Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandona

Numero di risultati: 97 in 2 pagine

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La fatica

169085
Mosso, Angelo 2 occorrenze
  • 1892
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
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La quaglia, è un animale poco socievole, che vive gran parte della vita isolato: neppure all' epoca degli amori mostra desiderio della famiglia, perchè il maschio abbandona la femmina appena essa comincia a covare. Non viaggiano a stormi come le rondini e le anatre, ma ciascuna da sè si mette in viaggio senza curarsi delle altre. Quando un vento forte le osteggia nel mare, resistono fino a che possono; poi quando non ne possono più, si lasciano andare in sua balìa e finiscono col cadere come prive di sensi sugli scogli o sulla coperta dei bastimenti che incontrano. Queste traversìe le mettono, come dice Brehm BREHM. La vita degli animali - Uccelli. Vol. IV, pag. 414., in tanta paura e confusione che, anche dopo cessata la burrasca e ristabilitosi il vento favorevole, restano ancora immobili per più giorni sul luogo dove si posarono, prima di risolversi a continuare il viaggio. Se una burrasca non le sorprende, le quaglie attraversano il Mediterraneo senza grande fatica: e spesso accade che cambiando il tempo e non potendo arrivare le altre che sono per via, mentre quelle prime seguitano il loro cammino, il cacciatore trova vuoto di quaglie il terreno dove aspettava di trovarne in abbondanza. Non ne ho vista alcuna, che, dopo arrivata, ritentasse nuovamente il volo, per posarsi più lontano sopra una delle collinette circostanti. Brehm descrisse l'arrivo delle quaglie nell'Africa. "Stando sopra un punto della costa nord dell'Africa ad osservare durante il tempo della vera migrazione delle quaglie, si può essere sovente spettatori del loro arrivo. Si scorge una nuvola scura, bassa, aleggiante al disopra delle onde, che rapidamente si avvicina, nello stesso tempo che va sempre abbassandosi, ed immediatamente dopo precipita al suolo sul margine estremo dell'onda del flusso la massa delle quaglie mortalmente stanche. Qui le povere creature giacciono da principio alcuni minuti come sbalordite e quasi incapaci di inuoversi: ma questo stato cessa in breve. Comincia a manifestarsi un movimento: una delle arrivate dà principio e tosto saltella e corre affrettatamente sulla nuda sabbia cercando il luogo più adatto per nascondersi. Passa un tempo considerevole prima che una quaglia si decida a mettere nuovamente in esercizio gli spossati muscoli del petto: di regola generale ciascuna cerca la sua salvezza nel correre, non alzandosi a volo, nei primi giorni dopo l'arrivo, che per necessità inesorabile. Per me non v'ha dubbio alcuno che, dal momento in cui lo stuolo ha nuovamente sotto di sè la terraferma, compie correndo la massima parte del viaggio che gli rimane"Opera citata, pag. 414.. Il De Filippi racconta di aver veduto delle colombe posarsi in alto mare colle ali aperte sulle onde; e per questi uccelli deve essere un segno di insuperabile stanchezza. Brehm dice aver inteso da marinai degni di fede che anche la quaglia in caso di straordinaria stanchezza si posa sulle onde, vi si riposa per qualche tempo, indi s'alza nuovamente a volo e va oltre. Non so più in che libro io abbia letto che qualcuno vide in alto mare degli uccelli, tra i volatori più forti, che avevano sulla schiena qualche uccello piccolo il quale facevasi portare e che a questo modo aveva trovato nella disperazione la salvezza. Una memoria antichissima della stanchezza delle quaglie l'abbiamo nella sacra Bibbia dove nell'Esodo si racconta come gli Israeliti si nutrirono di quaglie nel deserto. La facilità colla quale si lasciavano prendere dimostra che erano esauste dal viaggio. Vi sono degli uccelli che ad ogni primavera fanno più di quindicimila chilometri per andare dall' Africa australe, dalla Polinesia e dall'Australia fino alle regioni polari; e nell'autunno rifanno indietro il medesimo viaggio per ritornare alle loro stazioni d'inverno. Il rondone compie ogni anno il viaggio dal Capo Nord al Capo di Buona Speranza, e viceversa. Le emigrazioni delle gru e delle cicogne le vediamo ripetersi ogni anno. Ma come si orientino a traverso i monti e nel mare, come dall'Africa le cicogne e le rondini tornino al loro antico nido, come siasi sviluppato l'istinto che le guida, non sappiamo ancora. In questi ultimi anni si sono scritti libri assai pregevoli su questo argomento: citerò quelli di PalmènI. A. PALMÉN; Ueber die Zugstrassen der Vögel, 1876, Leipzig., di Weismann WEISMANN, Ueber das Wandern der Vögel. Berlin, 1878., e di Seebohm SEEBOHM,The geographical distribution of the Charadriidoe.. Ora non si contentano più gli ornitologi, contemplando gli uccelli che passano per l'aria, di dire che si tratta di un istinto mirabile. Anche su quest'argornento sono cominciati gli studi analitici. Palmèn dimostrò che gli individui più vecchi e più forti guidano le schiere migratrici, e che la maggior parte degli uccelli che fuorviano e si perdono per strada, sono individui giovani dell'ultima covata, o madri che si fermano e deviano per cercare i figli smarriti. Difficilmente i maschi adulti, se non sono sbattuti da una tempesta, perdono la strada. Palmèn ha pubblicato una carta delle grandi vie delle emigrazioni. I termini miliari di queste lunghe strade sono certi luoghi, dove gli uccelli possono riposarsi e trovare nutrimento abbondante.Palmén dice che sarebbe mancar di criterio l'ammettere che gli uccelli escano dall'uovo portando innata la conoscenza di questi luoghi. L'istinto che posseggono gli uccelli ha bisogno di essere educato. Appena escono dal nido cominciano a studiare lo spazio che li circonda, poi si allontanano in cerca del cibo e la foga del volare li spinge lontano quanto loro serve la memoria. Così sviluppasi rapidamente in essi il senso dei luoghi e della direzione. Quando giunge l'autunno si lanciano intrepidi verso i paesi del mezzogiorno; e, se un uccello nato in quell'anno è così irrequieto che non aspetta i genitori, può riuscire a trovare una via che lo conduca al suo scopo, ma il più delle volte soccombe. E perciò che generalmente viaggiano in stormi e in grandi comitive.Così imparano dai vecchi a conoscere gli accidenti del terreno, i monti, i fiumi e le valli, che sono le grandi vie maestre delle emigrazioni. Ciò che a noi sembra un istinto meraviglioso e cieco sarebbe una conoscenza dei luoghi, che le generazioni degli uccelli si tramandano come una tradizione.

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Fisiologia del piacere

170490
Mantegazza, Paolo 3 occorrenze
  • 1954
  • Bietti
  • Milano
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I fiori più splendidi e più profumati dell'amore si colgono nella giovinezza, quando ci si abbandona alla prima passione col cuore vergine e coi tesori del sentimento ancora incorrotti. Si ama in tutti i paesi e in tutti i tempi; ma credo che la civiltà abbellisca queste gioie di molti delicati ornamenti, ed è innegabile l'influenza che esercitano su questi piaceri le diverse condizioni sociali. Tutti possono nella vita passare qualche istante di piacere con una persona di sesso diverso, ma non tutti possono amare. Per provare questa passione in tutta la sua perfezione fisiologica bisogna avere nel cuore un certo materiale di forza e di fuoco che non tutti posseggono. Per godere le maggiori gioie di questo sentimento bisogna prenderlo a grandi dosi alla volta. La donna e i più generosi amatori tracannano quasi sempre la tazza dell'amore in un sol fiato, sicchè non possono inebbriarsi che una sola volta nella vita; e se amano ancora, non è che spandendo sopra qualche creatura le ultime stille di affetto rimaste nel fondo del calice. Alcuni altri, invece, sono per natura tanto spilorci, che libano sempre a sorsi e a centellini. Questi usurai dell'amore dicono di essere stati innamorati centinaia di volte, e negli archivi polverosi delle loro memorie conservano pacchi di letterine profumate e spasimanti, ciocche di capelli e residui di fiori secchi. Essi però non hanno mai amato. La natura non concede che una sola tazza del nettare dell'amore, e per inebbriarsi bisogna vuotarla di un sorso. Chi mostra di bevervi continuamente, o finge o fa da barattiere, diluendo coll'acqua il santo liquore. Vi sono però alcuni genii o mostri del cuore, che sanno mare più volte e sempre più caldamente, ma sono vere eccezioni.

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Si può bere, mangiare, e provare qualche gioia tattile per la semplice ragione di procurarci un piacere; ma quando si beve un buon bicchier di vino, o si prende un gelato, o ci si abbandona a una gioia nella quale si inganna e si tradisce la natura, non si giuoca. Quanta filosofia in questa ingenua menzogna e in questo giuoco di parole! Sebbene i giuochi inventati dall'uomo siano innumerevoli e diversi fra loro, pure hanno in sè alcuni elementi comuni. Il primo, e forse l'unico necessario a tutti i giuochi, è l'esercizio dell'amor proprio sotto tutte le forme. Vi è sempre uno che deve vincere ed uno che deve perdere; vi deve sempre essere uno che riesce primo. E anche quando il fanciullo si diverte da solo giuocando alla palla, gode di riuscire a fare qualche cosa che presenta una certa difficoltà. Nei giuochi nei quali la vittoria non si deve che al caso, si ha pur sempre la gioia della fortuna, della quale pur troppo abbiamo, così nelle piccole come nelle grandi cose, la vanità di compiacerci. Il secondo elemento, che è quasi indispensabile come il primo per produrre il piacere nel giuoco, è il lavoro facile che ci riposa o ci distrae, e che, in ogni caso, non ci fa sentire il peso insopportabile di un ozio perfetto. Si è già analizzato questo piacere parlando del tabacco. La formula più semplice che rappresenta tutti i giuochi è costituita da due elementi, cioè da una piccola compiacenza dell'amor proprio e dal piacere di far qualche cosa senza fatica, cui bisogna aggiungere i piaceri della curiosità e del guadagno. La curiosità entra in quasi tutti i giuochi come elemento produttore del piacere, ma non è così necessaria come si crede. Si può giuocare con piacere anche quando si è sicurissimi di vincere, e, in qualche caso, anche quando si sa di perdere. E qui non si ha contradizione, perchè nel giuoco l'uomo che perde senza dolore prova sempre la compiacenza di sentirsi generoso, anche quando non pone mente a questo rapido esame di coscienza. L'amore del guadagno può essere del tutto escluso dalle passioni più o meno piccine che lottano fra loro in ogni giuoco, ma quando vi entra, acquista quasi sempre tanta preponderanza da far da padrone. Insieme all'amor proprio costituisce le emozioni più violente del giuoco, ma quasi sempre le sorpassa di gran lunga, sicchè bene spesso da solo viene ad occupare tutto il campo delle gioie del giuoco, il quale allora diventa un terreno di lizza, ove gli eventi di una lotta tempestosa e violenta costituiscono una gioia aspra e agitata, che può arrivare in qualche caso ad un vero delirio. Allorchè il bisogno di provare le vive emozioni del giuoco cresce al grado di passione, ci procura piaceri morbosi, i quali offendono l'estetica morale, quando non ci conducono alla colpa gravissima di dimenticare per esso i doveri più sacrosanti. Si cercano nel giuoco le emozioni; ma queste non si potrebbero avere, se non si avesse un vivo desiderio di guadagnare e un'orribile paura di perdere, e se la speranza ed il timore, alternandosi a brevissimi intervalli colle sconfitte e colle vittorie, non si agitassero continuamente. Può darsi che il guadagno non sia il primo scopo del giuoco, ma è pur sempre vero che a produrre la gioia si adopera sempre un fermento vizioso, una passione bassa o colpevole. Se sopra il telaio costituito dai piaceri dell'amor proprio, dell'occupazione facile, della curiosità e dell'amor del guadagno si tessono tutte le combinazioni dei piaceri del tatto e della vista, dei sentimenti sociali e dell'esercizio di alcune facoltà mentali, si vengono a costituire le formule che rappresentano le gioie di tutti i giuochi conosciuti. Senza entrare in molti particolari, i giuochi, secondo il piacere che in essi predomina, si possono classificare così: Giuochi nei quali predomina il piacere del guadagno e di essere sbattuti dalle rapide e continue oscillazioni segnate dalla fortuna (giuochi d'azzardo); Giuochi nei quali predomina la compiacenza dell'amor proprio, la quale si fonda sopra un'abilità intellettuale (scacchi, dama, ecc.); Giuochi che devono la loro prima attrattiva all'esercizio muscolare e dei sensi, e all'amor proprio che deriva dalla compiacenza di esser più o meno esperti (bigliardo, palla, birilli, bersaglio, bocce, ecc.); Giuochi nei quali la fortuna si combina coll'abilità, sicchè, non potendo misurare l'influenza che esercitano sull'esito questi due elementi, il vincitore può prendersi tutto il merito della vittoria, e il vinto ha un certo diritto di accusare la fortuna e di difendersi dall'umiliazione di non aver saputo vincere. Questi giuochi sono numerosissimi appunto perchè si adattano tanto mirabilmente alle esigenze dell'amor proprio (tarocco, scopa, tresette, domino, ecc.). Oltre queste classi principali se ne potrebbero fare altre secondarie formate dalle combinazioni di diversi piaceri. Oltre i giuochi propriamente detti, vi sono molte occupazioni, che non furono primitivamente immaginate al solo scopo di produrre un piacere, ma che possono benissimo servire a questo scopo. Così si hanno la caccia, la pesca, le passeggiate, i viaggi, il teatro, il ballo e infinite altre occupazioni. A questi possono aggiungersi tutti i ludi sportivi, specialmente quando non si considerano come esercizi, ma si praticano come semplici svaghi, come il pattinaggio, gli ski, il nuoto, il calcio, il tennis, la palla ovale, l'alpinismo e via dicendo.

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Si rimprovera e si castiga il desiderio onde voglia perdere il brutto vizio di troppo volere; e, dopo averlo fornito di nuovi fondi, lo si abbandona a sè. Ben sovente l'esperienza non fa che inasprirlo e non lo corregge mai affatto. Esso ritenta le antiche speculazioni, e per voler far diventare milionari il più delle volte giunge a non poter nemmeno regalare il mazzolino di viole, che pur sarebbe bastato alla felicità sempre buona e così poco esigente. Non sempre però le speculazioni arrischiate del desiderio vanno male: qualche volta ci porta a casa gioie preziose, che pur basterebbero a formare un capitale perpetuo per la felicità. Ma quando questa vuole impiegare i fondi e trarne un interesse modico ma sicuro, il desiderio vien sempre di mezzo coi suoi sogni dorati, co' suoi splendidi castelli in aria, e coi sofismi più insidiosi ci persuade ad arrischiare il guadagno sulla banca della fortuna, sicchè noi ritorniamo alle prime paure e ai primi pericoli. In questo modo quasi sempre si passa la vita, senza che mai si possa mettere a frutto un sol grano di felicità. Nè basta ancora: si possono qualche volta accumulare pochi capitali, dopo ostinate lotte e difficili vittorie riportate sul desiderio; ma noi abbiamo a sopportare le mille avarie e i mille danni ai quali va soggetta la felicità, il più delicato e il più volubile dei capitali che mai si possano possedere. Quando la felicità non è malata, è una delizia il contemplare la freschezza del suo colorito e l'ammirarne l'amabile vivacità; ma la sua salute è così precaria e cagionevole, che ben di rado si può godere di questo spettacolo soave. Le malattie che attaccano la felicità sono infinite; alcune vengono dal di fuori di noi, altre nascono in noi. Le prime sono costituite dai dolori che ci arrecano gli altri, per propria colpa o senza una colpa al mondo, ad esempio sia mostrandosi ingrati verso di noi, sia morendo, sia riverberando in noi il riflesso dei loro affanni; le seconde sono date dai malanni fisici del nostro corpo e dalle delusioni morali. Vi è un mezzo colpevole adoperato da alcuni per preservare la felicità da tutte le malattie contagiose che vengono dal di fuori, e consiste nel farle prendere ripetutamente un bagno di egoismo; ottimo fra tutti i mezzi che preservano dal dolore. Anche questa vernice però, per quarto impermeabile, non ci può difendere dai mali fisici, e d'altronde essa riesce tanto spiacevole, che nessuno osa avvicinarsi a questa felicità imbalsamata dall'egoismo. Dopo ciò potete comprendere facilmente perchè sembri teoricamente tanto facile l'esser felice, e perchè mai non vi si riesca. In ogni modo, per aspirare almeno ad un posto qualunque nel santuario dei felici in terra, bisogna, per prima cosa, prendere per amministratore dei propri fondi un desiderio già vecchio e prudente. Tutte le fatiche che dovremo durare nel far questa scelta ci saranno largamente compensate, e potremo aspettare senza rimorsi prima di deciderci alla scelta. Del resto, se non potremo trovare un desiderio che sia naturalmente calmo, potremo indebolirlo col regime pitagorico, col digiuno e col cilicio, sicchè abbia a camminare lento e zoppicante, quando uscirà nel mondo a spendere i nostri denari. Fatto questo, ci sarà possibile impiegare i nostri capitali a un interesse basso ma sicuro, assicurandoli e ipotecandoli con la virtù, la prudenza, lo studio. Accontentiamoci del poco, e per tutto ciò che ci mancherà accarezziamo la speranza; amiamo gli uomini e noi stessi; abbelliamo con la fantasia ciò che ci riesce disgustoso e brutto; compiaciamoci delle cose nostre senza superbia; crediamo e ridiamo, e se, dopo questo, non saremo ancora felici, potremo almeno dire di aver fatto tutto ciò che onestamente potevamo fare per diventarlo. A nostro contorto, poi, ricordiamo sempre che la felicità non è uno stato naturale all'uomo onesto, e che non può essere quasi sempre che una fortuna. Si può esser galantuomini e felici, ma soltanto come si può nascere milionari e nello stesso tempo uomini di genio, per un caso straordinario di fortuna. Del resto, ad altre circostanze pari, l'uomo più felice è quello che è dotato di maggiore sensibilità, di maggior fantasia, di volontà più robusta e di minori pregiudizi. È quell'uomo raro che a tanto volere, da sospendere le vibrazioni del dolore e da lasciare oscillare tutte le corde che fremono di piacere. La felicità può dunque essere un piacere al grado superlativo, una scintilla di gioia vivissima che attraversa l'orizzonte della nostra vita e scompare, dopo avere percorso una parabola molto breve. In questo caso essa è sinonimo di beatitudine, di piacere spinto al grado massimo dell'umano sentire, e accompagnato dalla piena coscienza della sodisfazione. Altre volte, invece, essa è una fiaccola che illumina un'epoca della nostra esistenza, o tutta quanta la vita, ed è in questo caso il sommo bene a cui possa aspirare l'uomo. Di questo stato beatissimo si hanno tante varietà quante sono le nature umane. Perchè vi possa essere la felicità, deve esistere un accordo ammirabile fra le circostanze ambientali e l'uomo che in esse si trova, perchè essa non è che l'armonia completa del nostro io col mondo che lo circonda. Le felicità nè si possono confrontare, nè sommare, nè dividere. L'Indiano-pampa che, dopo aver rimpinzato lo stomaco di sangue caldissimo di cavallo, si sdraia sotto il tetto del suo toldo, immerso nella beata coscienza di una digestione eccellente, è felice come il sultano che nelle delizie del suo serraglio, fra i sogni fantasmagorici dell'oppio, pensa di essere padrone d'una gran parte del globo; come il filosofo che, dopo lunghe ore di frenesia intellettuale fra i suoi libri e i suoi manoscritti, va a rannicchiarsi nel letto sentendosi pienamente felice. Questi tre uomini hanno diverse nature, godono in modo assai diverso, ma sono tutti felici, dacchè tutti credono di esserlo. Anche il pazzo, che sorride a chi non lo crede il sommo pontefice, è felice, s'egli si sente tale. Si può fingere la felicità come ogni altra cosa in questo mondo; ma dacchè uno si crede felice, lo è; nè l'eloquenza di Cicerone o le prepotenze d'un tiranno potrebbero farlo cambiare d'avviso.

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Come devo comportarmi?

172251
Anna Vertua Gentile 1 occorrenze
  • 1901
  • Ulrico Hoepli
  • Milano
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Non si abbandona mai a lodare sè stesso quando anche ne avesse qualche diritto. La vanità è cosa tanto comune e il merito tanto raro, che uno il quale anche indirettamente si loda, si fa credere che abbia parlato solo per vanità, e viene tacciato di millanteria. Difficilmente scopre mancanze o difetti, ma spesso si entusiasma alle altrui abilità e virtù. Non giudica mai. Delle persone e delle cose vede solamente il lato buono. Non sparla mai della gente nè si permette che altri lo faccia in sua presenza. Ha per la donna un tenero rispetto. Quando c'è lui, nessuno osa offenderla con volgarità, insinuazioni, motti piccanti Con l'esempio ed il contegno impedisce che in sua presenza si taglino i panni a dosso alla signora tale e alla tal'altra assenti. Nella donna egli rispetta la memoria della madre, la innocenza della sorella, la virtù della sposa. Per lui la donna è la parte eletta dell'umanità; la compagna gentile e affettuosa, educatrice assennata, la grazia che addolcisce la forza, il conforto nel dolore, l'aiuto valido e sicuro nelle disgrazie. Non l'offende con complimenti esagerati che dicono la poca stima della sua intelligenza; non la vagheggia con la stupida assiduità di uno che si prefigge di vincere una debolezza; non la tratta come una cosa bella e futile che si cerca di conquistare con l'arte delle sdolcinature e delle moire. Il timore di urtare la sua delicatezza, lo tiene sempre all'erta; dà alla sua voce un tono gentile e carezzevole, alle sue parole l'impronta del rispetto sincero. Non lusinga mai la vanità delle fanciulle, nè tenta di far entrare nei loro ingenui cuori, delle speranze irrealizzabili. La triste gloria di destare un sentimento in un'anima innocente, egli la considera come colpa grave e la, biasima acerbamente negli altri. In qualunque luogo si trovi, il gentiluomo mostra il rispetto che sente verso la donna. Le lascia sempre la destra lungo la via; nei trams si vergognerebbe di star seduto mentre una donna dovesse star ritta per mancanza di posto. Nei carrozzoni del treno le cede il posto d'angolo e non si permette la confidenza d'interrogarla curiosamente. Se il carrozzone è per i fumatori, prima di accendere il sigaro chiede il permesso alla signora o alle signore che fossero con lui. Apre e chiude i vetri quando ne mostrano desiderio, le aiuta a scendere, a salire, a mettere al posto borse e pacchi. Per la strada, se incontra una signora o una signorina, che conosce, le saluta con cortesia e rispetto, facendo di cappello. Questo nostro uso, che gli uomini debbono salutare per i primi le signore, a me pare un abuso di libertà. . Non dovrebbero forse essere le donne le prime a salutare invitando quasi l'uomo a rispondere?... Andando in un salotto ove sieno molte persone radunate, va direttamente a inchinarsi con garbo dignitoso davanti alla padrona di casa, e le stringe la mano, se gli viene offerta. Ora torna di moda il baciare la mano alle signore; moda gentile e ossequiosa che alla donna educata piace sempre. Poi con un inchino, saluta tutti gli altri e siede a un posto qualunque. In quanto al tenere i guanti o no, o lasciare il cappello in anticamera, come si usa adesso, o a reggerlo in mano, o salutare piegando il busto e il capo, o solamente il capo, o baciare la mano delle signore, o stringerla solamente, sono rose, che, siccome vanno soggette a cambiamenti, il gentiluomo fa secondo l'usanza del momento. Al ballo, il giovine gentiluomo si guarda bene di invitare una signorina, senza prima farsi presentare a lei stessa e a chi l'accompagna. E finito il ballo la riconduce tosto al suo posto presso la mamma o ad altri che ne facessero le veci, inchinandosele dinanzi rispettosamente e ringraziandola prima di lasciarla. Il giovine gentiluomo sa che è sconveniente fermare una signora lungo la via, per chiederle della sua salute o altro; e che è addirittura ineducato e imprudente fermare una signorina che sia sola. Nell'un caso e nell'altro, saluterà con atto rispettosissimo, per mostrare a chi vede, la sua deferenza per la signora e la signorina, che vanno in giro sole, sicure di sè stesse e della stima di chi le conosce.

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Enrichetto. Ossia il galateo del fanciullo

179186
Costantino Rodella 1 occorrenze
  • 1871
  • G.B. PARAVIA E COMP.
  • Roma, Firenze, Torino, Milano
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Pure essa non si sgomentò della vita; piena di confidenza in Dio, che non abbandona le sue creature, si pose al lavoro con serena rassegnazione. Appigionatasi una soffitta, vi cuciva tutto il dì, e qualche volta eziandio la notte, camicie per conto di un grosso negoziante;e come non era nè ghiottona, nè ambiziosa, del guadagno ne aveva d' avanzo; e così potè formarsi una certa agiatezza intorno a sè. Cresciuta alla scuola del dolore, aveva cuore per tutte le tristezze della vita, onde la sua soffitta era il ricapito di tutte quelle famiglie, che abitavano lì presso; e della miseria lassù ve n'era da impietosire le bestie! Famiglie cariche di ragazzi viventi sulle braccia del padre o della madre; infermi senza modo di sussistenza; donne abbandonate senza pane da' mariti giuocatori e scioperati! eran lacrime in tutte quelle case! Ma la Bettina s'adoperava per renderle meno amare; teneva d'occhio i ragazzi di questa, che andava a opera tutta la giornata; portava un po' di brodo a quella, una minestra a quest'altra, e per tutto una parola di conforto; pareva l'angelo tutelare di quelle soffitte. Quando, poveretta, cadde essa malata! Era sola, nessuno poteva badare a lei, nessuno accenderle un po' di fuoco; onde voleva farsi portare all'ospedale. Ma i vicini: o che! Noi non siam buoni da nulla noi? O sì che vogliamo veder questa, lasciarci portar via di qui il nostro buon genio! Che volete andar a confondervi in un ospizio? là in mezzo a tutti quei letti siete di nessuno! E tutta quella buona gente si divise le cure e non le si lasciò mancar nulla. Era cosa che consolava l'animo veder quella donna, che non aveva più nessuno al mondo, fatta oggetto di tante premure! Enrichetto, chè egli era il medico fatto chiamare, in quella soffitta si sentiva come in un ambiente caldo di amore, e n'era riconfortato. Ogni volta che volgeva qualche parola di lode alle assistenti, si sentiva rispondere: o che, la Bettina faceva ben più per noi; se non fosse di lei tanti e tanti non potrebbero più tirar innanzi; la si pensi che ella era capace di passare le intere notti a' nostri letti; e i suoi guadagni dove se ne andavano? Essa avrebbe potuto far la signora, e ora non ha manco un soldo; tutto consumato in queste soffitte a nostro vantaggio. Proprio sotto la stanza di Bettina, come se Dio avesse voluto mettere a riscontro il buono e il cattivo cuore, cadde malato, quasi nello stesso tempo, un uomo, conosciuto col nomignolo di Raffa. Posto sotto la cura de' poveri, Enrichetto l'andò a visitare. Che differenza dalla ordinata, pulita e tiepida cameretta della Bettina! Una stanzaccia senza mobili, da una tavola sdruscita in fuori e un lettuccio di legno tarlato; le pareti nude e sgretolate, senza fuoco acceso e senza legna per accenderlo; si sentiva un ambiente freddo, uggioso, opprimente. Il medico s' accostò al letto, e sur un guanciale sudicio e mal disposto vide una testa calva, del color dell'avorio ingiallito dal tempo, due occhietti grigiognoli, spenti, sprofondati in occhiaie cave del color del piombo; i zigomi sporgenti davano una conformità alla faccia come se l'avarizia vi avesse impresso su il suo ritratto; e veramente del color del rame ne era la pelle tirata sugli ossi, che si potevan contare. Nessuno intorno al letto, la portinaia che l'aveva accompagnato era subito scomparsa; onde Enrichetto, mosso a pietà, veniva interrogando l'infermo, il quale con voce fioca e stenta esclamava: brutta cosa la miseria; tutti s'allontanano! Il medico lo confortò, e visto che il male non era prodotto che da mancamento di cibo e da prostrazione di forze, gli fece coraggio e cercò di aiutarlo come meglio sapeva. Andò di sopra e si volse ad una di quelle donne che vide tanto caritatevole verso la Bettina, e la pregò a voler anche dar un'occhiata a quell'infelice di Raffa. — A chi, rispose quella con sdegno mal represso, a quel brutto mostro d'usuraio, che, ricco sfondato, lascia morir di fame i suoi parenti, nè farebbe limosina d'un soldo se fosse per morire? A queste parole restò meravigliato Enrichetto, e più ancora quando venne a sapere come quel miserabile dal nulla, a forza di usure e di ruberie, fosse venuto ad ammassare un ricchissimo capitale. — E con tanti denari, continuava la donna, cada il mondo, non spende un soldo; vive di radiche d'erbe e pan muffito. Aveva preso con sè una nipotina perchè gli governasse la casa, ma perché mangiava troppo, subito la rimandò. Non vuol veder nessuno intorno a sè, sospettoso, malfidente se v'e n'è uno. La Bettina quanto aveva era nostro, seguitava essa, ci aiutava, ci vuol un bene a tutti.... è giusto che non la dimentichiamo nemmeno lei, ma quello lì non che aiutarci,ci avrebbe spogliato di questi pochi cenci che abbiamo attorno! È malato, nessuno l'accudisce? Dio è giusto, viva nel deserto che s' è fatto intorno a sè. Che ne seguì? Bettina dopo poco fu pienamente ristabilita in salute; Raffa, a cui nulla potevano giovare le prescrizioni del medico, perchè per non spendere non n'eseguiva alcuna, poco appresso morì. Nessuno lo pianse, nessuno ebbe una parola di compassione per lui. I denari, gli osservava Enrichetto per spingerlo a servirsene, non sono beni, ma solo rappresentanti de' beni, sono non il fine, ma il mezzo e lo stromento per soddisfare a' nostri bisogni; ma era un dir a sordo. I nipoti colla più schietta allegria, ne fecero i funerali, e l'oro con tanti stenti accumulato, in breve sfumò. È il caso di riferire il detto del Vangelo: male parta male dilabuntur; che si può tradurre nel volgare proverbio:La farina del diavolo va tutta in crusca, od anche in quest'altro: Quel che vien di ruffa raffa, se ne va di buffa in baffa.

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Il Galateo

181163
Brunella Gasperini 1 occorrenze
  • 1912
  • Baldini e Castoldi s.r.l.
  • Milano
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E molto irritante per i giocatori «seri» è il tipo che, appena guarda le sue carte, comincia a borbottare cupamente sulla propria sfortuna, oppure si abbandona a ghigni satanici che preannunciano agli avversari una fine atroce; o peggio comincia a fare divinazioni sulle carte dell'avversario, basandosi sulle espressioni della sua faccia («Guarda guarda, garantito che gli è entrata la scala»). Ma su, siamo tra amici: tolleriamo. Le serate miste. Chiamiamo così le serate in cui parte degli invitati giocano e parte fanno altre cose. Chi non gioca non si fermi alle spalle dei giocatori a osservare le loro carte: o, se lo fa, non commenti, non ridacchi, non faccia cenni: stia fermo e zitto. Chi gioca non dia segni di impazienza se qualcuno si ferma vicino al tavolo («mi mena gramo») o se il gruppo dei non giocanti, conversando, ballando, disturba la sua concentrazione. E ancora: per quanto amanti delle carte siate, non assillate il prossimo. Non fate come quei tipi che, mentre gli altri si divertono in altro modo, stanno lì sulle spine in attesa di cominciare a giocare, si affannano a cercare compagni che non gli danno retta, sgomberano inopinatamente un tavolo, tirano fuori le carte e ci giocherellano da soli con aria nervosa, facendo passare la voglia di giocare anche a chi magari ce l'aveva. Se siete giocatori seri: - Non prendete in mano le carte prima che il mazziere abbia finito di distribuirle (ma anche se lo fate non casca il mondo). - Non tenete le carte a grappolo, a piramide, pericolanti l'una sull'altra; non tenetele sotto al tavolo, né strette al seno guardando con sospetto i vicini. - Non ritirate una carta dopo averla giocata. - Quando mescolate, fatelo sobriamente, senza prodezze spettacolari alla Danny Kaye. - Quando distribuite le carte, non fatele planare come aeroplani, non lanciatele come siluri, non buttatele a mucchietti, non seguite criteri fantasiosi; distribuitele con ordine e misura, facendole scivolare leggermente sul tavolo, una per una, da sinistra a destra o da destra a sinistra (a seconda del gioco). - Non fate segni, tossettine, ammicchi. - Non sbirciate le carte altrui. - Non fate scongiuri, non girate intorno alla sedia per esorcismo: sono scherzi troppo vecchi (e se non sono scherzi, peggio). - Non chiedete di cambiar posto perché la vostra sedia vi mena gramo. Anche se «non» siete giocatori seri: - Non maltrattate e non sporcate le carte. - Non bagnatevi il dito (orrore) per farle scorrere. - Non proponete mai di smettere mentre state vincendo. - Non rifiutate mai la rivincita; ma se state perdendo, non cercate di rifarvi a tutti i costi, costringendo gli altri a giocare fino all'alba.

