tutte le volte che cercava di sforzarsi, l'emozione e la fatica gli davano sempre dei brividi e dei vomiti. Eppure quest'uomo di abitudini campagnuole, che si occupava, solo del suo giardino e dei suoi libri, trasfuse una vita nuova nella filosofia, ed ha fecondato, si può dire, tutto lo scibile del nostro secolo. Nel piccolo villaggio di Down, sotto l'ombra dei grandi alberi, che circondavano la casa di Darwin, si è meditato e combattuto vittoriosamente una lotta gigantesca; di là si sono aperte nuove vie e nuovi orizzonti al pensiero dell'umanità. E Darwin fu così fortunato, che prima di morire vide trionfare le sue idee e crescere l’ edificio della scienza sulle basi che egli prima aveva gettate. "Il mio spirito, dice DarwinOpera citata. Tomo I, pag. 102., è vittima di una fatalità, che mi fa stabilire in primo luogo la mia esposizione, o la mia proposizione, sotto una forma difettosa, e disadatta. Nel principio avevo l'abitudine di riflettere molto alle mie frasi prima di scriverle; dopo parecchi anni ho capito che guadagnavo tempo a scarabocchiare delle pagine intere colla maggior fretta possibile, raccorciando e troncando le parole a mezzo, ed a correggere in seguito con mio comodo. Le frasi gettate giù a questo modo sono spesso migliori di quelle che avrei potuto scrivere con riflessione. Avendo così esposto la mia maniera di scrivere, devo aggiungere che per le mie voluminose opere consacravo molto tempo ad un ordinamento generale della materia. Facevo prima un abbozzo grossolano in due o tre pagine; alcune parole ed anche una sola, rappresentavano una discussione intera od una serie di fatti. Ciascuna di queste divisioni era aumentata o trasposta prima di cominciare il libro in extenso. Siccome ho sempre lavorato sopra più soggetti ad un tempo, devo ricordare che avevo organizzato da trenta a quaranta portafogli dentro a dei mobili che portavano le loro etichette e che mettevo in questi gli appunti staccati o le note. Ho comperato un grande numero di libri, e alla fine di ciascuno aggiunsi una tabella di tutti i fatti che riguardavano il mio lavoro; se il libro non era mio ne facevo un sunto. Ed avevo un cassetto pieno di questi estratti." Appena ritornato dal suo viaggio intorno al mondo, Darwin scriveva a Lyell: "Mio padre spera che lo stato della mia salute possa appena migliorarsi fra qualche anno. E il prognostico è grave per me, perchè sono convinto che la corsa sarà guadagnata dal più forte e non farò altro nella vita che seguire le tracce lasciate dagli altri nel campo della scienza." Un' altra volta scrivendo da Londra a Lyell, dice: "Ho adottato il vostro sistema di non lavorare che due ore di seguito, dopo le quali esco di casa per le mie faccende, poi rientro e mi rimetto al lavoro. Così d'un giorno ne faccio due". Riferisco ancora qualche tratto caratteristico della figura di Darwin, quantunque la vita scritta dal suo figliolo sia molto conosciuta. "Due particolarità, del suo modo di vestire in casa, consistono in ciò, che egli portava sempre uno scialle sulle spalle, e dei grandi stivali di panno foderati che calzava sopra le scarpe di casa. Come il maggior numero delle persone delicate, egli soffriva tanto il caldo, quanto il freddo. Il lavoro mentale gli dava sovente troppo caldo, ed egli si levava il paletot, se nel corso del lavoro qualche cosa non gli andava a suo genio. Si alzava di buon'ora, e faceva, una piccola passeggiata prima della colazione; e considerava il tempo che passa fra le otto e le nove e mezzo, come il momento dei suoi studi migliori: alle nove e mezzo ritornava colla famiglia, si faceva leggere le lettere e qualche pagina dei giornali, di un romanzo o di viaggi. Alle dieci e mezzo ritornava nel suo studio; dove lavorava fino a mezzo giorno o mezzogiorno e un quarto." A questo momento egli considerava come finito il lavoro della sua giornata e diceva spesso con soddisfazione, "ho fatto una buona giornata di lavoro". Egli usciva allora a passeggiare, senza badare se era sole o se pioveva. Suo figlio ricorda un motto di Darwin che egli ripeteva spesso, cioè che noi arriviamo a fare il nostro compito economizzando i minuti. Darwin faceva questa grande economia del tempo per la differenza, che egli sentiva tra il lavoro di un quarto d'ora e quello di dieci minuti. La maggior parte delle sue esperienze, dice Francis Darwin, erano così semplici che non richiedevano preparativi, e credo che queste abitudini egli dovesse in grande parte al desiderio di risparmiare le sue forze e di non logorarsi in cose poco importanti. "Io fui spesso sorpreso, dice egli, del modo con cui mio padre lavorava fino all'estremo limite delle sue forze; spesso, dettandomi, s'arrestava tutto di un tratto e diceva : credo che bisogna che io mi fermi". Darwin durante quarant'anni non ebbe mai un giorno di buona salute come gli altri uomini. Il segreto suo fu la pazienza di arrestarsi a riflettere (come diceva lui) per degli anni interi sopra un problema inesplicato; e di esser nato colla forza di non poter adattarsi in verun modo a seguire ciecamente la traccia degli altri. E Darwin per queste sue virtù, malgrado che soccombesse ogni giorno sotto il peso della fatica per qualunque piccolo sforzo, fece maravigliare il mondo per le importanti leggi scoperte, per la interpretazione più logica che diede della formazione degli esseri viventi, per la luce che ha gettato su molti fenomeni della natura. E nel secolo nostro, Darwin rimarrà immortale per la novità dei suoi concetti elevatissimi, per un ideale sublime, come non era uscito mai dalla mente dei filosofi che avevano meditato sull'origine della vita.

Pagina 305

Non conosciamo bene le ragioni che indussero lo Stenone ad abbandonare dopo alquanti mesi la patria e fare ritorno in Toscana. Il Redi scrivendo nel dicembre del 1674 dice che Stenone "sarebbe stato fra poche settimane in Firenze e forse avrebbe condotto seco Swammerdam che è un giovane assai virtuoso". Questo Swammerdam è il grande naturalista olandese, uno del più forti ingegni del suo secolo, la cui vita presenta un punto di rassomiglianza curioso con quella di Stenone. Swammerdam fu soggiogato da certa Antonietta Bourignon de la Porte. L'esaltazione religiosa di questa donna esercitò un' influenza fatale sulla vita di Swammerdam, il quale diventò melanconico, pieno di misticismo, e finì per non occuparsi più d'altro che di teologia. Stenone fece la medesima fine, e la donna che lo ha dominato fu una monaca di Firenze, certa Suor Maria Flavia del Nero. Ho raccolto intorno a questo dei documenti a Firenze, ma non mi sembra che sia qui il luogo di fare una ricerca storica sulla vita intima di Stenone. Certo è stata per me una cosa divertente il rintracciare la storia di questa Suor Maria Flavia del Nero, e l' influenza che esercitò sulla conversione, e sul ritorno a Firenze di Stenone. Esistono parecchie lettere di Stenone a lei: e quando ebbe passata la giovinezza, Suor Maria Flavia del Nero scrisse nella Cronaca del Convento, che la conversione di Stenone e la vita di quel santo era stata opera sua. Da una biografia contemporanea dello Stenone si ricava che "chiamato dal duca di Annover all' ufficio di vescovo, quante penitenze, quanti esercizii di pietà, ha egli fatti! Fatto voto di andare da Firenze a Loreto, da Loreto a Roma e da Roma al luogo destinatogli, a piedi, elimosinando, dispensato prima ai poveri ogni suo avere, si è di più messo in viaggio a piede scalzo, e così è giunto a Loreto, ma con iscapito della sua sanità, ove è bi- sognato curarlo".MANNI, Vita di Stenone. Pag. 268. Quanta sono mutati i tempi! Non v' ha uomo a cui ora queste sublimi pazzie non destino un sentimento amaro di commiserazione! Eppure nella biografia del Manni si fa merito a Stenone di tutte queste sofferenze patite, che lo condussero immaturamente alla tomba. Mentre egli era nella Germania del Nord, per riconquistare al cattolicismo le provincie che aveva perduto la Chiesa, sappiamo da documenti di testimoni che esso faceva una vita estenuatissima ANON, Notizie della vita e della morte di Monsignor Niccolò Stenone. Questo manoscritto trovasi nella Biblioteca Nazionale di Firenze , dove pure conservansi parecchie lettere scritte da Stenone al Magliabecchi.. Gli ultimi anni della vita di Stenone furono quelli di un martire, finchè le penitenze e le vigilie non lo condussero alla tomba. Egli morì nel fervore della sua missione l'anno 1684, in Schwerin nel Mecklenburg. Io non so se l'amor suo per l'Italia fosse rimasto sempre così grande da desiderare che qui avessero pace le sue ossa, o se l'intolleranza religiosa di quei tempi gli abbia negato il riposo che ognuno spera di trovare nella terra dove è nato. Cosimo dei Medici fece condurre con grandi onori la sua salma a Firenze e le spoglie dell'immortale fisiologo riposano in San Lorenzo sotto la cupola grandiosa della cappella medicea, vicino ai monumenti con cui Michelangelo rendeva immortali le tombe di quei principi benemeriti delle scienze e delle arti. Un giorno sono stato a visitare la tomba di Stenone nei sotterranei di San Lorenzo: per giungervi bisogna passare sulla pietra che copre le ossa di Donatello, il grande maestro del verismo nell'arte. Di fronte vi è la cripta di Cosimo padre della patria, e a destra contro un pilastro una lapide dice:

Pagina 49

Fisiologia del piacere

170115
Mantegazza, Paolo 2 occorrenze
  • 1954
  • Bietti
  • Milano
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Ad accennare l'immenso campo che abbraccia questa questione diremo soltanto che tra gli indigeni di Otahiti, che sacrificavano senza scrupoli al dio d'amore innanzi a tutti, e l'Inglese che ha vergogna di nominare il ventre e le mutande, stanno le donne di Musgo, nell'Africa centrale, le quali rifuggono con orrore dall'idea di abbandonare per un sol momento il frac, che copre la parte che sia fra il dorso e le cosce, e lasciano scoperto tutto il resto del corpo agli sguardi dei profani. Così rimangono abbozzati i confini indeterminati di uno dei sentimenti più misteriosi, ch'io definirei volentieri rispetto fisico di noi stessi.

Pagina 112

Io confesso però che vedrei con dolore abbandonare dalle nazioni americane la cannuccia del mate per vederlo versare fumante in eleganti tazze di porcellana. Il guaranà, fatto coi frutti della Paullinia sorbilis, era una bevanda aristocratica, riservata, per il suo alto prezzo, ai ricchi del Brasile e della Bolivia. Ma ora è più largamente diffusa. Si prende fredda e zuccherata; ha sapore piacevole che rammenta i lamponi e il cioccolatte; scuote l'inerzia e il sonno, dispone ai lavori intellettuali e alle gioie dell'amore.

Pagina 53

Il successo nella vita. Galateo moderno.

176321
Brelich dall'Asta, Mario 2 occorrenze
  • 1931
  • Palladis
  • Milano
  • Paraletteratura - Galatei
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Dando un colpo maestro, si deve abbandonare assolutamente la sostituzione delle carte, che è molto incerta; invece, volendo giuocare un piccolo colpo, è utile lo scarto: perchè deve migliorare le carte sostituite a meno che non si tratti di carte le più opposte al giuoco, o di minimo valore. Scartando, si deve ancora cercar di fare i quattordici. Si chiamano 14, l'insieme dei 4 assi, 4 re, 4 dame, 4 fanti; e, favoriti dal 14 d'asso, se ne può contare uno ben più basso, come quello di dieci, quantunque l'avversario ne abbia uno di re, di dame, o di fanti; perchè il quattordici più forte annulla il minimo. In mancanza del quattordici, si contano 3 assi, 3 re, 3 dame, 3 fanti o 3 dieci. Si noti che 3 assi valgono più di 3 re e che il più piccolo quattordici impedisce 3 assi, col favore di un quattordici, si contano non soltanto altri quattordici minimi; ma anche 3 dieci, ed altri 3, purchè non siano di 9, di 8, o di 7, quantunque l'avversario abbia 3 di un valore superiore. Un po' d'esercizio renderà famigliare questa regola, che sembra tra le più difficili del giuoco. Lo stesso s'ha da praticare in rapporto alle ottave, settime, seste, quinte, quarte e terze, alle quali un giuocatore, che fa il suo scarto, deve pensare a fine di procurarsene colla sua rientrata di carte. Questo studio è ciò che di più bello ha il giuoco di cui si tratta. Nel capitolo seguente è indicato il valore e il numero delle carte; ciò che servirà a far conoscere ai giuocatori poco esperti quali carte sia meglio e più vantaggioso di conservare e quali da scartare.

Pagina 348

Non pochi si piccano di avere scoperto un sistema per vincere sicuramente; ma in effetto finiscono per perdere e per rovinarsi, poichè non c'è sistema che tenga, ed il banco, se talvolta paga somme favolose ai giuocatori, le ricupera ben tosto, quando i fortunati non hanno il criterio di abbandonare subito e per sempre il giuoco. A Montecarlo, per esempio, ho udito io con le mie orecchie uno dei tanti croupiers esclamare, indicando un vincitore assai fortunato: - Se non parte, stanotte dorme col danaro vinto e domani ce lo rende!

Pagina 366

Enrichetto. Ossia il galateo del fanciullo

179063
Costantino Rodella 2 occorrenze
  • 1871
  • G.B. PARAVIA E COMP.
  • Roma, Firenze, Torino, Milano
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Bastava che Enrichetto richiamasse alla mente quel brutto dì per tosto divenir serio, serio, abbandonare la compagnia, e ritirarsi cupo a meditare; tutta quella scena gli veniva innanzi: la mamma coi capelli scarmigliati, abbandonata sur una seggiola in un angolo oscuro della camera, a forti singulti piangeva; il padre muto, cogli occhi rossi, colla fronte cupa andava e veniva a presti passi per la stanza; il fratello e le sorelle sopra scranne qua e là guardando la mamma a grosse lagrime singhiozzavano: le campane della vicina parrocchia suonavano a distesa; orfanelli, frati, preti processionalmente si sentivano per la via e su per le scale cantare il miserere; ed egli, sbalordito, fuor di sé, s’era accostato alla porta, e vedendo trasportare fuori una cassa coperta di nero: nonna, nonna, si pose a gridare, e dietro le rapidamente nonna, nonna, seguitava a chiamarla dal pianerottolo, mentre giù per gli svolto delle scale spariva la processione. Ma la nonna non rispose, né più la vide ritornare se non ne’ sogni!

Pagina 17

Come ad esempio: non dover costringere persona alcuna ad abbandonare la sua diritta nella strada; i giovanetti aver a cedere sempre la via più comoda a’vecchi, e specie alle donne; per istrada non correre, nè andar troppo lento; passeggiando coi compagni non appoggiarsi sulle spalle del vicino, nè, dando braccetto, far sostenere tutto il peso del nostro corpo sul braccio dell’amico; non dimenar le braccia a foggia di chi semina ne’campi; nè doversi gesticolar troppo, nè discorrendo ad ogni piè sospinto fermarsi. Badare segnatamente nella calca dove si mette il piede, schivando di calpestare i piedi de’ vicini, e specie se vi son donne, perché si rischia di strappare un abito di gran prezzo e di pigliarsi il nome di tanghero zoccolato; non si parli troppo ad alta voce, nè si zufoli o si canti, per non buscarsi il titolo di matto o di ubbricao; non essere troppo curiosi da cacciarsi nella folla per scoprir chi sa che ne’ tafferugli; fuggi i rumori, diceva spesso col poeta. Certe sere il padre conduceva la famiglia al caffè e nuova messe qui si presentava alle osservazioni di Enrichetto: ragazzi sdraiati poltronescamente sui divani. inzaccherando cogli stivaletti i sedili; una mano di giovinotti, schiamazzanti di politica scapigliata, senza badare a’ segni d’inquietudine che danno alcuni uomini più posati, che non possono leggere con attenzione la gazzetta; un altro che tiene eternamente in mano un giornale, che è aspettato dal vicino. A questo proposito il padre raccontava che ad una parete d’un gabinetto di lettura stava scritto: Le persone che imparano a compitare sono invitate a non prendere che i fogli di ieri; nuvole di fumo di zigaro da levar il respiro; ragazzi strepitanti che vogliono ora questo ora quello. Ammirava invece quelli che si comportavano con rispetto e con dignità, avendo riguardo di non incomodare nessuno; quelli che s’affrettavano di scorrere il giornale e concederlo tosto, quando sentivano esser ricercato; quelli che entrando od uscendo facevano col cappello cenno di saluto.

Pagina 39

Le belle maniere

180000
Francesca Fiorentina 1 occorrenze
  • 1918
  • Libreria editrice internazionale
  • Torino
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Non ci mancherebbe altro che la madre fosse obbligata ad abbandonare quattro volte il giorno le sue faccende per accompagnare alla scuola o riprendere la sua figliola! O che la domestica - se c'è - dovesse lasciar tutto il lavoro nelle mani della padrona per mettersi a fianco della padroncina! Oppure, se la mamma non può assentarsi da casa nella stess'ora che la figliola, questa non potesse andare a messa, la festa! Non fareste però bella figura, mie care, lasciandovi vedere tuttè sole a un pubblico passeggio, o fuori di porta, e neppure - è inutile dirlo - in piazza ad ascoltare la musica, o ne' giardini più frequentati della città. Anche uscendo per uno scopo prefisso, mi piacerebbe che non vi confondeste nel guazzabuglio delle vie più popolate, ma vorrei che prendeste le scorciatoie per ritrovarvi al luogo a cui siete dirette. Camminando, non voltate in qua e in là la faccia, e, soprattutto indietro a guardare le persone già passate; non fissate quelle con cui v'imbattete, nè squadrate curiosamente le toelette delle signore come se fossero mannequins; o, peggio ancora, non dimostrate, coll'insistente fissare, d'accorgervi della deformità d'un infelice. Non c'è bisogno che stiate impettiti come tacchini, ma nemmeno che vi lasciate andar giù come cenci; nè occorre tener le braccia in modo che sembrino stecchi diritti o, al contrario, nastri svolazzanti. Del resto un pacchettino o, se non altro, la borsetta aiuteranno a dare un contegno alle appendici superiori del corpo. Anche l'estremità inferiori richiedono riguardo e moderazione: il passo è sempre meglio corto e affrettato, che lungo e sgangherato. La giovinetta non deve aver mai l'aria d'andare a zonzo, di bighellonare:ma la sua andatura, se è strascicata, può farlo credere. Neppure, se non volete farvi dare delle curiose, e peggio, vi fermerete a guardare un ubriaco che traballa, un cavallo che scappa, due donne che litigano, un uomo fra le guardie; l'educazione e la prudenza vi consigliano di seguitar la vostra strada come se nulla fosse. E', invece, doveroso tirar via un bimbo dal pericolo, aiutare un vecchio che incespica, a un altro raccattare il bastone, lasciar posto a una persona d'età o vestita di lutto, anche se umile, a un disgraziato, a una donna che porti un carico o tenga in braccio un bambino. Sono pietose eccezioni alla regola:come quella di voltarsi, e prontamente, se un urlo ci avverte del rischio d'una persona o se un'automobile ci strombazza improvvisamente alle spalle. Prima la pelle nostra e degli altri, poi. . . la creanza. Fate a meno, quando siete sole, di fermarvi davanti alle vetrine:ce ne sono delle belle, non c'è che dire, delle attraenti, che mani esperte hanno aggiustate con gusto e furbizia; ma spesso le cose belle ingannano, e le ingannate sareste voi, se vi lasciate tentare. Di quanti gingilli, che non vi bisognano, sentite il desiderio! Quante spesette non necessarie derivano da quelle fermatine imprudenti! Date un'occhiata fuggitiva, e scappate via dalle tentazioni: è tanto di guadagnato per voi e per il vostro contegno. Se vi passa vicino una signora di vostra conoscenza, salutate voi per le prime; rispondete garbate, senza sciocche ostentazioni di pudicizia, al signore o al giovine dabbene che vi fa di cappello; nè crediate d'umiliare la vostra femminilità chinando la testa al vostro professore, anche senz'aspettarne il saluto:la riconoscenza che gli dovete sposta la relazione che comunemente esiste fra signore e signorina. E non vi vergognate a salutare con affabilità una persona povera, vestita male; voi non ci perderete nulla, e otterrete anzi un granello d'affetto di più. Se incontrate un'amica intima, non v'abbandonate a espansioni sentimentali, nè vi perdete in lunghe conversazioni, sostando nella strada come le comari. In compagnia con altre giovinette credete quasi lecito il lasciarvi andare a una maggior libertà di contegno; e, comunicandovi l'argento vivo l'una con l'altra, parlate ad alta voce, sghignazzate sguaiatamente, gestite come burattini, e, quel ch'è peggio, vi sciacquate la bocca sul conto di questo e di quello. Se sapeste che mormorio di disapprovazione si risveglia dietro di voi! Se siete con la mamma, o con altra persona a voi superiore, usatele rispetto, dandole la destra o il posto migliore, contro il muro o sul selciato, portatele i pacchi, entrate dopo di lei in un negozio, porgetele la mano nel salire sul tranvai, e scendete prime per aiutare nuovamente. Se vi càpita d'uscire con la domestica, guardatevi bene dal tenerla quattro o cinque passi indietro, come un cane; statele a fianco e, pur senza giungere a un'eccessiva intimità, rivolgetele la parola, come a una creatura umana. Ricordatevi che molti sguardi, e non sempre tutti benevoli, possono posarsi su voi; comportatevi dunque per la strada in modo da ottenere l'approvazione del giudice più severo, ma prima di tutto della vostra coscienza.

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L'angelo in famiglia

182201
Albini Crosta Maddalena 5 occorrenze
  • 1883
  • P. Clerc, Librajo Editore
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
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Ma, non ti abbandonare soverchiamente al tripudio, poichè se puoi e devi fidarti degli ottimi tuoi parenti, non puoi nè devi fidarti troppo spesso di te, poichè tu ed io siamo facili a commettere molti spropositi, ad inciampare e cadere... Ma no, che nè tu, nè io cadremo, se non ci fideremo punto punto di noi, e baderemo sempre dove poggiamo il piede. Oh! cara mia giovinetta, io non voglio serrarti il cuore, non voglio vedere mesto quel viso che sta sì bene sorridente e gajo come la primavera che tu rappresenti, e che è la tua immagine; no, non voglio soffocare le effusioni gioconde dell'animo tuo. Di' pure, oh! che gioja! e goditi i doni di Dio. Ma, per carità, per ben tuo, te ne prego, sta in guardia, bene in guardia, perchè la tua gioja sia duratura, e non si muti in dolore in... Tu lo sai, lo devi sapere, il mondo non è buono, ma forse neppur tanto cattivo quanto lo dipingono alcuni veristi, i quali per una delle innumerevoli incongruenze alle quali vanno soggetti, o te ne fanno un paradiso o addirittura un inferno. Però, credilo, figliuola mia, il mondo è pur abbastanza cattivo, e dirò meglio, insidioso per te: dopo d'averti festeggiata appena t'ha veduta in mezzo a lui, e d'aver lodato tutte le tue qualità, anche le meno lodevoli, cercherà di toglierti dal tuo cantuccio, di levarti la vernice di collegiale, di farti spigliata, di farti insomma tutt'un'altra da quella che sei, da quello che vuoi, e che devi essere. Poverina! tu fanciulla ancora inesperta, tal fiata ti vergognerai perfino della tua modestia e delle tue migliori qualità, e ti sforzerai di ostentare un brio, una galanteria di cui prima non conoscevi che il nome. Per pietà, amica carissima, per pietà, non fare questo passo falso, o se sventuratamente lo hai fatto, ritirati prontamente, se non vuoi legare il tuo cuore vergine e libero al primo anello di quella catena, che, sotto il nome bugiardo di emancipazione, non è altro invece se non schiavitù e schiavitù abbominevole. Ascoltami, o anima sorella, perchè creata dallo stesso Iddio Padre, dallo stesso Gesù redenta, dallo stesso Spirito Santo illuminata; ascoltami, o cara; io non ti parlo per piacerti, o per dilettarti, io ti parlo solo per farti del bene, per rendere tranquilla e buona la tua vita, la tua morte, la tua eternità, e, lascia che tel ripeta, anche perchè serena ti scorra l'esistenza, e inalterata sia la tua pace. Io, prima di scrivere queste pagine, ho piegato le ginocchia davanti all'Immacolata, le ho chiesto d'inspirarmi quello che debbo dire a te per toglierti ai travagli delle passioni, per ajutarti a combattere e vincere la guerra terribile che il mondo, il demonio e la carne ti faranno, e la Madonna mi ascolterà. Non credere, sai, a quei cotali che ti van ripetendo che i libri di pietà ti renderanno uggiosa, melanconica, egoista: Oh! non creder loro; essi o sono ingannati, o sono ingannatori. Gli è appunto per recare al tuo labbro quel sorriso che tanto ti stupisce sul labbro di quell'anima afflitta, travagliata, ch'io ti parlo come faccio, e cerco di riverberare, sulla tua mente e sul tuo cuore la luce soave e smagliante del Vangelo. Allorchè io mi sento l'animo oppresso, mi reco appiè dell'altare, poi, sai dove vado? vado a ritemprare l'animo mio a fianco di una vecchia inferma che, caduta da condizione civile in bassa fortuna, conserva tra gli stenti e gli acciacchi de' suoi ottantotto anni un'inalterabile serenità. Essa ha trovato il segreto di tutto sopportare non solo coraggiosamente, ma allegramente, e da lei emana come un effluvio di pace che non può a meno di comunicarsi a tutti quanti la circondano. Allorchè esco da quell'umile cameretta mi trovo assai rincorata, ma vergognosa però d'essere tanto da meno di colei che mi ha sovranamente edificata. Sì, credilo, te lo dico in nome di Dio; io desidero vivamente di farti lieta e contenta; e per far ciò debbo metterti sull'avviso, affinchè quel brutto mondo, dal quale sei circondata, non ti prenda di sorpresa, non ti allucini co' suoi falsi splendori e ti rapisca quella cara serenità che ora allieta il vergine tuo cuore. Anche la mia cara inferma è vergine ancora, e pura è stata tutta la sua lunga vita: basta solo vederla per leggerglielo in fronte, in quegli occhi limpidi, in tutta la sua persona. Tempera adesso, mia cara, la foga della tua gioja, e non abusare di quel tanto di libertà che il tuo ritorno alla casa ti ha accordato, per non dover poi pentirtene più tardi. No, no, non abbandonarti soverchiamente alla gioja, se vuoi stare sollevata anche nei giorni tristi, se vuoi tenere un po' d'equilibrio. Sta tanto bene l'uguaglianza di umore, di carattere, che per acquistarla o mantenerla non è soverchio, nè ti deve parer grave alcun sagrificio. Tante e tante sono le cose che vorrei dirti e che mi fanno ressa alla mente, che non so veramente per ora a quale appigliarmi. Temo tu mi sfugga, temo di pesarti troppo addosso, ed io vorrei che la parola mia ti suonasse cara come quella di tua madre, dolce come quella della più cara amica della tua infanzia. Ebbene, non voglio affollarti la testa con troppe considerazioni serie; mi basta per oggi ripeterti di stare in guardia con te stessa, cogli altri, con tutto e con tutti, se non vuoi essere presa incautamente a qualche laccio. Ogni giorno io tornerò probabilmente su questo soggetto, e tu mi ascolterai sempre, n'è vero? Oh! quanto desidero che tu sii felice! ma per essere felice bisogna essere buona, dolce, pia, caritatevole, tollerante, anzi più, indulgente; bisogna insomma che tu sii veramente virtuosa e santa. Io pregherò sempre con gran cuore il buon Dio di renderti tale, e forse in fondo in fondo ci ho anche un po' d'egoismo; mi lusingo che quando la mia parola ajutata, anzi inspirata da Dio stesso, avrà cooperato a renderti virtuosa, allora tu pure pregherai per me, affinchè io divenga un po' buona; e mi dimentichi una volta di me medesima, per non ricordarmi che degli altri.

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Ma non ti lagnare, figliuola, non ti abbandonare allo scoramento, e se jeri io ti diceva di frenare gl'impeti di una gioja eccessiva, oggi ti ripeto di frenare quelli di un irragionevole dolore. Mi pare d'avertelo già detto, e dovrò replicartelo spesso: nella vita molti sono i contrasti, scarse e numerate le gioje; ma tu, se saprai vivere del Vangelo, potrai menare una vita tranquilla e contenta. Ho detto se saprai vivere del Vangelo, poichè tu sai bene essere ben altra cosa il credere senza l'operare, dall'operare appunto come e perchè si crede. Nel leggere i Promessi Sposi, mi ha sempre fatto impressione quel passo in cui l'autore, parlando dell'educazione impartita alla Signora di Monza, dice di essa:Privata così della sua essenza, non era più la religione, ma una larva come l'altre. Difatti non è che un simulacro di religione quella pietà che non ci fa entrare nello spirito della religione istessa, ma ci fa tenere soltanto attaccati alle pratiche esteriori. Non credere ch'io ti voglia distornare dalle pratiche religiose. Dio me ne guardi, anzi spero e desidero parlartene presto e diffusamente; voglio dire soltanto che le pratiche debbono essere non causa, ma effetto delle nostre credenze; giusto come quando tu baci la tua mamma con grandissimo affetto, sarebbe stolto chi credesse che l'affetto consistesse nel bacio, mentre il bacio non è se non un'emanazione ed un'esplicazione dell'amore grandissimo che tu le porti. Infatti l'amore per la tua mamma sta vivo ed ardente anche quando non te la puoi stringere al seno, anche allorchè sei forzata a vivere lontana da lei. Dunque tu devi essere, e se già non lo sei, devi diventare profondamente religiosa, senza timore di diventar troppo pia. Io credo che se anche tu il volessi, troppo religiosa non ci sarebbe pericolo tu diventassi e nemmanco io, e nessuno di coloro obbligati a respirare come noi l'aria del dubbio che cerca filtrarsi dovunque. Poi non si può essere troppo religiosi, come non si può essere troppo santi. E lì torniamo sempre alla medesima ragione che già ti ho accennato. Il mondo taccia di eccesso di religiosità coloro che non avendone lo spirito, eccedono, e lasciamelo dire, ostentano anche un po' quelle pratiche, le quali dovrebbero sempre essere regolate da un giusto e cristiano criterio. Come il bacio che tu dai alla mamma, benchè sia una bella cosa, non è sempre opportuno, e tu mancheresti allorchè essa avendo bisogno del tuo ajuto o di un servigio, te ne stessi lì oziosa ad abbracciarla; così la vera cristiana sa e deve alle volte lasciare Dio per Iddio; rinunciare alla propria volontà; anticipare l'ora del levarsi e rinunziare fors'anche non solo ai divertimenti ed ai passeggi, ma ancora a qualche pratica non obbligatoria di religione, quando la necessità e la carità la chiamano al letto di un infermo, o in soccorso di un tribolato. Per oggi lasciamo lì a mezzo questo discorso, che avremo occasione di ritornarci, poichè è molto, ma molto importante. Tu continui ad esclamare:Povera me, che faccio? ed io continuo a dirti:leva in alto il tuo cuore, non ti abbandonare allo scoramento, poichè dopo il peccato io non conosco male peggiore di quello. Lo scoraggiamento è appunto cattivissimo per mille ragioni; credo 3 però lo sia primieramente perchè esso si presenta sotto forma d'umiltà; mentre il maligno è invece figlio e figlio non degenere della superbia. Noi temiamo di non tenerci all'altezza dei tempi o della società, e ci scoraggiamo: vedi, gli è proprio perchè temiamo di non ottenere un certo primato che, come suol dirsi, ci buttiamo a terra. Lo scoraggiamento, figlio della superbia, è fratello dell'accidia, e ci suona all'orecchio che tanto tanto per noi possiamo giacercene inerti, poichè non facciamo ugualmente nulla di bene. Lo scoraggiamento, figlio e fratello della superbia e dell'accidia, diventa padre a sua volta, e, per carità, non mi domandare di quali e quanti brutti figli sia fecondo! Io credo che la maggior parte dei malfattori e dei cattivi soggetti che contaminano la società, abbiano incominciato dallo scoraggiarsi; hanno detto a sè stessi: io per me non riesco certo a bene, e si sono dati al male, passo passo, od a salti, o slanciandosi una volta per sempre... ma poco su poco giù è questa la storia di tutti i tristi. Dunque tu, figliuola amatissima, ravviva la tua fisionomia rattristata, ritorna il sorriso sulle tue labbra e la giocondità nel tuo cuore. Ti sta tanto bene su quel giovane viso l'allegria che, malinconica, ti si riconosce appena, non sei più quella. Oh! sorridi; tutto quanto ti fa dire con un sospirone povera me! non è forse altro se non un'immaginazione della tua vivace fantasia, un'esagerazione che fai a te stessa di quei vincoli, di quei pericoli che tu puoi scongiurare se il vuoi. Oh! tu la conosci la ricetta, tu la conosci; pure io te la voglio ricordare perchè ti voglio bene, perchè ti voglio sana; ma sana non di corpo soltanto, ma altresì di anima. La ricetta è sempre, sempre il buon Gesù e la sua legge d'amore. Ma questo Gesù in forma umana è vissuto una sol volta sulla terra; noi non abbiamo il benefizio di sentire la sua parola viva, di ascoltare i suoi dolci ammaestramenti; ma non è con noi nel Sacramento? Non ci resta il Vangelo? Oh! il Vangelo è l'acqua che lava ogni lordura; è il balsamo che sana ogni piaga; è l'alito che vivifica, che ricrea, che rinnova. Il buon Dio mi ha chiamata all'alto ministero di spiegarti la sua parola di amore, d'insegnarti come devi diportarti nella famiglia e nella società; ed io nella confusione che Iddio abbia voluto scegliere un mezzo cotanto basso per un fine sì alto, mi piego all'ubbidienza, lascio libero sfogo alla sollecitudine grandissima che mi desta nel cuore l'età delle speranze, che è appunto la tua, e ti parlo. Nei tuoi sfoghi tu hai detto lagnandoti quasi,che faccio? Io te lo dirò, mia cara, o piuttosto non io te lo dirò, ma tel dirà al cuore col mio mezzo la cara Mamma nostra Maria, quella Vergine benedetta che ci ama tanto e che io prego m'inspiri tutto quanto può e deve riuscire utile alle anime delle care giovinette. Sì, in voi è la speranza della famiglia, della società, della patria, in voi, fanciulle, che avete lunghi anni a voi davanti, e dovete e potete recare al mondo l'esempio, il conforto, l'appoggio che solo può dare la vera virtù. Che faccio? Domani, mia cara, ti risponderò: oggi rialza l'animo tuo abbattuto, rianima il tuo cuore; abbandonati nelle braccia della Provvidenza, di quella Provvidenza che ci è madre amorosa, e vivi sicura: tu sarai piùforte che oste schierata in campo contro i nemici della tua salute.

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Se tu poi hai condannato te stessa a restar priva di uno sposo, di una famiglia, di tutto ciò insomma cui ti sentivi inclinata, soltanto per provvedere ai bisogni di una famiglia della quale fatalmente ti trovasti a capo quand'era il tempo di pensare al tuo avvenire; se non avesti la debolezza di abbandonare l'aratro e voltarti indietro per pensare a te stessa, ma coraggiosamente posponesti i tuoi interessi ed i tuoi voti più giusti e più sacri per pensare agli altrui,leva in alto il tuo cuore! Tu hai servito un padrone che è buon pagatore; quel padrone ti darà il centuplo di quanto hai fatto per lui e pel prossimo tuo, e l'appellativo di zitellona suona per te quello di cara eletta da Dio, di vera eroina della carità. A te più che ad ogni altra spetta il soave incarico di essere l'angelo di chi ti possiede, ti avvicina; pure cosa vuol dire che ciò ti costa tanta fatica, che incespichi ad ogni piè sospinto, che minacci cadere? Lo so, la vita, una simile vita ben sovente ti pesa; usa a dirigere ed a governare una famiglia che sotto le tue mani camminava colla massima regolarità, colla migliore riuscita e colla più invidiabile armonia, ti è forza oggidì sottostare ai capricci d'una cognata buona o cattiva non importa, ma spesso bisbetica, intollerante, gelosa del potere, della stima, della tua stessa virtù. Io ti ho vista cogli occhi umidi, io ti ho sentita abbandonata e stretta al mio seno sfogare in esso la piena del tuo, dirmi che è pesante il tuo giogo, umiliante, difficile: io ti ho baciata in fronte, ti ho stretta la mano, ti ho susurrato all'orecchio: Coraggio, coraggio, e ti ho additato il cielo; ma ora ho meditato sul tuo dolore, sulla tua condizione, e mi pare di poterti dire qualche parola di più, di poterti dare perfino qualche consiglio. Lascia alla cognata od alla madre sua il maneggio della casa; la sposa ha il diritto ove non vi sia la suocera, di essere la padrona; tu hai quello più prezioso di essere premiata da Dio dei tuoi sacrificj; ma per ottenere il tuo premio, sei tenuta a rinunciare coraggiosamente adesso a quanto va unito allo stato conjugale al quale tu hai eroicamente rinunciato. Talvolta vedi camminare le cose a rovescio? Ove non t'inganni od esageri, il che pur avviene sovente, fa di volgerle a meglio se le son cose di qualche rilievo, e lascia andar l'acqua per la sua china se si tratta di cose indifferenti o senza importanza, ovvero di cose che direttamente non ti appartengono. Se nella cognata, nelle cognate, o negli altri di casa avverti qualche grave mancanza o difetto o peccato, colla penetrazione e colla dolcezza d'un angelo, non mai coll'asprezza e col comando, correggi e consiglia; ma guardati bene dal parlare mai collo sposo o colla sposa delle colpe del compagno, tranne il caso che il tuo Confessore tel comandi. Lo vedo, il tuo stato visto coll'occhio materiale è tutt'altro che invidiabile; ma se tu lo circonderai di annegazione, di amore, di operosità, non anderà molto e ti sarà resa giustizia, se non apertamente, almeno nel cuore dei parenti e degli amici. Ho sentito dire più fiate: se non fosse lei, poveretta, mia cognata o mia zia, che pensa a tutto, che ha occhio e cuore ad ogni cosa, io sarei disperata; essa è un angelo, Iddio l'ha conservata a benedizione della mia casa e dei miei figli. - Coraggio, amica, se per colpa tua o altrui, o per colpa delle circostanze, od in causa della generosità e tenerezza dell'animo tuo, ti trovi di aver passato il meriggio senza aver provveduto a crearti una famiglia, un avvenire, fa di essere angelo nella famiglia che ti alberga, angelo di pace e di conforto. Se tu invece hai rinunciato a crearti una famiglia in casa tua, od a trovarne una nel chiostro, per solo amore di serbar puro il tuo giglio in mezzo alle lotte del secolo, per combatterne gli errori a forza di virtù e di buon esempio, io m'inchino a te dinanzi e ti addito il cielo dove ti è serbato un premio ineffabile. Ma sulla terra anche gli angeli non sono creduti o sono contristati; a te pure potrà toccare in parte l'amarezza: ma Iddio, se tu operi per Lui solo, volgerà quell'amarezza in gaudio inenarrabile, e facendo brillare sul tuo seno il giglio della verginità, ti porrà in capo le rose dell'amor santo, di un amore che sarà coronato e premiato in eterno, e ti compenserà largamente dei dolori patiti.