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L'angelo in famiglia

182590
Albini Crosta Maddalena 11 occorrenze
  • 1883
  • P. Clerc, Librajo Editore
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
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L'animo tuo è franco e leale, non ha veduto che sui libri certe storie dolorose; non conosce quegli amari disinganni che lo invecchiano anzi tempo, e si abbandona facilmente alla confidenza ed all'affetto; l'animo tuo ardente si esalta volontieri alla vista di un atto eroico, di una buona azione, non è proclive a bassi sentimenti, ed è solo effetto di una perversa educazione, se taluna fra le giovinette cede alle lusinghe dell'interesse, dell'invidia... No, non sia mai detto di te che la tua giovinezza sia turbata da questi, i quali, difetti in uomo maturo, sarebbero in te una vera enormità; lascia che il tuo cuore vergine e buono, come il giglio del campo, ami il monte e la valle, e non cerchi l'aria impura e colata di quella società che tutto guasta col suo tocco. Lascia che il tuo cuore si slanci in cerca del bello e del buono, nei campi della terra e del cielo, e sostienlo affinchè non ceda alle seduzioni che da ogni parte lo tentano, lo turbano, cercano di corromperlo. Tu mi dici, ed è vero, non essere in tuo potere cambiare la tua condizione, il tuo posto, poichè dove sei, ti convien stare; ma dimmi, il tuo cuore è, o non è tuo? Tu sei forzata di vivere in una società corrotta e corruttrice; ma se non fosse per l'unico importantissimo scopo di tenerti incolume dalla corruttela che ti circonda, dimmi perchè impiegherei io il mio tempo, i miei studj, i miei affetti per te che non conosco, 9 che non vedrò mai, che dal tuo labbro non sentirò mai un grazie? Oh! perdona, perdona l'amara parola che mi ha strappato dal cuore lo spavento del tuo presente, del tuo avvenire. Sì, perdona, perdona; io non aspiro a godere del vantaggio di cui mi potrebbe esser larga l'amicizia dei tuoi verd'anni, nè cerco a te riconoscenza e gratitudine: quello che ti do non è mio, è unicamente dono del nostro Padre comune, di Colui che vuole io ti ami e ti comunichi quanto Egli m'inspira... Perdona, perdona; ma per pietà del tuo bene, del bene della tua famiglia, della quale puoi e devi essere l'angelo della protezione e della pace; per pietà del bene dei tuoi genitori, di tutti i tuoi cari; per pietà delle anime redente collo spargimento di tutto il Sangue di un Dio; per pietà, poni in guardia il tuo cuore e non lasciare che al contatto della società si guasti, si corrompa. Il dolcissimo S. Francesco di Sales dice che come si salvano le frutta col confettarle collo zucchero, così possiamo salvare il nostro cuore confettandolo collo spirito di pietà, e nella convinzione che la parola dei santi è germe inesauribile di santità, io non ho saputo nè voluto tacere questo paragone semplice ma sublime, che a noi dettava quell'anima santa e straordinariamente amabile e soave. Sì, confettalo il tuo cuore colla pietà, circondalo con una forte corazza di amore e timor santo di Dio; ed anzichè imbrattarsi della bruttura che tenta investirlo, emanerà da lui tale un profumo di soavità e di virtù atto a purificare tutto quanto lo avvicina. Dunque non mi dir più se potessi; di' piuttosto se volessi, poichè tutto noi possiamo di bene in Dio, il quale (è di fede), ove non bastassero gli ajuti comuni, ce ne manderebbe anche degli straordinarj, e perfino ci manderebbe dei miracoli ove fossero necessarj alla nostra eterna salute. Se tu ed io non facciamo il bene, non dobbiamo incolparne nè le persone che ci avvicinano, nè le circostanze; ma noi stesse che abbiamo preso da esse senza riguardo invece del bene, il male. Che ne diresti tu s'io mi ponessi a giuocare con un coltello, e lo tenessi stretto fra le mani, e tagliandomi mi lagnassi poi del coltello? Tu mi diresti:Stordita! lo meriti; se ti sei tagliata è segno che ti volevi tagliare. Ma qui vedo che, quasi senz'accorgercene, rasentiamo l'argomento del quale ti voglio intrattener domani: Le occasioni di peccato. Per oggi mi limiterò a rinnovarti le mie proteste e le mie raccomandazioni; a dirti che i tuoi vent' anni sono il sorriso della vita perchè ne sono il mattino; ma deh! faccia Iddio che il tuo mattino sia rallegrato da un sole splendido, da un sole che maturi in te il germe che abbondante ti ha versato in seno la Provvidenza, affinchè per un lungo volger d'anni questo germe frutti copioso ed eletto frumento ad alimento, a conforto, a premio dell'anima tua e dell'altrui. Che se, ciò non sia mai, che se tu lasciassi appestare la tua giovinezza dal turbinío delle passioni e dall'infingardaggine, non tarderesti a trovare in te stessa i segni tutti di una vecchiezza precoce, di una vecchiezza che non voluta da Dio, ti avvizzirebbe il cuore e ti renderebbe incapace d'ogni buona azione, cupida, egoista, sospettosa... Queste le sono cose pur troppo vere sì, ma non per te, figlia mia; no, non per te che senti il bene, che lo vuoi! Tu, sì, io tel prometto, tu anzichè invecchiare innanzi tempo, conserverai la tua giovinezza fino ad un'età molto avanzata; e quando la tua fronte sarà increspata, le tue mani rugose ed il tuo corpo curvato sotto il peso degli anni, il tuo cuore sarà tuttavia giovane, pronto agli affetti ed alla carità; il tuo occhio brillerà d'una gajezza capace a trasfondersi in colui sul quale si ferma, ed anzichè di peso, la tua persona cadente e la tua compagnia saranno il punto della famiglia nel quale tutti gli affetti si concentrano, si raddoppiano, si migliorano. Allorchè io vedo la serenità, la pace che respira e traspira la vecchia mia madre, il cuore mi batte più forte, mi si bagna il ciglio e dico: Dio mio! sei grande; il tempo e la bufera non hanno scosso il tuo edificio! Madre del Cielo, Maria Santissima, custodisci sempre sotto il tuo manto la madre che mi ha dato la vita del tempo, perchè mi guadagnassi quella dell'eternità! Tu la proteggi ognora dalle insidie del nemico, e le ottieni dal tuo divin Figlio largo premio alle sue lunghe privazioni, al suo grande amore, ai suoi eroici sacrifici. Giovinetta cara, anche adesso ti dovrei chieder perdono, perchè t'ho intrattenuta di me... Ma il pensiero di una madre, come la mia, m'ha siffattamente investita che non ho potuto rifiutarmi un piccolo sfogo, come non posso rifiutarmi dal pregarti di raccomandarla a Dio. Se tu hai la grande ventura di avere come me una madre nella quale rifulge una perpetua giovinezza, ringraziane il Signore, cerca di ricopiarne tutto il bene; ma deh! l'amor tenerissimo filiale non ti trasporti a ricopiarne anche i difetti. No, sarebbe un insulto alla madre tua, la quale se non ha potuto essere perfetta come il Padre tuo che è nei cieli, ti ha però dato esempio di quanto possa fare un cuore che ama teneramente e tenacemente il bene. Iddio non t'avrebbe posto in cuore un tesoro di affetti, non ti avrebbe dato tanti mezzi di salute e la mia stessa povera parola, se non ti volesse pia, buona, santa. Dunque non dir più se potessi!; ma con tutta la forza della tua volontà entra coraggiosa nel cammino della vita, pronta a fare tutto il bene che ti sarà possibile. Dio t'ajuti!

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Tu già m'intendi; non del fuoco materiale io ti parlo, sibbene dell'altro che non ha di quello nè minore attività, nè minor pericolo; di quel fuoco che non rovina soltanto il corpo, ma l'anima ed il corpo insieme di chi spensieratamente allettato dal suo calore gli si abbandona in braccio. Il fuoco dal quale ti devi guardare con tanta cura non è veramente, a mio credere, una sola passione; ma piuttosto quell'insieme di molte passioni che serve ad alimentarlo, poichè come il fuoco di un caminetto nasce e vive per l'insieme di parecchi tizzi che si sacrificano a lui, così il fuoco che tu devi paventare vive della morte delle tue virtù, e riceve alimento dalle molteplici occasioni colle quali ti sei accomunata, con o senza ripugnanza. Perchè adunque tu possa e debba salvarti dal fuoco, puoi e devi schivare le occasioni che ne sono la facile esca. È tanto importante questo punto sul quale si basa l'edificio della tua esistenza, che tu prima di ascoltarmi, ed io prima di parlartene, dobbiamo invocare ajuto di quella Vergine che si sgomentò alla vista di un Angelo e alle Lodi da lui prodigatele, e che soltanto quando seppe esser egli l'inviato di Dio per annunziarle la grande novella, si calmò e pronunciò quella sublime parola: Ecco l'Ancella del Signore! Oh! Maria, ajutatemi Voi, ad infondere nel cuore delle care giovinette che mi ascoltano un salutare spavento delle occasioni di peccato! Dice lo Spirito Santo:chi si espone al pericolo, perirà, e pericolo è per te, cara mia amica, ogni occasione che può mettere in forse la tua fede e la tua virtù; quella fede e quella virtù le quali radicate con fatica nell'animo nostro, ricevuta una scossa, difficilmente si rassodano, o, se si rassodano, gli è con sforzi eroici che ci fanno sanguinare il cuore. Tu lo sai, io non vengo a predicarti il cilizio e la solitudine; questi doni specialissimi il Signore li dà a cui vuole, e noi dobbiamo guardarci dal disprezzarli e dall'invidiarli. Il buon Dio ci ha chiamati a sè per un'altra via, e tutte le vie del Signore son tutte buone, quando non siamo noi che a bella posta e ad occhi aperti ne prendiamo una diversa da quella che Egli ci indica colle interne inspirazioni, coi buoni consigli, e con taluno di quegli innumerabili mezzi dei quali Egli si serve a farci conoscere la santa sua volontà e la nostra vocazione. Io lascio che il Signore ti chiami a quella maggior perfezione che a te si conviene, e mi contento di segnarti la strada retta benchè comune, certa che in essa tu potrai raggiungere uno stato perfettissimo, ove tu corrisponda con impegno alla grazia di Dio. Tu dunque, almeno io credo, sei chiamata come me a vivere nella società, in una società la quale più o meno ristretta, più o meno esigente, non lascia di offrirti pericoli e incentivi al peccato ad ogni piè sospinto. Io suppongo volontieri che la tua sia un'ottima famiglia credente, anzi religiosa; pure raro è che qualche suo membro più o meno importante non abbia credenze ed opinioni divergenti, e non divenga quindi il martello e la croce della virtù degli altri. Può ben essere che questo martello e questa croce siano foderati di oro massiccio, voglio dire da tutta la grazia della persona e dell'educazione, e da tutti i vantaggi di una larga e ben intesa istruzione (profana s'intende); ma allora appunto quel martello e quella croce avrebbero una maggior potenza e tu li dovresti paventare assai più che se si presentassero nella loro natura greggia e pesante. Talvolta, pur troppo (non lo dico a te), talvolta sono i padri, i fratelli, i parenti, e perfino le madri che hanno ricevuto dal diavolo l'indegna missione di tormentare e di scuotere, se fosse possibile, l'altrui fede; e perchè il loro ascendente sia maggiore, il maligno permette in essi taluna od anche molte di quelle virtù domestiche e civili, atte a guadagnar loro una stima cieca ed un intero abbandono del nostro cuore inesperto. Se tu, poveretta, avessi una tale sventura di vedere segnato dal marchio di una missione sì triste una persona che tu ami teneramente e colla quale vuoi e devi vivere in continuo contatto, fa di ricopiare in te, per ipocrisia non mai! ma con una santa emulazione le virtù tutte delle quali ti è dato l'esempio, ed adopera tutta la tua forza di volere e di amore per procurare a quell' anima cara quell'unica virtù che a tutte l'altre sovrasta, e senza la quale tutte le altre non sono oro, ma orpello... Tu devi essere, tu sei l'angelo della tua famiglia! io lo so, lo vedo, tu sei intorno al diletto genitore, al fratello, colle tue amorose cure, colla tua devozione, con quella parola timida ma sicura nel momento in cui il cuore che tu avvicini è titubante o commosso; colla tua costanza nelle tue pratiche di pietà, colla dolcezza inalterabile del tuo carattere, colla pazienza nelle contrarietà e nelle sventure, colla carità indivisibile da ogni tuo atto, da ogni tua parola, e con tutte quelle amorose arti che una pietà, illuminata sa suggerire all'anima tua. Sì, io ti vedo agire in tal guisa che non esito a preconizzarti un completo e non lontano trionfo. Il tuo genitore, il tuo fratello sente per te un affetto irresistibile; pure una lotta interna lo fa teco in quieto, adirato, e talvolta tu vedi un sorriso amaro sul suo labbro; un sorriso che ti fa agghiacciare il sangue, che ti turba, ti desola. Corri, corri a Maria, essa è là ansiosa ad attenderti; forse è oggi il dì di quella lotta tanto aspettata, tanto desiderata; forse oggi è il dì di quel trionfo sì difficile, ma sì durevole. Corri, corri a Maria, e vivi sicura d'aver ottenuta la grazia invocata, ad onta che tutte le apparenze ti dicano ch'essa è non solo lontana, ma impossibile. Ma tu aspettavi da me che solo ti parlassi delle occasioni di peccato, ed io t'ho invece parlato delle occasioni di bene; io stessa ho dovuto raccogliermi un momento a cercare la ragione per cui il Signore ha voluto che ti dicessi questo prima di quello. Ma non ho tardato ad accorgermi che il Signore vuole appunto che noi, e quindi anche tu, sappiamo convertire in occasione buona quella che era e sembrava un'occasione cattiva. Se tu colla persona incredula o poco credente, o indifferente, o beffarda in fatto di religione, con quella persona che sempre o quasi sempre sta al tuo fianco, che esercita sopra di te tutto il prestigio cui dà diritto un santo affetto di congiunto ed i pregi personali, invece di adoperare, come abbiamo veduto poc'anzi, tu avessi agito al modo mondano, certamente invece di trasfondere in essa il bisogno e l'abito di quella religione che è la tua vita, che sola può sostenerti nelle lotte dell'esistenza e che unica può premiare la tua virtù e la tua costanza, l'avresti tu stessa perduta. Ahimè! sola e miserabile ti troveresti in brevissimo tempo sprovvista d'ogni morale virtù, e destituita da quella forza che è la tua forza e senza cui non trova balsamo nessuna piaga, lenimento nessun dolore. Se collo sprezzatore della tua fede (foss' egli pure tuo fratello o tuo padre) ti porrai a patteggiare, a questionare, a disputare, non tarderà molto e la tua fede diventerà vacillante, smorta, nulla! No, per pietà, no, mia cara. Per pietà, guardati dal fuoco! io ti ripeto, guardati da quel fuoco distruggitore che incenerirà ogni tuo proposito, ogni tua buona tendenza... Ma, e perchè insisto io tanto a predicarti l'importanza dello schivare le occasioni, se tu ne sei più che convinta? Se fosse altrimenti, tu non leggeresti con tanto affetto questo libro, il quale, quantunque vergato sotto l'impulso di un potentissimo amore per l'anima tua, non ha che parole severe a dirti, virtù anche più severe ad importi! Quello che tu vuoi da me, e che io voglio dirti, si è dunque non tanto la massima di sfuggire le occasioni di peccato, quanto d'insegnarti il modo di poterle sfuggire e vincere e volgerle a bene. È forse necessario che io ti ripeta:non giuocare come lo spensierato col fucile carico? No; sarà meglio ti suggerisca di sparare all'aria l'archibugio, e tolga così amendue da un pericolo imminente e gravissimo. Se vedi che arde la casa del tuo vicino, ti è inutile continuar ad urlare al fuoco; bisogna invece che tu porti dell'acqua, dopo d'esserti adoperata a segregare la tua casa affinchè non divampi con quella. Te lo ripeto, e tel ripeterò incessantemente, non metterti a disputare e a discutere di religione con persona di te più colta e a te superiore; anzi sarei quasi tentata di dire, con persona alcuna: ma pronuncia la tua opinione con volto ed animo sicuro, protesta di non voler cedere assolutamente agli altrui ragionamenti, e se non puoi imporre silenzio, e neppure ti è dato pregare si voglia con te parlare di un argomento più conforme e più omogeneo al tuo modo di pensare, chiedine con bel garbo il permesso, e ritirati o nella tua camera, o in altro crocchio, o comecchè sia e come darà la possibilità, togliti da quel discorso. Se poi sei costretta a star lì, prega in segreto e segretamente protesta e ripara, atteggiandoti a serietà. Così facendo, l'ardito che si permette innanzi a te di porre in forse od in canzone le verità più sante e più care, si accorgerà ch'egli abusa della sua libertà, e violenta la tua coll'importi quanto non vuoi e non devi tollerare. Se poi quel cotale fosse persona tanto rozza e tanto mal educata da pretendere tu subissi intero il suo ragionamento, e vantasse in proposito la sua condizione ed i suoi titoli, non ti curar di lui, ma guarda e passa. Allorchè t'ho parlato di non curarti di quanto dirà il mondo, mi pare di averti detto alcun che di somigliante; ma il ripeto: quando si tratta di schivare le occasioni pericolose, non ci vogliono rispetti umani, o, se ci vogliono, ci vogliono per calpestarli, ed impedir loro di far poi capolino, e ci tentino e ci trascinino miseramente. 10 Ma oltre questi pericoli, in certo modo visibili, ve ne hanno degli altri, tanto più pericolosi e nocivi, quanto meno avvertiti; questi sono non i discorsi propriamente detti, contro la religione ed il costume, ma quelle parole mezzo serie, mezzo buttate là senza studio e senza ritegno, quelle parole ambigue le quali vogliono dire ben altro di quello che si tenta far credere, e fanno intanto salire il rossore sulle tue guancie, il riso sulle tue labbra, ed insieme un qualche cosa che somiglia rimorso al tuo cuore. Queste arti non saranno certo adoperate con te dai tuoi, ma dai così detti amici di casa; da quei bontemponi i quali non avendo meriti sodi da far valere, sfoggiano ed ostentano uno spirito che sarebbe piuttosto spirito da ardere, non da far valere nelle conversazioni. Se adunque in casa tua, o in casa altrui ti trovi vicina a siffatte vespe, chè io non le so chiamare nè considerare con altro nome, schivane il pungolo avvelenato benchè sottile, e non ti lasciar ingannare da loro perchè le vedi suggere il mele e lo zucchero, poichè se ti s'avvicinano e ti pungono, n'avrai deformato il viso e guasto fors'anche il sangue! No, non ti lasciar illudere dalle parole dolci e melate; non t'illuda l'eleganza della persona e del porgere; quello è pericolo, e tu lo devi schivare, e schivare tanto più quanto è più coperto, simulato ed insinuante. Talora perfino alcune signore, d'altronde simpatiche e gentili, hanno il tristissimo còmpito di pervertire le anime innocenti; ma se tu farai sempre con buona volontà ricorso a Maria, sarà illuminata la tua mente, agguerrito il tuo cuore, e non tarderai ad accorgerti delle insidie che ti si tendono, nè indugerai a schivarle. Se poi, il che è difficile, le persone le quali minacciano la tua credenza o la tua virtù sono in buona fede, allora tu potrai volgere a bene le stesse loro lusinghe, e sentendoti sul campo della verità, ti sarà agevole far cadere le squame che, come a S. Paolo, coprono loro gli occhi, e renderli illuminati colla luce evangelica, riscaldati dal calore del Sole di vita, Dio. Ma per tacere delle letture cattive, delle quali ti parlerò separatamente un altro giorno, debbo parlarti di un altro pericolo e grave, che ti può venire non solo dai parenti e dai conoscenti, ma altresì dai maestri e dalle amiche. La penna ripugna a scriverlo, perchè la mente ripugna a pensarlo, che i maestri e le amiche possano essere di pericolo alla tua fede, perchè invero non è, nè può esser vero maestro ed amico colui che insegna il male! Tuttavia, tu non sei più nel caro e sicuro recinto del tuo collegio, di quel collegio tanto ben diretto, sì bene animato; tu sei in una società che non possiamo dire buona e bene intenzionata, ma che ci è forza confessare corrotta e corruttrice, ingannata ed a sua volta ingannatrice. Tu sei obbligata a vivere in questa società, dove lo spirito delle tenebre lancia talvolta alcuni di quegli esseri i quali dovrebbero avere l'ufficio d'illuminare, e che adempiono invece quello d'inondare di tenebre dovunque posano il piede e toccano colla mano. Quando ti ragionerò del modo di schivare le occasioni di peccato non solo contro la fede come oggi t'ho parlato, ma altresì contro il costume, mi estenderò maggiormente; per oggi ti basti il già detto, cioè dover tu usare coi maestri e colle amiche, non altrimenti di quello che fai con chiunque insidia la pace della tua coscienza. Ove e appena ti accorgi che colla letteratura, colla storia e perfino colla musica, ti si vuol propinare l'errore, confidati coi tuoi genitori, e pregali a toglierti da sì grave pericolo o col dirizzare l'insegnamento, o col rimandare chi te lo amministra. Questo ti sarà meno difficile ancora colle amiche, alle quali devi imporre silenzio e rettitudine di pensieri e di discorsi, e se questo nol puoi ottenere, allontanati da esse, pregando molto e sempre per l'anima loro. Oh! sì, molto e sempre devi pregare per tutti coloro che ti fanno del male, o minacciano di fartene, e ove se ne porga l'occasione, non devi essere tarda nè restìa a far loro del bene colla parola, coll'opera, col cuore, e quell'Iddio che promette un premio eterno per un solo bicchier d'acqua dato per amor suo, te ne darà larga ricompensa in questa vita e nell'altra. Un altro pericolo del quale, come dal fuoco, ti devi guardare, si è la medesima tua debolezza, e per quanto ti paja e ti senta forte nelle tue convinzioni religiose, paventa sempre il pericolo. Non già il soldato trascurato e spavaldo è forte al momento della mischia; ma l'eroe è sempre colui che prima ha misurate le sue forze, ha tremato di sè, ed ha lungamente meditato la giustizia della sua causa. Sì, questi è l'eroe, che dimentico di sè tiene con una mano la bandiera, pugna coll'altra a difenderla, finchè o è giunto a salvarla, o è perito con essa. Sii tu pure l'eroe della tua religione, senza temere il ridicolo. Chi ride di te, o ride perchè non arriva a comprenderti, o perchè non ha forza da emularti. Guardati dal fuoco, e le fiamme dell'incredulità cadranno spente ai tuoi piedi. Dio ti benedica!

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Ma se penserai per tempo a prepararti alla vita che ti attende, la tua quiete e il tuo sonno non saranno turbati neanche allora, poichè chi ha coscienza del proprio dovere, e lo compie puntualmente, riposa tranquillo, e si abbandona con fiducia alla Provvidenza. Vi sono altre damigelle le quali credono che il tempo che precede il loro collocamento sia destinato quasi unicamente ai passatempi, ai divertimenti, e intanto sono intolleranti di ogni soggezione, pretendono non di obbedire, ma di essere obbedite, e non ne vogliono sapere di lavorare e di faticare. E chi non vede quanto una signorina che si regola in tal modo sia decisamente nella falsa via? Se l'anima nostra ha bisogno essa pure del suo alimento, se questo insieme di anima e di corpo ha i suoi doveri, e dimmi chi ci abilita a dispensarcene per un certo tempo, chi ci dà il diritto di sciupare gli anni più belli della nostra vita? Oh! amica mia, nella tua età, l'anima tua ha bisogno di essere lavorata, educata, perfezionata; poichè come la vite, che manda fuori in primavera rigogliosi i suoi tralci, promette inutilmente frutti dolci ed abbondanti in una stagione futura, se l'agricoltore non le sta intorno a lavorarla, a legarla, a puntellarla; la tua esistenza così promettente in adesso, così fiorente, rimarrebbe arida e sterile, giunto il tempo di coglierne i frutti, se tu non la coltivassi fin d'ora. Se adesso ti dai a godere a corpo perduto di tutto quanto ti si presenta, credi tu che il tuo cuore e l'istesso tuo corpo non invecchieranno anzi tempo, e che non tarderà molto e ti accorgerai d'aver varcata la giovinezza in quell'età nella quale altri ne sono nel fiore? Per me è uno spettacolo lagrimevole il vedere una donzella che tocca appena, o di poco ha trascorso i vent'anni, portare impressi tutti i segni della noja sul volto e nel portamento; e la mia compassione aumenta a mille doppj allorchè la sento parlare di disinganno e di mondo cattivo, con un accento che dimostra un'esperienza precoce degli uomini e delle cose; esperienza tutt' altro che necessaria, anzi nociva che le fa raggrinzare sì presto quella fronte che aveva diritto di non corrugarsi, e di conservare ancora lungamente la sua serenità. Per carità, amica mia, per carità, guardati dal diventar vecchia essendo tuttavia giovane di anni. Conserva gelosamente l'ingenuità del tuo cuore, la semplicità delle tue abitudini, se non vuoi trovarti in quel campo nero e triste che ti vanno dipingendo i pessimisti, e che è nero e triste solo per chi lo vuole. Essi, vedi, non sanno più godere delle gioje vere, perchè, come coloro che per l'abuso dei liquori hanno alterato il gusto e non sentono più il sapore delle vivande delicate e neppure del vino generoso; essi hanno bisogno per elettrizzarsi di piaceri troppo sensibili, ma niente invidiabili; di commozioni febbrili, di quei piaceri e di quelle commozioni che io auguro ti restino sempre stranieri. L'aspetto della natura non produce più in essi alcuna impressione; quell' aspetto istesso che all'animo tuo semplice e buono è sorgente inesauribile di gioja e delle più soavi sensazioni, è muto per essi. E perchè vi sono taluni i quali mantengono nei loro vecchi anni quella sensibilità delicata che ci pare ed infatti è una prerogativa delle anime vergini? Oh! perchè essi non hanno appressato mai le labbra alla tazza dei gaudenti del secolo, perchè l'hanno respinta lungi da sè, e avvicinando il mondo solo quel tanto di cui era loro impossibile far a meno, non ne hanno ricevuti quei dolori e quei disinganni coi quali egli paga coloro che ne amano il contatto. Ma se in tutte le età è bene vivere più che si può liberi e svincolati dai piaceri mondani, questo diventa un dovere più stretto in una damigella, la quale come il volto deve mantenere fresco il cuore, e non lasciarlo avvizzire da verun alito profano. Io non intendo no che essa passi i giorni e le notti in continua meditazione, e conduca vita penitente come la Maddalena nel deserto; no, l'ho già detto, io ammiro tutte le vocazioni quando sono buone e vere; ma sono ben lungi dal consigliare alla generalità quanto può essere consigliato soltanto ad alcune anime privilegiate, le quali hanno inteso la voce dello Sposo che le chiama a servire Lui solo per tutta la loro vita. Beate quelle anime! io le ammiro e le invidio! Ma io e tu siamo chiamate da Dio a percorrere la via ordinaria, siamo però chiamate a percorrerla rettamente e santamente: guai a noi se dopo d'aver ricevuto tanti doni e tanti lumi da Dio deviamo dal sentiero del bene e della virtù!... Mia cara, non credere ch'io ti voglia sacrificare all'isolamento e alla tristezza, poichè anzi desidero e voglio come S. Filippo Neri vederti sempre allegra e contenta. Divertiti, divertiti pure; ma il divertimento per te sia uno svago dopo il lavoro, non l'occupazione speciale della tua vita; sì divertiti, divertiti pure, ma non dei divertimenti mondani, chiassosi, colpevoli; ti piaccia godere nella conversazione dei tuoi famigliari, e nelle festicciole che si danno in casa tua. Ti dirò anche di più: promovi tu pure, ove nol vietino circostanze speciali, promovi tu pure o in casa tua o delle tue parenti od amiche ritrovi piacevoli, qualche merenda, perfino qualche recita; e vedrai che questi semplici piaceri saranno più cari al tuo cuore di quelle feste grandiose e turbolente che ti fanno tanta gola perchè le vedi da lontano. Oh! quelle feste, credilo, sono più che mai spinose, strapperebbero dalla tua fronte quel fiore che tanto l'adorna, la cara ingenuità, e pianterebbero nel tuo cuore quell'acuta spina che ahimè! lo farebbe forse sanguinare fino all'ultimo anelito! 18 Non basta però conservare gli anni della giovinezza ugualmente lontani dalla tristezza e dalle folli gioje; bisogna altresì seminarli di buone azioni, e soprattutto immergerli in un bagno di pace e di soavità. Dove si trova questo bagno? Oh! vieni, vieni qui vicino al mio cuore, affinchè io ti mostri l'immagine della Madre nostra, te la presenti a modello, e ti persuaderai agevolmente che imitando la Vergine santa, e adempiendo fedelmente i tuoi doveri, gli anni tuoi correranno sereni; e come la rosa apre olezzanti i suoi petali alla rugiada mattutina, e dal sole e dalla luce prende i suoi vaghi colori, così gli anni tuoi giovanili saranno imperlati e tinti dalla rugiada celeste e dai raggi dell'eterna luce. Ti ho detto in principio: bisogna prepararsi alla vita che ti attende, bisogna prepararsi senza perdere il tempo in inutili vaneggiamenti, anzi non solo inutili ma sommamente perniciosi all'anima; ora soggiungo: bisogna prepararsi all'adempimento dei doveri più gravi di padrona e di madre col perfetto adempimento dei doveri meno gravi di soggetta e di figliuola, Ora, pel momento chiudi il libro: rifletti seriamente in cuor tuo, chiedi a Dio i lumi, ed a rivederci domani. Domani ci intratterremo di te soltanto. Addio.