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Che se il premio quaggiù ti viene negato, non ti abbandonare, amica, ad una funesta disperazione; essa anzichè scemare il tuo strazio lo renderebbe più acuto ed insopportabile. Vedi là su quell'altare l'immagine della Madre nostra trafitta non da una, ma da sette acutissime spade? E perchè Iddio ha addolorato cotanto la più sublime creatura che abbia mai calpestato questo misero mondo?... Perchè Ei le voleva accordare non in terra, ma in cielo, un premio, una gloria che tutte quelle sorpassa degli altri beati; perchè Ei voleva mostrare a noi, che battiamo con passo vacillante ed incerto la via che ci segna la fede, essere quaggiù tempo di prova, non di premio, nè di gaudio. Levate al cielo i vostri cuori, dice il ministro di Dio nel Santo Sacrificio. Levate al cielo i vostri cuori, ci dice la fede; levate a Dio i vostri cuori, ci ripete la ragione, se un insano errore non la devia. A Dio il nostro cuore, ed impareremo a tutto accettare da Lui ed a pronunciare con verità quella parola:La vostra volontà si compia e non la mia.

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Non mi farebbe alcuna meraviglia se nelle attuali disposizioni dell'animo tuo, con uno di quegli slanci proprj delle tempre giovanili e sensibili, tu stabilissi risolutamente di fuggire per sempre quei ritrovi nei quali puoi incontrare una pietra d'inciampo; e sono convinta che se per poco venisse favorito il tuo proposito, ti crederesti chiamata ad abbandonare la simpatica tua cameretta per una povera cella, il tuo elegante abitino per un rozzo sajo, il mondo pel chiostro. Io lodo altamente, ed invidio quelle anime avventurate le quali sono chiamate da Dio al suo stretto servizio, e ricevono da Lui la forza di tutto abbandonare, casa, averi, parenti, comodi, volontà propria, tutto insomma, per abbracciare la santa povertà e custodire la verginale purezza ad imitazion sua e della sua Santissima Madre. Ma, ti confesso, a quelle risoluzioni subitanee che nascono da una lettura, da una predica, meno ancora poi da un disinganno o da un capriccio, io credo un po' pochino, e vorrei proprio fossero poste in quarantena, sottoposte al maturo giudizio di un savio e prudente confessore, il quale, avendone ricevuto dall' alto il mandato, ha insieme ricevuto i lumi per giudicare se sia oro o lustrino, gemma o vetro, quel luccicore che si presenta sì promettente. Io qui non entro in consigli particolari, poichè il mio scopo diretto è quello di guidare ed accompagnare nella famiglia e nella società la damigella cattolica che vi si sente chiamata, e che desiderosa di seguire il bene sente il bisogno di un'amica, di una maggiore sorella che le comunichi il frutto della propria esperienza ed i lumi ricevuti dal Signore. Ora io suppongo nella mia lettrice il caso più comune, quello cioè che il confessore le dica essere molto dubbia la sua vocazione, o che essa stessa si accorga non essere la sua se non un fuoco di paglia, ed ancora un giuoco dell'immaginazione. Se la tua vocazione sarà vera, e tu vivrai in modo da non demeritarti i doni superni, essa ben lungi dal venir soffocata, tornerà a galla, e tu potrai dar corpo a quella che ora ti si presenta come una nebulosa, lontana ed incerta. Ma intanto, per chi non è decisamente e subito chiamata a monacarsi, sta il debito e il dovere di vivere in famiglia ed in società adempiendone fedelmente gli obblighi, non tanto per parere, quanto per esserne veramente l'angelo dell'ajuto, del buon esempio, del conforto. Qui sta un punto difficilissimo a definire, poichè varia pressochè all'infinito, e subisce cioè i mutamenti e le modificazioni tutte che le imprimono le condizioni speciali degl'individui e delle famiglie; ma per chi, sinceramente volonteroso del bene, unicamente lo cerca, non mancherà il direttore sagace di rappresentare in terra la Provvidenza celeste collo snebbiare ogni dubbio, porre in luce il vero, additare la via sicura. Che se per un impossibile il direttore errasse nel suo giudizio, non erra già chi fedelmente lo segue, poichè il Signore sa volgere in bene lo stesso male, e premiare contro speranza chi fedelmente ubbidisce ed ascolta la parola dei suoi Ministri in quanto è del loro ministero. Ma tu vuoi alcunchè di dettagliato da me; tu pretendi che io trascinata al bivio fra due opposti sentieri, alla tua domanda questo o quello, ti risponda decisamente e senza ambiguità come ho fatto sempre; è difficile e penoso quanto tu esigi da me; ma coll'ajuto della Madre del buon consiglio vedrò di dirti una parola sana, cristiana, efficace, capace a guidarti ed a consolarti. Non credo che molto frequentemente sia lasciata a te liberissima la scelta fra i due sentieri, quello della ritiratezza nel seno della famiglia, e quello di una vita sbattuta e battagliera in mezzo alla società; ma se ti credessi padrona di scegliere, tranne alcuni casi specialissimi, e piuttosto unici che rari, non esiterei a consigliarti ed inculcarti la vita ritirata, e ti porrei innanzi tanti e poi tanti quadri di felicità e di santità nascosti, ma viventi nel segreto delle domestiche pareti, che certo tu acquisteresti coraggio di rinunziare a tutti gli adescamenti, a tutte le lusinghe che una società frivola e leggiera ti vien esponendo allo sguardo. Ma... pur troppo, tu finchè sei figlia di famiglia, sei condannata ad una vita pressochè passiva. Che ho detto, pur troppo? Anzi gli è pel tuo meglio che il buon Dio ti toglie la responsabilità della scelta fino al tempo in cui dotata di maggiore serietà ed esperienza potrai a tua volta sceglierti la parte migliore, vo' dire una vita intima, ritirata, tranquilla, i di cui godimenti hanno minor apparenza, ma maggiore sostanza, ed in cui la lotta tra il volere ed il dovere è meno ardita e gagliarda. Intanto vivi soggetta ai tuoi maggiori, e fa di regolarti in modo che negli anni avvenire la memoria della tua giovinezza ti ricorra scevra da pene, da rimorsi, e tu ne possa con dolcezza ricordare un giorno ai figli ed ai nipoti le gesta innocenti. Se tu fai parte di una famiglia abituata alle visite, ai ricevimenti, alle adunanze, alle feste, me ne duole per te, amica buona, perchè prevedo che la tua virtù sarà contrastata, e se non ha profonde radici in una pietà soda e sincera, a somiglianza del grano della parabola evangelica, seminato sui sassi, seccherà e non darà frutto. Una parola io ti posso dire con sicurezza, una preghiera ho in cuore di farti, ed è questa; che tu sfugga tutte quelle adunanze e quei ritrovi ai quali non sei obbligata, poichè in essi potrebbe mancarti quell'ajuto che Dio non ti lascerà invece mancare in quelli ai quali ti trovi forzata di prender parte. Stabilito il principio che tu devi obbedire i tuoi, seguendoli in mezzo alla società quando essi vi ti conducono, resta a vedere come tu abbi ivi a regolarti, ed è appena necessario notare che mai e poi mai ti è lecito recarti, specialmente ad una festa, senza tua madre od una maggiore sorella maritata; senza insomma una dama di una certa età, poichè il padre od i fratelli non bastano a formare quella siepe di cui è necessario circondare una giovane esistenza. Secondo il tuo stato, la tua età e le tue finanze, ti è lecito un abbigliamento non solo decente, ma discretamente elegante, ed in relazione con quello delle tue coetanee, contenta di stare un gradino sotto per non essere e parere vana ed orgogliosa; ma sotto verun pretesto non ti è lecito mai tradire le leggi della modestia e del pudore, poichè non solo verresti posta in canzone e disistimata dalla stessa gioventù mascolina cui credevi di piacere: ma ben più tradiresti le leggi della tua religione, della virtù; diventeresti forse oggetto di scandalo, e ti caricheresti il cuore di un rimorso. Nè la modestia deve figurar solo nelle tue vestimenta; ma altresì nel tuo contegno timido e riguardoso, nei tuoi tratti, nelle tue parole; e se qualche impudente, uomo o donna non monta, se qualche impudente tocca qualche discorso o fa qualche gesto che leda menomamente il tuo delicato e cristiano sentire, salta a piè pari l'argomento, parla di altro, o con altri; che se l'impudente non desiste dal suo insidioso procedere, e tu non hai il coraggio d'imporgli silenzio nel timore non ne nasca uno scandalo od una pubblicità, levati di botto, corri in cerca della mamma o del babbo, o recati in un altro crocchio, in un'altra sala; credilo, non te ne mancheranno i pretesti, se con pia industria cercherai in tuo soccorso. Non differente dev' essere il tuo procedere coi detrattori, con quelli cioè che mormorano del prossimo, o lo calunniano, o ne giudicano temerariamente; tu, come angelo della famiglia e della società, devi essere la difesa dei deboli e degli assenti, te l'ho già detto nella Prima Parte di questo mio lavoro; ma se condizioni di luogo, di tempo, o di età non te ne danno il diritto, ritirati, e mostra chiaramente che vuoi serbarti innocente da tale lordura. Con coloro i quali ti adulano o t'incensano, tu ben sai come devi regolarti; ora, io credo, ci resta a ragionare soltanto delle chiacchiere vuote ed inutili che ti si faranno d'attorno, e delle quali tu non devi entrar complice, per non diventare chiacchierina ed essere e parere frivola e cinguettiera. Qui ho un consiglio di peso, d'oro massiccio anzi, un consiglio indispensabile a darti, ed 43 è questo; di volgere sempre a serio i discorsi leggieri soliti a tenersi tra fanciulle, rispondendo in fretta, e vorrei dira di fuga, a quelle prolusioni nojosissime che esse hanno l'abitudine di sfoggiare sulla moda, sull' incostanza o sulla durezza della stagione, o peggio ancora sui difetti altrui. Se tu saprai cavar profitto dello spirito che il Signore ti ha donato, ne avrai sempre abbastanza per piegare il discorso dalle schiocche mode ai costumi ed alle usanze dei diversi popoli; dai difetti altrui, ai meriti che sono da essi adombrati o velati; dall'incostanza o durezza della stagione alla compassione che ti fanno i poveri sprovvisti di tutto, ed alla necessità di porger loro ajuto e soccorso colla mano e col cuore. Se tu farai in questo modo, benchè abbigliata un grado meno delle altre, benchè acconciata senza civetteria, benchè timida e forse pure di minor spirito e coltura delle tue compagne, ne diventerai non l'idolo (ciò è illusorio) ma il modello e l'anima; e su te ridonderà gran parte del bene che sarà fatto dietro il tuo esempio, e largo premio n'avrai dal Signore. Nelle adunanze sono compresi i balli, i teatri, i pranzi, le comparse, e se il Signore m'inspirerà quello che sarà pel tuo bene, ti dirò qualche cosa partitamente anche su di essi. Ma, tel ripeto, nè mi stancherò dal ripetertelo; se ti è dato vivere modestamente e lontana da questi ritrovi, oh! fuggili senza indugio, e senza dolore, nè ti lasciar tentare mai da un desiderio insano, da un insano timore, poichè la quiete di una vita intima non turbata da rumori profani, siine certa, procura gioje incomparabilmente maggiori a quei piaceri convulsi, febbrili, che ti potrebbero venire dalle riunioni mondane, dove il pudore, la carità, e sovrattutto l'umiltà, sono esposti ai maggiori pericoli. Se a te è lasciata la scelta fra i due sentieri, quello della casa e quello della società, non ti appigliare a questo ma a quello, te lo ripeto, te lo ripeterò senza posa; non già coll'intendimento di rendere monotona o grave la tua esistenza, ma per rendere il suo corso limpido, dolce e specchiato come l'onda del ruscello che, scesa da eccelsa montagna, scorre gorgogliando placidamente, e lambendo i fiori che costeggiano la riva verdeggiante, fino al flume, per gettarsi con esso nel mare, senza aver punto toccato la città: nella città avrebbe potuto conservare la sua purezza e la sua pace? Questo o quello, tu mi domandi di nuovo? Ama la ritiratezza, la casa; come il ruscello guardati dal mescolare le tue acque con quelle degl'immondi pantani, affinchè dopo un viaggio che ti auguro lunghissimo, tu le possa confondere con quelle del fiume reale, per gettarsi con esse nel mare... La morte sarà per te in allora una rapida e fortunata corrente che ti unirà alla sorgente d'ogni bene; sì, ti unirà a Dio, poichè per una lunga e faticosa carriera l'onda del tuo ruscello avrà saputo serbarsi incontaminata, pura, e sulle sue sponde non avrà fiorito il vizio, ma l'amor santo di Dio e del prossimo suo. Ama la ritiratezza, la casa, la preghiera, e ti sarà facile e spontanea la virtù, anche a costo dei più lunghi e penosi sacrificj.

Pagina 665

Come devo comportarmi. Le buone usanze

185282
Lydia (Diana di Santafiora) 1 occorrenze
  • 1923
  • Tip. Adriano Salani
  • Firenze
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Sicchè, o babbi e mamme che leggete queste pagine, ascoltate il mio consiglio: non fate castelli in aria, non pigliate decisioni che poi, novantanove su cento, sarete costretti ad abbandonare. Finchè i vostri figliuoli sono piccoli, abbiate cura soltanto che studino, che crescano buoni e onesti. La carriera se la sceglieranno poi, quando i venti anni saranno ormai vicini. Con questo non intendo dire che i ragazzi non comincino molto presto a discutere fra loro e coi genitori su quello che faranno da grandi; ma finchè l'età e l'intelligenza non sono mature, son tutti disegni senza importanza. Domandate a un bambino di dieci anni che cosa farà da grande, ed egli avrà subito la sua risposta pronta; domandateglielo quattro o cinque anni dopo, e la risposta sarà ugualmente pronta, ma diversa; con tutta probabilità sceglierà poi, a diciott'anni, una carriera che non sarà nè la prima nè la seconda. Nell'età fra l'infanzia e l'adolescenza, i ragazzi hanno una grande ammirazione per tutto ciò che fa effetto, che s'impone per dignità o per abilità. Di ritorno da una rivista, dichiareranno che da grandi saranno soldati; uscendo dal teatro, s'innamoreranno della professione di comico o di direttore d'orchestra. Due miei bambini, a nove e dieci anni giuravano che sarebbero divenuti un giorno l'uno cocchiere, l'altro carabiniere! A quindici anni, la naturale tendenza agli esercizi ginnastici e violenti, la lettura di libri di viaggi e d'avventure fanno inclinare i giovinetti verso carriere eroiche e pericolose: chi vuol farsi marinaro per andare al polo, chi esploratore per studiare le sorgenti del Nilo, chi poliziotto dilettante per arrestare i ladri e gli assassini.... Lasciateli dire e, finchè non è giunto il momento di discutere sul serio, non vi preoccupate delle loro idee fantastiche. Quei genitori che credono utile di discutere coi loro bambini su simili argomenti e di ricondurli alla ragione, sprecano il tempo e il fiato e mostrano di non conoscere la psicologia infantile. I ragazzi hanno bisogno di vagare con la mente fuori della realtà della vita, di crearsi un mondo a modo loro, senza limiti e senza inciampi. Togliete loro questa bella prerogativa e li renderete inquieti e tristi. Del resto, ogni vostro sforzo riuscirebbe vano: nessun ragionamento al mondo potrà convincere un bambino di dieci anni che la vita del cocchiere, con la frusta a con le briglie in mano dalla mattina alla sera, non sia la più bella di tutte; nè un ragazzo di quindici si piegherà ad ammettere che la carriera dell'impiegato, sempre chiuso in una stanza, sia da preferirsi a quella dell'esploratore, che s'aggira liberamente nelle foreste del centro dell'Affrica. Soltanto l'esperienza, e la realtà della vita, lo indurrà un giorno a più miti propositi. Quando il giovinetto sta per finire gli studi medi, quando da ragazzo è per diventare un giovinotto, allora, s'egli non ha ancor preso una decisione, è il caso d'intavolare con lui colloqui seri e gravi, di esaminarne le tendenze, di guidarlo e d'indirizzarlo. Nel consigliarlo sulla futura carriera, si deve tener conto, e indurlo a tener conto, delle condizioni della famiglia e, se esistono, delle difficoltà che si oppongono a studi lunghi e costosi. Se si tratta di un giovane diligente e studioso, d'ingegno pronto e vivace, ogni sacrifizio, anche grave, sarà giustificato per assicurargli un brillante avvenire; ma se l'ingegno non è troppo sveglio, se l'amore allo studio è meno che normale, si farà il bene della famiglia, e di lui stesso, persuadendolo a scegliere una carriera dignitosa ma modesta, adatta alla condizione e ai mezzi paterni. Nè si creda, con ciò, di sacrificarlo: meglio un buon impiegato che un cattivo medico o avvocato, così dal lato morale, come da quello materiale. Oggi, la spietata concorrenza in ogni ramo professionale elimina senza pietà tutti gli spostati. Di cento laureati in medicina o in legge, solo gli ottimi riescono a conquistare una posizione capace di dar loro fama e ricchezza; gli altri stentano la vita, scontentando se e il prossimo. Nella carriera degli impieghi invece c'è posto per molti, e chi non ha ingegno può facilmente supplire con la diligenza e la buona condotta. Soprattutto, non si creda che una carriera modesta sia poco dignitosa: ogni professione è onorevole, se esercitata con onore; e un onesto meccanico o un abile tipografo sono più degni di rispetto d'un medico ignorante o d'un avvocato senza coscienza. La moderna società soffre assai della tendenza dei genitori a dare ai loro figliuoli una posizione superiore alla propria; e se tale tendenza è scusabile, anzi, degna d'approvazione in certi casi eccezionali, quasi sempre serve soltanto a sparger nel mondo degli spostati.

Pagina 290

Il pollo non si mangia con le mani. Galateo moderno

189185
Pitigrilli (Dino Segre) 2 occorrenze
  • 1957
  • Milano
  • Casa Editrice Sonzogno
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Costoro hanno dimenticato che la parola è un mezzo, uno strumento, e che se eccezionalmente ci si può abbandonare all'inconcludente «bavardage», al mondano «marivaudage», e ammettiamolo pure, alla «stultiloquentia» deprecata dai classici romani, questa distensione igienica dello spirito va considerata come il fare «quattro passi» senza direzione e senza scopo, quando si vogliono sgranchire le gambe. Affinchè il parlare inconcludente non si trasformi in un abito mentale bisogna non contrarre l'abitudine di parlare da sé. E' un avvertimento che riservo in modo particolare alle donne. Da giovinette cominciano col canterellare, automatismo che accompagna i loro gesti: infilarsi le calze, pettinarsi, contemplare le stelle. Questa distensione a fondo musicale si trasforma presto in parole, in frasi, in ragionamento. La signora che dispone in un cassetto i suoi fazzoletti, dirà a se stessa: - Uno... due... e quello dall'orlo celeste, dove sarà andato? Ah, è qui. E tre. Mi manca quello con le iniziali. Dev'essere, dev'essere, dev'essere... Beh, salterà fuori. Il marito, dall'altra stanza, domanderà: - Che cos'hai detto? - Ah, niente! Oppure la signora sta cucendo: - Queste forbici non tagliano più. Bisognerà portarle all'arrotino. Per ora le metto qui, per non dimenticarmene. Il marito, sollevando gli occhi dal giornale: - Hai detto a me? - No no, caro. Oppure fa un'addizione, a mezza voce; - Cinque e sei undici, e due tredici, e quattro diciassette, e tre venti, zero e ne riporto due. - Hai parlato? - No, non ho nemmeno aperto bocca - risponderà la signora, in perfetta buona fede. E il marito si abituerà a questo ronzìo di parole non dirette a lui, di frasi inutili, di divagazioni accompagnate da un bisbìglio che diventerà un bisbiglìo, e che finirà per non udire più, come non si sente più, dopo qualche notte, il treno che fischia sotto le nostre finestre, il chioccolìo della fontana vicina, le ore battute dall'orologio. Per quanto sonoro sia il campanello della pendola ed energico il suo martello, quando vogliamo sapere che ora è dobbiamo andare a vedere il quadrante. Verrà il giorno in cui la moglie dice: - Io esco. Sul fornello c'è il lesso. Fra mezz'ora, spegni. - Sì, cara, ci penso io - risponderà il marito leggendo, o facendosi la barba, o pensando ai casi suoi. E quando la signora rientra, il lesso è trasformato in un pezzo di carbon fossile e le patate di contorno in altrettante meteoriti. Nel primo stadio dell'avventura matrimoniale tutto si concluderà con una risata, e si rimedierà con due ova o con la risorsa del restaurant. Ma negli stadi successivi la moglie dirà: - Quando parlo io, è come se miagolasse il gatto. Rispondo io per il marito: nossignora, quando il gatto miagola, qualche cosa ha da dire: vuole da mangiare, o chiede che gli si apra la porta per andare in giardino, o per altri scopi onesti o disonesti. Il cane, il gatto, il canarino non fanno mai sentire la loro voce senza una ragione, e il marito si infilerà la giacca per condurre nella strada il cane, o andrà in cucina a cercare una foglia di lattuga, o domanderà al gatto che cosa desidera. Il soliloquio della moglie lascia solchi monotoni nella coscienza del marito, e le parole importanti, quando arriveranno, continueranno a dare il medesimo suono, senza imprimere tracce. - Quando parlo io, e come se parlassi al deserto. E' raccomandabile abituarsi a pensare in silenzio. La fuga di un pensiero può essere fatale come una fuga di gas. I giudici di un «bailliage» francese nel 1768 condannarono al supplizio della ruota - essere rotto vivo a colpi di sbarra di ferro - un vecchio padre di famiglia di nome Martin, per una sua frase infelice, sfuggitagli dalle labbra. Su una strada di grande comunicazione era stato commesso un delitto: furto e assassinio per rapina: a pochi passi dalla casa dell'accusato si trovarono sulla sabbia impronte di scarpe che la polizia scientifica d'allora attribuì a lui. Un testimone al fatto dichiarò categoricamente «non è lui l'assassino». Ce n'era abbastanza per farlo assolvere per insufficienza di prove. Ma il vecchio innocente, per un'involontaria reazione, disse fra sé e sé: «Dio sia lodato! Ecco uno che non mi ha riconosciuto!» Voleva dire: «Ecco finalmente un galantuomo che ha la lealtà di mettersi contro i testimoni di accusa, e con una probità che contrasta con la faciloneria e l'incoscienza dei soliti testimoni, ha l'onestà di non riconoscermi!». La frase fu raccolta da uno dei tre giudici, che la interpretò in altro senso, come se avesse voluto dire: « io sono colpevole e non mi ha riconosciuto!» Quelle parole significavano il contrario. Il tribunale (che il Cielo ci liberi dagli psicologi togati e dagli psicologi in uniforme!) aderì alla sua tesi, e pronunciò la condanna a morte, che fu confermata dalla Corte d'Appello de la Tournelle. Due giorni dopo che l'innocente fu giustiziato, un criminale condannato alla stessa pena per un altro delitto dichiarò sullo stesso patibolo che il colpevole era stato lui. Piccolo contrattempo che, come al solito, non compromise la carriera dei tre signori del Tribunale e delle cinque Eccellenze della Corte, né tolse loro l'appetito, ma intanto un innocente per mancanza di self-control aveva lasciato sulla ruota le ossa e la vita.

Pagina 316

Dai primi è facile difendersi perchè si autodenunciano alla prima idea che manifestano; e poichè nella loro intelligenza insufficiente o male orientata c'è fatalmente una percentuale di malvagità, ci sentiamo autorizzati ad abbandonare la tattica di difesa passiva, per passare noi all'attacco e fargli capire che lui e noi parliamo due differenti linguaggi. Ma lo spiritoso si considera investito di una missione benefica. Offre «bons mots», distribuisce «calembours» come un fumatore bene educato porge il suo pacco di sigarette. E' un uomo che ha rinunciato al sacrosanto diritto di ragionare e di formarsi delle opinioni, perchè la sua costante preoccupazione è scoprire coincidenze di vocabolario, similitudini tra incidenti che non hanno relazione fra di loro, accogliere la frase del suo interlocutore come un pretesto per costruirci sopra un gioco di parole. Nulla di più innocente, in apparenza. Ma fastidioso. Questo soggetto patologico può divenire un pericolo: chiamato come arbitro in una questione, torcerà il collo alla logica e alla verità per il gusto di far uscire dal suo cappello di prestidigitatore il coniglio, e, testimone a una discussione in cui è in gioco un punto di vista, rovescierà colui che ha ragione, col far ridere l'uditorio per mezzo della più consumata (e perciò più apprezzata, dagli ignoranti e dai superficiali) fra le facezie del suo repertorio. Se l'uomo ostinatamente spiritoso è un nostro amico, non possiamo far assegnamento sulla sua amicizia, non possiamo sperare che ci risparmi, perchè passerebbe sul nostro cadavere, oltraggerebbe la nostra reputazione, ci causerebbe un danno patrimoniale per il piacere di continuare a essere colui che ormai è qualificato dall'opinione pubblica un signore che «non prende nulla sul serio». Un giorno però giunge anche per lui il giusto castigo. Si racconta di un tale che disse allo zio: - Come stai, zio? Lo zio, sapendo di aver a che fare con un nipote spiritosissimo, esitò un momento a rispondere e poi gli disse: Vuoi ripetere, per favore? Il nipote ripetè : - Come stai, zio? Lo zio si strinse nelle spalle, dandosi per vinto, e confessò: - Abbi pazienza, ma questa non l'ho capita. Un duello recente fra due giornalisti parigini cominciò con un «calembour» che l'altro non capì, o comprese a modo suo. Replicò con un altro «calembour» che, per un perverso gioco di coincidenze, non piacque al primo. Si spiegarono sul terreno. Duello alla pistola. Come tutti i duelli alla pistola doveva finire zero a zero, o al massimo, con la morte di un passero che curiosava da un albero o con un proiettile nel cappello a cilindro di uno dei testimoni. Questa volta il destino volle fare dello spirito anche lui, e tutti e due gli avversari risultarono feriti. Ma il peggior castigo dello spiritosissimo a ogni costo, gli tocca quando va all'estero. Al di là della frontiera lo spiritosissimo non fa ridere. Sulla sua valigia di fuochi d'artificio c'è un divieto di importazione. Gli attori che mettono in scena commedie straniere sono costretti a dare grandi sciabolate di lapis rosso, perchè «qui questa battuta non sarebbe capita».

Pagina 322

Nuovo galateo

189841
Melchiorre Gioja 1 occorrenze
  • 1802
  • Francesco Rossi
  • Napoli
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Il desiderio di distinguersi induce allora i ricchi ad abbandonare quella foggia ed a seguire una seconda recentemente inventata. La prima foggia, tuttora atta al consumo, esce dunque dalla circolazione del mondo più elegante, per conseguenza ne decade il prezzo. Decadendo il prezzo diviene proporzionato alle finanze delle persone quasi povere, le quali per ciò vengono messe a parte di piaceri, da cui senza, le variazioni della moda resterebbero escluse. V. La moda, presentandosi sotto nuove forme, eccita nella massa popolare la voglia di parteciparvi; quindi diviene pungentissimo stimolo contro la naturale inerzia che tende all'assopimento: divengono dunque attive alcune forze che ristagnerebbero, sono messi a profitto de' momenti che andrebbero perduti. Le variazioni della moda tendono dunque a diminuire l'impero dell'ozio, che d'ogni specie di vizi è fonte copiosa e inesauribile. VI. I poeti satirici volendo far pompa di zelo, diedero prove d'ignoranza; essi accusarono di finzione i ritrovati della moda, quasi che le arti più ammirate a finzioni non si riducessero. Il pittore riesce a dare rilievo alle cose piane, luce alle scure, lontananza alle vicine, vita ed anima ad una tela inanimata. Il musico con finte imitazioni non solo esprime mirabilmente le passioni tutte e i più delicati sentimenti dell' animo, ma le stesse cose inanimate rappresenta alla fantasia in modo che crediamo di sentire rumoreggiar il tuono, scoppiar il fulmine, garrir gli augelli, calmarsi l' onde. . . Ora le invenzioni della musica e della pittura, per essere finte ed illusorie, lasciano forse d'essere piacevoli? Producono lo stesso effetto le invenzioni della moda. Eccovi ad un giardino d'ospitali ombre ridenti,

Pagina 142

Marina ovvero il galateo della fanciulla

193768
Costantino Rodella 1 occorrenze
  • 2012
  • G. B. Paravia e Comp.
  • Firenze-Milano
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L'istruzione intellettuale le s'impartisce dai cinque ai dieci o dodici anni, quindi le si fa abbandonare la scuola e non se ne parla più, se non forse di qualche lezione per settimana di lingua francese. Tutta la sua vita viene quinc'innanzi divisa fra il pianoforte e que'lavori che si dicono femminili. Ora lasciatemi dimandare: quali occupazioni richiedono maggior forza intellettuale, gli studi o i lavori di mano? Ma questi lavori sono meccanici e la memoria e l'imitazione è tutto, e perciò si potevano tanto bene cominciare prima senza tanto detrimento. La signora Bianca, che poco si lasciava pigliar la mano dall'andazzo comune, diceva che per dare una buona istruzione alle giovani è necessario prolungare il tempo degli studi; e perchè l'una cosa non sia a disvantaggio dell'altra, approvava che contemporaneamente agli studi le si facessero apprendere i lavori femminili e le arti di ornamento. Fino ai diciott'anni non voleva che la ragazza facesse la signorina; lasciarle la testa ai grilli prima, è un metterla nei rischi del mondo, vana, senza studio e senza esperienza. Trovava che fino ai diciotto c'è abbastanza di tempo per istruirla in ogni ramo conveniente ai tempi progrediti, alla civiltà del secolo, e ritornava sempre alla sua idea, che dalla donna istruita infiniti beni ridondano alla società. E come pensava, praticò con Marina; il che spiega come questa abbia potuto erudirsi in tutte quelle materie che abbiam detto.

Pagina 79

Donnine a modo

194003
Camilla Buffoni Zappa 1 occorrenze
  • 1897
  • Enrico Trevisini - Editore
  • Milano
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Vi consiglio anche di abbandonare le poesie che in bocca alle fanciulle hanno quantomai del papagallesco. 6. Se ricevete un dono avete l'obbligo di mostrarvi contente anche se proprio non fosse di vostro gusto, e dovete ringraziare chi vi ha favorito. Se il donatore è lontano il dovere vostro è di scrivergli subito ringraziando. 7. Non rattristate mai un giorno di festa con ricordi dolorosi, con capricci indegni di fanciulle bene educate. A proposito di feste: badate che è da personcina poco educata ricordare ad alcuno il giorno in cui ricorre la vostra; non vi dico poi la mortificazione che fate subire con questo procedere ai vostri genitori. 9. Un altro giorno di festa è quello in cui la fanciulla sa di aver dato buona prova nell'esame finale. Se in casa vostra si dà questo caso siate generosi con colui o colei che si festeggia. Oso dire che è la solennità del lavoro, e mai come in essa il festeggiato ha il diritto di sentirsi felice. 10. Qualche volta vi capiterà di far parte di una gita di piacere. Non dovete credere che varcata la cinta daziaria cessi l'obbligo di mostrarsi personcine educate. Vi è lecito correre, divertirsi, saltare, ma non ridurvi in uno stato da metter pietà. E pietà mette davvero la fanciulla spettinata, sudata, piena di polvere, gli abiti spiegazzati e magari con qualche brandello lasciato lungo le siepi. Insomma intendiamoci: divertirsi non vuol dire dar la stura alla sguaiataggine. 11. Forse potrete essere portate durante una gita in una di quelle locande che si trovano sempre in campagna pel comodo dei gitanti e specialmente dei cacciatori, dove la biancheria non è certo di Fiandra, nè le posate d'argento, nè le stoviglie finissime. Non arricciate il naso, non mangiate a denti stretti, non criticate questo o quello per non dare a chi vi ha con sè il diritto di pensarvi digiuna d'ogni regola di galateo. 12. Feste carissime al vostro cuore di fanciulle la Cresima e la Prima Comunione. Mi raccomando, pensate più alla solennità del Sacramento che andate a ricevere che al regalo che aspettate. Lasciate la libertà di scegliervi la madrina ai vostri genitori, quando nessuno ancora si fosse offerto. Preferite sempre una conoscente di modeste condizioni a una estranea ricca. Prestate molta attenzione alle lezioni del portamento che dovete tenere durante la cerimonia per non commettere sconvenienze. Un'altra raccomandazione: la vostra toletta! Ci pensa la mamma! sento rispondermi. D'accordo, ma io so di molte fanciulle che colgono un momento che la mamma non le sente per raccomandare alla sarta di mettere sull'abito un nastro, un merletto, ecc. Quando la sarta manda il lavoro, o per ristrettezza di tempo, o per evitare lo sciupio che l'abito ne riceverebbe, la mamma, a malincuore, lascia la guarnizione che attribuisce a una cattiva idea della sarta, e le fanciulle si presentano all'altare con abiti carichi di guarnizioni. Fanciulle mie, non mi stancherò mai dal ripetervi: siate semplici, semplici nei modi, semplici nell'abbigliamento; i vostri giovani anni sono il più bell'ornamento che possiate desiderare. La veste da cerimonia lasciate che l'ordini la mamma, o se siete invitate a dire la vostra opinione sceglietela tutta bianca, di forma semplice e graziosa. Niente nastri, niente merletti, niente gioielli nella cresimanda o comunicanda. 13. La madrina ha diritto alla vostra obbedienza e al vostro rispetto nè più nè meno che se vi fosse madre. Ricevuto il regalo la fanciulla deve mostrarsene lieta e se è un oggetto personale deve subito subito adornarsene. 14. Dovete partecipare ai parenti che stessero in altra città o paese il lieto avvenimento con una bella letterina; lo farete, con una visita per i congiunti vicini. 15. Se la famiglia vostra seguisse l'uso ormai invalso di farvi fare per queste occasione la fotografia da regalare ai vostri cari, dovete dietro ogni copia scrivere una parola di dedica diversa a seconda della persona alla quale volete offrirla, ma sempre ricordando la lieta circostanza; qualcuno usa invece la fotografia commemorativa, nel qual caso scrivete sul lato posteriore una breve prece. Potete offrire di queste fotografie con una certa larghezza anche fra le compagne di scuola, invece delle fotografie vostre siate più parche nel dispensarne. 16. Altra festa per voi è un invito a teatro. In questo caso faccio qualche raccomandazione speciale. Alle più piccine, di non addormentarsi. A tutte: stare in silenzio. Non domandare ogni momento ciò che viene dopo. Di occupare nel palco il posto che vi assegna la mamma e non cercare di averne un altro. Di non rider forte, anche se il buffo è bravissimo, Non fissare gli spettatori col canocchiale, nè voltare le spalle al pubblico, di non cantarellare. Se occupate un posto in platea non fate sgabello pei vostri piedi della poltrona o sedia che vi sta innanzi, non vi mettete in piedi sulla vostra. Non battete le mani, è cosa sconveniente anche per una fanciulla.

Pagina 50

Come si fa e come non si fa. Manuale moderno di galateo

201123
Simonetta Malaspina 1 occorrenze
  • 1970
  • Milano
  • Giovanni de Vecchio Editore
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Se un collega vi chiede un favore non rifiutateglielo, purché non siate costretti ad abbandonare il vostro lavoro. Non criticate i vostri superiori non appena questi vi voltano le spalle. Inutile aggiungere che dovete essere sempre puntuali: in molti uffici c'è un orologio che controlla le entrate e le uscite, ma in altri gli orari sono affidati al vostro senso di responsabilità. Molto spesso i capufficio sono esigenti nel pretendere la puntualità all'entrata ma non altrettanto nel fare uscire gli impiegati all'ora stabilita. I supereroi devono rendersi conto che le persone hanno anche una vita privata e di conseguenza impegni diversi da quelli di lavoro. Gli impiegati spesso non sanno difendere quello che è un loro preciso diritto. Da una parte e dall'altra ci vuole comprensione. Il capufficio non pretenda che i suoi impiegati facciano più di quanto il loro stipendio e il loro contratto di lavoro li obbliga a fare, e gli impiegati non si sentano sempre vittime indifese. Un chiaro dialogo può eliminare certe scontentezze e organizzare meglio il lavoro. Consigli speciali per le donne che lavorano in ufficio. Anzitutto essere gentili ma diffidenti, cordiali ma prudenti. Astenersi dai pettegolezzi (nei quali sono più pronte a cadere), dal fare telefonate personali, distinguere la propria vita privata da quella di lavoro. Le ragazze non vadano in ufficio per trovare marito: lascino in pace gli scapoli e soprattutto i mariti delle altre, e scoraggino i primi tentativi di corte. Se accettano un passaggio in macchina dal superiore, non lo interpretino come una proposta di matrimonio o peggio. Una segretaria troppo cortese e troppo elegante può essere criticabile come una segretaria sgarbata e trasandata. Non tutte le segretarie sono in buona fede quando si dimostrano troppo solerti o scambiano l'ufficio per una sfilata di moda. In ufficio si deve andare soltanto per lavorare: la vita privata deve rimanere quanto più possibile al di fuori. Ne consegue che anche le donne (anzi, soprattutto loro) hanno il dovere di scoraggiare l'intrusione altrui nelle proprie questioni familiari e sentimentali. Se un collega comincia a essere troppo galante e servizievole, siate prudenti nell'accettare le sue attenzioni. È vero che molti matrimoni sono nati in ufficio, ma è anche vero che molti altri ci sono morti. Come vestirsi in ufficio? Con sobria eleganza e proprietà. Se siete uomini, barba fatta, camicia perfetta, impeccabile nodo alla cravatta. Siate sempre in ordine, e non disdegnate l'uso del deodorante che non serve soltanto alle donne. Se siete donne, vestite con semplicità, eliminando minigonne, scollature eccessive, bigiotteria vistosa, abiti troppo aderenti. Un po' d'acqua di colonia andrà bene, purché discreta; non mettete profumi, inadatti a un ambiente di lavoro. Potete truccarvi? Certo, anzi è necessario, entro certi limiti un trucco giovane e sobrio che dia un po' di colore alla pelle e alle labbra. Unghie curate, di giusta lunghezza. Anche per voi è necessario il deodorante. Nel cassetto della scrivania tenete magari un paio di calze di ricambio, nel caso le vostre si dovessero sfilare, e l'occorrente per riattaccare un bottone o rifare un orlo.