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La madre sopporta ora in pace la vedovanza, la ristrettezza, l'infermità, e fino l'abbandono del mondo e delle sue lusinghe; stringe colla figlia un nodo di sovrumano amore, la guarda con venerazione, pone ogni sua cura a preservarla dai pericoli, e le abbandona tutto il suo cuore. È notte: ecco la giovinetta riposare tranquilla; ma la madre non è ancora sazia di riguardarla, si leva dal letto, s'avvicina a quello della figliuola e la vede sorridere fra il sonno; sfiora un leggero ma caldo bacio su quella fronte serena, e levando al cielo i suoi occhi pregni di lagrime esclama commossa: Buon Dio! io ho dato appena la vita del corpo a quest'angelo, e quest'angelo mi dona invece la vita del cuore, la vita dell'anima: Buon Dio, Vi ringrazio! Entriamo adesso se ti piace in un'altra famiglia. Qui tutti sono buoni, il padre, la madre, i fratelli; ma il padre è occupato nel suo offizio, e quelle ore che si ferma in casa sono destinate al riposo del corpo e della mente, e non deve nè può occuparsi della domestica azienda, la quale è disimpegnata dalla saggia consorte. Ma essa, poveretta, non può far tutto da sè, poichè non ha una salute molto fiorente, e la numerosa figliuolanza ed altre molte brighe accrescono prodigiosamente il numero e la gravezza delle sue occupazioni. Qualche parente od amico vecchio di casa, intrigante anzichè no, consiglia, critica, brontola, qualche volta a proposito, ma più spesso a sproposito, mettendo così in croce quella povera signora la quale non sa cosa fare e cosa decidere. Ma il buon Dio, sempre buonissimo, ha veduto il suo impiccio, ed ha permesso che le sue forze durassero fino ad oggi in cui la sua primogenita ha compito la sua educazione, ed in conseguenza fa a lei ritorno. Quella figliuola è bella, è buona, è dotata di un ingegno fino e di una grande penetrazione; ma soprattutto ha attinto dagli ammaestramenti ricevuti una tale sodezza di principj, da porsi al sicuro contro le tentazioni che il mondo cattivo saprà suscitarle nel servo stesso della sua famiglia, nel segreto della sua cameretta, nell'intimo del suo cuore. Essa sa che menare vita cristiana non vuol dire portare il collo torto, sciogliersi in sospiri ed in lacrime quando si prega, farsi stupore e prendersi scandalo d'ogni cosa, e criticare tutti coloro che conducono una vita dalla sua diversa, e neppure prendere la religione in un modo materiale, mormorando contro coloro che non la praticano, o portando loro del danno. No, essa prega perchè deve e vuole pregare Colui dal quale tutto le viene; ma prega con retta volontà e retta intenzione, senza ostentazione nè sdolcinature, tanto se è nascosta agli occhi di ognuno, quanto se è veduta da numeroso concorso di popolo, non occupandosi punto delle azioni altrui, lodandole se onorevoli, e celandole o scusandole se biasimevoli; ed ove non può scusare l'azione, fa di tutto onde almeno scusare l'intenzione. La sua carità si modella su quella di Dio che illumina col suo sole e ricolma de' suoi beneficj i cattivi come i buoni, ed agli uni ed agli altri cerca ugualmente di giovare coll'opera sua quando lo può, e sempre poi tutti appoggia colle sue preghiere. La virtuosa giovinetta si è preparata alla vita di famiglia studiandone da lunga pezza i doveri, ed avendo acquistato la convinzione che non può riuscire utile altrui, e dare a sè stessa la pace del cuore, (quella che ci viene come premio di avere adempito la propria missione), senza il sacrificio della propria volontà si è affezionata più che mai alla difficile virtù che tutte le altre comprende, e che si chiama annegazione cristiana. Eccola, dimentica da sè, ricordarsi delle necessità altrui, ajutare la genitrice nella domestica bisogna, prendere sopra di sè tutto quanto è più grave e meno soddisfacente, non istarsi mai cheta se non ha disimpegnato con puntualità e con coscienza tutto quanto può a sollievo della madre, levarsi per tempo in vece sua per allestire i fratelli e le sorelle minori, affinchè possano andare alla scuola, od accingersi allo studio, al quale essa medesima li ajuterà senza posa. La giovinetta è ancora fanciulla: ma essa si occupa di tutto e di tutti, ed anzichè darsi l'aria di vittima come fanno talune, ha sempre un sorriso sulle labbra, anzi nello sguardo; un sorriso che la rende più bella se già è bella, che la rende bella ancorchè le sue forme sieno più o meno irregolari. Per qual ragione alcune persone, ancorchè avvenenti, riescono antipatiche, ed altre, pur essendo prive di tutti i doni di natura, si acquistano la confidenza e la simpatia d'ognuno? La virtù sola dà questo prestigio. Quando torna il padre, stanco del lungo lavoro ed oppresso da qualche contrarietà, la figlia gli è intorno colle sue carezze, e quell'uomo che era entrato in casa collo sguardo tristo, coll'animo corrucciato da qualche dolore o contrattempo, pur rispondendo alla pietosa insistenza della fanciulla con piglio severo e con parole tronche, quasi ultimo sfogo del suo corruccio, ben presto si rasserena, la guarda con occhio di compiacenza, la desidera a sè vicino, si intrattiene seco lei, e nel segreto del suo cuore innalza a Dio un atto di ringraziamento di avergli donato quell'angelo. Si ammala la madre, o qualche altro della famiglia? Un intrigante indiscreto tenta mettere il mal seme in casa? I genitori sono tra loro discordi in cosa di piccolo o di grande rilievo? La figliuola ricorda la propria missione, e pronta ed instancabile al letto dell'ammalato, prudente e franca con chi vuol rompere quella bella pace che essa è oltremodo solerte di produrre e di mantenere in famiglia, evita ogni pettegolezzo, ogni mormorazione, non parla se non per avvicinare i cuori; ed essa od ignorando di essere la causa di tutto il bene, od attribuendolo come è suo debito unicamente a Dio, diventa e si conserva uno di quegli angeli consolatori che dopo di essere stati la benedizione della casa dove sono nati, sono destinati a diventare la Provvidenza di un'altra famiglia alla quale saranno date per premio. Dimmi, amica carissima, non ti piace la mia fotografia? non la trovi veritiera, se ne cerchi l'originale in taluna delle tue conoscenze? Per me non ho fatto che ricopiare fedelmente una leggiadra donzella di diciotto anni che conosco benissimo, amo ed ammiro, la quale maggiore ad altri otto tra fratelli o sorelle, a tutti è ajuto, esempio, conforto; ubbidiente coi genitori, amorevole colla servitù, instancabile dal mattino alla sera, non dimentica i suoi religiosi doveri, e quando talvolta io la vedo in chiesa inginocchiata all'altare cibarsi del Pane degli angioli, io la guardo con ammirazione, e mi pare vedere in essa l'angelo della preghiera calato dal cielo a sollievo di coloro che hanno la fortuna di possederla. Oh! se tu non trovi di essere la figura che io ho fotografato, e fotografato fedelmente, deh! sforzati di somigliarla, talchè sia detto di te pure che non solo devi essere, ma sei veramente l'angelo della tua famiglia. Forse le circostanze tue saranno diverse da quelle alle quali ho accennato, ed io diventerei troppo prolissa e forse nojosa, se tutte o molte passassi in rivista di quelle famiglie le quali ponno avere ed hanno effettivamente una risorsa nella pietà allegra e serena di una giovinetta. Comunque però sia costituita la tua famiglia, sia in alto od in basso stato, di largo o di stretto censo, esposta all'osservazione ed alla critica della società, o nascosta in una vita umile, modesta e ritirata, tu puoi, tu devi recare nel suo seno il frutto della tua operosità, adoperandoti colla mano e colla mente in tutto quanto le può giovare la tua cooperazione. Tu devi recare nel suo seno la tua prudenza, evitando quegli scontri di caratteri; di opinioni, che tentano di scuoterne la pace e di allontanare gli animi; tu devi recare nel suo seno l'esempio vivo della vera cristiana pietà e carità, tutto perdonando, ed esercitando senza posa la santa annegazione... Giacchè ti ho nominato questa bella virtù, non voglio passarla sotto silenzio, e mi prometto di parlartene domani, se il Signore sempre buono anche coi cattivi, vorrà mettermi in cuore quello che dovrò dirti. Intanto tieni ben a mente che tu, pur vivendo in famiglia, ed adempiendo i doveri comuni, li devi adempiere in modo non comune, come ti ho già detto altra volta. Le opere tue debbono essere segnate con una impronta di pietà, di carità, di dolcezza, poichè se devi somigliare agli angeli, pensa che essi non agiscono altrimenti. La vita ti correrà più serena, e nelle dolorose come nelle felici vicende, un pensiero ti pioverà nel cuore come balsamo soave e ti dirà:Il tuo dovere l'hai compiuto; Iddio te ne prepara in cielo la ricompensa.

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La figliuola modello, l'angelo dell'annegazione in simile conflitto asciuga furtivamente il suo pianto, e lo sfoga liberamente solo appiè del Crocifisso; non sa a qual partito appigliarsi per non far nascere rancori e guai, spesso funestissimi, e dopo di avere domandato consiglio ed inspirazione all'Angelo che sempre le sta al fianco, si abbandona confidente alla Provvidenza. Quella buona e virtuosa creatura si guarda bene dall'eseguire l'ordine più piacevole, o meno difficile; ma si adopera ad eseguire quello che crede più giusto, che può suscitare minori contrasti; impiega tutta la dolcezza del suo cuore, tutta la sua influenza per far rivocare l'altro, per acquietare gli animi, per dissipare ogni nube, per ritornare il buon accordo e la serenità, dove un atto solo meno prudente avrebbe bastato a suscitare una tempesta, in cui avrebbero fatto sicuramente naufragio la carità e la pace. Certe damigelle non si fanno scrupolo di farsi ben volere dalla nonna o dalla zia, col raccontar loro appuntino, e forse anche con esagerazione, il male dettone da alcun altro della famiglia, e se la nonna o la zia non hanno la capacità ed il criterio di far tacere la imprudente, ma hanno la debolezza di ascoltarla, questa, benchè alle volte colta o titolata, diverrà poi una ciarliera, una maldicente, sarei tentata di dire una donna da trivio. Ma tu sei e vuoi essere sempre figliuola modello ai tuoi genitori, ai tuoi nonni, e quindi sarai anche nipote e cognata modello, e la zia, la sorella ed il fratello, non dovranno certo lagnarsi con te se non di aver tu santamente cospirato a cementarne la pace e la tranquillità. A donzella di buona famiglia e di buona educazione saranno, io spero, superflue queste mie raccomandazioni ed altre che sono per fare, poichè riguardano strettamente le regole del vivere comune; ma la religione nostra appunto perchè buona e santa, è madre e maestra dello stesso vivere comune, e seguendo i suoi dettami possiamo star sicuri di non andare errati e di non renderci di peso o d'ingombro alla società, ma di giovarla e di migliorarla. Coloro che conoscono la religione nostra solo di nome, e pure maltrattano quelli che la professano, o fanno le viste di professarla, si compiaciono di dire e di ripetere ai quattro venti, che la gente di chiesa è maldicente, curiosa, mettimale... Mi pare debba bastare questa sola calunnia ad aprirci gli occhi ed a farci star bene sull'avviso di non cadere e di non farci cogliere in fallo, poichè unicamente per colpa nostra verrebbe denigrato il nostro principio, che è quello della verità e della giustizia, poichè stoltamente dai mondani ad esso si attribuisce quanto a noi soli ed alla nostra miseria dovrebb'essere imputato. Pensa quanto noccia al buon andamento di una casa ed al credito di una fanciulla il suo incaricarsi di quanto non le spetta, e l'indagare curiosamente le operazioni e le intenzioni altrui, e, per carità! guardati bene dall'essere curiosa ed indiscreta, chè mancheresti insieme alla civiltà ed alla religione, e perderesti il prestigio giustamente guadagnato colle tue virtù. O figliuola, fa tua delizia l'essere obbediente, dolce, amorevole con tutti, e quando vedi taluno di casa tribolato o corrucciato, sii tu l'angelo del buon augurio che gli asciuga le lagrime, gli torna il sereno, e con quell' eloquenza che viene dal cuore fagli sentire che dividi le sue pene. Sì facendo, potrai anche raddrizzare qualche idea storta e potrai perfino far assopire un antico rancore e stabilire una pace sincera dove annidava l'odio... Sì, sì, credilo pure; se tu sarai pia, buona, se avrai la virtù dell'annegazione, tu opererai veri miracoli, veri miracoli. Taluno non vuol sentire questa parola, e non vuol prestare credenza neanche a quelli ai quali è obbligato di credere, sotto pena di eresia, quali sono i miracoli accennati nelle Sacre Scritture e segnatamente nel Vangelo; ma poi dimmi, che nome danno essi a certi mutamenti repentini, impensati, radicali, che si operano in alcune anime? Il fatto evangelico della Maddalena che giovane, bella, ricca, dotata di tutti i vantaggi sociali e personali, tutto abbandona per abbracciarsi strettamente al servizio di Dio, è un fatto che ogni giorno si ripete sotto i nostri occhi, e per quanto prodigioso lo è però molto meno di altri, i quali meno notati e meno avvertiti, si operano nel segreto delle coscienze. Certe persone covano pensieri d'odio, di vendetta contro altre dalle quali hanno ricevuto sanguinosi affronti: dispongono un vero piano di guerra, che pochi falsi amici conoscono ed applaudiscono, perchè com'essi credono diritto dell'uomo giudicare e punire, e dignità il vendicarsi. Una di quelle persone che si tengono, e sono talvolta gravemente offese, ha la fortuna di essere attorniata da una pia donzella che essa vorrebbe tenersi lontana parendole di vedere nella sua condotto una condanna alla propria. Ma la donzella continua la sua pietosa persecuzione; per quell'intuizione che possiedono le anime pudiche e devote, indovina il segreto che con tanta cura le si vuol tenere nascosto; cerca nel proprio cuore la via per giungere al cuore della zia, vi entra, vi domina, ad onta che la si rimbrotti e le si ripeta di non impacciarsi in faccende che non la riguardano: la donzella con piè leggiero e forse inavvertita entra e domina sempre più in quel cuore straziato, vulnerato, vi lascia cadere una goccia di quel balsamo che ha attinto nel Cuore di Dio; quella goccia si dilata, investe quel cuore vulnerato, lo sana, lo rinfranca... Che è, che non è? La signora tale, la quale poco tempo fa avrebbe dato metà della sua vita per avvelenare quella del suo nemico, oggi gli perdona, prega per lui, giunge perfino a beneficarlo! S'egli è povero, essa trova la via per fargli arrivare un soccorso, per fargli avere un impiego, e pur sentendo dentro di sè la lotta terribile dell'orgoglio contro la fede, con questa tiene quello in freno, e le inspira un mite e caritatevole consiglio. La nipote vede finalmente spianata quella fronte; vede serpeggiare un mesto ma placido sorriso su quelle labbra, si sente stretta al seno con insolita tenerezza; ebbra di gioja domanda la cagione di tanto mutamento, e tutto crede fuorchè di essere stata essa che lo ha generato. Altri chiamerà questo e simili fatti che si ripetono quotidianamente col nome di stranezze e perfino di debolezze; io per me non so classificarli con altro nome se non con quello di miracoli della pietà verginale, nè so riguardarli altrimenti che comprovanti la sublime origine dell'uomo, e la grande potenza ch'egli tiene celata in fondo al cuore. Io vorrei, voglio anzi vederti operatrice di somiglianti miracoli, e se avrai buon cuore, retta intenzione e devozione, sacrificio, annegazione vera, ti capiterà frequente l'occasione di farne; se ti sarà negata in vita la soddisfazione di conoscerli e di goderne, li conoscerai un giorno quando ti verrà poggiata sul capo una gemmata corona, una corona che t'inonderà di un gaudio che non avrà fine giammai.

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Allorchè una persona non ha più l'animo travagliato da alcun dolore, e davanti ai suoi occhi brilla l'iride a prometterle lunga pace, per un poco si pasce delle rimembranze dolorose, del dolore passato, poi si abbandona ad una quiete illusoria ed ingannevole perchè troppo prolungata. Nella sua quiete è più infelice del nocchiero, poichè com'esso non vede che quella bonaccia le cagionerà la morte, e se non chiede ajuto a chi solo glielo può dare, miseramente langue, miseramente muore. Nella vita delle coscienze la bonaccia è tanto pericolosa, che il buon Dio sempre provvido ed amoroso anche quando gastiga, d'ordinario non ne prolunga lo stato; ma invia le malattie, le privazioni, e permette quelle croci d'ogni dì delle quali abbiamo, mi pare, fatto un cenno, per toglierle da un grave pericolo, e salvarle da sicura morte. Talora permette la bonaccia per provare la nostra fedeltà, e vedere se sappiamo ricordarci di Lui anche quando tutto cospira a renderci egoisti e dimentici: ma più spesso la bonaccia è una delle più terribili punizioni ch'Egli infligge a chi lo nega, e pretende di vivere senza di Lui; dapprima li ha provati colle sventure, coi rimorsi, ma vedendo che questi anzichè convertirli li irritavano, Egli li ha puniti lasciandoli abbandonati a sè stessi... Pure è il suo sole che li illumina e riscalda; pure sono le pecore da Lui create e tutte le sue creature che lor provvedono vesti e comodi; pure è il grano ch'Egli fa germogliare, che dà loro il pane, tutto il necessario alla vita! Ma essi nulla intendono: giaciono sull'onda immobile dell'immoto oceano, si specchiano in quella quiete fatale, vivono nel contentamento delle loro passioni, e trovano che Dio è un'invenzione, od un pleonasmo. Ma siccome io credo che pur troppo nella nostra società regni e domini l'ateismo per così dire, teorico, ma presto pochissima fede all'ateismo pratico, così penso che molti lo dicano, ma assai pochi credano davvero che Dio sia un'invenzione; mentre tengo per fermo che molti e molti lo negano a parole, o se ne burlano, appunto perchè lo credono un pleonasmo che si può sopprimere, senza verun danno, e di cui essi si vantano di volere e di poter fare a meno. Buon Dio! e chi toglierà quei poveri ingannati ed illusi a quella fatale bonaccia, più terribile per essi della più fiera tempesta? Ecco là; un vapore si avanza, si appressa, manda i suoi ministri ad offrire un infallibile ajuto... Il capitano marittimo non ha saputo resistere alla generosa offerta di salvamento; ma l'uomo mondano non crede al pericolo, rimanda e deride chi a forza d'amore lo vuol salvo... e perisce, ahi! pur troppo perisce se persiste a rifiutare il suo ajuto. Ma tu, figliuola, se a bordo della tua agile navicella custodisci ed ami il vapore della cristiana carità, sarai giovata dalla quiete del mare, e la bonaccia anzichè di pericolo ti sarà di premio, poichè togliendoti alla lotta ed alla furia dei venti e delle onde non sarai ritardata nel corso. Che se tu privassi la tua nave di quella forza possente, se tu confidassi nelle sole tue forze...? No, non voglio essere l'uccello del cattivo augurio; non voglio farti minacce; ma ad imitazione di Colui che dolcemente c'invita, ci esorta, ci obbliga quasi con una legge tutta di amore, mi proverò a dirti qualche cosa della carità ch'Egli è venuto a portar sulla terra, e ti ripeterò la sua dolce parola:Venite a me tutti, io vi ristorerò, io vi consolerò; venite a me!

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Apriti a Lui, confidati a Lui; Egli ha parole di vita, ha un'acqua che a chi ne beve non verrà più sete giammai; Egli ti cerca, ti segue, ti è sempre sempre a fianco, non ti abbandona un solo istante. Oh! se hai bisogno di espansione, non puoi espanderti in amico più degno... Corriamo, corriamo assieme a quel fonte di ineffabile gaudio, ivi le nostre anime s'incontreranno, si abbraccieranno, si ameranno con un amore puro, virtuoso, santo, meritorio, che il tempo nè le vicende non indeboliranno più mai, ed avendo l'amor nostro radice in Dio, vivrà come Dio eternamente. A rivederci nel Cuore adorabile del nostro Redentore, dove il cuor nostro bisognoso di espansione sarà completamente ed esuberantemente soddisfatto e consolato. Corriamo a Lui!

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Il maledico, quando vede che la sua parola pungente ed il suo riso beffardo non scuotono menomamente il sistema di vita religioso e caritatevole di coloro che aveva destinato di fare sue vittime, abbandona il campo, e prende a perseguitare anime più deboli o meno forti. Ho sempre creduto e credo ancora che il rispetto umano era ed è il vizio o la tentazione delle anime piccole, le quali non sanno francamente fare e sostenere una cosa, per ciò solo che è buona, o doverosa, o benefica; ma hanno continuamente bisogno dell'approvazione altrui, non solo per superare gli ostacoli, ma altresì per vivere come si deve. Il vero esercizio delle cristiane virtù esige non solo il disprezzo del giudizio del mondo; ma perfino talora esige che si superi il giudizio di alcuni, i quali pur essendo buoni vivono ingannati a nostro riguardo, e troppo creduli alle apparenze, condannano talora le migliori nostre azioni fatte col miglior fine possibile. In questo caso Iddio ci permette di giustificarci con essi, affinchè il nostro buon nome, che pur è dono suo, non venga macchiato; ma se dentro ci fosse impigliato l'interesse del nostro prossimo e questi venisse a soffrirne ove noi svelassimo la cosa, sarebbe segno di una carità veramente cristiana se tollerassimo sopra di noi il biasimo non meritato, attendendo pazientemente da Dio la prova della nostra innocenza, quantunque in via di diritto potessimo difenderci senza renderci colpevoli colla divinità. Non vorrei tu dicessi che io esco d'argomento; ma ove tu me ne facessi un carico, io ti direi che ti ripeto tutto quanto Dio buono mi inspira per il tuo bene, perchè questo guazzabuglio del nostro cuore è un vero caos, che non può ricevere ordine e luce se non da Lui. O buon Gesù, illuminatemi Voi! Vi hanno altresì alcune circostanze nelle quali pur operando il bene, veniamo circondati e dirò quasi oppressi da certe apparenze di colpa, che niuno, neanche il più delicato del proprio buon nome, può pur volendo discolparsene: ora anche qui sarà forza prendere in pace quanto ci viene, aspettando da Dio la nostra giustificazione presso gli uomini. Credi tu, mia cara, che tutti coloro che appariscono iniqui o delittuosi lo siano poi veramente? È bensì vero che la verità tosto o tardi, come l'olio, viene a galla; ma talvolta viene a galla quando l'accusato ha già subìto l'ingiusta pena inflittagli, e ne è salvo soltanto il suo nome. Giovanna d'Arco, per tacer d'altri mille, non ha subìto la pena finale sotto l'accusa di sortilegio e di tradimento, e il tempo non ha dimostrato più tardi chiara come il sole la sua innocenza? Credilo, cara mia, per quanto tenera tu sia delle dicerie correnti sulla tua condotta, non arriverai certo a smorzare gli strali della calunnia e della maldicenza; anzi quanto più sarai e ti mostrerai tenera del giudizio altrui, tanto più sarai fatta bersaglio agli strali della mormorazione. Pensa, mia diletta amica, pensa che fin qui io ho ragionato esclusivamente cogli argomenti dell'umana prudenza, e dell'egoismo del maggior possibile benessere civile e sociale, il quale ci mostra che quanto più uno vuol essere francato dalle sevizie dei maldicenti, dev'essere e mostrarsene nulla curante. Buona signorina; tu da poco sei uscita di collegio, da poco sei entrata nella società, quindi ben a ragione sei inesperta, ed incerto è il tuo passo ed il tuo giudizio. Ben io m'accorgo che molte fiate tu alzi lo sguardo sopra coloro che sono o sembrano più stimati e più apprezzati dalla società, e decidi in cuor tuo di seguirne le pedate. Se la stima da essi posseduta è un premio al vero merito, prendili pure a modello; ma se invece... Dammi qui la tua nano che io la stringa; lascia che il tuo cuore si affidi al mio cuore, e non celare il tuo turbamento: tenti invano nasconderlo. È sì dolce confidarsi e lasciarsi consigliare da un'amica, che non inganna! Ed io non t'inganno, no, poichè io non sono mossa ad amarti per veruna di quelle mille doti che allucinano perfino l'anima più retta; io non ti vedo, non sono quindi ammaliata dai tuoi pregi personali, nè so se il tuo nome appartenga ad una famiglia nobile e potente, o plebea e bisognosa e debole. Io ti amo solo perchè sei un'anima riscattata a prezzo di tutto il sangue di un Dio, e perchè il Signore alla fratellanza, comune tra tutti i suoi figli, aggiunge una stretta parentela, incaricandomi di parlarti di Lui, dei tuoi doveri, e commettendomi il dolce incarico di coadjuvare all'opera sua di farti buona, pia, religiosa, a giovamento della famiglia tua e della società. Vedi, elevatezza del concetto cattolico! Iddio vuole e ci comanda di portare ognuno la nostra pietruzza al perfezionamento della grande famiglia cristiana, ed ognuno vi coopera mirabilmente curando incessantemente il maggior possibile perfezionamento proprio e l'altrui. Ora, torniamo a noi: io voglio fare te medesima spettatrice e giudice, e se tu mi parlerai schietto, certo i nostri pareri non saranno discordi. Immaginiamoci che in una sala si trovino molte persone a conversare, e che un signore dallo scilinguagnolo molto esercitato, si goda diporre in canzone la signora tale, perchè, schiva delle leccature della così detta buona società, conduce una vita strettamente religiosa e dedita ai propri doveri ed alla carità cristiana. Una damigella pia e franca insieme, mentre altre sue compagne atteggiano la bocca ad un sorriso (forzato sì, se guardiamo in fondo al loro cuore, poichè esse pure approvano la condotta di quella dama, ma che pare un sorriso di approvazione), una damigella franca e sicura, trova modo di superare la naturale sua timidezza, volando col pensiero ai piedi del Tabernacolo; e con piglio dolce e sicuro confessa di stimar molto la signora tale, appunto perchè buona e pia e caritatevole, e che sarebbe ben lieta, di divenirne una copia fedele, a rischio pure di ricopiarne i microscopici difetti, se pur son tali quelli che le si appuntano. Dato che tu ed io fossimo state nascoste in un angolo di quella sala, o peggio fossimo state nel numero infelice di quelle dal riso forzato, ancorchè avessimo veduto in ultimo aprirsi un riso beffardo o lanciare un sarcasmo alla damigella franca e pia, dimmi, non ci saremmo sentite avvilite di molto e a petto a lei infinitamente inferiori? Oh! io per me penso, che se quella società fosse stata composta di cento persone, novantanove si sarebbero sentite certamente comprese da un senso di profondo rispetto per la centesima, la quale ha avuto il coraggio della propria opinione. Nè io muterei d'avviso quand'anche l'opinione sostenuta fosse divergente dalle altre, poichè quando vedo uno non ostinarsi in un capriccio, e questa è debolezza; ma sostenere con fortezza e con coraggio ciò che fermamente crede, io m'inchino davanti a lui, e lo ammiro, e lo invidio. È già tardi, ed ancora non t'ho parlato delle ragioni morali e religiose che c'impongono di sfuggire il rispetto umano, come il morso velenoso di una vipera che dove tocca porta la morte, ove non si sia pronti col ferro e col fuoco a troncare ed a bruciare la parte offesa. Io pel bene che ti voglio e per quello che ti desidero, vorrei tu evitassi il morso ed il rimedio, poichè se l'uno è portatore di morte all'anima, l'altro ci libera è vero dalla morte; ma o ci lascia monchi, o deboli ed infermicci, almeno per lunga pezza. Vado volgendo e rivolgendo nella mente, la ragione per cui alla paura del giudizio che porta o si teme porti alcuno sulle opere nostre, sia stato dato quel nome menzognero di rispetto umano, e mi pare possa essere questa l'unica spiegazione: che cioè, l'uomo per esso è tentato a portare maggior rispetto all'uomo, che a Dio; mentre non è rispetto all'uomo, ma viltà e codardia, quella che fa mostrarci diversi da quelli che siamo. Pure la fede c'insegna che Dio solo è nostro giudice; che dobbiamo coraggiosamente sprezzare il giudizio fallace degli uomini, i quali non ponno torcere uno solo dei nostri capelli, senza il consenso del Padre nostro che è ne' cieli. Dimmi adunque: sei tu convinta che Iddio ha diritto di ricevere il tributo della tua devozione, e che tu sei obbligata a confessarlo Creatore e Padrone di tutte le cose, e Padre di tutti gli uomini? Come adunque, ove senti vilipeso il suo nome, puoi non cercare, non trovare nel tuo cuore il coraggio di confessarlo, di serbarti a Lui fedele? Io lo so, e tu pure lo sai, noi dobbiamo essere pronti a sostenere la nostra santa fede, anche col sacrifizio della nostra vita, ove siamo posti nell'alternativa di dover abbandonare l'una o l'altra. Io son certa che nel tuo cuore tu hai rinnovato il giuramento fatto nel santo Battesimo, di essere pronta a tutto perdere, fuorchè la grazia di Dio, ed a sopportare ogni tormento piuttosto che piegarti a tradire gl'interessi del nostro buono e carissimo Padre. Lodo altamente le ottime tue disposizioni, ed auguro e prego che ti regoli mai sempre seguendo il loro dettame. Ma, entriamo, se mel consenti, entriamo nei dettagli della vita, poichè lo so, pur troppo, per esperienza! colle migliori disposizioni del mondo in teoria, si casca poi miseramente nella pratica, ove non ci siamo rafforzati in precedenza colla meditazione dei nostri doveri verso Dio e verso noi medesimi. Tu dici: darei la vita piuttosto che rinnegare il mio Dio ed anche uno solo, anche il minore dei suoi dommi; e poi se ti trovi vicino ad un beffardo o ad un incredulo che sparla di Dio o della verità rivelata, perchè egli ha nome di essere o un grande, o un uomo di alta coltura e di dottrina (non però certo della vera), non hai forza bastevole per dirgli che tu la pensi ben diversamente, e che augurandogli una riforma nelle sue credenze lo preghi a non ripetere più, nè prolungare un discorso che ti ferisce nelle più intime e care tue convinzioni! Lo so bene; non sempre è doveroso e neppure opportuno mettersi a discutere di religione, poichè bene spesso molte persone, ignorantissime in punto di fede, sanno sostenere le loro false argomentazioni con tale loquacità e con tale apparenza di dottrina da porre in un sacco chicchessia. A te non istà bene mai e poi mai metterti in cattedra a sdottorare, neppure a profitto della religione, ove non sia per istruire od illuminare persone decisamente e marcatamente a te inferiori; poichè, per me, vale più assai di una splendida difesa, la parola timida ma sicura d'una povera fanciulla che ripete: credo e voglio credere sempre, di quanto non valga un'arringa brillante. Ho conosciuto molto davvicino una ragazza di una discreta coltura e di sentimenti cattolici radicati, che avvicinata, per permissione di Dio, da uno di quei serpi che tentano portare la loro bava velenosa ovunque ponno trascinare il sozzo loro corpo, lo dovette solo all'aver superato ogni rispetto umano, se non bevve con esso nella tazza dell'incredulità. Con ogni lusinga quel serpe, che non era altro se non un colto e forbito cavaliere, cercava scuotere le credenze della giovinetta, e vedutala inaccessibile alla corruzione del costume, perchè la buona e sana educazione ricevuta ed una certa maturità di mente ai suoi sedici anni le servivano di corazza, tentò un veleno più insidioso e micidiale, sotto l'apparenza di bevanda ristorante, e grata, e benefica. La buona madre, appunto perchè buona, non si accorse dapprima delle arti del maligno, e consentì di buon grado che il cavaliere forbito e colto cercasse perfezionare l'istruzione letteraria della sua figliuola. Ma ahimè! qui appunto stava l'inganno e la figlia e la madre non sarebbero sfuggite all' agguato, se Iddio in premio della rettitudine del loro buon volere, non avesse loro concessa la grazia di disprezzare coraggiosamente la vergogna d'essere tenute dappoco. Il tristo, Dio gliel perdoni, incominciò a dare alla giovinetta alcune lezioni di letteratura che non avevano apparenza, anzi neppure un principio di male. Compra così la fiducia delle due donne, la mamma lasciò qualche volta sola la figlia; e questa dopo poco tempo si accorse da qualche sogghigno beffardo e da qualche motto insidioso, che il sedicente maestro tentava scuotere la sua fede. Ella si vergognò di parlarne alla madre; ma ebbe forza sufficiente di contrapporre all'eretico le proteste della sua ferma credenza; e comechè egli fosse persona più che mediocremente colta e straordinariamente eloquente, ed ella fosse d'una coltura appena mediocre e priva di esperienza, non fu menomamente scossa nella sua fede, ma coprì di confusione in quella voce colui che tentava pervertirla. Questi allorchè vide inutile ogni suo iniquo tentativo e seduzione, ebbe a confessarle che aveva cercato smuovere dapprima la sua fede pensando che, ceduto anche d'un punto solo in questa, d'un tratto avrebbe poi sceso tutta la scala che guida alla corruzione e... diritto diritto all'inferno. La condotta di quella fanciulla è da biasimarsi in parte almeno, poichè essa doveva aprirsi tosto colla madre, e doveva correre dal suo confessore a chiedergli consiglio, e non aspettare un mese od un mese e mezzo a ricorrere a questi mezzi di salute; ma possiamo rifiutarci di approvare in essa quel coraggio e quella costanza colle quali oppose le proteste della sua fede alle irrisioni del corruttore? Ecco a che si ridusse tutta l'eloquenza usata per ribattere le cattive dottrine del maestro: o credo fermamente nella veracità delle mie credenze; ma fosse anche un sogno, amerei meglio sognare con esse che essere desta con lei. Saresti forse tentata di credere questo un racconto romantico, ed un volo poetico della mia fantasia? No, mia cara, la fanciulla della quale ti parlo non è più fanciulla; io la conosco molto davvicino, ha la mia età, e se ti dicessi ancora qualche altra cosa, forse troveresti di conoscerla tu pure. Quello che ti posso dire si è che quella fanciulla si è poi mantenuta fermissima nella sua fede, e che quel cotale, allorchè vide che non la poteva scuotere in verun modo, cambiò paese... ma pur troppo non d'opinione. Ed ora che ne è di lui? Che ne sarà? Prega Iddio di toccargli il cuore. T'ho trattenuta più - dell'usato, ed ancora mi resta tanto tanto da aggiungerti in proposito al rispetto umano, che mi piange il cuore a troncare lì a mezzo. Ma abusare di tua bonta e trattenerti più lungamente non mi regge l'animo: se saprò resistere alla tentazione di ritornare domani nell'argomento, te ne riparlerò allorchè saremo a trattare dell'adempimento delle pratiche positive di nostra santa Religione. Altrimenti? Intanto tieni bene a mente quel che diceva quella giovinetta:Meglio sognare con Dio che essere desti con coloro che lo negano e lo bestemmiano. Dio, ricordatelo sempre, Dio ti ha creata, ti ha beneficata, ti conserva l'esistenza e ti prepara e ti promette un premio eterno, il Paradiso, se ti conservi fedele a Lui, che come Dio non può ingannarsi, nè ingannare. L'incredulo all'incontro nulla ti dona, anzi cerca rapirti quello che hai di più caro e prezioso, la pace del cuore, per gettarti nell' angustia e nel dubbio, e ti prepara una pena eterna, l'inferno, mentre ti promette il nulla. Oh! s'egli è ingannato, non lasciare che ti inganni egli mai! 7