Pagina 372

Galateo della borghesia

201206
Emilia Nevers 1 occorrenze
  • 1883
  • Torino
  • presso l'Ufficio del Giornale delle donne
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abbandonare un povero vecchio!... Poi sbadiglia, sbuffa, si lamenta della noia; se gli si offre di giuocare, risponde: Che! giuocar di giorno! Non sono un vizioso io; se gli si propone di fargli la lettura: Eh! i libri d'oggi non fanno per me! Che mondaccio!..... E dà a maledir la vita, a parlar male della gente, a dichiarare che tutto è menzogna, che non val la pena di venir al mondo. Nel dir queste cose consolanti, si riempie il naso, la barba (che ha lunghissima e ispida), lo sparato della camicia, le mani, di tabacco; ne manda negli occhi dei vicini. Se capitano visite, fa predicozzi anche a quelle. A tavola mangia con le mani, piglia il cibo sul piatto comune con la propria forchetta o vi ripone i bocconi che gli avanzano; insomma si diporta come un bimbo, col peggiorativo che non lo si può correggere. La nonna - ah! qui il tipo ideale sarà, se permettete - un ricordo. La nonna ideale ha una cameretta per sè, poichè i vecchi hanno bisogno di quiete; ma è un asilo - non una prigione. Quella cameretta è tutta popolata di ricordi d'ogni genere - si vedono insieme sull'antico canterano tutto oro, che rammenta l'impero, i dagherrotipi dei bisavoli e le dei nipotini, i bei ricami delle figliuole, ed i primi fotografie tentativi delle bimbe, e tanti gingilli, tante cosine care che danno alla camera della nonna I'aspetto d'un museo, senza che perciò appaia meno ridente. E come è linda! Ella stessa, ogni mattina, aiuta a rigovernarla e toglie con amore ogni granello di polvere da quelle sue reliquie. Tutti in quella camera si trovano bene e non c'è bisogno di spingerveli. - Lasciaci andare dalla nonna, balbettano i bimbi. - Vo a lavorare colla nonna, dicono le ragazze. - Mostro i punti della scuola alla nonna! gridano i maschi al ritorno. E la nonna li accoglie tutti con lo stesso amore. Fin dalle nove della mattina è seduta sul suo seggiolone, con davanti l'oriuolo, con gli occhiali sul naso, vestita di tutto punto. È ancora dritta e snella come una giovine, la nonna, e par sempre che vada ad una festa a vederla attillata nel suo vestito di seta nera, col goletto ed i polsini di neve e la bella cuffia di trine a nastri, annodata sotto al mento. Lavora senza posa, con passione, e provvede di calze tutta la famiglia, dalle grosse calze di lana del nipote vontario, alle finissime calzine dei bimbi. Alla domenica legge. Tutti quelli che vengono a vederla sono i benvenuti, ed essa sa stare con ognuno. Non cerca di stendere su chi l'avvicina l'ombra fredda della sua tarda età; non vuol che altri sia vecchio e sfiduciato con lei, ma invece rivive lei coi piccini e coi giovani. Al bimbo, racconta storie e spesso fatti di cui è stata testimone, parla dell' epopea dell'impero che l'ha appassionata, ricordando, in mezzo al circolo dei ragazzi accesi di meraviglia, le strofe di Béranger:

Pagina 10

Le buone maniere

202636
Caterina Pigorini-Beri 1 occorrenze
  • 1908
  • Torino
  • F. Casanova e C.ia, Editori Librai di S. M. il re d'Italia
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
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E così questa grande rivoluzione intellettuale ha stipato i cervelli senza fecondarli e minaccia di abbandonare i popoli alla follia della loro intelligenza. Ora è all'educatrice che è riservato il Sursum corda! E questo otterrà per sè e per gli altri non colle pedanterie scolastiche, coll'orpello d'una laurea, colla vanità d'una patente, colle pretese di un titolo rimbombante, colle arti o colle scienze o col sapere la storia greca, romana, la teoria darwiniana o fare dei versi; ma coll'essersi assimilati gli studi che nel campo morale e intellettuale le vietino le mode bizzarre negli abiti e le maniere virili o scomposte, o sconvenienti. Questa salutare assimilazione le indicherà quella perfetta educazione civile, la quale irradiandosi da lei porterà ne' suoi discepoli l'urbanità, e spronerà allo studio, al rispetto delle consuetudini paesane e delle altrui opinioni e condurrà le giovani menti a venerare in essa non soltanto il sapere ma la virtù; onde poi accoglieranno nei cuori quel possente anelito, per cui la civiltà si diffonde, si stabilisce e rende meno aspro e meno difficile il vivere in comune. PIGORINI-BERI C., Le buone maniere. 11

Pagina 154

Eva Regina

203588
Jolanda (Marchesa Plattis Maiocchi) 3 occorrenze
  • 1912
  • Milano
  • Luigi Perrella
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
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Negli ultimi quattro mesi, poi, la futura mammina dovrà abbandonare assolutamente ogni abitudine di vita mondana. Non più veglie, non più passeggiate fra la gente, non più ritrovi con le amiche. Eviterà le fatiche d' ogni genere, i lunghi tragitti in carrozza, o i lunghi viaggi in ferrovia. L' abitudine d' una passeggiata igienica quotidiana è però da serbarsi fino all'ultimo, così la signora farà uso di grandi mantelli che sovrapporrà ai suoi abiti sciolti onde non venga profanato da sguardi curiosi e beffardi il geloso secreto della sua maternità. Ora vi sono le fogge Empire che furono inventate, dicesi, appunto per le conseguenze della licenziosità dei costumi sotto il regno Napoleonico, e che servono a mera- viglia ad attenuare l' alterazione delle linee della persona. Ma la signora, in istato di avanzata gravidanza, dovrà pure omettere i colori troppo vistosi e certe fogge troppo ardite di cappellini che stonerebbero troppo col suo volto un po' patito e col suo personale sformato. Del resto in questo periodo della vita la sua femminilità individuale passa in seconda linea : non più ammirazione o desiderio la circondano, ma rispetto: ell'è sacra, ell'è madre solamente. E secondo questo pensiero, secondo questa convinzione, è necessario ch' essa ordini e regoli tutto nella sua esistenza, dall' intimo sentimento alle forme esteriori.

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. — È, quindi, la camera che amiamo di più, che soffriamo più di abbandonare quando vi siamo costrette; dove ci rifugiamo nei giorni di malessere, nelle ore d' angoscia e di dolore : dove portiamo a nascondere le nostre gioie più fulgide, le nostre pene più amare. E appunto per questo suo carattere intimo, nella camera da letto non si ammettono che le amiche più di confidenza, le parenti più prossime, e nessun personaggio dell' altro sesso, a meno che non sia un fratello o che non si tratti di circostanza speciale. Una signora che abbia un quartiere ristretto o poco riscaldabile, potrà anche rimanere tutto il giorno in camera da letto e ricevervi le persone amiche, purchè un cortinaggio, un paravento, nasconda il letto, e il resto della stanza abbia un po' il carattere d' un salottino. L'arte nuova, però, vuole che la camera da dormire resti ciò che è, e sia sopratutto conforme alle regole dell' igiene. Banditi i cortinaggi, i tappeti : mobili dagli angoli arrotondati, a vernici chiare, scarse imbottiture, forme sobrie, pareti lucide invece che rivestite di carta. E le stanze da bagno e da toilette sono oggi quanto di delizioso si possa desiderare, con tutti gli accessori in marmo, ferro e cristallo, acqua a profusione; grosse stuoie, vetri smerigliati : la frescura d' estate, d' inverno il tepore. Avendo la fortuna di possedere una casa tutta per sè, o di abitare un vasto appartamento, mi sembrerebbe preferibile, per due sposi, avere ciascuno la propria stanza, anzichè una camera comune. Il letto matrimoniale è antiestetico, ridicolo, incomodo, offensivo al pudore. Nessuna giovine sposa accoglie senza arrossire una visita nella sua stanza, a motivo di quel gran letto impuro che fa fare alle fanciulle ignare le più strane considerazioni, ed eccita la fantasia e i sensi delle altre. Molte poesie, molti delicati riguardi che avrebbero potuto durare, si sono dissipati nel matrimonio a motivo di questa camera comune che abbassa l' amore alla sua semplice funzione di riproduttore della vita. Vi sono certi pudori che una donna di fine educazione non può sacrificare nemmeno al proprio marito; vi sono promiscuità ripugnanti, specialmente fra esseri il cui organismo è così diverso e dà abitudini e necessità così differenti. E poi l' indipendenza individuale è offesa continuamente dai gusti e dalle consuetudini spesso opposte : al signore piacerà dormire al buio, alla signora tenere il lume ; il marito avrà l' abitudine di fumare una sigaretta prima di prender sonno, alla moglie darà noia l' odor del fumo; l' uomo soffrirà il caldo e non sopporterà che coltri leggere, la donna sarà freddolosa e vorrebbe addosso una montagna ; qualche volta l' uno o l' altra vorrebbe leggere un poco ; il coniuge che non capisce questo gusto si lamenta. Poi l' uno rincasa tardi e sveglia l' altra ; lei vorrebbe alzarsi presto e si sacrifica per non svegliar lui; insomma, a pensarci bene, è un conflitto continuo, preludiante spesso a divergenze più gravi. E la vita ha già tante noie, costringe già a tanti sacrifizi, che non mi pare giusto nè ragionevole che si debba fabbricarne apposta quando si potrebbe farne a meno.

Pagina 293

Gli scaldapiedi di ferro a carboni ardenti sono da abbandonare come nocivi. Si sostituiscano con un cilindro di metallo pieno d'acqua bollente od anche con una di quelle borse rivestite internamente di pelliccia, assai confortatrici. Anche l'uso dello scaldino è brutto e antiestetico e conduce, piano piano all'ignavia. Pure è un gran rimedio contro i geloni e i medici ne raccomandano l' uso per tempo alle persone che soffrono di questo antipatico incomodo. Una volta si credeva che il coricarsi in un letto freddo fosse più igienico che l' entrare in un letto riscaldato. Ma l' igiene moderna ci dice invece che l'asciugar bene le lenzuola col trabicolo o i recipienti d'acqua bollente, è più vantaggioso alla salute. Il freddo sofferto in letto è dannosissimo alle persone delicate, ai bambini, ai vecchi : ma è poi da consigliarsi di non dormire in un ambiente troppo riscaldato e di guardarsi bene dall' addormentarsi con la stufa accesa. Incomparabili riparatrici del freddo, sono le pelliccie. Ora se ne possono avere anche ad un prezzo relativamente mite, ed io consiglierei tutte le signore a far a meno piuttosto di un mantello dì lusso ma non privarsi di questo così pratico indumento. E nella scelta degli abiti e della biancheria si guardi piuttosto alla qualità del tessuto che alla sua pesantezza. Vi sono panni, fustagni, maglie, che opprimono il corpo senza tenerlo caldo; mentre certe flanelline morbide, lanuginose, certi panni di tutta lana, aderenti, riparano assai meglio essendo più leggeri. Molti medici proclamano la superiorità igienica del cotone sulla lana che è buona sviluppatrice di microbi; infatti, ora l'industria tessile del cotone è giunta ad una tale eccellenza da farla preferire volentieri. Meglio di tutti la seta che ripara dal freddo ed isola dal caldo. Ma ha due difetti : dura poco e costa molto. Continueremo dunque ad usare per noi e per i nostri bambini, le benefiche camiciole di lana, le flanelline sempre così convenienti, il delizioso tessuto dei Pirenei per le sottane e le vestaglie. Chi soffre di bronchiti, tenga caldo oltre il petto l'alto del braccio, dal gomito alla spalla e usi bevande di latte tepido con fusione di lichene. Chi è soggetto ai gastricismi, avvolga lo stomaco e il ventre con una fascia di lana e tenga molto caldi i piedi.

Pagina 331

Giovanna la nonna del corsaro nero

204896
Metz, Vittorio 1 occorrenze
  • 1962
  • Rizzoli
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
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E si allontanò lasciando Nicolino il quale, non sapendo che Giovanna e gli altri erano usciti, si rimise a passeggiare al posto che aveva dovuto abbandonare poco prima. Intanto Giovanna, nascosta nel canneto, teneva con gli altri un piccolo consiglio di guerra. "Avete sentito? Non era il governatore che avevamo rapito, ma il Viceré... Abbiamo sbagliato camera... Cosa si può fare, Battista?" "Io opino, signora contessa," rispose rispettosamente Battista"che dobbiamo trovare la vera camera del governatore..." "Sì, ma per far questo bisogna rientrare nella villa" disse Giovanna. "Chissà dov'è andato a finire il nostromo Nicolino" disse Jolanda. "C'era un'altra sentinella, prima, al suo posto..." "Giusto" disse Giovanna. "Venite con me..." Così dicendo Giovanna estrasse la spada dal fodero e la impugnò per la punta della lama flessibile, uscendo dal canneto e avanzando cautamente verso Nicolino che la vide avanzare. "Chi è?" domandò con voce tremante. Poi riconoscendo la sagoma della vecchia: "Oh, finalmente, siete voi... Oh, mamma mia bella?" Questa sua ultima esclamazione era dovuta al fatto che Giovanna, convinta di aver a che fare con la sentinella di prima, aveva usato la spada come una clava colpendo alla testa con un terribile colpo il povero Nicolino che strabuzzò gli occhi, girò su se stesso e si accasciò lentamente a terra. "Bel colpo, nonnina!" esclamò accorrendo Jolanda. "Leghiamolo ed entriamo" comandò Giovanna, rivolta al maggiordomo. Il maggiordomo si chinò su Nicolino per rivoltarlo sotto sopra allo scopo di legargli le mani dietro la schiena, ma, poiché l'elmo gli era andato via dalla testa, lo riconobbe. "Ma è Nicolino!" esclamò. Lo scosse. "Ehi, Nicolino... Nicolino!" E gli assestò degli schiaffetti per risvegliarlo. Nicolino aprì gli occhi e fissò lo sguardo davanti a sé con una sorridente espressione da ebete dipinta sul volto, brontolando qualcosa. "Che hai detto?" gli domandò Battista. "La pecheronza!" gli sembrò che rispondesse Nicolino. "La pecheronza! E che è la pecheronza...?" domandò Giovanna. "La pecheronza" ripeté Nicolino. "Qui, nella mia testa..." "Non capisco" disse Jolanda. "Mi sia consentito il dire che credo abbia voluto dire: l'ape che ronza..." spiegò Battista. Quindi, rivolto a Nicolino: "Non ci sono api che ronzano da queste parti: è il colpo che hai ricevuto in testa..." "Io vorrei sapere perché prima non c'eri tu di sentinella!" disse Giovanna, irritata. "Perché," rispose Nicolino che cominciava a riprendersi "mi avevano dato il cambio... Adesso mi avevano rimesso di sentinella perché l'altra l'avete messa voi fuori uso..." "Se prima ci fossi stato tu al posto della sentinella, questo adesso non ti succedeva." "E invece mi è successo," rispose Nicolino, rialzandosi faticosamente in piedi "perché avete messo fuori uso anche me!" Giovanna si chinò, raccolse l'elmo e glielo rimise in testa. "Be'," disse "resta di guardia..." "Speriamo che vada tutto bene, questa volta" disse Nicolino. "Andrà tutto bene" assicurò Giovanna, con forza. "Perché questa volta invece di rapire il governatore, lo sfiderò al duello e voi due, Battista e Jolanda, mi farete da padrini... Andiamo..." "Tornate presto!" si raccomandò Nicolino mentre i tre si allontanavano verso il patio.

Pagina 142

Una famiglia di topi

205159
Contessa Lara 1 occorrenze
  • 1903
  • R. Bemporad &Figlio
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
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abbandonare per sempre li luogo della sua nascita, nè i suoi cari parenti; ma un po' di svago voleva pure goderselo. Con tutti questi progetti d' indipendenza, che gli frullavano per il cervellino, passò parecchie notti riposando meno del solito; e un po' in vidiava, un po' compativa tutti gli altri della sua famigliola, che se la dormivano in una quiete perfetta. Erano creature con idee ristrette, pensava Moschino; e lui era proprio un topo superiore. Una bella mattina che la Letizia, rimasta come unica persona di servizio in casa Sernici, aveva lasciata dischiusa la porta delle scale, perchè era scesa un istante a comprar qualcosa per la colazione dei padroni in una bottega lì accosto, Moschino, che, secondo il suo solito, correva qua e là per le stanze, prese la grande determinazione di quel suo viaggio, diremo così, all' estero; e guardato bene che non lo vedesse anima viva, infilò rapidamente l'uscio. Il contatto del marmo delle scale con le zampine avvezze a passeggiare sempre sui tappeti, gli fece subito una sgradita impressione, e un leggiero brivido gli corse per tutto il corpo. - Diamine! - pensò - non si cammina sempre su' tappeti, a quanto pare! - Ma non per questo tornò indietro, ormai era fuori, e qualcosa dovea pur arrivare a conoscere. Del resto, c' è un vecchio proverbio che dice: «Il peggio passo è quel dell' uscio.» Magàri fosse stato fin lì tutto il male per il povero Moschino! Ma non precorriamo gli avvenimenti, ch' è meglio raccontare per filo e per segno.

Pagina 102

Angiola Maria

207178
Carcano, Giulio 2 occorrenze
  • 1874
  • Paolo Carrara
  • Milano
  • Paraletteratura - Ragazzi
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Pagina 183

Egli non ebbe più cuore, l'Andrea, di mettersi al servizio d' altri padroni; e neppure per diventare il più ricco fittaiuolo della Bassa, avrebbe consentito di abbandonare la riva del suo lago, l'acqua sulla quale era nato. E se ne morì contento in quel fidato ricovero, in faccia ai monti e al cielo che aveva amato sempre come cosa sua. I suoi settant' anni erano corsi in tanta oscurità, in tanta quiete! Carlo, il suo figliuolo maggiore, era in quel tempo vicecurato in un povero paese della Valtellina: e anche questa fortuna egli la doveva al conte Francesco, il quale alcuni anni prima aveva fondato apposta un piccolo beneficio per il giovine abate. La signora contessa poi, un'aurea donna, piena di bontà e d'amore, avendo messo una singolare affezione nella piccola Angiola Maria, poi che dal cielo le era stata negata la consolazione d'aver figliuoli, si teneva cara quella fanciulletta, come la fosse sua propria. É inutile ch' io vi dica, perchè ben lo pensate, come, ogni volta la buona contessa Anna ne venisse a passare i lieti mesi d' autunno nella villa del lago, la prima cosa a chiedere fosse della piccola Maria. Quella ragazzetta era così graziosa e bellina fin da' suoi primi anni, aveva il volto cosi ritondetto e color di rosa, e i capegli tra il biondo e il bruno così lucidi e inanellati, che rubava al primo vederla i baci e le carezze di tutti. La sua voce ancor fanciullesca aveva già quell'insinuante dolcezza ch'è segno di un'anima timida, amorosa; e l' ingenuo parlare e le schiette domande che faceva, mostravano bene quanto la sua nascente ragione fosse semplice e retta, e la sua mente già commossa dal trepido desiderio di pensare e di conoscere. La contessa Anna dunque rapiva spesso alla madre quella cara creaturina così bella, ch' era la sua piccola delizia. E qualche volta pure la condusse con sè alla città; nè poco ci voleva allora per vincere una certa ritrosia del buon Andrea; il quale finiva con obbedire, perchè la era volontà dei padroni, ma in cuor suo pensava da quella domestichezza co'signori non poterne venir bene a una povera figliuola come la sua. Alla madre invece, la pareva una benedizione del cielo: ella si trovava, è vero, come perduta, quand'era sola, ma il suo orgoglio materno, com'è naturale, n'andava consolato, vedendo crescere così bianca e bella la figliuola, da lei chiamata sua perla, sua ricchezza. Quando la fanciulla si fe' più grandicella, la contessa se la teneva più spesso in compagnia, talvolta per le lunghe ore della mattina, talvolta per l' intera giornata, e le prodigava ogni cura, con sollecitudine quasi materna. Sotto gli occhi suoi, la fanciulla imparò a legger que' libri che sono l'amore delle tenere menti, appena s'aprono facili agli accorti consigli del senno; e di que'libri, una Storia Sacra, tutta adorna di belle figure miniate, era il suo prediletto. Poi, seduta accanto dell'amorosa protettrice, Maria attendeva a qualche gentile lavoro d' ago o di spola; o si piaceva, sullo medesimo scrittoio della contessa, di sgorbiar de' fogli copiando e ricopiando il nome della buona signora e quelli di suo padre, della mamma e del fratello: era la sua gran gioja. Oh! quanto l' amorevole donna sentivasi dolcemente rapita da quell'anima candida e ingenua, vedendola a poco a poco prender come una nuova vita, alle semplici lezioni del bello e della virtù! Oh quanto era commossa dalle parole di Maria che rispondevano alle sue, dall'affetto di quella innocente che le chiedeva la grazia d'un bacio, dalle stesse sue lagrime, quando, per qualche lieve cruccio, il picciol cuore di lei non trovava altra risposta che un largo pianto! Quella era una beatitudine: e non di rado la contessa, dopo avere a lungo contemplata la fanciulla, si faceva mesta, pensava che felicità sarebbe stata la sua, se anch' ella avesse potuto sentirsi chiamar madre, se anche a lei fosse stato dal cielo concessa una figliuola come quella. Ma la felicità di questi anni doveva presto finire. Il conte Francesco morì, e l' ottima sua compagna lo seguì presto nel sepolcro. Erano svaniti i bei sogni di mamma Caterina: il compare Andrea aveva avuto ragione. Angiola Maria non abbandonò più la casa paterna, pur vi crebbe bella e serena com'era sempre stata; perchè quell'impronta virtuosa che il suo cuore aveva ricevuto, non poteva cancellarsi più. Pareva che la giovinetta portasse la pace e il bene con sè; il vecchio suo padre menava giorni tranquilli, d'altro non ragionando che delle sue lontane memorie, de' tempi burrascosi di sua gioventù, e de'suoi buoni padroni; e Caterina divideva colla figliuola le poche faccende della casa, serbando però sempre le più dure per sè; paga abbastanza nella sua tenerezza di vedersi sorridere d'intorno quel fior sì gentile della sua Maria. Solo il giovine vicecurato

Pagina 43

Il Plutarco femminile

217334
Pietro Fanfano 2 occorrenze
  • 1893
  • Paolo Carrara Editore
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
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Morì nel 1778, compianta da tutti, e celebrata in morte da varj nobili ingegni; come una raccolta di poesie era stata fatta in suo onore, e stampata in due volumi, quando le fu data la laurea dottorale, e accettata nella Facoltà di Filosofia." " Lo studio, disse il maestro come prima si tacque la Clelia, si vede che le ha profittato, perchè nel suo discorso, non solo ci sono i pregi medesimi che erano nell' altro, ma c' è migliore ordine, e più franchezza di periodare: il perchè le faccio le medesime lodi, ed anche maggiori, confortandola di non abbandonare lo studio. Sulla fine per altro, se non m' ha ingannato l' orecchio, mi è parso di sentirle pronunziar nuocerebbe per nocerebbe. Ho frainteso, o sta veramente così? "Sta così, perchè, venendo dall'infinito nuocere mi pare che si dovesse dir nuocerebbe. "Se le pare, le par male. Qui milita la regola del dittongo mobile, della quale pur mi ricordo aver loro detto qualcosa in iscuola; ma, a quel che sembra, con poco frutto; e però, se piace a loro e alla signora direttrice, io ne tratterò adesso un po' distesamente, perchè una bella vergogna il vedere, non dico da loro, ma quasi universalmente trascurata questa regola, che è quella forse la quale patisce meno eccezioni." La direttrice e le alunne, non solo acconsentirono ma mostrarono vivo desiderio, che il maestro spiegasse loro la regola ed il maestro disse così: "Regola, costante adunque, e che ha meno eccezioni di qual altra si voglia, è questa che in una voce, la quale abbia il dittongo uo o ie, se, ne' derivati da essa, l' accento trasportasi in altra sillaba, il dittongo si scempia; per esempio cuore ha l' accento sulla prima che è dittongo; facendone coraggio, l' accento si trasporta sulla seconda, e il dittongo sparisce, nè si può dir cuoraggio. Siedo ha la posa sulla prima ed è dittongo; in sedeva l' accento va nella seconda, e il dittongo sparisce, nè si può dir siedeva. Nel modo medesimo si dice abbuono, abbuonano, abbuona; e non abbuonare, abbuonava, abbuonerò, ma abbonare, abbonava, abbonerò, ecc.: si dice cielo e non cieleste, ma celeste; si dice accieco, acciecano, ecc., e non acciecare, acciecavano, ecc,, ma accecare, accecavano e così di mille altri simili casi. Nè il dittongo si scempia solo per trasporto d' accento, ma anche perchè seguono u i. esso due consonanti uguali; per esempio, CUOCERE non solo scempia l'accento in coceva, cocerà, ecc., ma anche in cossi e cotto. Il trasporto di accento poi ha virtù di far cambiare una vocale nello diverso voci di uno stesso verbo; per esempio, in UDIRE quelle che han l'accento sulla prima cominciano per o, come odo, odono: quelle dove l' accento passa alla seconda, cominciano per u, come udire, udirò, udrà e nel verbo USCIRE cominciano per e quelle che hanno l' accento sulla prima come esco, escono, esci; o per u quelle dove l'accento passa oltre, come uscire, uscirò, usciva. Non ci ha grammatico antico o moderno (dico di quegli noti da quattro al centesimo) che questa regola non insegni, e non assegni buona ragione; Bombe, il Castelvetro, Il salviati, il Salvini, il Buommattei, il Rogacci, il Bartoli, Celso Cittadini, Loreto Mattei, il Manni, il Parenti, il Gherardini; tutti insomma i migliori antichi e moderni, tra' quali i più largamente e dottamente che ne parlino sono il Cittadini, il Mattei, il Salvini ed il Bartoli fra gli antichi; e fra' moderni il Parenti in più luoghi delle sue Strenne filologiche, e il Gherardini nella Appendice alle Grammatiche teoricamente, e praticamente ne' suoi lavori lessicografi. E quel che prova la incontrastabilità della regola è questo, che e guelfi e ghibellini della filologia italiana si accordano nell'insegnarla e nel difenderla: segno proprio che non c' è via da dirle contro. Eppure tuttor c'è chi non la capisce! ed ancora di quelli che vanno per la maggior parte scappucciano in questa materia! Ecco perchè qui ho battuto un po' più che altrove. "Anche la Crusca, che ne' primi sette fascicoli della quinta impressione avea trascurato tal regola, fattane accorta, non pure la osserva scrupolosamente nella ricominciata edizione; ma ne assegna ottime ragioni nella prefazione. - Ma che Crusca? che grammatica? che Bembi, che Bartoli, che Parenti, che Gherardini o altri medaglioni il popolo non usa tali dittonghi, e per conseguenza non si debbono, nè parlando nè scrivendo, adoperare. - Ma è vero proprio che il popolo non gli usa? - No che non è vero una persona civile, qui in Firenze, gli usa, anche parlando, quasi sempre, pronunziandoli molto raccolti, è vero, ma facendo pur sentire tanto o quanto della u, se il dittongo èuo, e della i se il dittongo è ie; nè certo una persona, civile dir� sole per suole, poi per puoi, voi per vuoi, celo per cielo, sedo per siedo, ecc., ecc., e molto meno lo scriverò. Se poi si esce di Firenze e si va ne' luoghi dove l' italiano è senza dubbio meglio pronunziato, come a Siena, a Pistoja, e sulla montagna pistojese, questi dittonghi si odono spiccatissimi sulle bocche di tutti. E poi quando fosse altrimenti, il popolo è autorità assoluta in opera di pronunzia? No, risponde Cicerone, Aulo Gellio, Dante, il Bembo, il Salviati, e tutti i primi maestri: no, perchè allora bisognerebbe dire e scrivere sua e tua per tuoi e suoi; issole per il sole; e molte altre simili: no, perchè è una mattia l' accettare, a chius' occhi questa autorità sconfinata del popolo, la quale ci porterebbe a dover dire e scrivere molti errori che al popolo son comuni, come radino, dicono, e simili per vadano e dicano: andiedi per andai: vai e fai e stai, per va, fa, sta, imperativi; si fece, si disse, ecc., per facemmo e dicemmo: lui e lei, per egli ed ella in ogni caso: cosa per che cosa; ed altre simili gioie, che pur brillano negli scritti di questi ciechi seguaci dell' uso e no, finalmente, perchè non è vero niente che l' uso di questi e simili errori sia generale tra 'l popolo, essendoci pure una gran parte, anzi la maggior parte delle persone civili, che mai non li dicono. "Non altro ho da dire circa a questa regola. Mi sono fatto intendere? Sì, signore, rispose la Zaira a nome di tutte; e spero che niuna, di noi caderò più in tal errore. Intanto, essendo passata l' ora, la direttrice si alzò, e tutte facevano altrettanto, quando la Eglina: "Scusino, ma ci siamo scordate d' una cosa. "Che cosa? domandò la direttrice. "La Clelia ha detto delle parole latine; ma noi non sappiamo quel che voglion dire. "O povera signora Eglina, continuò il maestro, ha ragione, ed eccomi qui a spiegargliele. La signora Clelia ci ha raccontato che sulla medaglia coniata per la Bassi ci era il motto: Soli cui fas vidisse Minerva, le quali vengono a dire che quella medaglia fu coniata per onorare colei a cui solo fu conceduto di vedere Minerva, volendo significare che la Bassi fu la più sapiente fra le donne, tanto sapiente che vide a faccia a faccia Minerva, la quale è simboleggiata per la sapienza stessa.

Pagina 228

Avvenne una volta che Brunoro, volendo abbandonare il re Alfonso di Napoli, a' cui servigj militava, mentre si preparava a fuggire, fu preso e messo in prigione. Pensate come se ne addolorò la povera Bona! la quale per altro non si sgomentò, pronta ad ogni disagio e pericolo per il suo signore. Che ti fa? se ne va da tutti i principi e potentati d'Italia, non che dal re di Francia, a impetrar lettere di favore per Brunoro, tanto che il re Alfonso lo liberò; nè contenta a questo, operò tanto che fu preso al soldo da'Veneziani con provvisione di più di 20,000 ducati. Allora Brunoro, in merito di tanto affetto e di tanta fede, benchè sino allora l'avesse tenuta al suo servigio, e benchè fosse così brutta di aspetto, se la prese per moglie; ed attenendosi a' consigli di lei venne sempre in fama maggiore, per essergli tutte le imprese riuscite prospere; ed in tutte le imprese si vedeva questa valente donna condur genti a piede, ed esser sempre la prima ad ogni zuffa ed assalto. Diventò insomma peritissima dell'arte della guerra; e per la sua accortezza e valore si espugnarono forti castella. Si mantenne poi sempre casta, e pudica, e fedele al suo Brunoro. Ultimamente, avendo il Senato veneziano gran fede in Brunoro e nel valore di questa donna, gli mandò alla difesa di Negroponte contro a' Turchi, i quali mai non ardirono di dar loro noia; ma essendole morto in questo mezzo il suo caro Pietro nella città di Calcide, la Bona, tornando a Venezia per vedere di far confermare la provvisione del padre a' due suoi figliuoli, presa dal mal di flusso in Modone, città di Morea, e conosciuto che quella malattia era mortale, si fece fare una ricca sepoltura, la quale coi propri occhi volle vedere prima che morisse; ed ivi fu veramente sepolta nel 1468. Degna d'essere annoverata tra le donne più illustri, perchè nata di bassi e vili parenti, si acquistò con opere virtuose chiarissima ed eterna fama con vera nobiltà, dove molte, nate di sangue gentile, ed anche reale, spesso oscurano i loro natali con opere indegne." Se la Giannina fu applaudita non se ne domanda; e non erano ancora finiti gli applausi, che si alzò una di quelle ragazze dicendo: "Vorrei, se la signora direttrice si contenta, fare una osservazione. "Dica, rispose la direttrice.. In queste cinque domeniche abbiamo udito raccontar molti atti di valorose donne, che fanno vergogna a molti signori uomini: o perchè dunque ci ha essere chi s'ostina a dire che noi altre donne non siamo buone a nulla, e che si dee pensar solamente a far la calza, a cucire e a badar a casa? questa è una bella soverchieria... "Signorina, interruppe la direttrice, coloro che dicono, le donne non esser capaci di ogni atto virtuoso come gli uomini, sono stolti; ma anche più stolti sono coloro che vorrebbero le donne capaci di ogni pubblico ufficio, pareggiandole in tutto e per tutto agli uomini. Ci pensi un pochino e mentre quieta, e vedrà che, se la natura ha fatto la donna diversa dall' uomo, destinandola a far figliuoli e ad allattargli, è segno che anche l' ufficio loro debb' essere diverso nella umana compagnia; e come la cura del governo familiare, e tutte le arti donnesche sono essenziali al buon vivere civile, così, facendo uomini anche le donne, una delle due, o gli uomini dovrebbero essi attendere a quelle arti, operando contro l' ordine della natura; o il viver civile diventerebbe una confusione orribilissima. Non si nega che sieno degne di eterne lodi le donne, che si rendono eccellenti o nelle arti, o nelle scienze, o nelle lettere; ma guai se tutte le donne volessero essere o scienziate, o letterate, o politichesse! Il mandato della donna è sublime, chi sappia valutarlo: siamo noi donne quelle, che, attendendo alla prima educazione de' fanciulli, mettiamo loro in cuore i semi delle cittadine virtù, i quali poi fruttano a tempo e luogo gloria ed onori: siamo noi altre donne che temperiamo le troppo accese passioni, che facciamo parer più leggere le gravi cure de' nostri uomini... Io non posso stendermi ora di più su questa materia. Creda a me, signorina: pensi ad animo quieto, e ci pensino tutte le sue compagne, a queste mie parole; e se loderanno ed ammireranno sempre quelle donne delle quali ogni domenica qui si celebrano le virtù, potranno menar vanto che anche le donne sono capaci de' più nobili atti virili, e con l' esempio di esse tureranno la bocca agli stolti, che dicono il contrario; ma ne conchiuderanno per altro, che al bene ordinato viver civile, giovano molto più quelle che intendono il mandato loro proprio, e cercano di essere buone spose e buone madri.

Pagina 34

D'Ambra, Lucio

220384
Il Re, le Torri, gli Alfieri 1 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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Pagina 13

Mitchell, Margaret

221479
Via col vento 3 occorrenze
  • 1939
  • A. Mondadori
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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Non poteva abbandonare Tara; apparteneva a quella terra rossa com'essa apparteneva a lei. Rimarrebbe e troverebbe modo di far vivere suo padre, le sue sorelle, Melania e il bimbo di Ashley e i negri. Domani... oh, domani! Domani metterebbe il collo sotto il giogo. Vi erano tante cose da fare. Andare alle Dodici Querce e alla piantagione di MacIntosh e vedere se negli orti abbandonati era rimasta qualche cosa; andare alle paludi e batterle per rintracciare polli e maiali smarriti, andare a Jonesboro e a Lovejoy coi gioielli di Elena... Doveva essere pure rimasto qualcuno che vendeva roba da mangiare! Domani... domani... La parola si agitava nel suo cervello come il battito di un orologio, sempre piú lentamente; ma la chiarezza della visione persisteva. Dai vecchi racconti che aveva ascoltato nella sua infanzia, qualche cosa emergeva chiaramente. Geraldo, senza un soldo, aveva costruito Tara; Elena aveva superato qualche misterioso dolore; il nonno Robillard, sopravvivendo alla caduta di Napoleone, aveva fondato nuovamente la fortuna della sua famiglia sulla fertile costa della Georgia; il bisnonno Prudhomme si era fatto un piccolo regno nella giungla di Haiti, lo aveva perduto, e poi aveva vissuto abbastanza per vedere il suo nome onorato a Savannah. Vi erano le Rosselle che avevano combattuto coi volontari irlandesi per la libera Irlanda e gli O'Hara che erano morti sul Boyne combattendo fino all'ultimo respiro per difendere la loro proprietà. Tutti avevano sopportato le piú grandi sventure. Non erano stati abbattuti dal crollo di imperi, di rivolte di schiavi, guerre, proscrizioni, confische. Il fato maligno aveva spezzato la loro vita, a volte, ma non i loro cuori. Non avevano ceduto; avevano lottato. Tutta quella gente il cui sangue scorreva nelle sue vene sembrava muoversi silenziosamente nella stanza inondata dal chiaro di luna. E Rossella non era sorpresa di vederli, quegli antenati che avevano avuto il peggio che il destino può assegnare e lo avevano trasformato nel meglio. Tara era il suo destino, la sua lotta, ed essa doveva vincere. Si voltò pigramente su un fianco; a poco a poco il suo spirito naufragava nell'oscurità. Erano davvero presenti, i fantasmi, e le mormoravano parole incoraggianti, o questo faceva parte del suo sogno? - Siate o non siate qui - mormorò sonnacchiosa - vi do' la buona notte... e vi ringrazio.