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Gli ultimi saranno i primi ha detto il Signore nel suo santo Vangelo, e sì dicendo c'indica nell'umiltà un mezzo potentissimo a vincere la vanagloria e quell'amor proprio che attribuendo a noi medesime un merito fittizio od immaginario, o altresì un merito reale ma che dovrebbe essere attribuito a Dio solo, ci priva dell'appoggio celeste, ci isola, ci abbandona a noi stesse ed alle nostre miserabili forze. Le parole del nostro Salvatore c'indicano non solo un mezzo efficace nell'umiltà, ma benanche il premio ad essa riservato se ne siamo fedeli osservatrici. E dire, e tu pure il saprai, che chi parla della nostra religione senza intendersene affatto, pretende che l'umiltà sia un sentimento ed una virtù ipocrita ed avvilente!... Oh! piangiamo sui poveri illusi, o piuttosto ingannati, e ringraziamo il Signore di 52 averci fatto comprendere che l'umiltà è sincera, ed anzichè avvilire esalta i suoi cultori, promettendo per l'altra vita quel primato cui volontariamente rinunciano in questa. Sì, l'umiltà è sincera, poichè se vede in sè alcun merito, nol nega, ma lo riferisce a Dio bene sommo, anzi unico da cui tutto ci piove. Ma riguardando le cose anche dal lato sociale, vorrei quasi dire materiale, dimmi: e non è più stimato, amato, venerato l'umilissimo Silvio Pellico che tentava eclissarsi per nonporre in luce che Dio od il prossimo suo, di quello siano molt'altri uomini d'un ingegno forse più distinto, ma dominati da un orgoglioso sentimento della propria capacità, da un vero amor proprio? In una lettera del gran prigioniero, diretta al padre di mio marito Annibale Albini, spira una soavità, un'umiltà, una rassegnazione che ci rivelano quanto possa sopra un cuore ulcerato il balsamo della fede. In essa dopo di aver detto: Non puoi immaginarti quel ch'io abbia patito: il mio libro non dà certamente che una debole idea di quella misera vita, soggiunge subito: Sia ringraziato Dio che ha voluto richiamarmi a giorni più lieti, più belli! Ma se allora ho patito molto, or son tanto pia felice. Forse non v'è alcuno sulla terra che senta più di me quanto sieno dolci cose la libertà, il respirare l'aere nativo, il vivere tra parenti, fratelli ed amici carissimi. Ogni notte sogno d'essere in carcere, e quando mi sveglio provo, un'indicibile consolazione d'essere nel mio letto, fra le amate pareti domestiche. Non ho altra disgrazia che di aver poca salute. Stento sovente a trarre il fiato, e son minacciato di soffocare; ma quest'asma non è continua. Allorchè viene la sopporto con pazienza, ed allorchè se ne va mi fa gran piacere. Un mese fa stetti assai male, ed or torno ad aver fiato bastante. Probabilmente non avrò più molti anni da vivere, ma non mi lagno. Godo la grazia che il Signore m'ha fatta di rendermi un poco di felicità terrestre, e quando gli piacerà di tormela mi rassegnerò volentieri. Egli mi ha dimostrato sì benignamente, direi quasi, miracolosamente l'amor suo, che ho fede che quando mi leverà da questa vita, sarà per darmene una migliore. Egli invoca più tardi la pietà del Signore sugli amici languenti nello Spielberg, e si può dire che da capo a fine quella magnifica lettera è tutta una lezione d'umiltà e di rassegnazione cristiana. Gli è a costoro che hanno patito per Iddio, ed hanno cercato in questo mondo l'ultimo posto che Gesù Cristo ha detto: Gli ultimi saranno i primi.

Pagina 812

Galateo ad uso dei giovietti

183991
Matteo Gatta 1 occorrenze
  • 1877
  • Paolo Carrara
  • Milano
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Similmente, chi per qualsiasi motivo abbandona il suo posto non ha nessun diritto di rioccuparlo. Se poi al primo affacciarti alla porta d'ingresso t'accorgi che la folla è numerosa e stipata, metti il tuo cuore in pace, acconténtati di quel cantuccio qualunque che trovi, nè voler farti innanzi a furia di spinte, di urtoni, di gomitate. che sono modi da lasciarsi ai contadini nel pigío delle sagre campestri e nel va-e-vieni delle fiere e dei mercati. Nè in platea nè in loggia privata non alzar mai la voce, chè la sarebbe una intollerabile e villana molestia. Eppure qualche volta, in un punto del maggior interesse, quando le orecchie, gli occhi, gli animi degli spettatori sono rivolti alla scena e nell'uditorio non s'ode un zitto, ecco uno scroscio incomposto di risa erompere fuori da un palchetto e distruggere bruscamente quell'illusione, questa tacita corrispondenza fra gli attori e il pubblico che è tanta parte del diletto di cui è fonte il teatro. Giovinetti, fanciulle mie, al certo voi non commetterete mai di codesti atti incivili, che oltre, al suscitare un fremito generale di dispetto e di disapprovazione, all'attirare tutti gli sguardi, accompagnati forse da qualche agra parola, sugli ineducati schiamazzatori, sono prova manifesta, sia nelle donne che negli uomini, di leggerezza di spirito, di nessuna coltura, di un totale difetto d'ogni senso gentile e delicato del bello. Veniamo agli atti non imposti dal dovere, ma consigliati dalla urbanità e dalla pulitezza. Tu, Modesto, sei seduto comodamente, poniamo, in un teatro, in un circo equestre od in qualsiasi altro luogo di pubblico spettacolo. Una signora, giunta troppo tardi, non trova più uno scanno vuoto ed è costretta a starsene in piedi. Che fare? Lasciarla in quella posizione disagiata e sconveniente per due o tre ore? Bisogna cercare un ripiego. Comincia tu a restringerti un tantino: gli altri t'imiteranno, e un po' di spazio sarà subito fatto. Chè se poi le sedie sono numerate, allora non ti resta altro spediente che alzarti e cedere la tua. Capisco anch'io che il sacrifizio è un po' pesante e non è facile trovare chi vi si sobbarchi di buona voglia: ma appunto per ciò, se tu sei da tanto, la tua gentilezza è più squisita e, non esito a dire, cavalleresca. Altro caso. È consuetudine, alla quale il tempo diede forza di legge, che in teatro chi sta in piedi ha diritto di non levarsi il cappello. Ma in una sera di gran folla in cui ciascuno resta, per così dire, inchiodato al suo posto, senza facoltà di libero movimento, chi si trova casualmente innanzi potrà valersi di questo diritto, o abuso che sia, per togliere la vista a quei di dietro? La civiltà non lo permette. In quanto ai segni di approvazione o disapprovazione, guarda di restare nei limiti della giusta misura. Anche qui, come sempre, gli eccessi son riprovevoli. Il giovine educato, pur applaudendo, si astiene ugualmente dall' urlare a squarciagola « immensa! unica! divina! » e da altre siffatte esclamazioni, come pure dall'imboccare un fischietto per trarne sibili assordanti, dal battere dei piedi sul pavimento, dal picchiare colla mazza le panche. Il silenzio generale dell'uditorio, che quando è soddisfatto applaude, non è già una solenne condanna, una protesta del pubblico, un biasimo eloquente? E qui mi permetto una disgressione che non credo fuor di proposito, Fu tempo, e non molto lontano da noi, che in Italia la gioventù ricca e scacciapensieri faceva le sue maggiori prove... in teatro. È proprio così. Impedita dai sospettosi dominatori stranieri o domestici ogni via che riuscisse a più elevata e virile palestra, tutto lo slancio appassionato dei giovani si concentrava in teatro. Che politica, che patria, che utopie di emancipazione e di libertà? « Divertitevi (dicevano i dominatori o chi per essi): l'Italia è ricca, è bella; godete dei doni che vi offre... » I più non pensavano che a mettere in pratica nel miglior modo il letale consiglio: alcuni, quantunque intravedessero il nefasto intento di quelle parole e protestassero in cuor loro contro « ....la viltà tranquilla Di quel ser vaggio che non ha rimorsi, » pure, non offrendosi al momento probabilità e nemmeno possibilità che si potessero mutare le sorti d'Italia, soffocavano nei piaceri il tedio del presente e la voce della coscienza. Un'opera nuova, un nuovo ballo, l'aspettazione d'una gran celebrità della scena fornivano argomento di discorsi e di ipotesi molto tempo prima del giorno della rappresentazione, come se si trattasse di un affare di stato. Poi veniva la sera della gran sentenza, degli applausi, degli urli frenetici, delle ovazioni. Uno o due nomi correvano su tutte le bocche. Per molte settimane il successo di una danzatrice era il tema obbligato dei caffè, delle conversazioni aristocratiche e borghesi, dei giornali. Talvolta l'entusiasmo d'una sera andava alle vertigini del fanatismo e all'idolatria dell'apoteosi. Una moltitudine compatta in giubba nera e in guanti gialli attendeva ansiosamente alla porta del teatro la regina della festa, la divina Tersicore, e, staccàti dal cocchio i vili quadrupedi, si sobbarcavano essi, animali bipedi e ragionevoli, all' ambíto ufficio di trascinarla a casa! Ma non sempre le faccende camminavano così lisce. I giudizii non erano sempre tutti concordi, specialmente se le Tersicori in questo basso Olimpo terrestre erano due. Allora sorgevano dispute calorose, polemiche sui giornali, come succede nelle quistioni politiche; e in teatro era una gara continua tra i due diversi partiti, una gara di battimani, di grida, di urli, di chiamate al proscenio, di piogge di fiori, di corone, di ritratti, di poesie... Che bei tempi! Voglio io dirvi con ciò che il teatro s'abbia a tenere vile? Sarebbe un assurdo enorme. Io volli solo premunirvi contro biasimevoli e ridicoli eccessi. La musica, la drammatica, la coreografia appartengono al novero delle arti belle e devono colle altre camminare nella via del progresso; hanno quindi bisogno della cooperazione del pubblico. Il teatro può essere insieme e gradito passatempo e scuola di pensieri, di affetti, di principii; esso è nobile campo di un ramo così importante della letteratura poetica, la commedia e la tragedia, le quali non raggiungono interamente il loro scopo senza efficacia della rappresentazione. Nella musica l'Italia è maestra delle altre nazioni; le corre dunque il debito di conservare questo vanto. E chi non vede come anche la danza, la mimica, colla varietà e la correttezza plastica delle pose, delle movenze, del gesto, possano venire fruttuosamente in aiuto della statuaria e della pittura?

Pagina 127

Come devo comportarmi. Le buone usanze

185012
Lydia (Diana di Santafiora) 1 occorrenze
  • 1923
  • Tip. Adriano Salani
  • Firenze
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Così, avremo tutto il diritto di considerare come ineducato l'uomo che parla per la strada ad alta voce, che si abbandona a grandi gesti, che fa roteare il bastone o l'ombrello, che cammina in modo da dar noia ai passanti, che non cede il passo alle signore, che attacca briga per un nonnulla. Gli uomini che, appena passata una signora, si voltano indietro a guardarla con ostentata curiosità, sono degli impertinenti. Colui che, passando accanto a una bella signora, si permetta rivolgerle una parola d'ammirazione, anche innocente, è un mascalzone: se la signora fosse accompagnata dal marito o dal fratello, egli avrebbe probabilmente la lezione che si merita. Una persona bene educata, non scende mai in istrada se non vestita di tutto punto; nè deroga da questa abitudine neppure per impostare una lettera a cinque passi dall'uscio di casa. Non di rado, anche in quei brevi istanti, si possono fare incontri che ci inducono a pentirci amaramente della trascuraggine commessa. Chiunque cammina per la strada deve comportarsi, oltrechè con educazione, anche con prudenza: soprattutto deve evitare le osservazioni inutili, le critiche, i litigi. Non tutti i passanti sono persone educate, e spesso una parola tira l'altra e nascono delle scene spiacevoli. Questa norma di prudenza dev'essere specialmente osservata quando si sia in compagnia di signore, semprechè l'atto altrui non sia tale da meritare d'esser rilevato. Coloro che, per un malinteso senso di cavalleria, si credono in obbligo di difendere l'onore della loro dama attaccando lite in mezzo alla strada con un maleducato qualunque per una cosa da nulla, non mostrano nè tatto nè cervello. 5 E non è neppure una bella cosa vederli piantare in asso la signora affidata alle lore cure, per venire alle mani col primo che capita. Una cosa da nulla può diventare una cosa seria, e le signore in generale sone facili a impressionarsi e spaventarsi. Ognuno del resto capisce che questi sono consigli di prudenza e non di vigliaccheria, e hanno il solo scopo di far evitare eccessi inutili. Se l'occasione veramente si presentasse, un uomo deve saper affrontare ogni pericolo senza esitazione, pronto anche, per l'onore di colei che lo accompagna, ad arrischiare la vita. Ma chi ha veramente coraggio, non lo sciupa inutilmente e se ne serve soltanto al momento del bisogno. A questo proposito, non possiamo astenerci di dare anche alle signore un avvertimento. Le liti per la strada sono sempre spiacevoli, spesso pericolose: non cercate mai di provocarle col vostro contegno, perchè, più spesso che non si creda, esse hanno origine dall'imprudenza vostra. Ci sono molte signore che s'adombrano di tutto, che s'inquietano se non si fa loro posto, che non esitano a buttar là una di quelle parole acri e impertinenti, che irritano ed esasperano. Il marito, il fratello, prendono naturalmente le loro difese, anche se, in cuor suo, riconoscono tutto il torto della loro compagna; e le conseguenze sono spesso dolorose. Siate dunque prudenti, signore mie; sappiate anche, al momento opportuno, non avere nè occhi nè orecchi: eviterete ai vostri mariti, ai vostri fratelli, ai vostri amici delle noie e dei pericoli. Se poi, per disgrazia, una questione avviene in vostra presenza, non intralciate col vostro contegno l'opera di chi vi accompagna: non gridate, non piangete, non date in ismanie. Se ci accade per la strada di urtare involontariamente una persona, si è in obbligo di chiederle scusa; e le scuse saranno più ampie se si tratterà di un vecchio o d'un mutilato. Chi è urtato, se è persona bene educata deve accontentarsi di quelle scuse e rispondere con una parola gentile. Chiunque, transitando per la strada in bicicletta, in automobile o su qualunque altro veicolo di sua proprietà, è causa involontaria di una disgrazia, ha l'obbligo assoluto di mettersi interamente a disposizione del ferito e di curarne il trasporto a casa o in un ospedale: fuggire per timore delle responsabilità nelle quali, sia pure involontariamente, è incorso, è azione da barbaro. Una persona di cuore considera un dovere prestare l'opera sua ai passanti tutte le volte che ne vede la necessità, senza credere di decadere dalla propria dignità neppure se si tratta d'un umile servizio. Una persona di buon senso evita di far circolo intorno ai ciarlatani e soprattutto intorno a coloro che leticano o vengono alle mani. Questa brutta abitudine di godersi come uno spettacolo le baruffe che così frequentemente avvengono nel mezzo di strada, fu già ripresa da Dante che, come di tante altre cose, s'intendeva anche d'educazione. Dice Virgilio a Dante, dopo averlo rimproverato d'essersi fermato ad ascoltare due dannati in lite fra loro:

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Il galateo del campagnuolo

187392
Costantino Rodella 2 occorrenze
  • 1873
  • Collegio degli artigianelli
  • Torino
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Nessuno vive più alla mercè della fortuna, che l'abitatore dei campi, la creatura più indipendente, più libera, e più poetica che si possa immaginare; onde se anche più d'ogni altra si abbandona alle superstizioni, ai pregiudizi, alle ubbie, alle credulità, agli errori volgari, si deve anche più che ad ogni altro perdonare. E dire che questa vita indipendente, salubre e vigorosa mal si conosce, e peggio s'apprezza da' campagnuoli; perché la maggior parte di essi si studia di abbandonarla per correre ad abitare le città! .La città! — Ecco il sogno dorato del contadino. Nelle città le persone sono ben vestite, nella città v'è allegria, si gozzoviglia; dunque vi si deve star bene. Questo è il ragionamento che fa il contadino che abbia, come dicono la mente un poco svegliata. ............ E così, intanto che la città accoglie un consumatore di più, la campagna perde un produttore. Il disinganno arriva presto, ma il più delle volte al fatto non v'è più rimedio. CANTONI. Almanacco Agrario, 1869. Quest'emigrazione da'campi, quest'inurbarsi de' villici senza niun ricambio di cittadini che ritornino ai campi, segna pur troppo un principio di decadenza ne' costumi, e di regresso nella società. È vero che la società moderna ha di molti e gravi torti verso la classe de'contadini, la classe che alimenta tutte le altre, e da nessuno è tenuta in conto; nessuno pensa a lei, o se ci pensa, è per servirsi del nome di villano come una contumelia. Vi sono istituti di provvidenza, pie associazioni per favorire gli operai, gli impiegati, i militari, e via via; ma per i contadini niente di niente! Anzi quando si parla di agricoltori si fa con un non so qual senso di disgusto, e la signorina schifiltosa per poco non si tura il naso per sospetto di non sentirne il lezzo. Questo è ingiustizia. Ma non è ancora una sufficiente ragione di disertare i campi per andar a popolare le città, come se là si trovasse la manna, che gli Ebrei avevano senza fatica nel deserto. Poveretti! Essi stanno all'apparenza; vedono il cittadino meglio ripulito e rimpannucciato, il viso bianco, le mani meno rugose, e scambiano questo per agiatezza e abbondanza de' beni del mondo. Ma se vedessero più addentro le cose, sì che esclamerebbero, che non è oro tutto ciò che luce; e che ad ogni uscio v'è il suo ripicco; come dice il proverbio! Venuto in città il campagnuolo, disadatto e ignaro di tutto, sarà costretto ad esercitare i più umili mestieri, e si bacierà la mano a trovarne; invece della casetta in mezzo al verde della campagna, soleggiata da mane a sera, abiterà uno stambugio, oscuro, umido, fumoso, dove non potrà mai penetrare raggio di sole, oppure salirà per dodici o quindici scale in una povera soffitta sotto i tetti, e i suoi teneri bambinelli per trascinarsi ogni dì su e giù per meglio di cento scalini si scavezzeranno le gambe e si storceranno in mille guise la persona; chè in ciò sta la vera ragione delle molte storpiature, che si vedono nelle grandi città! Senza dire che lì si deve vivere tutto a punta di quattrini, e il vitto è caro, e il guadagno è scarso, e le spese infinite; onde i digiuni non comandati sono più di quel che si pensi. E ciò, che aggiunge peso, è il trovarsi di continuo alla presenza della ricchezza strabocchevole e del lusso insultante dei doviziosi; il tapino cencioso colle scarpe rotte è costretto a vedere il signore in superbo cocchio stemmato, tratto a due pariglie! Nella campagna poco su poco giù si vive tutti a un modo, il servitore, il bracciante mangia alla tavola del padrone, e non si vede così allo scoperto questo terribile contrasto della lautezza colla miseria; ma in città quante volte l'infelice operaio, in mezzo ai figli, che gli domandan pane, colle viscere dolenti pel digiuno, si coricherà nella fredda soffitta, e alle sue orecchie verrà la romba della festa e la eco dell'orgia, che lì sotto di sè nelle sale dorate del primo piano si prolungherà alle ore del mattino! Chi terrà il poveretto dal gittarsi alla disperazione? Pure questa miseria velata fa gola al campagnuolo! Il dottore Enrico, che usava tutti gli anni passar un po' d'autunno nel suo villaggio del Monferrato, non cessava di far aprir gli occhi a' suoi terrazzavi, svelando gli stenti infiniti, che si nascondono sotto abiti signorili. E se fan prova di poca avvedutezza quei che lascian la campagna per la vita cittadina, che s'ha a dire di coloro, che consumata ogni sostanza nel giuoco e negli stravizzi, vanno poi a cercar fortuna in lontani paesi; quasichè altrove i gnocchi e i capponi piovano giù dal cielo come la neve, e che i fiumi scorrano nebiolo e moscato! La vita è dura dappertutto, osservava il Dottore, e forse lontano più che dove s'è nati. Ma l'agognia de' subiti guadagni, l'avidità del milione, che sconvolge da capo a fondo tutta la società moderna, tormenta anche il pacifico abitator de' campi; e l'America, la California, l'Australia si atteggiano con seducenti colori alla fantasia di tutti. E qui prendendo alcuni di questi sognatori di tesori, il signor Enrico loro chiedeva: Orsù, ditemi un poco, di tanti che avete veduti voi andar di là dai monti e dai mari, quanti n'avete visti ritornare co' sacchi pieni d'oro? Il figlio di Gian Giacomo, tutti lo conoscono, si diceva che possedeva monti di lire sterline, l'abbiam visto ripatriare l'anno passato cogli abiti laceri e colle scarpe rotte; il ni-nipote di Carlambrogio, e quella buona lana del suo amico Stefanaccio morirono di febbre gialla, dopo due mesi che vi eran giunti, come accade ai due terzi che colà emigrano! E la litania è lunga; ma nessuno, che noi conosciamo, fece fortuna. Gli zii che ricchi tornan d'America, ora non si vedon più che sui teatri In America non è più il tempo che Berta filava. Dal 1830 in poi, le vicende politiche e lo spirito d'avventura, spinsero colà la parte più giovane, più energica, più attiva ed anche più intelligente della vecchia Europa. I facili guadagni d'una volta si fecero sempre più difficili; ed ormai si può dire che per fare fortuna in America bisogna già averla fatta altrove, oppure è necessario recarvisi con abilità non comune. Gli agricoltori, come disse il Ferrario, sono i meno cercati, ed io soggiungo che sono pur quelli che più difficilmente possono cambiare di abitudine. II contadino sfugge la miseria in casa propria, per morir di stenti oltre l'Oceano, non potendo più far ritorno per mancanza di mezzi. Al contadino, nell'America, oggidì sono riservati i mestieri più vili, le fatiche maggiori, ed i minori guadagni. CANTONI, Almanacco agrario. Fate come me, diceva, non credete alle ricchezze favolose di chi è lontano; voglio vederlo io l'oro che portano di là: a ciance il denaro si misura a palate; ma per conseguirne un bricciolo, fa doler le dita. Sapete come si ottiene un po' di ben di Dio? S'ottiene col sudor della fronte e col risparmio; e ciò si può far qui come in tutto il mondo. Chi vuol vivere in ozio, conchiudeva, e consumarsi nel giuoco e in bagordi, fa della fame in tutti i paesi della terra.

Nel verno successivo si torna da capo a scuola col tenore dell'anno precedente; lo scolaretto non si ricorda più nulla di quel poco che aveva imparato; onde si mette di nuovo all'abbicì; e così di seguito d'anno in anno; finché abbandona affatto lo studio; e se ha imparato a scrivere correttamente il suo nome è somma grazia; ma che riceva una conveniente istruzione, cioè che apprenda quelle cognizioni utili alla pratica della vita, nessuno il potrà credere. Dnnque che cosa imparano i vostri ragazzi in quel periodo di tempo che vanno a scoola? domandava il Dottore... Ve lo dirò io netto e tondo: a far i monelli. Nulla è più spiacente, che il veder i giovinetti per le strade, quando vanno o tornano dalla scuola! Sùdici nelle mani, nel viso, negli abiti, gridano, urlano con vociaccie d'inferno, scorrazzano qua e là, scavalcano siepi, saltano nel seminato, sferrano sassi contro gli alberi, contro le bestie, contro i compagni, s'accapigliano, si lacerano gli abiti, ingaggiano certe battagliuole fra loro da far gelare il sangue addosso; spesso si dan la parola tutti que' d'una vallata per aspettare al varco quelli d'un'altra, si sfidano, si battono, si rompono il capo; brutte discordie, esempi di odio, pur troppo nutriti nelle famiglie e cresciuti ne' figli dagli imprudenti racconti de' padri. Pare che ne' ragazzi l'istinto dominante sia la ferocia; già lì non s'ammira che la forza bruta; il più forte è il re, egli è temuto, rispettato da tutti, se ne cerca l'amicizia e la protezione. Guai a' deboli! La pietà, la commiserazione, i perdono, le qualità gentili e generose dell'animo, sono sensi ignoti al cuor del fanciullo. Si commettono in fanciullezza crudeltà e barbarie indicibili; infelici quegli animali, che cadon sotto le loro unghie! L'agnelletto, la pecora, il cane, il gatto, bastonate, sassate alla cieca; e quel che fanno ai semplici uccellini; ahi, li acciecano, li spennano vivi vivi! piantano spilli negli insetti, e quelle son le grida di giubilo che mandano nel sentir quelle povere bestiuole stridere e guaire! Non si direbbero selvaggi, che giubilano nel sangue? Oh la brutta cosa! Gli alberi fruttiferi sono poi in ispecial modo presi di mira; i frutti sono affatto acerbi, non hanno ancora alcun grado di maturità, è proprio roba sciupata; tanto fa, giù addosso; nè si contentano di gettar giù le ciliegie, le pere, e via, ma guastano il seminato sottostante, rompono i germogli, scavezzano i rami; onde non solo mandano a male i raccolti dell'annata, ma rendono la pianta inetta a produrre per alcuni anni appresso; pare che siano invasi dallo spirito di distruzione! Dunque che s'ha a fare? Che s'ha a fare...? Oh non son vostri figli codesti? Accompagnateli qualche volta, sorvegliateli; quando son mal accompagnati, sgridateli; quando sapete che si son portati male, puniteli, e non lasciatevi dar ad intendere. O che non la fate la guardia alla pecora, alla vacca, a' buoi? E i vostri figliuoli saran da meno de' giumenti? Andate spesso dal maestro, informatevi sulla loro condotta, sul loro studio, castigateli e premiateli secondo che si meritano. Mostrate voi di dare importanza a' libri, alla scuola, al maestro; e vedrete che i vostri figli impareranno a ubbidire e a rispettare; perchè i ragazzi stimano solo quello che vedono stimato dagli adulti. Nessuna ragione deve allontanare il figlio dalla scuola, neppur per un giorno, tranne fosse malato: tanto tanto per quell'aiuto che vi possa dare nelle vostre faccende un ragazzetto di poca età, non val la pena frastornarlo dalla scuola. Ebbene fate proponimento di lasciar frequentar la scuola comunale a vostro figlio, fino ai dodici anni e tutta l'annata scolastica; e allora vi dico io, che sentirete i beneficii della scuola; perchè, mettiamo che cominci a' sei anni, a' dodici avrà di sicuro appreso quanto gli occorre negli usi della vita e potrà poi senza difficoltà continuare la sua educazione da sè quando lo voglia. Tutte le fatiche, a cui sottomettonsi i ragazzi prima dei dodici, sono a detrimento non pur dello spirito, ma anche della salute e dello sviluppo del corpo. In que' paesi industriali, dove i padri, per ingordigia di guadagno, costringono i figliuoli e le figliuole già da otto a dieci anni a lavorare negli opifizii, non si vede più una gioventù fresca e robusta, ma vi crescono uomini e donne rachitici, smunti, scialbi, di color terreo, vecchi sul fior degli anni! Una legge, che vietasse questo traffico di carne umana, sarebbe una benedizion del cielo! Si dovrebbero multare tanto i padri, che vendono così i loro figli, quanto i capi-fabbrica, che accettano nelle loro officine ragazzi prima de' dodici anni; in tal guisa mentre da un lato si provvederebbe alla robustezza del corpo, dall'altro si lascierebbe campo alla scuola a far prova del suo valore. Ma voi sì che badate alla scuola, anzi il più delle volte guastate a casa que'buoni germogli, che si eran piantati in quella. Vostro figlio, ad esempio, imparò dal maestro un'ottima massima, un bel tratto d'educazione, e lieto lo ripeterà in casa; oppure quando in famiglia vedrà praticarsi proprio l'opposto, il ragazzino verrà lì colla sua buona sentenza, — e il padre: taci lì, asinaccio; — se il figlio si scusa sul maestro; — che vuoi che sappia il tuo maestro, una bestia matricolata, anche lui, che vuol sputar sentenze.... e giù villanie, che non finiscono. V'ha poi tali padri, che per dar a divedere teste fine, e per leggere qualche gazzettaccia, la pretendono ad avvocati, si mettono lì a bisticciare, a contraddire, a cavillare sulle poche idee, apprese dal figlio alla scuola e mettono in canzonatura il maestro ed anche il libro, e mostrando un presuntuoso disprezzo di ogni buon principio di morale, spaccieranno giudizii l'uno più stolto dell'altro. Quindi, domando io, qual frutto può produrre la scuola e che autorità potrà avere un povero maestro sui vostri figli, quando voi lo tacciate d'incapace, d'ignorante, e lo coprite d'ingiurie? E questo bell'andazzo, soggiungeva il Dottore, che s'è preso qui dai nostri Consiglieri del Comune, di cambiar maestro ogni anno, credete voi che torni a pro dell'istruzione de' vostri figliuoli. Ogni maestro che viene nuovo all'Ognissanti deve spendere i primi mesi per riconoscere lo stato della scuola, a che punto sono gli allievi, per distinguerli in gradi; perchè egli non sa che cosa siasi insegnato nell'anno precedente; onde que' pochi mesi, che i ragazzi frequentano la scuola, vengono ancora ristretti da questi esperimenti primitivi. Ma sì andatelo a far intendere a certe teste; gli è come pestar l'acqua nel mortaio. Questi ha la sua creatura da proteggere, quegli un odio ùda sfogare, quest'altro si è preso un puntiglio, e così o per un capriccio o per un altro si fa spendere una somma tale e quale per stipendiare il maestro e la maestra, e l'istruzione e l'educazione del paese va a rotoli; e voi pagate...! Quando vi avviene di trovare un maestro discreto, e che i vostri figliuoli fanno profitto, via non state lì a guardar tanto pel sottile, fategli carezze, cercate di fargli prender amore al paese, sicchè rimanga invitato a restare fra voi, a porre lì la sua dimora stabile, come se fosse la sua terra nativa. Più anni starà, e meglio sarà per l'istruzione della gioventù; conoscerà le indoli, le costumanze, le virtù e i difetti della scuolaresca; la saprà pigliar pel verso suo; e le cose andranno di bene in meglio; tenendo conto del fatto degli anni andati, seguendo il medesimo metodo, l'istruzione procede continuata, uguale, profittevole. Val più un maestro mediocre, ma pratico del paese, che uno ottimo, e nuovo. Ma per tornare ai ragazzi, là dove abbiam trovato la famiglia ordinata e amorevole, anche i figli sono fiori di grazia; si vedono puliti, ravviati, gentili, che è un amore. Prima che partano per la scuola la madre ci abbada, se hanno le vesti decenti, se le scarpe sono pulite e nere, se i capelli pettinati, se le mani e il viso lavato, se hanno l'occorrente per la scuola; a volta a volta li accompagna essa stessa; si raccomanda a questa e a quella persona di tenerli d'occhio; e al ritorno loro dà una ripassatina, guai se trova qualche strappo negli abiti; se arrivan tardi, vuol saper per filo e per segno, che cosa han fatto, dove si son trattenuti, va ad appurar i fatti dal maestro, riconosce ogni cosa, e sa premiare e castigare a tempo. Le feste poi se li conduce con sè alla chiesa, attillati e lucenti, come uscissero da una scattola, se li fa inginocchiare lì presso col loro libricino aperto e non li abbandona un istante. Oh sì che lascierebbe i suoi figli là mescolati con tutta quella ragazzaglia, che va a mettersi presso il presbiterio a far d'ogni sorta di monellerie, come se fossero di nessuno; nè manco per sogno! Come fa pena all'animo veder nelle chiese de' paeselli tutta quella frotta di ragazzi, l'uno più discolo dell'altro, attruppati innanzi all'altar maggiore, nel luogo più in vista! Si sdraiano sugli scalini, si urtano, si pizzicano, si battono, si nascondono la pezzuola, il berretto, parlano, ridono, sghignazzano, che è una distrazione continua; sembrano fanciulli abbandonati. Come volete che questi ragazzi crescano col rispetto del prossimo e col timor di Dio, se nel luogo più venerabile, più santo, commettono tante irriverenze? E quel che fa più dolore è che lì in chiesa vi saranno i padri e le madri, i quali non se ne dan per inteso; e come niente fosse, non volgono neppur un rimprovero ai loro figli. Ma Dio non paga il sabato, e voi non avrete ad andarvene a pentir a Roma. Quel figlio, che lasciate ora alle impertinenze, verrà su ozioso, maligno, disubbidiente; non avrà più rispetto di sorta nè delle cose, nè degli uomini, si riderà di voi, delle leggi, di tutto, vi spoglierà della roba e dell'onore, e dopo avervi ridotto nella miseria, amareggiata la vita in tutti i modi, in quell'età che dovrebbe essere il sostegno e l'orgoglio de' vostri anni cadenti, sarà là a marcire in un carcere. E allora, non avrete che a coprirvi il viso e a picchiarvi il petto, recitando il mea culpa. Queste cose le diceva piano e forte il signor Enrico, e narrava fatti e proferiva nomi, sicchè il suo dire riusciva persuasivo a più doppi.

Pagina 18

Nuovo galateo

189269
Melchiorre Gioja 1 occorrenze
  • 1802
  • Francesco Rossi
  • Napoli
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L'uomo, naturalmente, rozzo, personale, semi barbaro, si dirozza, si umanizza, ingentilisce sotto l'influsso della ragione sociale, come il metallo abbandona la ruggine sotto l'azione del pulimento. I principii della ragione sociale sono: 1.° Esercitare i propri diritti col minimo dispiacere degli altri; 2.° Rispettare i loro diritti, ancorchè dannosi a noi stessi; 3.° Riconoscere il loro merito, benché fossero nostri nemici; 4.° Non far loro del male senza giusto motivo e legittima autorizzazione; 5.° Promuovere il loro bene anche con sacrifizio del nostro; 6.° Rinunziare a risentimenti momentanei che frutterebbero dispiaceri futuri maggiori; 7.° Sacrificare le affezioni personali all'interesse pubblico; 8.° Conseguire il massimo vantaggio pubblico col minimo danno de'membri della società. La civilizzazione consiste dunque nelle vittorie che ottengono i principii della ragione sociale sugl'impulsi disordinati della natura: per esempio, la natura irritata ci stimola ad ammazzare il nemico anche quando non può offenderci; all'opposto la ragione ci dice di non fare al nemico quel male che alla nostra difesa sarebbe inutile. I motivi per cui seguir si debbono i principii della ragione sociale, sono i seguenti: 1.° Il piacere che si gusta nel fare del bene agli altri o liberarli da' mali; 2.° I servigi che possiamo sperare da quelli cui venne da noi fatto qualche bene; 3.° La stima pubblica che corona le persone benevoli; 4.° Le cariche e gli onori che esse possono sperare da' governi saggi; 5.° Le ricompense religiose promesse a quelli che fanno del bene al loro prossimo. La pulitezza è un ramo della civilizzazione: ella consiste nell'arte di modellare la persona e le azioni, i sentimenti e il discorso in modo di rendere gli altri contenti di noi e di loro stessi, ossia acquistarci l'altrui stima ed affezione entro i limiti del giusto e dell'onesto, cioè della ragione sociale. Siccome non possiamo far nascere eletti fiori, moltiplicarli ed abbellirne il suolo con ogni maniera di coltura, cosi non è possibile di svolgere nell'altrui animo la stima e l'affezione verso di noi con ogni sorta di mezzi. La pulitezza non è dunque un cerimoniale di convenzione, come più scrittori opinarono; i suoi precetti non si attingono da'capricci variabili dell'uso e della moda, ma da' sentimenti del cuore umano, i quali a tutti i tempi e a tutti i luoghi appartengono. Di tale proposizione salta agli occhi la verità, allorchè si pongono al vaglio i motivi per cui alcuni atti ottengono lode di puliti, ed altri come impuliti son condannati. Anche il contadino, a modo d'esempio, s'affretta a raccorre una moneta od altra cosa che vi è fuggita di mano; egli si abbassa, onde togliere a voi l'incomodo d'abbassarvi: ci è qui un risparmio di pena nell'esecuzione d'un desiderio; e questo risparmio non è figlio di stabilita convenzione, ma dell'indole delle nostre facoltà. Allorchè, al teatro, quelli che si trovano nelle file posteriori gridano a quelli delle anteriori, levatevi il cappello, lo fanno forse per convenzione? No certo. Il desiderio di partecipare al comune spettacolo è ragionevole e legittimo, come ragionevole e legittimo si è il principio che il piacere della maggior parte non debb'essere distrutto dalla minore, nè dimezzato. Nel codice della pulitezza v'ha certamente alcune pratiche arbitrarie e convenzionali, come ve n'ha ne'codici civili; ma la massima parte dei precetti a risparmiare sensazioni incomode o memorie afflittive, e produrre idea lusinghiere o piaceri morali, è diretta. Si può riguardare come convenzionale, a cagion d'esempio, l'uso europeo che, per torre di mezzo le dispute, guarentisce il diritto di restar sul marciapiede a chi ha la destra verso il muro; giacchè quasi con uguale ragione si poteva lo stesso diritto alla sinistra guarentire. Ma questa convenzione alla legge del comodo e dell'incomodo va soggetta. Infatti camminando voi a cavallo con persona più meritevole parimenti a cavallo, la convenzione vuole che le lasciate la destra e siate qualche passo indietro. Nel caso però che la strada fosse alquanto sdrucciola o sassosa a destra, voi dovreste cambiar luogo; e se il vento cacciasse contra il vostro compagno la polve sollevata dal vostro cavallo, voi, in vece di stare indietro, dovreste procedere avanti. Per la stessa ragione sarete il primo a tentare il guado d'un fiume e a passarlo, sì per servire di guida al compagno, e si per non aspergerlo d'acqua o di fango. Si vede spesso la convenzione cedere al comodo negli stessi usi che da'carrettieri, cocchieri, postiglioni si osservano. Infatti una vettura, per esempio, la quale stia aspettando d'essere caricata o scaricata, benchè abbia il muro alla sua sinistra, costringe quelle che vanno o che vengono a scostarsi dalla loro linea, e talvolta a retrocedere; giacchè se ella dovesse moversi, a misura che un'altra sopraggiunge, si renderebbe talvolta il carico e lo scarico impossibile. Se si riduce la pulitezza a pratiche arbitrarie e convenzionali, più inconvenienti ne emergono: 1.° La pulitezza perde qualche grado di pregio; 2.° Riesce più difficile ad appaiarsi e ritenersi; 3.° Sorgono dubbi in ogni nuova combinazione di cose; 4.° Mancano le norme per giudicare gli usi e le consuetudini. Per le cose dette è chiaro che la pulitezza, considerata nel suo scopo e ne'suoi mezzi, non differisce dalla morale, fuorchè nella gradazione. Chi, per esempio, dà un bicchiere di vino a persona assetata, eseguisce un atto di misericordia; chi dà la chiave del suo palchetto a chi brama d'assistere ad una rappresentazione teatrale, eseguisce un atto di pulitezza. Nell'un caso e nell'altro v'è cessazione d'un dolore o soddisfacimento d'un bisogno; ed è questo dolor cessato che costituisce il principal merito dell'azione. Nel 1.°caso v'è un dolore più forte; men forte nel 2.°: ma il più e il meno non cambiano la specie. Voi che mi negate 20 lire di cui mi siete debitore, venite accusato d'ingiustizia, perchè mi private de'piaceri che colle 20 lire potrei procacciarmi. Voi scrivete senza motivo ragionevole cinque ponderose lettere ad un povero uomo , e lo costringete a pagare 4 lire per ciascuna, sicchè il danno ch'egli ne sente sale in tutto a lire venti; ciascuno vi taccerà d' indiscrezione, d'inurbanità, non già per convenzione, ma pel danno suddetto che nell'uno caso e nell'altro è uguale; anzi suoi essere maggiore nel secondo, giacchè il dispiacere di sborsare, in parità di circostanze, è maggiore del dispiacere di non ricevere. Le virtù vincono in grandezza e, per cosi dire, in peso la pulitezza; ma questa vince quelle nella frequenza de'suoi atti. Non è possibile nè a tutti nè sempre d'essere generosi; ma è possibile a tutti e sempre d'essere puliti. L'occasione d'esercitare modi gentili si rinnova parecchie volte alla giornata, sicchè la frequenza all'importanza supplisce. In somma la pulitezza è il fiore della morale, la grazia che l'abbellisce, il colore che amabile la rende ed amena. Fa d'uopo confessare che la pulitezza non sempre si presenta abbracciata alla morale; e l'uomo più pulito non è sempre il più morigerato. Il popolo chinese è il popolo più cerimonioso, e nel tempo stesso il più falso tra quanti vivono sulla terra; e, senza andare alla China, ciascuno giornalmente s'avvede che con gentilissimi complimenti sanno titillare l'altrui amor proprio anco gli scroccatori di professione. Quindi un illustre scrittore italiano dice: « Altro infine non è » la pulitezza che l'arte d'ingannare sè medesimi » coll'apparente sacrifizio della propria all'altrui » volontà, talchè non è raro che gli uomini » più puliti siano i più perfidi. Alle quali lagnanze si può andare incontro colle seguenti considerazioni: 1.° Una bella pittura può sussistere sopra un muro fracido, sdruscito, cadente: questa combinazione di cose scema forse il pregio generale della pittura? Le monete false, che non di rado sulla piazza appariscono, distruggon forse l'utilità e la necessità delle monete legittime? Perché la vipera s'asconde talvolta fra l'erbe e i fiori, cessiamo noi di pregiare i fiori e l'erbe? Spogliandoci de' modi gentili, e l'apparenza assumendo o la realtà della rozzezza, ci allontaniamo noi dalla perfidia? Un vizio divien forse manco nocivo, a misura che con maggiore sfacciataggine ed impudenza si mostra? 2.° Parecchi de'nostri sentimenti, se compariscono alla luce, offendono gli astanti, o ci fanno scopo all'altrui motteggio: l'arte che c'insegna a velarli non sarà ella un'arte stimabilissima? Infatti molti litigi che dividono le famiglie, molti odii che covano nell'animo i cittadini, la maggior parte de'duelii che alla giornata succedono, da un detto offensivo, da un atto impulito, da una semplice mala grazia traggono non di rado origine.

Pagina 9

IL nuovo bon ton a tavola e l'arte di conoscere gli altri

190486
Schira Roberta 2 occorrenze
  • 2013
  • Salani
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
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La mente, distratta dalla ritualità legata al cibo, manda messaggi non filtrati dalle sovrastrutture, poiché a tavola la maggior parte delle difese psicologiche che ci accompagna durante la giornata ci abbandona temporaneamente. Stare seduti l'uno di fronte all'altro o magari accostati e condividere il cibo fanno sì che i commensali vivano un'esperienza corale. Le cronache sono ricche di fatti che denunciano la maleducazione imperante nei confronti del prossimo, dell'ambiente, dell'avversario politico, del diverso, dell'anziano, dello straniero. Maleducazione che si manifesta chiaramente nel comportamento e nel linguaggio, ma ancor più platealmente a tavola. Un attento osservatore dotato di un minimo di perspicacia sarebbe in grado, se non proprio di delineare il profilo psicologico di ciascuno dei commensali, almeno di raccogliere un buon numero di indizi. Il nostro comportamento a tavola parla per noi, ci rivela, ci smaschera. Come la ricchezza del nostro vocabolario, la proprietà di linguaggio, la padronanza della sintassi manifestano il livello culturale, così il nostro modo di stare a tavola ci racconta, parla per noi. Rende pubblica ogni lacuna, ci esprime, manifesta le nostre radici culturali, la nostra estrazione, il nostro livello di evoluzione, le nostre abitudini familiari e soprattutto la nostra educazione, buona o carente che sia. Con un po' di esercizio si arriva a cogliere l'aggressività che c'è in noi, le abitudini alimentari dei nostri genitori, il tenore di vita e il grado di serenità della nostra infanzia. Non a caso il livello di civiltà e culturale di un popolo si evince soprattutto dal comportamento a tavola. Lina Sotis, madrina del bon ton italiano, che ha divulgato attraverso i suoi libri, dice: «Al primo sguardo capisci quanti soldi ha una persona; al secondo da quanto tempo»; la frase è perfetta anche in ambito conviviale. Se vuoi sapere tutto di una persona mangia con lei almeno una volta e, volendo spingersi più in là, si potrebbe dire: «È azzardato iniziare una relazione con un uomo senza averci mangiato insieme almeno una volta». La tavola diventa il luogo privilegiato per il denudamento dell'altro, il palcoscenico delle nostre altitudini, ma anche delle nostre bassezze. Come credete che si comporterà un uomo tra le lenzuola dopo che lo avete visto mangiare così velocemente da non assaporare un solo boccone? Come potrà essere attento alle vostre esigenze in futuro se non arriva neppure a versarvi da bere durante una cena? Cosa pensare di una graziosa fanciulla che a tavola mangia come un passerotto e sta tutto il tempo a sbirciare nei tavoli vicini? E ancora, cosa deducete se un vostro candidato tratta con disprezzo il personale di servizio al ristorante? O se il vostro futuro socio in affari casualmente dimentica ogni volta il portafogli al momento di pagare il conto? E che sorpresa se l'amica conosciuta in ascensore e subito invitata a cena quasi per dovere mangia come una regina, vi conquista al primo appuntamento. Pensate quanti indizi è possibile raccogliere su un partner da quando vi chiama per invitarvi a cena sino al momento in cui vi riaccompagna e arriva l'ora del bacio della buonanotte. Ecco perché è fondamentale procurarsi gli strumenti per capire. E questi strumenti sono la conoscenza delle regole e il linguaggio del corpo: insieme si potenziano a vicenda. E proprio questa l'idea forte del libro, riuscire a «leggere» l'istinto, cioè il corpo che parla e nello stesso tempo individuare il galateo, cioè quanto l'ambiente e la cultura hanno depositato, la parte normativa, le leggi. La tavola è proprio questo: il tentativo di convogliare e di far coesistere istinto e legge. Mangiare insieme con consapevolezza è un'esplorazione affascinante che ci permette di indagare il nostro mondo e quello dei vicini. Alla fine di questo libro il lettore riuscirà a considerare il proprio commensale con occhi nuovi, non certo come un insetto da vivisezionare, o un soggetto clinico al quale fare una diagnosi, sarebbe troppo facile e riduttivo. Servirà a migliorare la comunicazione senza fraintendimenti approfittando di una situazione favorevole e intima come il mangiare insieme. Sapere ci assolve dall'imbarazzo di fronte a situazioni critiche. «Leggere» e conoscere meglio i nostri commensali è l'ideale per chi deve confrontarsi su questioni di lavoro, ma ancor più per chi deve scegliersi amici, futuri mariti, mogli e affini. Ma sarebbe utile che anche i colloqui di assunzione si svolgessero direttamente al ristorante. Perché il corpo non mente mai, questo dovete ricordarlo sempre. E un corpo a tavola è più libero di esprimersi che altrove. Il cibo diventa, ancora una volta, mezzo e non fine. Questo libro dunque sposta l'attenzione dal cosa si mangia al come. Ma ha ancora senso parlare di galateo? Ha anche più importanza di un tempo, poiché si moltiplicano le occasioni pubbliche nelle quali si evidenzia la differenza tra classi sociali e regole di educazione. La tavola è uno dei luoghi privilegiati e allo stesso tempo più temibili di «esposizione». Essere educati non costa nulla, e poi è provato che sia gli uomini sia le donne apprezzano nel partner appena conosciuto il rispetto delle buone maniere. Proprio nel momento delicato che stiamo vivendo è fondamentale stabilire delle regole per noi italiani, conoscerle e adeguarvisi: questo forse è il segreto perché una società civile funzioni al meglio. Probabilmente esiste un'attinenza tra la decadenza morale ed economica di un popolo e la sua maleducazione a tavola e l'eccessivo peso attribuito al cibo, ai banchetti e alla cucina. Ce lo insegna la storia: basti ricordare i complicati convivi dei ricchi romani a base di lingue di fenicottero e spezie costosissime durante la curva discendente del Mondo Classico, che si concluderà con la caduta dell'Impero romano d'Occidente (476 d.C.). Oggi sarebbe ridicolo imporre delle regole senza significato, ma come si dice: non c'è forma senza sostanza. La maggior parte delle regole del galateo risponde al principio del rispetto dell'altro e al buonsenso. È necessario operare una distinzione. Esistono regole più rigide che, benché denotino il nostro livello di istruzione, non turbano la pace altrui e non ledono i diritti degli altri. Altre che pregiudicano il benessere di chi ci sta intorno offendendolo o limitandone la libertà. Un esempio. Se parlo con la bocca piena o uso uno stuzzicadenti a venti centimetri dal mio commensale, ovviamente causo un senso di disagio e quindi limito la libertà altrui. Mentre, al contrario, se taglio con il coltello una frittata, cosa che il galateo non prevede, dimostro la mia ignoranza nel campo specifico, ma non disturbo i miei vicini di posto. Qui sta la differenza. La più celebre maestra di bon ton di casa nostra, oltre che ispiratrice della posta del cuore di tutti i periodici femminili, è stata Colette Rosselli, moglie di Indro Montanelli, che con lo pseudonimo di Donna Letizia ha educato generazioni di lettrici. Il suo Saper vivere, uscito nel 1960, è stato a lungo la «bibbia» dei beneducati, tanto da meritare un aggiornamento, nel 1990, Il nuovo saper vivere di Donna Letizia, nel quale scriveva: «Molti uomini considerano le buone maniere come un soprabito da indossare al momento di uscir di casa e da appendere all'attaccapanni appena rientrati». Parole sante. Se qualcuno vi ha realmente regalato questa dote di buona educazione, senza dubbio la porterete con tale spontaneità da usarla dentro e fuori casa. «La carne dovrebbe essere dura a letto e tenera a tavola». Questa frase di André Prévost introduce alla perfezione la conclusione di questo capitolo. Dopo i primi incontri a due in pubblico, dimenticate tutto quello che è stato detto sin qui in tono formale sulle regole del buon comportamento a tavola. Per la cena romantica e passionale, il segreto è: poco bon ton e tanta passione. Chi è dotato di immaginazione non avrà bisogno di suggerimenti ma, se può servire, ecco le regole della cena a due tra le pareti domestiche. È vivamente consigliato: mangiare con le mani; imboccarsi; cucinare insieme; amarsi in cucina; baciarsi durante il pasto. «Ho l'innocua mania di dare alle persone a cui voglio bene il soprannome di un cibo. Mio marito Carlo Ponti è sempre stato 'involtino', pietanza che mi piace come poche» dice Sophia Loren. Ecco, allentate le cravatte, abbandonate i bicchieri di cristallo, ogni tanto fatevi un bagno nell'istinto puro e selvaggio e sarà ancora più bello farlo con la compagna o il compagno di sempre. Parlate con la bocca piena, mugolate e date nomignoli rubati al lessico dei ricettari, sono tanto apprezzabili in privato quanto insopportabili in pubblico. Alessandra Graziottin, medico ed esperta in sessuologia, lo consiglia vivamente: «Questa società sta diventando frigida. Il sesso si fa virtuale, il cibo diventa fiction: tutta scena. Basti pensare ai nomi stupendi che tanti ristoranti coniano per cibi che poi risultano insipidi, o alla cura maniacale che si mette nella preparazione della tavola: in fondo tradisce un rapporto cerebrale con il piacere. Io, alle pazienti con problemi sessuali, prescrivo anche di mangiare con le mani. Se gusti la vita gusti anche il cibo». Imboccate, sporcatevi, trangugiate, centellinate, sbrodolatevi, mordicchiate: insomma, nell'intimità trasgredite anche le regole del buon comportamento a tavola. Proprio quelle che sono elencate in questo libro.

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Un bravo anfitrione cerca di arginare come può la serata, ma di certo non lo abbandona fuori dalla porta a fine cena. Si preoccupa di accompagnarlo a casa e di assicurarsi che stia bene. Uomo. Uomini, ricordate! Basterà un gesto come aprirle la portiera o alzarsi nel momento in cui lei lascia il tavolo per farsi ricordare a lungo. Insomma, vi verrà perdonato anche qualche sbaglio, se saprete usare qualche galanteria al momento giusto. L'uomo entra per primo in un locale, comunica con i camerieri, versa da bere, si dimostra più interessato alla compagnia che al cibo, conversa e dovrebbe pagare il conto. Uova. Non si usa mai il coltello, in qualsiasi modo siano cucinate. Lo si può usare solo per tagliare il prosciutto o la pancetta che le accompagna. Uva. Va tenuta con la mano sinistra, mentre con la destra si staccano gli acini che andranno alla bocca. Verdure. Non si tagliano mai con il coltello. Vino. Non si versa mai sino al collo del bicchiere. Si stappa sempre davanti agli ospiti, e così pretendete al ristorante. Si fa scegliere alla signora e se questa si rifiuta si prende l'iniziativa chiedendo almeno «bianco o rosso». Chi invita, sia a casa sia al ristorante, propone i vini e chiede se gli invitati sono d'accordo. Il vino non si mescola con l'acqua e non deve essere raffreddato con il ghiaccio. Si lascia in un secchiello di qualsiasi materiale, possibilmente su un tavolino a parte. Zotico. È l'epiteto che si merita chi a tavola pecca di prepotenza e maleducazione. Per neutralizzare lo zotico recidivo è necessaria più fermezza che ironia, la seconda non la coglierebbe. Un seccato richiamo ha più probabilità di venire accolto. Zuppa, zuppiera. Non si soffia sulla minestra o la zuppa. In Inghilterra, il cucchiaio non viene introdotto in bocca di punta, ma appoggiato lateralmente alle labbra. In Italia il cucchiaio viene introdotto in bocca di punta. Ma ciò non vuol dire, beninteso, che lo si debba inghiottire fino al manico. È tollerato che, arrivati agli ultimi cucchiai di minestra, si sollevi appena il piatto inclinandolo verso il centro della tavola. Zuzzurellone. Avete presente quei soggetti che pur essendo adulti si comportano come ragazzini e si divertono a fare i giocherelloni? È il buontempone, il burlone che a tavola gioca con il cibo, estenua i commensali con storielle imbarazzanti, indovinelli, racconti di vita privata e via discorrendo. Basterà ignorarlo senza ridere delle sue battute pesanti per neutralizzarlo.

Pagina 160

La giovinetta educata alla morale ed istruita nei lavori femminili, nella economia domestica e nelle cose più convenienti al suo stato

192776
Tonar, Gozzi, Taterna, Carrer, Lambruschini, ecc. ecc. 2 occorrenze
  • 1888
  • Libreria G. B. Petrini
  • Torino
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. - Atterrito il duca da siffatto valore, e dal quasi sovrannaturale eroismo, che sembra protetto da Dio, ordina che si levi il campo, e si dia onorevol sepoltura ai morti, indi abbandona il per lui infausto suolo il dì 23 luglio, andando a sfogar la sua rabbia contro il distretto Aretino, per mezzo delle devastazioni, del sangue e del fuoco. Ippolita non sopravvisse che di poco al magnifico trionfo del suo valore. Quasi che avesse speso in quei giorni tutto l'alimento del fuoco della sua vita, come se oramai più non le restasse, dopo avere operato tutto grandemente, null'altro di degno da fare per lei al mondo, moriva, e tornava al cielo, pari all'angelo delle battaglie, che adempiuti i voleri di Dio, e dispersi i nemici di coloro che volea vincitori, risale sereno e maestoso al loco da cui dianzi era disceso.

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Inconsapevole dei propri doveri, e ignara degli strepiti e delle cure mondane, s' abbandona a cheto sonno fra le braccia materne di provvidenza. Che se invece s'agiti fra i rimorsi della colpa o il fremito delle passioni, non ravviserete piuttosto in essa un'imagine di quella cateratta che sul morire del lago precipita spumeggiante e fremente nella valle sottoposta? Gli stessi augelli, raddoppiando il remeggio delle ali, ne volan via, e il pastore, facendosi schermo delle mani alle orecchie, le segna di lontano o fugge. Fugge egli e s'invola all'orribil rimbombo; ma mentre si caccia davanti il diletto gregge, ecco affondarglisi il piede, ed accorgersi, ahi ! troppo tardi, che le pecorelle corrono in fratta verso lo stagno in cui mette capo la palude che ora gli lega il passo. Morto quivi o languente è l'aspetto della natura: squallide ed irte di pungenti canne le rive, salmastre ed immote le acque, e dai crassi vapori ch'indi s'innalzano, l'aria si corrompe ed ammorba. Ma ben mille volte peggiore d'ogni stagno o palude è, o fanciulla, il tuo animo ove in sè accolga la malizia del peccato. Ne' tuoi sguardi brillava testè il sorriso dell'innocenza; adesso cupa, rannuvolata è la fronte, irrequieti gli atti, le parole o troppo melate o troppo iraconde. Oh! se non ti affretti a spigliarti dalla lurida pozza in cui, o sventurata, cadesti, vi resterai immersa per tutta la vita.

Pagina 341

Marina ovvero il galateo della fanciulla

193881
Costantino Rodella 1 occorrenze
  • 2012
  • G. B. Paravia e Comp.
  • Firenze-Milano
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Un servo per poche lire abbandona la famiglia, che l'ha tolto fanciullo dalla strada! Avete tirato su una tapinella, vi siete tormentata per mostrarle a far cucina, a lavorar d'ago, a stirare, colla speranza di educarvela fidata alla vostra casa? Altri le fa brillare agli occhi un par di lirette di vantaggio, essa vi pianta lì su due piedi colla maggior indifferenza del mondo! È vero che si sarà dato con un dito nell'occhio e che non tarderà a pentirsene; perchè non troverà presso i nuovi padroni la benevolenza e la tolleranza di prima, e per poche monete avrà sacrificato il bello della vita. A ciò dovrebbero pur badare i servi, che un boccon di pane, mangiato colla pace in cuore, vale meglio che un ricco salario guadagnato col martirio dell'anima. Ma non è più il cuore, che diriga le azioni, è il tornaconto; onde sentite da tutte parti le signore lagnarsi, che in oggi non si trova più una buona serva. D'altra parte se si assistesse ai capannelli delle cuoche il mattino quando son per la spesa in piazza, dopo d'aver intesi i titoli di volubile, di superba, di maligna, di intollerante, di taccagna liberamente prodigati alle padrone, si sentirebbero tutte d'accordo in questa conclusione: oggi s'è spento il mondo de'buoni padroni. Un po' di ragione v'è da ambo le parti; perchè se in antico i servi erano di più buon comando e più affezionati ai padroni, anche i padroni erano meno volubili e meno caparbi, più benevoli e più giusti verso la servitù; e in quelle stesse leggende, che conservano tante abnegazioni di vecchi servitori, si trova altresì, che i più grandi uomini avevano pei loro servi un riguardo e una deferenza singolare; si trova che Michelangelo pianse alla morte del suo servitore; che Luigi XIV mostrò sempre molta riconoscenza verso il suo cameriere Laporta, che l'aveva cullato bambino; che S. Francesco di Sales trattava con infiniti riguardi il signor Michele, suo fante; e potrei continuare la storia, se non temessi la noia. La signora Bianca aveva due persone al suo servigio, la cuoca e la governante; le qualità che essenzialmente esigeva da loro erano: onestà, fedeltà e ubbidienza; per il resto era molto indulgente. Nessuno è senza difetti, diceva, e più n'ha chi meno è educato; e con che giudizio potremo noi esigere tante virtù ne' servi? Chi fa i servi, soggiungeva, sono i padroni; quando la signora è disuguale, capricciosa, vuole e disvuole, comanda e poco dopo leva il comando; a volte tollera eccessivamente, a volte per un nulla imbizzarrisce; fa le sue intime confidenze alla fante, si fa dar la mano in certi intrighi, e simili cose; stia pur certa che non sarà più essa al comando; ma dovrà sottoporsi alle più dispiacevoli umiliazioni. Tenete la servitù al suo posto, e state tranquille, che vi saprà stare. Aveva a ciascuna segnata la parte sua, nè lasciava che l'una mettesse il naso nell'attribuzione dell'altra, non soffriva nessun pettegolezzo, la cuoca comandi in cucina, la governante in guardaroba. Giusta conoscitrice de' lavori e delle fatiche, le retribuiva convenientemente; non faceva mai aspettare il salario; imparziale sempre sapeva a tempo dare premi e rimproveri; non comandava mai cose che fossero superiori alla loro capacità; non le obbligava a prolungare le loro veglie, e quando doveva andare al teatro, a' balli, per cui dovesse star fuori fino ad ora troppo tarda, perchè non dovessero sacrificare il riposo a' suoi divertimenti, non voleva punto che l'aspettassero alzate; faceva allestire tutto prima, e poi colla sua chiave in tasca rientrava senz'altro bisogno. Povere fantesche! poveri servitori! esclamava essa, che piene di sonno e di freddo devono tutte le sere aspettare i padroni, che non han ora di ritorno, e il più indugiano oltre la mezzanotte! e la dimane guai se per empissimo non sono in ordine! Dov'é la giustizia! Son carne ed ossa come voi; anche su di essi la natura fa sentire i suoi imperiosi bisogni; che almeno abbiano il necessario riposo! Oltreciò presso di lei le serve si risentivano dell’agiatezza l'agiatezza della casa; avevano un cibo semplice, ma abbondante; nelle feste di famiglia anche la loro tavola gioiva di qualche boccone più ghiotto, di qualche vino più generoso; onde la gioia de'padroni si spandeva anche sulla servitù. Avevano una cameretta aerata e sana, un letto pulito e conveniente. Si è per questo, che non cercavano di andar via, ma servivano volentieri; prevenivano i padroni in quel che sapessero tornar loro gradito; insomma erano affezionatissime alla casa. V'ha padroni che si procurano tutte le morbidezze, le raffinatezze della vita, e costringono i servi alle più dure necessità; li fanno dormire in anditi o bugigattoli senz'aria e senza luce, sur un letto che ha del canile; loro misurano uno scarso e cattivo nutrimento, negano un po' di vino; a volte debbono i poveretti assistere ai lauti pranzi, e nulla di quella grazia di Dio viene a rallegrare il loro palato. Come volete che si affezionino a voi, alla vostra casa, quando li trattate sempre come estranei? All'occasione la signora Bianca non mancava di un consiglio, di un servizio, di una protezione, aveva riguardi alla loro salute; e nel pagar loro il salario consigliava di non sciuparlo in futilità, in vano lusso; ma collocarlo nella Cassa di risparmio, per formarsi un capitaletto nella vecchiaia; e così le avvezzava all'economia, allo sparagno. Del resto non si perdeva mai in conversazioni inutili con loro, non affidava nessun segreto di famiglia, per leggiero che fosse; non prestava orecchio alle loro ciarle, ai loro si dice. Vegliava anco sulle loro pratiche di pietà, e qualche volta li istruiva essa stessa sui fondamenti della religione; non le voleva spigolistre o mangiamoccoli, ma sinceramente devote; perchè s'era persuasa che senza timor di Dio non c'è vera bontà e fedeltà ne' servi. Esercitava una sorveglianza continua anche nelle piccole cose, si faceva render conto di tutto fino al centesimo. Non consegnava mai troppo danaro in una volta alla cuoca, e dì per dì, com'era di ritorno dalla piazza riconosceva la spesa. Pigliava il suo libro di cucina e da Marina faceva notare gli oggetti comprarti, mentre essa li riscontrava uno per uno; la distinta stessa de' piatti veniva da lei ordinata ogni giorno. A volte Marina s'intratteneva ad aiutare la cuoca, perchè la madre le diceva, che una buona massaia deve intendersi anche un po' di cucina; e per vero dire, la figliuola aveva imparato tanto da non trovarsi impacciata in un'occorrenza ad ammannire un desinaretto di parecchi serviti. Ma si badi che essa aveva riguardo di non rendersi mai importuna o d'ingombro, come qualche ragazza fa, che corre in cucina non per dar aiuto, ma per impacciare e confondere la servitù, e qualche volta, un po' ghiottoncella, per assaggiare qualche manicaretto. La signora Bianca aveva anche l'abito di fare di quando in quando le sue ispezioni se gli arnesi di cucina erano a posto e lucenti, se la biancheria era in ordine, stirata e ripiegata, se le vesti ben governate. Una volta per anno poi, se non v'era bisogno più spesso, faceva l'inventario generale di quel che era in casa, e, non fa mestieri il dirlo, Marina le faceva da segretario. Aveva un libro su cui era notato capo per capo tutta la biancheria, il numero delle lenzuola, delle coperte, delle coltri e coltroni, delle camicie, ecc.; le tovaglie e tovagliuole per tavola; l'argenteria, il vasellame, tutto insomma. Man mano che si faceva un acquisto, subito lì a segnarlo nel catalogo, e badava se ciascuna serie di oggetti era completa e a posto, se qualcheduno aveva mestieri di riparazione. I1 che voleva anche dir molto per tener le serve sull'avviso, e levava via fino la tentazione dell'infedeltà. Nè si creda che questo richiedesse troppo di tempo; men di mezz'ora al dì per il riscontro giornaliero, e un paio di giorni all'anno per l'inventario. Marina sapeva pur essa rendersi accetta e rispettata dalle serve; ma essa non comandava arrogantemente, non si scapricciava a farle immattire in cose inutili, non le derideva, non le avviliva mai; le aiutava in quel che poteva, ma punto confidenze. Vi sono ragazze che trattano con le serve, come con una compagna, giuocano, scherzano, motteggiano insieme e poi per una piccola cosa che non sia a filo, si sbracciano in improperii, in nomi villani, in imprecazioni, e non la finiscono più di gridare. Fa stizza poi veder ragazzine tant'alte, che sembrano vipere colle serve; comandano a bacchetta, rimproverano con asprezza, con alterigia e in faccia alle genti, per far mostra di potenza e superiorità, dànno ordini severi, minacciano brutalmente, alzano la voce, vituperano senza bontà! È un terribile anacronismo una ragazzetta di otto anni minacciare e rampognare severamente una povera vecchia fante! Ve n'ha di quelle che per uggia, che hanno contra la serva, fanno delle accuse non vere ai genitori per il maligno talento di farla strapazzare; Marina diceva che fanciulle tali non hanno carità cristiana, nè ombra di creanza (1).