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Una volta Rossella, disperata, pensò di andare lei stessa in cerca di viveri; ma i clamori isterici di tutta la famiglia paurosa degli yankees la indussero ad abbandonare il progetto. Pork si assentava a volte fino alla sera, e Rossella non gli chiedeva mai dov'era stato. Certi giorni tornava con un po' di cacciagione, altre volte con qualche pannocchia di granturco, con un sacchetto di piselli secchi. Portò anche un gallo che disse di aver trovato nei boschi. La famiglia lo mangiò con piacere misto a un senso di rimorso, perché tutti sapevano che Pork lo aveva rubato, come aveva rubato i piselli e il granturco. Una sera, poco tempo dopo, bussò alla porta di Rossella quando tutti quanti già dormivano e le mostrò timidamente una gamba crivellata di pallini. Mentre la padroncina lo fasciava, spiegò goffamente che mentre cercava di entrare in un pollaio a Fayetteville, era stato scoperto. Rossella non gli chiese di chi era il pollaio, ma gli accarezzò dolcemente la spalla con le lagrime agli occhi. I negri erano irritanti, qualche volta; stupidi e indolenti; ma la loro fedeltà era impagabile e anche la loro dedizione ai padroni bianchi, che li spingeva ad arrischiare la vita per procurare dei viveri per la loro tavola. In altri tempi i ladrocini di Pork sarebbero stati una cosa molto seria, che probabilmente avrebbe richiesto una buona frustata. Elena le aveva sempre detto: - Ricordati che tu sei responsabile del morale come del benessere fisico degli schiavi che Dio ha affidato alla tua cura. Devi pensare che sono come dei bambini; e, come ai bambini, bisogna sempre dar loro il buon esempio. Ma ora, Rossella non ebbe cuore di rimproverare il negro fedele. Il fatto di incoraggiare il furto non le pesava sulla coscienza, che, d'altronde, non era mai stata troppo severa. Le dispiacque soltanto che fosse stato ferito. - Devi stare attento, Pork. Non ti vogliamo perdere. Che cosa faremmo senza di te? Sei stato buono e fedele; e quando avremo denaro ti comprerò un bell'orologio d'oro e ci farò incidere sopra un versetto della Bibbia. Pork scivolò fuori dalla camera ed ella rimase pensierosa. Era stupita che la vita fosse oggi cosí semplice, mentre una volta - tempi passati e lontani! - era piena di complicazioni. Vi era stato il problema di conquistare l'amore di Ashley e di tenersi attorno una dozzina di spasimanti rendendoli infelici. E piccole mancanze di contegno da nascondere ai genitori, amiche gelose da placare, abiti da scegliere... Ora la sola cosa che importava era il poter mangiare a sufficienza per non morire d'inedia, vestirsi in modo da ripararsi dal freddo e avere un tetto che non vacillasse troppo. In quei giorni Rossella cominciò ad avere un incubo che poi la ossessionò per degli anni. Era sempre lo stesso sogno, i cui particolari non mutavano, ma che la spaventava ogni volta di piú; e il terrore la tormentava anche quando era sveglia. Ricordava benissimo gli incidenti del giorno in cui il sogno le era apparso per la prima volta. Pioveva da una settimana, e la casa era piena di freddo e di umidità. I ceppi nel camino era bagnati e fumosi e davano poco calore. Non si era mangiato nulla, dopo la colazione consistente in poco latte, perché la provvista di patate dolci era esaurita e le trappole e le reti di Pork non avevano prodotto niente. Bisognava decidersi a uccidere un porcellino, se si voleva avere qualcosa da mangiare. Visi tirati e affamati, bianchi e neri, la fissavano, chiedendole con gli occhi di provvedere un po' di cibo. Bisognava decidersi a mandar via Pork a cercare di comprare qualche cosa. Per di piú, c'era Wade col mal di gola e la febbre; e non vi era medico né medicine. Affamata e stanca di vegliare il bimbo, Rossella lo aveva affidato a Melania e si era gettata sul letto per fare un sonnellino. Coi piedi gelati, si voltava e rivoltava senza riuscire ad addormentarsi. Pensava e ripensava: «Che debbo fare? A chi rivolgermi? Non c'è nessuno al mondo che possa aiutarmi?» Perché non vi era una persona che la sollevasse da quel fardello troppo pesante per lei? E con questi pensieri, cadde in una sonnolenza irrequieta. Si vide in un luogo sconosciuto, denso di nebbia sicché non distingueva nulla a un palmo di distanza. Sotto ai piedi la terra era ineguale: una landa silenziosa in cui ella era smarrita, atterrita come un bimbo nella notte. Aveva freddo e fame; avrebbe voluto gridare ma non poteva. Nella nebbia erano cose o esseri che stendevano le dita ad afferrarle le gonne, per trascinarla entro la terra che tremava; mani silenziose, irrequiete, spettrali. Eppure, sapeva che al di là di quell'atmosfera opaca era un rifugio, un porto dove potrebbe riparare al caldo. Ma dov'era? Riuscirebbe a raggiungerlo prima che le mani la trascinassero entro le sabbie mobili? E improvvisamente si metteva a correre per entro la nebbia come una pazza, urlando, lanciando avanti le braccia, senza afferrare altro che aria e nebbia umida. Dov'era il rifugio? C'era, ma non riusciva a trovarlo... Lo sgomento le faceva piegare le ginocchia, la fame la faceva svenire. Lanciò un grido disperato e si svegliò per vedere chino sopra di sé il viso preoccupato di Melania che la scuoteva per destarla. Il sogno si ripeté ogni volta che andava a dormire con lo stomaco vuoto. E questo avveniva sovente. La spaventava talmente che aveva perfino timore di addormentarsi, benché continuasse a ripetere febbrilmente a se stessa che non vi era alcun motivo d'aver paura. Nulla; eppure l'idea di quella landa nebbiosa la sgomentava tanto che cominciò a dormire con Melania, la quale la destava non appena i suoi gemiti le rivelavano com'ella fosse nuovamente caduta fra le grinfe dell'incubo. Era diventata magra e pallida. La graziosa rotondità del suo viso era scomparsa; gli zigomi si erano accentuati, rendendo piú obliqui i suoi occhi verdi, dandole un'espressione di gatto affamato in cerca di preda.

Pagina 478

Melania pregò Mammy di lasciarle abbastanza ritagli di velluto per ricoprire la carcassa del suo cappello ormai logoro e suscitò le risa generali dicendo che il vecchio gallo del pollaio sarebbe costretto ad abbandonare, come guarnizione, la sua bella coda dai riflessi metallici, a meno che non prendesse immediatamente la fuga verso la palude. Rossella, mentre guardava le mani che volavano sul lavoro, udí quel riso e guardò tutti quanti con celata amarezza e disprezzo. «Non hanno l'idea di ciò che sta veramente accadendo a me, a loro, al Sud. Credono ancora, malgrado tutto, che nulla possa veramente accadere a nessuno di loro, perché sono chi sono: gli O'Hara, i Wilkes, gli Hamilton. Anche i negri credono questo. Pazzi! Stolti! Non capiranno mai! E nulla li muterà. Melly può vestire di stracci e raccogliere il cotone e magari aiutarmi ad uccidere un uomo, ma questo non la muta. È ancora la perfetta signora Wilkes! E Ashley, dopo la guerra, le ferite, la prigionia, è lo stesso gentiluomo di una volta, quando possedeva le Dodici Querce. Will è diverso. Egli comprende come le cose sono realmente; ma non ha mai avuto molto da perdere. Quanto a Súsele e Carolene... credono che si tratti di cosa temporanea. Sono convinte che Dio farà un miracolo, specialmente a loro beneficio. Ma Egli non lo farà. Il solo miracolo sarà quello che io vado a tentare con Rhett Butler... Essi non possono cambiare. Io sono la sola veramente mutata... e se avessi potuto farne a meno, ne sarei ben contenta.» Finalmente Mammy mandò gli uomini fuori dalla sala da pranzo, per poter cominciare le prove. Pork aiutò Geraldo a salire le scale per condurlo a letto, e Ashley e Will rimasero soli nel vestibolo illuminato da una lanterna. Tacquero per un poco: Will masticava il suo tabacco come un placido ruminante, ma il suo volto era tutt'altro che placido. - Non mi piace - disse finalmente con voce sommessa - questa gita ad Atlanta. Non mi piace neanche un poco. Ashley lo guardò; poi volse rapidamente lo sguardo altrove chiedendosi se Will nutriva lo stesso tremendo sospetto che lo tormentava. Ma era impossibile. Will ignorava ciò che era avvenuto nel frutteto in quel pomeriggio e la disperazione di Rossella. Né poteva aver notato il viso di Mammy quando era stato pronunciato il nome di Rhett Butler; d'altronde, Will non sapeva che Butler aveva del denaro e ignorava la cattiva reputazione di colui. Per lo meno, Ashley era convinto che Will non fosse al corrente di queste cose; ma dal suo ritorno a Tara si era accorto che quell'uomo, come Mammy, sapeva tante cose senza che alcuno glie le dicesse; sovente le intuiva prima che avvenissero. Ora nell'aria era una minaccia che Ashley non avrebbe saputo definire, ma da cui sapeva di non poter salvare Rossella. In tutta la sera i loro occhi non si erano mai incontrati, e la brillante gaiezza con la quale essa lo aveva trattato lo spaventava. Il sospetto che lo lacerava era troppo atroce per essere formulato in parole. Né aveva egli il diritto d'insultarla chiedendole se vi fosse fondamento di verità. Strinse i pugni. Non aveva alcun diritto su ciò che riguardava lei; in quel pomeriggio aveva rinunciato per sempre. E nessuno poteva aiutarla. Ma in quell'attimo il ricordo di Mammy e della sua espressione decisa mentre tagliava il velluto, lo risollevò alquanto. Mammy sorveglierebbe Rossella, che questa lo volesse o no. «Tutta colpa mia» pensò con disperazione. «Sono io che l'ho condotta a questo punto.» Ricordò come ella aveva irrigidito le spalle quando si era allontanata e come aveva sollevato la testa. Si sentí struggere il cuore per la propria inettitudine, e provò contemporaneamente un senso di ammirazione. Sapeva che nel vocabolario di lei non esisteva la parola «coraggio»; e sapeva che ella lo avrebbe fissato stupita se egli le avesse detto che era l'anima piú intrepida che avesse mai conosciuto. Sapeva che essa prendeva la vita come veniva, opponendo il suo forte spirito a qualsiasi ostacolo si presentasse, lottando con una decisione che non ammetteva sconfitta, e continuando a combattere, anche quando vedeva che la sconfitta era inevitabile. Ma per quattro anni egli aveva visto altri che avevano rifiutato di ammettere la sconfitta; uomini che avevano gaiamente affrontato il futuro disastro, perché erano intrepidi e coraggiosi. Ed erano stati ugualmente sconfitti. Mentre fissava Will nel vestibolo poco illuminato, Ashley pensò che non aveva mai conosciuto una intrepidezza pari a quella di Rossella O'Hara che partiva alla conquista del mondo avvolta nelle tende di velluto di sua madre e adorna con le penne della coda di un galletto.

Pagina 550

Il romanzo della bambola

222207
Contessa Lara 3 occorrenze
  • 1896
  • Ulrico Hoepli editore libraio
  • Milano
  • paraletteratura - romanzi
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Si deve abbandonare ogni idealità pretensiosa, e sopratutto la fissazione di fare una parte principale nella vita. Ciascuno, si sa, è necessario: altrimenti Dio non lo avrebbe posto al mondo; ma egli è un sassolino, niente altro che un umile sassolino, nell'immenso, meraviglioso edifizio che si va costruendo da secoli e secoli con pietre tutte eguali, benchè qualcuna sembri grande e qualche altra piccina. A poco a poco, nel cervello di cartone del burattino le memorie del suo tumultuoso passato si confondevano come un sogno di cui le immagini si cancellano insensibilmente; e tutti i trionfali successi ottenuti su le scene di tanti paesi diversi, paesi non veduti da lui nè da' suoi compagni, viaggianti entro un bussolotto, erano ormai echi cosi deboli ch'egli non li udiva più nemmanco come un lontano mormorio. Bisogna dire che il vivere insieme alla Giulia, stanca, disgustata lei pure di fittizi piaceri e vuote soddisfazioni di vanità, avea contribuito non poco, fino da quando stavano nella soffitta del rigattiere, a correggere le tendenze vagabonde e battagliere d'Orlando; ora, poi, il soggiorno dei campi faceva il resto. - Vedi un po' come si sta benino, tra questa buona gente! - osservava la Giulia, con la sua vocina misteriosa, che solo Orlando, di quanti le stavano intorno, udiva. Una ottava piena di serenità e di quiete intima le rispondeva:

Pagina 109

Allora principiò per l'infelice pupattola il martirio di sentirsi divorar lentamente il povero piccolo piede, senza poterlo ritirare, anzi, dovendolo abbandonare inerte, come cosa morta. Le sembrava che, insieme al piede, la bestia le dilaniasse il cuore, la testa, ogni nervo del corpicino. Perchè, perchè non veniva ora la sua Marietta a strapparla di lì, a salvarla? Nessuno! Nessuno si ricordava piú di lei, rifiutata, buttata via senza pietà, come un impiccio, come un limone spremuto. Dal buco fatto nella pelle fina del roseo pieduccio, una ferita orrenda, la segatura scorreva, e ne' sussulti impressi dal topo nel roderla, si vuotava parte della gambina; che rimase poi lì con la sua pelle floscia, cadente, quando l'animale si fu ben impinzato e volle mutar cibo. Fuori, l'inverno era finito, e la primavera, con le sue magnifiche giornate, già tiepide e odorose di fiori, invitava a lasciar la città per i semplici divertimenti all'aria aperta della bella campagna. Anche per i signori de' Rivani era prossima la partenza; e già si facevano in casa tutti i preparativi. Il Moro era stato il primo a esser nominato dalla Marietta tra le cose da portare con sé. Con lui ella avrebbe fatto chi sa quante galoppate allegre per il bosco, sotto gli alberi, dove anche a mezzogiorno c'è ombra. Si trattava di condurlo perfino ai bagni di Viareggio; per le gite lungo la spiaggia e le colazioni nella pineta, dove tutte le sue amiche e più ancòra le bambine conosciute colà l'avrebbero invidiata. Innanzi di lasciare Roma per tutti i mesi della villeggiatura, la signora de' Rivani soleva fare una distribuzione degli oggetti usati di vestiario alle sue persone di servizio e a' suoi poveri; ma prima che agli altri alla famiglia della propria sorella, signora Amalia Cerchi, mamma di Camilla: una signora che, come abbiamo detto, s'era maritata male ed era poco felice. Alla signora Amalia e a Camilla, dunque, venivano, quasi di diritto, gli oggetti migliori fra quelli scartati; e si dava loro anche roba addirittura nuova perchè non si mortificassero. Quell'anno, poi, c'era un monte di vestiti, di sottane, di mantelletti, una sfilata di cappelli, e scatole di guanti, e cassette di scarpe; più regali del solito, perchè anche il signor Giovanni aveva inzeppato il guardaroba al suo ritorno da Milano. Nella stanza degli armadi, davanti agli sportelli spalancati, stavano la signora de' Rivani con la signora Amalia e le due cuginette: la Marietta e Camilla. Nessuna persona di servizio assisteva a quella scelta, per non offendere la miseria della signora Cerchi. - Questo non lo prendo, sai - diceva la signora Amalia alla sorella, tenendo in mano un abitino di velluto - perchè per Camilla è troppo bello. - No, anzi, prendilo; l'ho messo da parte proprio per lei - insisteva la madre della Marietta.

Pagina 35

Pagina 67

Caracciolo De' Principi di Fiorino, Enrichetta

222703
Misteri del chiostro napoletano 2 occorrenze
  • 1864
  • G. Barbèra
  • Firenze
  • Paraletteratura - Romanzi
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Carlo Alberto, sconfitto presso Novara dall'Austriaco, era costretto ad abdicare ed abbandonare l'Italia. La corte pontificia, da tale disfatta incoraggita, invocava da Gaeta, per essere ristaurata in Roma, le armi degli Stati cattolici, e già si accingevano in suo soccorso l'Austria, la Spagna e la repubblica francese. In Toscana veniva ristabilito il dominio granducale per una sollevazione popolare in favor dell'antico regime, mentre Venezia, abbandonata a sè sola, e Roma strettamente assediata, lottavano: questa contro i Francesi, quella contro gli Austriaci, con sforzi eroici di prodezza. Benchè profondamente afflitta dalle infelici condizioni dell'Italia, non perdetti di vista la speranza di finirla coll'Ordine benedettino. Da me pregata, mia madre portossi a Gaeta all'incontro di Pio IX, con una supplica, nella quale io chiedeva al pontefice l'atto di secolarizzazione, coll'impegno di rimanere vincolata a' voti, non altrimenti che come semplice canonichessa. E perchè le monache di San Gregorio avevano mosso lite per indennizzazione a quel mio parente, che simulato aveva nel tempo della professione d'essermi debitore di ducati mille, io implorava inoltre dal pontefice d'esser dichiarata immune da tale ingiusta esigenza. Pio IX parve commosso alle istanze di mia madre, alle preci delle mie sorelline. Si volse attorno per vedere se nella stanza vi fosse l'occorrente da scrivere, e non avendovelo trovato, disse alla mia famiglia di ritornare dopo due giorni. Intanto il mio acerrimo persecutore, l'arcivescovo e cardinale, informatosi di queste pratiche, partiva premurosamente da Napoli alla volta di Gaeta, e vi giungeva l'indomani dell'arrivo di mia madre, latore di quella lettera famosa, da me indirizzata al papa sotto la salvaguardia della confessione, e da lui intercettata e aperta. Mia madre tornando dal pontefice lo trovò cambiato. "Signora," le disse con gravità, "fate che vostra figlia si contenti di quello che ha ottenuto finora; chi troppo vuole, niente ha. Ella vorrebbe mutar abito e condizione: non possiamo consentirvi. Che direbbero, che farebbero le altre monache, vincolate nella medesima sua condizione? Avevamo dimenticato il suo nome l'altr'ieri: ce l'ha rammentato il cardinale Riario, ed oggi stesso abbiamo letta una carta, ch'essa cindirizzava due anni fa." Era evidente, che, come quelle della povera Italia, le mie sorti andavano in rovina. Un mese dopo mi veniva dal Riario partecipato un Breve pontificio, per cui Pio IX mi concedeva la grazia di starmene stabilmente in conservatorio, sotto condizione di clausura: potendo però uscirne l'estate per i bagni di mare, purchè i medici li avessero ordinati, e di più che fosse piaciuto all'arcivescovo di permetterli. Quanto poi alla lite mossa dalle monache, ordinava ch'io dovessi versare alla cassa di San Gregorio ducati mille, e che da quel monastero percepissi, vita durante, un assegnamento mensile, proporzionato alla somma da me versata. Insino allora aveva ricevuto pel mio mantenimento ducati 14 e mezzo; da quel momento non mi vidi più consegnare che una polizzetta mensile di ducati sei, a titolo d'alimento mio, e della conversa. - Carità e munificenza fratesca! Alla necessità non resistono neanche gli Dei. Giuocoforza mi fu ristringere il vitto ad una sola pietanza, ed assuefare il palato al pane nero. Ciò dovei fare, mentre, di porpora decorato, l'autore della mia indigenza dava pranzi sontuosi a' parassiti papassi, suoi colleghi, che, da Roma trafugati, rifluivano presso i Borboni, affine di seco loro consultarsi intorno a' mezzi di ribadire più sicuramente i ferri al popolo d'Italia. Venne Pio IX in Napoli, tramutato di luogo, come di colore e di sentimenti. Sebbene uscissi spesso, reputai superfluo, anzi pericoloso, il disegno di ricorrere nuovamente alla sua misericordia. Egli, che chiudeva l'orecchio a' gemiti della sua patria, per quale supremo privilegio l'avrebbe aperto alle lamentazioni d'una povera monaca? E fiancheggiato qual era da un Ferdinando II, da un Riario, come poteva, poniamo pure che avesse voluto, dar ascolto ai miei lamenti? Il solo fanatismo della infima plebe napoletana sorreggeva ancora nel vacillante seggio que' due volgari nemici di ogni bene. E il re di Roma, debole di cuore, più debole di mente, assetato di popolarità, incapace di acquistarla durevolmente, metteva la barca sdrucita della povera Chiesa a rimorchio della loro galera. Una sera, mentre sull'imbrunire io mi ritirava, la Polizia vietò alla carrozza ov'io era di traversare la piazza delle Pigne. Ritrovandosi il Santo Padre nel Museo delle antichità pagane, Ove il principe reale gli faceva da cicerone, non sarebbesi potuto aprire un varco nella folla, senza far calpestare dai cavalli la gente. Mi convenne, voltando strada, fare un lunghissimo giro, scendere per la Vicaria e risalire per San Pietro a Majella. Quest'involontario ritardo eccitò la rabbia dell'idrofoba portinaia del conservatorio, la quale con quegli occhi biechi e sanguigni, che mi facevano rizzare i capelli in capo dalla paura, mi disse: "Se un altr'anno avremo la disgrazia di tenervi con noi, affè di Dio che non metterete più il piede fuori di questa porta!" E così dicendo, alzava minaccioso l'indice in aria, a guisa di maestro di cappella. Prima di partir da Napoli, volle il papa visitare uno ad uno tutti i monasteri di clausura. Quando toccò al monastero di San Giovanni, le suore di Costantinopoli manifestarono a quelle religiose il desiderio di vedere la persona del pontefice in un luogo, che, per la vicinanza dei due monasteri, a ciò si prestava. Salito adunque il papa sopra una certa terrazza, benedisse complessivamente tutto il gregge a lui dintorno. Non so chi m'accennasse all'attenzione sua. Fissò egli lo sguardo sopra di me, e disse: "Una benedizione particolare alla monaca claustrale!" Ed alzata la destra, mise la parola in effetto. Quell'atto non mi recò alcun conforto. Io m'augurava salute, tranquillità, ed emancipazione dall'ignobile servaggio. - Ora, quali di questi beni mi recava quella benedizione? Da lì a pochi giorni Pio IX ritornava in Roma, lieto quanto quel suo predecessore, che alla caduta di Rienzo ritornava vescovo e signore nell'Eterna Città. Il cardinale colse il momento per infierire contro di me. Mi giunse all'orecchio allora che tutti i rigori della clausura stavano per essermi scaricati addosso; per lo che mi veniva proposto di restituirmi presto al primiero carcere, di rinunziare una volta per sempre a qualsiasi speranza d'affrancamento, di rassegnarmi alla sorte delle altre monache, senza più ruminare ulteriori tentativi: e in compenso di tale atto d'abdicazione, mi si lasciava travedere l'onore d'un badessato, che per un Breve di speciale condonamento, nonostante l'età giovanile, avrei ottenuto. Quanto più attraente di tale prospetto era il pan nero che divideva colla mia buona e fidata Maria Giuseppa! Feci rispondere al porporato, ch'io preferiva soggiornare libera in una capanna, anzichè badessa in un carcere. Come rispose Sua Eminenza? - Mi tolse anche quel magrissimo assegnamento mensile di sei ducati! Me ne rimasi dunque, come i Toscani dicono, nelle secche di Barbería. Di lavori donneschi io ne sapeva un po', e l'Onnipotente, che tempera i venti per l'agnello tosato, non m'aveva privata d'operosità e d'industria. Per non viver d'accatto nel conservatorio, per non essere a carico altrui, avrei dunque preferito di guadagnarmi la vita colle proprie mani. - Ma come si fa ad industriarsi dimorando in casa di nemici, e brancolando nel buio che cuopre l'avvenire? Ad un mio parente che rinfacciava al cardinale quell'accanimento codardo contro una donna, duro come un macigno, costui rispondeva: "La madre è ricca: ci penserà lei." Distesa in quel letto di Procuste; stretta, per meglio dire, fra l'uscio e il muro; destituita al fine dei mezzi di sussistenza, feci ricorso all'energia dell'animo per cercare scampo in una disperata uscita. A mali estremi, rimedi estremi. Una sera, invece di ritirarmi secondo il solito al conservatorio, avvertii per lettera la badessa di voler chiudere la porteria tra vespro e nona, perchè, non volendo mangiare il pane altrui, sarei rimasta in casa mia.