Pagina 127

Nuovo galateo. Tomo II

194722
Melchiorre Gioia 1 occorrenze
  • 1802
  • Francesco Rossi
  • Napoli
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Pagina 154

Le buone usanze

195816
Gina Sobrero 1 occorrenze
  • 1912
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
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Ma è altrettanto sconveniente quella che per pompa di religiose non sempre profondamente sentita, si percuote il petto, batte la fronte sui gradini dell'altare, biascica preghiere ad alta voce, si abbandona infine a manifestazioni esagerate tollerabili tutt'al più nel popolino, e ancora solo di certe tali provincie. Se un uomo od una signora debbono mostrarsi corretti davanti ai loro simili, posti più in basso o più in alto della scala sociale, tanto maggiormente s'impone loro questo dovere davanti alla maestà di Dio, alle immagini di qualunque genere che lo rappresentano. La prima di queste funzioni religiose cui prende parte l'uomo nella vita, è per noi cristiani, il battesimo. I genitori del nuovo nato, debbono aver pensato prima della sua venuta al mondo, alla scelta di un padrino e di una madrina, onde non metterli nell'imbarazzo all'ultimo momento. La scelta del nome va fatta non solo con affezione, ma con criterio e buon senso: è supponibile, per esempio, che il padrino o la madrina siano afflitti da uno di quei nomi che, pur venerabili, si prestano al ridicolo; naturalmente non è facile rifiutare d'includere questo nome, ma si può, con tatto, esprimere il desiderio che al fanciullo venga dato il nome di un parente caro o di un santo specialmente venerato. Nell'invito a battezzare il bambino, i coniugi devono informare reciprocamente il padrino o la madrina della scelta fatta, onde evitare di mettere a contatto due persone che per ragioni imprevedibili possono mutualmente dispiacersi. Al padrino od alla madrina incombe l'obbligo morale di manifestare la soddisfazione dell'onore ricevuto con qualche regalo: regalo al neonato, regalo alla puerpera, regalo alla donna che presenta il fanciullo al sacro fonte, regalo alla chiesa dove ha luogo la funzione. Non bisogna però che l'idea di tale usanza influisca sull'accettare o no l'incarico affettuoso e gentile; in questa come in tutte le circostanze della vita dobbiamo avere il coraggio della nostra posizione; se non possiamo tenerci nella regola, dobbiamo pensare che quel babbo, quella mammina ci conoscevano già prima e se ci vollero a parte della loro grande felicità, non fu nella prospettiva del regalo, ma perchè sulla piccola culla scendessero uniti ai loro i nostri voti bene auguranti. Nella scelta dei regali è di guida, oltre la posizione finanziaria delle due famiglie, il grado di intimità che le unisce. I parenti, gli intimissimi amici possono offrire degli oggetti anche ricchi ma utili, mancherebbe di tatto un estraneo regalando alla puerpera un abito fosse pur di broccato; però se questa puerpera è una donna poco provvista di mezzi, non sarà inopportuno offrirle uno di quegli oggetti di utilità superflua che forse ella non potrebbe mai procurarsi. Se il padrino o la madrina hanno una carrozza propria la metteranno a disposizione dei loro amici per portare il neonato alla chiesa, altrimenti è incarico di questi provvedere un servizio di vetture. Se un ricevimento segue alla funzione religiosa, è cortesia invitarvi il sacerdote che ha ufficiato; egli ha il posto d'onore qualunque sia l'importanza delle persone presenti. Facendo inviti ufficiali per la cerimonia, occorre lanciarli in tempo come per qualunque altra festa e si risponde al solito sia accettando sia rifiutando l'invito. Gli uomini indossano per questa cerimonia la redingote o l'abito di società a seconda della sua importanza; le signore hanno delle toilettes eleganti da visita; sarebbe ridicolo presentarsi ad un battesimo in décolleté. Il padrino sovente offre alla madrina un dono in ricordo dell'atto che hanno compiuto insieme, promettendo di proteggere, di vegliare la piccola creatura appena entrata nella vita. Si è stretta fra loro una specie di amichevole fratellanza che sovente si trasforma in un più tenero sentimento, e una gentile leggenda vuole che l'amore nato così intorno ad una culla porti fortuna alla coppia futura. Più solenni, ma prive affatto di mondanità sono le cerimonie che accompagnano la prima Comunione e la Cresima dei fanciulli. Sovente le due cerimonie hanno luogo nello stesso giorno, sono d'altronde simili le convenzioni per quanto entra nel nostro argomento. Poichè un bimbo, una fanciulletta si preparano a ricevere i due Sacramenti, dobbiamo credere che essi appartengano a famiglie credenti. È vero peraltro che molti genitori fanno e fanno fare ai loro figliuoli per snobismo cose che sono poco in armonia coi loro sentimenti. È in ogni modo di cattivo gusto, il mostrare di dar poca importanza ad atti che devono rimaner solenni nella vita, l'irridere alla devozione, al raccoglimento delle piccole anime tutte comprese del grande avvenimento. L'abito che indossano i giovinetti per la prima Comunione o la Cresima se non è l'uniforme dell'istituto della scuola cui appartengono, sarà, per la fanciulla, di mussola bianca senza guarniture, senza cianfrusaglie; per i maschi, l'abito stesso che essi indossano per le grandi solennità, il migliore del loro guardaroba. Anche i poverelli dànno a questa giornata, che prima attraversiamo nella vita colla coscienza della sua importanza, la maggior solennità possibile, però ogni affettazione nell'acconciatura, ogni sfoggio di eleganza volgare, è prova di cattivo gusto, di leggerezza da parte, non già dei fanciulli, ma dei loro genitori, di chi ha cura della loro educazione. Non si fanno inviti per assistere a queste cerimonie d'indole puramente religiosa, però le signore che vi intervengono indossano un abito elegante da visita; gli uomini sono in redingote e cappello a tuba. Il contegno di questi comunicandi, mi pare quasi inutile il dirlo, deve essere correttissimo, lontano tanto dalla ostentata disinvoltura, come dalla soverchia manifestazione di sentimenti che, per quanto nobilissimi e comprensibili, perdono della loro serietà e poesia quando li diamo in spettacolo al pubblico. I regali più adatti a ricordare la solenne giornata sono naturalmente gli oggetti di devozione: immagini sacre, libri di preghiera, corone del rosario più o meno ricchi a seconda della posizione di ognuno. Non so perchè non si offrirebbe a questi fanciulli un gioiello, un oggetto di valore che rimanga a rammentare tra le avventure della vita questa serena ora di gaudio, ma mi parrebbe fuori posto, anzi sconveniente, regalare ad una giovinetta un abito da ballo, un cappello dalle penne pompose; ad un fanciullo, un bronzo artistico di soggetto profano. I nuovi comunicandi mandano ai loro superiori, agli amici un'immagine simbolica della circostanza che ha sul verso il loro nome e la data commemorativa. Passo sul modo di comportarsi in chiesa sia per ciò che riguarda gli sposi, sia per gli invitati durante la funzione che accompagna il matrimonio, poichè di essa ci siamo già diffusamente occupati in questo volume e vengo ad un'altra funzione, pur troppo assai dolorosa, ma alla quale talora non possiamo mancare dall'assistere: messa funebre o benedizione del feretro in chiesa. I parenti stretti del defunto, specialmente le signore, come già accennai a proposito dei lutti, non prendono parte al corteo, assistono, se ne hanno la forza, alla lugubre cerimonia in chiesa ed allora vi si recano in lutto strettissimo, in carrozze chiuse e si riuniscono in una cappella speciale o nei posti a loro destinati attorno al feretro. Nessuno saprebbe condannarli se incapaci di resistere alla emozione di quell'ora rimanessero in casa, ma sarebbe di cattivo gusto se si abbandonassero a singhiozzi clamorosi, a sfoghi di un dolore che, comprensibile e santo, deve avere però il suo pudore, non va dato in pasto alla curiosità, alle chiacchiere della gente. Anche gli estranei assistono vestiti a lutto ad un funerale: gli uomini indossano la redingote, la cravatta sera e il cappello a tuba, le signore un abito nero o per lo meno di tinta oscurissima. Chiacchierare durante il servizio religioso fosse anche per tessere le lodi del defunto, mostrarsi distratti, indifferenti, annoiati, sono mancanze gravi di educazione. Chi appartiene ad una religione diversa da quella nella quale si celebra il rito, ha doppio dovere di rispettare rigorosamente il cerimoniale giacchè si trova doppiamente davanti ad estranei. Tutte le spese del funerale, non ho bisogno di dirlo, incombono ai più stretti parenti del defunto o ai suoi eredi, gli invitati non lasciano mancie alla chiesa, nè debbono darle al personale di servizio della funzione. Altre funzioni di ordine quasi esclusivamente mondano ha la chiesa nelle quali occorre sapersi convenientemente comportare onde non confondersi col popolo fanatico e ineducato: voglio alludere alle grandi funzioni religiose che si celebrano a Roma. Grazie alla facilità dei mezzi di trasporto moderni, alle frequenti riduzioni dei biglietti ferroviari, non c'è nessuno che sia per devozione, sia per semplice curiosità non voglia, recandosi a Roma, visitare il Santo Padre, non voglia assistere a qualcuna delle grandi cerimonie che hanno luogo a San Pietro o nelle varie cappelle vaticanesche. L'abito nero è di prammatica in simili circostanze per gli uomini, come per le signore; un uomo indossa la redingote se non occupa un posto distinto chè, se è ricevuto in udienza speciale dal Santo Padre o se occupa un posto di tribuna, un seggio speciale, indossa l'abito di società come per i grandi ricevimenti mondani. Le signore vestono in nero più o meno elegantemente secondo la loro posizione e il loro gusto; portano tutte il velo nero invece del cappello, tolgono i guanti, dànno poca prova di poco buon senso sfoggiando acconciature troppo originali, scollacciature, trasparenti provocanti, dimenticandosi infine di trovarsi non solo davanti ad un Sovrano, ma al rappresentante di Dio. Papa Pio X ha escluso il bacio alla sacra pantofola; tutti però si inginocchiano e baciano con reverenza, senza stringerla con la destra, la mano che porge l'Ospite Augustissimo. Chi per i proprii principii non sa adattarsi a quest'atto di umiltà, si astenga dal presentarsi alla Corte pontificia, ma se ha sollecitato l'onore di un ricevimento, si comporti come impone l'etichetta, come usano le persone educate. Le domande di udienze private si rivolgono al Ministro dei Sacri Palazzi o al Vescovo della propria diocesi che le trasmette alla Santa Sede. La maggior devozione, l'emozione più profonda non giustificano certe escandescenze, certe chiassose manifestazioni che sono di un pessimo gusto e non ne raccomandano certo gli autori alla Sacra persona che li accoglie.

Pagina 199

Come presentarmi in società

199861
Erminia Vescovi 2 occorrenze
  • 1954
  • Brescia
  • Vannini
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Nel sedere, una persona veramente ben educata non accavalla le gambe, non si pone obliqua, non si abbandona sulla spalliera, non si dondola sulla sedia, con manifesta noncuranza dei presenti. Questi modi scorretti, una volta severamente proscritti, sono stati recentemente adottati... chi lo direbbe mai? dal sesso gentile. Una donna saggia e onesta non si mostra mai in una posizione indecorosa, perché sa che sopra il capriccio momentaneo della moda, a cui ciecamente sacrificano le teste leggere, ci sono le leggi inviolabili del pudore e del riserbo. E sa anche che la vera eleganza sta nella compostezza e nell'armonia delle attitudini e delle movenze. Quindi, ad esempio, una signora sedendo non accavallerà le gambe, a meno che l'ampiezza e la lunghezza della sua gonna siano tali da consentirle quella posa senza farle perdere nulla di quella compostezza e di quell'armonia. Alcuni hanno in questo un dono innato di grazia: tutto in loro è disinvolta eleganza, nessuna delle loro mosse è soverchia o impacciata, non mai troppo rapida nè troppo lenta, non mai angolosa e affettata. Di costoro bisogna dire come fu detto della poesia:

Nei teatri popolari, il pubblico si abbandona più facilmente alla manifestazione clamorosa delle sue impressioni. E passi pure per gli applausi e le esclamazioni, e non ci faccia sorridere di meraviglia scherzevole l'ingenua commozione di qualche buona donna che piglia proprio sul serio la faccenda e piange e freme... Ricordiamo il grazioso sonetto di Neri Tanfucio, in cui il pubblico inveisce contro il tiranno, all'Arena. Fin qui, niente di male. Ma il male è quando il popolo non abbastanza educato, tumultua, grida e fischia. Il fischiare è un atto crudelmente villano contro chi non si può difendere, e ha fatto quanto meglio poteva per divertire il pubblico e farsi un po' d'onore. La persona bene educata non fischia mai. ... Cioè, ammetto un solo caso. Ed è questo: se una scena immorale fosse accolta da una salve di fischi, la lezione sarebbe severa per chi tocca, ma non certo inefficace. In tutti gli altri casi è inutile usare tal modo di riprovazione, quando c'è quell'altro così semplice e dignitoso, e che non fa male a nessuno: alzarsi e andarsene.

Pagina 207

Le buone maniere

202883
Caterina Pigorini-Beri 1 occorrenze
  • 1908
  • Torino
  • F. Casanova e C.ia, Editori Librai di S. M. il re d'Italia
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Essa non si abbandona al suo cavaliere, ma tiene il capo un po' a sinistra in alto e poggiando la mano sinistra sulla sua spalla. Non dà in custodia ad alcuno fuorchè a sua madre o ad altra signora il suo ventaglio o il carnet: non ciarla, non ride troppo, non si permette curiosità o dimestichezze e non deride quelle che hanno pochi inviti e stanno a sedere aspettando la buona fortuna. La quale vien dormendo, come dice il proverbio; e chi ha spirito anderà a dormire il più presto possibile, anzichè fare il viso lungo o rider giallo o malignare invidiosamente contro le preferite. In queste regole generali di ben condursi nelle diverse contingenze della vita sociale non è da trascurarsi neppure quella che chiameremo l'etichetta del sigaro e del tabacco. Non occorre dire che noi intendiamo sempre che queste due droghe come il cognac e il rhum e in genere le cose alcooliche sono riservate agli uomini, come quei gabinetti di storia naturale in cui è scritto sulla porta: Le donne non entrano qui. Non si entra mai in casa altrui fumando nè sigaro, nè sigaretta e tanto meno la pipa. Si può fumare dopo un pranzo, un convito, un lunch, col permesso e anzi coll'offerta della padrona di casa; ma non mai nel suo salotto particolare o in una sala da ballo. I francesi, come hanno introdotto l'uso in Italia della salle à manger (sala da pranzo), hanno anche portato quello del fumoir (fumatoio). Se quest'ultimo salottino non esiste, sarà bene di fare come gl'inglesi: fermarsi nella sala da pranzo intanto che le signore vanno nel salotto. Pei fumatori ci sono usi singolari in tutti i paesi del mondo; noi non guarderemo nei paesi che quantunque originarii del tabacco non possono passare per modelli di civiltà fumatrice, cominciando dalla Spagna la più civile e finendo all'isola di Cuba la più barbara, in cui si dà all'ospite quasi l'avanzo della fumata, come per dirgli: Tieni, è buona! In Ispagna, dice la baronessa Staaffe, che fa testo di eleganza, il padrone accende il suo sigaro e dà al vicino il proprio fiammifero, evidentemente per togliere ad esso l'odor di zolfo. In Francia invece si accende sempre il fiammifero per l'ospite e gli si dà perchè se ne serva; ed egli lo restituisce ancora acceso. L'abitudine di cercar fuoco dal sigaro del vicino è un'usanza troppo americana, per poter essere adatta ai nostri costumi. E una cattiva educazione che mette troppo vicini due aliti, due visi, e fa fare specchio degli occhi. Tanto peggio poi chiedere fuoco ad uno che si incontra per la strada: ciò può produrre degli accidenti spiacevolissimi per parte di chi non vuol essere conosciuto. Questo servigio nell'etichetta del s igaro è l'indizio di una spensieratezza inescusabile; ad ogni modo nessuno può, richiesto, esimersi dal concederlo; le persone per bene si guarderanno dal chiederlo e richieste si guarderanno bene dal negarlo, come succede in tante altre cose nella società. In viaggio, anche nei vagoni dei fumatori, se c'è una signora se ne chiederà licenza. Ci sono degli esseri timidi che non sanno mai scegliersi un vagone, un posto in un tram o in un omnibus e non arrivano mai a salirvi in tempo. Di questi era il Renan, chiamato a Parigi l'uomo del tram. Il tabacco da fiuto non si offre mai ad alcuno; è un'offerta da sagristia che non entra nella buona educazione; e per questo appunto che non può offrirsi, è la sola cosa che può chiedersi da tutti. Le solite contraddizioni della vita, che noi ci contenteremo di constatare senza discuterle, perchè il mondo è fatto così, ed è di queste piccole transazioni e convenzioni che si compone la società costituita in tutti i tempi, in tutti i luoghi e perciò anche in Italia e in questo secolo XX.

Pagina 220

Eva Regina

203246
Jolanda (Marchesa Plattis Maiocchi) 1 occorrenze
  • 1912
  • Milano
  • Luigi Perrella
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LE OCCUPAZIONI DELLA GIOVINE SIGNORA Una delle cause principali delle inquietudini, dei rimpianti, delle malinconie a cui la giovine signora si abbandona facilmente nei primi mesi della sua nuova vita, risiede nel troppo tempo che ha a sua disposizione per fantasticare. Se vive in famiglia, la suocera le evita tutte le brighe, le responsabilità, i pensieri della direzione della casa, ed essa è là come una signorina, meno il corredo da preparare e l' educazione da completare. Se la padrona di casa è lei, una famiglia composta di due persone e di due domestici — a meno che non si tratti di una condizione sociale che obblighi alla direzione d' un palazzo e d' una intera gerarchia di servi — è presto condotta. I mobili sono nuovi, la biancheria è nuova, gli abiti nuovi: non c'è che da conservare, il resto va da sè. E molte ore rimangono, mentre il marito è fuori, che la sposina non sa come impiegare. Un po' legge, poi si stanca, un po' suona il pianoforte, scrive qualche lettera, dà un ordine alla cameriera, un altro al cuoco: e poi ? E poi s'adagia nella poltroncina a far qualche punto a un cuscino, a un centro da tavola, mulinando tra un punto e l'altro — troppo ! — dando troppo ascolto, fra una gugliata di seta rosa e una di seta grigia, alle punture della sua sensibilità esagerata, alle larve della sua immaginazione, alle esigenze del suo egoismo personale. Ah, spesso spesso, queste prime ore di ozio del pensiero, nell'esistenza coniugale, sono il terreno in cui può germogliare propizio il cattivo seme della discordia, della tentazione, della volubilità. Noi non siamo mai così vicini ad essere infelici come quando non abbiamo più nulla a desiderare. Mancandoci motivi veri di scontento, siamo tratte a crearcene dei fittizi, che ci fanno soffrire come fossero veri e possono demolire, come tarli insidiosi, corrompere, come crittogama velenosa, tutta la fiorente bellezza d'una felicità sana e sincera. Scrisse un romanziere francese, Gaston Lavalley: « La felicità ! la nostra vita si consuma nell'inseguirla. Mentre camminiamo cogli occhi fissi su questa méta radiosa, nemici oscuri s'avvincono a noi come la piovra alla nave. Sono i piccoli avvenimenti, le imprudenze, gli errori, le mancanze d'ogni giorno. Artefici di distruzione lavorano nell'ombra e si fanno dimenticare. Ma quando crediamo di toccare la terra promessa, naufraghiamo con tutte le nostre speranze. » In guardia dunque contro questi ipocriti e subdoli nemici ! In guardia dal principio per dominarli energicamente. E come? Con l'opera, o signore, col lavoro che tutto vince, che disperde le fantasticherie malsane, i vapori sentimentali, le suscettibilità pericolose. In un regno per quanto piccolo c'è sempre molto da vigilare, da ordinare, da decidere, da migliorare. Se il mobiglio è nuovo, procurate di renderlo più elegante con quegli accessori di buon gusto che una signora ingegnosa può preparare da sè. Coltivi dei fiori perchè il suo appartamento non manchi mai di questo primaverile sorriso : e non si fidi della cameriera per il guardaroba, nè dalla cuoca per la cucina ; la sua sorveglianza diretta, il suo intervento frequente, la faranno accorta di molte trascuranze, di molte mende da to- gliere che non apparivano alla sua sorveglianza superficiale e sommaria. E poi una donna che ama con tutta l'anima il compagno a cui si è data, può forse cessare un momento solo nella giornata dall'offrirgli come un odoroso incenso tutti i suoi pensieri, tutte le sue azioni? Le robe che gli appartengono, da custodire in modo ch'egli vi trovi sempre le tracce della vigile e delicata tenerezza di lei invece di quelle dei prezzolati servigi dei domestici. Le stanze che abitano in comune, da rendere gradevoli per mezzo di quelle minuziose cure che dicono quanta parte abbia lo spirito sulla materialità dell'atto di apparecchiare una tavola, di disporre un mobile, di velare una lampada, di distribuire dei libri e delle fotografie. Poi la preoccupazione costante di mostrarsi graziosa, elegante, desiderabile agli occhi del marito, sia nell'accappatoio del mattino, come nella camicetta di seta indossata pel pranzo; sia col grembiulino da buona massaia col quale la signora entra in guardaroba e in cucina. Indi gli obblighi sociali. Ora non si fanno più le classiche visite di un tempo, il cui uso si conserva ancora in provincia; ma vi sono i five-o'-clok a cui bisogna prender parte e che bisogna restituire : qualche pranzo da dare o a cui intervenire : gli incarichi che le amiche dànno, le opere di beneficenza a cui interessarsi, e infine, se la signora è intelligente ed istruita, tutto il movimento artistico da seguire, sia pure per sommi capi, ma tanto da non ignorare quello che si fa nel proprio paese. Giacchè non basta tenere gli ultimi libri sul tavolo e lo spartito dell'opera recente sul piano : non basta riempire i vassoi di fotografie artistiche e di cartoline commemorative; bisogna mettersi in grado di conoscere con precisione il prodotto o l'avvenimento di cui si discorre, e questo non tanto per vanità quanto per procurare a noi stesse il godimento puro ed alto di vivere la vita superiore, quella che ci eleva moralmente, che dà al nostro spirito attività molteplici, che ritempra contro le frivolezze e le seduzioni malsane, che è sempre fonte di serenità, spesso di conforto, e non di rado salvezza suprema nelle vicissitudini dell'esistenza.

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Angiola Maria

207127
Carcano, Giulio 5 occorrenze
  • 1874
  • Paolo Carrara
  • Milano
  • Paraletteratura - Ragazzi
  • UNICT
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Elisa, guardandola con mestizia, la compativa; Vittorina l'abbracciava, ripetendole le più liete cose che siensi dette mai, per consolare chi abbandona la prima volta i luoghi a cui una vita serena di molt' anni donò tanta e così vera bellezza. Nel tempo di quel tragitto, un giovane barcaiuolo accompagnava il lento batter del remo nell' acqua cori una semplice canzone del suo paese, su andar della seguente: IL COMMIATO. CANZONE DEL BARCAIUOLO.

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Nondimeno colui che per la prima volta abbandona l'aria pura della campagna, la solitudine d'una terra ignota, non può trovare nella città quel soggiorno di delizie e di fortuna, che forse prima aveva sognato; nè quella pace oscura che nessuno al mondo suole invidiare, tranne chi l'ha perduta. V'è una certa tristezza nella consueta tranquillità cittadina, una certa monotonia nella quotidiana vicenda delle sue costumanze, una noia negli spassi, un' inerzia nella vita, che talvolta ti par di trovarti solo e abbandonato in mezzo alla frequenza della gente, e ti stanchi di vedere il malcontento in seno della ricchezza: da una parte l'orgoglio e il disprezzo dall'altra; dappertutto, l'abitudine e l' indifferenza per quanto ti s' agita o muta d' intorno. Al principio dell'inverno poi quando il cielo non ha sole e la terra non ha altro che nebbie e fumo, è una scena a cui l'anima immalinconisce e si fa grave e noiosa. Le vie spesseggiano di popolo, ma son taciturne; è un andare e venire, un mischiarsi, un incontrarsi da ogni parte; ma ciascuno cammina per le faccende sue; o se non ha faccende, s' accontenta di badare a quello che altri fa o dice. La scena poi è sempre la stessa: è il fanciullo che ora a ritroso, or saltelloni s' avvia alla scuola, col fascetto de' libri su d' una spalla e il pigro servo o la finite brianzuola che gli tien dietro; è l'onesto impiegato che col lento usato passo s'incammina all'ufficio per la strada da vent'anni battuta, chiuso nel pastrano di panno turchino e col fido ombrello sotto l'ascella; il solito gruppo de' lettori d'affissi alle cantonate, il fattorino che torna zufolando alla bottega, la femminetta devota, o la vecchia dama, seguita dal servitore in livrea e con l'astuccio degli occhiali e due grossi libri fra mano, le quali spesseggiando i passi vanno alla messa della parrocchia; è l'ozioso che girando a zonzo arresta tutti gli amici e i conoscenti in cui s' imbatte, o dà gli occhi entro ogni bottega, o numera le finestre d'ogni nuova fabbrica; è il giovine signore che dall'alto cocchio inglese balza su le soglie del palazzo di qualche eletta contessa, lasciando al valletto di dieci anni le briglie de' focosi puledri. Pure, nella città è un bel vivere per tutti: Ben so che spesso bisogna vedere e tacere, mordersi la lingua o far orecchie di mercante; so che bisogna sorridere a tanti amici di cappello, accarezzare coloro che ti stanno di sopra, e quelli stessi che t' invidiano; guardare, confuso nella folla, il traino cortigiano dell' ignoranza tremare talvolta perfino d'una segreta stretta di. mano dell'uomo sincero; so che bisogna fremere e arrossire, se non per te, per altrui; e chinar la testa alle opinioni che, al pari di tanti piccoli tirannelli, cozzano e voglion regnare insieme.... Ma finchè nella patria troverai un amico che ti dica una buona parola, finchè avrai nella tua casa alcuno che t' ami, alcuno da amare, oh! terrai sempre caro il nome della tua città, come quello di tua madre. La famiglia de' Leslie, venuta a Milano, aveva preso dimora in una bella e comoda casa, situata in una delle più popolose vie della città. La casa apparteneva a una vedova dama, la quale, alla morte del marito, s' era ritirata al secondo piano, per nascondervi il suo lutto e i suoi quarant' anni, e per cedere il quartiere del piano « nobile » a qualche ricco pigionale. Le damigelle, non avendo altro che gioja ne' pensieri, s'addomesticarono in pochi dì con la vita cittadina e co' nuovi spassi, dimenticarono il lago e i suoi pacifici ozii. Ma così Don era di Maria. Essa non aveva creduto, da prima, che così presto si sarebbe trovata sola sola: già s'accorgeva che le mancava qualche cosa, e non sapeva che pensare a sua madre, e pensare a suo fratello. Pure ne' primi giorni, la novità di tutto quello che la circondava, le cure divise con le compagne per mettere in assetto la nuova casa, e allogare ogni cosa nella piccola stanza che ciascuna di loro s' era scelto, fu una sollecitudine, un pensiero. Ma poi, quel trovarsi chiusa sempre tra le pareti d'una sala, quantunque tappezzata da lucenti arazzi e sfavil- lante d'oro e di cristalline lumiere, quel correre alle finestre, e non veder che tetti e case, a traverso l'aria greve e fosca, cercando invano con l'occhio la linea serpeggiante delle montagne, e i noti paesetti su l'opposta riva, e l'incerta lontananza dell'acqua: tutto ciò la faceva ben sovente muta, incresciosa a sè stessa, e le aveva rapito quell'aria di freschezza e di sorriso, onde fu prima così bella e serena.

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Me lo ricordo come fosse adesso; egli, il mio buono e santo fratello, mi disse una volta.... qui, qui appunto dove siamo noi: - Abita sempre nel luogo in che il Signore ti collocò: Egli solo è quegli che non abbandona mai! Conserva il tuo cuore , e vivi povera e modesta come sei nata!... » E, ripetendo questo ricordo, Maria singhiozzava. Il giovine era commosso e sorpreso da contrarii pensieri. « Ecco, » ripigliò indi a poco Maria, « che le ho aperta l' anima mia. Un' altra ragione poi.... non ho nemmeno il cuore di dirla, ma pur è vera anch' essa... ed è che sento già di potere durar poco: è un' idea che ho avuto sempre.... Ma, adesso, Dio mi darà la virtù di patire per queste poco tempo. » « No, Maria, non lo dire; no, non è vero!... Vuoi tu vedermi disperato, vuoi ch' io maledica al mondo e a Dio?... A questa imprecazione la fanciulla non resse; il coraggio, che fin allora l'aveva fatta maggiore di sè stessa, era esausto; ella tornava una stanca affralita creatura com' era prima. Fece per parlare, e non potè; si senti venir meno, vide appannarsi, confondersi le cose d' intorno, e la sua voce non seppe formare che un debole sospiro. O Maria! mio angelo tutelare; » diceva Arnoldo con supplichevole affetto, sostenendola: « ascoltami, Maria, non m'abbandonare, non morire Tu sei una santa, io ti venero come mia madre... farò tutto quello che vuoi; guardami! dimmi una parola sola.... Non m' ami più? ah! non importa.... sarò infelice; ma tu ascoltami, non morire, oh non morire!... Ti sono forse odioso?... no, no! dimmi che non è vero! E perdonami; io voleva un poco delle tua felicità, un poco della pace del tuo cuore. Parla Maria! ma non mi togliere tutta la speranza. Vuoi ch' io parta che corra a gettarmi a' piedi di mio padre?... me n'andrò, domani.... oggi.... subito! Ma tu vivi, aspettami, e lascia ch' io creda all'amor tuo. » « Sì, sì, è meglio che parta, signor Arnoldo! » disse Maria, alla quale le ardenti parole del giovine avevano restituito un po' di coraggio, quantunque misto a un segreto fremito di terrore; « è meglio che parta adesso! Io per me, spero che Dio m'ajuterà.... Senta dunque; se lei torna nella sua patria, l'aspetterò per un anno.... e poi.... quando veramente fosse la volontà del cielo.... » « È una condizione troppo dura, Maria; nè so come potrò obbedire.... » « Ah! è necessario che s' allontani per qualche tempo, che torni in pace con suo padre! Consoli le sue sorelle, mi rammenti a loro; a quella buona Elisa, se la si ricorda ancora del mio nome. Io intanto penserò a lei, sempre a lei, signor Arnoldo, ch' è stato così buono per me! Io non aveva più nulla a questo mondo, nulla fuorchè ia mia onestà; lei ha avuto compassione di me, e io la benedirò sempre, pregherò sempre per lei!... » Arnoldo era commosso fino alle lagrime. Contemplava Maria con muta tenerezza, e la piena degli affetti che gli agitavano il cuore, non poteva trovare un' uscita. Alla fine le si appressò umiliato, le prese una mano, se la recò alle labbra, la bagnò del suo pianto, e: « Addio, » le disse, « Maria! addio per un anno. » « Addio! » rispose con voce sicura la fanciulla; ma il suo cuore addolorato, in quel momento, tremò che non fosse per sempre. Il seguente mattino, Arnoldo abbandonava quelle rive, abbandonava l'Italia. Tornato alla villa dopo il colloquio avuto con Maria, vi aveva trovato alcune lettere d' Inghilterra, fra le quali una di Elisa sua sorella, che dipingendogli il misero stato di salute del padre, il terrore o l' abbandono in cui essa e Vittorina vivevano, lo scongiurava a non perder nemmeno un' ora, a ritornar subito, a ricordarsi del nome che portava, e del dovere di figlio e d' Inglese, che lo richiamavano in patria. Questa lettera finì di persuadere Arnoldo. Bisognava dunque partire, senza rivedere Maria; tutto glielo comandava: e chi sa anche se avrebbe potuto ancora arrivare a tempo per ricevere la benedizione del padre suo? Egli dunque partì. Maria, che in tutta quella notte non aveva mai potuto chiuder occhio, s' era levata col sole, e se ne stava appoggiata al davanzale dell'aperta sua finestra, contemplar di lontano la villa *** dov' egli abitava. I balconi del terrazzo erano spalancati; quella parte della casa aveva l'aspetto d'un luogo abbandonato di recente. Quel pianerottolo deserto, quell'alto terrazzo, quelle vate finestre, le mettevano nell'anima un' involontaria tristezza. I suoi sguardi calarono lenti e distratti allungo della riva.... Nello stesso momento vide una barchetta staccarsi dal piccolo porto che si apriva al piede della villa. Un uomo, avvolto nel suo mantello, era nella barca, la quale ben presto pigliò il largo; il barcajuolo faceva forza di remi contro il vento che increspava tutta la superficie del lago. Un grido doloroso, invano trattenuto, le scoppiò dal più profondo del cuore.... Allora, quasi fosse stato scosso da quel grido, Arnoldo levò il capo, e di lontano la riconobbe. Si alzò, stese la mano verso di lei in atto d'un ultimo saluto; poi, quasi oppresso da forza prepotente, s'abbandonò di nuovo su la prora della barca: la quale fuggendo via via si dilungò rapidamente, finché non apparve più che come un punto nero, nell' iride dell' acque che riflettevano il sole nascente. Ma quand' ebbe perduta di vista quella barchetta, la povera Maria sentì mancarsi il cuore: uno schianto improvviso la soffocò; proruppe in lagrime d'amarissimo cordoglio, in quel piangere caldo e dirotto di chi non ha più speranza. Ella pensava che tutto era finito, che non l'avrebbe riveduto mai più. Angiola Maria visse ancora un anno, nella solitaria casetta, in compagnia della sua vecchia amica, che le era prodiga delle cure le più amorevoli, e che si ricordava così spesso di lui. Aveva raccolte sei o sette povere fanciulle del contado, tutte da quattro a cinque anni, belle creaturine dai capegli d'oro e dai visetti color di rosa, innocenti anime che l'amavano come madre. Insegnava loro a leggere, a dire quelle prime orazioni del fanciullo, che sono il più soave profumo che si innalzi ne' cieli; si deliziava di vederle folleggiare, quelle piccine, per le ajuole del suo cortile; e tutte le metteva a parte di quel poco ben di Dio che a lei era avanzato. Cosi si sentiva abbastanza felice, perchè persuasa e contenta d'aver compito il suo dovere. Innocente e sublime creatura! Essa aveva compito il suo sacrifizio. Al cominciar dell'altro inverno, que' fatali indizii d'una lenta consunzione, sopita per poco tempo ma non vinta, tornarono a spiegarsi; e il dottore, che di quando in quando capitava a visitarla, s' era subito accorto della funesta verità. Pure Maria trascinò i suoi giorni per tutta l' invernata. A poco a poco, ella si consumava, finiva, senza temere di nulla, senza patire. Dio è sempre pietoso, e volle risparmiarle l'ultima angoscia. Le fanciullette sue amiche venivano ancora quasi ogni dì a tenerle compagnia; qualche tolta, alcuna d'esse, la più grandicella, le domandava perchè fosse cosi pallida e dimagrita, e nel domandare pian- geva.... Ma ell'era rassegnata; nè fu udita mai pronunziare un solo lamento; chè anzi, assorta talora in dolce meditazione, le sue labbra s' aprivano a un tranquillo e celeste sorriso. Tornò la primavera, tornò il bel sole, tornarono i fiori; ma il cielo non fu più sereno, nè l'aria ebbe più balsamo per lei. Oramai, ella non sorgeva più dal suo letticciuolo. Al principio dell' aprile, in quel giorno stesso che, un anno prima, aveva veduto partire Arnoldo, ella restituì l'anima pura al Creatore. E le fanciulle da lei tanto accarezzate, e la Marta, alla quale lasciò la sua casetta, e quel buon galantuomo del signor Gaspero, che sempre le aveva voluto bene, furono i soli che l'accompagnarono l'ultima volta fin al luogo del suo riposo. Ella è sepolta presso a suo padre; e quelle due zolle sono protette da un' unica croce. Alcune settimane dopo la morte di Maria, il signor Gaspero stava leggendo agli amici le novità della gazzetta: sedevano a circolo su l' entrata della bottega di Samuele; poichè, al venir della state, l'aristocrazia del paese, come i capi delle tribù indiane, soleva tener consiglio a cielo sereno. Dunque, fra le altre novelle, sotto la data di Londra, egli lesse questa: « - Sir Arnoldo, figlio di lord Leslie, quello stesso la cui conversione alla religione cattolica menò gran rumore l'anno passato nel bel mondo, fu eletto membro del parlamento pel borgo di ***. Si pretende che l'onorevole baronetto deva condurre in isposa una sua cugina, la bella e ricca erede di lord S.... miss Elena Davison. » Il buon vecchiotto continuò a leggere; nè a lui, nè al dottore (il quale però conservava ancora, come reliquie, certe tre quadruple di Spagna lasciategli in dono dal giovine inglese), nè al curato, nè allo speziale, cadde in pensiero che quell'onorevole baronetto fosse appunto il bel forestiero da tutti loro già conosciuto. Non vi fu che il deputato politico, il signor Mauro, se pur vi ricordate di lui, il quale susurrò a mezza voce: « Quel nome non m' è nuovo.... Ma via, a noi cos' importa?... » Bisogna dire, peraltro, che di Maria non si dimenticarono. Il signor Gaspero raccontò più d'una volta la storia della povera fanciulla; e n' era sempre commosso, e conchiudeva seriamente: « Il mondo è una scala, e ciascuno deve starsene al suo scalino. La Provvidenza non ha creato per niente i signori e i poveri diavoli. Dunque rimani contento nella condizione in che essa t' ha collocato, nè voler sollevarti da quella per non perdere pace, libertà e salute.... » Ma, dopo un momento, scrollava il capo, e con un sogghigno di compiacenza, soggiungeva: « Questo è vero! Eppure io sono la prova del contrario. Se fossi sempre stato quel baggeo ch'io m' era da fanciullo, la mia fortuna a quest'ora sarebbe di menar la barca fino a Domaso e di pescare agoni laggiù sotto la riva; ma perchè, in que' bei tempi, non me ne stetti con le mani nel giubbone, da povero merciajuolo son diventato quello che sono, ho veduto quel che so io; almeno ho casa e tetto, e posso fare e disfare anch'io la mia parte; nè mi manca nulla, fuorchè la consolazione d' un' anima bella, come fu Angiola Maria. Ma! un' altra come lei non la troverò più, campassi anche gli anni di Noè. »

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tu hai ragione, Carlo, » disse allora sua sorella. « Il Signore non abbandona mai! Lui che ci manda i travagli, ci darà sempre anche la forza di sostenerli. » « Buona Maria, tu sei un angelo. È la tua innocenza che parla: oh che tu possa essere sempre così rassegnata! Tocca a te di sostenere il coraggio di nostra madre.... E anche il mio, sai, perchè sento che ho bisogno delle tue parole; mi sforzo di parer franco, ma sono afflitto e perduto d'animo. » Poi tacevano tutti e tre, e si riguardavano alternamente di nascosto. Solo la vecchia madre, non dimentica delle sue abitudini di buona massaia, levavasi ogni tratto da sedere, per togliere dal treppiè sul quale cuocevano e apprestare a' suoi figli le due vivande da lei stessa ammannite; un piatto di luppoli conditi, e una bragiuola. Ma poi ch'ella era di nuovo seduta, non poteva star di ripetere: « Quando penso che quella buon'anima di vostro padre non ebbe la consolazione di vedervi diventar curato, o don Carlo, nè di sentirvi predicar sì bene, nè provò la gioia di seder a tavola con voi, là, a quel posto ch'è voto, e di bere insieme a voi una bottiglia di quel suo vin vecchio, l'ultimo avanzo della cantina del signor conte!.. E dire, che anche lui, il signor conte, quel re degli uomini, è morto già da tant' anni!... Oh se Dio m' avesse almeno chiamata lassù, me, prima del povero Andrea!... » « Fareste meglio a tacere, cara mamma! Voi siete una benedetta donna! Che pensieri, per carità, che pensieri vi girano in mente! Guardate adesso, col vostro dire, anche Maria non fa che mandar giù lagrime. Via, dunque, parliam d'altro. Di forestieri ne son capitati quest' anno? » « Credo di sì, » Maria rispose. « Certo, » aggiunse la madre: « un signore inglese è venuto a stare nel palazzo, e vi resterà per tutto l' anno. Pochi dì innanzi morire, Andrea aveva parlato a quel signore, e anche alle sue figliuole, che son cosi belle.... E pensare che il pover uomo, adesso, non c'è più! » « Povera mamma! è impossibile parlar d'altro! » disse Maria. « O mio Carlo, almanco tu fossi stato qui cinque giorni fa, quando è succeduta la disgrazia, e io non sapeva travare una parola da dire a nostra madre! Lo domandava io alla Madonna il coraggio, ma alla mamma non sapevo ripetere altro che: Il Signore ha volutoctosì!... E poi, dopo trattenute le lagrime un pezzo, che mi scoppiava il cuore, anch'io finiva a piangere con lei. » « Così l'avessi potuto, com'io voleva, trovarmi fra voi! O Maria, se tu sapessi che colpo fu per me il ricevere la tua lettera, che senza dirmi il pericolo di nostro padre mi fece tremare per la sua vita!... E non poter subito correre a vederlo!... Il curato era anche lui inchiodato in letto da una malattia ostinata: io non poteva, non doveva partire. Il Signore mi consegnò dell'altre anime; non m' era permesso abbandonar quelle, nemmeno per accompagnar l'anima di mio padre nel suo transito da questo mondo. In che stato io mi fossi, pensate! » « Ecco qui! e voi, don Carlo, perchè adesso mi parlate così? Forse per tenermi su allegra? » disse sua madre. « Il signor curato, quantunque si sentisse ancora male, mi stimolava a correr qui; diceva, oh ne lo rimeriti il cielo! che per lui l'andava meglio, e si sarebbe trascinato giù del letto, avrebbe in qualche modo servita la parrocchia.... Io però aspettai ; la più dura prova che soffersi fu questa! Ma c'è sempre il rimedio della provvidenza: due giorni appresso, il signor curato era sano, che l'ho creduto un miracolo. E io partii allora, e fu lui stesso che m' imprestò il suo biroccio, e mi mise le redini in mano.... Ah! speravo ancora d' arrivare in tempo. » « O Carlo, Carlo!... » lo interruppe Maria, scotendo me stamente il capo. « Non fu così! pazienza! » E il buon prete lasciava cader fra le mani la faccia. E qui nuove lagrime, invano soffocate da una parte e dall' altra, affettuose occhiate e strette di mano, come per annodare più forte que' legami d'amore che la morte aveva rallentato. Finito il piccolo desinare, che in quel dì non fu condito nè da fame nè da contentezza, ragionarono insieme de' pochi fatti loro, e di quel ben di Dio ch' era loro rimasto: consisteva tutto in un po' di terra sulla falda della montagna, e in un magro capitale di cinquemila lire, avanzo dei sudori dell'onesto castaldo, e da lui pochi anni prima messo a traffico ne' magli di ferro, là sopra di Lecco. Un altro tenue peculio di tremila lire aveva lasciato la buona defunta contessa, nel suo testamento, in dote a Maria; ma gli eredi, con certe loro scuse di passività da purgare e di attività da liquidare, non avevan pagato mai codesto piccolo legato; poi se n' erano scordati, nè l'Andrea aveva avuto cuore e fronte di cercar più nulla; perchè, diceva, quella era roba dei signori, e in giustizia a lui non avrebbe dovuto toccare. L' unico voto di don Carlo sarebbe stato che le due donne potessero lasciar il paese, e venire a stabilirsi con lui, nella sua parrocchia di Valtellina. E anch'esse lo avrebbero voluto, chè pesava loro il pensiero della futura solitudine; ma la cosa era impossibile. Bisognava vender la casa, vender la terra, fare de' grossi sacrifizi: e tutto questo per andarne a stentar la vita in un paese lontano, solitario, sepolto in grembo d' una vallata infeconda, dove non abita che uno sparso e povero popolo di mandriani e di caprai, i quali al cominciar del freddo lasciano i loro dirupi per calare al piano, nei dintorni delle città, e non tornare alle abbandonate case che allo squagliarsi delle nevi. Nel durar delle lunghe invernate, era colà il buon prete conforto e sostegno d'una grama moltitudine di vecchi, di donne, e fanciulli che rimanevano nell'alpestre villaggio; divideva con loro la scarsa rendita del suo beneficio, e tutti lo benedicevano. - Che avrebbero mai fatto sua madre e sua sorella, in quella solitudine squallida e malsana? « Sentite dunque, » disse don Carlo alle due donne. « Poichè il mio parroco me l'ha consentito, resterò qui con voi, tre o quattro settimane, finchè abbia fatto quel che c'è a fare in queste triste congiunture. Messo che avrò in ordine i nostri pochi interessi, tornerò al mio romitorio. Io per me rinuncio alla parte che mi può toccare, e voglio che quel poco che abbiamo, non è vero, mamma? serva per voi, e per te, Maria, per te, quando troverai qualche onesto partito. E in appresso, se il Signore farà ch' io possa divenir parroco in qualche paese meno triste e più vicino a voi, per esempio, qui sul lago.... allora v'aprirò la mia casa, vi aprirò le mie braccia, e dirò a tutt'e due: Venite a star con me, a consolarmi la vita. Oh allora sì, che mi parrà ancora d'esser felice! » Caterina e Maria furono commosse e persuase; guardavano con tacita tenerezza il prete, che oramai era l'unico loro angelo protettore. E il prete, levatosi e fattosi vicino alla madre, strinse tra le sue mani la destra della buona vecchia che piangeva, e la baciò con verecondo rispetto. Poi la sorella gli stese la sua; ed egli, stringendola del pari, se la pose sul cuore, con una forza d'affetto che non può dirsi. Indi a poco uscì dalla casetta.

Pagina 49

L'uccellino azzurro

213407
Maeterlink, Maurice 1 occorrenze
  • 1926
  • Felice Le Monnier, Editore
  • Firenze
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(Un vasto movimento si propaga tosto nella folla dei Bambini Azzurri, la maggior parte dei quali abbandona le macchine e i lavori ai quali stava accudendo. Molti fra i dormienti si svegliano, e tutti, con gli occhi rivolti alle porte d'opale, dirigono verso di esse i loro passi). LA LUCE (raggiungendo Tyltyl) Nascondiamoci dietro le colonne.... Non bisogna lasciarci vedere dal Tempo.. TYLTYL Di dove viene questo rumore?... UN BAMBINO È l'Aurora che si alza.... È questa l'ora in cui stanno per discendere sulla Terra i bambini che devono nascere oggi.... TYLTYL Come faranno a discendere?... Ci sono delle scale?... IL BAMBINO Ora vedrai.... Il Tempo sta per tirare il paletto.... TYLTYL Chi è il Tempo?... IL BAMBINO E un vecchio che viene a chiamare quelli che devono partire.... TYLTYL È cattivo?... IL BAMBINO No, ma è sordo a ogni preghiera.... Si ha un bel supplicarlo: egli respinge inesorabilmente tutti quelli che vorrebbero partire, se non è il loro turno.... TYLTYL Sono contenti di andar Via?... IL BAMBINO Chi restai non è contento; ma chi parte è triste.... Eccolo!... Ora apre le porte!... (Le grandi porte opaline girano lentamente sui cardini. Si ode una specie di musica lontana: sono i rumori della Terra.... Un chiarore rosso e verde penetra nella sala; e sulla soglia appare il Tempo, un vecchio alto dalla barba fluente, armato della falce e della clessidra. Si scorgono contemporaneamente i lembi estremi delle vele bianche e oro d'una galera, ancorata a una specie di riva formata dai rosei vapori dell'Aurora). IL TEMPO (sulla soglia) Sono pronti i bambini per i quali l'ora è sonata?... ALCUNI BAMBINI AZZURRI (fendendo la folla e accorrendo da ogni parte) Eccoci!... Eccoci!... Eccoci!... IL TEMPO (con voce burbera, ai bambini che sfilano dinanzi a lui per andarsene) Uno alla volta!.. Venite in troppi!... Più di quel che occorre!... Sempre così.... Mai me non mi s'inganna, lo sapete.... (Respingendo uno dei bambini). Non è ancora il tuo turno!... Torna indietro, torna domani.... E non tocca neppure a te, oggi! Rientra, e torna fra dieci anni.... Un tredicesimo pastorello?... Devono essere soltanto dodici; non ne occorrono di più; non siamo più ai tempi di Teocrito o di Virgilio.... Dei medici, ancora?... Ce n'è già troppi; se ne lamenta l'abbondanza, nel Mondo.... E dove sono gl'ingegneri?... Si desidera un uomo onesto, uno solo, da presentarsi come un fenomeno.... Dov'è dunque l'uomo onesto? Sei tu?... (Il bambino fa cenno di sì). Hai l'aria patita.... Non vivrai a lungo.... Olà, voialtri laggiù, più adagio, più adagio!... E tu, che cosa ti porti via?... Nulla?... Te ne vai a mani vuote?... Mi rincresce, ma allora di qua non si passa.... Prepara qualche cosa anche tu: un gran delitto, o, se preferisci, una bella malattia; a me è indifferente.... ma qualcosa ci vuole.... (Scorgendo un piccino che, sospinto innanzi dagli altri, resiste con tutte le sue forze). Ebbene, che cosa c'è? Lo sai che questa è la tua ora.— Si ridiede un eroe per combattere contro l'Ingiustizia; questo eroe sei tu, bisogna dunque partire. I BAMBINI AZZURRI Egli non vuoi andarsene, signore.... IL TEMPO Come?... Non vuole?... E dove crede di essere questo piccolo aborto?... Non si ammettono reclami: non abbiamo tempio da perdere.... IL PICCINO (sospinto dagli altri) No, no!... Non Voglio andar via!... Piuttosto preferisco non nascere!... Preferisco restar qui!... IL TEMPO Non si tratta di volere o non volere.... Quando l'ora è sonata bisogna Obbedire!... Su, via, avanti!... UN BAMBINO (facendosi avanti) Oh lasciatemi passare!... Prenderò io il sino posto!... Dicono che i miei genitori sono vecchi e mi aspettano da tanto tempo!... IL TEMPO Niente affatto.... L'ora è l'ora e il tempo è il tempo. A dar retta a voi, non si finirebbe più.... L'uno vuole, l'altro non vuole, è troppo presto, è troppo tardi.... (Scostando alcuni bambini che avevano invasa la soglia). Fatevi più in là, piccini.... Indietro i curiosi.... Quelli che non partono non devono guardar fuori.... Ora avete fretta di andarvene; ma giunto che sia il vostro turno, avrete paura e vi trarrete indietro.... Guardate, eccone qui quattro che tremano come foglie.... (A un bambino che sul punto di varcare la soglia torna bruscamente indietro). Ebbene, che fai? Che cosa c'è?... IL BAMBINO Ho dimenticato la scatola che contiene i due delitti che dovrò commettere.... UN ALTRO BAMBINO E io, il pentolino con dentro l'idea per illuminare le folle.... TERZO BAMBINO E io ho dimenticato l'innesto della mia pera più bella!... IL TEMPO Presto, correte a prenderli.... Non avete che seicento dodici secondi a vostra disposizione.... La galera, dell'Aurora agitai già le vele per far capire che è pronta ed aspetta.... Arriverete in ritardo e non potrete più nascere.... Su, presto, imbarcatevi!... (Afferrando un bambino che tenta di sgusciargli fra le gambe per raggiungere la riva). Ah, tu, no davvero!... È la terza volta che tenti di nascere prima che sia la tua ora.... Se ti colgo un'altra volta, bada, dovrai aspettare in eterno presso mia sorella l'Eternità: e non è una cosa divertente, lo sai.... Dunque, siamo pronti?... Siete tutti a posto?... (Passando in rivista con lo sguardo i Bambini riuniti sulla riva, o già seduti nella galera). Ne manca ancora uno.... Ha un bel nascondersi, lo scorgo tra la, folla.... Me non mi s'inganna.... Su via, tu, piccino che ti chiami l'Amante: di' addio alla tua bella.... (I due piccini che gli altri chiamano «gli Amanti», teneramente avvinti, pallidi in volto per la disperazione si avanzano verso il Tempo e s'inginocchiano ai suoi piedi). IL PRIMO BAMBINO Signor Tempo, mi lasci partire con lui!... IL SECONDO BAMBINO Signor Tempo, mi lasci restare qui con lei!... IL TEMPO impossibile!... Non ci restano più che trecentonovantaquattro secondi..... IL PRIMO BAMBINO Preferisco non nascere affatto!... IL TEMPO La scelta non sta in voi.... IL SECONDO BAMBINO (con accento supplichevole) Signor Tempo, arriverò troppo tardi!... IL PRIMO BAMBINO Quando essa scenderà sulla Terra, io non ci sarò più!... IL SECONDO BAMBINO Non lo vedrò più!... IL PRIMO BAMBINO Saremo soli, nel mondo!... IL TEMPO Questo non mi riguarda.... Andate a reclamare presso la Vita.... In quanto a me, io unisco, io divido, secondo le istruzioni che mi vengono impartite.... (Afferrando uno dei bambini). Vieni!.... IL PRIMO BAMBINO (dibattendosi) No, no, no!... Deve venire anche lei!... IL SECONDO BAMBINO (aggrappandosi alle vesti del primo) Lasciatelo qui!... Lasciatelo qui!... IL TEMPO Ma che cos'è questa storia?... Si tratta di andare a vivere, insomma: non mica a morire.... o dunque? (Trascinando con sè il primo bambino). Vieni, ti dica! IL SECONDO BAMBINO (tendendo disperatamente le braccia verso l'altro bambino) Un segno!... Dàmmi un segno!... Un segno per ritrovarti!... IL PRIMO BAMBINO Ti amerò sempre!.... IL SECONDO BAMBINO Io sarò la più triste di tutte!... Mi riconoscerai a questo segno!... (Cade a terra e rimane stesa al suolo, immobile). IL TEMPO Perchè non sperare che un giorno...? E ora, siamo pronti finalmente.... (Consultando la clessidra). Non ci restano che sessantatrè secondi.... (Ultima violenta agitazione fra i bambini che partono e quelli che rimangono. Scambio di addii precipitosi: «Addio, Pietro!... Addio, Giovanni.... - Hai preso tutto quel che ti occorre?... Annunzia laggiù il mio pensiero!... - Hai preso il nuovo carburatore ?... - Parla dei miei poponi!... - Non hai dimenticato nulla?... - Cerca di riconoscermi!... - Ti ritroverò!... - Non perder le tue idee!... - Non sporgerti troppo sullo Spazio!... Dàmmi notizie!... - Dicono che non è permesso!... Sì, sì!... In ogni modo, tenta!... - Procura di farci sapere se è bello, il Mondo! Ti verrò incontro - Io nascerò sopra un Trono!... ecc., ecc.» ). IL TEMPO (agitando le chiavi e la falce) Basta! Bastal... L'àncora è levata!... (Passano le vele della galera, e spariscono. Le grida dei bambini dentro alla galera si fanno sempre più lontane: «Terra!.. Terra!... Io la vedo!... Com'è bella!... Com'è grande!... Com'è luminosa!...». Poi, come se uscisse dal fondo dell'abisso, si ode, lontano lontano, un canto di allegrezza e di attesa). TYLTYL (alla Luce) Che cos'è?... Non son loro che cantano così.... Si direbbero altre voci.... LA LUCE Sì, è il canto delle Madri che vanno loro incontro.... (Il Tempo frattanto chiude le porte opaline. Poi si volta, getta un ultimo sguardo nella sala, e scorge a un tratto Tyltyl, Mytyl e la Luce). IL TEMPO (stupefatto e furibondo) Che cosa fate qui?... Chi siete?... Perchè non siete azzurri come gli altri?... Di dove siete entrati?... (Si avanza verso di loro minacciandoli con la falce). LA LUCE (a Tyltyl) Non rispondere!... Ho preso l'Uccellino Azzurro.... Lo tengo nascosto sotto il mio mantello.... Scappiamo.... Gira il Diamante, così perderà le nostre tracce.... (Sgusciano via da sinistra, fra le colonna del primo piano). CALA LA TELA.

C'era due volte il barone Lamberto

219523
Gianni Rodari 1 occorrenze
  • 1996
  • Edizioni EL - Einaudi Ragazzi
  • Trieste
  • paraletteratura-ragazzi
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. — Ha notato, — dice il signor Giacomini, — che il signor Anselmo non abbandona mai il suo ombrello? — Secondo me, — risponde il signor Bergamini, — lo porta anche quando fa la doccia. Infatti il signor Anselmo tiene sempre un ombrello di seta nera appeso al braccio per il manico di legno. — Brava persona, però. — Niente da dire. Quando è il turno del signor Giacomini, egli lascia la canna fissata alla finestra e prega il signor Bergamini di dare un'occhiata al galleggiante. Il signor Bergamini è un vero osservatore di pescatori: continua ad osservare anche quando il pescatore si allontana. Intanto presta orecchio alle chiacchiere delle signore Zanzi e Merlo, che sferruzzano in soggiorno. La signora Merlo è preoccupata. Essa ha un cugino che si chiama Umberto e un altro che si chiama Alberto. Quando tocca a lei il turno, quei due nomi le arrivano continuamente fin sulla punta della lingua, cento volte è già stata lí lí per fare «Um» o «Al», invece di «Lam». Dopo va via liscia, perché la seconda e la terza sillaba sono uguali nei tre nomi: Umberto, Alberto, Lamberto. Ma la prima sillaba è sempre il risultato di una lotta che si svolge, tra cervello e lingua, a velocità elettronica. Ogni volta essa deve scegliere la sillaba giusta tra «Lam», «Al» e «Um». — Finora, per fortuna, — dice, — non mi sono mai sbagliata. — Vedrà che ci prende la mano. Ma non creda, anch'io ho le mie difficoltà. Mi vengono in mente ogni sorta di parole che cominciano per «lam», come lampo, lampadina, lampione, lampreda. La prima sillaba va d'incanto. Le tentazioni vengono con la seconda. Capirà, è una questione di coscienza: sono pagata per dire Lamberto; se dicessi lampeggiatore mi sembrerebbe di rubare il salario. Ogni tanto, giú in cucina, il maggiordomo Anselmo pigia il bottone giusto e ascolta le conversazioni che si svolgono in soffitta. Gli fanno compagnia, mentre prepara il timballo di riso o le bracioline alla panna. Non lo fa per spiare, ma per imparare tante cose. È un vero studioso, lui. Il signor barone, invece, mai ascolterebbe una conversazione privata. La sua povera mamma, quand'era piccolo, gli ha insegnato che non si deve origliare. Lui ascolta solo per controllare che il lavoro venga eseguito come si deve: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... Quelle voci gli dànno una sensazione di sicurezza. È come se ci fosse sempre una sentinella a vegliare su di lui per tenere lontani i nemici. Lo sa bene che quelli lassú ripetono il suo nome solo perché sono pagati per farlo. Ma lo fanno con tanto scrupolo e qualche volta perfino con tanta grazia che il barone non può fare a meno di pensare: «Senti come mi vogliono bene».