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Ora, a prevenire che là suddetta religiosa trabocchi in guai peggiori, cioè in uno stato di demenza continua, opiniamo di consenso cogli altri nostri colleghi, qui riuniti in consiglio, che debba essa abbandonare il regime claustrale, regime che essenzialmente influisce ad alimentare la narrata morbosità. Questa nostra dichiarazione, giurata in coscienza, e risultante dall'osservazione di circa venti mesi, non peccherebbe che di soverchia concisione, non portando descritte minutamente tutte quante le sofferenze dell'inferma. Napoli, 23 gennaio 1853. Il medico consultante del luogo Dott. PIETRO SABINI. Il medico del luogo Dott. ALESSANDRO PARISI.

Pagina 295

Passa l'amore. Novelle

241451
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1908
  • Fratelli Treves editori
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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E si era tanto divertito, che aveva dovuto abbandonare la costruzione del palazzo, darsi in mano agli strozzini, troncare, di nascosto dagli avvocati e con enorme suo danno, liti che non si potevano perdere, pur di raccapezzare alla lesta, a furia di transatti, i quattrini che gli occorrevano per un viaggio a Napoli, per una apparizione da Cavaliere d'onore alle Corti di Ferdinando I e di Francesco I, per una ballerina dal Bellini di Palermo o del San Carlo di Napoli riducendosi, negli ultimi anni, ad abitare in quel paesetto, in quel palazzo che già rovinava prima di essere finito, dopo aver visto vendere all'asta i due bei palazzi e la loro ricca mobilia - uno in Palermo, l'altro in Catania - che l'avolo di lui s'era fatto fabbricare verso la fine del 1600, ed erano passati intatti di padre in figlio, fino al suo matto pronipote! Per questo la baronessa donna Fidenzia osservava con una specie di terrore tutto quel rimescolìo di cartaccie che teneva occupato suo marito, e si era sentita stringere il cuore alla risposta di lui: - Cento-Salme è nostro, non del marchese di Camutello!

Pagina 93

Documenti umani

244735
Federico De Roberto 1 occorrenze
  • 1889
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
  • verismo
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Il dover suo era di non abbandonare quella donna, suo malgrado! Chi gli diceva, infatti, che il tradimento di cui ella si era creduta vittima, non l'avesse spinta a rappresaglie; che, per colpa di lui, ella non si fosse interamente perduta?... Una specie di rimorso sorgeva allora nell'animo del Landini, un rimorso che era, in fondo, una forma di egoismo: poichè il rimprovero di averla potuta far cadere in braccio ad altri si risolveva nel rammarico di non averla più per sè.... E una grande tenerezza lo vinceva, a poco a poco, pensando a tutto quello che era stato fra di loro, a quel romanzo bruscamente troncato e non finito, così, senza ragione, per quelle assurdità di cui la vita è tanto feconda... Però, in quella lettera improvvisamente pervenutagli, quando egli si era già rassegnato all'assurdo, era la parola che avrebbe tutto spiegato. Egli riconosceva a questo tratto l'indole fiera, appassionata, di quella donna di cui si era fatto un tipo ideale. Si era creduta offesa, e nulla era valso a piegarla; ora, dopo l'espiazione di tanti anni, ora soltanto, ella veniva ancora a lui!... Che cosa gli avrebbe detto? Come avrebbe ridestata la memoria di quel passato? Quali dolci, quali armoniose, quali poetiche parole avrebbe adoperate per ricordare tanta dolcezza, tanta armonia, tanta poesia?... Alla luce improvvisa della lampada che il servo reggeva affacciandosi all'uscio, il Landini si accorse che era già notte fatta. - Si sente male, signore?... - chiedeva timidamente la persona di servizio. - No, no; lasciate qui il lume. - Il signore non desina dunque quest'oggi? - Fate apparecchiare... mi avvertirete... E appena rimasto solo, avvicinatosi alla lampada, egli dischiuse accuratamente la busta, con mano un poco tremante. Ne cavò una carta ricoperta sulle quattro facciate da una fitta scrittura, e un foglietto dello stesso gusto della busta. Il Landini vi cercò l'intestazione; non ve n'era. La lettera diceva così: "Voi sarete molto sorpreso di ricevere la presente, e vi troverete certamente costretto di correre alla firma per conoscerne la provenienza!... Il tempo ha le ali, e col tempo la forma della nostra scrittura si modifica, da rendersi irriconoscibile! Il nostro modo stesso di pensare si trasforma; ed è per questo che io sono stata, e sono ancora in forse di scrivervi, supponendo che ciò possa non farvi il piacere di una volta! "Vorrete quindi perdonarmi se, facendo appello alla vostra amicizia, che suppongo inalterata, vengo ad importunarvi per chiedervi se posso firmare l'acclusa transazione, desiderando conoscere a quali conseguenze andrei incontro per tale atto. In una quistione d'interessi che si trattano fra parenti conviventi nella stessa casa, non potendo dimostrarmi diffidente a viso aperto, io che non m'intendo di affari, non ho voluto impegnarmi prima d'aver sentito il parere di una persona su cui si può contare. "Accettate, non è vero? Domani mi farete avere una risposta? Sarei venuta personalmente, se non avessi temuto di disturbarvi ancora di più che con la presente. Il passato non ci è sempre gradito; lo comprendo anch'io! La vita ha le sue esigenze; ed io non sono così ingenua o così presuntuosa, da supporre che in questi dieci anni voi abbiate potuto pensare a quello che fummo. So, del resto, che vi siete divertito; e chissà quante altre imagini si saranno sovrapposte a quella che io ho temuto di ripresentarvi dinanzi! Guardate: divento indiscreta!! Perdonatemi anche questo e vogliate credermi a ogni modo, con rinnovate scuse ed anticipati ringraziamenti, cordialmente vostra: Anna Solari. - Fiesole, lunedì." Il servo stava di nuovo sull'uscio, interdetto, chiedendosi se il suo padrone non fosse ammattito, perchè all'annunzio che la zuppa era in tavola, lo aveva guardato con occhi stralunati, come uno cascato dalle nuvole. - È in tavola?... Va bene, va bene.... Sul punto di passare di là, Carlo Landlni si stropicciava gli occhi. Credeva di aver sognato, tanto quella lettera era incredibile, tanto egli era rimasto male! Che grossolana illusione era stata la sua!... Gli anni erano davvero passati, se quella donna era così mutata, se scriveva di quelle lettere, se domandava una consultazione legale, - a lui! - se profanava il ricordo del loro amore con quella freddezza studiata, con quel tono di filosofica rassegnazione, con quelle allusioni indiscrete... E non un accenno alla enimmatica rottura che lo aveva mortalmente ferito; non una spiegazione - nè data, nè chiesta!... E diceva di temere che egli non avrebbe riconosciuto il carattere di lei, mentre, appena scorta la lettera, gli era mancato il respiro! E diceva di sapere che egli si era divertito, mentre quell'imagine gli era stata sempre inchiodata nel cuore, come un rimpianto, come un rimorso, come l'aspirazione di tutta la sua vita!... Ma, dunque, era realmente mutata quella donna, o era stata sempre ad un modo e soltanto la sua fantasia di innamorato ne aveva fatto un ideale?... Carlo Landini scrollò le spalle, sedendo a tavola. Il suo romanzo era finito, definitivamente; e quella lettera ne rappresentava l'epilogo prosaico e volgare. - Un romanziere non avrebbe nessun partito da trarne! - si diceva egli mentalmente, e non pensava che i romanzi veri, i romanzi fatti nella vita e non ideati per amore dell'arte, finiscono quasi sempre così.

Pagina 307

Il ritorno del figlio. La bambina rubata.

245492
Grazia Deledda 1 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Verismo
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Infatti la porticina del corridoio era aperta, con un barlume di luce in fondo: io picchiai, senza abbandonare il mantello dell'uomo, che sembrava un po' impaurito ma non cercava di allontanarsi; e subito riapparve iI vecchio: ci venne incontro, disse qualche cosa. Qualche cosa che doveva essere molto rassicurante perchè il nano non esitò ad aprire il suo mantello e a dare al vecchio un involto bianco.... Mi ritrovai solo nella strada, appoggiato al muro della casa del mio creditore. Mi pare che piangessi. Non so, ero tutto agitato; mi pareva di dovermi spaccare e cadere a pezzi per terra.

Pagina 184

Il romanzo della bambola

245688
Contessa Lara 3 occorrenze
  • 1896
  • Ulrico Hoepli editore libraio
  • Milano
  • Verismo
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Si deve abbandonare ogni idealità pretensiosa, e sopratutto la fissazione di fare una parte principale nella vita. Ciascuno, si sa, è necessario: altrimenti Dio non lo avrebbe posto al mondo; ma egli è un sassolino, niente altro che un umile sassolino, nell'immenso, meraviglioso edifizio che si va costruendo da secoli e secoli con pietre tutte eguali, benchè qualcuna sembri grande e qualche altra piccina. A poco a poco, nel cervello di cartone del burattino le memorie del suo tumultuoso passato si confondevano come un sogno di cui le immagini si cancellano insensibilmente; e tutti i trionfali successi ottenuti su le scene di tanti paesi diversi, paesi non veduti da lui nè da' suoi compagni, viaggianti entro un bussolotto, erano ormai echi cosi deboli ch'egli non li udiva più nemmanco come un lontano mormorio. Bisogna dire che il vivere insieme alla Giulia, stanca, disgustata lei pure di fittizi piaceri e vuote soddisfazioni di vanità, avea contribuito non poco, fino da quando stavano nella soffitta del rigattiere, a correggere le tendenze vagabonde e battagliere d'Orlando; ora, poi, il soggiorno dei campi faceva il resto. - Vedi un po' come si sta benino, tra questa buona gente! - osservava la Giulia, con la sua vocina misteriosa, che solo Orlando, di quanti le stavano intorno, udiva. Una ottava piena di serenità e di quiete intima le rispondeva:

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Allora principiò per l'infelice pupattola il martirio di sentirsi divorar lentamente il povero piccolo piede, senza poterlo ritirare, anzi, dovendolo abbandonare inerte, come cosa morta. Le sembrava che, insieme al piede, la bestia le dilaniasse il cuore, la testa, ogni nervo del corpicino. Perchè, perchè non veniva ora la sua Marietta a strapparla di lì, a salvarla? Nessuno! Nessuno si ricordava piú di lei, rifiutata, buttata via senza pietà, come un impiccio, come un limone spremuto. Dal buco fatto nella pelle fina del roseo pieduccio, una ferita orrenda, la segatura scorreva, e ne' sussulti impressi dal topo nel roderla, si vuotava parte della gambina; che rimase poi lì con la sua pelle floscia, cadente, quando l'animale si fu ben impinzato e volle mutar cibo. Fuori, l'inverno era finito, e la primavera, con le sue magnifiche giornate, già tiepide e odorose di fiori, invitava a lasciar la città per i semplici divertimenti all'aria aperta della bella campagna. Anche per i signori de' Rivani era prossima la partenza; e già si facevano in casa tutti i preparativi. Il Moro era stato il primo a esser nominato dalla Marietta tra le cose da portare con sé. Con lui ella avrebbe fatto chi sa quante galoppate allegre per il bosco, sotto gli alberi, dove anche a mezzogiorno c'è ombra. Si trattava di condurlo perfino ai bagni di Viareggio; per le gite lungo la spiaggia e le colazioni nella pineta, dove tutte le sue amiche e più ancòra le bambine conosciute colà l'avrebbero invidiata. Innanzi di lasciare Roma per tutti i mesi della villeggiatura, la signora de' Rivani soleva fare una distribuzione degli oggetti usati di vestiario alle sue persone di servizio e a' suoi poveri; ma prima che agli altri alla famiglia della propria sorella, signora Amalia Cerchi, mamma di Camilla: una signora che, come abbiamo detto, s'era maritata male ed era poco felice. Alla signora Amalia e a Camilla, dunque, venivano, quasi di diritto, gli oggetti migliori fra quelli scartati; e si dava loro anche roba addirittura nuova perchè non si mortificassero. Quell'anno, poi, c'era un monte di vestiti, di sottane, di mantelletti, una sfilata di cappelli, e scatole di guanti, e cassette di scarpe; più regali del solito, perchè anche il signor Giovanni aveva inzeppato il guardaroba al suo ritorno da Milano. Nella stanza degli armadi, davanti agli sportelli spalancati, stavano la signora de' Rivani con la signora Amalia e le due cuginette: la Marietta e Camilla. Nessuna persona di servizio assisteva a quella scelta, per non offendere la miseria della signora Cerchi. - Questo non lo prendo, sai - diceva la signora Amalia alla sorella, tenendo in mano un abitino di velluto - perchè per Camilla è troppo bello. - No, anzi, prendilo; l'ho messo da parte proprio per lei - insisteva la madre della Marietta.

Pagina 35

Pagina 67

Una peccatrice

249927
Giovanni Verga 1 occorrenze
  • 1866
  • Augusto Federico Negro
  • Torino
  • Verismo
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Tutt'a un tratto Raimondo corse al pianoforte, come cedendo ad un'ultima e subitanea ispirazione; lo strascinò sulle sue carrucole sino al canapè dov'era sdraiata l'agonizzante; sollevò questa fra le sue braccia, perchè le braccia di lei potessero ancora circondare il collo di Pietro che non volevano abbandonare; e disse a Brusio che sembrava istupidito: - Non c'è più che un miracolo che possa prevenire la coma, che possa salvarla: bisogna prolungare questo delirio per dare il tempo di operare all'infuso di caffè... Suonale quello che vuole... Ci son dei casi in cui la scienza bisogna che ricorra all'arte o al caso. Pietro cominciò a suonare quel valtzer allegro e brillante, di cui le note acquistavano la più triste inflessione sotto i suoi diti increspati e tremanti, e che strillavano sinistramente in mezzo al funereo silenzio di quella stanza. Due o tre volte le labbra di Narcisa sorrisero; i suoi lineamenti perdettero la loro rigida alterazione per esprimere il piacere più intenso che quel suono certamente le procurava o che determinava i sogni deliziosi del suo delirio... Ella stringeva più fortemente, sebbene con moto convulso, quella testa che abbracciava; e qualche volta i suoi labbri si agitarono come per baciare; e il sui capo si avanzava tentoni come se avesse voluto incontrare quello di lui;... e la sua pupilla appannata, vitrea, fissa, ebbe un lampo, un raggio di uno sguardo in cui balenava tutto l'ineffabile amore che l'agonia non poteva assopire in quel cuore. - Oh! Pietro! Pietro!... ti vedo!! - gridò esultante; con un accento indescrivibile che avea più dell'urlo dello spasimo che del trasporto della gioia; - m'ami?!... m'ami tu?!!!... E si rovesciò assieme a lui sul canapè vincendo, con uno sforzo disperato, miracoloso, la difficoltà di proferire, il torpore della mente, l'inerzia delle forze, l'agonia insomma. - Pietro m'ami ancora?! - Sì! sì! t'adoro!...- singhiozzò egli tentando inumidire l'aridità di quella pelle coll'umido dei suoi labbri, di scacciare il torpore di quelle membra, la pesantezza di quelle palpebre coll'impeto dei suoi baci; cercando trasfondere la vita che sentiva rigogliosa, giovane, potente in lui, nel soffio che alitava fra le labbra di lei violacee, semiaperte e convulse. - E non me lo dici perchè hai pietà di me?... e non me lo dici perchè io muoio?!... - seguitò ella aggrappandosi al suo collo, nelle convulsioni dell'agonia, con quel moto incerto e straziante del volto e delle labbra che cercavano il volto di lui per baciarlo. - Oh, no!... non ti ho mai amato come t'amo!... Narcisa!... Narcisa!... non mi abbandonare!... - Grazie!... grazie!... - mormorò la moribonda con un anelito interrotto che la stentata respirazione soffocava nella sua gola; - grazie!... oh! la vita!..., dottore, fatemi vivere... egli mi ama!!... io non voglio morire!!! - finì con accento straziante. E non potè più proferire, quantunque agitasse ancora penosamente le labbra, e alcuni suoni rochi e interrotti scappassero dalla sua gola arida. Ella rimase come profondamente assopita; riscossa di tratto in tratto da sussulti convulsivi: rivelando mille impressioni, ora deliziose ora tristi, nella mutabile espressione dei suoi lineamenti, in cui l'occhio soltanto, colla sua larga e lucida fissazione faceva prevedere la morte. Era orribile a vedersi la rapida decomposizione di quella fisonomia. Finalmente sopraggiunse il sonno. Pietro rimaneva, com'ella l'aveva attirato rovesciandolo nella sua caduta, ancora avvinchiato a quel corpo per tre quarti cadavere, e che aveva tuttavia i suoi ultimi moti convulsivi, gli estremi sforzi dei suoi rantoli, la disperata tensione della pupilla per lui; egli era come affascinato da quell'orribile spettacolo che impietrava le lagrime nel suo occhio ardente e dilatato quasi al pari di quello di lei. - Ma parti, disgraziato! - gli gridò Raimondo tentando strapparlo a quell'amplesso di morte; - non vedi che ciò ti uccide!... Pietro non rispose, e abbracciò più strettamente quel corpo inerte; in cui gli parve sentire un ultimo sussulto al suo abbraccio; mentre le mani gli parvero lo stringessero più tenacemente, come per ringraziarlo e non lasciarlo. Quell'agonia fu lunga, penosa, orrenda. A pena il medico, colla mano sul petto di lei a numerare i battiti del cuore, potè discernere il punto in cui il sonno del veleno si mischiò al sonno della morte. Pietro rimase istupidito come un pazzo; per un mese intiero. Il secondo rivide sua madre; poi gli amici. Un anno dopo ricomparve in società... Chi sa quante volte al giorno pensa a quest'ora a Narcisa, la donna ch'è morta d'amore per lui?!... Le splendide promesse del suo ingegno, che l'amore di un giorno aveva elevato sino al genio nella sua anima fervente, erano cadute con quest'amore istesso. Pietro Brusio è meno di una mediocrità, che strascina la vita nel suo paese natale rimando qualche sterile verso per gli onomastici dei suoi parenti, e dissipando il più allegramente possibile lo scarso suo patrimonio. Misteri del cuore!

Pagina 223