Pagina 14

Il marito dell'amica

245070
Neera 1 occorrenze
  • 1885
  • Giuseppe Galli, Libraio-Editore
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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In quell'ammasso grandioso di pietre e di tegoli caldamente lumeggiati dal sole, l'occhio di Maria seppe discernere l'ala nera di un palazzo diroccato, sotto l'ombra di un antichissimo cipresso rimasto ritto in mezzo al succedersi di case nuove e di piantagioni moderne; come una sentinella che non abbandona il posto. Maria guardò a lungo, affascinata dalle visioni del passato, ferma sul ciglio del bastione; poi riprese il cammino con passo ancor più celere. Erano le undici, quando arrivò davanti alla casa che rinchiudeva per lei tante memorie. Nulla era cambiato; nè il portone basso e tetro, nè il cortile fasciato dalle alte muraglie coperte di muffa, nè le finestre coi balconcini panciuti di ferro battuto, a riccioloni, intaccati dalla ruggine; nulla era cambiato nell'aspetto austero, fra la prigione e il chiostro. Solamente i locatori erano cambiati e nella vasta sala dove un vecchio infermo era morto, dove una fanciulla avea pianto, cinquanta bambini convenivano tutti i giorni a fare il chiasso. La vecchia casa cadente era stata utilizzata per un asilo infantile. Quando Maria si arrestò sulla soglia del portone i fanciulli uscivano allora in corte per la ricreazione, sbrigliati, tumultuosi, chiamandosi a vicenda, rincorrendosi nello spazio angusto, sempre in pericolo di cadere; tenuti in freno da una maestrina di diciotto anni che aveva fra le mani un lavoro di uncinetto, nel taschino del grembiale un romanzo, e che pure s'affannava a gridare: Zitti dunque! Tranquilli, ubbidienti. Ora viene la signora direttrice - parole che volavano, inafferrate, al di sopra dello sciame brulicante, coperte dalle vocine stridule e dal rumore di cento piedini vivaci che battevano il lastrico. Era una allegria spontanea, un erompere di forze giovanili, di desideri nascenti, uno sgambettare senza scopo, un gridare senza dir nulla; e poi un aprirsi simultaneo di panierini ed una gaja esposizione di mele, di panetti lucidi, di chicche che dava luogo ad altro vocio, ad altri sgambettamenti e a qualche baruffa incruente. Non vi erano ombre malinconiche per quei fanciulli. Le loro risa salivano argentine nel cortile tetro, le snelle figurine mettevano degli affreschi vivi sul muraglione; i più arditi tentavano dare la scalata al cipresso. Maria fu colpita da quell'onda di vita nuova che contrastava colle sue memorie; tanto rumore dove c'era una volta tanto silenzio! tanta gioja dov'ella era stata così mesta! Chiese alla maestra il permesso di assistere ai giuochi dei bimbi e la maestra lo concesse subito, pensando che la signora potesse avere dei bimbi da mandare a scuola. Davanti a Maria si era fermata una ragazzetta vestita di celeste, colle braccia un po' nude piene di fossette, colle gambe grasse dai contorni molli e due occhi estatici, grandi, lucidi, come bagnati, occhi di persona linfatica, che fecero pensare a Maria: «Ecco una donna che non soffrirà, che non combatterà; che cederà la prima volta, e la seconda, e sempre... e la chiameranno buona. » Discorreva con un'altra che presentava il tipo opposto; alta, sottile, nervosa, aveva le vene a fior di pelle e una piccola testa di razza, intelligente e pensosa, colla bocca seria e lo sguardo fermo nella pupilla affondata; sull'abitino di una tinta fredda, la carnagione bruna e trasparente usciva senza contrasti, più bruna nelle piegature del collo e sulla nuca dove spuntavano vigorosi i capelli nerissimi. Maria guardò questa seconda bambina con un vivo interesse, quasi con una simpatia di famiglia; simpatia che crebbe e si fuse a un sentimento di compassione, nel momento che un fanciullo già grandicello, passandole accanto, la scherzò sulla sua pelle scura e sull'abito dimesso; e quel fanciullo si pavoneggiava in una tunica color verde bottiglia, con un gran collo di trine alla Richelieu, che faceva cornice alla testa di una virilità precoce e di una bellezza non comune; il suo sguardo duro e imperioso rivelava già l'abitudine della conquista; doveva essere il figlio di un ricco, adorato e viziato - un futuro tiranno. E che pericolosa civetta quella bimba di sette anni, colla faccia di donna, che si è messa nascostamente dell'ovatta nel corpetto, che ha la pelle profumata dagli aromi sottili rubati alla mamma, che cammina col petto in fuori, colle anche snodate e guarda con insistenza provocatrice il bel ragazzo della tunica verde! Un gruppo di piccini, biondi, nudi fino all'ombelico, ruzzolano nella terra del cortile e vengono ad abbattersi coi piedi, colle mani, con tutto, sull'abito di Maria, che sorride, gonfio il cuore di una tenerezza triste. Quella infanzia giuliva così ignara dei mali che la aspettano, accresce la malinconia delle sue riflessioni. Che farà di qui a venti anni il piccolo filosofo dalle brachette aperte che è ora tutto intento ad anatomizzare una formica? - non spezzerà egli allo stesso modo un povero cuore di donna? Quanto tempo ci vorrà perchè quel grazioso amorino ricciuto diventi un ipocondriaco, nemico di tutto il mondo? E gli ospedali, i manicomi, le carceri non recluteranno forse il loro contingente futuro tra quelle testoline ingenue che colla bocca rosea rosicchiano una mela? - Età beata - disse la maestra; infilando una maglia. Maria sorrise a guisa di assentimento e sollevati gli occhi guardò la finestra della gran sala, dove era trascorsa così mestamente per lei una età che si dice pure beata. Ritrovava i brandelli della sua giovinezza distrutta; li ritrovava sui cornicioni del davanzale che le aveva sorretta la persona stanca nelle languide sere di estate, quando da quel pertugio della sua prigione anelava le ebbrezze della vita e le sfioriva, nella lunga attesa, il desiderio. Li ritrovava nelle ombre grigie del cipresso, sul balcone dove ella spiava i passi di Emanuele, nel mistero della scaletta buia dove per la prima volta egli l'aveva baciata, nello sfondo cupo dell'alcova dove era risuonato quel fatale: non posso. E riportando lo sguardo sullo sciame vivace, no, no, ella pensava, nessuno di voi proverà quello che io ho provato. Non tu, paffuta biondina che sarai madre di famiglia tranquilla e soddisfatta; non tu bimba linfatica dagli occhi lucidi, che prenderai sempre nel mondo tutto quello che trovi, lasciando i sogni ai poeti; nè tu, piccola civetta, che darai i tuoi sorrisi a tutti ed a nessuno il cuore. Forse - ella guardava ora la fanciulletta bruna della testina intelligente - tu forse! Le si avvicinò , abbracciandola stretta stretta: Oh se io fossi tua madre! La civettina, tenendo per mano il bel ragazzo dal collo alla Richelieu, propose il giuoco dell'ambasciatore. Sei bambini da una parte, sei bambini dall'altra. Avanti i primi: «È arrivato l'ambasciatore. «Tam tirum, lirum, lera... - È un giuoco stupido - disse la brunetta. - Quando si fa la sposa no - rispose la bimba linfatica. - Io non la faccio mai la sposa. La civettina si avanzò trionfante, perchè l'ambasciatore era venuto a prenderla «vestita di raso bianco» con centomila lire di dote. - Che miseria! - esclamò il bel ragazzo - almeno cento milioni ! - Cento milioni è più che centomila lire? - domandò uno dei piccini. Ma nessuno gli rispose. La campana della scuola avvertì che l'ora della ricreazione era trascorsa. La maestra si levò in piedi dignitosamente e i fanciulli tornarono ad aggrupparsi, spingendosi verso l'uscio, gridando con un rinforzo di acuti, quasi per esaurire nell'ultimo momento di libertà le forze ginnastiche dei loro polmoni. Che noia! - mormorò la civettina dal busto imbottito, scuotendo le gonnelline. Il bel ragazzo dalla tunica verde, sfogò il suo malcontento con un gesto di sfida, dietro le spalle della maestra. Qualcuno era rassegnato, e tra questi la fanciulletta intelligente. I piccini non capivano nulla, continuando a trastullarsi in mezzo alla terra, finché fossero venuti a levarli di peso. In breve il cortile restò deserto, sparso di buccie di mele, di briciole di pane, di pezzi di carta e di qualche pezzuola dimenticata; nell'angolo dei piccini, sotto il cipresso, c'era una scarpetta, larga come un guscio di noce, piena di sabbia. Maria si fermò un istante ancora, assaporando l'amarezza delle sue memorie. Era invasa da quel pensiero mesto fra tutti, della indistruttibilità del passato. Si domandava perché mai la vita è divisa sì crudelmente in parti che non attaccano l'una all'altra? Perché si passano dieci, vent'anni, in un dato ambiente, con persone e con affetti che sembrano eterni, e poi tutto cambia; per altri dieci, per altri vent'anni, per sempre, nuove persone, affetti nuovi, più nulla di quello che è stato, nulla, tranne il rimpianto pungente nei cuori che non sanno dimenticare? E se tutto cambia, se tutto muore, perché solo non muore il triste dono della memoria? Comprese alla fine che era necessario partire: e lo fece con rincrescimento, a brevi e lenti passi, mormorando fra sè: Addio, addio: come si staccasse da persona viva. Le vocine dei bimbi, in alto, sotto la volta cupa del salotto ripetevano in coro: Ba - Bo - Bu.

Pagina 77

Il ritorno del figlio. La bambina rubata.

245505
Grazia Deledda 2 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Verismo
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Pagina 194

Può essere brutto e vecchio quanto volete, questo corpo; la sua anima non lo abbandona volentieri! Questa ragione non mi impediva di serbare astio alla zia e alla sua casa. Eppure questa parve cominciare ad esercitare un triste fascino anche su di me. Nei tempi dopo il ritorno dal "Platano,, , non uscivo mai: tutto al più continuavo ad andare a fare qualche spesa, per conto della zia, in una drogheria all'angolo della strada, dove questa s'incrocia con un'altra più larga tutta bianca di sole e di polvere con gli sfondi perduti uno nell'azzurro dei monti l'altro nell'azzurro del mare. Rientravo a casa stordito da quell'attimo di luce, di calore; e mi sembrava di rientrare in una grotta, tanto la nostra abitazione era diaccia e ombrosa. Solo nel cortiletto cadeva il sole, a picco, ma spariva presto, lasciandovi un tepore chiuso, fermo: i muri rivestiti di verde odoravano di musco, e a questo profumo un po' triste e voluttuoso si mischiava l'odore bestiale dei conigli. Io me ne stavo là, seduto su una cassa rovesciata, e pensavo continuamente alla mia avventura. A volte chiudevo gli occhi e mi pareva di essere ancora nella vigna in fiore: un misterioso senso di attesa mi si risvegliava nel cuore e lagrime di tenerezza mi bagnavano gli occhi. No, tutto non poteva essere finito così. Allora riaprivo gli occhi e prendevo il taccuino per scrivere ancora a Fiora; ma non potevo: non potevo più neppure scrivere il suo nome. Mi pareva di essere diventato muto anche dentro di me: non potevo esprimere la mia angoscia, la mia stessa impotenza. Eppure aspettavo sempre; non sapevo che cosa, ma aspettavo. E io che avevo commesso il delitto avevo l'impressione di subire un'ingiustizia, perchè mi si negava il diritto, il modo di ripararlo, o almeno d'espiarlo con un castigo qualsiasi. Solo per amore di Fiora ed anche per quel senso di attesa che mi faceva sperare mio malgrado, non andavo a denunziarmi. Ma a giorni si ridestava in me una sensualità feroce: mi pareva di aver diritto alla donna ch'era stata mia, che doveva essere ancora solamente mia. Era come se fossi stato io il violentato e pretendevo una riparazione. Ma tutte queste tempeste si sbattevano entro di me, inutilmente, come in un vulcano chiuso: fuori dovevo sembrare un po' idiota, e nessuno si curava di me, neppure la zia, che pensava solo al mio benessere materiale come a quello delle sue bestie. Eppure bastava che una foglia, un fiore, una piuma calda di sole cadessero dal muro, davanti a me, per commuovermi: li prendevo fra le dita, li esaminavo, ne sentivo l'odore, il colore: le bestie, no, non le toccavo e non le amavo; ma quelle piccole cose mute e vagabonde mi piacevano; si rassomigliavano a me: e odoravo a lungo i fiori, fino ad appassirli, e li baciavo pensando a Fiora. Una cosa sola mi aiutava a vivere, fra tanta desolata solitudine: il sonno. Dormivo a lungo: e mi abbandonavo al sonno come ad un vizio, non perchè mi portasse l'oblio, ma perchè mi gettava in una esistenza fantastica che si univa in qualche modo alla mia avventura. Nell'addormentarmi mi pareva di essere ancora davanti ai portoni chiusi della casa colonica: li toccavo uno dopo l'altro, poi andavo a mettermi sotto la finestra di Fiora. Inciampavo e mi svegliavo di soprassalto. Ma poi mi riaddormentavo e sognavo. Invariabilmente, i sogni mescolavano la mia vita nell'Istituto con la mia avventura. Mi ritrovavo nel giardino della villa coi compagni: andavo in cerca dell'istitutore e lo trovavo con Fiora: ma questa mi sorrideva, di sopra la spalla di lui, e bastava tanto per farmi svegliare tutto in sudore e singhiozzante. Quell'angoscia notturna era la mia salvezza; poichè mi costringeva a piangere e nel pianto si scioglieva il mio dolore.

Pagina 84

In Toscana e in Sicilia

245754
Giselda Fojanesi Rapisardi 1 occorrenze
  • 1914
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
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- Iddio è misericordioso, non abbandona le sue creature, e non abbandonerà nè anche me, quantunque sia una peccatrice indegna. Dava queste risposte calma, senza guardarlo in faccia, con accento umile e fermo al tempo istesso, già trasformata, inaridita, staccata dalla vita e dal mondo. Anche nella persona il cambiamento principiava ad essere evidente: il bel colorito roseo, sano, di prima, era scomparso e un pallore unito, senza sfumature, dal tono dell'avorio antico, si stendeva su quel visetto un tempo fresco, aperto, gioviale, che sembrava ora come velato e invecchiato precocemente dalla tiratura che era agli angoli della bocca, dalla mancanza di ogni vivacità, negli occhi, che sfuggivano sempre d'incontrarsi in quelli di chi parlava con lei, e dalla perduta rotondità nel contorno quasi infantile del volto e delle forme giovanili. La voce pure aveva attenuato il suono argentino che Roberto rammentava così bene, e che incominciava a divenir monotono, con dei suoni nasali; il gesto, una volta pronto e vivacissimo, si era fatto sobrio e lento; le mani rimanevano spesso incrociate alla cintura, o nascoste dentro le maniche del vestito, nella posa consueta alle monache, che cercano di sottrarsi più che possono all'osservazione altrui. Roberto Catalani non poteva credere agli occhi suoi: tutto quel profumo agreste di gioventù florida, spensierata, che gli era piaciuto tanto in lei, era scomparso, e ritrovava, dopo pochi mesi soltanto, un essere avvizzito di corpo e di spirito, su cui era passato un soffio distruggitore che ne aveva disseccata la vita nel suo pieno rigoglio. Dinanzi a quella rovina di cui Roberto Catalani scorgeva ora i segni palesi, si sentì prendere da una tristezza profonda, accresciuta da una punta di rimorso: non avrebbe dovuto lasciarla; egli era responsabile di tutto.... Bisognava condur via subito lei e la bambina.... risolver poi.... Oh! come si pentiva del suo egoismo, della sua leggerezza... Ma chi poteva supporre una cosa simile? Ebbene, l'avrebbe condotta via ora, per forza, giacchè non poteva per amore. Finalmente, era la madre della sua bambina ed aveva l'obbligo di seguirlo: era così giovane, così semplice, che tolta di lì si sarebbe rifatta in breve, d'anima e di corpo, ed ei l'avrebbe riavuta come prima, bella, giovane, sana, allegra e fiduciosa. Tutto ciò passò come un lampo dinanzi al pensiero di lui. Sì, non c'era altro mezzo e non, bisognava lasciarsi vincere dalle resistenze di Maria. Glielo disse chiaramente, bruscamente, passando all'improvviso dalle parole buone, dolci, persuasive, alle frasi dure, tronche imperiose. Essa parve spaventarsi un momento, smarrirsi; ma si riebbe presto e gli disse con voce ferma, che non aveva paura di lui, che, grazie al cielo, egli non aveva nessun diritto su lei e non poteva obbligarla a far cosa che ripugnava alla sua coscienza di fare. - Come t'hanno ammaestrata! Si vede che han pensato a tutto, e tu, povera grulla, ti sei prestata ai loro infernali raggiri..... Ma te ne pentirai e più amaramente di quello che tu ti sia pentita d'avermi voluto bene, d'aver ceduto al tuo amore per me, e non sarai più in tempo; non potrai più tornare indietro. Maria, al ricordo del suo fallo, aveva abbassata la testa e chiusi gli occhi, come inorridita, e alla profezia del suo nuovo pentimento, avea fatto un segno energico di negazione, come se avesse sentito dire un'eresia. Roberto Catalani, ormai stanco e disgustato, uscì dalla povera stanza nella quale aveva pur passate tante belle ore, quando la Maria, rimasta sola in casa, dopo che il babbo e i fratelli erano andati a lavorare, lo avvertiva che poteva entrare da lei, e andò fuori, sull'aia, come per respirare e riaversi del suo sbalordimento. Il vecchio e i due giovanotti, seduti sur una panca all'ombra di un pagliaio, capirono dal viso di lui, come fosse andata la cosa: - Fiato sprecato eh? Me l'immaginavo - disse Sandro. - E se si provasse a adoperare un pò di sugo di bosco, chi sa che non fosse il modo di farle capir ragione - aggiunse l'altro fratello. - Mah! io ho fatto di tutto.... e non so più che dire..... Il Catalani, non sentendosi nè la forza, nè la voglia di discutere con loro che disprezzava, si avviò verso il vicino paesello, con l'idea di ritornare la sera per fare un ultimo tentativo. Camminava come un sonnambulo senza vedere, senza sentire.... con una gran confusione in testa, un gran vuoto nell'anima.... A un tratto si scosse e provò il bisogno irresistibile di rivedere la sua bambina. Andò dalla donna che l'allattava e la trovò con la piccina attaccata al petto. Questa, veduto il nuovo arrivato, sospese di poppare: spalancò gli occhietti guardandolo, rise alzando i piedini e battendo le manucce, come se avesse capito chi era.... Roberto Catalani si sentì inondato da una grande tenerezza: la bimba era bella, sana, tenuta bene, ed era sua... tutta sua, dappoichè la mamma l'aveva rigettata, con una crudeltà indegna perfino di una belva. Era possibile che una madre, dopo averla baciata, rinunziasse ad una creaturina simile? Fosse stata malaticcia, stentina, brutta..... ma così rosea, così forte e graziosa, proprio il frutto rigoglioso di due esseri belli e sani che si amano con tutto lo slancio, tutta la vitalità naturale dei migliori anni giovanili! Vi era da andarne orgogliosi, da tenersela come un tesoro benedetto, da coprirla continuamente di baci e di carezze. Allora Roberto Catalani pensò che rivedendo la bambina insieme con lui, la Maria non avrebbe saputo resistere, si sarebbe commossa e data per vinta. Pregò quindi la balia di prendere in collo la piccola Ghita e di seguirlo: ancora una volta il bel fiore della speranza tornava ad aprirsi nel cuore di lui; ancora una volta sorgevano delle illusioni ad illuminargli l'anima. Giunse alla casetta in fondo al villaggio, con la scala ripida di fuori, sull'aia, che incominciava ad annottare. In cucina era stato acceso un lume, se ne vedeva il chiarore fioco riflettarsi in una striscia chiara sul palchetto, dall'uscio aperto. Roberto Catalani entrò in casa e vide il vecchio che si accingeva ad accendere il fuoco, chino sul focolare basso e largo, ove era appeso il paiuolo. - Chiamatemi la Maria, fatemi il piacere - gli disse Roberto Catalani. Quegli si voltò accigliato e borbottò: - La Maria? O dov'è la Maria? chi l'ha più vista? Ha preso il volo - e stendendo il braccio, accennò con la mano che se n'era andata. La donna con la bambina in collo, era rimasta ritta, nel vano dell'uscio illuminato. Il vecchio le dette un'occhiataccia e soggiunse : - Sì, ora che è entrata là dentro, mettetegli il sale sulla coda: chi l'ha vista, l'ha vista; quelle mura agguantano, ma non rendono; era tanto che lo diceva, stasera poi s'è decisa... Per me, non ci metto nè sale nè pepe: guà, chi si contenta gode... Roberto era rimasto sbalordito: questa poi non se l'aspettava... La sua comparsa aveva dunque affrettata la risoluzione della Maria di chiudersi in convento! - E voi l'avete lasciata andare? Perchè non glielo avete impedito? Non siete suo padre? - Io? la ragazza ha l'età della discrezione, ognuno può far di sua pasta gnocchi. Che forse mi veniste a chiedere il permesso, quando metteste insieme quel negozio là? - e accennò la bimba col dito pollice, senza voltarsi a guardarla, sempre curvo sul focolare; poi riprese: - Ora invece pare che abbia mutato idea e si voglia far monaca: buon prò gli faccia; vuol dire che l'abbadessa, se la prende, ha buono stomaco. Il su' fratello maggiore ci s'è arrabbiato, è andato su tutte le furie, il grullo... Come se non fusse una bocca di meno a mangiare... tanto per quel che faceva in casa, da un pezzo in qua..... Roberto Catalani fremeva; capì che non aveva più nulla da fare in quella casa, e se ne andò con un saluto asciutto asciutto. Dopo pochi giorni il giovane pittore riappariva in città, in mezzo ai suoi amici, triste e taciturno. Quelli lo credevano già pentito del passo inconsiderato che stava per fare; nessuno osava perciò di interrogarlo e dirgli qualcosa su tale argomento. Ma il Catalani, natura franca e espansiva, non potè frenarsi a lungo e scoppiò a dire: - Non sapete, eh? non sapete che son tornato con le pive nel sacco? Non m'ha voluto sposare... siete meravigliati, eh? Vi pare impossibile... i preti, cari miei, le monache le han messo per la testa tanti scrupoli, che l'han persuasa a rinunziare a me, e, quello che è peggio, che è mostruoso addirittura, alla sua figliolina..... L'han fatta entrare in convento..... tutto è stato inutile, tutto: preghiere, minacce, ragionamenti, tutto... Non m'ha neppure guardato in viso, capite? Me l'hanno ammazzata... se vedeste... era un fiore... e la mia bambina, la mia povera bambina non avrà mai la madre..... A quest'ultimo grido, il nodo che gli stringeva la gola si sciolse e potè finalmente dar libero sfogo al suo dolore, piangendo a calde lagrime.

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Nel sogno

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Matilde Serao 1 occorrenze

L'uomo che passa accanto a voi nella via, e che trascorre, quasi senza vedervi, porta in sè un sogno che vi è ignoto: la pallida donna che solleva la portiera pesante di una chiesa e s' inginocchia innanzi alla immagine di Maria, porta in sè un sogno di dolore, forse, e forse di pentimento: il gentiluomo che s'inchina, cortese, squisito, innanzi a una donna e pare ga- tante e spensierato, sogna, forse, un sogno di gelosia e di furore: la dama che si covre di brillanti e appare fulgida nella festa dove trionfa il piacere, nasconde forse nell'anima un sogno di pace, di solitudine, di silenzio, inaccessibile: il banchiere gajo e vittorioso che vi stringe la mano sorridendo e sparisce, sogna, forse, il distacco da questo vecchio povero mondo europeo dove niuno fa più fortuna, dove tutti impoveriscono: la fanciulla che tace e pensa, quando intorno a lei si narrano i fasti dalle grandi nozze, sogna, forse e senza forse, l'altare che la vedrà inginocchiata nella candida veste, mentre ella quasi si curva sulla visione, per scorgere il viso del misterioso sposo che non le è apparso ancora: la donna che legge, nelle pagine di un romanzo, nelle cronache di un giornale, l'urto terribile o truce della passione amorosa, abbandona il libro, il foglio sulle ginocchia e sogna quello che non le fu, che non le sarà mai concesso, vivere e perire per un amore. Oh potenza evocatrice del sogno, in chi sa sognare! Basta aprire un cassetto già chiuso da anni e guardare l'indirizzo di una lettera, per rivedere, sì, per rivedere come se fossero vivi, i cari occhi materni che mai seppero guardarvi senza dolcezza: basta contemplare un fascio di fiori campestri, per sognare il grande silenzio delle vaste distese solinghe, sotto il cielo stellato, nelle notti di estate: basta odorare un noto profumo per vedersi apparire innanzi un volto sfiorito dal dolore che già, da molti anni, sparve dal mondo e le cui treccie nere odoravano di quel profumo: basta udire il fischio di un treno che passa, per creare il sogno di una fuga: fuga interminabile, chi sa dove, chi sa quando, in un paese che non si è mai visto, che esiste, forse, solo nel sogno: basta il verso nostalgico e disperato di un poeta per creare un sogno di dolore e di disperazione. Potenza creatrice del sogno! Forme, linee, espressioni mai scorte, che non si scorgeranno mai: voci, parole, musiche che le nostre orecchie di carne non udranno mai: emozioni, voluttà, ebbrezze che le nostre fibre terrene non saprebbero sopportare: alte felicità e alte sciagure più grandi di ogni avvenimento estremo: improvvise ricchezze, improvvisi trionfi, improvvise glorie che non ci saranno mai date: tutta un'altra vita e mille vite, insieme ardenti, vibranti, tumultuanti, conducenti all'apogeo di ogni sensazione e di ogni sentimento. O fortunati coloro in cui il sogno tanto opera! Il sogno distende fra il sognatore e la vita come un velarlo, come una nuvola e il fortunato essere si avanza in questa specie di custodia immateriale, in quest'atmosfera spirituale isolante; e fra i veli del suo sogno, fra la bianca nuvola che Io avvolge, nella solitudine che lo assorbe, il fortunato può abbandonarsi alla sua profonda e cara visione, può come Issione struggersi di amore, di dolore, di folle ardore, senza che nulla di quanto esiste, nella verità, lo strappi al suo sentimentale delirio! Assai, assai più invidiabili coloro in cui, quale leva magnetica, il sogno diventa operoso. Può, spesso, la società positiva non saper risparmiare a questi sognatori il suo disprezzo; ma nella intimità del suo spirito, la società positiva invidia loro questa forza capace di sollevare le montagne, ma la vita e la morte di questi sognatori operosi finisce per istrappare un lungo grido di rimpianto e di ammirazione persino in coloro che li derisero. Che importa poi ai sognatori operosi la derisione, sogghigno, la beffarda incredulità? Coloro cui fu data questa suprema risorsa dell'intelligenza e del sentimento, coloro che portano in sè questo divino segreto, sono coverti di uno scudo fatato, scintillante, simile a quello su cui si spezzò la lancia di Telramondo senza giungere al petto di Lohengrin. Ogni anno, centinaja di deboli donne, soggette a tutte le fralezze del sesso, entrano negli ordini religiosi militanti e partono per le scuole, per gli ospedali, pei campi di battaglia, per le missioni nei paesi più inospiti e più selvaggi : e prese dal loro sogno di fede e di carità, esse combattono, decimate dalle malattie, dalle fatiche, dai climi perversi, dagli uomini perversi, e dove dieci sono cadute, venti, cento ne arrivano, e questa catena di nobilissime sognatrici giammai s'infrange, continuamente si prolunga. Ogni anno centinaja di giovani, di uomini maturi, di vecchi, entrano nei gabinetti della scienza e si curvano a interrogare tutti i misteri della natura e della vita, e impallidiscono sopra il microscopio, e perdono i loro occhi, la loro salute, semplicemente per portare un piccolo contributo alla verità; e spesso intiere esistenze si consumano, così, ignorate; e, spesso, i loro sforzi nulla raggiungono; e spesso la lotta è così inane, così acre, così tormentosa che essa li uccide, in pieno sogno di passione scientifica. Ma dove tanti perirono, altri, altri portanti nella mente questa visione fulgida, vengono ancora, lottatori accaniti, lottatori indomati, sino a che, un giorno glorioso, il sogno di tutti loro sia compiuto da un solo e la umanità possa dire di aver vinto, ancora una volta, il morbo e la morte. Ogni anno, ogni anno, in cento anime si svolge il sogno di viaggi in regioni non ancora percorse da piede d'uomo civilizzato: il grande sogno nordico, fra le nevi eterne del polo, fra le immortali bianchezze dove i giorni senza sole succedono alle albe livide e muojono ne le candide notti spettrali; e il sogno dell'Africa, sotto quella Croce del Sud che tanti occhi ansiosi interrogarono nelle notti di marcia, e che parve loro la mistica stella che condusse i Re nella peregrinazione verso Soria, questi due sogni immensi e profondi, affascinanti e travolgenti, tolgono alle ricchezze, agli agi, alla patria, alle famiglie cuori ed anime di sognatori sublimi. Invano essi languiscono di sonno, di fame, di malattia, fra i ghiacci che fanno scricchiolare la nave prigioniera: invano dieci, dodici muojono colà nel settentrionale estremo vedovo sito di silenzio e di gelo. Altri vi saranno che andranno, vinti dal sogno, a immolarsi, a cadere. Invano, la terra d'Africa si copre dei più nobili cadaveri di soldati, di marinai, di scienziati, di scrittori, di principi, di avventurosi: invano, ogni giorno, è la notizia di una nuova tragedia. Altri ancora, dalla Francia, dalla Germania, dall' Inghilterra, dalla stessa degenerata ed abbrutita Italia vi vanno, vi andranno ancora, poichè questo sublime sogno pare riceva un alimento prodigioso e misterioso dal sacrifizio, dal sangue, dalla morte. Infuria dappertutto la collera delle classi meno felici, meno fortunate contro coloro che tengono nelle mani tutti i poteri della Terra; ma dovunque sono donne di cuore, dovunque sono anime gentili muliebri, piccole e grandi associazioni di carità si formano, e ogni miseria morale, ogni infelicità fisica trova la mano che soccorre e che carezza, il sorriso che consola e che assolve, il ricovero che custodisce il sonno e l'innocenza, la protezione che sorveglia e che redime. Immensi dolori agitano il mondo: ma il sogno di carità che affratella le donne di ogni paese e di ogni condizione, ha tale soffio ardente e vivificante che esse sole, esse, le donne, le oscure e grandi anime sognanti, portano nel cuore il segreto che risolve il dolore umano! E il letto di morte dove posa la sua testa stanca, l'uomo che visse e andò verso la tomba per un sogno di fede, di bontà, di gloria, di grandezza, è pieno di pace finale per l'agonizzante. La monaca che muore uccisa dal tifo, il missionario che finisce, ferito dalla zagaglia barbara, lo scienziato che é avvelenato dai farmachi che maneggia,l'inventore che è stritolato dalla sua macchina, il viaggiatore che cade di freddo sulla tolda della nave confitta nella banchina di ghiaccio, l'esploratore che è ucciso dalle febbri o dalla lancia di un selvaggio, la dama che muore di una malattia presa nelle sue opere di carità, muojono in pieno sogno senza destarsi dalla loro nobile visione e dànno la loro vita senza rammarico, rassegnatamente, serenamente, sentendo di aver vissuto per qualche cosa di grande, sentendo di aver vissuto per qualche cosa di nobile. Oh, tu sei morto, Antonio Cecchi, dilettissimo amico, sulla terra di Africa dove vedesti cadere tanti altri, sognanti come te una gloria di civiltà e di redenzione: noi ti abbiamo perduto e non ci resta che abbracciare le tue ceneri fredde, quando arriveranno alla nostra marina, d'onde, anima tenera e gagliarda, tante volte ti salutammo partente. Tu sei morto, amico impareggiabile, impareggiabile cittadino, come Giuseppe Chiarini, come il nostro Licata, come Gustavo Bianchi, come Eugenio Ruspoli, come Vittorio Bòttego, morti, morti tutti, sognatori tutti, ma sognatori grandi, ma sognatori ammirabili, ma sognatori sublimi, morti sulla terra che vi ha sedotti, morti sul campo delle vostre visioni, morti in pieno sogno di eroismo. E voi siete perite, o dame del Bazar di Carità! Belle, ricche, nobili signore: gentili, leggiadre, briose signorine: monache delle case ospitaliere, il fuoco ha distrutto le vostre vite care alla fortuna, care alle vostre famiglie, care alla religione; siete morte mentre compivate un sogno di carità largo, vastissimo, tale da diffondere il bene nel cerchio più ampio e più oscuro delle tristezze umane. Più di cento donne sono morte a Parigi, facendo il bene, morte alcune senza voler fuggire, eroiche sino all'ultimo minuto della loro vita, trascinate dall'eroismo più sublime, dalla sognante passione della carità. Una di esse, mentre già le fiamme la investivano, ha abbracciato una monaca e le ha detto: Sorella mia, ora andiamo insieme in Paradiso. È vero. Deve esser vero. Dio ha fatto il Paradiso per chi muore, sognando così.

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